Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

 

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

 

 INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

 

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

 

 

 

WEB TV: TELE WEB ITALIA

 

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

PARLIAMO

DI ALDO MORO

 

 

di antonio giangrande

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

Da Cinquantamila.corriere.it

 

Da Corriereobjects.it

 

Da Wikimedia.org

Da Rai.tv

Da Il SecoloXIX.it

Da Rai.tv

Da Giornalettismo.com

Da Blitzquotidiano.it

Da i.res.24o.it

L’AFFAIRE MORO.

QUELLO CHE SI DICE E QUELLO CHE SI TACE.

 

LA MAFIA TI UCCIDE, TI AFFAMA, TI CONDANNA

IL POTERE TI INTIMA: SUBISCI E TACI

LE MAFIE TI ROVINANO LA VITA.

QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA

UNA VITA DI RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO

 

 

 

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato.

 

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

Di Antonio Giangrande

 

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

 

Ogni tema trattato sinteticamente in quest'opera è oggetto di approfondimento analitico in un saggio dedicato.

 

 

SOMMARIO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

INTRODUZIONE.

LE STORIE DEI 5 UOMINI UCCISI DALLE BRIGATE ROSSE.

IL MEMORIALE DI MORO.

1978 L’ANNO DEI TRE PAPI.

ALTRO CHE CONTRO IL COMPROMESSO STORICO. CI VOLEVANO DEINDUSTRIALIZZARE.

ALTRO CHE CONTRO IL COMPROMESSO STORICO. CI VOLEVANO SOVIETIZZARE. IL TERRORISMO COMUNISTA-ISLAMISTA.

QUELL'ESKIMO IN REDAZIONE.

I 55 GIORNI DI MORO CHE CAMBIARONO LA STORIA D’ITALIA.

LA LETTERA CHE UCCISE MORO.

QUELLO CHE TORNA...

TUTTO QUELLO CHE NON TORNA.

QUELLO CHE NON DICONO.

ALBERTO FRANCESCHINI E LA VERITA' ACCETTABILE.

LA VERITA’ DICIBILE.

IL SEGRETO…

ALDO MORO ED I SALTIMBANCHI DELLA DIETROLOGIA.

CONTINUIAMO A RICORDARE (CIO’ CHE SI CERCA DI SCORDARE).

DOPO ALDO MORO. IN QUESTO MONDO DI LADRI.

PRIMA DI ALDO MORO. "PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

ALDO MORO. PALADINO DELLE MASSE.

COMMISSIONE MORO: SULLA VICENDA OPACITA' ED OMISSIONI.

ALDO MORO ED IL SIGNORAGGIO BANCARIO.

16 MARZO 1978. QUEL GIORNO DA CANI.

ALDO MORO....

IL CASO MORO.

ALDO MORO, LA GENUINITA’ DELLE LETTERE E LA TRATTATIVA.

LETTERE DI MORO DALLA "PRIGIONE DEL POPOLO".

ALDO MORO E LO SPARTITISMO.

L’ITALIA DELLE TRATTATIVE.

UN COMPROMESSO NON STORICO.

ALDO MORO. LA STORIA VA RISCRITTA.

COME MORI' MORO?

CHI VOLLE LA MORTE DI MORO?

SEQUESTRO MORO TRA MONTANELLI E SCIASCIA.

SEQUESTRO MORO: I SEGRETI.

SEQUESTRO MORO: LE COMMISSIONI D’INCHIESTA.

RILETTURA CRITICA DELLA STORIA DELLE BRIGATE ROSSE E DEL RAPIMENTO DI ALDO MORO.

BRIGATE ROSSE E RISCRIZIONE DELLA STORIA: LE VERITA' NEGATE.

MAI DIRE DEPISTAGGIO…

RAPIMENTO DI ALDO MORO. LA POLIZIA SAPEVA E NULLA HA FATTO.

ALDO MORO ED IL COMPLOTTISMO.

ALDO MORO TRA BUFALE E DEPISTAGGI.

IL COMPLOTTO INTERNAZIONALE.

SEQUESTRO MORO: LA PISTA DELLA ‘NDRANGHETA.

IL SEQUESTRO MORO E LA CAMORRA.

IL SEQUESTRO MORO E COSA NOSTRA.

IL SEQUESTRO MORO E LA MASSONERIA.

IL SEQUESTRO MORO ED I SERVIZI SEGRETI ITALIANI.

IL SEQUESTRO MORO E GLI STATI UNITI.

IL SEQUESTRO MORO E L’UNIONE SOVIETICA.

PARLA ELEONORA CHIAVARELLI IN MORO.

PARLA AGNESE MORO.

PARLA GIOVANNI MORO.

PARLA MARIA FIDA MORO.

ALDO MORO: FU VERA GLORIA?

LA GIUSTIZIA RIPARATIVA PER UNA MEMORIA CONDIVISA.

APUZZO E FALCETTA: STRAGE DI ALCAMO: NON FU GLADIO (NEMMENO GULOTTA).

GLI SCHELETRI DELLA DC.

FRANCESCO COSSIGA.

FILMOGRAFIA SUL CASO MORO. PIAZZA DELLE CINQUE LUNE: STORIA O FINZIONE?

 

 

 

 

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

 c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

 ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori. 

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!      

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande

Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,

non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.

Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,

però potevo nascere in Africa od in Albania.

Siamo italiani, della provincia tarantina,

siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.

Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,

quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.

Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,

i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.

Le donne e gli uomini sono belli o carini,

ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.

 

Abbiamo il castello e pure il Torrione,

come abbiamo la Giostra del Rione,

per far capire che abbiamo origini lontane,

non come i barbari delle terre padane.

 

Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,

le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.

 

Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,

il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.

Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,

di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.

Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,

per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.

Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,

per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.

Però qua votano se tu dai,

e non perché se tu sai.

 

Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,

ma qua pure i marescialli si sentono generale.

 

Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,

se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.

Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,

questi sanno più della laurea che hai.

Su ogni argomento è sempre negazione,

tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.

Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,

per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.

Se i diamanti ai porci vorresti dare,

quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.

 

Abbiamo la piazza con il giardinetto,

dove si parla di politica nera, bianca e rossa.

Abbiamo la piazza con l’orologio erto,

dove si parla di calcio, per spararla grossa.

Abbiamo la piazza della via per mare,

dove i giornalisti ci stanno a denigrare.

 

Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,

e dove rimettiamo tutti i peccati.

Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,

da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.

 

Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,

come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.

Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,

se ci ricordiamo di loro solo per la festa.

Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,

come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.

 

Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,

li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.

 

Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,

mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.

 

Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,

abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.

 

Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,

i padroni pagano poco, ma basta per campare.

 

Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,

con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.

I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,

mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??

Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,

sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.

 

Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,

lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.

Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,

e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.

 

Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,

ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.

Anche se qua si sentono alti pure i nani,

che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.

Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,

a chi mi vuole male, neanche li penso,

pure che loro mi assalgono,

io guardo avanti e li incenso.

Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,

sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.

Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,

anche se i miei paesani non hanno sapore.

Il denaro, il divertimento e la panza,

per loro la mente non ha usanza.

Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,

per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.

Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,

Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.

Se non lasci opere che restano,

tutti di te si scordano.

Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,

il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande

Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,

no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.

Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,

però putia nasciri puru in africa o in Albania.

Simu italiani, ti la provincia tarantina,

simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.

Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,

quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.

Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,

Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.

Li femmini e li masculi so belli o carini,

ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.

 

Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,

comu tinumu la giostra ti li rioni,

pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,

no cumu li barbari ti li padani.

 

Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,

li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.

 

Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,

lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.

Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,

ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.

Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,

pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.

Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,

cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.

Però quà votunu ci tu tai,

e no piccè puru ca tu sai.

 

Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,

ma qua puru li marescialli si sentunu generali.

 

Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,

ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.

Cu parli cu li villani no cunvieni,

quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.

Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,

tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.

Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,

pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.

Ci li diamanti alli puerci tai,

quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.

 

Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,

do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.

Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,

do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.

Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,

donca ni sputtanunu li giornalisti amari.

 

Tinimu li chiesi donca pari simu amati,

e  donca rimittimu tutti li piccati.

Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,

di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.

 

Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,

comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.

Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,

ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.

No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,

comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.

 

Tinimu l’oratori do si portunu li fili,

li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.

 

Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,

mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.

 

Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,

tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.

 

Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,

li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.

 

Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,

cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.

Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,

ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??

Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,

so cattivi puru cu li frati e li soru.

 

Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,

ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.

Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,

e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.

 

Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,

ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.

Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,

ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.

Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,

a cinca mi oli mali mancu li penzu,

puru ca loru olunu mi calunu,

iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.

Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,

sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.

Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,

puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.

Li sordi, lu divertimentu e la panza,

pi loro la menti no teni usanza.

Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,

cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.

Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.

Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

INTRODUZIONE.

Il “caso Moro”, Sciascia, Mattarella e la Sicilia, scrive il 22 giugno 2018 su "La Repubblica" Simona Zecchi, Giornalista e scrittrice. Scriveva Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera nel 1982: «Si è parlato - e molti che non ne hanno parlato ci hanno creduto - della 'geometrica' perfezione di certe operazioni delle Brigate Rosse: e si è poi visto di che pasta sono fatti i brigatisti e come la loro efficienza venisse dall'altrui inefficienza. Arriveremo alla stessa constatazione - almeno lo spero - anche con la mafia». Già altrove lo scrittore siciliano era ricorso a rappresentare le due forze - terrorismo e mafia -  come motrici entrambe degli omicidi Mattarella (Piersanti, ammazzato il 6 gennaio 1980) e Reina (Michele, ammazzato il 9 marzo 1979). Scriveva in particolare il 7 gennaio del 1980 sempre sul Corriere: «Io sono stato tra i pochissimi a credere che Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana, fosse stato assassinato da terroristi. Terroristi magari un pò sui generis, come qui ogni cosa; ma terroristi. [...] Oggi di fronte all'assassinio del presidente della Regione Mattarella, quella mia ipotesi, che quasi mi ero convinto ad abbandonare, mi pare che torni a essere valida.» Giovanni Falcone, infatti, titolare della prima istruttoria sull'omicidio di Piersanti Mattarella aveva sin da subito indirizzato le indagini verso una pista nera per ciò che riguardava gli assassini materiali di cui chiese l'arresto nel 1986. Quella istruttoria culminò in una requisitoria depositata nel 1991 che poi non ebbe conferme giudiziarie ma che proprio recentemente ha di nuovo fatto capolino. Mattarella ha rappresentato in terra siciliana, per ciò che riguarda il compromesso storico fra PCI e DC, quello che Aldo Moro (con un percorso iniziato nel 1969 attraverso una sua "strategia dell'attenzione" verso il partito comunista italiano) è stato a livello nazionale, con tutte le specificità e le differenze che certo li caratterizzavano e che caratterizzavano le "due terre": la Sicilia spesso per anni un mondo a parte, e il resto d'Italia. Una differenza che anche si inserisce nella questione del compromesso in sé a livello nazionale. Chi si è opposto a logiche criminali come Mattarella e Reina si era anche opposto a un sistema di potere più complesso e ampio. Nel caso di Mattarella parliamo -secondo quanto emerse allora e permane come sospetto per il momento oggi - di terrorismo nero oltre all'intervento di Cosa Nostra. Per quanto riguarda il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro - strage degli agenti annessa-, l'evento spartiacque per gli equilibri nazionali indicativi per Moro di un cambiamento nel Paese al quale dare inizio, si è trattato di terrorismo rosso. Il colore politico, è ormai giunto il momento di dichiararlo con coraggio, cambia soltanto in funzione di dinamiche ma non di resa, di risultati. Cambiare approccio per ricostruire i cinquantacinque giorni del Caso Moro nella inchiesta da me condotta e culminata nel libro, "La Criminalità servente nel Caso Moro" ha significato certo attraversare quaranta anni di storia politico-criminale e di contesti politici nazionali e internazionali, ma non da ultimo ha inoltre significato raccogliere i fatti che conducevano verso quel filone, esaminarli in controluce ed esporli tutti in fila come se posti su un tavolo immaginario (anche se in realtà fisicamente è avvenuto proprio così), certo verificandoli. Lavorare su temi così complessi non può prescindere dall'analisi dei fatti e dei contesti insieme. Concentrarsi soltanto su uno dei due fattori rende il quadro intero sbilanciato nelle sue tinte. Così, la tavolozza che mano a mano ne è emersa non lasciava scampo: i vertici della criminalità organizzata e delle consorterie che la costituivano in quegli anni (attenzione non pedine o anche soltanto boss qualunque seppure di rilievo) hanno influito e operato nel Caso Moro, moltissimo. Non soltanto per ciò che riguarda le presenze di uomini della 'ndrangheta accertate o ancora da accertare sul luogo della strage, Via Fani, dove alle 9.02 del mattino la raffica di fuoco incrociato è partita, ma anche per quanto riguarda la gestione del sequestro fino alla consegna di Moro morto in Via Caetani, riverso nell'abitacolo di una Renault 4 rossa, e per le connivenze tra frange della lotta armata allineate alle BR e la criminalità organizzata e comune. A parte, poi, va considerato l'aspetto forse più noto al grande pubblico: il ruolo di alcune organizzazioni criminali nel tentativo di liberazione dell'onorevole Moro. Aspetto questo che ricostruito da me interamente dall'inizio, compiendo tabula rasa su quanto scritto e raccolto sino a quale momento da altri, ha anche fatto emergere dettagli e aneddoti rilevanti e nuovi per la comprensione dell'Affaire tutto. L'insieme di questa distesa di elementi conducevano tutti in Calabria: la 'ndrangheta, cresciuta nel corso degli anni all'ombra dei riflettori di una Cosa Nostra più 'spettacolare', infatti, rappresenta secondo quanto da me ricostruito la costante del Caso Moro e insieme la costante di altri eventi tragici che, come le ultime inchieste della Procura di Reggio Calabria certificano, ha attraversato questo Paese. Una costante operante quasi sempre con Cosa Nostra ma non necessariamente. Durante il corso delle indagini che la Commissione Parlamentare d'inchiesta sul caso stava svolgendo, ho seguito dunque un mio percorso investigativo parallelo supportato ovviamente dalla ricerca incessante e dallo studio degli atti passati e nuovi che come già svolto per un'altra inchiesta, quella sulla morte di Pier Paolo Pasolini, mi ha poi portato a sviscerare elementi inediti e anche alla ricostruzione di un contesto mai considerato prima in modo unitario. Fino a giungere agli anni della trattativa Stato-mafia così come la conosciamo, quella il cui processo di Palermo è da poco culminato a un primo grado di condanne e ad alcune assoluzioni (parziali o totali). Il cuore di questo libro-inchiesta è costituito da due punti principali: da un lato la spiegazione del "mistero" del falso comunicato del lago della Duchessa, legato alla scoperta del covo di Via Gradoli il 18 aprile del 1978 nel bel mezzo del sequestro, e l'emersione di una nuova prigione in cui Aldo Moro è stato di passaggio durante la sua prigionia: un covo non lontano dal lago stesso nella Sabina fra il Lazio e l'Umbria, luogo legato a sua volta sia a elementi della lotta armata sia alla criminalità; dall'altro, lo sviluppo delle inchieste del generale Dalla Chiesa e il giudice Vittorio Occorsio sulle morti dei quali pesa l'ombra sia della mafia sia del terrorismo: entrambi, infatti, stavano indagando su una struttura riservata composta da parti della massoneria, della criminalità organizzata, consorterie politiche e della magistratura, e di elementi del terrorismo di destra e di sinistra. Nel libro, tra le altre cose inedite, viene per la prima volta pubblicato l'estratto di un verbale sconosciuto alle cronache e alle ricostruzioni sin qui svolte, un verbale che porta proprio la firma del Generale. Intorno a questi due punti cardinali della inchiesta vengono da me sviluppati ulteriori fatti e risvolti a essi collegati. La "geometrica potenza" invocata da Sciascia, espressione usata in un articolo sequestrato a Franco Piperno leader di Potere Operaio, e operativo presso l'Università della Calabria, si dispiega tutta qui. Attraverso un metodo giornalistico che definisco "della piramide rovesciata" arrivo dunque al cuore del Caso Moro cercando di consegnare un pezzo di verità mancante di questo segreto usurato della Repubblica. Con le "prove" che un giornalista umilmente può portare. Il libro: “La criminalità servente nel Caso Moro”, La Nave di Teseo

Il Pantheon dei capri espiatori. La storia politica dell’Italia repubblicana raccontata attraverso l’odio per il singolo, scrive Francesco Damato il 17 Aprile 2018 su "Il Dubbio". L’articolo di Angela Azzaro in difesa del Pd, e del suo ex segretario, diventato la sentina di tutti i mali della politica e persino della società italiana dopo i risultati elettorali del 4 marzo, mi ha fatto tornare alla mente un po’ di capri espiatori nella storia più che settantennale ormai della Repubblica. Tutto sommato, Matteo Renzi può sentirsi in buona compagnia, pur con tutti gli errori che ha sicuramente compiuti, compreso quello che personalmente gli ho più volte rimproverato di avere negato il Pantheon della sinistra riformista italiana a Bettino Craxi. Di cui pure, volente o nolente, lui ha ripercorso alcune tappe nell’azione di partito e di governo, persino quelle delle reazioni più scomposte e indegne dei suoi avversari, che ne hanno sognato l’arresto, sprovvisto com’era prima dell’elezione a senatore di Scandicci, di quel poco che è rimasto della vecchia immunità parlamentare. O lo hanno più semplicemente scambiato per un aspirante tiranno, come fece appunto con Craxi nel 1983 l’allora segretario del Pci Enrico Berlinguer. Che pure Renzi è tornato anche di recente a preferire al leader socialista nella galleria della sinistra.

Nel 1953 il ruolo del capro espiatorio toccò addirittura al protagonista della ricostruzione post- bellica del Paese: Alcide De Gasperi. Al quale non fu rimproverata, per quanto neppure scattata nelle elezioni di quell’anno, una legge chiamata “truffa” perché contemplava un premio di maggioranza in Parlamento per chi avesse raccolto il 50 per cento più uno dei voti. Roba da ridere rispetto ai premi adottati o tentati durante la cosiddetta seconda Repubblica. Il povero De Gasperi subì l’onta della sfiducia parlamentare ad un governo appena formato, l’ottavo della sua storia personale, e si ritirò fra le montagne del suo Trentino per morirvi praticamente di crepacuore. E ciò mentre il suo successore alla guida della Dc, l’allora giovane Amintore Fanfani, si vantava di essere stato da lui stesso aiutato a subentrargli. «Una fantasia», soleva commentare a labbra strette Giulio Andreotti, che di De Gasperi era stato il braccio destro.

Toccò poi al medesimo Fanfani diventare il capro espiatorio di una rivolta di partito che lo estromise contemporaneamente da segretario, da presidente del Consiglio e da ministro degli Esteri. Furono utilizzati contro di lui persino alcuni incidenti ferroviari per dargli del menagramo. E appendergli in fotografia al collo un corno, come fece in una copertina un settimanale allora in voga – Il Borghese – fondato da Leo Longanesi.

Aldo Moro, succeduto a Fanfani come segretario della Dc nel 1959 e poi anche come presidente del Consiglio alla testa, nel 1963, del primo governo “organico” di centrosinistra, con tanto di trattino, divenne nel 1968 il capro espiatorio del mancato successo elettorale dell’unificazione socialista. Che pure lui aveva cercato di favorire, fra le proteste della maggiore corrente della Dc, quella dei “dorotei”, sponsorizzando nel 1964 l’elezione del suo ministro degli Esteri Giuseppe Saragat al Quirinale. Dove peraltro qualche mese prima il democristiano Antonio Segni era stato colto da ictus in un alterco proprio con Saragat. Fu proprio la mancanza dell’appoggio di Saragat, nell’estate del 1968, a determinare l’allontanamento di Moro da Palazzo Chigi. «Non lasciatemi morire con Moro», si lasciò supplicare quell’estate Pietro Nenni, che ne era stato il vice al vertice del governo. Estromesso dalla presidenza del Consiglio per convergenza di interessi e risentimenti democristiani e socialisti, Moro divenne il bersaglio persino del coltissimo ed ecumenico Giovanni Spadolini. Che da direttore del Corriere della Sera ne contestò in un fondo domenicale il voto espresso nella competente commissione della Camera a favore di un emendamento comunista alla riforma degli esami di Stato, approvato per garantire la promozione dello studente in caso di parità di giudizi. In quel voto Spadolini vide addirittura tracce o indizi della Repubblica conciliare, anticipatrice di quello che sarebbe poi diventato con Berlinguer il progetto del “compromesso storico”. Ricordo ancora lo sconforto confidatomi da Moro per essere stato frainteso da un professore universitario dimentico – mi disse l’ex presidente del Consiglio – che anche un imputato va assolto a parità di voti. Debbo dire che poi Moro, quando gli capitò da presidente del Consiglio, in un bicolore Dc- Pri con Ugo La Malfa, di far nominare Spadolini ministro gli ‘ regalò’ – mi disse – il Ministero dei Beni Culturali fornendogli con un decreto legge il portafogli di cui quel dicastero non disponeva ancora. Dopo tre anni Moro, nel frattempo detronizzato di nuovo da Palazzo Chigi, sarebbe stato sequestrato e ucciso dalle brigate rosse. Il capro espiatorio anche di quella vicenda, e non solo di un presunto deterioramento dei rapporti fra società civile e politica avvertito dal Pci nei risultati stentati di un referendum contro la legge che disciplinava il finanziamento pubblico dei partiti, fu Giovanni Leone. Il quale fu costretto dalla mattina alla sera a dimettersi da presidente della Repubblica, quando mancavano solo sei mesi alla scadenza del mandato quirinalizio.

Così il povero Leone pagò pure, o soprattutto, la colpa di essersi messo di traverso alla linea della fermezza adottata dal governo di fronte al sequestro del presidente della Dc. Di cui invece il capo dello Stato aveva voluto tentare uno scambio predisponendo la grazia per Paola Besuschio, compresa nell’elenco dei tredici detenuti che i terroristi avevano chiesto di liberare per restituire vivo l’ostaggio.

Il turno successivo di capro espiatorio toccò ad Arnaldo Forlani, dimessosi da presidente del Consiglio nel 1981 per le liste della loggia massonica P2 di Licio Gelli, in cui c’era anche il nome di un prefetto che era il suo capo di Gabinetto. Poi Forlani dovette difendersi in una causa alla Corte dei Conti per i danni subiti dai massoni, e risarcibili dallo Stato, a causa della diffusione delle liste, per quanto avvenuta d’intesa tra il governo e la competente autorità giudiziaria. Una vicenda tutta italiana per confusione, caccia alle streghe e quant’altro.

Decisamente più drammatica fu, come capro espiatorio, la sorte di Bettino Craxi, perseguito con «una durezza senza uguali», certificata dopo anni con lettera dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano alla vedova, per il finanziamento illegale della politica, e reati connessi. Come se Craxi non avesse ereditato ma inventato lui quel fenomeno, per giunta coperto nel 1989 con un’amnistia che aveva consentito a un bel po’ di politici di farla franca.

Giulio Andreotti divenne invece negli stessi anni il capro espiatorio delle carenze nella lotta alla mafia, per quanto il suo ultimo governo avesse trattenuto con un decreto legge di controversa costituzionalità un bel po’ di mafiosi che avevano maturato il diritto di uscire dal carcere. E avesse arruolato al Ministero della Giustizia, proprio per la lotta alla mafia, un campione come il giudice Giovanni Falcone, eliminato per questo dai criminali con la strage di Capaci. Processato, in sovrappiù, ed assolto anche per il delitto Peccorelli, il sette volte presidente del Consiglio, nonché senatore a vita di nomina quirinalizia avendo «illustrato la Patria – secondo la formula dell’articolo 59 della Costituzione – per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario», si è portata nella tomba l’onta, ancora rimproveratagli ogni volta che gli capita dal pubblico accusatore Gian Carlo Caselli, di una prescrizione del reato di associazione a delinquere, prima che diventasse concorso esterno in associazione mafiosa. Da cui in ogni modo Andreotti fu assolto, per ammissione anche di Caselli.

Passati dalla prima alla seconda Repubblica, ci siamo dovuti accontentare, sempre nel campo politico, di capri espiatori, diciamo così, più alla buona. Come il povero Achille Occhetto, sostanzialmente deposto nel 1994 da Massimo D’Alema al vertice dell’ex Pci per la sorprendente e strepitosa vittoria elettorale conseguita sulla sinistra dall’esordiente Silvio Berlusconi. E poi lo stesso Berlusconi per le sue abitudini di vita non da seminario, o per i suoi affari, analoghi a quelli di tutti gli altri imprenditori della sua stazza finanziaria, o persino per le speculazioni subite dai titoli del debito pubblico italiano nell’estate del 2011, quando irruppe sulla scena il loden austero di Mario Monti.

Il ruolo di capro espiatorio è inoltre toccato a D’Alema per essere subentrato nel 1998 a Romano Prodi senza passare per gli elettori con le elezioni anticipate, e per una certa spocchia rimproveratagli a volte a ragione ma a volte anche a torto.

Il povero Fausto Bertinotti, a dispetto delle buone maniere che tutti gli riconoscono, è stato buttato dal mio amico Giampaolo Pansa tra le fiamme come ‘ il parolaio rosso’ per non aver voluto a suo tempo sostenere i governi Prodi oltre le loro materiali capacità di resistenza politica.

Walter Veltroni divenne nel 2009 il capro espiatorio di alcuni rovesci locali del Pd da lui stesso fondato due anni prima, scampando al torto più consistente e per lui dannoso di essersi apparentato a livello nazionale nelle elezioni del 2008 con Antonio Di Pietro, subendone la linea. Matteo Renzi chiude, per ora, la lista per le rottamazioni sbagliate, o per quelle incompiute. E per sopravvivere fisicamente alle sue dimissioni da segretario del Pd dopo la sconfitta del 4 marzo. Già, perché la sua stessa presenza fisica sembra infastidire i vecchi e nuovi avversari politici. E’ incredibile ma vero in questo Paese che continua a chiamarsi Italia.

Con una fuga di notizie infilzarono Craxi. 25 anni fa la congiura che lo escluse da palazzo Chigi, scrive Francesco Damato il 10 giugno 2017 su "Il Dubbio". Dopo la strage di Capaci e l’elezione in 48 ore di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale, dove per quindici votazioni avevano inutilmente tentato di arrivare, con candidature formali o sotterranee, Arnaldo Forlani, Giulio Andreotti e persino il presidente uscente e dimissionario Francesco Cossiga, nulla fu più uguale sul piano politico. Terminato di comporre il suo staff al Quirinale il 4 giugno con la nomina del generale Paolo Scaramucci a consigliere militare, Scalfaro predispose le consultazioni per la formazione del nuovo governo: quello di esordio della legislatura nata con le elezioni del 5 e 6 aprile. Ma la prima sfilata delle delegazioni dei partiti davanti al capo dello Stato terminò il 10 giugno senza altro risultato che la constatazione di un clima politico irrespirabile, con veti e controveti all’interno e all’esterno della maggioranza uscente composta da democristiani, socialisti, socialdemocratici e liberali. Era una maggioranza peraltro troppo risicata per fronteggiare una difficile situazione economica e un’ancora più difficile situazione politica nel contesto delle indagini giudiziarie in corso a Milano su Tangentopoli. Scalfaro non riuscì a venirne a capo neppure moltiplicando le sue preghiere alla Madonna di Lourdes, dove peraltro si era proposto prima della imprevista elezione a capo dello Stato di recarsi in pellegrinaggio. Si scusò della rinuncia esortando gli organizzatori del viaggio a pregare anche perché lui venisse illuminato. In attesa di un secondo giro di consultazioni formali, il presidente della Repubblica vide o sentì privatamente un’infinità di amici, fra i quali i ministri uscenti dell’Interno e della Giustizia: il democristiano Enzo Scotti e il socialista Claudio Martelli, invitati insieme al Quirinale formalmente per discutere di un provvedimento in gestazione per intensificare la lotta alla mafia dopo la strage di Capaci. Ma il discorso scivolò subito sul tema della formazione del governo. Vuoi su sollecitazione di Scalfaro, come poi avrebbe raccontato Martelli, vuoi di iniziativa dei due ministri, il capo dello Stato ricavò l’impressione, a torto o a ragione, che fossero entrambi convinti di potere insieme tentare la formazione di un governo di decantazione, scambiandosi i ruoli di presidente e vice presidente, capace di guadagnarsi se non l’appoggio, almeno la benevola opposizione del Pds- ex Pci guidato da Achille Occhetto. Informato, non si è mai ben capito se dallo stesso Scalfaro, col quale aveva allora eccellenti rapporti, tanto da averne sostenuto con la solita baldanza l’elezione prima a presidente della Camera e poi a capo dello Stato, Marco Pannella confidò la cosa a Bettino Craxi. Che – convinto di avere ancora buone carte da giocare per tornare a Palazzo Chigi, da dove riteneva di essere stato allontanato malamente da Ciriaco De Mita nel 1987, con la storia di una staffetta con Andreotti prima promessa per l’ultimo anno della legislatura e poi negata – a sentire Pannella cadde dalle nuvole. Ma di brutto, perché se la prese subito con Martelli, essendo ancora convinto che Scalfaro gli fosse leale, come lo era stato al Ministero dell’Interno nei quattro anni di governo da lui presieduto: tanto leale non solo da avere rifiutato di prestarsi a fare il governo elettorale offertogli da De Mita, come ho già ricordato qui, ma anche da avere cercato e trovato una decina d’anni prima negli archivi del Viminale un documento da tutti negato in precedenza, ma utile alla difesa dei socialisti finiti sotto processo a Milano per gli attacchi ai pubblici ministeri che avevano indagato per l’assassinio di Walter Tobagi. Era un’informativa dei servizi segreti che nel 1980 aveva inutilmente segnalato il pericolo di un imminente agguato mortale delle brigate rosse al famoso giornalista del Corriere della Sera, peraltro amico personale del leader socialista. Notizia di quell’informativa era stata data personalmente a Craxi all’indomani dell’uccisione del povero Walter dal generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa. Craxi girò la confidenza di Pannella sull’incontro di Scotti e Martelli con Scalfaro al segretario della Dc Arnaldo Forlani, facendo cadere dalle nuvole pure lui. Ed entrambi si ripromisero di punire, diciamo così, i due giovani aspiranti alla guida del nuovo governo o non confermandoli ai loro posti o lasciandoli proprio fuori. Ma né l’uno né l’altro ebbero poi la voglia di raccontare come fossero veramente andate le cose, dopo molti anni, ai magistrati di Palermo che li interrogarono sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia della stagione stragista. Essi diedero agli inquirenti l’impressione di essere stati sacrificati perché contrari a quelle trattative, contribuendo così all’impianto accusatorio del processo contro mafiosi, generali e uomini politici ancora in corso a Palermo. Ma da cui è stato già assolto, avendo scelto il rito abbreviato, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, che pure era stato accusato di essere stato addirittura il promotore della trattativa per scongiurare una minaccia della mafia alla sua vita. Non ci fu tuttavia soltanto l’incidente o l’equivoco della coppia Scotti- Martelli durante le consultazioni informali di Scalfaro per la formazione del nuovo governo. Ci fu anche, fra l’altro, una rovinosa fuga di notizie sui documenti pervenuti dalla Procura di Milano alla Camera, e assegnati subito alla giunta delle cosiddette autorizzazioni a procedere per Tangentopoli sul conto degli ex sindaci di Milano Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli, entrambi socialisti. Il “verde”, ed ex direttore del Manifesto, Mauro Paissan fu indicato, a torto o a ragione, come fonte di quella fuga con interpretazioni troppo estensive di alcune parti dei fascicoli, da cui avrebbe ricavato, come esponente dell’apposita giunta di Montecitorio, l’impressione di un coinvolgimento anche di Craxi nelle indagini chiamate Mani pulite. Ricordo ancora nitidamente quella giornata in cui le agenzie avevano inondato le redazioni dei giornali di lanci a dir poco allarmanti sulla posizione giudiziaria del segretario socialista ancora in corsa per il ritorno a Palazzo Chigi. Nelle prime ore del pomeriggio, tornando a piedi da casa alla redazione del Giorno, di cui ero direttore, incrociai per caso in Piazza della Scala Antonio Di Pietro, il magistrato ormai simbolo di quell’inchiesta che stava demolendo la cosiddetta prima Repubblica. Allontanata la scorta con un cenno di mano, “Tonino” mi disse che nelle carte partite da Milano per la Camera non c’erano elementi contro Craxi, di cui lui parlava volgendo lo sguardo verso la Galleria, cioè verso gli uffici milanesi del segretario del Psi. E mi preannunciò un comunicato della Procura, che in effetti fu diffuso dopo qualche ora per precisare che nulla risultava “allo stato” delle indagini contro Craxi. Il quale tuttavia il giorno dopo si trovò su tutte le prime pagine dei giornali ugualmente come uno ormai compromesso nell’inchiesta. Non ricordo se l’ho già riferito ai lettori del Dubbio in altre circostanze riferendo del biennio “terribile” 1992- 93, ma il clima nei giornali, ormai di tutte le tendenze, era tale che la sera di quel giorno mi telefonò l’amico Ugo Intini, portavoce di Craxi, per chiedermi come avessi deciso di uscire con la prima pagina del Giorno. Alla confidenza che sarei uscito col titolo sul comunicato di smentita diffuso dalla Procura, che ai miei occhi costituiva l’unica notizia certa della giornata rispetto a tutte le voci col condizionale diffuse dalle agenzie, Ugo mi chiese se poteva consigliare al comune amico Roberto Villetti, direttore dell’Avanti, di chiamarmi. Cosa che Villetti fece subito, ma non per consultarsi, come si aspettava il povero Intini, bensì per dissentire fermamente dal modo garantista in cui avevo deciso di titolare. Rimasi francamente di stucco. Neppure Scalfaro al Quirinale dovette rimanere convinto del comunicato della Procura milanese se volle parlarne direttamente col capo Francesco Saverio Borrelli, peraltro figlio di un suo vecchio collega ed amico. L’impressione che ne ricavò l’uomo del Colle fu di paura di mandare a Palazzo Chigi un “amico” – quale ancora egli considerava il suo ex presidente del Consiglio – destinato prima o dopo ad essere davvero coinvolto nelle indagini, come avvenne a fine anno con i primi avvisi di garanzia, e poi anche con richieste di arresto. Lo stesso Craxi mi raccontò di essersi sentito dire da Scalfaro all’incirca così: “Tu sai quanto ti stimi e ti voglia bene, ma è opportuno, anche nel tuo interesse, che tu faccia un passo indietro in questo momento. Dimmi tu stesso il nome di un socialista al quale io possa dare l’incarico”. E il 10 giugno, nel secondo ed ultimo giro di consultazioni, Craxi maturò la decisione del doloroso passo indietro. Che annunciò personalmente all’uscita dall’ufficio del capo dello Stato dicendo di avergli indicato “in un ordine non solo alfabetico” Giuliano Amato, già ministro con De Mita e suo sottosegretario a Palazzo Chigi, Gianni De Michelis e Claudio Martelli. La delegazione della Democrazia Cristiana, ricevuta per ultima, non ebbe così neppure la possibilità di proporre Craxi, contro la cui destinazione si erano già espressi nel partito alcuni esponenti, fra i quali De Mita, convinti che Palazzo Chigi spettasse ancora alla Dc, nonostante il ritorno di un democristiano al Quirinale dopo il movimentato settennato di Cossiga. Pertanto fu Amato l’uomo al quale Scalfaro diede l’incarico, che fu espletato con una certa difficoltà, avendo impiegato il nuovo presidente del Consiglio una decina di giorni, sino al 28 giugno, per la definizione del programma e soprattutto della lista. Dove Scotti risultò spostato dal Viminale alla Farnesina, che formalmente era una promozione, da lui però rifiutata perché Forlani aveva deciso di sperimentare dentro la Dc la incompatibilità fra le cariche di ministro e di deputato o senatore. Scotti reclamò inutilmente una deroga per conservare il mandato parlamentare, che alla fine preferì alla guida della diplomazia italiana. Martelli invece entrò nella lista all’ultimo momento, dopo essere andato da Craxi, su suggerimento dello stesso Amato, per chiedergli di essere confermato al Ministero della Giustizia, come poi mi avrebbe raccontato lo stesso Craxi, per portare a termine il lavoro svolto col povero Giovanni Falcone, suo prezioso collaboratore sino alla morte – e che morte – come direttore degli affari penali del dicastero di via Arenula. E Craxi acconsentì, parendogli – mi disse – “una richiesta umanamente ragionevole”, lungi forse dall’immaginare che Martelli fosse destinato pure lui dopo qualche mese ad essere investito da Tangentopoli e costretto alle dimissioni. Comunque, Martelli fu l’ultimo ministro e il primo governo di Amato l’ultimo sul quale il leader socialista riuscì a dire la sua, perché di fatto in quel mese di giugno di 25 anni fa al falconicidio col sangue, preceduto dall’ostracismo in vita praticatogli da tanti colleghi, seguì il craxicidio senza sangue. I rapporti di Craxi con Scalfaro rimasero buoni ancora per poco. Col procedere delle indagini e del linciaggio politico da cui pochi lo difesero, neppure quando subì il famoso lancio di monetine e insulti davanti all’albergo romano dove abitava, e donde usciva per andare ad una trasmissione televisiva dopo essere scampato a scrutinio segreto ad alcune, le più gravi, delle autorizzazioni a procedere chieste contro di lui dalla magistratura, il leader socialista si fece del presidente della Repubblica l’idea da lui stesso espressa in una serie di litografie raffiguranti falsi “extraterrestri”: finti inconsapevoli del finanziamento generalmente illegale della politica e delle forzature con le quali la magistratura aveva deciso di trattarlo. Oltre a Scalfaro, furono definiti extraterrestri anche Achille Occhetto, Eugenio Scalfari, Giorgio Napolitano e l’ormai compianto Giovanni Spadolini, la cui foto fu sostituita con un manifesto bianco listato a lutto. Craxi stesso mi raccontò nel suo rifugio di Hammamet di avere scritto più volte al presidente della Repubblica, anche come presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, contro gli eccessi che stavano compiendo i magistrati, ma di non avere mai ricevuto una risposta, né diretta né indiretta. Il Quirinale non lo considerò più degno di riconoscimento alcuno. Ci vollero del resto la morte di Craxi e l’arrivo sul colle più alto di Roma di Giorgio Napolitano perché un presidente della Repubblica parlasse di lui riconoscendone il servizio politico reso al Paese e lamentando, fra le solite proteste dei manettari in servizio permanente effettivo, irriducibili anche di fronte alla morte, “la severità senza uguali” con cui era stato trattato dalla magistratura. Proprio alla magistratura, vantando di averne fatto parte, Scalfaro nel suo discorso di insediamento, pronunciato il 28 maggio a Montecitorio, davanti alle Camere in seduta congiunta con la partecipazione dei delegati regionali, aveva chiesto “energia, serenità e perseveranza” parlando della “questione morale”. Di energia e perseveranza sicuramente i magistrati si dimostrarono capaci nei mesi e negli anni successivi. Di serenità, francamente, un po’ meno, nella sostanziale e incresciosa disattenzione proprio di chi l’aveva reclamata insediandosi al vertice dello Stato sull’onda peraltro di una strage neppure citata per luogo e per nomi nel discorso alle Camere, essendosi Scalfaro limitato a parlare di una “criminalità aggressiva e sanguinaria”, forse aiutata anche da qualche mano straniera. Di cui nessuno, a dire il vero, aveva avuto sentore a Capaci e dintorni.

È Stato contro la mafia. Chi era per la linea dura. Il caso di Scotti e Martelli, scrive Francesco Bechis su Formiche.net il 22 aprile 2018. Dalle rogatorie dei pm del processo "Stato-Mafia" emerge un volto (buono) della politica che nessuno vuole raccontare: il caso degli ex ministri Vincenzo Scotti e Claudio Martelli. La politica esce malconcia, ma non distrutta, dalla sentenza della Corte d’Assise di Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, in cui vertici dello istituzioni e delle forze armate si sarebbero ritrovati a scendere a patti con Cosa Nostra per porre fine alla stagione stragista del 1992-1993. Una sentenza di primo grado, che dunque lascia intatta la presunzione di innocenza degli imputati: è bene ricordarlo a chi, preso dall’euforia, ha dato per chiusa la fase processuale apertasi nel 2013. Se è giusto sottolineare l’impatto dirompente che la sentenza letta venerdì pomeriggio dal presidente della corte Alfredo Montalto avrà sullo scenario politico italiano, è altrettanto doveroso ricordare che non tutta la politica di quegli anni è finita sul banco degli imputati. Oltre all’ex ministro Nicola Mancino, assolto dall’accusa di falsa testimonianza perché “il fatto non sussiste”, la chiusura della prima fase del processo lascia integra, fra le altre, la figura di due uomini di Stato protagonisti di quella stagione politica che a più riprese sono stati sentiti dai magistrati in questi anni: l’ex ministro dell’Interno democristiano Vincenzo Scotti e l’ex ministro della Giustizia socialista Claudio Martelli. E in particolare gli atti, le dichiarazioni e le vicende politiche dell’attuale presidente della Link Campus sono state usate come supporto delle tesi accusatorie, confermando la totale estraneità di Scotti e Martelli ai fatti al vaglio dei pubblici ministeri. La lunga requisitoria dei pm ha fatto ampio ricorso alla vicenda pubblica di Scotti, che fu a capo del Viminale dall’ottobre del 1990 al giugno del 1992. Significativi a riguardo alcuni stralci tratti dall’esposizione degli elementi accusatori da parte del pm Roberto Tartaglia il 14 dicembre del 2017 e del pm Nino Di Matteo il 15 dicembre e l’11 gennaio 2018. Secondo l’accusa tre sono i passaggi che provano la ferrea volontà dell' “asse Scotti-Martelli” nella lotta senza compromessi contro la mafia. Il primo consiste nel “cambio di passo” impresso da Scotti alla politica di contrasto alla criminalità organizzata una volta ottenuto l’incarico agli Interni. Spiega Tartaglia il 14/12: “Cosa Nostra vede in questi tre soggetti e in questi tre poli (Scotti, Martelli, Falcone), l’emblema, l’immagine del cambiamento dell’azione politica […]”. Un cambio di passo che prese forma in una serie di iniziative concrete. Decisivo, ha spiegato Tartaglia, fu il decreto legge n. 60 del 1 marzo 1991 che delegava all’ “interpretazione autentica” del governo il calcolo della decorrenza dei termini di custodia cautelare. Un intervento che rimise in carcere 43 imputati mafiosi del maxi-processo che meno di un mese prima erano stati liberati dopo una condanna di primo grado e che il pm nella requisitoria definisce “un segnale devastante per le aspettative di Cosa Nostra”. Rilevanti nella lotta alla mafia furono due riforme giudiziarie introdotte dall’allora guardasigilli: la regola della turnazione nei ricorsi di mafia in deroga del principio di competenza per materia, e infine l’introduzione, il 15 gennaio del 1993, del 41-bis, il regime carcerario duro per i mafiosi la cui paternità ancora oggi Martelli rivendica con orgoglio. Poi il secondo passaggio della requisitoria che sottolinea la linea di fermezza del ministro Scotti con il crimine organizzato: si tratta delle sue prese di posizione pubbliche durante il mandato, dove non mancò mai di mettere al corrente l’opinione pubblica e gli organi dello Stato di un piano “sovversivo” di Cosa Nostra. Riecheggiano ancora oggi le dure parole del titolare del Viminale, a pochi giorni dall’omicidio di Salvo Lima, in un’audizione parlamentare del 17 marzo 1992: “Oggi, dopo questo omicidio, siamo in presenza di un fenomeno che non mira a distruggere le istituzioni ma a piegarne gli apparati ai propri fini, a condizionarli”. Preoccupazioni ribadite il 20 marzo successivo davanti alla commissione Affari Costituzionali del Senato: “Nascondere ai cittadini che siamo di fronte ad un tentativo di destabilizzazione delle istituzioni da parte della criminalità organizzata è un errore gravissimo. Io ritengo che ai cittadini vada detta la verità e non edulcorata, la verità: io me ne assumo tutta la responsabilità”. L’allora premier Giulio Andreotti definì “una patacca” l’allarmismo del suo ministro, scatenando involontariamente un polverone mediatico che non fu privo di strumentalizzazioni. A dare ulteriore conferma della rettitudine dell’operato di Scotti e Martelli, secondo i pm del processo sulla “trattativa”, ci sarebbe infine la tesi del “golpe bianco”. Nella requisitoria dello scorso 11 gennaio il pm Nino Di Matteo sostiene che la “prima condizione essenziale nel 1992 per portare avanti la linea del dialogo con la mafia era quella di cacciare Scotti dalla titolarità del Viminale”. L’avvicendamento del ministro dell’Interno con Nicola Mancino nel giugno 1992, che portò Scotti alla guida della Farnesina (su indicazione del presidente della Dc Ciriaco De Mita) mentre Giuliano Amato entrava a Palazzo Chigi, fu letto da molti come un promoveatur ut amoveatur. Anche l’uscita di Martelli dal Ministero della Giustizia nel febbraio del 1993 attirò gli stessi sospetti. Di Matteo è sicuro che non si è trattato di due semplici avvicendamenti: il pm palermitano l’11 gennaio ha affermato che è stata messa in atto piuttosto una strategia per “liberarsi di chi della contrapposta linea del rigore e delle intransigenza aveva fatto la sua bandiera e lo aveva dimostrato con i fatti”. Chiamato a parlare davanti alla Corte d’Assise di Palermo, Martelli in questi anni ha confermato la tesi della “rimozione forzata” del 1993, dovuta soprattutto, a suo parere, all’introduzione del 41-bis. Scotti invece ha preferito una linea di maggior riserbo, pur avendo manifestato davanti ai giudici le sue perplessità su quel cambio di vertice al Viminale.

«Il teorema è stato smontato, chiedo scusa per il silenzio. A 86 anni posso dare consigli ma avrei bisogno di orecchie pronte ad ascoltare»: Nicola Mancino riabbraccia Avellino, scrive Luigi Salvati il 24 aprile 2018 su "Orticalab.it". «Il teorema è stato smontato, chiedo scusa per il silenzio. A 86 anni posso dare consigli ma avrei bisogno di orecchie pronte ad ascoltare»: Nicola Mancino riabbraccia Avellino. L’ex Ministro degli Interni parla dopo la sentenza sulla trattativa Stato-mafia che lo ha visto scagionato dall’accusa di falsa testimonianza: «Diventare all’improvviso protagonista delle cronache giudiziarie è stato un colpo duro inferto nei confronti ma io ho sempre rispettato lo Stato e ho sempre ritenuto che lo Stato non può scendere a trattative con la mafia, la camorra o la malavita organizzata. Mi sono piegato nel silenzio provando sempre ad onorare le mie origini. Se vi ho fatto nascere il sospetto che io potessi non essere un uomo della legge, vi chiedo scusa». Su una possibile candidatura per la Città: «Avellino ha bisogno di una classe dirigente nuova che si innamori del ruolo». «Questa sentenza recita che il fatto non sussiste. Il “fatto” ha un’origine che è l’inchiesta e un “non sussiste” che è la sentenza. Ma se non sussiste vuol dire che non sussiste nelle radici. Per quel che mi riguarda ho sempre rispettato lo Stato e ho sempre ritenuto che lo Stato non può scendere a trattative con la mafia, la camorra o la malavita organizzata. Mi sono difeso a fronte di un pregiudizio e ho giurato di aver onorato l’Italia. Finalmente il teorema è venuto meno»: emozionato ma non commosso, l’ex Ministro dell’Interno Nicola Mancino parla dopo la sentenza sulla trattativa Stato-mafia che lo ha visto scagionato dall’accusa di falsa testimonianza. Ad attendere, al Circolo della stampa, ci sono tanti amici di vecchia data, tante persone che hanno condiviso con lui un lungo percorso politico e tanti esponenti della società civile. Tutti presenti e in religioso silenzio ad ascoltare il monologo dell’ex Vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura che si arriva a piedi, sereno in volto, sorridente come non lo si vedeva da troppo tempo. «Non è facile parlare sia pure dopo una sentenza favorevole che ha mobilitato dirigenti, amici, responsabili della politica, persone appartenenti al mondo della cultura e dell’università - ha esordito Mancino - ma dovevo e devo delle spiegazioni oltre a dover ricordare alcuni passaggi di una storia che mi ha messo in un angolo. Dal 2008 si è sviluppato un teorema nei miei confronti forse perché avevo accettato di diventare Ministro dell’Interno, carica importante ma che io non avevo richiesto. Sono stato al centro di una spiacevole vicenda e la ragione di questa conferenza è anche quella di chiedere scusa alla comunità. Diventare all’improvviso protagonista delle cronache giudiziarie è stato un colpo duro inferto nei confronti di una persona che ha risposto ad indirizzi di carattere politico e all’assunzione di responsabilità». In piena tangentopoli, Mancino spiega che non si sarebbe mai sognato di fare pressioni per ottenere la carica occupata in precedenza da Vincenzo Scotti poi diventato Ministro degli esteri e di aver accettato per «determinazione e senso dello Stato, quello per cui mi sono adoperato per combattere una presenza malavitosa tanto in Sicilia quanto in tutto il territorio italiano. Mi insediai pochi mesi dopo la strage di Capaci che vide la morte del giudice Falcone e pochi giorni prima della strage di Via D’Amelio che vide la morte del giudice Borsellino che io, come ho detto in tribunale, non conoscevo personalmente, ma non ho mai escluso di avergli potuto stringere la mano. Sono stato protagonista involontario di tanti libri che parlavano di una mia reticenza nel voler ammettere di essere amico del giudice Borsellino nonostante a conferma della mia tesi ci sia anche una sentenza che avrebbe potuto tranquillamente chiudere il caso». E invece no, il teorema nato per contestare la legittimità della sua nomina a ministro dell’Interno è andato avanti. «Doveva avere il suo percorso - ha continuato Mancino - ma io ho sempre protestato contro il teorema, rimasto tale anche dopo la richiesta di rinvio a giudizio. Difendere il mio onore tuttavia era un diritto-dovere nei confronti della gente che mi aveva votato perché credeva che la potessi rappresentare. Non ho mai saputo nulla della trattativa e l’ho affermato sotto giuramento anche di fronte alla corte che mi ha giudicato. Tra un po’ ricorre il 40esimo anniversario della morte di Aldo Moro di cui ero molto amico e ricordo che fui uno di quelli a dire che con le brigate rosse non ci poteva essere alcuna forma di trattativa, figuriamoci se io potevo accettare che si trattasse con la criminalità organizzata». Sono tanti i bocconi amari che l’ex Ministro ha dovuto digerire: «i cinque anni di dibattimento, oltre a tutto quello che c’è stato prima, l’essere mischiato a personaggi malavitosi come Totò Riina o Bernardo Provenzano. Tra le altre cose Riina ebbe anche a dire che io ero un “nemico della mafia” ma non fu creduto. Io so solo di aver fatto sempre il mio dovere, di aver onorato il ruolo e di aver sempre considerato la norma un obbligo di accettazione da parte dei cittadini». L’unico passaggio in cui Mancino ha avuto un momento di titubanza è quando ha ammesso di avere paura di lasciare la vita terrena prima che venisse emessa la sentenza: «E’ morto Scalfaro, è morto Ciampi, sono morti altri. Pensavo che non avessero il coraggio di andare a sentenza. E invece c’è stata. Per mio carattere mi sono messo in un angolo con una preoccupazione: in caso di sentenza non favorevole cosa avrebbero pensato di me le persone che mi conoscono. Mi sono piegato nel silenzio provando sempre ad onorare le mie origini. Se vi ho fatto nascere il sospetto che io potessi non essere un uomo della legge, vi chiedo scusa. Ma io ho rispettato lo Stato perché lo Stato non può scendere a trattative. Deve essere limpido perbene. La sentenza è stata letta con grande senso di equilibrio. Non mi sono rallegrato ma mi sono compiaciuto. C’è un giudice anche a Palermo e vorrei che questo giudice fosse presente in tutta Italia. Abbiamo bisogno di giustizia». Prima degli abbracci e delle strette di mano, c’è stato il tempo per rivolgere una domanda all’ex ministro sul futuro della città. «Ottantasei anni sono ottantasei anni - ha concluso - posso dare suggerimenti ma Avellino ha bisogno di una classe dirigente nuova che si innamori del ruolo. Ci sono troppi improvvisatori. Dai consiglieri comunali, ai regionali, ai parlamentari sono troppi quelli che ritengono di essere leader. Mi chiedo, che fine hanno fatto i circoli? La classe dirigente deve avere il coraggio di ascoltare, di dialogare. A mancare non è il politico in sé ma la politica e il politico preparato. Non mi avventuro in esperienze che non posso affrontare. Ringrazio la fortuna e Dio per essere ancora qui e guardo avanti».

Piperno: «Si poteva salvare Moro. Gotor? Scrive balle», scrive Paolo Persichetti il 26 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Intervista a Franco Piperno, professore di fisica e fondatore di Potere Operaio. Il sequestro Moro poteva concludersi senza la morte dell’ostaggio? Franco Piperno ribadisce che era possibile. Tutto ruota attorno ai giorni concitati d’inizio maggio ‘ 78, dopo la telefonata di Mario Moretti (leader delle Br) del 30 aprile alla famiglia dello statista democristiano e il comunicato Br nel quale figurava quel gerundio – «eseguendo la sentenza» – che di fatto rimandava l’esecuzione. L’iniziativa socialista aveva aperto un canale di comunicazione ed ai brigatisti era stato detto che il 7 maggio Fanfani avrebbe fatto un’importante dichiarazione di apertura. Perché tacque? Il suo silenzio fu la conseguenza di una interferenza del Pci, che, forte dei suoi voti indispensabili per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, aveva validi argomenti per condizionare le decisioni del Presidente del Senato, uno dei pretendenti più quotati? Durante le trattative per la formazione del nuovo governo, Fanfani aveva cercato di scavalcare a sinistra Moro proponendo un governo d’emergenza con la partecipazione diretta dei comunisti. Ne scrive sui suoi Diari un infastidito Andreotti e lo testimonia l’ambasciatore Usa Gardner, allarmatissimo ma poi rassicurato dall’opzione ben più moderata di Moro che tenne fuori dal governo i tre ministri tecnici indicati dal Pci, rompendo gli accordi presi da Zaccagnini, pronto a dimettersi, e dallo stesso Andreotti. Franco Piperno giocò un ruolo chiave attorno a quell’abbozzo di trattativa che però non riuscì a conseguire il suo scopo. Una lacerazione della «linea della fermezza» che ancora oggi disturba la storiografia ispirata a quelle posizioni e che a distanza di quarant’anni non rinuncia a lanciare i propri strali dietrologici, calunniando i protagonisti di quella complicata vicenda. Sul Fatto Quotidiano del 6 e del 20 aprile Miguel Gotor ha tirato in ballo nella intricata vicenda di via Gradoli la responsabilità di Franco Piperno, figura di spicco del ’ 68, tra i fondatori di Potere operaio, coinvolto nei processi 7 aprile e Metropoli. Secondo l’ex parlamentare, già membro della Commissione Moro, dietro la messa in scena della seduta spiritica che si tenne il 2 aprile 1978 a Zappolino, piccola frazione distante una trentina di chilometri da Bologna, nella casa di campagna del professor Clò, presenti Romano Prodi ed altri docenti universitari, che negli anni successivi saranno destinati ad incarichi di governo, ci sarebbe stata la “soffiata” di «un esponente di prestigio dell’area dell’eversione». Piperno avrebbe fornito il suggerimento al futuro ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, secondo alcune voci mai confermate presente anch’egli alla seduta spiritica, approfittando del fatto che fosse fondatore e rettore dell’Unical, l’università della Calabria, dove Piperno stesso era docente di fisica. In via Gradoli, situata nella zona Nord di Roma, il 18 aprile 1978 i Vigili del fuoco, chiamati per una perdita d’acqua, scoprirono una importante base delle Brigate rosse, affittata nel dicembre 1975 all’ingegner Borghi, alias Mario Moretti. La preziosa informazione – lascia intendere Gotor – sarebbe pervenuta all’ex esponente di Potop dalla proprietaria dell’appartamento di via Gradoli: i due si sarebbero conosciuti alla fine degli anni ‘ 60 per via della comune frequentazione del Cnen, il centro di ricerca nucleare di Frascati. Gotor, sostenitore della tesi che il danno d’acqua non fosse casuale, solleva ulteriori sospetti, ipotizzando che «un brigatista dissidente, un esponente dell’area dell’autonomia collaborativo con lo Stato o un agente dell’antiterrorismo» possa essere entrato nell’appartamento la mattina del 18 aprile, dopo l’uscita di Balzerani e Moretti che quella sera non sarebbe dovuto rientrare, con l’obiettivo di provare a recuperare gli scritti di Moro, sperando fossero nell’appartamento e poi provocare il danno d’acqua che fece cadere la base. Tuttavia nel corso della fantomatica seduta spiritica emerse un’indicazione molto diversa dalla strada dove qualche settimana dopo venne rinvenuta la base brigatista. Nell’appunto manoscritto, subito girato al capo della polizia Parlato, redatto da Luigi Zanda, collaboratore del ministro dell’Interno Cossiga, che il 5 aprile ricevette la segnalazione da Umberto Cavina, addetto stampa di Benigno Zaccagnini, a suo volta informato il giorno precedente da Romano Prodi di passaggio a Roma, è annotato: « Caro dottore, ecco le indicazioni di cui s’è detto: Via Monreale 28, scala D, int. 1, piano terreno, Milano; lungo la statale 74, nel piccolo tratto in provincia di Viterbo, in località Gradoli, casa isolata con cantina». Per giustificare questa incongruenza, Gotor inventa la categoria del “depistaggio a fini informativi”, attribuendo a Piperno una sofisticata strategia che mescolando vero e falso avrebbe mirato a « provocare il fallimento dell’azione Moro senza far arrestare Moretti, che era un avversario politico con una diversa prospettiva rivoluzionaria, non un nemico da tradire », per facilitare la riuscita della soluzione negoziata del sequestro nei giorni in cui il vertice socialista si era attivato in questa direzione.

Abbiamo chiesto a Franco Piperno come ci si sente ad essere raffigurato nei panni di una sorta di Cagliostro, burattinaio che tira le fila di un gioco spregiudicato.

«Penso che sia la personalità irrisolta di Gotor ad assegnarmi un ruolo del genere; non a caso dagli scrittori di libri polizieschi il Nostro viene ritenuto uno storico mentre secondo gli storici siamo in presenza di un romanziere. In ogni caso, ad essere sincero, non posso certo dire che sia il prof. Gotor ad avermi calunniato di più. Ben prima dei suoi articoli sul Fatto Quotidiano, sul finire degli anni ‘ 70 mi hanno fatto decisamente di peggio, sono stato accusato, dalla Procura di Padova e poi da quella di Roma, oltre che del delitto Moro, di ben 20 omicidi e 15 rapine; e, per non farmi mancare niente, ci si mise anche la giornalista americana Clara Sterling: in un suo libro sull’Italia di quegli anni scrisse che la Cia aveva accertato come io fossi un agente segreto comunista, educato alla guerriglia a Praga, frequentando i corsi tenuti nella capitale cecoslovacca direttamente dal Kgb».

Una spia dell’Est? Proprio tu che conoscevi i dirigenti del Kor, il Comitato di difesa degli operai polacchi?

«Già, li incontrai tutti insieme nel dicembre del 1978: Jacek Kuron, Adam Michnik e gli altri. Non a caso ci fu poi chi per compensare provò a dire che lavoravo per la Cia perché ero riparato in Canada».

Ma non ti era stato rifiutato l’ingresso quando su invito del Mit di Cambridge ti eri recato negli Usa?

«Fu quella la ragione per cui poi mi ritrovai nel Quebec, in Canada, tra i pellerossa».

Quindi smentisci di aver mai parlato con Andreatta?

«Faccio molta fatica a prendere sul serio ricostruzioni del genere. Sono arrivato all’università di Cosenza solo all’inizio del 1975, In precedenza ero docente al Politecnico di Milano. All’epoca il rettore dell’Unical era Cesare Roda, Andreatta aveva l’asciato l’università calabrese l’anno precedente; e nel 1976 venne eletto per la prima volta in Parlamento. Non ho mai avuto occasione di conoscerlo. Mi par di capire che Gotor non si sia per nulla informato prima di scrivere».

E via Gradoli? Una vecchia nota di Ansoino Andreassi, funzionario dell’Ucigos, del 6 luglio 1979 riferiva, non sulla base di documenti amministrativi accertati ma di voci provenienti da fonti riservate, originate dal Sismi e dalla questura di Genova, che avresti conosciuto fin dal 1969, al Cnen della Casaccia, Luciana Bozzi, proprietaria dell’appartamento di via Gradoli. Per tenere in piedi le sue congetture, in barba all’Ucigos, Gotor sposta addirittura la Bozzi a Frascati mentre l’informativa della polizia la colloca alla Casaccia, oltretutto il contratto fu stipulato da Moretti col marito della Bozzi, anch’egli coproprietario.

«Infatti, ho fatto la mia tesi e poi la specializzazione in fisica della fusione nucleare al Cnen di Frascati, non ho mai frequentato la Casaccia e il nome di Luciana Bozzi non mi dice assolutamente nulla».

La seconda commissione Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni, allude ad un tuo ruolo di supervisore del sequestro. Un suo consulente, il colonnello dei carabinieri Massimo Giraudo, afferma che la mattina del 16 marzo dalle finestre dell’abitazione della signora Birgit Kraatz, descritta come un’esponente del gruppo sovversivo tedesco «2 giugno», in via dei Massimi 91, avresti osservato i movimenti del commando brigatista verificando che tutto procedesse come previsto: il parcheggio delle vetture nel garage della palazzina dello Ior e il trasbordo di Moro nell’attico. Siamo al delirio?

«Anche oltre! Birgit Kraatz era una giornalista assolutamente ben introdotta nei circoli della stampa e del mondo politico romano. L’ho conosciuta nei primi anni ‘ 70 in occasione di una intervista sul movimento studentesco romano rilasciata per Der Spiegel, il giornale di cui in quegli anni era corrispondente. Niente più lontano dalla intelligenza e dalla sensibilità della signora Kraatz il ruolo di sorvegliante delle prestazioni dei brigatisti. In effetti aver tirato in ballo il nome della signora Kraatz appare l’ennesimo incredibile infortunio di questa commissione. Non solo è iscritta alla Spd dal ‘ 74, e di fatto ha curato i rapporti della socialdemocrazia tedesca con la sinistra italiana, in modo particolare col Pci, intervistando nel 1976 lo stesso Berlinguer (è citata persino nella biografia scritta da Chiara Valentini), ma è stata corrispondente per più di trent’anni oltre che di Der Spiegel, dello Stern e ZDF, ha scritto un libro intervista con Willy Brandt, pubblicato da Editori riuniti».

C’è un episodio molto importante che smentisce alla radice quanto afferma Gotor: poche settimane dopo la morte di Moro hai incontrato Mario Moretti. Perché?

«La richiesta era venuta dalle Br; l’incontro, come ho riferito alla Commissione presieduta dall’on. Pellegrino, si svolse in un appartamento del quartiere Prati».

In commissione Stragi ad una precisa domanda dicesti che ad aprire la porta era stato un maggiordomo. L’episodio suggestionò molto la fantasia dei commissari: il Presidente Pellegrino vi intravide la presenza di «inquietanti zone di contiguità» che negli anni successivi hanno alimentato la pubblicistica cospirazionista.

«Il maggiordomo con i guanti era un modo metaforico per sottolineare la qualità alto- borghese dell’appartamento».

Insomma li hai presi in giro e loro ci hanno creduto. Cosa volevano sapere le Br?

«Moretti ed i suoi avevano chiesto d’incontrarmi con urgenza per ricostruire l’insuccesso della trattativa ma anche per chiarire se ci fosse stata una nostra influenza esterna sui loro militanti provenienti da Potop. Volevano capire se la vicenda della trattativa fosse stata una nostra costruzione per orientare il sequestro. Nonostante queste premesse la discussione si concentrò subito sul silenzio di Fanfani. Volevano capire perché il presidente del Senato non parlò il 7 maggio smentendo l’impegno preso. Lì mi resi conto di quanto le Brigate rosse avessero preso sul serio quei segnali di apertura e capii che il sequestro avrebbe potuto avere un esito diverso se solo ci fosse stata quella dichiarazione annunciata».

Come sei finito in questa storia?

«In realtà all’inizio furono Scialoia e Mieli a contattarmi per conto di Livio Zanetti, che conoscevo perché l’Espresso da lui diretto aveva seguito tutto il ‘ 68. Zanetti mi fece capire che c’era una forte insistenza dei socialisti per aprire una trattativa. Fu lui a mettermi in contatto con Signorile, vice segretario del Psi che si muoveva per conto di Craxi. Il segretario non voleva esporsi direttamente, lo incontrai personalmente solo alcune settimane dopo la morte di Moro. Inizialmente ero restio a farmi coinvolgere malgrado fossi assolutamente consapevole che l’eventuale uccisione di Moro avrebbe provocato una repressione tragicamente liberticida per tutti i movimenti antagonisti di quegli anni. Per altro, il mio trasferimento in Calabria mi aveva allontanato dalla militanza politica; oltre ad insegnare, dirigevo un dipartimento universitario sicché mi restava poco o nessun tempo per l’attività politica extra- accademica. Poi, a metà aprile accadde qualcosa destinata a mutare non solo il mio umore ma la mia vita stessa: Fiora Pirri Ardizzone, allora mia moglie, venne arrestata ed accusata di aver partecipato al rapimento di Moro in via Fani ed all’uccisione degli uomini della scorta. Un testimone aveva scambiato il suo volto con quello di una donna del commando, quando in realtà quella mattina Fiora partecipava ad una assemblea universitaria a Cosenza. Di conseguenza riorganizzai da cima a fondo la mia agenda, rimandai l’impegno di “visiting professor” assunto con il Mit di Boston e mi lasciai afferrare dal dramma che, per altro, l’intero nostro Paese stava vivendo. Cosi, una settimana dopo quell’arresto, mi recai a Roma per incontrare Zanetti e poi Signorile. A maggio il direttore dell’Espresso mi chiese un articolo sulla trattativa che ebbe un destino singolare: apparso il giorno del ritrovamento del cadavere di Moro in via Caetani, dopo 5 ore fu ritirato dalle edicole e inviato al macero. Nel dicembre del 1978 ripresi e sviluppai quel testo che uscì su Pre-print col titolo «Dal terrorismo alla guerriglia»».

Quello che riprendeva il verso di Yeats, «coniugare insieme la terribile bellezza del 12 marzo del ‘ 77 per le strade di Roma con la geometrica potenza dispiegata in via Fani»?

«Sì, nel testo ragionavo cercando di spiegare perché era meglio liberare Moro. Al tempo stesso tentavo di aprire un discorso sulla lotta armata legandola al carattere insurrezionale della manifestazione del 12 marzo. Quel giorno ero di passaggio in città perché dovevo raggiungere la fiera di Lipsia, allora nella Ddr, dove avevo un appuntamento con degli armeni per acquistare un computer necessario al Dipartimento di Fisica che allora dirigevo. Per inciso la “macchina socialistica” costava all’epoca un decimo della sua analoga “capitalistica”, ma occupava uno spazio venti volte maggiore – insomma fu un viaggio inutile, salvo il fatto che per caso mi offrì l’occasione, nel pomeriggio di quel fatale giorno di marzo, di partecipare ad un vero e proprio tentativo insurrezionale. Nel centro storico di Roma, tutti i negozi e perfino i bar erano chiusi: per le strade ed i vicoli si svolgevano durissimi scontri tra manifestanti e gendarmi, scontri nei quali gli abitanti, per esempio quelli di Campo de Fiori, fraternizzavamo attivamente con i dimostranti. Ricordo un fruttivendolo che aveva riaperto il suo negozio per dare rifugio ai feriti; così come un’armeria su Lungotevere presa d’assalto e saccheggiata dalla folla in tumulto. Prima di quel pomeriggio di marzo, nei miei non brevi anni di militanza, non avevo mai partecipato o anche solo assistito ad una esperienza di ribellione sociale, per dir così, allo stato nascente. Da qui l’immagine sulla «terribile bellezza» che riprendeva gli scontri della Pasqua irlandese del 1916».

Secondo te perché Fanfani non parlò?

«Ritengo che ci fu un intervento molto forte del Pci, una pressione che fece venir meno l’impegno preso. Io penso che Fanfani avesse informato il Pci del suo intento. Non poteva fare diversamente anche per il ruolo istituzionale che rivestiva. Signorile non aveva parlato solo con Craxi ma anche con altri politici. Di sicuro ne era al corrente il Presidente della Repubblica Leone, il suo addetto militare, ovviamente i vertici socialisti e del partito democristiano. Lo sapevano in troppi perché la cosa non fosse circolata e pervenuta al Pci».

In effetti il 2 di maggio Berlinguer aveva visto Craxi e Balzamo. Durante l’incontro i socialisti spiegarono che un modo possibile per salvare la vita di Moro sarebbe stato, per esempio, la scarcerazione anche di un solo detenuto politico con problemi di salute ed in regime di carcerazione preventiva. Berlinguer era radicalmente contrario a qualsiasi concessione favorevole ai brigatisti; piuttosto si mostrava, come un commissario della polizia politica, interessato ad avere informazioni sui canali di cui si avvalevano i socialisti e che li rendevano sicuri di una possibile liberazione dell’ostaggio. In ogni caso, bisogna pur dire che il tentativo dei socialisti, nel quale fosti coinvolto e travolto, non riuscì e vinse il partito della «fermezza repubblicana», quello che aveva rimosso ogni autocritica e si mostrava disposto a sacrificare la vita di Moro. In un primo momento Fanfani si era mostrato disponibile ad intervenire pubblicamente: Signorile lo aveva incontrato per la sua posizione critica rispetto alla linea della fermezza ed aveva ricevuto rassicurazioni. Alle Br giunse questa informazione: «Fanfani ha una disponibilità ad ascoltare le richieste delle Br purché queste non comportino inaccettabili violazioni della legalità». Ad esempio: alleggerire le condizioni carcerarie, al limite della tortura, alle quali erano sottoposti migliaia di detenuti politici. La domenica invece parlò Bartolomei, credo ad Arezzo, dove pronunciò un bla bla incomprensibile e inaccettabile a livello di senso comune. Noi che eravamo della partita riuscimmo a percepire nelle sfumature di una frase, un esile messaggio. Ma non era questo il segnale atteso. Per i brigatisti che si aspettavano una dichiarazione chiara e netta quel discorso suonò come un rifiuto. Signorile ha raccontato che davanti a lui Fanfani aveva dato istruzioni telefoniche a Bartolomei su cosa dire mentre si era riservato di prendere la parola nella riunione di Direzione prevista il 9 maggio. Ma alla fine non disse nulla neanche in quella sede, basta leggere i suoi diari. La notizia del ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani arrivò dopo il suo intervento.

«Risulta anche a me. Credo che questo repentino cambio di atteggiamento riassuma il nodo politico della vicenda: Fanfani fece un passo indietro su pressione del Pci»

LE STORIE DEI 5 UOMINI UCCISI DALLE BRIGATE ROSSE.

La Peugeot 403 «famigliare» di Aldo Moro ritrovata a Roma. Pubblicato venerdì, 3 maggio 2019 da Giosuè Boetto Cohen su Corriere.it. Improvvisamente l’annuncio: un medico pugliese, Attilio Cesarano, ha scoperto in un capannone a Roma una vecchia Peugeot giardinetta. E’ di un bel blu mare, ha le targhe e i documenti originali. E’ intestata ad Aldo Moro e alla moglie Eleonora. Dall’archivio della Associated Press sbuca anche una «telefoto» che li ritrae a bordo: è il 20 aprile 1970, giorno delle nozze d’argento. Al volante c’è la signora. Così inizia la seconda vita della Peugeot 403 «familiale» acquistata il 23 gennaio 1960 - come recita il libretto di circolazione - dall’ «Onorevole Moro, residente a Bari in corso Vittorio Emanuele 20 barra A». Non è la Fiat 130 blu tallonata da una Alfetta, crivellate di colpi e trasformate in una icona del Ventesimo secolo. E nemmeno quella Renault 4 rossa, con il bagagliaio tragicamente aperto. Questa è un’auto privatissima, a otto posti, per portare a spasso una famiglia di sei persone e – magari – una governante. Quando andò in concessionaria per prenotarla Moro era deputato, segretario della DC, da poco ex ministro della Pubblica Istruzione e quasi pronto per diventare presidente del Consiglio. Decise per una delle rare 403 importate in Italia, così semplice e fuori moda da non dare proprio nell’occhio. Per questo era stata scelta. Marito e moglie d’accordo, ci si potrebbe scommettere. La memoria corre alla amata «Noretta» delle lettere dalla prigione. La donna minuta, austera, che sembrava sola contro tutti. Quella che riusciva a dire «mi scusi» se, al telefono, parlava sopra la voce al brigatista. La stessa che chiuse, senza appello, i funerali agli uomini dello Stato. E forse anche al Papa. E’ proprio lei, Eleonora, la vera padrona dell’auto. Moro praticamente non guidava. Lo ricordano in tanti e lo dice quella foto, bellissima, che racchiude lo spirito della 403. Alla guida una donna tranquilla, sorridente. E il trasportato che ammicca dall’altro sedile, con l’aria mite, un po’ altrove, con cui l’uomo della strada lo ricordava. La 403 blu visse molte primavere, con le sue tre file di sedili piene di giovani Moro e di amici, cugini, chissà. Viaggiò tra Roma e le Puglie nelle vacanze. Ma era anche la macchina per andare a fare la spesa al quartiere Prati. Poi venne la notte immane. Chissà se Noretta aveva ancora la forza di guidare, dopo quel 1978? Forse il volante passò alle figlie minori, che ancora vivevano in casa. O all’unico maschio, Giovanni, patentato da poco, ma che facilmente ambiva a qualcosa di diverso. Così la 403 cominciò a dormire sonni sempre più lunghi, posteggiata in un capannone a Monteverde, non troppo lontano da casa. Settimane di oblio che divennero mesi, quando da casa si allontanò lei, perché nessuno dei Moro abitava più là. Nel capannone si caricavano sacchi di calce e cemento, e la polvere cadde sull’azzurro mare delle fiancate, rese ciechi i vetri, spense le cromature. I nidi di rondine sulle capriate non aiutarono, mamma topo fece il nido dietro il cruscotto, i suoi piccoli impararono a rosicchiare sui pomelli del cruscotto. Il capomastro ogni tanto le dava una pulita, gonfiava le gomme, provava a far girare il motore. Quasi come se la signora Moro dovesse tornare l’indomani a riprendersela. Ma nessuno venne. I Moro si erano dimenticati della loro 403. Così un giorno, dopo l’ennesimo colpo di straccio su un sporco che sembrava indomabile, il custode decise che era ora di smetterla. Che andassero tutti alla malora. Chiuse bofonchiando il portone abbandonò l’auto al suo destino. Dopo una decina d’anni il deposito fu venduto e il nuovo proprietario vi trovò dentro quel mucchio di polvere con le ruote. Nessuno, mai, era venuto a cercarla, perché da qualche parte, lontano, in silenzio, la forte Noretta si era spenta anche lei. All’inizio del 2018 il magazzino cambiò di nuovo proprietario. E prima di traslocare, il vecchio parlò col suo medico di fiducia, Attilio Cesarano, procidano d’origine, pugliese di adozione, conterraneo di Moro. «Perché non la prende lei, dotto’? Mandarla alla monnezza, sarebbe un peccato».

Dai delitti delle Br alle trame della P2: la storia italiana negli archivi del tribunale di Milano. Nell'ufficio corpi di reato sono custoditi i volantini delle Br, i nastri con le telefonate minatorie a Giorgio Ambrosoli, la bici del terrorista Alunni e tantissimi documenti legati alle inchieste sugli anni di Piombo. Massimo Pisa il 07 luglio 2019 su La Repubblica. Il pacco 51186 è alto e largo come una risma di carta. E quella contiene, grosso modo. Volantini, appena più di un migliaio: "nr. 320 rinvenuti in data 25.4.78 alle ore 7,00 in piazza S.Babila; nr. 188 in Piazza Beccaria...". Così usava allora, con le rivendicazioni degli omicidi delle Brigate Rosse lasciate a mazzi in vari punti della città. Per dimostrare, anche in questo modo, che loro - i brigatisti - la città la controllavano e si muovevano come volevano. In quel mattino di martedì, con Milano e l'Italia appese da quaranta giorni alle sorti di Aldo Moro, l'omicidio del maresciallo Francesco Di Cataldo della Penitenziaria di San Vittore era già vecchio di cinque giorni, già dimenticato. Quei deliri con la stella a cinque punte lo additavano come "torturatore" della colonna Walter Alasia. Non era vero, lo sapevano soprattutto i detenuti. Digos, carabinieri e vigili raccolsero quei 1.025 fogli. Divennero un unico corpo di reato da conservare fino al processo. Divennero questo pacco ancora annodato con lo spago e sigillato a piombo, con l'elenco del contenuto battuto a macchina in puro "poliziottese", che dorme da quarantun'anni con migliaia di altri reperti nella stanza quattro di uno dei corridoi dell'Ufficio corpi di reato del tribunale. Due scaffali enormi, sono quelli su cui sono appoggiati i reperti degli Anni di piombo. I pezzi superstiti. Quelli non ancora reclamati da nessuno, non restituiti agli aventi diritto, non ancora consegnati a un museo, a una fondazione, alla storia. Giacciono, affidati alle metodiche cure del magistrato Alfredo Nosenzo, del funzionario Giannino Talarico e della mezza dozzina di impiegati chiamati a gestire enormi spazi e volumi di oggetti per contro del presidente del tribunale, Roberto Bichi. Questo pezzettino di archivio è quello storicamente più prezioso. Di qui si dice che sia transitato per anni l'originale della scheda di affiliazione di Silvio Berlusconi alla Loggia P2. Qui, di certo, di quell'intreccio infernale di massoneria, poteri deviati e criminalità che marchiò la storia d'Italia, sono custodite le voci. Reperto 56979: "una cassetta con nastro registrato della prima e della seconda telefonata minatoria a Enrico Cuccia il 28/ 3/ 1980; una cassetta con nastro registrato della telefonata minatoria a Giorgio Ambrosoli il 9/1/1979". L'ombra di Michele Sindona e di quel milieu atlantico e cattolico, che travolgerà la vita dell'eroe borghese e sfiorerà quella del gran capo di Mediobanca. Busta 55129: altre due telefonate di avvertimento a Cuccia e Ambrosoli, e una piantina di Milano sequestrata a William J. Aricò, il killer mafioso dell'avvocato milanese assoldato da Sindona. Plico 54746: agenda, rubrica e corrispondenza sequestrate alla Giole di Castiglion Fibocchi, la fabbrica di camicie di Licio Gelli che di quelle trame era il sommo tessitore. Pacchi numero 57055 e 57061, con le firme in calce dei giudici istruttori Giuliano Turone e Gherardo Colombo: foto e negativi portati via da Villa Wanda, sempre in quel fatidico 17 marzo 1981, il giorno in cui i vertici dello Stato compromessi con grembiuli e compassi cominciarono a tremare. E ancora, dagli armadi e dai registri originali del tribunale, catalogati a penna e con quelle antiche etichette battute a piombo, riaffiorano documenti bancari, schede, biglietti: fonti di prova che entrarono in quei processi e da allora sono in attesa di destinazione. Ma almeno, adesso, hanno un loro posto. "Per decenni - spiegano all'Ufficio - in questi corridoi e nelle stanze ogni scaffale era stracolmo di materiale lasciato lì senza nessun criterio. In alcuni ambienti non si poteva nemmeno entrare". L'idea, spiega Nosenzo, è "di ragionare tra qualche mese con Archivi e fondazioni pubbliche per capire cosa fare di questo materiale". Ritroverebbero una casa le videocassette di Mistero Buffo e delle altre rappresentazioni teatrali di Dario Fo trasmesse in tv, che qualche zelante ufficiale periodicamente registrava in caso di futura denuncia. Ritroverebbe un suo spazio la Legnano nera col cestello e "col freno posteriore rotto" (ricorda il cartellino) portata via il 13 settembre 1978 dal covo di via Negroli di " Massimo Turicchia", nome di Corrado Alunni, ex fondatore delle Br e ideatore delle Formazioni Comuniste Combattenti. Sarebbero visibili ai feticisti del genere le macchine da scrivere e i ciclostile portati via dalle varie basi del terrorismo rosso. Le valigie con gli striscioni originali che venivano appese nelle fabbriche dai fiancheggiatori: alla Breda, alla Pirelli, alla Magneti Marelli. Il 759 volantini con la rivendicazione del sequestro del generale statunitense Lee Dozier, ritrovate nel 1982 in un appartamento di via Verga. I nastri dei sequestratori di Renzo Sandrucci, le telefonate dei killer di Prima Linea. Passato remoto, vicinissimo, ancora inciso nella carne della città.

Sequestro Moro: le storie dei cinque uomini uccisi dalle Brigate Rosse. Poliziotti e carabinieri con storie simili. Cinque ritratti nell’Italia ai tempi bui del terrorismo, scrive Giovanni Belfiori il 16 marzo 2019 su  Democratica. Ci sono vittime di serie A, di serie B e anche di serie C. Quel 16 marzo 1978 i cinque uomini della scorta di Aldo Moro furono massacrati in via Fani senza pietà dai terroristi delle Brigate Rosse, ma nelle commemorazioni, nei ricordi del rapimento dello statista democristiano, rischiano di passare inosservati, quasi fossero una nota a margine. Gli stessi terroristi, oggi liberi di parlare, di rilasciare interviste dalle loro case, non fanno menzione di quei cinque uomini trucidati, come se si fosse trattato non di esseri umani, ma di oggetti da eliminare sul percorso della ‘rivoluzione’. Claudio Magris, in un editoriale sul 40esimo anniversario agguato di via Fani intitolato significativamente “Le vittime di terza categoria”, scriveva: «I tre poliziotti e i due carabinieri scannati, e come loro innumerevoli uomini e donne senza nome bestialmente massacrati, non trovano posto nella mente, nel cuore, nella memoria, quasi non fossero uomini come chi ha un nome o un ruolo un po` più noti. Ogni tanto si ricordano quegli agenti ma assai flebilmente; ad esempio non ho sentito alcuna loro menzione in una delle recenti trasmissioni televisive su quegli eventi. Restano vittime di terza classe».

Agguato di via Fani: gli uomini della scorta di Aldo Moro. La scorta armata, composta da cinque agenti dei famigerati Corpi Speciali, è stata completamente annientata (Dal comunicato n. 1 delle Brigate Rosse, 18 marzo 1978)

Chi sono, dunque, i cinque “famigerati”, uccisi dal commando delle Brigate Rosseche in via Fani a Roma, aveva rapito Aldo Moro? Chi ricorda il Pasolini della poesia sui fatti di Valle Giulia, rammenta, con una interpretazione assai parziale, soltanto i versi in cui il poeta dichiara di ‘simpatizzare’ coi poliziotti. Ma poco più avanti, nella stessa lirica, c’è una descrizione forte, quasi icastica e sensoriale di quegli uomini in divisa: “E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio, fureria e popolo”.

Rancio, fureria e popolo: sono loro. Il più ‘vecchio’ degli uomini di scorta ha 52 anni, il più giovane 24: nessuno torna a casa, quel mattino di quarant’anni fa. Uno viene da una famiglia contadina della Campania: il fratello lavorava nei campi quando apprende dalla radiolina la notizia dell’attentato, un altro vive in caserma (lo stipendio di un agente non consentiva molto di più) e aspetta di essere promosso prima di sposarsi, un altro ancora era migrato dalle campagne molisane. Non sono solo “divise”, sono uomini che hanno famiglia, figli, genitori, fratelli. Fanno un lavoro difficile e hanno una paga da fame. Sono loro i figli del popolo, uccisi ‘in nome del popolo’ da assassini che di popolare non hanno nulla.

La scorta di Aldo Moro. Poliziotti e carabinieri della scorta di Moro: uomini con storie simili, un magro reddito familiare e spesso la miseria, la volontà di trovare un lavoro, la necessità di emigrare,  la divisa indossata con l’orgoglio di chi serve lo Stato. E poi i figli, la vita quotidiana fra turni massacrati di lavoro e la voglia di stare in famiglia. Cinque storie dell’Italia ai tempi bui del terrorismo, cinque storie di uomini normali ammazzati in nome della ‘rivoluzione’. E oggi i ricordi di chi è rimasto: le moglie, i figli, i genitori. Uno di loro, Giovanni Ricci, ha avuto la determinazione di incontrare «chi mi aveva fatto del male». Nel 2012 guarda negli occhi Morucci, Bonisoli, Faranda. Lo ha raccontato al giornalista di Repubblica Tv Concetto Vecchio. Ha detto: non odio più da quanto li ho visti. Che cosa ha visto Giovanni Ricci? Ha visto persone normali, davanti a lui, altri esseri umani. Persone normali: il male non ha un cartellino di riconoscimento, la “banalità del male” del resto è la cosa che, come essere umani, più ci spaventa e ci sconcerta. Perché avete voluto fare questo? ha chiesto Giovanni Ricci agli assassini del padre.

Oreste Leonardi, 52 anni: il “nemico del popolo” che difese Moro col suo corpo. Il maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi era nato nel 1926 a Torino. Mentre frequenta il ginnasio, rimane orfano del padre che muore in guerra. Dopo aver terminato gli studi, si arruola nell’Arma. Lavora in diverse sedi, poi è inviato a Viterbo come istruttore alla Scuola Sabotatori del Centro Militare di Paracadutismo. A una festa di carnevale conosce una ragazza, Ileana Lattanzi che sposa dopo neanche un anno di fidanzamento. Nel 1963 è chiamato a far parte della scorta di Aldo Moro. Leonardi, detto Judo, era il caposcorta e come tale quasi un’ombra di Moro, la sua guardia del corpo più fedele. Quel 16 marzo 1978 si trova nel sedile anteriore della macchina del presidente, vicino a Domenico Ricci. È Leonardi a compiere il tentativo estremo di proteggere Moro con il proprio corpo. Lo ammazzano a 52 anni. Con la la moglie, lascia anche due figli Sandro e Cinzia di 17 e 18 anni. Ha raccontato Ileana una decina di anni fa: «La nostra disperazione è derivata anche dal fatto che durante tutti questi anni ci siamo trovati soli. Lo Stato non ci ha messo a disposizione psicologi, come si usa fare adesso».

Domenico Ricci, 44 anni: il “nemico del popolo” che salutò il suo bambino. A 44 anni è assassinato Domenico Ricci, appuntato dei carabinieri. Era marchigiano, nato a San Paolo di Jesi, in provincia di Ancona, nel 1934. Ottimo motociclista, entra a far parte della scorta di Moro alla fine degli anni Cinquanta. Diviene il suo autista di fiducia e quel 16 marzo 1978 si trova al posto di guida della Fiat 130 su cui viaggiava il presidente della DC. Gli contano sette proiettili sparati alla testa. A casa lascia la moglie Maria e due bambini. Uno di loro si chiama Giovanni ed ha 11 anni quando assassinano suo padre. Anni fa dichiarò al Corriere della Sera: «Non vorrei che fossero solo i brigatisti a scrivere la storia. Perché mio padre era un carabiniere, ma dentro la divisa c’era un uomo che la sera prima di essere ammazzato ha salutato il suo bambino, cioè io, con una carezza e un complimento per la prima partita di calcio giocata coi compagni di scuola». In una recente intervista a Repubblica Tv ha detto: «Non dico mai che si è sacrificato né che è un eroe. Non si è sacrificato, perché l’adorava quel lavoro, era tutta la sua vita. Mio papà è un eroe del quotidiano, così come tanti suoi colleghi, ma così come tante di quelle persone che si alzano la mattina alle 4 per andare a lavorare in un panificio o nelle fabbriche».

Francesco Zizzi, 30 anni: il “nemico del popolo” che progettava le nozze. Quel 16 marzo Francesco Zizzi è al suo primo giorno di scorta al servizio dell’onorevole Moro. Lui, nato a Fasano, in provincia di Brindisi, nel 1948, era entrato in Polizia nel 1972. Quattro anni dopo aveva vinto il concorso per la scuola allievi sottufficiali di Nettuno. All’epoca Francesco vive, come molti altri poliziotti giovani, nella caserma Cimarra, di via Panisperna. Dopo aver ottenuto i gradi di vice brigadiere, inizia a progettare le nozze con la fidanzata Valeria.

Si trova nell’Alfetta bianca che precede la macchina di Moro, seduto al posto del passeggero. I brigatisti gli sparano, ma non muore subito. Il cuore si fermerà all’ospedale Gemelli di Roma. Aveva trent’anni e una grande passione: amava cantare e si esibiva con la chitarra. La sorella Adriana, al sito di informazione locale Osservatoriooggi.it racconta che quel 16 marzo era «un giorno qualunque per me. Ero un’insegnante ma quel giorno non ero andata a scuola. Stavo svolgendo normali mansioni domestiche quando venne a trovarmi mio suocero che mi spinse ad accendere la tv in quanto raccontava di un grave evento accaduto a Roma. Appresi la notizia così, dalla tv, in modo brusco e con un’aspirapolvere in mano. E poi la nostra vita è cambiata». Anni fa aveva detto: ««Non piango mai per la morte di mio fratello in presenza di altri e a maggior ragione con mia figlia. Lei voleva sapere, e capire. Le ho raccontato ma in maniera pacifica senza disturbare la sua coscienza. La mia è stata già abbastanza disturbata».

Raffaele Iozzino, 25 anni: il “nemico del popolo” emigrato per lavoro. L’unico che riesce ad uscire dall’auto, tentando la difesa, è la guardia Raffaele Iozzino. I terroristi lo finiscono a terra sparandogli in fronte. Non aveva ancora compiuto i 25 anni. Raffaele era nato in provincia di Napoli, a Casola, nel 1953, in una modesta famiglia contadina. Raffaele per lavorare deve emigrare. Nel 1971 si arruola nella Pubblica Sicurezza, frequenta la scuola della Polizia di Alessandria e viene poi aggregato al Viminale e comandato alla scorta di Aldo Moro. «Lui per non metterci preoccupazione, non ci diceva nulla dei pericoli – ha raccontato il fratello Ciro al Corriere Tv – io ero tra i campi ad aiutare mio padre avevo la radiolina accesa quando, purtroppo, interruppero le trasmissioni per dare la notizia del sequestro».

Giulio Rivera, 23 anni: il “nemico del popolo” figlio di contadini. Il più giovane è il poliziotto Giulio Rivera. Giulio guida la macchina che precede quella di Moro. I brigatisti lo crivellano con otto colpi di pistola. Era nato nel 1954 a Guglionesi, in Molise, in provincia di Campobasso. I genitori e i fratelli lavorano la terra. La sorella Carmela: «Se solo chiudo gli occhi e lo rivedo in quella bara…non è piacevole. A casa non ho una sua foto in divisa: non riesco a sopportarlo».

IL MEMORIALE DI MORO.

Gianni Barbacetto per il “Fatto quotidiano” il 25 novembre 2019. "Uno scandalo veramente senza fine". È il caso Moro, secondo Sergio Flamigni, ex senatore e infaticabile ricercatore che da anni indaga sulla P2 , sul terrorismo italiano, sul sequestro del presidente della Dc. Il suo ultimo lavoro, Rapporto sul caso Moro (Kaos edizioni), presenta il suo contributo ai lavori della seconda Commissione parlamentare d' inchiesta sul sequestro di Aldo Moro (2014-2017). Ma rende pubblica anche una denuncia secca per come il presidente della Commissione, il Pd Giuseppe Fioroni (preferito al più esperto Miguel Gotor), ha condotto i lavori. "In modo autocratico e disordinato", "abusando della secretazione", lavorando "quasi solo attorno all'agguato di via Fani, senza affrontare il nodo del 18 aprile, ossia la scoperta del covo di via Gradoli e il falso comunicato del Lago della Duchessa". Risultato finale: "Mantenere il delitto Moro un enigma irrisolto". Eppure alcuni elementi raccolti dalla Commissione sono riusciti a confermare "che la verità di Stato sul delitto Moro - confezionata dalla Dc di Francesco Cossiga insieme agli ex Br Valerio Morucci e Mario Moretti e avallata dalla magistratura romana - è una colossale menzogna". Flamigni segnala "tre dati di fatto che sbugiardano quella versione dall' inizio (strage di via Fani) alla fine (uccisione di Moro)".

Il primo dato accertato è che subito dopo la strage di via Fani, la mattina del 16 marzo 1978, i terroristi delle Brigate rosse si sono rifugiati con l'ostaggio in uno stabile di via Massimi 91 di proprietà dello Ior (la banca del Vaticano), su cui non è mai stato fatto alcun approfondimento. Non ci sono stati - come raccontato "dalla menzognera versione di Stato" - trasbordi del rapito in piazza Madonna del Cenacolo; non c' è stata una tappa successiva nel sotterraneo del grande magazzino Standa dei Colli portuensi; e non c' è stato l' approdo finale nel covo-prigione di via Montalcini.

Il secondo dato accertato dalla Commissione è che "sono una sequela di menzogne" anche il luogo e le modalità dell'uccisione del presidente della Dc raccontate dai brigatisti. Secondo la loro versione, Aldo Moro sarebbe stato ammazzato nel box auto di via Montalcini, nel baule della Renault rossa, con 11 colpi sparati alle 6-7 del mattino. Con successivo trasporto del cadavere per alcuni chilometri, da via Montalcini fino in via Caetani, al centro di Roma. Falso, secondo Flamigni: "Le vecchie e le nuove perizie hanno definito improbabile il luogo, ben diverse le modalità, e falso l' orario del delitto indicato dalla versione brigatista avallata dalla magistratura romana".

Il terzo dato di fatto è che la "verità ufficiale" sulla prigionia e sull' uccisione di Moro in via Montalcini (quella del "memoriale Morucci") è stata confezionata in carcere dal brigatista dissociato Valerio Morucci con la regia del Sisde, il servizio segreto del Viminale, con "la fattiva collaborazione della Dc cossighiana". "Il sequestro del presidente della Dc è rimasto un delitto senza verità", scrive Flamigni. "Infatti a distanza di più di quarant' anni non c' è alcuna certezza sul luogo (o i luoghi) dove Moro fu tenuto segregato per quasi due mesi, né si sa chi, come e perché lo abbia ucciso". Secondo Flamigni, "è certo che alla strage di via Fani partecipò un tiratore scelto". Ne parla anche uno dei testimoni oculari, il benzinaio Pietro Lalli, pratico di armi: raccontò di "aver visto sparare un esperto e conoscitore dell'arma in quanto con la destra la impugnava, e [teneva] la sinistra guantata sopra la canna in modo che questa non si impennasse".

Per scoprire gli eventuali professionisti in via Fani, "la Commissione avrebbe dovuto occuparsi dell' aereo libico, diretto a Ginevra, che nel tardo pomeriggio del 15 marzo 1978 (vigilia della strage di via Fani) atterrò invece a Fiumicino con quattro persone a bordo, e che ripartì l' indomani mattina alle ore 10,05 (un' ora dopo la strage) alla volta di Parigi. Un volo fortemente sospetto di avere trasportato uno o più killer di una particolare struttura di addestramento e supporto per organizzazioni terroristiche formata a Tripoli (Libia) dagli americani Edwin P. Wilson e Frank Terpil, entrambi ex agenti della Cia". Flamigni segnala come "episodica eccezione" al "quarantennale disastro giudiziario relativo al delitto Moro" il lavoro del procuratore generale di Roma Luigi Ciampoli, che avocò un' indagine della Procura guidata da Giuseppe Pignatone. La requisitoria di Ciampoli dell' 11 novembre 2014 "ha confutato la versione di Stato del duo Morucci-Moretti sulla dinamica dell' agguato e della strage. E non ha mancato di menzionare la 'protratta inerzia' del pubblico ministero romano che lo aveva indotto a esercitare il potere di avocazione". La "protratta inerzia" ha riguardato anche la figura e il ruolo dell' americano Steve Pieczenik (insediato al Viminale per conto del Dipartimento di Stato Usa durante il sequestro Moro). Venne mandato a Roma da Washington - secondo Ciampoli - per quella che era una vera e propria operazione di "guerra psicologica" con tre obiettivi: garantire l' uccisione dell' ostaggio; recuperare le registrazioni degli interrogatori e degli scritti di Moro; ottenere il silenzio dei terroristi. Ciampoli ha riferito anche di aver indagato sulla presenza in via Fani di due uomini dei servizi segreti, a bordo di una moto Honda, al comando del colonnello Camillo Guglielmi. E si è detto convinto che "in via Fani vi fosse la presenza anche di servizi segreti di altri Paesi interessati, se non a determinare un processo di destabilizzazione dello Stato italiano, quantomeno a creare del caos". È stata secretata l'audizione in seduta segreta del 29 luglio 2015 di Luca Palamara, sostituto procuratore a Roma e membro del Consiglio superiore della magistratura: riguardava l' interrogatorio di Pieczenik svolto per rogatoria da Palamara il 27 maggio 2014. "Da allora", commenta Flamigni, "la posizione giudiziaria di Steve Pieczenik si è inabissata, col suo carico di segretezza, nel porto delle nebbie".

Maria Antonietta Calabrò per il “Fatto quotidiano” il 26 novembre 2019.

La STASI, il potente servizio segreto della defunta Repubblica democratica tedesca, in un appunto dell' 8 giugno 1978, pubblico dal 2014, metteva in evidenza le somiglianze dell'intera azione brigatista con la notissima vicenda del rapimento dell' industriale Hanns-Martin Schleyer, compiuta dalla RAF (Rote Armeee Fraktion) alla fine del 1977, e segnalava una possibile "prigione del popolo" vicina al luogo del sequestro, via Fani.

La STASI era particolarmente ben informata visto che, secondo il suo leggendario capo Markus Wolf, la RAF (che oggi sappiamo essere stata presente con almeno due terroristi sulla scena di via Fani), era nelle sue mani. Se oggi questa "prigione" - la prima e più importante - è stata "scoperta", si deve ai lavori parlamentari della scorsa legislatura. Era in via Massimi 91. Ne parlo in più capitoli del libro che ho scritto a quattro mani con Giuseppe Fioroni, Moro, il caso non è chiuso, la cui seconda edizione è stata pubblicata in occasione del trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. I riscontri sono stati trovati negli atti desecretati a partire dal 2014, e hanno portato a individuare questa prigione in un miniappartamento ricavato nell'attico della palazzina B di via Massimi 91, di proprietà allora dello IOR , la cosiddetta banca vaticana. Un attico che ha un' altra caratteristica: era allora sicuramente l' appartamento più alto di Roma. Quindi vista libera, nessun occhio indiscreto e la possibilità per Moro di poter stare all'aria aperta e di muoversi (tanto che il suo tono muscolare era buono e quindi incompatibile con una lunga detenzione su una brandina in via Montalcini). Oggi sappiamo che una "fonte riservata", già il giorno successivo al sequestro, il 17 marzo 1978, aveva avvertito il comandante della GdF Raffaele Giudice, che "le 128 dei brigatisti sarebbero state parcheggiate in un box o garage nelle immediate vicinanze di via Licinio Calvo", presso una base situata a un piano elevato, con accesso dal garage mediante ascensore, una tipologia di edilizia residenziale signorile e moderna. Grazie alla collaborazione del Comando della GdF, sono stati acquisiti dalla Commissione Moro, presieduta da Fioroni, tutti i documenti che riguardavano la localizzazione di questo covo-prigione. Le palazzine erano gestite dal padre di don Antonio (che le Br scelsero come interlocutore e mediatore con la famiglia Moro), Luigi Mennini, all' epoca ai vertici dello IOR . Gli accertamenti sviluppati dalla Commissione Moro 2, a partire dal 2015 hanno dimostrato che mai, dal 1978 a oggi, era stato svolto un serio lavoro investigativo sui condomini di via Massimi 91. Un miniappartamento nell' attico della Palazzina B Nel complesso di via Massimi 91, tra il 1977 e il 1978, furono fatte modifiche che sono state oggetto di recenti approfondimenti. Nell' attico della Palazzina B fu realizzata una camera compartimentata, costruita sul terrazzo e appoggiata a uno dei muri perimetrali. Situata nella zona di servizio, la stanza poteva ospitare un eventuale soggetto temporaneamente custodito nella "cameretta" con gli spazi e i servizi di un vero e proprio miniappartamento. E ciò combacia con quanto descritto in un appunto del 28 settembre 1979 dal generale Grassini (Sisde), in cui fa riferimento a un' intercettazione ambientale di una conversazione tra detenuti, "uno dei quali di alto livello terroristico": "Non gli hanno mai messo le mani addosso", "Non gli è stato torto un capello"; Moro otteneva tutto ciò di cui "aveva bisogno, si lavava anche quattro volte al giorno, si faceva la doccia, mangiava bene, se voleva scrivere scriveva []". Si torna sempre sul luogo del delitto Le indagini compiute tra il 2014 e il 2017 hanno consentito di identificare per la prima volta due persone, allora conviventi in via Massimi 91, hanno esplicitamente ammesso di aver ospitato per alcune settimane, nell' autunno 1978, Prospero Gallinari il carceriere di Moro in un'abitazione sita in quello stesso condominio. Non è un caso se Gallinari entrò in quella abitazione in un periodo in cui la caduta della base di via Monte Nevoso a Milano e di altri covi brigatisti dovette indurre a cercare sistemazioni più sicure per il carceriere di Moro. All’interno del complesso di via Massimi 91, oltre quella degli alti prelati vaticani (tra cui Marcinkus) , la Commissione Moro 2 ha riscontrato altre presenze. Vi abitava la giornalista tedesca Birgit Kraatz, corrispondente in Italia dei periodici tedeschi Der Spiegel e Stern, a quel tempo legata a Franco Piperno, il leader di Autonomia Operaia. Nella palazzina c' era poi la sede operativa di una società statunitense, la Tumpane Company (TumCo), con sede legale negli Stati Uniti e domicilio fiscale proprio in via Massimi 91. Ha cessato le proprie attività nel 1982, ma dal 1969 forniva assistenza alla presenza Nato e statunitense in Turchia, ed esercitava anche attività di intelligence per l'organismo informativo militare statunitense. Vivevano o lavoravano in via Massimi 91 anche diversi personaggi legati alla finanza e ai traffici tra Italia, Libia e Medio Oriente. Come Omar Yahia che mise in contatto con il Sismi la fonte Damiano, particolarmente informata sulle dinamiche terroristiche palestinesi. Il rapimento e l'omicidio di Aldo Moro, quindi non appaiono come una vicenda puramente interna all' eversione di sinistra, ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale, che i brigatisti hanno sempre negato. Roma a quei tempi, come Berlino, era occidentale per tre quarti e orientale per un quarto. Era in via Massimi 91 il Checkpoint Charlie della capitale italiana? Tutti gli atti e la documentazione raccolti dalla Commissione Moro 2 sono stati desecretati a eccezione degli atti prodotti dai magistrati o dagli ufficiali di Polizia giudiziaria consulenti della Commissione che hanno esplicitamente chiesto di mantenere la documentazione segreta, in quanto si tratta di indagini ancora in corso di approfondimento. Infatti "il caso non è chiuso".

Aldo Moro: “Il giorno di Piazza Fontana il Pci mi consigliò di non tornare a Roma”. Mentre si avvicina il cinquantenario della strage milanese, ecco quel che nel 1978 il leader Dc rivelava nel memoriale consegnato alle Brigate Rosse. Maurizio Tortorella il 20 novembre 2019 su Panorama. Manca meno di un mese al cupo anniversario della strage di Piazza Fontana, con i suoi 17 poveri morti causati dai candelotti di gelignite piazzati dai neonazisti di Ordine Nuovo il 12 dicembre 1969. Mentre stanno per partire celebrazioni e manifestazioni per il cinquantenario della prima grande strage italiana, va ricordato un particolare importante, ma del tutto ignorato dalle cronache di questi ultimi anni. E cioè che anche Aldo Moro, che nel 1969 è ministro degli Esteri del governo Rumor, e quel 12 dicembre si trova a Parigi, scrive di piazza Fontana. E si convince presto che sia una strage “nera”. Moro lo dichiara con estrema chiarezza nel memoriale che affida alle Brigate Rosse durante la sua prigionia del marzo-maggio 1978: “Personalmente ed intuitivamente”, annota il presidente del Consiglio, poche settimane prima di essere ucciso dai suoi carcerieri, “io non ebbi mai dubbi e continuai a ritenere (…) che questi e altri fatti che si andavano sgranando fossero di chiara matrice di destra e avessero l’obiettivo di scatenare un’offensiva di terrore indiscriminato (…) allo scopo di bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, a una gestione moderata del potere”. Poco più in là, sempre nel suo memoriale, Moro offre alle Br una rivelazione interessante, che dimostra come già nel dicembre 1969 gli stessi potenti apparati d’intelligence del Partito comunista italiano avessero presente il rischio di una svolta autoritaria collegata alla bomba di Milano. Moro scrive che “Tullio Ancora, un alto funzionario della Camera dei Deputati e da tempo mio normale organo d'informazione e di collegamento con il Partito comunista, mi telefonò in ambasciata a Parigi, per dirmi con qualche circonlocuzione che non ci si vedeva chiaro e che i suoi amici (cioè proprio i comunisti) consigliavano qualche accorgimento sull'ora di partenza, sul percorso, sull'arrivo e sul trasferimento di ritorno. (…) Io ritenni, poiché ne avevo la possibilità, di adottare le consigliate precauzioni e rientrai a Roma non privo di apprensione”. Moro, comunque, ha una certezza: esistono centrali dell’intelligence straniera che hanno interferito nella strage. Nel memoriale, il prigioniero indica i due regimi di destra che nel 1969 sono al potere in Spagna e Grecia, poi aggiunge una frase sibillina: “Ci si può domandare” scrive “se gli appoggi venivano solo da quella parte o se altri servizi segreti del mondo occidentale vi fossero comunque implicati”. È una lettura interessante, che non andrebbe sottovalutata. Di certo, va conosciuta.

Storia d'Italia. Il memoriale che finalmente ci restituisce il vero Aldo Moro. Il documento, scritto a mano dal prigioniero durante il sequestro nel 1978, da sempre considerato la chiave dei cinquantacinque giorni più oscuri della Repubblica, approda a una nuova edizione critica. Che riconsegna allo Statista ucciso il suo tempo e la sua scrittura. Marco Damilano il 15 novembre 2019 su L'Espresso. La scrittura e il tempo. Erano queste le uniche armi, fragili, su cui poteva contare l’uomo di Stato spogliato del suo potere, diventato prigioniero, «nel cuore del terrore», come lo immaginò Italo Calvino, nelle mani dei suoi carcerieri e delle forze esterne al covo che si muovevano per condizionare gli esiti del sequestro di cui sapeva, lui soltanto, decifrare i fili invisibili. Scrivere per prendere tempo, come in una favola antica, e prendere tempo per scrivere, come in una lenta caduta in cui si sono avvinghiati, una volta per tutte, in un solo destino, la storia della Repubblica e il dramma di una persona. «Saper leggere il libro del mondo, con parole cangianti e nessuna scrittura, nei sentieri costretti in un palmo di mano, i segreti che fanno paura», è il testo di una canzone di Fabrizio De André, che viene in mente recuperando oggi, finalmente ricomposte con rigore scientifico, con dedizione e con umanità, le parole di Aldo Moro nel memoriale consegnato alle Brigate rosse più di quarant’anni fa, durante i 55 giorni del sequestro, dal 16 marzo 1978, il giorno del rapimento a Roma in via Mario Fani e della strage dei cinque agenti della scorta, al 9 maggio, quando il cadavere del presidente della Democrazia cristiana fu ritrovato nel bagagliaio di una Renault rossa in via Michelangelo Caetani. Il cosiddetto Memoriale di Moro fu scoperto in forma dattiloscritta e parziale nell’ottobre 1978, in un covo delle Br a Milano, in via Montenevoso, e poi, dodici anni dopo, nel 1990, rispuntò da un’intercapedine dello stesso appartamento in forma autografa e fotocopiata, dando il via a una serie infinita di congetture. È considerato una delle chiavi possibili dei misteri del caso Moro, i «segreti che fanno paura», quelli che il prigioniero minacciava di svelare, quelli legati al possesso del manoscritto originale che nel corso dei decenni avrebbe giustificato altre guerre di potere e il sospetto di altri morti e altro sangue. Oggi, a distanza di più di quarant’anni, il Memoriale viene pubblicato dalla direzione generale Archivi del ministero dei Beni culturali e dall’archivio di Stato di Roma in una nuova edizione critica, grazie al lavoro di cinque anni di un gruppo di studiosi, coordinati da Michele Di Sivo, vicedirettore dell’Archivio di Stato di Roma, esperto di fonti giudiziarie: gli storici Francesco Biscione e Miguel Gotor e l’ex senatore Sergio Flamigni, che in passato del memoriale hanno curato edizioni e pubblicazioni, Ilaria Moroni, direttrice dell’archivio Flamigni che conserva le carte personali dell’uomo politico, la grafologa Antonella Padova, l’archivista Stefano Twardzik. La storia, la filologia, la freddezza dell’analisi per un testo rovente consentono il passaggio fondamentale, definitivo, per la comprensione di quanto accadde nel 1978, nella vicenda spartiacque della nostra storia.

La conclusione in cui Moro immagina vicina la sua liberazione. «Il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro ruotano attorno a una sola azione dell’ostaggio: il suo scrivere», afferma Di Sivo nell’introduzione. Le lettere, pensate dall’ostaggio per comunicare con l’esterno, utilizzate dai terroristi come arma di pressione, rese pubbliche o tenute segrete ovvero mai consegnate. E il Memoriale, fino ad ora considerato come il testo con cui Moro rispondeva alle domande dei suoi carcerieri, nel grottesco “processo del popolo” annunciato dalle Br nei loro comunicati: i 239 fogli ritrovati in fotocopia in via Montenevoso nel 1990, parte di un corpus di documenti più ampio, 420 fogli tra lettere e biglietti mai consegnati. Ricostruire il testo, in fotocopie rovinate e per di più mutilate dai prelievi della polizia scientifica, tondini conservati in bustine, come coriandoli. Ricostruire le modalità di stesura del prigioniero e le condizioni in cui Moro scriveva. «Ricostruire l’elaborazione da cui le scritture di Moro furono originate e il loro disporsi nel tempo, riconoscere il testo più prossimo alle intenzioni di un autore inquisito e condizionato da pieno dominio e da totale cattività, accostarsi alla tortuosa morfologia di questa fonte sono stati i nostri obiettivi», spiega Di Sivo. La grafologa Antonella Padova rivela che nel 1970 Moro si era rivolto a un medico psico-grafologo, Tonino Bellato, per risolvere un problema pratico, solo in apparenza banale: i suoi più stretti collaboratori non riuscivano a decifrare la sua scrittura, un impaccio non da poco perché Moro usava buttare giù a mano i discorsi e gli articoli, per poi arrivare alla stesura definitiva dopo una serie infinita di correzioni, integrazioni, cancellature, ricopiature. Tra i testi presi a paragone c’è l’intervista che il nostro Guido Quaranta gli fece nell’agosto 1972 per Panorama, dove la grafia ordinatissima di Quaranta convive sullo stesso foglio con l’appunto del leader politico: «Ho raggruppato le domande, collegando quelle affini. I numeri a margine sono quelli delle mie risposte, che seguono, mi pare, un ordine logico. Ho messo “no” per le domande cui non intendo rispondere. L’intervista è già lunghissima». Una notazione preziosa perché per gli studiosi fu lo stesso metodo utilizzato da Moro per rispondere ai suoi carcerieri. Raggruppare, ricopiare, riscrivere. Un lavoro meticoloso che ora consente di dare una risposta finale alla questione dell’autenticità degli scritti e della possibilità che Moro fosse stato drogato o costretto a scrivere messaggi non suoi. Paragonati (in modo emozionante) con l’ultima nota a mano da uomo libero, la firma del libretto del professore universitario con l’argomento della lezione (15 marzo 1978: La recidiva. All’agguato di via Fani mancavano meno di ventiquattr’ore, le caselle delle lezioni numero 41 e 42 del professor Moro docente di Istituzioni di diritto e procedura penale resteranno per sempre vuote), i fogli dalla prigionia portano a osservazioni molto lontane da quelle della grafologa Giulia Conte Micheli che giudicò la grafia di Moro «abulica, passiva, inerte», segno di «uno stato depressivo di angoscia interiore». Moro per primo aveva intuito di essere finito in una trappola nella trappola: se la sua scrittura fosse apparsa nervosa lo avrebbero fatto passare per un pazzo incapace di ragionare, se troppo ordinata come il diligente copista di testi scritti da altri. Protestava nelle sue lettere con i suoi compagni di partito: «Scrivo con il mio stile, per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio». E ancora: «Moro insomma non è Moro... Per qualcuno la ragione di dubbio è nella calligrafia, incerta, tremolante, con un’oscillante tenuta delle righe. Il rilievo è ridicolo, se non provocatorio. Pensa qualcuno che io mi trovi in un comodo e attrezzato ufficio ministeriale o di partito? Io sono, sia ben chiaro un prigioniero politico ed accetto senza la minima riserva, senza né pensiero, né un gesto di impazienza la mia condizione. Pretendere però in queste circostanze grafie cristalline e ordinate e magari lo sforzo di una copiatura, significa essere fuori della realtà delle cose». «Lo studio dei comportamenti grafomotori consente di restituire ad Aldo Moro non solo l’autografia ma anche la paternità dell’impianto generale» del Memoriale, arrivano a dire gli studiosi. Sono di Moro i brani, le correzioni, l’ordine delle domande e delle risposte. Sua l’organizzazione interna del discorso. Sua, e non dei carcerieri, la struttura del Memoriale. Ricostruita la cronologia del testo si arriva ad altre due conclusioni decisive. La prima: i rinvii interni al testo trovano la loro sistemazione, come un enigma che si scioglie. E l’attività grafomotoria del prigioniero evidenzia il cambiamento del piano d’appoggio su cui scrivere, orizzontale nei primi testi, e dunque il mutamento logistico delle condizione di scrittura nella seconda fase del sequestro. Il testo del Memoriale appare ora nella sua integrità, anche con correzioni notevoli. «Lei sbaglia da sempre e sbaglierà sempre perché costituzionalmente chiamato all’errore. E l’errore è, in fondo, senza cattiveria», sembrava aver scritto Moro del capo doroteo Flaminio Piccoli, suo avversario interno nella Dc. Ma ora la frase diventa: «E l’errore è, in fondo, sempre cattiveria». Che non è la stessa cosa. Il Memoriale consente di penetrare nella scrittura di Moro, nella sua materialità. Le penne utilizzate, la pressione sulla carta, la povera carta straccia di cui sono rimaste le fotocopie che odorano di ciano. Entrare nel covo delle Br. E ancora di più, entrare nell’interiorità, nello stato d’animo di Moro. L’ottimismo e il pessimismo, le salite, le discese, il precipitare delle speranze, il senso di morte e l’attesa della liberazione che è evidente in una pagina drammatica: «Il periodo, abbastanza lungo, che ho passato come prigioniero politico delle Brigate Rosse, è stato naturalmente duro, com’è nella natura delle cose, e come tale educativo». In quelle stesse righe Moro spiega di aver avuto il tempo di valutare «gli avvenimenti, spesso così tumultuosi della vita politica e sociale», il loro ritmo, il loro ordine. «Motivi critici, diffusi ed inquietanti, che per un istante avevano attraversato la mente, si ripresentavano, nelle nuove circostanze, con una efficacia di persuasione di gran lunga maggiore che per il passato. Ne derivava un’inquietudine difficile da placare e si faceva avanti la spinta ad un riesame globale e sereno della propria esperienza, oltre che umana, sociale e politica». Si può così rileggere di seguito il testo del Memoriale carico di rimandi, come le uniche pagine diffuse durante i 55 giorni del sequestro, quelle relative al ruolo di Paolo Emilio Taviani, l’ex ministro democristiano che nel 1978 aveva un ruolo secondario ma che invece da ministro della Difesa, nel 1956, aveva fondato la struttura Stay-behind Gladio per operazione di difesa e anti-guerriglia in caso di invasione sovietica, ma di questo si venne a sapere soltanto all’inizio degli anni Novanta, proprio mentre il memoriale di Moro riemergeva dall’intercapedine di via Montenevoso, resistente come il muro di Berlino. E trovare in quel memoriale la spiegazione dell’ordine politico che sarebbe arrivato negli anni successivi, in un’epoca distante dalla sua. Quell’uomo che scriveva in condizioni di prigionia, a rischio della vita, aveva visto molte cose del futuro. La fine della rappresentanza dei partiti e l’emergere di un’organizzazione leggera, nella politica interna e internazionale. L’impossibilità dei partiti ad auto-riformarsi che avrebbe portato a scaricare la colpa dell’impasse sulle istituzioni e sulla Costituzione: «Ogni volta che c’è una difficoltà politica obiettiva, sembra sbucare lo strumento elettorale che dovrebbe permettere di superarla... in generale si può dire che si tratta di false soluzioni di reali problemi politici e che è opportuno non farsi mai delle illusioni. Non si accomodano con strumenti artificiosi situazioni obiettivamente contorte». Intuiva «il nerbo della nuova economia, assunto come condizione di efficienza, l’imprenditorialità privata ed anche pubblica con opportuna divisione del lavoro», la riduzione dell’Europa a «dimensione regionale» operata dagli Stati Uniti. Sfogliava le sorti future della stampa italiana che «costituisce un enorme problema sia per quanto riguarda il suo ordinamento e sviluppo, sia per quanto riguarda la sua indipendenza... Il Paese è così dominato da cinque o sei testate. Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni. Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie. Forse è questo un aspetto particolare di una crisi economica, che non può non essere anche una crisi editoriale. Infatti su 20-25 seri giornali è difficile bloccare; su 5 o 6 sì...». Guardava l’evoluzione futura della società italiana che avrebbe cambiato la politica: «Per chi abbia visto “Forza Italia”, fa impressione il linguaggio, a dir poco, estremamente spregiudicato, che i democristiani usano al Congresso tra un applauso e l’altro all’On. Zaccagnini. Sono modi di dire e di fare che un tempo sarebbero apparsi inconcepibili. Oggi sono accettati e mettono in moto una sovrastruttura politica che presumibilmente, poiché le cose non nascono a caso, corrisponde all’esigenza di una parte almeno della società italiana di oggi». In quella scena del film di Roberto Faenza che Moro aveva visto al cinema (fu ritirato dalle sale il giorno del suo sequestro), un montaggio di immagini e sonori in cui i notabili di governo uscivano a pezzi, i delegati del congresso democristiano venivano alle mani, si affrontavano come nemici che non avevano più nulla in comune, si scambiavano i vaffa pur essendo dello stesso partito. Era già l’immagine del tutti contro tutti, nel cambiamento del linguaggio il prigioniero Moro una mutazione, un’esigenza della società italiana. E lo scrisse nel covo delle Brigate rosse, come una premonizione, non potendo sapere che sarebbe nato un partito chiamato Forza Italia e un altro originato da un vaffa-day, entrambi tutt’altro che estranei a quella spregiudicatezza, a quell’esigenza della società italiana, perché «le cose non nascono a caso». Inoltrarsi in quelle pagine, come ha fatto l’attore Fabrizio Gifuni che lo ha portato a teatro ritrovandone gli echi di Pasolini e di Gadda, attraversare il memoriale di Moro e della Repubblica significa provare a comporre con pietà le parole del condannato a morte e ridare vita a chi le ha scritte con disperazione e con fiducia, perché la scrittura è sempre un atto di apertura, e soprattutto continuare a compiere un passo essenziale per capire l’Italia di oggi. Strappare Moro dal caso Moro e restituirgli il suo onore politico e la sua dignità umana perché, come conclude Michele Di Sivo, «quella rappresentazione, così ricostruita, sembra dirigere il lettore verso una vertigine: il Memoriale di Moro si squaderna come l’ultimo atto della storia che si rivela».

40 anni fa il ritrovamento del "memoriale Moro". Il 18 ottobre 1978 veniva diffuso il contenuto dei dattiloscritti. Duro attacco alla Dc di Andreotti, all'eversione, alla corruzione. Con temi attualissimi come le pressioni dell'Europa e la Libia, scrive Edoardo Frittoli il 18 ottobre 2018 su "Panorama".

Milano: Via Monte Nevoso, 8 (Lambrate). Mattina del 1 ottobre 1978. Tutto era cominciato dall'irruzione da parte dei Carabinieri di Carlo Alberto Dalla Chiesa nel covo milanese delle Brigate Rosse in via Monte Nevoso, 8 nello storico quartiere milanese di Lambrate. In una borsa di pelle marrone vengono ritrovati 60 fogli. Oltre ad alcune lettere scritte da Moro e mai recapitate, ci sono 49 pagine che contengono le risposte del prigioniero alle domande delle Brigate Rosse, parte del cosiddetto Memoriale Moro. Esattamente 40 anni fa il contenuto degli scritti fu divulgato, fatto che ebbe un importante impatto nell'opinione pubblica in particolare modo per il ruolo della Democrazia Cristiana nei trent'anni della storia dell'Italia Repubblicana.

Nel memoriale, il cui contenuto fu sviluppato durante gli interrogatori delle Br nei 55 giorni di prigionia, toccando molti degli aspetti controversi ed oscuri: dagli attacchi eversivi alle istituzioni democratiche, alla corruzione politica, agli scandali economici e finanziari. Aldo Moro fece molti ed illustri nomi, in gran parte compagni di partito come Andreotti, Piccoli, Donat Cattin, Galloni, Forlani.

Italcasse. L'Istituto di Credito delle Casse di Risparmio era un organo di secondo livello con il compito di investire la liquidità in eccesso delle Casse di Risparmio italiane. Nel 1977 fu interessato da un'ispezione da parte di Bankitalia che mise allo scoperto lo scandalo: Moro indica in Andreotti il cuore della malversazione, finalizzata al finanziamento illecito della Dc tramite favori a imprenditori "amici" come Gaetano Caltagirone (che fu in quel periodo nominato ai vertici dell'ente da Andreotti) e Nino Rovelli (Sir). Sui fondi neri al partito dello scudo crociato indagherà anche il giornalista Mino Pecorelli, assassinato nel 1979. Lo scandalo Italcasse vide coinvolti anche Domenico Balducci (membro della Banda della Magliana) e boss mafiosi come Pippo Calò.

Giulio Andreotti. "Un regista con tanti esecutori di ordini". Così, dalla "prigione del popolo", Aldo Moro descriveva l'allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Come nel caso Italcasse, il prigioniero delle Br lo chiamava in causa per fatti ancora più gravi, che avevano segnato con il sangue la storia italiana degli anni della "strategia della tensione". Con sentito dolore Aldo Moro dipingeva il leader democristiano come un freddo calcolatore, con una smodata sete di potere, al quale veniva attribuito un ruolo centrale nella destabilizzazione eversiva. Tra le righe del memoriale dedicate al "divo Giulio" il Presidente democristiano palesava la propria quarantennale diffidenza nei confronti di Andreotti, ben descritta nell'analisi della carriera politica di quest'ultimo. Moro lo accusava di avere sempre cercato il suo appoggio alla ricerca di investiture e cariche nel partito, per poi averlo lasciato come vittima sacrificale nelle mani delle Brigate Rosse per i propri personali sogni di gloria. Moro dipingeva Giulio Andreotti come un uomo privo di sentimenti, con la pretesa di identificarsi vanamente con la figura di Alcide de Gasperi, di cui fu il delfino. Lo accusava persino di aver abbracciato il Maresciallo Rodolfo Graziani nei primi anni del dopoguerra, segno di contiguità al defunto regime fascista. La grande colpa di Andreotti sarebbe stata quella di avere alimentato la divisione politico-ideologica dell'Italia uscita dalla guerra civile, provocando una frattura mai sanata dopo l'esclusione dei partiti frontisti dagli incarichi di governo e la formazione dell'esecutivo con i liberali. Nello scritto riferito all'allora Primo Ministro, Moro faceva riferimento all'amicizia pericolosa tra Andreotti e Michele Sindona e metteva in guardia Berlinguer da colui che avrebbe mandato a morte l'alleato ideatore della "strategia dell'attenzione" verso il Pci.

La trattativa con le Brigate Rosse. Aldo Moro, nell'affrontare il tema della trattativa con i terroristi, premette di essere lucido e in pieno possesso delle proprie facoltà intellettuali al momento della stesura. La sua è una denuncia integrale della posizione di "fermezza" assunta da Dc e Pci durante i giorni della sua prigionia. Da giurista, Moro affermava che il principio di legalità di una democrazia non può basarsi sul sacrificio di vittime innocenti. Secondo il prigioniero, la Democrazia Cristiana avrebbe abbracciato incondizionatamente la linea della fermezza per trarne vantaggio, emergendo come pilastro della legalità dopo la crisi politica ed elettorale che aveva colpito il partito negli anni delle rivendicazioni sociali dal 1968 fino al successo comunista del 1976.

L'eversione in Italia. Aldo Moro si concentra principalmente su tre fatti di eccezionale gravità, che i brigatisti avevano descritto nei comunicati come sommersi da una montagna di "omissis": il tentativo di golpe organizzato dal Generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo nel 1964 (noto anche come "piano solo"); la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e il golpe Borghese del 1970. Sul caso De Lorenzo, Moro faceva i nomi di chi nella Democrazia Cristiana era al corrente del piano eversivo, sostenendo la posizione del Generale come pedina e di fatto scagionandolo. Il motivo della sua difesa sarebbe da ricercare nella lunga collaborazione tra Moro e De Lorenzo, in particolare nel ruolo di difesa dell'ordine pubblico che il generale garantì in occasione della grave situazione di tensione sociale nata dopo i fatti di Genova del 1960 supportando Moro nell'azione di sfiducia al governo Tambroni ed aprendo di fatto la via alla lunga esperienza politica del centro-sinistra. Su Piazza Fontana lo statista democristiano affermava la propria originaria diffidenza sulla piega che presero le indagini all'indomani dei fatti, la cosiddetta "pista rossa" che vide coinvolti Pinelli e Valpreda. Moro traeva questa conclusione partendo dal fatto che gli inquirenti fossero tutti uomini politicamente orientati a destra, che non avrebbero potuto prendere altre direzioni se non indagare negli ambienti anarchici. Sul golpe Borghese infine, il redattore del memoriale ne sottolinea la pericolosità e la reale minaccia che il tentativo rappresentò nel 1970, tesi supportata dal fatto che il colpo di stato sarebbe stato avvallato da una parte significativa dei vertici dell'Esercito e del Ministero degli Interni.

La questione palestinese, l'ingerenza dell'Europa nella politica italiana, il mancato appoggio della Dc a Paolo VI. Una parte delle pagine dattiloscritte e corrette a penna da Moro riguardava la questione palestinese, con particolare riferimento al cosiddetto "lodo Moro", ossia il patto di non-belligeranza con i terroristi del FPLP di Abu Nidal raggiunto dal leader Dc per tramite dell'uomo del Sid a Beirut, Colonnello Stefano Giovannone. L'accordo, nel quale era stato coinvolto anche Vito Miceli, prevedeva lo scambio di prigionieri delle organizzazioni terroristiche palestinesi in cambio della salvaguardia del territorio italiano da attentati. Moro aveva incluso l'esempio del lodo per dimostrare che gli stessi soggetti che allora negavano la trattativa ai fini della sua liberazione, all'epoca accettarono senza dubbi lo scambio. Il capitolo Europa viene affrontato partendo da un fatto che aveva interessato i rapporti tra la Comunità Europea e la politica italiana, risalente al 1964. Il francese Robert Marjolin era all'epoca vice-presidente della CEE e incontrò a Roma Aldo Moro assieme ai ministri del governo che lo statista pugliese allora presiedeva. Dal vertice emerse un atteggiamento fortemente critico, se non aggressivo nei confronti della politica economica italiana, che Moro difendeva. Marjolin invocava senza mezzi termini una sorta di austerity ante-litteram che ebbe l'effetto di spaccare gli equilibri del centro-sinistra al governo e vanificare la speranza in un prestito europeo per tamponare gli effetti della crisi economica iniziata al termine del "boom". L'azione fu vista da molti esponenti politici come una decisa e brutale ingerenza di Bruxelles negli affari italiani. Aldo Moro affrontava quindi uno dei temi principali del fallimento della trattativa per il suo rilascio, il mancato appoggio all'iniziativa umanitaria di Papa Paolo VI (amico personale del prigioniero) in cui anche in questo caso ci sarebbe stata una volontà di isolamento dell'idea della negoziazione da parte degli esponenti Dc influenti in Vaticano, che avrebbero fatto leva sui vertici della Santa Sede (in particolare Monsignor Clemente Riva) affinché anche il Vaticano abbracciasse la linea della fermezza.

Lo scandalo Lockheed. Secondo Moro fu il successo del Pci alle politiche del 1976 (quelle del famoso "sorpasso") a rompere l'egemonia di trent'anni di potere democristiano, nel quale si sarebbe collocato lo scandalo della commessa militare segnata dalle tangenti per la fornitura degli aerei da trasporto Lockheed C-130. Lo stesso Moro fu sospettato fino alla vigilia della strage di via Fani di essere il personaggio-chiave del sistema delle tangenti (il famoso Antelope Cobbler). Anche in questo caso l'analisi di Moro si rivelerà anticipatrice, dichiarando nelle pagine del memoriale che la faccenda Lockheed (che porterà alle dimissioni del Presidente della Repubblica Giovanni Leone) sarebbe stata solamente la punta dell'iceberg di un sistema di corruzione diffuso e radicato. Tangentopoli gli darà ragione.   

Pagine mancanti: i Servizi Segreti italiani in Libia e i rapporti Andreotti-Miceli. Non mancano, nel memoriale, i riferimenti ai rapporti Italia-Libia. O meglio non mancavano, dal momento che la parte che riguardava il ruolo degli 007 italiani in Libia risultò mancante anche dopo il ritrovamento della seconda parte del memoriale nel 1990. Nei dattiloscritti del 1978 si notavano palesi omissioni e mancati rimandi alle domande formulate dai carcerieri a riguardo. E' la maggiore e forse più rilevante omissione che riguarda entrambe le versioni ritrovate nel 1978 e nel 1990. L'unica traccia rimasta sull'argomento è un passaggio in cui Aldo Moro loda l'operato dei Servizi italiani attivi durante il regime di Gheddafi. Tutto faceva pensare ad una sottrazione volontaria della parte riguardante l'operato del Sid, che comprendeva anche una parte su Giulio Andreotti e i suoi rapporti conflittuali con il Generale Vito Miceli. La parte del memoriale mai ritrovata conteneva forse i segreti del caso Moro. Forse gli stessi di cui era a conoscenza Mino Pecorelli, direttore di O.P. assassinato pochi mesi dopo l'irruzione nel covo di via Monte Nevoso, il 20 marzo 1979. Esattamente un anno dopo i giorni del calvario di Aldo Moro.

IL MEMORIALE DI MORO: DI VERITÀ SI MUORE. CON LE MANIPOLAZIONI, GLI OCCULTAMENTI E I RICATTI SI SOPRAVVIVE E SI PUÒ PROSPERARE, scrive Benedetta Tobagi per "la Repubblica" il 5 maggio 2011. Nella "prigione del popolo", Aldo Moro fu interrogato dalle Brigate Rosse che volevano estorcergli i segreti di trent´anni di potere democristiano. In piena guerra fredda, nella palude della corruzione diffusa che sarebbe esplosa con Tangentopoli, il terrore di ciò che Moro avrebbe potuto dire fece tremare il governo e allertò i servizi segreti di 16 paesi: il lato più destabilizzante del sequestro Moro risiedette proprio in questo risvolto spionistico-informativo. I terroristi non pubblicarono mai gli interrogatori, adducendo motivazioni contraddittorie e insoddisfacenti; gli originali sono spariti. Di quella "verità rivoluzionaria" possediamo solo qualche centinaio di fogli: il cosiddetto "memoriale", in parte rielaborazione degli interrogatori, in parte memoria difensiva e testamento spirituale denso di durissimi giudizi politici. I Carabinieri lo ritrovarono nel covo milanese di via Montenevoso con tempi e modi rocamboleschi: un primo mazzo di dattiloscritti anonimi nell´ottobre ´78 (un formato "neutro" che consentì al governo di pubblicarli negando che fossero parola di Moro); una versione più ampia nel ´90, caduto il Muro, esploso lo scandalo Gladio (cui lo statista alludeva), con fotocopie dei manoscritti autografi di Moro che ne attestano l´autenticità. Stava dietro un tramezzo di cartongesso che alimentò infinite dietrologie su chi e perché l´avesse nascosto. Nel Memoriale della Repubblica (Einaudi, pagg. 624, euro 25) lo storico Miguel Gotor affronta con successo una sfida ambiziosa: a partire dall´analisi microstorica dell´odissea di queste carte, vagliando una mole immensa di documenti, testimonianze e atti processuali, ci racconta l´Italia degli anni Settanta e l´anatomia nascosta del potere italiano, un mosaico di spinte eterogenee e contraddittorie nel quadro di pesanti vincoli internazionali. Allergico alla retorica dei misteri, Gotor completa lo studio analitico del caso Moro inaugurato con l´edizione commentata delle Lettere dalla prigionia, portando elementi nuovi in un quadro di più ampio respiro. Intrecciando tenui ma incontestabili tracce documentali, con uso rigoroso del paradigma indiziario, deduce l´esistenza di un´operazione "Montenevoso-bis", mai verbalizzata. Dietro l´occultamento delle fotocopie autografe, l´ombra della cordata di Carabinieri infiltrata dalla P2 e un doppio terminale di riferimento, Andreotti sul piano istituzionale, Gelli su quello informale. Le operazioni di disinformazione a mezzo stampa che, attraverso la figura ambigua dell´ex Carabiniere Demetrio Perrelli, hanno voluto addossare al defunto Dalla Chiesa l´occultamento dei manoscritti, sono occasione per un´analisi delle tecniche manipolatore della P2. Le fughe di notizie e la gestione mediatica dei contenuti del memoriale dal ´78 in poi sono geroglifici attraverso cui indagare l´abbraccio soffocante tra stampa e potere; si ricostruisce il ruolo ambiguo svolto dal giornalista Mario Scialoja (ex giornalista dell'Espresso, oggi collabora al sito del settimanale trattando di vela, NDR), che aveva accesso a informazioni di prima mano dal partito armato. Il proliferare di versioni contraddittorie, fittizie ma verosimili, attorno a operazioni delicate come la scoperta e le perquisizioni di via Montenevoso, consente allo storico di sollevare il velo su alcune tecniche spregiudicate utilizzate dall´antiterrorismo in Italia. Contro la retorica che li ha ridotti a monumenti, le figure di Dalla Chiesa e di Moro giganteggiano, umane e chiaroscurali: emblemi dei dilemmi tragici e dei compromessi necessariamente posti dall´esercizio del potere, che in loro non fu mai disgiunto da una visione alta - della politica, dello Stato, dell´Arma. Sono sconfitti, scavalcati da due lati: dalla spregiudicatezza andreottiana, l´uso strumentale del potere che mira innanzitutto alla propria conservazione, e dalle spinte antipolitiche con pretese di purezza: virus trionfanti nel corpo del potere italiano. Con la libertà di giudizio di chi negli anni Settanta è nato, Gotor dedica pagine taglienti al cinismo e alle reticenze di quanti si mossero nella vasta area di contiguità con il terrorismo, che lambiva salotti, giornali, università. Dentro le Br, l´intelligenza del filologo Fenzi e del criminologo Senzani si profila nella gestione oculata di passaggi cruciali del sequestro: con forte afflato civile, lo storico non limita le responsabilità al cerchio delle risultanze processuali. Non solo Gladio: Gotor ripercorre il memoriale sopravvissuto, di cui leggiamo ampi stralci, argomenta perché certi passaggi fossero "pericolosi" prima del ´90 e ci resistuisce lo sguardo di Moro sull´Italia del suo tempo (è in preparazione un´edizione completa e annotata di tutti gli scritti della prigionia). Setacciando testimonianze dei "lettori precoci" del memoriale, morti ammazzati come Pecorelli o sopravviventi come gli ex brigatisti, desume l´esistenza di un "un-memoriale", un testo originario più ampio e ipotizza alcuni dei temi censurati: il golpe Borghese, la fuga del nazista Kappler, il cosiddetto "lodo Moro" che regolava i conflitti tra palestinesi e israeliani in Italia. Il crudo ammonimento evangelico agli ipocriti posto in esergo addita un percorso di lettura nella meditazione sul rapporto tra verità e potere. Il controllo dell´informazione resta il più formidabile ed elusivo strumento di dominio: una partita feroce giocata tra propaganda e segreto, utilizzando sofisticate mescolanze di vero, falso e verosimile. Di verità si muore, come Pecorelli e Dalla Chiesa. Grazie al combinato di manipolazione, occultamento e mercati ricattatori si può sopravvivere, vivere, financo prosperare, provano le diverse ma convergenti strategie di Brigate Rosse, Andreotti, Gelli. Il ragionare metodico dello storico che riconosce la realtà brutale della politica senza cedere al cinismo, chino a ricomporre i frammenti per sottrarre il potere urticante della verità alla fisiologica usura del tempo, è un vaccino - non solo un´autopsia - al corpo infetto del potere. Raccoglie la sfida di cui Moro prigioniero aggrappato alla propria scrittura fu l´incarnazione più tragica: l´intelligenza degli avvenimenti resta, ancora, "punto irriducibile di contestazione e di alternativa".

SCIALOJA CONTRO "REPUBBLICA": "MAI STATO AMBIGUO NELLA CRONACA SULLE BR". Lettera di Mario Scialoja a "la Repubblica" dell'5 maggio 2011. Leggo nell'articolo di Benedetta Tobagi su libro di Miguel Gotor Il memoriale della Repubblica che l'autore «ricostruisce il ruolo ambiguo del giornalista Mario Scialoja che aveva accesso a informazioni di prima mano dal partito armato». Ho scorso il libro e constatato che l'autore, bontà sua, mi cita in ben 44 pagine. Non capisco quale ambiguità possa venir attribuita a un cronista che ha sempre pubblicato sull'Espresso tutte le notizie di cui veniva in possesso. Cosa mai messa in discussione. Quanto ai miei «sin troppo informati articoli», come li definisce Gotor, ribadisco quanto ho sempre detto ai magistrati che mi hanno sentito nel corso degli anni e in Commissione Stragi: nessuna informazione mi è venuta attraverso un contatto diretto con l'area Br. Bensì tramite persone (Piperno, Scalzone ...) che potevano ricevere notizie dall'interno del gruppo armato. Sarebbe lunghissimo controbattere a tutte le ipotesi e connessioni fantasiose avanzate dall'autore. Solo un esempio. Gotor, parlando dell'incontro a Roma nel luglio '78 tra Piperno e Moretti «avvenuto in una casa alto borghese situata nei dintorni di piazza Cavour», osserva una «curiosa coincidenza topografica». Sostiene che io nel '78 abitavo dalle parti di piazza Cavour e che quindi la casa della «clamorosa riunione» potesse essere proprio la mia. Il che spiegherebbe, secondo lui, il mio essere tanto informato, ecc. Purtroppo, nel '78 (e fino al 1980) abitavo a via San Valentino 18. Tutt'altra zona di Roma.

LE DUE BOMBE DI ETTORE BERNABEI: "LE LETTERE DALLA PRIGIONIA NON SONO SCRITTE DA MORO. IO CREDO AI SOLERTI 007 CHE HANNO UBICATO IL SUO BARBARO OMICIDIO TRA LE MURA DI PALAZZO CAETANI". Dall'intervista di Malcom Pagani a Ettore Bernabei per "l'Espresso".

La dietrologia comunque non le dispiace.

"Spesso converge con la verità. Pensi al povero Aldo Moro".

Lei Moro lo conosceva bene.

"Benissimo. Lui e la sua calligrafia. Le lettere dalla prigionia, ad esempio, non sono scritte dalla sua mano. Se si vuole intuire qualcosa della recente parabola italiana, bisogna partire dal sogno energetico di Enrico Mattei".

Perché proprio Mattei?

"Il suo progetto, l'autosufficienza a basso costo per l\'Italia, irritò le grandi potenze. Disturbavamo. Da allora, il progetto di destabilizzazione del Paese non conobbe soste. Lo sapevano in Vaticano e ne tenevano conto in Piazza del Gesù".

Tra il tramonto dei Sessanta e i Settanta l\'Italia fu scossa da tragedie. Anni di caos.

"Stragi, bombe, terrorismo. I brigatisti rossi erano omuncoli di rara modestia. Mai avrebbero potuto sostenere lo sforzo economico e ideologico della loro mattanza".

Quindi?

"Erano eterodiretti. Qualcuno ha calcolato che l\'operazione costò in termini economici tra covi, armi e coperture, più della guerra del Vietnam".

Se le dico lobby cosa le viene in mente?

"Il clan dei sardi è stato, in Italia, l'unico vero gruppo di potere degli ultimi 50 anni. Politica, massoneria, matrimoni in chiesa, parentele, trasversalità. Berlinguer, Siglienti, Segni, Cossiga. Ricorda le picconate?"

Certo.

"Chi le scriveva per lui, sapeva quali messaggi trasmettere. Tra le righe, si sostenevano cose enormi, ma non c'era un solo passaggio che lo avrebbe potuto trascinare all'impeachment. Il Cossiga scosso dal caso Moro e messo a terra dalla vicenda Donat Cattin-Prima Linea, seppe poi adeguatamente risorgere".

Divenne presidente della Repubblica.

"All'unanimità. Dovrebbe far riflettere".

Aldo Moro, la profezia sulle Br e il leader Dc: “Il Presidente deve morire”. Il “piano b” - Nel ’69 l’articolo del “Bagaglino”: “Dio lo salvi”. Il leader Dc isolato anche per i dubbi di Berlinguer. Il 16 marzo in via Fani era tutto pronto, scrive Miguel Gotor il 16 marzo 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Il 16 marzo di quarant’anni fa, le Brigate rosse rapirono in via Fani Aldo Moro e sterminarono la scorta composta da Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Quella mattina passarono a prenderlo e se lo portarono via come se si fossero dati un appuntamento. Nelle ultime due settimane Moro si era esposto troppo, fino a rimanere isolato. Nel corso del discorso ai gruppi Dc del 28 febbraio 1978 aveva forzato il passo per raggiungere l’obiettivo di includere i comunisti nella maggioranza di governo, per la prima volta dal 1947. Un coraggioso atto di imprudenza, forse l’unico e l’ultimo della sua vita politica, in ragione dell’addensamento, in quegli ultimi mesi, delle resistenze del contesto internazionale della Guerra fredda e della vischiosità del fronte interno e degli apparati. Uno strappo che aveva fatto sì che Moro diventasse l’unico personale garante di quell’accordo, mentre nelle stesse ore Enrico Berlinguer diventava sempre più dubbioso e recalcitrante. Il colpo, secco e feroce, venne da sinistra, dagli esponenti del “partito armato”, ma avrebbe potuto arrivare da destra, dai cosiddetti “strateghi della strategia della tensione” e il risultato non sarebbe cambiato. Per persuadersi di questo meccanismo basterebbe prendere sul serio un articolo premonitore di Pier Francesco Pingitore che uscì nel 1969 sul Bagaglino intitolato “Dio salvi il presidente” in cui venivano descritti, con satirico e informatissimo puntiglio, il percorso che Moro faceva ogni mattina, le sue abitudini, il numero dei poliziotti di scorta, le qualità delle armi da usare per colpirlo, il punto esatto dove sarebbe stato agevole ucciderlo (presso la Chiesa di Santa Chiara secondo il “piano a” e proprio in via Fani secondo il “piano b”). Un articolo minacciosamente premuroso (talora la satira serve a veicolare le veline dei servizi e avvertimenti serissimi) che iniziava ponendosi questa domanda: “Quindici uomini vegliano sulla vita dell’onorevole Moro. Ma sarebbero sufficienti a difenderlo contro un Oswald italiano?”, oppure dal pugnale del fanatico cattolico che uccise nel 1589 il re di Francia Enrico III, il cui omicidio era ricordato in posizione enfatica alla fine dell’articolo, sottolineando come fosse protetto da ben 45 uomini di scorta e non solo 15 come Moro. In realtà l’operazione ordita dalle Brigate rosse nove anni dopo l’uscita di questo scritto si sarebbe rivelata più raffinata: non un semplice regicidio, come quelli avvenuti più volte nella storia, a partire da Giulio Cesare, ma il suo sequestro e, poi, l’uccisione. L’eccezionalità della vicenda Moro è tutta qui: è il rapimento di un sovrano che si conclude con la sua morte, non un assassinio e basta. Un sequestro di persona che sarebbe equivalso al sequestro di uno Stato a partire dal suo capo (e capo dello Stato in senso proprio Moro lo sarebbe diventato se avesse vissuto ancora qualche mese) dei suoi segreti, delle sue informazioni sulla sicurezza nazionale ed estera. Un rapimento funzionale a distruggerne l’integrità morale, civile e politica, a massacrarne l’immagine in modo che quel disegno di tessitura e di conciliazione non potesse avere continuatori. In tanti avevano l’interesse, sia tra le eterne fazioni delle contrade nostrane sia tra le nazioni amiche, che l’Italia rimanesse lacerata e in balia degli eventi perché negli ultimi trent’anni quel Paese si era eccessivamente allargato, perdendo la guerra ma vincendo la pace, e perciò facendosi troppi nemici. Soltanto nel marzo 1990 si conobbero i nomi di nove partecipanti all’agguato, canonizzati nel memoriale del brigatista dissociato Valerio Morucci, redatto nel 1986 e inviato riservatamente all’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. In base a questo documento, su cui ancora oggi si fonda la verità giudiziaria sull’agguato di via Fani, quel giorno entrarono in azione Franco Bonisoli, arrestato nell’ottobre 1978, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore e Valerio Morucci, catturati nel 1979, Bruno Seghetti, imprigionato nel 1980, Mario Moretti, carcerato nel 1981, Barbara Balzerani, arrestata nel 1985, Alvaro Lojacono, catturato nel 1988, ma poi espatriato in Svizzera, e Alessio Casimirri, tuttora latitante in Nicaragua. In un’intervista dell’ottobre 1993, Morucci si ricordò anche di Rita Algranati, moglie di Casimirri, arrestata nel 2004. I brigatisti portarono via due delle cinque borse di Moro e, nella concitazione dell’azione, bisogna riconoscere che seppero scegliere con chirurgica precisione: presero infatti la borsa con le medicine e quella, secondo la testimonianza della moglie, con i “documenti riservatissimi”. L’agguato di via Fani accelerò la formazione del nuovo governo Andreotti e lo stesso giorno i sindacati proclamarono lo sciopero generale. Nelle principali città si tennero manifestazioni in cui le bandiere rosse del Pci e quelle bianche della Dc si confusero con i vessilli dei sindacati. Nella tarda mattinata gli esponenti di Autonomia operaia e del movimento studentesco tennero un’assemblea presso l’Università di Roma: esaltazione, euforia, eccitazione, ammirazione, smarrimento, paura, dubbio e attesa composero l’ampia e contraddittoria gamma sentimentale di questo vasto schieramento giovanile. Un’atmosfera tesa e sfuggente che il trascorrere degli anni e i balsami della memoria e del reducismo avrebbero contribuito a offuscare, fra una serie di inevitabili rimozioni, ambiguità e reticenze generazionali: chi aveva sparato a via Fani non era un marziano, ma un compagno di banco o magari il ricordo del primo bacio. Il giornale Lotta Continua l’indomani intitolò: “Respingiamo il ricatto: né con lo Stato, né con le Br”, facendo riferimento al clima di quest’assemblea. Uno slogan che, se vogliamo dirla tutta, coglieva lo spirito del tempo non soltanto fra quelle fasce studentesche, ma fra ampi strati del mondo operaio e della piccola e media borghesia italiana in cui diffusi umori giustizialisti e antiparlamentari lasciavano mormorare: poveri uomini della scorta, certo, ma Moro era un politico di “Palazzo” e dunque…A quarant’anni dalla strage di via Fani, il numero di quanti vi parteciparono è incompleto, ma viene da chiedersi se questo oggi sia un dato storico rilevante e non l’ovvietà che caratterizza ogni omicidio politico. Da alcune testimonianze oculari è possibile dedurre che furono presenti all’agguato perlomeno altri due individui, i quali agirono a bordo di una moto Honda, anche se i brigatisti hanno sempre smentito questa presenza, che li costringerebbe ad ammettere le relazioni intercorrenti tra le Br e le altre componenti del cosiddetto “partito armato”. Vale a dire la miriade di sigle, che spuntavano come funghi, composte in buona parte da una minoranza di ex militanti di Potere Operaio e di Lotta continua, i quali, dopo lo scioglimento delle due organizzazioni, invece di ritornare a casa o alle libere professioni dei padri, avevano preferito, sull’onda di ritorno del movimento del 1977, impugnare le pistole e imboccare la strada della lotta armata. E che dire poi di un confronto con il sequestro del magistrato Mario Sossi, realizzato dalle Brigate rosse nel 1974: allora non fu necessario eliminare la scorta, e sappiamo che vennero impiegati almeno 18 uomini, contro i dieci di via Fani. Un altro dato di fatto induce a ritenere che i numeri non tornano: nelle ore successive al sequestro le Brigate rosse fecero beffardamente ritrovare ben tre macchine utilizzate nell’agguato tutte in una stesso posto, la piccola via Licinio Calvo, un’operazione logistica che, oltre a una spiegazione ragionevole ancora mancante, deve avere richiesto la collaborazione di una manovalanza più numerosa. Anche la dinamica dell’agguato, quella restituita dalle testimonianze dei protagonisti e dalle non meno scivolose perizie balistiche, suggerisce la presenza di altre persone ancora non identificate. Un’azione non semplice perché si trattò di colpire i bersagli in modo selettivo, ossia uccidendo i due occupanti della vettura di Moro, ma lasciando incolume l’ostaggio da prelevare, colui che, secondo un testimone oculare, avrebbe urlato (e si fa fatica a immaginare Moro urlare) “mi lascino andare, cosa vogliono da me”. Sull’agguato di via Fani si stese prontamente la coltre ideologica della “geometrica potenza di fuoco” di un osservatore interessato come Franco Piperno, ma in realtà le perizie e le stesse testimonianze dei brigatisti dicono altro. In effetti, l’aspetto più paradossale di tutta la storia è proprio questo: tutti, nessuno escluso, hanno raccontato che le loro armi si incepparono nel corso dell’azione. Del resto, la seconda perizia ha stabilito come l’armamento utilizzato dai brigatisti fosse per oltre un terzo composto da veri e propri “residuati bellici” come ammesso dallo stesso Moretti. L’intervento di un tiratore scelto – per gli esegeti della Commissione Moro, un quinto sparatore da destra non ancora identificato che avrebbe giustiziato con un colpo di grazia il maresciallo Leonardi – potrebbe spiegare perché i brigatisti del gruppo di fuoco scelsero di indossare delle divise di aviere, rendendosi in questo modo più facilmente individuabili così da evitare di essere colpiti dal fuoco amico di un possibile tiro incrociato. L’ultima commissione Moro ha accertato la presenza di due macchine dalla posizione sospetta: un’Austin così malamente collocata da impedire alla vettura della scorta di Moro di svincolarsi (un particolare notato dallo stesso Morucci nel suo memoriale) e una Mini Cooper parcheggiata davanti alle fioriere dove si nascose il gruppo di fuoco. Le tardive ricerche sui loro proprietari hanno rivelato in entrambi casi dei profili biografici gravitanti nell’area dei servizi segreti nazionali. Un dato di fatto, ma anche le coincidenze possono esserlo. Le ultime testimonianze avvistarono Moro e i suoi rapitori in piazza Madonna del Cenacolo. Secondo la versione diffusa a rate dai brigatisti (peraltro gravida di evidenti contraddizioni logiche e pratiche) sarebbe stato portato in via Montalcini, nel quartiere della Magliana, da dove non si sarebbe mai mosso nel corso dei 55 giorni più bui della storia della Repubblica. Grazie all’attività della Commissione Moro oggi sappiamo che Gallinari, nell’autunno 1978, trovò rifugio in via Massimi, a poche centinaia di metri da via Fani e da via Licinio Calvo, dove vennero rilasciate le macchine del sequestro. Evidentemente in quello stabile di proprietà dello Ior, abitato da alti prelati, diplomatici, giornalisti, agenti e società di copertura di servizi segreti mediorientali e statunitensi, Gallinari dovette sentirsi sufficientemente al sicuro. Oppure, più banalmente (perché questa al fondo, fatta salva l’eccezionalità della vittima, è una storia banale se si pensa che la maggioranza dei sequestri termina con la morte dell’ostaggio), gli assassini ritornano sempre sul luogo del delitto.

 Aldo Moro, le Br e la “strategia delle lettere” per beffare lo Stato, scrive Miguel Gotor il 30 marzo 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Come uno sparo nel buio: così risuonarono, dopo tredici interminabili giorni di silenzio, le prime tre lettere di Aldo Moro recapitate dalle Brigate rosse il 29 marzo 1978. La prima era indirizzata alla moglie Eleonora, la seconda al ministro degli Interni Francesco Cossiga e la terza a Nicola Rana, capo della segreteria politica di Moro. Nella tarda serata, i brigatisti fecero ritrovare un comunicato, cui allegarono la fotocopia della lettera a Cossiga (solo quella) che pervenne contemporaneamente alle redazioni di alcuni giornali di Roma, Milano, Genova e Torino, dando così prova di un imponente coordinamento e dispiegamento di forze che rivelava una logistica e una organizzazione ramificate a livello nazionale. Queste tre lettere sono importanti, anzi decisive, per diversi motivi in quanto costituirono il momento genetico della complessa “operazione Moro” e, come una prima cellula cancerogena, ne preannunciarono lo svolgimento futuro e l’esito finale. Sul piano della “propaganda armata” e della battaglia comunicativa determinarono i successivi orientamenti dell’opinione pubblica italiana concorrendo a formare l’immagine del prigioniero che occupò lo spazio mediatico in quei 55 giorni. I sequestratori dispiegarono una micidiale strategia differenziata dei recapiti che divenne parte integrante della loro azione terroristica. In un primo momento inviarono le tre lettere in originale a Rana così da potere saggiare il comportamento dei destinatari, ma subito dopo stabilirono di divulgarne una sola (quella a Cossiga), decidendo così loro quanto doveva restare segreto e quanto essere offerto in pasto all’opinione pubblica. In questo modo, costrinsero da subito il governo all’inseguimento e i famigliari del rapito ad acconciarsi ai tempi e ai modi della loro strategia comunicativa. In secondo luogo, sul piano della lotta politica visibile, le due lettere a Cossiga e a Rana (che vanno lette insieme come un’unica missiva) innescarono la dimensione spionistico-informativa del sequestro. Il prigioniero, infatti, spiegava che era in gioco la ragione di Stato, che si trovava “sotto un dominio pieno ed incontrollato”, che era sottoposto a un “processo popolare” e che poteva “essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni”. In terzo luogo, con queste due lettere i brigatisti lasciarono che Moro indossasse direttamente i panni del capo del fronte della trattativa così da potere loro conservare uno spazio di autonomia e di libertà di manovra e di smentita. L’ostaggio, infatti, propose un esplicito scambio di prigionieri a condizione però che la trattativa rimanesse segreta. Bisognava quindi limitarsi a informare il capo dello Stato Giovanni Leone, il presidente del consiglio Giulio Andreotti “e pochi qualificati capi politici” che è facile immaginare rispondessero alle figure di Enrico Berlinguer, Bettino Craxi, Ugo La Malfa e forse Amintore Fanfani. Inoltre Moro indicava con chiarezza a chi rivolgersi per favorire il negoziato, ossia alla Santa Sede, essendo ben consapevole di come quel sentiero extra-territoriale avesse per secoli svolto un delicato ruolo di intermediazione tra i governanti della penisola e di compensazione dei conflitti fazionari. Infine, il comportamento adottato dai sequestratori con queste due missive mostra oggi come allora che i brigatisti in realtà erano ben interessati ad avviare una trattativa segreta che a parole negavano perché “nulla doveva essere nascosto al popolo”. Non si tratta di illazioni, ma di una semplice analisi delle loro effettive azioni, tutte efficaci e razionali. I brigatisti, infatti, dopo avere consegnato riservatamente le due lettere e avere garantito al prigioniero che il loro contenuto non sarebbe stato reso pubblico decisero di divulgare quella indirizzata a Cossiga. Oggi sappiamo che contemporaneamente fecero credere al prigioniero che non erano state loro a violare i patti, ma il ministro dell’Interno cui Moro rivolse una seconda lettera di rimprovero, scritta intorno al 4-5 aprile, che si guardarono bene dal recapitare, ritrovata soltanto nell’ottobre 1978 come dattiloscritto e in fotocopia autografa addirittura nell’ottobre 1990. In questo modo i brigatisti nel loro comunicato serale non persero l’occasione per farsi beffe di Moro, di Cossiga e della Dc e di conquistare punti davanti all’opinione pubblica italiana sostenendo che “le manovre occulte sono la normalità per la mafia democristiana”. Allo stesso tempo, però, vollero tutelare la riservatezza della seconda missiva, quella indirizzata a Rana, il cui contenuto rimase segreto per loro scelta. Il contenuto di questa lettera era sostanzialmente identico a quello della missiva a Cossiga ma con una preziosa novità: Moro, infatti, individuava nella portineria dell’abitazione privata del suo collaboratore il luogo da utilizzare per far pervenire dei messaggi riservati dall’esterno all’interno della prigione e viceversa e invitava Cossiga a difendere la segretezza di questo canale di ritorno. Così facendo i brigatisti dimostravano all’antiterrorismo e agli uomini politici più avveduti che proprio quella era la preziosa informazione che essi volevano salvaguardare per futuri ed eventuali utilizzi. Che insomma, un conto erano le parole dette al popolo, un altro le loro effettive intenzioni che spietatamente avrebbero perseguito. Non a caso, tre giorni dopo il recapito di questa missiva rimasta segreta iniziò la vera partita, giocata mediante una serie interminabile di finte e controfinte, che avrebbe previsto l’avvio di un doppio e intrecciato canale, riservato (primo livello, con l’“iniziativa” socialista/Franco Piperno) e segreto (secondo livello, con il “negoziato” Vaticano) e che avrebbe coinvolto proprio la Santa Sede nella persona di Paolo VI e la famiglia pontificia lungo l’esile ma tagliante filo della ragion di Stato. Una dottrina di matrice cattolica, realistica, serissima e feroce, che già Benedetto Croce aveva definito “un Dio ascoso”: dunque non stupisce che avrebbe coinvolto persino lo spirito di Giorgio La Pira, che sarebbe stato interrogato nel corso di una seduta spiritica il 2 aprile 1978 e di seguito certamente invocato da Moro in una lettera d’addio non recapitata con un enigmatico “spero mi aiuti in altro modo”, di cui però parleremo la prossima volta. E già, in altro modo.

Un gigante timido in quel bel miracolo che fu la prima repubblica. È morto a 92 anni Giovanni Galloni, dimenticato, uno dei protagonisti della politica italiana, scrive Piero Sansonetti il 25 Aprile 2018, su "Il Dubbio".  È morto l’altroieri, a 92 anni, Giovanni Galloni. Ieri non ho trovato traccia di questa notizia sulle prime pagine dei giornali. E neanche sulle homepage dei siti, che pubblicavano altre notizie e ci informavano anche della morte di altre persone, ma non di Galloni. Un personaggio, evidentemente, considerato come una figura minore dai giornalisti e dagli intellettuali. Un politico puro (oltre che un giurista) sobrio, poco conosciuto in Tv, riservato, percettore di vitalizio. Diciamo pure un uomo trascurabile. Casta, casta…No, non è solo una questione di nostalgia. È un fatto indiscutibile: lo spirito pubblico in questi anni ha subito un fortissimo decadimento, e l’annientamento della politica e il disprezzo per l’immaginario che la politica suscitava, sono stati probabilmente due delle cause di questa deriva. Chi era Giovanni Galloni ve lo racconta Francesco Damato nell’articolo che pubblichiamo qui accanto. Damato lo ha conosciuto molto bene. Io l’ho conosciuto poco, sul piano personale, ma ricordo benissimo del ruolo decisivo che ebbe Galloni nella politica italiana, soprattutto nella stagione della solidarietà nazionale, cioè negli anni del grande riformismo che trasformò questo paese e lo fece approdare alla modernità. Galloni era uno dei cervelli pensanti più rigorosi e lungimiranti di quella macchina politica che fece vivere la prima repubblica, e portò l’Italia a grandi successi, nonostante l’asprezza della lotta e del clima politico di quegli anni, e le grandi difficoltà dell’economia. Allora il ceto politico era molto ampio e variegato. C’erano i burocrati, c’erano gli organizzatori, c’erano quelli capaci di aggregare il consenso, i clientelari, i combattenti, e poi c’erano anche i cervelli, gli strateghi, gli intellettuali. Un vero leader politico doveva essere in grado di coprire diversi questi ruoli. E comunque gli si chiedeva di essere un intellettuale. I leader politici erano molto colti. Come Moro, Amendola, Ingrao, Lombardi, La Malfa, Fanfani. Tutti loro erano leader nel senso pieno, organizzatori, creatori di consenso, oratori, pensatori. Galloni era soprattutto un pensatore, che agiva in gruppo, ma credo che senza la sua capacità di pensiero, ma anche la sua prudenza e le sue doti di mediatore, la solidarietà nazionale sarebbe stata impossibile. Berlinguer e Moro la disegnarono, ma Galloni fu decisivo nel gestirla e nel trasformarla in una stagione di grande riformismo. Anche dopo la morte di Moro e durante la fragile segreteria Zaccagnini. Vi dicevo che un pochino l’ho conosciuto anche personalmente. E’ stato nel 1968. Andavo a scuola dai preti a piazza di Spagna, e a scuola con me c’era il figlio di Galloni, Nino, che oggi è un economista noto. Allora, insieme, organizziamo le (piccole e un po’ clandestine) proteste politiche. Ai preti non piacevano. Una volta ci sorpresero a distribuire volantini fuori dal portone e ci rifilano 15 giorni di sospensione. Allora, insieme ad altri compagni di scuola un po’ rivoltosi, ci riunimmo a casa di Nino, per prendere delle contromisure. Stavamo chiusi lì, a discutere in una nuvola di fumo, quando si aprì la porta ed entrò l’onorevole Galloni, con un libro in mano, sorridente. Ci lesse qualche riga di questo libro ed erano righe che spiegavano quanto fosse velleitaria la battaglia che noi stavamo conducendo. Poi alzò lo sguardo verso di noi e citò l’autore di quelle righe, scandendo bene le tre parole: Vladimir – Ilic – Lenin. Sorrise di nuovo e andò via. Votò inutilmente per Moro, mentre gran parte dei suoi colleghi di corrente votò per Leone, il cui figliolo Mauro d’altronde era già o sarebbe diventato presto – non ricordo più bene consigliere nazionale della Dc proprio per la sinistra di Base. “Hanno fatto – mi confidò Galloni parlando degli amici di corrente – un torto ingiusto a Moro e un cattivo servizio a Leone, condannandolo a gestire una fase politica pericolosa”. Il centrosinistra infatti si interruppe. La Dc sostituì i socialisti con i liberali di Giovanni Malagodi al governo e si incamminò verso quel referendum sul divorzio che, gestito proprio da Fanfani alla segreteria del partito nel 1974, avrebbe compromesso duramente la lunga primazia politica dello scudo crociato. Ma di Leone il povero Galloni era destinato ad occuparsi drammaticamente nella primavera del 1978, dopo la tragica fine di Moro, che già l’aveva tormentato partecipando come vice segretario della Dc alla gestione della cosiddetta linea della fermezza. Una linea dove Moro, dalla prigione delle brigate rosse, stentava a credere davvero che fosse sinceramente attestato l’amico Galloni, di cui faceva ricorrentemente il nome nelle lettere ai democristiani incitandoli a salvargli la vita, anche a costo di trattare con i terroristi che lo avevano sequestrato sterminandone la scorta. Alla fine di Moro seguì quella anticipata del settennato presidenziale di Leone. Ebbene, toccò proprio a Galloni andare al Quirinale, mandatovi dal segretario del partito Benigno Zaccagnini, per chiedere al capo dello Stato il “sacrificio” delle dimissioni, reclamate con una paradossale simmetria dai radicali di Marco Pannella e dal Pci di Enrico Berlinguer continuava a scrivere e a pubblicare, facendoci lo sconto sui prezzi di copertina: saggi della consueta lucidità. Giovanni non riuscì mai a dimenticare, in particolare, il rude trattamento riservatogli dall’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, quando lui ne era il vice al vertice del Consiglio Superiore della Magistratura. Cossiga arrivò nel 1991 a ritirargli pubblicamente quasi tutte le deleghe, restituitegli poi dal successore Oscar Luigi Scalfaro. La contesa, chiamiamola così, era scoppiata attorno al diritto nuovamente rivendicato da Cossiga, dopo un episodio analogo verificatosi col precedente Consiglio Superiore, ai tempi del governo Craxi, di dire l’ultima parola sugli ordini del giorno dell’organo di autogoverno della magistratura. La cui presidenza è affidata dalla Costituzione al capo dello Stato. I rapporti tra la magistratura e il Quirinale erano tesissimi. Si arrivò alla proclamazione di uno sciopero nei tribunali contro il presidente della Repubblica, cui si rifiutò di aderire a Milano, con tanto di cartello appeso alla porta del suo ufficio, il sostituito procuratore Antonio Di Pietro. Che Cossiga naturalmente volle poi conoscere personalmente, instaurando con lui rapporti altrettanto naturalmente destinati poi a rompersi. Ma la vice- presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura fu dolorosa per Galloni anche dopo la presidenza di Cossiga, in particolare quando le inchieste giudiziarie sul finanziamento illegale della politica travolsero i partiti di governo e l’intera cosiddetta prima Repubblica. Galloni era sommerso dalle proteste di vecchi amici di partito e non, che volevano da lui interventi risolutivi contro questo.

GALLONI. QUANDO SINISTRA ERA ANCHE LA DC, scrive il 25 aprile 2018 Roberto Di Giovan Paolo su "Ildomaniditalia.eu". Le biografie di un’epoca in cui mancano non solo le ideologie ma spesso anche ideali, ci raccontano solo la sequela degli incarichi ma Galloni non fu certo una “seconda fila”. Sin da ragazzo. Giovanni Galloni, al di là delle biografie ufficiali, dell’ex ministro della pubblica istruzione (il successore della eterna Falcucci e il predecessore dell’attuale presidente della repubblica, Sergio Mattarella), è stato molto di più di una figura di spicco della Democrazia Cristiana, perché forse come pochi cattolici in politica ha saputo essere un ideologo, rispettato culturalmente e talvolta bistrattato politicamente anche dai suoi amici, nonostante abbia certamente vissuto una vita politica di primissimo piano, in cui oltre all’incarico di ministro è stato sei volte parlamentare, visegretario e vicepresidente dc e direttore de Il popolo. In un versante di mondo – quello cattolico – troppo spesso dominato dalla retorica dei valori e dal pragmatismo incombente delle scelte quotidiane – specie dopo la vittoria del 1948 che proiettò la Dc saldamente al governo – Giovanni Galloni ha mantenuto viva una battaglia ideale e un confronto ideologico che, con scritti, discorsi ed azioni politiche ha avuto pochi eguali, forse soli Guido Bodrato, Luigi Granelli e Carlo Donat Cattin, della sua generazione. Galloni è stato il collante e il riferimento ideologico di più di una generazione Dc, perché aveva cominciato presto a far politica, staffetta partigiana in Emilia Romagna, a Bologna dove la sua famiglia si era trasferita dalla Sicilia. Era stato, direi “naturalmente” tra i giovani che poi avevano seguito l’impegno politico di Giuseppe Dossetti, al punto di essere tra coloro presenti al secondo incontro di Rossena, nel 1951 quando il leader di minoranza della Dc annunciò l’addio alla politica e le dimissioni da vicesegretario dc e da deputato della Repubblica. Di quel dibattito (con Dossetti stesso poco, perché egli non voleva discutere un arretramento della sua scelta e fu categorico, ma di e con altri parecchio “forte” e che si è conosciuto solo nel tempo con una certa reticenza dei protagonisti, Giovanni Galloni fu testimone certo e ne scrisse in riviste (come Iniziativa Democratica e poi più in là in Appunti, ma anche in molti libri, ultimo quello su “Dossetti Profeta”), o forse si dovrebbe dire, che lo visse sulla sua pelle, sempre, in tutti i lunghi anni della sua vita politica. Quel dibattito verteva sulla condizione del cattolicesimo democratico nel nostro Paese e sulla ferrea presa di De Gasperi sulla Dc. Dossetti in sostanza diceva che le premesse della Resistenza per un cambio sociale nel Paese erano rimaste deluse ed i cattolici avevano grandi colpe in ciò (Nicola Pistelli anni dopo parlò di “rachitismo politico” dei cattolici italiani) e dunque nelle condizioni date De Gasperi rispondeva al massimo di progresso politico possibile per un movimento che non poteva andare oltre le sue radici. Giuseppe Dossetti, che con la sua corrente dopo lo sforzo fortissimo dei “professorini” per la nascita della Costituzione aveva contestato le modalità dell’Alleanza atlantica, aveva richiesto una riforma agraria complessiva e piani generali per il lavoro e per la casa (le “attese della povera gente” di La Pira) e cosa si ritrovava ora? Un partito baluardo contro il comunismo conservatore socialmente e che senza de Gasperi avrebbe ripiombato l’Italia nel conservatorismo politico ante Costituzione. Dunque, addio alla politica, almeno per lui. In attesa che il mondo cattolico evolva per cambiare poi la rappresentanza politica dei cattolici (e infatti prende i voti monacali…) Ma per chi resta? Tra cui Giovanni Galloni e tanti altri? Dossetti elabora la teoria dei “due piani”: chi vuole faccia formazione politica per accelerare il cambio di condizione culturale dei cattolici e del Paese; chi invece vuol continuare in politica sappia che dovrà rafforzare De Gasperi, anche se non lo ama, perché è l’unico argine al rischio di conservatorismo politico. Nel dire questo Dossetti si rivolge esplicitamente a Galloni e agli altri dei gruppi giovanili. E da lì prende le mosse il lavoro politico interno alla Dc di Giovanni Galloni. Il quale resiste due anni ma poi a Belgirate nel 1953 con altri, tra cui Marcora su tutti, dà vita alla corrente di “sinistra di Base”, la prima corrente di sinistra dc che punta decisamente sul cambio strutturale dello Stato (riforme strutturali, riforme istituzionali, confronto politico con tutti) e non solo sul miglioramento delle condizioni sociali o di mero eco delle battaglie sindacali. La sinistra di Base è stata la casa di Giovanni Galloni per tutta la sua vita. Una casa di famiglia, da cui ha polemizzato con Fanfani, uscito dalla corrente dossettiana convinto che solo il controllo pieno del partito portasse al controllo del governo, e in cui ha incontrato dall’inizio il brillante operaio Italsider Luigi Granelli (poi parlamentare e ministro), e gli studenti della Cattolica, Ciriaco De Mita e Riccardo Misasi, la corrente di cui è stato l’“anello romano” per Giovanni Marcora. Moro? Certo Aldo Moro era tra le amicizie più care ma il leader barese era restio al lavoro organizzato di una corrente a suo modo “scientifica” come la “sinistra di Base”. Rimasero l’amicizia e la consonanza “dossettiana” tutta la vita, fino al momento del comune concepimento della solidarietà nazionale e della tragedia del rapimento e dell’uccisione di Moro, ma non sempre si trovarono a fare il congresso Dc assieme, perché le tattiche di Moro e dei basisti spesso divergevano, anche per i numeri oggettivamente diversi. Giovanni Galloni fu l’ideologo di Marcora e della Base per l’apertura prima ai socialisti e poi al confronto con il Pci (qui assieme a Moro, certamente) e fu, assieme a Bodrato, colui che mise assieme tutte le anime delle sinistre dc per vincere il congresso con Zaccagnini nel 1975 e da allora il massimo esponente di un confronto istituzionale per le riforme con il Pci. Non era certo l’uomo delle clientele… eletto sei volte in parlamento, spesso con grande sforzo dei giovani e dei suoi amici fedeli, capolista al comune di Roma e appositamente non votato da tutte le altre correnti della riprovevole dc romana dei dorotei o degli andreottiani sia di rito Evangelisti che Sbardella. Galloni era mite ma non le mandava a dire… quando Cossiga presidente decise di improvvisarsi “picconatore”, lui nel frattempo divenuto vicepresidente del Csm, parlò di politica e di responsabilità e Cossiga-caso unico nella Repubblica – gli ritirò delle deleghe che gli furono restituite solo dal successore, Scalfaro. È stato un docente universitario valente ma soprattutto il riferimento di chiunque volesse fare un dibattito o una sessione di formazione politica. A qualunque partito, corrente, sindacato, associazione o qualsivoglia comunità appartenesse. Per discutere partiva da ogni dove ed arrivava ogni dove. Molti lo ricordano al volante della sua Fiat 127 con cui, per la verità metteva allarme in figli ed amici cari perché dell’intellettuale aveva tutte le caratteristiche, compresa una certa leggerezza per le cose di tutti i giorni. Che, francamente lo faceva apprezzare ancor di più.

Trattativa Stato mafia, anomalo riferimento a Berlusconi nella sentenza, scrive il 21 aprile 2018 Affari Italiani. "Marcello Dell'Utri è colpevole del reato ascrittogli limitatamente alle condotte contestate come commesse nei confronti del Governo presieduto da Silvio Berlusconi": così i giudici della corte d'assise, nel dispositivo della sentenza del processo sulla trattativa Stato-mafia, "circoscrivono" la responsabilità penale di Marcello Dell'Utri. L'ex senatore di Forza Italia, imputato di minaccia a Corpo politico dello Stato, è stato condannato a 12 anni. Un dispositivo ritenuto dagli addetti ai lavori "anomalo" perchè la corte non si limita a un riferimento temporale "dopo il '93", ma fa espressamente riferimento a Berlusconi. Anomalia ancora più evidente se si ritiene che per gli altri imputati, i vertici del Ros, condannati per lo stesso reato nel lasso temporale precedente al '93 la formula cambia. E manca completamente il riferimento specifico al premier in carica all'epoca. E tra i politici di Forza Italia c'è chi grida alla sentenza politica, sottolineando la vicinanza tra il pm Di Matteo e il M5s. 

Altro che patti con la mafia, ecco tutti i boss messi in galera dai governi Berlusconi. L'assurda sentenza di Palermo non dice che il centrodestra ha raggiunto i maggiori risultati sul campo. Scovati i latitanti più pericolosi, scrive Luca Fazzo, Domenica 22/04/2018, su "Il Giornale". Una casupola bianca e un po’ malconcia in una masseria sulle colline di Montagna dei Cavalli, fuori Corleone: un braccio che si allunga per ritirare un pacco di biancheria lasciato da poco lì fuori. «Via, entriamo», dice la radio dei trenta poliziotti arrivati fin lassù, nel silenzio del martedì di aprile. Finisce così, dopo quarantatré anni, la latitanza di Bernardo Provenzano, Binnu u’ Tratturi. Era l’11 aprile 2006. Da tredici anni, dalla cattura di Totò Riina, Binnu era il numero uno di Cosa Nostra, il latitante più importante d’Italia. Bisogna ripartire da quel fotogramma, dal braccio che si sporge, per capire quanto stia in piedi la teoria di un governo Berlusconi addomesticato ai voleri di Cosa Nostra, come sostengono trionfanti i pm di Palermo dopo la indiscutibile vittoria ottenuta nel processo per la presunta trattativa Stato- Mafia. Bisogna partire da quella foto, guardare le date, ragionare. Provenzano viene arrestato nella fase finale della XIV legislatura. Ministro dell’Interno è Beppe Pisanu, capo del governo è Silvio Berlusconi: cioè l’uomo politico che secondo la tesi della Procura di Palermo, fatta propria dalla sentenza di ieri, avrebbe ricevuto «una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura per gli aderenti a Cosa Nostra». Una trattativa in tre fasi, l’ultima - secondo i pm - gestita in prima persona da Provenzano medesimo. Che però viene catturato e sepolto in un carcere di massima sicurezza. Ne uscirà solo dieci anni dopo, ormai demente, per andare a morire in una stanza d’ospedale. Cosa era accaduto tra il 1993 della presunta trattativa e l’arresto di Provenzano? Si potrebbe ipotizzare che gli accordi di non belligeranza tra Stato e mafia avessero dispiegato un qualche effetto, almeno nella prima fase. Macché. Berlusconi va a Palazzo Chigi la prima volta il 10 maggio 1994, ci resta fino al 17 gennaio successivo; ministro dell’Interno è Roberto Maroni. Una manciata di mesi: ma nello stesso periodo finiscono in galera quasi cento latitanti per reati di mafia, criminali inseguiti da anni da mandati di cattura. Sono camorristi, ’ndranghetisti, ma il prezzo più alto lo paga Cosa Nostra, anche nelle sue propaggini internazionali: il 20 luglio 1994 a Long Island viene catturato dallo Sco, Paolo Lo Duca, latitante dal 1990, l’uomo di raccordo tra Cosa Nostra, i clan americani e il cartello di Medellin, un personaggio chiave nell’economia mafiosa. Tre mesi dopo a Palermo la Mobile arresta Francesco Inzerillo, cugino del boss ammazzato dai Corleonesi nel 1980, e interfaccia in Sicilia dei Gambino di New York. A novembre in Canada viene individuato e preso Salvatore Ferraro, successore di «Piddu» Madonia alla testa di Cosa Nostra a Caltanissetta. Si azzannano i tentacoli della Piovra oltreconfine. Berlusconi torna al governo nel 2001, al Viminale vanno prima Scajola e poi Pisanu. E la musica non cambia. La «Lista dei Trenta», l’elenco dei latitanti più pericolosi, deve venire aggiornata di continuo, perché uno dopo l’altro i boss cadono nella rete. Il 16 aprile 2002 a Roccapalumba tocca a Antonino Giuffrè: è il sanguinario braccio destro di Provenzano, in fuga da nove anni, condannato a otto ergastoli. Appena arrestato si pente e comincia ad accusare Marcello Dell’Utri e Forza Italia. L’anno dopo, a luglio, finiscono le latitanze anche di Salvatore Rinella e Salvatore Sciarabba: sono gli uomini che proteggono Provenzano. Il cerchio intorno a «Binnu» si sta stringendo. Saranno questi, i «benefici di varia natura» di cui parla la Procura di Palermo? Ad aprile 2006 tocca a Provenzano. Due settimane più tardi si vota, il centrodestra lascia Palazzo Chigi. Ci torna due anni dopo, l’8 maggio 2008. Premier è di nuovo Berlusconi, ministro degli Interni di nuovo Bobo Maroni. E la musica riprende. È il periodo d’oro della caccia ai boss, quello in cui Maroni a conti fatti potrà vantare l’arresto di 6.754 mafiosi, compresi ventotto della «Lista dei Trenta». Vengono smantellati santuari della criminalità organizzata in tutto il Mezzogiorno. La ’ndrangheta, che nel 2004 aveva visto la fine della interminabile latitanza di Giuseppe Morabito, «Peppe Tiradrittu» tra il 2008 e il 2009 vede finire in cella imprendibili di lungo corso come Francesco e Antonio Pelle; il 10 dicembre 2008 termina la fuga di Giuseppe De Stefano, «il top della ’ndrangheta» nelle parole del procuratore Giuseppe Pignatone. Il 17 novembre 2010 catturano nella sua Casal di Principe il superboss della camorra Antonio Iovine: «Abbiamo preso un re nel suo regno», commenta il procuratore antimafia Piero Grasso. «Questa è l’antimafia dei fatti», dice Maroni. Ma è in Sicilia, nella terra dove il progetto della trattativa avrebbe preso forma e sostanza, che l’assedio alla criminalità mafiosa continua con i risultati maggiori. Matteo Messina Denaro non si trova, ma - come all’epoca di Provenzano polizia e carabinieri fanno terra bruciata intorno al padrino in fuga. A settembre 2009 viene catturato Domenico Raccuglia, il collaboratore che gestisce la latitanza di Messina Denaro. A dicembre nello stesso giorno vengono presi a Palermo il giovane boss rampante Giovanni Nicchi e a Milano Gaetano «Tanino» Fidanzati, 78 anni, uno dei primi uomini d’onore a sbarcare al nord. Nel giugno successivo prendono Giuseppe Falsone, il capo di Cosa Nostra ad Agrigento: vive sotto falso nome a Marsiglia, la città dove Provenzano era riuscito a farsi operare alla prostata durante la latitanza. E poi centinaia di arresti solo apparentemente minori, esponenti di seconda fila dei clan e anche semplici gregari: che però costituiscono l’ossatura dei clan, la pianta organica senza la quale il potere dei boss diventa una scatola vuota. Sono risultati imponenti, figli del lavoro oscuro e tenace delle forze dell’ordine. E di una volontà politica.

40 anni fa: poteri occulti e lunga scia di sangue, scrive il 16 marzo 1978 Valter Vecellio su “la Voce dell'isola". Al terrorismo tutto l’Italia paga un pesantissimo tributo: in 20 anni almeno 428 morti, 14 mila atti di violenza politica. Cosa resta di quegli anni? È materia di amara riflessione per tutti. Di certo i terroristi sparano, uccidono, vengono usati da poteri occulti e settori deviati dello Stato. Qualcuno magari pensava davvero di colpire al cuore l’odiato potere. Ma qui non è più cronaca; diventa storia. 16 marzo di 40 anni fa: è il giorno in cui le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro e uccidono i cinque uomini della scorta. Moro è il protagonista di una politica scomoda, impasto di prudenza e di audacia: 55 giorni dopo lo uccidono. Uno scempio di umanità che segna l’apice del terrorismo rosso, ma anche l’inizio della sua irreversibile crisi. Al terrorismo l’Italia paga un pesantissimo tributo: in 20 anni almeno 428 morti, oltre 1.000 feriti, almeno 14 mila gli atti di violenza politica.

Come inizio prendiamo il 12 dicembre 1969, la strage di piazza Fontana a Milano: una bomba collocata nella Banca Nazionale dell’Agricoltura,17 morti. Il paese precipita in un buio periodo di violenza. Una follia di cui sono vittime forze dell’ordine, magistrati, politici, sindacalisti, cittadini comuni. Ne ricordiamo alcuni episodi. Il commissario Calabresi: per la magistratura vittima di un gruppo di fuoco di Lotta Continua; il rogo di Primavalle: aderenti a Potere Operaio incendiano la casa di un dirigente missino, tra le fiamme muoiono i due figli di 22 e 8 anni. Poi le stragi fasciste, nel 1974 a Brescia, piazza della Loggia, e al treno Italicus; in quell’anno le Brigate Rosse rapiscono il giudice Mario Sossi.

Virgilio Mattei, 22 anni, figlio di Mario Mattei, segretario locale del Movimento Sociale Italiano, ucciso nel rogo di Primavalle (Roma) insieme al fratellino di 8, da aderenti a Potere Operaio il 16 aprile 1973.

Virgilio Mattei, 22 anni, figlio di Mario Mattei, segretario locale del Movimento Sociale Italiano, ucciso nel rogo di Primavalle (Roma) insieme al fratellino di 8, da aderenti a Potere Operaio il 16 aprile 1973.

Ogni giorno un agguato, un delitto. Tra le prime vittime due magistrati, Francesco Coco, assassinato dalle Brigate Rosse; Vittorio Occorsio, ucciso dai fascisti di Ordine Nuovo; sempre le Brigate Rosse uccidono il vicedirettore della Stampa, Carlo Casalegno. Il culmine con l’assassinio di Moro. Poi, come se qualcuno abbia detto: basta. Inizia la parabola discendente, non meno sanguinosa: le Brigate Rosse uccidono tra gli altri Guido Rossa, Emilio Alessandrini, Valerio Verbano, Mario Amato. E secondo la magistratura porta la firma della destra estrema la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980: 85 morti, oltre 200 feriti.

La strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, 85 morti, oltre 200 feriti: per la magistratura la firma è della destra estrema.

1980, strage di Bologna. Cosa resta di quegli anni? E’ materia di amara riflessione per tutti. Di certo i terroristi sparano, uccidono, vengono usati da centri di potere occulti e settori deviati dello Stato. Qualcuno di loro magari pensava davvero di colpire al cuore l’odiato potere. Ma qui non è più cronaca; diventa storia.

La storia, dunque. Quel 16 marzo a via Fani, questa forse è una delle poche cose sicure, si scrive una delle pagine più buie e tragiche della nostra storia recente. Le Brigate Rosse pensano di colpire mortalmente il cuore dello Stato. Indubbiamente si blocca una politica sgradita sia a Est che a Ovest, che mette in discussione equilibri nazionali e internazionali raggiunti quarant’anni prima. Il muro di Berlino era ancora ben solido. Al tempo stesso, uccidendo Moro le Brigate Rosse segnano anche l’inizio della loro fine. Prima, erano le Brigate Rosse cosiddette “storiche”: quelle dei Renato Curcio, delle Mare Cagol, degli Alberto Franceschini. Ingozzati di nozionismo marxisticheggiante mal digerito, il mito di una Resistenza ora e sempre salvifica e purificatrice. Prima semplici, simbolici, sequestri come quello, nel 1973, di Ettore Amerio, capo del personale della FIAT Mirafiori. Poi, un anno dopo, a Padova la svolta: quando uccidono due militanti del Movimento Sociale. Poi, ecco le Brigate Rosse di Mario Moretti, con solidi e anche sordidi contatti con l’Est europeo, movimenti palestinesi estremisti, ambienti inquinati da servizi segreti di ogni tipo. Su Moretti da sempre gravano sospetti mai del tutto fugati, da parte dei suoi stessi compagni. È lui che gestisce in prima persona l’affaire Moro. Ancora oggi ci si interroga su chi lo abbia ispirato, sui “suggeritori” occulti. C’è anche un “dopo” Moretti, che possiamo identificare con Giovanni Senzani. E’ l’ideologo terrorista che gestisce il rapimento di Ciro Cirillo, che vede coinvolti in una oscura trattativa gli immancabili servizi segreti e la camorra di Raffaele Cutolo; lo stesso anno in cui, a Verona, viene rapito il generale americano James Lee Dozier, liberato da un blitz dei NOCS. Sono gli anni del declino delle Brigate Rosse. Un declino, lungo, doloroso, scandito sempre da rapimenti, attentati, sangue, morti; ma ormai è evidente che non servono più a nessuno. Il delitto Moro è uno spartiacque anche per loro: il sogno di colpire al cuore il Potere dello Stato si è rivelato solo un incubo, cementato da inganni e stupidità.

Caso Moro. I brigatisti rossi? Figli dell’Italia dell’odio antifascista e resistenziale, scrive il 19 marzo 2018 Mario Bozzi su Barbadillo e Secolo d’Italia. Il quarantesimo anniversario del massacro di Via Fani, con il sequestro di Aldo Moro, leader della Dc, da parte delle Brigate Rosse, ha confermato, oggi come ieri, un oggettivo ritardo culturale nell’interpretazione delle cause della stagione del terrorismo. A leggere certe ricostruzioni si ha quasi l’impressione che gli autori del massacro della scorta e del rapimento fossero venuti da un altro pianeta e non fossero invece i figli legittimi dell’Italia dell’epoca, di ben chiare ascendenze storiche e ideologiche. Al di là dei “misteri insoluti”, su cui ci si è soffermati nelle diverse ricostruzioni offerte in questi giorni (il numero dei partecipanti all’azione, il luogo della prigionia, i “depistaggi”, il ruolo di soggetti stranieri, ecc…) esistono alcuni fattori “certi” che erano alla base del sequestro Moro e dell’esperienza terroristica del decennio settanta.

Ascendenze e connivenze culturali. A legittimare ideologicamente l’operato dei terroristi era la visione dello Stato-nemico, prodotto dell’antagonismo di classe e strumento di sfruttamento della classe oppressa (Lenin), ed il nuovo radicalismo marxista-leninista, frutto delle esperienze guerrigliere in America Latina e nel Vietnam. La “visione” era in fondo simile a quella dei Partiti Comunisti “legalitari” (l’instaurazione della “dittatura del proletariato”), diversa la strada per raggiungere il potere. A difendere questo quadro d’assieme è il sostanziale asservimento della cultura italiana alla logica egemonica di stampo gramsciano, ma fatta propria da Togliatti.  Riviste, case editrici, università sono state il “brodo di coltura” di questa doppia verità: in apparenza pluralista ed aperta al dialogo, in realtà alimentata dalle aspettative rivoluzionarie di stampo marxista-leninista: “I filosofi hanno soltanto ‘interpretato’ variamente il mondo, ora si tratta di ‘trasformarlo’” (Marx). “Il terrorismo è una forma di azione militare che può essere utilmente applicata o addirittura rivelarsi essenziale in certi momenti della battaglia” (Lenin).

La continuità antifascista. L’appello  mitico alla Resistenza non è solo dettato dal cosiddetto “pericolo stragista”, quanto soprattutto dall’idea di una rivoluzione antifascista incompiuta e  di un suo ulteriore sviluppo  sulla strada della liberazione socialista dallo sfruttamento e dall’ oppressione capitalista, fino al passaggio – segnalato da Alberto Franceschini, cofondatore, con Renato Curcio, delle Brigate Rosse – delle armi usate durante la Resistenza ai “nuovi partigiani”: un passaggio reale e simbolico, che, durante gli Anni Cinquanta-Sessanta,  era stato ideologicamente  rappresentato  – all’interno del Partito Comunista – da Pietro Secchia, vicesegretario del partito dal 1948 al 1958,   e poi da Pietro Longo, segretario dal 1964 al 1972,  il quale, ancora nel 1970, arriva a scrivere (su “l’Unità”) di una “nuova Resistenza”, in grado di realizzare nel nostro paese  “ … una nuova decisiva avanzata democratica, liberandolo da ogni subordinazione all’imperialismo americano, dalla arretratezza e dalla miseria”.

L’ambiguità politica. Sia la Dc che il Partito Comunista hanno giocato per anni sulla politica degli “opposti estremisti”, dei “compagni che sbagliano”, delle “sedicenti Brigate Rosse”, favorendo così la crescita del terrorismo armato, che non a caso  – secondo una coerente  logica “antifascista” – aveva iniziato colpendo un sindacalista della Cisnal (Bruno Labate, sequestrato il 12 febbraio 1973, a Torino e sottoposto ad un “processo proletario”) e  due  militanti missini (Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, uccisi durante l’ assalto delle Br alla sede del Msi di Padova nel  giugno 1974). C’è una complicità (morale) e una sottovalutazione (politica) dietro l’emergere delle Brigate Rosse, che chiamano in causa la principale forza di governo dell’epoca ed il maggiore partito comunista dell’occidente. Ad unirli non c’era solo la strategia del “compromesso storico” quanto l’idea di un possibile abbraccio tra cattolicesimo e marxismo, ben analizzato da Augusto Del Noce, il quale all’epoca denunciava il cosiddetto “progressismo cristiano”, autentica quinta colonna nel campo cattolico e moderato, culturalmente disarmato e quindi pronto a qualsiasi compromesso. Il “trauma” provocato dal sequestro di Moro (1978) e poi dall’assassinio (1979) dell’operaio comunista Guido Rossa da parte delle Br, obbligherà sia la Dc che il Pci a superare la fase dell’ambiguità politica per cogliere i tratti reali del fenomeno terroristico nel nostro paese. Ma fu certamente una presa d’atto tardiva, visti i grandi costi umani degli “anni di piombo”. Su un manifesto, che all’epoca fece scalpore, diffuso dal Fronte della Gioventù, c’era scritto “Moro: chi semina vento raccoglie tempesta”. Dopo quarant’anni – al di là di ogni retorica rievocazione – anche da lì bisogna partire per cogliere il senso di quella stagione, pervasa dall’odio ideologico e dalla tempesta che ne seguì e che travolse tutta l’Italia, con la sua lunga striscia di sangue. Per fissarne le responsabilità reali. Per non dimenticare.

Primavalle, il rogo e i depistaggi. Così la sinistra perse l’innocenza. I due figli del «fascista Mattei» furono uccisi una seconda volta dalla campagna di veleni e dall’indifferenza con cui l’omicidio fu trattato da un vasto fronte politico, scrive Pierluigi Battista il 17 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". Oggi Stefano Mattei, arso vivo in un delitto politico che si consumò la notte del 16 aprile 1973, avrebbe 55 anni. Suo fratello Virgilio, invece, ne avrebbe 67. Morirono tutti e due nell’incendio che, appiccato da un manipolo di delinquenti politici, stava divorando la piccola casa popolare in cui vivevano con tutta la famiglia. Una fotografia scattata quella notte di esattamente quarantacinque anni fa, dalla strada ritrae Virgilio carbonizzato dalle ustioni, che cerca inutilmente di gettarsi dalla finestra. Nella foto non si vede invece il piccolo Stefano, che in quel momento se ne sta avvinghiato alle gambe del fratello grande che non era riuscito a salvarlo. Due morti vittime dell’odio politico. Due vittime dell’indifferenza con cui la cultura democratica e progressista aveva reagito all’assassinio così orrendo che aveva colpito dei ragazzi colpevoli solo di essere figli di un fascista.

I responsabili. La vicenda giudiziaria è stata lunga, complessa, ma ormai nessuno più dubita dell’identità dei responsabili. Achille Lollo, Manlio Grillo e Marino Clavo, militanti di Potere Operaio, sono stati condannati come esecutori materiali di quel delitto. Sono riparati all’estero anche grazie all’aiuto di una sinistra che, come Dario Fo e Franca Rame, è stata talmente trascinata dall’odio ideologico contraffatto con le parole dell’antifascismo da considerare veniale la morte di un bambino e di un ragazzo nel rogo di Primavalle, il luogo dove la giovane sinistra uscita dal Sessantotto perse la sua innocenza. La casa dove abitavano i fratelli Mattei, era un appartamento a Primavalle di appena 40 metri quadri, al terzo piano della Scala D, lotto 15, in uno dei più famosi quartieri proletari di Roma. Ci abitavano in otto in quella casa di 40 metri quadri del «fascista Mattei», che poi era Mario Mattei, segretario della sezione «Giarabub» del Movimento Sociale Italiano: i genitori e sei figli, Stefano, Virgilio, Giampaolo, Antonella, Lucia e Silvia.

L’incendio. Quella notte terribile, mentre tutta la famiglia dormiva, gli assassini si misero in fretta a cospargere di benzina il pianerottolo al terzo piano, davanti alla porta e a far filtrare il combustibile con un piano inclinato, lasciare l’innesco e scappare. Probabile che quel gesto criminale volesse essere un irresponsabile gesto dimostrativo, i rampolli della borghesia di sinistra romana forse non avevano nemmeno idea di cosa fosse una casa di appena 40 metri quadri abitata da otto persone. Fatto sta che l’innesco esplose, la benzina prese fuoco e in un battibaleno bruciò l’intero appartamento del «fascista Mattei», i mobili, i letti, l’armadio, i vestiti, persino i pigiami dei bambini. Mario e la moglie spaccarono i vetri delle finestre e aiutarono i ragazzi a buttarsi nel vuoto. Ce la fecero tutti, sia pur con ustioni e fratture. Tranne due: Virgilio, 22 anni, che si era attardato per salvare il fratellino, e appunto Stefano, 10 anni, bruciato vivo in quello che passerà alla storia come il «rogo di Primavalle».

Disinformazione. Ma l’Italia non rimase sgomenta e interdetta per la fine così orribile di un bambino, il figlio di un fascista non meritevole di pietà e cordoglio sincero. Cominciò invece una campagna di disinformazione e di depistaggio, partita dall’estrema sinistra ma appoggiata dagli organi tradizionali della stampa e della televisione, per cancellare la vera matrice politica di quel misfatto. Stefano e Virgilio furono uccisi una seconda volta da titoli oltraggiosi e insensati che servivano a colpevolizzare le vittime e a scagionare politicamente e materialmente i responsabili del delitto. Si urlò al «regolamento dei conti tra i neri», si delirava di una «faida tra fascisti», si farneticava di una «provocazione fascista che arriva al punto di uccidere i propri figli»: ma a queste farneticazioni vollero credere in tanti, purtroppo non solo nell’estremismo di sinistra, ma anche negli ambienti rispettabili dell’establishment antifascista. Si faceva pure dell’ironia sulla fiamma «assassina» che sarebbe stata una «fiamma tricolore», come il simbolo del Msi in cui militava il «fascista Mattei». Partirono i cortei con gli slogan per «Lollo libero». Il padre di uno dei tre indagati venne raggiunto da una lettera aperta scritta da alcuni dei più accreditati esponenti della sinistra in cui si suggeriva il blasfemo paragone tra il carcere in cui era rinchiuso il figlio e un campo di concentramento nazista.

Odio ideologico. Per questa velenosa campagna di disinformazione, di odio ideologico, di disprezzo per le vittime, di cinica indifferenza per la morte di un bambino bruciato vivo nessuno ha chiesto veramente scusa. E in quella assurda campagna di autoinnocentizzazione insincera davvero una parte della sinistra ha perduto la sua innocenza morale e politica. Sono passati quarantacinque anni e quella vicenda terribile è quasi dimenticata, derubricata a uno dei tanti episodi di cieca violenza politica degli anni Settanta. Ma fu molto peggio. E a distanza di tanto tempo facciamo ancora fatica a rendercene conto.

1969 – 1978: la politica estera di Aldo Moro ai tempi del terrorismo internazionale, scrive Enrico Malgarotto il 12 aprile 2018 su "socialnews.it". “L’Unione Sovietica mira ad indebolire l’Europa occidentale con una manovra per linee esterne, tentando di separare politicamente da essa il Medio Oriente e l’Africa del Nord. In questo stato di cose si rafforzano i segni di un progressivo disimpegno degli Stati Uniti dall’Europa. E’ umano che il popolo americano cominci ad essere stanco di vedere schierati alla difesa dell’Europa occidentale i figli di coloro che la liberarono. Ciò pone, tuttavia, problemi di sicurezza interna e anche di obiettivo politico che noi europei dobbiamo prepararci ad affrontare al più presto.” Questo appunto inedito di Aldo Moro risalente al marzo del 1970 è stato ritrovato nell’archivio di Stato dall’ Avvocato e scrittore Valerio Cutonilli, autore, insieme al Giudice Rosario Priore, di un interessante libro sulla strage di Bologna e sui rapporti tra lo Stato italiano e le organizzazioni terroristiche palestinesi. La nota, ignorata per oltre 40 anni, si rivela particolarmente significativa se si esamina il contesto in cui è stata vergata e, più ancora, se si comprende la lucida analisi che connota la visione dello Statista sugli equilibri geopolitici dei decenni successivi e sulla stabilità interna di un’Italia ancora provata dalla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 e che si preparava ad affrontare un importante vertice con la Germania, a sostegno della Ostpolitik per l’apertura con i paesi dell’Est.

Tale visione, da qualcuno definita “eretica”, si rivelerà profetica alla luce degli avvenimenti degli anni seguenti. L’allora Ministro degli Esteri Moro, autore di questa annotazione, sapeva bene quale fosse la situazione internazionale tra la fine degli anni sessanta ed il decennio successivo. Gli Stati Uniti erano impegnati nella guerra del Vietnam con ingenti forze militari e risorse. Questa concentrazione di fondi ed energie verso il sud est asiatico aveva portato l’Amministrazione statunitense a rivedere le proprie priorità a svantaggio della tradizionale centralità dell’Europa nella propria pianificazione. Sebbene questo spostamento verso l’estremo oriente della politica estera di Washington fosse stato oggetto di appositi negoziati con la controparte sovietica, i fatti successivi hanno dimostrato che il Cremlino ha approfittato di questa situazione per agire contro l’Europa occidentale ed i suoi alleati. Questo processo sarebbe avvenuto non attraverso un conflitto frontale con la NATO, ma ricorrendo ad una guerra non convenzionale attuata da organizzazioni terroristiche supportate dai Servizi segreti del blocco orientale.

Verso il Lodo Moro: il terrorismo palestinese. In quegli anni faceva la sua comparsa in Europa il fenomeno terroristico dei gruppi palestinesi. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e Settembre Nero sono i nomi delle maggiori formazioni operanti in quegli anni, sebbene la galassia delle unità terroristiche arabe fosse molto più vasta. Sono molti i fatti salienti, tra il 1969 e il 1973, che hanno visto come epicentro l’aeroporto di Roma – Fiumicino e che avrebbero portato il nostro Paese ad imboccare la strada dell’accordo con questi gruppi, ad iniziare dal dirottamento su Damasco di un aereo della TWA in volo da Los Angeles a Tel Aviv (con scalo a Roma) compiuto il 29 agosto 1969 dalla più famosa terrorista dell’organizzazione palestinese, Leila Khaled, cui è seguito l’attentato del 16 giugno 1972 messo in atto con un mangianastri imbottito di tritolo dotato di un timer regalato da due giovani arabi a delle ragazze israeliane conosciute poco prima. Nonostante la deflagrazione dell’ordigno nella stiva durante il volo, l’aereo, non avendo riportato danni, atterrava a Tel Aviv. Il 4 aprile 1974 a Ostia, fuori Roma, due membri dell’organizzazione palestinese venivano fermati e arrestati per detenzione di alcuni missili Strela di costruzione sovietica – facilmente trasportabili – da usare contro un aereo della compagnia di bandiera israeliana El Al durante le fasi di decollo o atterraggio. Il 17 dicembre 1973 a Fiumicino, cinque terroristi lanciavano delle bombe incendiarie all’interno di un aereo della statunitense Pan Am uccidendo trenta passeggeri tra cui quattro italiani. Il gruppo terroristico, poi, prendeva possesso di un velivolo della Lufthansa (la compagnia di bandiera tedesca) costringendo il pilota a decollare. Dopo aver fatto scalo per il rifornimento di carburante ad Atene, il velivolo veniva fatto atterrare a Kuwait City dove, una volta liberati gli ostaggi, le Autorità provvedevano ad arrestare i terroristi, rilasciati, in seguito e posti a disposizione dell’organizzazione terroristica palestinese. Anche i siti industriali sono stati oggetto di attentati da parte di tali organizzazioni arabe come occorso il 3 agosto del 1972 all’oleodotto di Trieste (in concomitanza con un simile attacco avvenuto in quegli anni in Olanda).  

Il Lodo Moro. Di fronte alla portata degli attentati i Paesi europei decisero di entrare in contatto con le formazioni per stringere speciali accordi affinché il proprio territorio fosse escluso da ulteriori attacchi. L’Italia, presumibilmente nel 1972/1973, attraverso il Ministero degli Affari Esteri, allora retto da Aldo Moro, stringeva un patto – passato alla storia come il Lodo Moro – che concedeva piena libertà alle organizzazioni palestinesi di muoversi nel nostro territorio e ad utilizzarlo come base logistica per azioni in tutta Europa. La controparte avrebbe assicurato che in Italia non ci sarebbero stati altri attentati, ad esclusione delle sedi e dei siti americani ed israeliani presenti nel territorio della penisola. Probabilmente l’autore materiale dell’accordo e’ stato il Servizio segreto italiano: prima il SID, il Servizio informazioni Difesa (organo d’intelligence italiano dal 1965 al 1977) e poi il SISMI – Servizio Informazioni Sicurezza Militare (a partire dal 1978) nella figura del Colonnello Stefano Giovannone, responsabile del centro del Servizio a Beirut, in Libano. L’agente infatti per tutto il periodo di durata del Lodo, aveva provveduto a mantenere i contatti tra Roma e il Medio Oriente sia con le organizzazioni terroristiche sia con gli altri Paesi, in particolare Giordania e Libano, che mal tolleravano la massiccia presenza di organizzazioni palestinesi nel proprio territorio. L’assenza di azioni terroristiche in Italia suggerisce che nel corso degli anni settanta l’accordo tra le parti sia stato sostanzialmente rispettato. Come hanno dimostrato diversi eventi, i terroristi scoperti e arrestati in procinto di progettare attentati nel nostro Paese sono stati liberati e riportati alle loro basi palestinesi anche attraverso la Libia di Mu’ammar Gheddafi, da sempre Padre Protettore di tali organizzazioni, cui forniva campi di addestramento e significativo supporto.

Da Ortona a Bologna: la violazione del Lodo. Nel novembre del 1979 ad Ortona, piccola cittadina abruzzese, i Carabinieri sequestrarono dei missili Strela (lo stesso modello usato dai due arabi a Ostia nel 1974) ad alcuni rappresentanti romani di Autonomia Operaia, movimento della sinistra extraparlamentare e rivoluzionaria in aperta opposizione al Partito Comunista Italiano di quel periodo. Indagando sulla provenienza delle armi, le Autorità Giudiziarie arrestavano a Bologna Abu Anzeh Saleh, ufficialmente studente fuori corso presso l’Ateneo ma, in verità,  membro, in qualità di responsabile della rete logistica in Italia, del gruppo terroristico FPLP e della formazione tedesca Separat di Carlos lo Sciacallo, nome di battaglia di Ilich Ramirez Sanchez, famoso rivoluzionario venezuelano marxista – leninista e filo arabo, autore, con i suoi gruppi, di numerosi attentati in tutta Europa. Fin da subito le poche persone a conoscenza dell’accordo stretto da Moro si rendevano conto che l’arresto di Saleh avrebbe potuto essere considerato dalle formazioni palestinesi come una violazione del Lodo, con le inevitabili conseguenze che ciò avrebbe comportato. Attraverso le informazioni raccolte dal Colonnello Giovannone, cominciavano ad arrivare a Roma i primi segnali d’allarme circa la volontà di compiere un’azione punitiva nei confronti dell’Italia da parte dell’ala più oltranzista dell’organizzazione palestinese. Col passare dei mesi, con la condanna di Saleh, dal Medio Oriente giungeva la notizia che l’eventuale attacco contro il nostro Paese sarebbe avvenuto per mano di elementi esterni al FPLP. Il 2 agosto 1980 una bomba nascosta dentro una valigia nella sala d’aspetto della stazione di Bologna esplodeva causando ottanta vittime e il ferimento di circa duecento persone. Per circa trent’anni o più si è voluto associare questa strage alla matrice neofascista nell’ambito della strategia della tensione, tuttavia altri punti di vista, ancorché controversi ed in parte smentiti, porterebbero a puntare il dito contro quel Carlos a capo del gruppo Separat di cui anche lo stesso Saleh faceva parte.  

La spinta dall’est del terrorismo europeo. Le formazioni eversive di estrema sinistra presenti in tutta Europa negli anni settanta e ottanta erano le francesi Action Directe, le tedesche RAF o Rote Armee Fraktion – conosciute anche come Banda Baader – Meinhof dal nome dei due capi storici – e le italiane Brigate Rosse. Questo sistema eversivo europeo occidentale, in coordinamento con quello medio orientale, nella sua fase più matura, era gestito dall’Unione Sovietica. I Servizi segreti di Mosca, quelli cecoslovacchi (Stb) e della Germania orientale (Stasi e Hva) hanno contribuito a supportare il terrorismo rosso di quegli anni. Fin dai primo dopoguerra, la Cecoslovacchia si è sempre dimostrata in prima linea per quanto riguarda le attività clandestine comuniste in occidente. Per approfondire quest’ultimo aspetto è necessario far riferimento a diverse fonti tra cui l’archivio Mitrochin, (il voluminoso dossier sui documenti top secret del kgb che l’ex archivista del Servizio sovietico Vasilij Nikitič Mitrochin ha portato in occidente nei primi anni novanta contribuendo a svelare la fitta rete di legami tra il blocco orientale e l’occidente durante la guerra fredda) ed il libro di Antonio Selvatici “Chi spiava i terroristi? KGB, STASI – BR, RAF. I documenti negli archivi dei servizi segreti dell’Europa <<comunista>>” Ed. Pendragon, 2010, i quali trattano in modo approfondito le dinamiche con cui gli organi di intelligence d’oltrecortina aiutavano i terroristi. I campi erano stati creati dal Kgb nel 1953 per addestrare anche il personale dell’apparato militare clandestino in seno al PCI, composto soprattutto da ex Partigiani comunisti fuggiti dall’Italia in quanto colpevoli, durante la guerra, di crimini e per questo motivo ricercati dalle Autorità, alle attività di sabotaggio, guerriglia, intercettazione, all’uso delle armi interrate dal Kgb nel nostro Paese (che si aggiungevano a quelle utilizzate dalle formazioni rosse durante l’ultimo biennio della Seconda Guerra Mondiale e mai restituite agli alleati alla fine del conflitto) e alle comunicazioni radio cifrate. Karlovy Vary è il nome della località nell’ex Cecoslovacchia in cui sorgeva il campo d’addestramento gestito, a differenza di quello che si potrebbe pensare, non dai Servizi segreti di Praga ma dal Gru, l’organo di intelligence militare di Mosca. La presenza degli 007 sovietici in questi campi potrebbe confermare la tesi secondo cui la stagione degli attentati degli anni settanta e ottanta non fosse solo una manovra politica ma una vera e propria guerra contro l’occidente, combattuta con strumenti ben lontani dal concetto tradizionale di conflitto. Nel 1974, dopo l’arresto, da parte dei Carabinieri di Renato Curcio e Alberto Franceschini, esponenti di spicco delle BR ma completamente slegati ed autonomi dalle trame politiche di Mosca e Praga, il Servizio segreto cecoslovacco incrementò la propria presenza a fianco del movimento eversivo. I vertici del PCI erano a conoscenza di questi legami “pericolosi” tra est e ovest al punto che il segretario del partito Enrico Berlinguer inviava, nel 1975, una delegazione a Praga guidata da Salvatore Cacciapuoti, in qualità di responsabile agli affari internazionali del PC, per conoscere quanti e chi fossero gli italiani addestrati in Cecoslovacchia. Dalle Autorità slave solo silenzio (probabilmente dovuto alla volontà di non trattare l’argomento con elementi esterni o perché, come effettivamente è stato, i Servizi cecoslovacchi non avevano alcuna autorità su questi campi) e una vaga promessa di inviare a Roma una relazione in merito. L’invio della delegazione è dovuto al fatto che il PCI, soprattutto a partire dal 1974, cominciava a considerare la questione terrorismo rosso con molta preoccupazione, soprattutto perché era a conoscenza che elementi interni al partito continuavano a collaborare alle attività clandestine comuniste d’oltrecortina e che l’unica soluzione per contribuire a fermare l’ondata eversiva che stava colpendo l’Italia (e forse anche per scongiurare eventuali situazioni di imbarazzo politico) era collaborare con le Forze dell’Ordine, in particolare con la Sezione antiterrorismo dei Carabinieri guidati dal Generale Carlo Alberto dalla Chiesa.

Contatti tra le Brigate Rosse e l’FPLP. Le Brigate Rosse godevano anche del supporto delle formazioni palestinesi, le quali mettevano a disposizione dei terroristi italiani i campi di addestramento del Libano, Yemen, Siria e Iraq mentre, come in una sorta di scambio, le BR custodivano le armi che i terroristi arabi portavano in Italia per colpire gli obiettivi israeliani e statunitensi presenti nel nostro Paese. Questi contatti erano avvenuti durante gli anni settanta proprio quando, come già detto, i Servizi segreti italiani stringevano con il Fronte Popolare di Liberazione delle Palestina (FPLP) di George Habbash il Lodo Moro. Come riportato dalla Stampa, citando le carte della Commissione parlamentare d’Inchiesta sul caso Moro, già a partire dal 1976 i Vertici del FPLP cominciavano una rivoluzione all’interno delle varie sigle arabe a causa delle diverse vedute circa la richiesta di Mosca di por fine ai dirottamenti aerei e cominciavano a diffidare delle BR. Inoltre i vertici arabi volevano mantenere, a tutti i costi, la parola data al Governo Italiano attraverso il Lodo risparmiando la penisola da ogni tipo di attacco. Il già citato Colonnello Giovannone, il capo centro del SID/SISMI in Libano, veniva informato dal suo omologo palestinese circa i piani eversivi delle BR in Italia. L’ultima nota inviata a Roma dall’Ufficiale del Servizio risaliva al 18 febbraio 1978 e diceva:”[…] Mio abituale interlocutore rappresentante Habbash, incontrato stamattina, ha vivamente consigliatomi non allontanarmi da Beirut, in considerazione eventualità di dovermi urgentemente contattare per informazioni riguardanti operazione terroristica di notevole portata programmata asseritamente da terroristi europei che potrebbe coinvolgere nostro Paese se dovesse essere definito progetto congiunto discusso giorni scorsi in Europa da rappresentanti organizzazione estremista. Alle mie reiterate insistenze per avere maggiori dettagli, interlocutore ha assicuratomi che opererà in attuazione confermati impegni miranti escludere nostro Paese da piani terroristi del genere, soggiungendo che mi fornirà soltanto se necessario, elementi per eventuale adozione adeguate misure da parte delle nostre Autorità.” A distanza di circa un mese dalla ricezione di questo telegramma da parte del governo italiano, l’Onorevole Aldo Moro veniva rapito dalle Brigate Rosse. Con la morte dello statista si concludeva quello che può essere definito “Il decennio di Aldo Moro”, iniziato nel 1969 in qualità di Ministro degli Esteri e terminato nel 1978 da presidente della Democrazia Cristiana con il suo assassinio.

Lettere inedite dei familiari di Moro a Sciascia: sono conservate in Fondazione ad Agrigento. Ma la famiglia dell’ex presidente del Consiglio ucciso dalle Br non ha autorizzato la lettura pubblica, scrive Alan David Scifo il 17 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". Da quasi trent’anni quelle lettere sono lì: la busta strappata e l’indirizzo della casa di Leonardo Sciascia, che intanto scriveva il suo “Affaire Moro” avanzando numerosi dubbi sul ruolo dello Stato e della politica durante i giorni del rapimento di Aldo Moro, segretario Dc, ucciso in seguito dalle Brigate Rosse. Dall’altra parte c’era la moglie di Aldo Moro che si rivolgeva allo scrittore nei giorni successivi all’uccisione del leader della Democrazia Cristiana e sua figlia che scriveva altre missive all’autore, fortemente impegnato in politica e personaggio con un ruolo di rilievo nella società del tempo. Quelle lettere, consegnate insieme ad altre 14mila alla Fondazione Sciascia di Racalmuto, oggi sono rimaste conservate e poco si conosce sul contenuto, nonostante una lettura potrebbe probabilmente portare più chiarezza in uno dei casi più bui della storia italiana. Quello che si sa è che, mentre le lettere della moglie di Aldo Moro, Eleonora Chiavarelli, hanno un contenuto esiguo, quelle della figlia, Maria Fida, sarebbero molto più lunghe e si rivolgerebbero allo scrittore ponendo delle domande e dei quesiti, per dei dubbi che Maria Fida Moro voleva fugare. Sono proprio queste tre lettere quelle impossibili da leggere a causa della mancata autorizzazione data dalla diretta interessata, e che rimarranno in questo stato se la negazione continuerà. Questo accade per un fatto semplice: le lettere infatti, pur essendo state donate dagli eredi di Sciascia alla Fondazione voluta proprio dallo scrittore qualche anno prima della sua morte, non sono di proprietà della stessa, ma della famiglia. Se questa ha comunque dato l’autorizzazione alla lettura, la legge impone che anche dall’altro lato ci sia il nulla osta per poter leggere e pubblicare, cosa che non è mai avvenuta. Quelle lettere però potrebbero essere importanti ai fini della ricostruzione della vita del presidente del Consiglio ucciso il 9 maggio del 1978. Così come si scoprì che erano importanti, ma solo diversi anni dopo la sua morte, le missive che Enzo Tortora, presentatore al centro di un clamoroso caso di malagiustizia, inviava dal carcere a Leonardo Sciascia. Oggi quelle lettere sono in un caveau, mentre l’unica bibliotecaria a 15 ore settimanali continua il suo non facile lavoro di inventario, volto a collegare le lettere esistenti, per un archivio ancora fermo alla lettera C nonostante un lavoro che dura da più di 30 anni. Mentre quelle decine di migliaia di lettere giacciono all’interno delle stanze della grande Fondazione costruita nell’ex centrale Enel, la Regione taglia i fondi e addirittura gli addetti ai lavori non riescono a pagare neanche le bollette della luce e in alcuni casi sono costretti a dover spegnere i riscaldamenti a giorni alterni al fine di rientrare nel budget annuale. Oltre a quelle dei familiari di Moro, che sono rimaste inedite, a creare scalpore è il fatto che altre lettere oggi sono sconosciute ai più solo per l’assenza di un lavoro mirato che cerchi di ricostruire la genesi degli autori, al fine di chiedere l’autorizzazione per la pubblicazione di missive che da sole potrebbero dare un quadro più chiaro degli anni che vanno dal Settanta ai Novanta, forse i più bui della storia italiana. Tutti infatti, come il boss Giuseppe Sirchia (lui dal carcere) scrivevano a Sciascia, consci della sua influenza nella società di quegli anni. Anni di misteri, di uccisioni, di mafia e di strani suicidi.

1978 L’ANNO DEI TRE PAPI.

1978, l'anno dei tre papi. Quarant'anni fa, in 53 giorni, si succedono tre pontefici alla guida della Chiesa cambiandone il volto e aprendola al mondo sulle spinte innovatrici del Concilio Vaticano II e avviandola verso il terzo Millennio, scrive Orazio La Rocca il 10 agosto 2018 su Panorama. Tre papi in un solo anno, precisamente in 71 giorni. È quanto la Chiesa cattolica vive nel 1978, quando al suo vertice la Navicella di Pietro colpita al cuore per ben due volte nel breve giro di 53 giorni—con le morti di Paolo VI (Giovanni Battista Montini) del 6 agosto e di Giovanni Paolo I (Albino Luciani) la notte del 28 settembre—, sembra traballare paurosamente sotto i colpi di un destino avverso che, per di più, vede ascendere al Soglio un papa non italiano, il polacco Giovanni Paolo II, dopo oltre 4 secoli e mezzo, con tutte le incognite legate ad una “novità” a cui onestamente nessuno era preparato. Vicende storiche di cui ricorre il quarantennale iniziato con la celebrazione della scomparsa di Montini definito da papa Francesco nell’omelia alla Messa di suffragio “il Papa della modernità”. Il 1978, dunque, passa alla storia come l’anno in cui tre pontefici tra gioie e dolori, sorprese e interrogativi cambiano il volto della Chiesa aprendola al mondo sulle spinte innovatrici del Concilio Vaticano II ed avviandola verso il terzo Millennio. Succede quando dopo la morte di Paolo VI vengono eletti il 26 agosto Giovanni Paolo I (Albino Luciani) che muore dopo 33 giorni, e il 16 ottobre Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla), il primo papa di un Paese dell’Est a regime comunista. Un annoil 1978in cui la Chiesa, pur colpita da uno shock tremendo trova la forza di rialzarsi e riprendere il cammino attraverso giorni contrassegnati anche da momenti altrettanto drammatici e dolorosi come l’esplosione del terrorismo culminato col sequestro di Aldo Moro e l’assassinio della sua scorta del 16 marzo e l’uccisione dello stesso Moro il 9 maggio, lo stesso giorno in cui la mafia ammazza a Palermo il giornalista Peppino Impastato, uno dei tanti martiri di Cosa Nostra caduti solo per aver fatto il proprio dovere di denunziare il male con la scrittura.

I TRE PAPI DEL 1978, UN ANNO DI TRAGEDIE. Dodici mesi archiviati col prezzo più alto pagato al terrorismo rosso e nero, iniziato il 7 gennaio con la strage di Acca Larentia a Roma con l’uccisione di tre giovani missini da parte di militanti armati comunisti, ma che anche a livello internazionale vengono macchiati di sangue con l’invasione del Libano dell’esercito israeliano il 14 marzo, una delle tante guerre nella martoriata Terra Santa che ancora oggi non riesce a trovare pace e felice convivenza tra le popolazioni dell’intera area. Un anno che in Italia anche a livello politico si vivono momenti di altissima tensione con le dimissioni del presidente della Repubblica Giovanni Leone, travolto dallo scandalo Lockheed da cui poi uscirà assolto, e sostituito per la prima volta da un partigiano, il socialista Sandro Pertini, che da non credente allaccerà una fraterna amicizia con papa Wojtyla, contribuendo entrambi, ciascuno secondo le proprie competenze, alla ricostruzione (morale, sociale e politica) del Paese.

SHOCK SALUTARE PER LA CHIESA. Appare del tutto naturale, quindi, parlare del 1978 come l’anno in cui la Chiesa, malgrado la non felice cornice in cui il Paese è costretto a vivere, viene colpita da un salutare choc che anche 40 anni dopo continua a suscitare interesse, domande, curiosità, voglia di capire come ho tentato di mettere a fuoco nel libro “L’Anno dei Tre papi” (Edizioni S.Paolo). Un momento epocale per la cattolicità e per il mondo intero su cui ancora c’è tanto da scoprire e da capire, anche se è indiscutibile che l’opera riformatrice di Montini, Luciani e Wojtyla—benché diversi per carattere, cultura, stili, origini familiari, sensibilità pastorali—, parte dalla stessa base ispiratrice nel Concilio Vaticano II. Tre papi-padri che, con i loro sguardi, con i loro sentimenti, con la loro passione pastorale in momenti difficili per la Chiesa e per la società intera, ci hanno trasmesso l’importanza di “essere sempre in cammino…” e la consapevolezza “di aver bisogno di incontrare sempre nuovamente il Signore sulla nostra strada…”, ricorda il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin. Sentimenti che non a caso nel anni successivi animeranno l’opera pastorale di Benedetto XVI e di papa Francesco, pur di fronte ad attacchi, critiche e resistenze che, dentro e fuori le Sacre Mura, hanno tentato (con Ratzinger) e stanno tentando (con Bergoglio) di frenare la ventata riformatrice conciliare per aprire la Chiesa al mondo contemporaneo nel rispetto della Tradizione evangelica.

Paolo VI, il Papa che non riuscì a salvare l'amico Aldo Moro. Gli sforzi del Papa per salvare Moro, amico di lunga data. La sua lettera alle BR, l'idea di un riscatto in denaro, la Caritas, i cappellani carcerari, e alla fine la sconfitta, scrive Edoardo Frittoli il 18 ottobre 2018 su "Panorama". Il 9 maggio 1978 Giovanni Battista Montini, Papa Paolo VI, cadde in ginocchio nella cappella privata raccogliendosi nel dolore e nella preghiera. Aveva appena ricevuto la notizia del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel portabagagli della Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani. I suoi sforzi, esplicitati durante le omelie lungo i 55 interminabili giorni della prigionia e sintetizzati nella lettera indirizzata ai brigatisti, si erano rivelati vani.

Salvare la vita ad un amico. Paolo VI non era riuscito a salvare la vita ad uno statista massima espressione della politica cattolica italiana ma non soltanto: aveva perso, quel pomeriggio di 40 anni fa, un amico sincero. I due si conoscevano infatti da lungo tempo, sin dalla militanza comune nella FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) di cui proprio Montini era stato tra i fondatori. Il futuro Papa aveva chiamato proprio Moro a dirigere la Federazione negli anni difficilissimi della guerra, che costituirono un passo fondamentale nella formazione politica dello statista barese e di molti altri futuri leader della Dc. Partecipare dunque alla tragedia di una persona che Montini considerava di famiglia fu un durissimo colpo anche per la già compromessa salute del Pontefice che si spegnerà appena tre mesi più tardi, il 6 agosto 1978. L'intervento mediatore del Pontefice della provincia di Brescia da poco canonizzato fu duplice: da una parte gli appelli per la liberazione dell'ostaggio ripetuti in diverse occasioni pubbliche ed attraverso i media; dall'altra un'azione individuale che si sviluppò nell'arco temporale compreso tra gli ultimi due comunicati delle Brigate Rosse, tra il 24 aprile e il 5 maggio. Tre giorni prima del ritrovamento del comunicato n°8 (quello che conteneva la richiesta di scambio con i brigatisti in carcere) Giovanni Battista Montini scrisse una lettera ai carcerieri di Moro, che diventerà oggetto di una lunga controversia per le ipotesi di manipolazione dei contenuti che si sono succedute negli anni. Nella missiva il Pontefice chiedeva la liberazione dell'ostaggio "senza condizioni".

La lettera di Paolo VI ai carcerieri di Aldo Moro. La ricezione della lettera, che pareva aver omologato l'atteggiamento del Vaticano alla linea della "fermezza" espressa dai partiti politici con l'eccezione del Psi (in primis La Dc di Andreotti) gettò Moro nello sconforto e nell'angoscia. In realtà nella prima stesura il Papa avrebbe scritto "senza condizioni imbarazzanti" (dove l'aggettivo indicherebbe più che altro l'imbarazzo come sinonimo di paralisi nelle trattative "ufficiali") lasciando quindi intendere l'intenzione del Pontefice di intervenire come soggetto di una negoziazione diretta con le BR. Sulla correzione fatta all'ultimo minuto del testo della lettera si sono succedute numerose interpretazioni e ipotesi. Alcune di queste chiamano in causa l'allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, che avrebbe pilotato per mezzo di Agostino Casaroli (futuro Segretario di Stato Vaticano) la correzione del testo nella versione definitiva, tesi che sarà ripresa nel film di Marco Bellocchio sul rapimento Moro, "Buongiorno Notte". Il primo ad indicare la possibilità di un intervento di Andreotti fu Corrado Guerzoni, Segretario personale di Moro. La sua idea sarà smentita da successive testimonianze come quella del Segretario particolare di Paolo VI Monsignor Pasquale Macchi. Proprio il segretario sarà uno dei primi a confermare l'intenzione di Papa Paolo VI di volersi sostituire come ostaggio in cambio della liberazione di Aldo Moro. A supportare le voci sul tentativo estremo di Montini furono i pregressi che videro il Pontefice spendersi più volte in azioni simili. Si ricordano gli interventi accorati e determinati durante il rapimento di Mario Sossi tra l'aprile ed il maggio 1974. Nello stesso mese si offrì ai terroristi palestinesi in cambio dei 105 bambini sequestrati in una scuola elementare israeliana; nel 1977 offrì la sua persona in cambio degli ostaggi del volo Lufthansa 181sequestrati dai Palestinesi a Mogadiscio. La lettera di Giovanni Battista Montini ai carcerieri di Moro e le intenzioni del Vaticano di intervenire come intermediario nella trattativa per la liberazione dell'ostaggio furono considerate dalle Brigate Rosse come un'opportunità di ottenere quel riconoscimento politico che lo Stato italiano, con l'affermarsi della strategia della fermezza, negava.

Paolo VI e la ricerca della trattativa diretta con le Brigate Rosse. Attraverso il Vaticano, in quei due drammatici mesi del 1978, presero forma diverse iniziative alternative alla trattativa tra lo Stato e le Brigate Rosse. E' nota l'iniziativa del Vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi che, in costante contatto con i familiari di Aldo Moro, avrebbe organizzato la raccolta del riscatto pronto ad essere versato ai carcerieri in cambio della vita del prigioniero. Sempre da ambienti religiosi partì l'iniziativa di far passare la trattativa attraverso le carceri dove erano detenuti i brigatisti. Se ne occupò l'Ispettore generale dei cappellani carcerari Don Cesare Curioni, che avrebbe secondo alcune fonti ricevuto l'incarico direttamente da Paolo VI di prendere contatto con i membri delle BR, (in particolare modo alle Carceri Nuove di Torino) con l'obiettivo di raggiungere i carcerieri di Moro che chiedevano la liberazione dei detenuti politici. Durante gli ultimi giorni della prigionia di Moro si mosse anche la Caritas, nell'intento di convogliare il rapimento sul piano umanitario. Era il 18 aprile 1978, giorno della scoperta del covo di via Gradoli e del falso comunicato n.7, quando sui giornali comparve la dichiarazione di intervento dell'organizzazione umanitaria cattolica. L'iniziativa della Caritas fu affidata a Monsignor Georg Hussler, invitato all'azione dal Vaticano, mentre la Dc si manteneva a riguardo su posizioni neutrali perché non venisse identificata l'azione umanitaria con quella politica, che si era stabilizzata sull'idea di una fermezza senza compromessi con le Brigate Rosse.

I Socialisti bussano alla porta del Vaticano. Nei giorni del sequestro Moro cercarono di mettersi in contatto con Paolo VI e la Santa Sede anche i Socialisti, sin dall'inizio favorevoli alla trattativa con i terroristi rossi. Lo fecero per suggerimento di Padre David Maria Turoldo, mentre l'iniziativa fu portata avanti dall'ambasciatore del Psi presso la santa Sede, il Senatore Gennaro Acquaviva. Questi si mise in contatto con monsignor Clemente Riva, Vescovo ausiliario di Roma.  I colloqui tra i due non ebbero esito, in quanto Riva riferì tra le righe che anche il Vaticano, pur mantenendo viva la possibilità di un'iniziativa diretta del Santo Padre, si sarebbe assestato sulla linea della fermezza. Anche ai Socialisti, riferì Acquaviva, fu indicata l'esistenza di una forte somma raccolta per pagare un ipotetico riscatto. Il 5 maggio è recapitata l'ultima lettera di Aldo Moro alla famiglia, quella che contiene le durissime accuse alla Democrazia Cristiana per il comportamento intransigente che portò il Presidente del partito di fronte alla morte. Lo scritto, testamento dell'amore di Moro per i membri della sua famiglia e per gli amici più cari, si conclude con una nota amara nei confronti di un amico di lunga data, Papa Montini. Le ultime righe della lettera recitano così: "il Papa ha fatto pochino. Forse ne avrà scrupolo". Così come Aldo Moro si sentirà abbandonato da tutti nelle ultime ore passate nella "prigione del popolo", Giovanni Battista Montini sarà affranto da queste ultime parole rivolte a lui dall'amico di sempre, che non riuscì a salvare nonostante gli sforzi compiuti.

Dio, Dio Mio: perchè mi hai abbandonato? 13 maggio 1978. Il tema della solitudine e della sconfitta ritornerà nel discorso di Paolo VI in occasione della Messa in ricordo di Aldo Moro, che rifiutò i funerali di Stato. Il Pontefice usò le parole del Salmo 22, in cui Gesù sulla croce si sente abbandonato dal Padre. L'omelia del Papa si apriva il 13 maggio 1978 con queste parole: E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui. Signore, ascoltaci!

Come Paolo VI cercò di salvare Aldo Moro e di convincere Andreotti. In due messaggi mai pubblicati e anticipati da Panorama, la famiglia dello statista in mano alle Br chiedeva al Papa di fare pressioni sul premier di allora, scrive Orazio La Rocca il 24 aprile 2018 su "Panorama". Il caso Moro visto dal Vaticano. Se ne parla, per la prima volta, con la pubblicazione di documenti inediti usciti dagli archivi della Santa Sede nel libro Non doveva morire. Come Paolo VI cercò di salvare Moro (Edizioni San Paolo), ora in libreria. L'autore del volume, Riccardo Ferrigato, rivela tra l'altro il giallo che si consumò Oltretevere intorno alla famosa lettera di Paolo VI "agli uomini delle Brigate Rosse", dove in una prima stesura il pontefice chiedeva il rilascio di Moro "senza condizioni imbarazzanti". Nella versione finale, invece, Papa Montini parla, di "rilascio senza condizioni". Non solo. Ferrigato porta alla luce anche le pressioni su Paolo VI da parte della famiglia Moro, che non si fidava più dei politici. Sono testimoniate da due messaggi riservati del 31 marzo e del 5 aprile 1978 - Panorama li anticipa nell'altra pagina - fatti arrivare al Pontefice tramite il vescovo Antonio M. Travia. Vi si "ringrazia" il Papa e gli si chiede interventi più "concreti", mettendolo in guardia dalla indisponibilità di Giulio Andreotti e del governo a non avviare trattative con le Br. Non sarà stato un caso che il 21 aprile Montini si rivolge pubblicamente "agli uomini delle Br", mentre in segreto ha già fatto preparare 15 miliardi di lire - confezionati con fascette di una banca israeliana - per pagare il riscatto del presidente della Dc, come rivelerà alla Commissione parlamentare Moro don Fabio Fabbri, segretario di don Cesare Curioni, l'ispettore dei cappellani militari incaricato dal Papa di trovare un canale con i terroristi.

Nella prefazione del libro di Ferrigato, monsignor Leonardo Sapienza, Reggente della Prefettura della Casa Pontificia, accenna poi a un eventuale, straordinario sacrificio: la disponibilità di Paolo VI a offrirsi come ostaggio alle Br in cambio di Moro. D'altra parte, nell'ottobre 1977, papa Montini aveva offerto analoga disponibilità per favorire la liberazione di ostaggi, dopo una spettacolare azione della banda terroristica tedesca Baader-Meinhof. 

31 marzo 1978. Padre Santo, la Sig.ra Eleonora Moro ha chiamato a colloquio la Sig.na Civran, Vice Presidente Centrale del Movimento Laureati di A.C., e l’ha pregata di far pervenire a Vostra Santità, nella maniera più riservata e più diretta, un suo appello. La Sig.na Civran si è consigliata a tal fine con Romolo Pietrobelli e con Padre di Rovasenda. Essi hanno convenuto di affidare a me tale incarico, che pertanto questa mattina mi è stato confidato personalmente e oralmente dal Padre di Rovasenda. Il pensiero della Sig.ra Moro può essere espresso, nella sostanza, come appresso. La famiglia Moro è profondamente grata al Santo Padre per l’affettuosa e ripetutamente dichiarata partecipazione al dramma del suo congiunto e suo. Ritiene che la lettera indirizzata da Aldo Moro al Ministro Cossiga sia autentica, almeno materialmente. È convinta comunque che sia autentico l’appello in esso contenuto di fare qualcosa per la sua liberazione, cioè di non irrigidirsi nel rifiuto di trattarla e particolarmente che le trattative siano mosse dalla Santa Sede. La Sig.ra Moro oserebbe chiedere al Santo Padre di chiamare l’On. Andreotti per indurlo personalmente ad accettare la via della trattativa. (La Sig.ra Moro teme che l’On. Andreotti possa essere incline verso un disinteressamento del Governo alla vicenda. Le dà motivo di coltivare tale timore il fatto che l’On. Andreotti sia l’unica personalità politica di rilievo che non si è recato a farle visita). La Sig.ra Moro chiederebbe che, dopo tale passo, la Santa Sede direttamente, se possibile, o per tramite di una organizzazione internazionale, per esempio la Croce Rossa, prendesse contatto con le Brigate Rosse al fine di avviare l’inizio di una qualche trattativa. Padre Santo, mi perdoni e mi benedica. Umilissimo e devotissimo figlio Antonio M. Travia

5 aprile 1978. La Sig. Moro desidera che giunga al Santo Padre l’espressione della profonda gratitudine sua e dei suoi figliuoli per il nobilissimo appello rivolto domenica scorsa ai rapitori per la liberazione del marito. Nello stesso tempo desidera manifestarGli l’angoscia e lo scoramento suo e dei suoi famigliari per la posizione di assoluta intransigenza assunta dai Partiti e dal Governo. Si rende conto in qualche modo che la Dc non può assumere posizione diversa, ma ritiene che così non debba fare il Governo [...] pertanto che sia fatta autorevole pressione su l’On. Andreotti. Ritiene che lo scambio con un personaggio non di rilievo delle Brigate Rosse sarebbe accettato da quest’ultime. Assicura che non le è pervenuto alcun messaggio dal marito, nonostante le supposizioni avanzate dalla stampa. La Sig.ra Moro ripone solo nella preghiera e nella iniziativa del Santo Padre tutta la sua speranza. Antonio M. Travia

(Articolo pubblicato sul n° 18 di Starbene in edicola dal 19 aprile 2018 con il titolo "Per salvare Moro il Papa convinca Andreotti").

La lettera di Paolo VI ad Aldo Moro venne “ritoccata”: ecco la prima versione, scrivono il 3 maggio 2018 Emanuele Cascapera e Roberta Benvenuto su "Michele Santoro". Un documento inedito, riportato alla luce dopo 40 anni. E’ la prima versione in bozza della famosa lettera scritta di proprio pugno da Papa Paolo VI agli “uomini delle brigate rosse” per chiedere la liberazione di Aldo Moro. Un testo limato e bilanciato parola dopo parola, in cui tratti di penna e correzioni svelano come si sia passati dalla prima versione a quella definitiva, resa poi pubblica. E forse oggi, alla luce delle nuove rivelazioni, si può dire che quelle modifiche furono il sottile tentativo di non svelare le carte in una partita importantissima e delicata, che puntava alla liberazione di Moro. “Io non vi conosco, e non ho modo d’avere alcun contatto con voi. Per questo vi scrivo pubblicamente, profittando del margine di tempo, che rimane alla scadenza della minaccia di morte, che voi avete annunciata contro di lui, Uomo buono ed onesto, che nessuno può incolpare di qualsiasi reato”, scriveva il papa il 21 aprile 1978. Ma soprattutto si tratta della lettera con la quale il Pontefice chiedeva ai brigatisti il rilascio di Aldo Moro “Semplicemente, senza condizioni”. Quel “Senza condizioni”, che negli anni ha lasciato spazio a molteplici interpretazioni, è appunto il frutto di alcune, misurate modifiche che hanno poi portato alla formulazione definitiva della lettera consegnata per sempre alla Storia. Ma cosa aveva scritto, di suo pugno, Paolo VI? Quali sono state le modifiche apportate alla prima stesura? E su suggerimento di chi? A documentare la bozza della lettera scritta dal Pontefice in persona è Riccardo Ferrigato, ricercatore e scrittore classe 1986, autore del volume “Non doveva morire. Come Paolo VI cercò di salvare Aldo Moro” (Edizioni San Paolo). La prima versione della lettera, infatti, conteneva l’invito a liberare l’ostaggio “Semplicemente, senza alcuna imbarazzante condizione”, diventato poi “Semplicemente, senza condizioni”. Una variazione significativa che, secondo il ricercatore, aveva l’obiettivo di tenere celato il tentativo di trattativa che lo stesso Papa aveva cercato di avviare per riuscire a liberare e salvare Aldo Moro, ma che quel riferimento a condizioni “imbarazzanti” poteva mettere a rischio. Un testo importante, quello di Ferrigato, che contiene anche altri documenti inediti, tra cui due lettere a Paolo VI dove, tramite un intermediario, la moglie di Aldo Moro chiede direttamente aiuto al Pontefice dimostrando di non avere piena fiducia nel Governo e un documento della Segreteria Vaticana che mette in luce i violenti dissidi tra gli uomini più vicini al Papa.

ALTRO CHE CONTRO IL COMPROMESSO STORICO. CI VOLEVANO DEINDUSTRIALIZZARE.

CHI COMANDA IL MONDO.

Quelli che decidono tutto: nomi, cognomi, club, confraternite e…scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" l'8 novembre 2017. Spesso sulla stampa, nei media, nei talk show, in numerosi libri, si parla di poteri forti. Ma a cosa ci si riferisce con tale espressione? Tale espressione sta ad indicare un ristretto numero di persone che, in piena autonomia, gestisce i capitali e la finanza del mondo. In questi casi il pensiero va alle grandi dinastie dei banchieri come i Rothschild, J.P. Morgan, i Rockfeller o ancora la famiglia Hahn-Elkann e la famiglia Worms, la famiglia Thyssen, la famiglia Kahn, la famiglia Goldschmidt, le famiglie Fitzgerald e Kennedy, le famiglie Agnelli – Caracciolo e molte altre. Si tratta di poteri per lo più sconosciuti all’uomo comune ma che agiscono in silenzio ed hanno una notevole influenza sulle decisioni dei governi ufficiali. Scrive Marco Pizzuti nel suo libro “Rivoluzione non autorizzata” con riguardo a siffatti poteri: “Il loro braccio esecutivo” clandestino per eccellenza è la massoneria, un’organizzazione praticamente sconosciuta alla popolazione, che da secoli occupa tutti i palazzi del potere. Non è quindi una mera coincidenza se ritroviamo i suoi membri tra i principali leader di ogni grande capovolgimento storico”. Negli ultimi decenni la massoneria è stata affiancata da altri organismi, creati dalla èlite finanziaria, tra i quali vanno menzionati il club Bilderberg, la Commissione Trilaterale, il CFR, la Round Table e il club di Roma. Scrive ancora Marco Pizzuti nel succitato libro: “Tutti questi nuovi organismi cooperano con la massoneria, per accelerare il processo di globalizzazione nel rispettivo campo di competenza e ambito territoriale” Al fine di realizzare tale obiettivo i suddetti organi invitano nei loro club gli esponenti di maggiore spicco delle varie categorie sociali: industriali, banchieri, politici, scrittori, giornalisti, militari. Nel settore bancario internazionale particolarmente rilevante è, ad esempio, il ruolo svolto in passato e fino ad oggi dalla famiglia Rothschild, proprietaria di un impero bancario che, secondo le stime degli esperti controllerebbe più di 350 miliardi di dollari. Tra i componenti della famiglia, un ruolo primario ricopre Jacob Rothschild il quale, oltre a gestire i beni di famiglia, gestisce anche i beni di oltre 10 mila azionisti. Lo stesso ha intrattenuto rapporti con i più importanti uomini di governo e della politica internazionale quali i presidenti degli Stati Uniti Ronald Reagan e Bill Clinton e l’ex primo ministro inglese Margaret Thatcher. Nel 2002 organizzò l’European Economic Round Table al quale intervennero ospiti di prestigio quali Nicky Oppenheimer, Warren Buffet, importante imprenditore ed economista statunitense, considerato il più grande valueinvestor di sempre (nel 2003 definì i derivati come armi finanziarie di distruzione di massa), Arnold Schwarzenegger, attore, politico, imprenditore e produttore cinematografico, James Wolfensohn, economista e banchiere australiano naturalizzato statunitense. Non inferiore a quella degli Rothschild è certamente la potenza finanziaria della famiglia Rokfeller il cui più prestigioso esponente è stato David Rockfeller uno dei fondatori del gruppo Bilderberg e della Commissione Trilaterale. Nel 2012 Rockfeller e Rothschild, due delle più grandi famiglie di banchieri, si riunirono. La “RIT Capital Partners” di Jacob Rothschild acquistò una quota del “Financial Services di Rockfeller. Si trattò di un accordo storico a seguito del quale la RIT Capital Partners divenne socio del gruppo Rockfellere con il 37% di capitale. Il potere finanziario dei Rothschild è presente anche in Italia dove il gruppo Rothschild ha condotto l’acquisizione di Armani Exchange da parte di Armani Group, e ha avuto il ruolo di advisor per Cassa Depositi e Prestiti e Fintecna sulla privatizzazione di Fincantieri attraverso un’IPO di 390 milioni, e per l’acquisizione del 40% di Ansaldo Energia da parte di Shanghai Electric per ben 400 milioni di euro, e dalla creazione di due joint venture e dalla fusione da 24 miliardi di euro tra Atlantia e Gemina. Dovendo parlare di poteri forti non si può non parlare del gruppo Bilderberg del quale, come si è detto, uno dei fondatori fu David Rockfeller su iniziativa del quale nel maggio del 1954 fu organizzato il primo incontro. Il gruppo nacque con lo scopo di favorire, in un forum annuale, il dialogo tra l’Europa e il Nord America. Alle riunioni sono invitati a partecipare circa 120-150 leader politici, esponenti qualificati dell’industria, della finanza, del mondo accademico e dei media. L’incontro è un forum di discussioni informali sui trend e le principali problematiche che affliggono il mondo. Gli incontri sono caratterizzati da segretezza dato che non possono essere rivelate all’esterno le informazioni ricevute né l’identità o la appartenenza di chi ha fornito le informazioni. Non vi è alcun programma dettagliato, non vengono proposte delle risoluzioni, non viene espresso alcun voto e non viene esternata alcuna dichiarazione politica. E’ stata proprio la natura segreta dell’evento e del contenuto delle discussioni svolte all’interno del forum che intorno al gruppo Bilderberg ha fatto sorgere teorie complottiste, a mio avviso, non del tutto infondate. Sul presupposto che è impensabile ritenere che nel contesto di un mondo globalizzato qualsiasi questione, sia in Europa che nel Nord America possa essere affrontata in modo unilaterale, nel corso degli anni, gli incontri annuali hanno avuto ad oggetto una vasta gamma di argomenti spaziando dal commercio, ai posti di lavoro, alla politica monetaria per gli investimenti alla sicurezza e alle dinamiche politiche internazionali. Nel club Bilderberg vi sono stati e vi sono anche italiani. Si possono ricordare Franco Bernabè, banchiere e dirigente pubblico, già amministratore delegato dell’ENI e successivamente di Telecom Italia, fondatore di FB Group, holding di partecipazioni e management company di un gruppo attivo nel settore della consulenza strategica dell’ITC e delle energie rinnovabili e investito di numerosi altri incarichi di prestigio tra cui quello, dal 2011 al 2013 di Presidente della GSMA, organizzazione internazionale che riunisce gli operatori di telefonia mobile eancora membro dell’European Roundtable of industrialist e dell’International Council di JP Morgan. Si possono poi ricordare come facenti parte del club Bilderberg gli italiani Claudio Costamagna e John Elkann, il primo banchiere e dal luglio 2015 presidente della Cassa Depositi e Prestiti oltre che Presidente di FSI SGR Spa, società costituita dalla riorganizzazione del Fondo strategico italiano Spa-FSI di cui è statoa sua volta presidente e il secondo presidente della Fiat Chrysler Automobiles  oltre che presidente ed amministratore delegato della Exor N.V. una società di investimento controllata dalla famiglia Agnelli. Sembra facciano parte del club anche la nota giornalista della rete televisiva “La 7” Lilli Gruber nonché Carlo Ratti, architetto ed ingegnere, docente presso il Massachuttes Institute Technology di Boston. In passato, ci sono stati anche tanti altri membri italiani nella Bilderberg. Tra i quali spicca il nome dell’ex premier Mario Monti, un vero e proprio habitué della Bilderberg. Poi spiccano i nomi di Giovanni Agnelli, Umberto Agnelli, Renato Ruggiero, Barbara Spinelli, Marco Tronchetti Provera, Mario Draghi, Alessandro Profumo, Monica Maggioni, presidente della RAI e molti altri ancora. Per avere un’idea del potere che gestisce il gruppo Bilderberg basta pensare che tutti coloro che ne fanno parte possiedono più della metà del patrimonio mondiale, il che induce ad avanzare qualche dubbio sul fatto che la finalità di questo club e dei relativi incontri sia quella di “aumentare i dialoghi tra Nord-America ed Europa e che i partecipanti si incontrino per tre giorni all’anno soltanto per trascorrere un piacevole weekend o per perseguire finalità benefiche. Così come si è indotti a ritenere che ogni qualvolta questo enorme potere finanziario e non solo, venga messo in pericolo, il club reagisca con azioni non sempre ortodosse per usare un eufemismo. E non è un caso se ogni familiare di David Rockfeller è o direttore della CIA o ambasciatore all’ONU o segretario di Stato o ricopre incarichi di vertice nel settore della sanità. Lo stesso David Rockfeller è stato d’altra parte, dal 2000, presidente ed amministratore delegato di JP Morgan, la banca che certamente costituisce uno dei poteri forti di cui parliamo. Il gruppo Bilderberg raccoglie i potenti della terra, leader politici ed economici precursori della globalizzazione, di diversi paesi come, può constatarsi ad esempio avuto riguardo alla riunione che nel 2002, in un clima di segretezza e tra rigide misure di sicurezza, ebbe luogo a Chantilly in Virginia. Ebbene, a tali lavori parteciparono, tra gli altri, l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, e l’ex direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, oggi presidente della BCE. Più di recente, nel 2012 ha avuto luogo a Roma, una riunione del gruppo Bilderberg alla quale era presente Mario Monti, allora Presidente del Consiglio, che illustrò agli intervenuti gli sforzi dell’Italia per rimettere i conti in ordine. Presenti tra gli altri gli allora ministri Francesco Profumo, Paola Severino ed Elsa Fornero. Presenti erano anche importanti esponenti del mondo finanziario quali Ignazio Visco (Bankitalia), Alberto Nagel (Mediobanca), Rodolfo de Benedetti (CIR), Mauro Moretti (FS), Enrico Cucchiani (Intesa), Fulvio Conti (Enel), Etienne Davignon (già commissario europeo per il mercato interno). Presenti anche esponenti del mondo del giornalismo come Lilli Gruber. A presiedere il gruppo vi era Henry De Castries, pdg di Axa, società di assicurazioni. Numerose furono le contestazioni e le critiche allora formulate in occasione del suddetto incontro sia da parte della sinistra che della destra. In particolare affermò Francesco Storace che “partecipare al Bilderberg è peggio che essere della P2, è commettere tradimento”. Per quanto riguarda la partecipazione del Presidente del Consiglio Mario Monti, Palazzo Chigi fece sapere che Monti aveva accettato l’invito per poter parlare delle misure adottate dall’Italia per combattere la crisi e che “le polemiche sono fuor di luogo”. Monti ha ricoperto anche cariche nella Commissione Trilaterale, nella Università Bocconi, di cui era presidente, e in Goldman Sachs, incarichi abbandonati all’atto della sua nomina a presidente del Consiglio. Peraltro è stato sostenuto, non senza fondamento, che il forum del gruppo Bilderberg altro non è che un consesso dei poteri forti che decide le sorti del mondo, fuori dai meccanismi democratici. Di Contro Etienne Davignon nel negare questa caratteristica del gruppo Bilderberg ha affermato: “Se fossimo la cupola segreta che comanda il mondo dovremmo vergognarci come cani” Certo Davignon convince meno quando afferma che le 130 personalità che si incontrano ogni anno sono importanti quanto la cena sociale di un Cral di ferrovieri. Del club fanno parte e vi vengono invitate soltanto personalità di rilievo del mondo economico, finanziario, politico, dei media. Significativo è quanto verificatosi in occasione della riunione tenutasi nel 2011 a Saint Moritz e alla quale erano presenti tra gli altri Henry Kissinger, David Rockfeller, Paolo Scaroni, banchieri internazionali, imprenditori greci e spagnoli. In tale occasione, l’allora eurodeputato della Lega Nord, Mario Borghezio, si presentò al bureau per chiedere di partecipare ai lavori ma venne malamente allontanato.  Dichiarò allora all’ANSA: “Ci hanno letteralmente preso a spintoni. Mi hanno anche dato un colpo al naso che ora è sanguinante. Un comportamento che smaschera la reale natura di questa consorteria: è una società segreta e non un gruppo che si riunisce in modo riservato”. Sembra che questi incontri, ai quali più volte Gianni Agnelli aveva partecipato gli piacessero meno di quelli dell’altro grande circolo di potenti, la Trilaterale fondata nel 1972 dal suo grande amico David Rockfeller. La natura del gruppo Bilderberg e le sue finalità sono molto discusse e le critiche nei confronti di tale gruppo provengono sia dalla sinistra che dalla destra. Comune ad entrambe è la convinzione che ci si trovi in presenza di una organizzazione globale che vuole dominare il mondo. Per la sinistra si tratterebbe di un organismo composto da capitalisti e finanzieri che ordiscono trame politiche ed economiche mentre per la destra si tratterebbe di una elite che intenderebbe imporre i propri disegni, tipo euro, in un mondo antidemocratico. Al di là di enfatizzazioni, non vi è dubbio che il Bilderberg è un gruppo di capitalisti che difendono il capitalismo. Nel corso degli incontri i partecipanti affrontano non solo temi politici, di economia o di finanza ma probabilmente discutono di affari e magari ne fanno e talvolta favoriscono qualche nomina rilevante. Forse non è una coincidenza il fatto che, dopo la partecipazione di Herman Van Rompuy ad una cena organizzata dal gruppo a Bruxelles, questi, poco tempo dopo divenne presidente del Consiglio europeo. Van Rompuy, appena eletto presidente del Consiglio UE, si dimostrò favorevole ad un prelievo sulle transazioni finanziarie, una specie di Tobintax. Lo stesso, prima della sua nomina aveva spiegato questo suo orientamento ai potenti politici, banchieri e uomini d’affari del riservato gruppo Bilderberg in un incontro avvenuto nel castello di Valduchesse, nelle vicinanze di Bruxelles, in occasione della cena di cui sopra. Ma negli incontri si parla anche di vicende internazionali. Così, in occasione della riunione tenutasi a Saint Moritz, si parlò molto di Grecia, di dollaro, di Libia e del conflitto interno all’Opec tra sauditi e iraniani sul prezzo del barile di greggio. Se forse è eccessivo affermare che il gruppo Bilderberg costituisce una organizzazione globale che vuole dominare il mondo tuttavia tale ipotesi non è del tutto priva di un qualche fondamento. Ma vi è chi va oltre e ritiene la implicazione del club Bilderberg anche in vicende tragiche che hanno attraversato il nostro Paese. Così l’ex magistrato Ferdinando Imposimato, nel suo libro “La Repubblica delle stragi impunite” e in una intervista rilasciata in occasione della presentazione del libro sostiene che: “La stagione delle stragi non serviva a destabilizzare lo Stato, serviva ad impedire la dinamica politica nel senso di portare gli equilibri politici da destra verso la sinistra.” E continua: “Hanno fatto tutto questo non per fare un colpo di Stato ma per rafforzare il potere, destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare il potere politico”. E spingendosi oltre afferma, facendo riferimento ad un documento rinvenuto tra gli atti della indagine condotta dal giudice Alessandrini sulla strage di Bologna e riportato nel libro, che il gruppo Bilderberg sarebbe responsabile della strategia della tensione e quindi anche delle stragi. “Il Bilderberg-afferma- governa il mondo e le democrazie in modo invisibile, in modo da condizionare lo sviluppo democratico di queste democrazie”. Si è sostenuto poi da Carlo Freccero, ma anche nei media e in varie pubblicazioni, tra cui Micro Mega, che Casaleggio & C sarebbero legati al gruppo Bilderberg e con una tesi alquanto azzardata, ma forse non priva del tutto di fondamento, anche se sfornita di prove certe, sostiene che i poteri forti “si sarebbero costruiti una gestibile opposizione interna attraverso Casaleggio, Grillo e quindi il movimento Cinque Stelle”. Ciò sarebbe avvalorato dal fatto che del gruppo Bilderberg, sempre secondo Freccero, farebbe parte il giornalista Enrico Sasson, socio di Casaleggio, manager legato all’Aspen Institute e quindi al gruppo Bilderberg.  L’Aspen Institute , che sorge a Roma in Piazza Navona, è una filiale locale europea dell’Aspen e una ramificazione italiana  dell’internazionale Club Bildenberg e la cui finalità è l’internazionalizzazione  della leadership imprenditoriale. Enrico Sasson, in una lettera indirizzata al Corriere della Sera, pur ammettendo di essere socio di minoranza nella Casaleggio associati, precisava di non rappresentare alcun potere forte, di non conoscere Beppe Grillo, mai incontrato, di non avere mai partecipato alla gestione del suo blog in seno alla Casaleggio Associati, di non avere mai avuto niente a che fare con il movimento Cinque Stelle. Affermava essere calunniose e diffamatorie le teorie del complotto apparse in blog e in siti di diversa connotazione e che era una informazione distorta e malata quella che, anche in articoli e servizi televisivi, sosteneva il teorema dei poteri forti dediti ad infiltrare il Movimento. Se la tesi di Carlo Freccero fosse fondata, ciò significherebbe che il potere avrebbe deciso lui stesso di gestire l’opposizione. In altri termini, se dietro il Bilderberg vi fosse la Casaleggio, ciò significherebbe che il potere avrebbe deciso di infiltrare l’opposizione. Molto legata al gruppo Bilderberg è la Commissione Trilaterale all’interno della quale sono presenti più di 200 personalità eminenti (uomini politici, diplomatici, industriali, finanzieri, universitari, giornalisti) provenienti da Europa, America, e Giappone. Anche la Trilaterale fu fondata, qualche anno dopo la Bilderberg, da David Rockfeller, presidente della Chase Manhattan Bank di New York e altri dirigenti tra cui Henry Kissinger e pare anche da Gianni Agnelli anche se , per quanto riguarda quest’ultimo, non vi sono documenti che lo provino. Mario Monti ne fu presidente dal 2010 al 2011. Nel 2016, dopo oltre 33 anni, la Commissione Trilaterale si è riunita a Roma; in tale occasione gli Italiani che vi hanno partecipato sono stati oltre 20 tra cui Mario Monti, John Elkan, Mario Tronchetti Provera e la presidente della RAI Monica Maggioni. Riunioni della Commissione sono state tenute a Tokio, Washington, Parigi, Kioto e come si è detto in Italia. In occasione di una riunione avvenuta a Parigi nel dicembre del 1975 ed avente ad oggetto la gestione delle risorse mondiali, alla domanda su chi finanziasse l’attività della commissione, il direttore della stessa Zbigniew Brzezinky rispondeva : “Cittadini privati e qualche governo con contributi di minore importanza”. In occasione dell’incontro di Parigi si parlò sulla stampa di “un nuovo ordine mondiale”, affermazione non del tutto campata in aria se si considera che a tale riunione intervennero e fecero un discorso l’allora primo ministro Jacques Chirac e l’ex governatore della Banca d’Italia Guido Carli. Gianni Agnelli, intervenendo, nel 1984 alla riunione della Commissione Trilaterale a Washington, sottolineò il ruolo dei vertici economici dei “sette grandi”, cioè i sette paesi più industrializzati.

Chi comanda, come e perché, dalle Logge all’Opus Dei, finanza e…scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" l'11 novembre 2017. Alla riunione della Trilaterale che ebbe luogo a Roma nell’aprile del 2016 parteciparono uomini di governo, ministri imprenditori, i massimi esponenti della classe dirigente mondiale del Nord America, Europa ed Asia. Tra i partecipanti vi furono l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, Jean Claude Trichet, ex presidente della BCE, Monica Maggioni, presidente della RAI. Presenti anche Andrea Guerra, ex AD di Luxottica, molto amico di Renzi, Maria Elena Boschi, allora ministro delle riforme che una settimana prima della Trilaterale, in una intervista aveva dichiarato: “Ci attaccano proprio perché non siamo schiavi dei poteri forti, non siamo il terminale di niente e di nessuno. Questo non piace a molti” Affermazione quanto meno strana se si considera che svolse un intervento in un meeting in cui erano presenti i poteri più forti del pianeta. Per dare una idea del vero e proprio grumo di potere presente alla riunione della Trilaterale di Roma basta considerare che tra gli invitati vi erano persone come Michael Bloomberg, miliardario, ex sindaco di New York, Jurghen Fitchen, della DeutschBank, Gerald Corrigan, vice presidente della Federal Reserve oggi a Goldman Sachs, Eric Schmidt, presidente di Google, Marta Dassau Finmeccanica, Herman Van Rompuy ex presidente del Consiglio europeo, oltre che David Rockfeller, fondatore della Trilaterale. Gianfelice Rocca, presidente dell’Assolombarda, intervistato da un giornalista della “Gabbia”, al termine della riunione dichiarava: “Io credo che questo governo abbia il sostegno di gran parte dell’establishement”. Secondo indiscrezioni trapelate dalla riunione, nell’incontro si sarebbe parlato anche del destino affatto roseo dell’Italia: la Trilaterale non immaginava un bel futuro per il nostro paese. Alla riunione si è parlato anche di privatizzazioni e di tagli alla spesa, il che significa la svendita del patrimonio pubblico dell’Italia, cioè la svendita delle aziende pubbliche. Ma al meeting si è parlato anche di immigrazione e, fatto strano, a presiedere l’incontro era Peter Satermann, direttore non esecutivo di Goldman Sachs, rappresentante generale dell’Onu per le migrazioni e componente del Bilderberg. Come mai e perché uno degli uomini più importanti della finanza internazionale si occupava di immigrazione? La risposta è semplice: lo scopo della Trilaterale è quello di favorire l’immigrazione di massa dal sud del mondo verso l’Europa in maniera da consentire alle multinazionali di avvalersi di una ingente massa di lavoratori sottopagati. Ciò è avvalorato dal fatto che, sempre secondo indiscrezioni, tutti i membri della Trilaterale concordarono sul fatto che i giornali parlassero dei vantaggi dell’immigrazione. Tutto ciò evidenzia la preminenza del potere economico –finanziario sulla politica che finisce con l’eseguire il diktat di questa elite di potere e come il fine del Bilderberg, della Trilaterale e di altri organismi simili, sia quello di togliere sovranità agli Stati e di creare un nuovo ordine mondiale. Desta impressione oggi leggere la relazione che, nel 1984, a conclusione della riunione della Trilaterale di Washington, fu predisposta dall’ex consigliere americano per la sicurezza Zbgniew Brzezinsky, dal segretario del partito socialdemocratico David Owen e dall’ex ministro degli esteri giapponese Saburo Okita, per conto della Commissione Trilaterale, relazione nella quale vengono indicati quelli che sarebbero stati i quattro pericoli per il mondo. Sembra quasi che i redattori del rapporto avessero previsto, con estrema precisione, e con 33 anni di anticipo, quello a cui oggi, nel 2017 assistiamo. Secondo quanto si legge nella suddetta relazione 4 erano i pericoli che , negli anni successivi avrebbero minacciato il mondo e l’umanità: Un significativo peggioramento della collaborazione economica e politica tra gli Stati , una crescente disoccupazione; un abbassamento del tenore di vita e una minore democrazia. Una escalation dei conflitti regionali, sempre meno contenibili sul piano internazionale e latori di rischi crescenti di confronto tra est ed ovest. Grossi sconvolgimenti sociali in ampie zone d’Africa e forse dell’America latina; fenomeni di carestie di grandi dimensioni che potrebbero sfociare, in massicce emigrazioni, in caos e violenza, riducendo in questo modo le prospettive di democrazia ed offrendo maggiori opportunità agli estremisti di destra e di sinistra di impadronirsi del potere. L’ultimo dei grossi pericoli che oggi incombono sull’umanità intera e sul pianeta è costituito dal rischio di una guerra nucleare. Afferma il rapporto della Trilaterale: “La guerra nucleare, con le sue capacità di provocare morti e distruzioni illimitate, costituisce una catastrofe dalla quale il globo potrebbe non essere in grado di riprendersi”. Il pensiero, leggendo queste parole, non può non andare al conflitto tra il premier nordcoreano e il presidente Trump che oggi rischia l’esplosione di un conflitto nucleare. Più che di previsioni viene da pensare ad un programma che nel 1984 qualcuno si proponeva di attuare negli anni successivi. Ma forse si tratta di una idea eccessiva. Ma come soleva dire Andreotti a pensare male si fa peccato ma spesso si indovina. Per quanto riguarda le reali finalità del gruppo Bilderberg, gli studiosi di questa materia scrivono a proposito dei promotori Bernardo de Lippe, ufficiale olandese, ex ufficiale delle SS  e Joseph Retinger, politico polacco e massone : “La loro ambizione era quella di costruire una Europa Unita per arrivare ad una profonda alleanza con gli Stati Uniti e quindi dar vita a un nuovo Ordine Mondiale, dove potenti organizzazioni sopranazionali avrebbero garantito più stabilità rispetto ai singoli governi nazionali…” Al di là delle teorie complottiste, non vi è dubbio che costituisce un dato  difficilmente smentibile il fatto che ci si trovi in presenza di un intreccio tra politica, finanza e in particolare banche  in cui un gruppo ristretto di persone, a partire dal 1954 e una sola volta all’anno, si riunisce per decidere, nella massima segretezza il futuro politico ed economico dell’umanità. “Le Monde” intravede nelle biografie di Mario Draghi, Mario Monti e Luca Papademos la prova dei disegni nascosti maturati “nei piani alti della banca d’affari Goldman Sachs”. Ed è legittimo nutrire dei sospetti sul conflitto di interessi di cui hanno dato prova i banchieri che, come Corrado Passera sono diventati ministri nel governo Monti. E non bisogna dimenticare che la caduta di Silvio Berlusconi fu determinata e voluta dai poteri forti che teleguidarono lo spread. L’influenza poi del gruppo Bilderberg sulla politica internazionale, secondo quanto scrive sulla “Repubblica “Giuliano Balestreri, sarebbe comprovata dalla lettera che Richard Perle, membro del comitato direttivo del gruppo Bilderberg e teorico del neoconservatorismo americano, scrisse a Bill Clinton per chiedere la rimozione di Saddam Hussein. Di tale gruppo direttivo, oltre che Henry Kissinger e Edmond de Rotschild, hanno fatto parte anche 12 italiani tra cui il presidente di Telecom Italia, Franco Bernabè. Si è anche sostenuto che le riunioni del Bilderberg fossero anche finalizzate ad ascoltare quelli che sarebbero stati futuri presidenti e premier, anche degli USA. Così, sarebbero stati ascoltati, Tony Blair, Hillary Clinton, e lo stesso Barak Obama. Quest’ultimo si dice fosse presente con Hillary nel 2008, quando Bilderberg avrebbe negoziato un accordo per passare la mano attendendo le elezioni del 2016. Al meeting, avrebbero partecipato un paio di volte Mario Monti (nel 2011 e 2013), Enrico Letta (nel 2012). Non sarebbe estranea a Bilderberg la formazione del governo Monti. Non si ha notizia di una partecipazione di Renzi. Sembrerebbe quindi che per governare in Italia e nel mondo bisogna essere graditi ai poteri forti. Non può poi non suscitare dubbi, sul ruolo del Bilderberg nelle vicende internazionali, quanto scritto dal giornalista inglese, Tony Gosling, in un giornale di Bristol, secondo cui nel meeting del Bilderberg, nel 2002, si era parlato di invasione dell’Irak da parte degli USA, ben prima che ciò accadesse. Per comprendere l’importanza del Gruppo Bilderberg, della Trilaterale e degli altri organismi simili e il peso che in ambito internazionale queste elite rivestono, basta avere riguardo all’oggetto delle discussioni che hanno luogo all’interno di questi gruppi in occasione delle periodiche riunioni anche se il contenuto delle relazioni e degli interventi è mantenuto rigorosamente segreto. I temi trattati infatti, riguardano spesso i rapporti tra Europa e Stati Uniti, l’economia e in particolare la gestione della crisi economica mondiale, l’euro, l’inflazione, il protezionismo, la globalizzazione, il petrolio, il mercato delle armi, l’immigrazione. Essendo però segreto il contenuto delle relazioni, non è dato conoscere le decisioni adottate dal gruppo riguardo tali problematiche; i partecipanti agli incontri sarebbero però tenuti a mettere in pratica quanto deciso. L’interrogativo che spesso si pone è quali siano i rapporti tra la massoneria e gli altri poteri forti anche se deve riconoscersi che le inchieste che hanno riguardato la massoneria e il potere politico finanziario nazionale e internazionale, quasi sempre non hanno portato a nulla. E’ appena il caso di ricordare come l’inchiesta sulla P2 si concluse, dopo tanto clamore, in un nulla di fatto. Va tuttavia detto che quando si parla di massoneria bisogna tenere presente che ci si trova in presenza di due diversi livelli: un livello ufficiale ispirato a temi quali la libertà, l’eguaglianza la tolleranza religiosa e un secondo livello segreto caratterizzato dalla presenza di comitati di affari e di rapporti con la criminalità organizzata, mafia, camorra ‘Ndrangheta, servizi segreti deviati e terrorismo stragista. In altri termini ci si trova in presenza di due mondi paralleli. Ma, come sostenuto da taluno, esiste un rapporto tra la massoneria e i poteri forti di cui abbiamo parlato e se esiste a quale dei due livelli fa riferimento? Una risposta interessante ci viene da Giuliano De Bernardo, ex Gran Maestro della principale “obbedienza” italiana, il Grande Oriente d’Italia, dal 1990 al 1993, quindi ai vertici della massoneria, che abbandonò riferendo quello che pensava realmente. Ha dichiarato De Bernardo: “Dietro Gelli, (che rappresentava il livello oscuro della massoneria ndr), c’erano gli ambienti americani. Gelli è un prodotto degli americani”. De Bernardo parla anche del sequestro di Aldo Moro che aveva perso la fiducia degli americani che lo consideravano “un cavallo di Troia, “un ponte che avrebbe consentito ai comunisti di arrivare al potere. Quindi gli americani si trovarono senza rappresentanti autorevoli e affidabili in un Paese chiave dello scacchiere internazionale. E in piena guerra fredda”. Ed aggiunge: “Sono anni convulsi, nei quali il confronto tra il mondo atlantico e il blocco comunista è durissimo: anni di riarmo nucleare, di servizi segreti attivissimi, di spie, di omicidi politici. Tutto appare lecito in quel momento. La prospettiva di un sorpasso elettorale da parte dei comunisti, così come l’ipotesi di un compromesso storico tra Dc e PCI, terrorizza gli ambienti atlantici”. Il dipartimento di Stato americano e la CIA si convinsero allora di avere a che fare con una situazione di emergenza in Italia. Gli americani ritennero, e qualcuno glielo suggerì che, in Italia, Gelli, l’esponente della più potente loggia massonica mai esistita, era l’uomo adatto ad arginare il pericolo comunista. Non vi è dubbio quindi che vi fosse un ben preciso interesse degli americani ad impedire a Moro di realizzare il suo progetto di un compromesso storico tra DC e PCI. Continua De Bernardo sostenendo che allorquando divenne Gran Maestro, LinoSalvini, Sindona, Calvi e Gelli accrebbero il loro potere “fatto di alta finanza, controllo dei media (come il gruppo Rizzoli-Corriere della Sera), corruzione politica ed uso dei servizi segreti” e istaurarono collusioni pericolose. Ma De Bernardo parla anche dei rapporti con la criminalità organizzata e della mafia infiltrata nella famosa Loggia Garibaldi in cui confluivano esponenti dell’area grigia tra massoneria e malavita. Dice De Bernardo ; “Ricordo che una volta, quando andai in visita a quella loggia pensai di avere intorno a me tutti i capi di Cosa Nostra in America”. La potente massoneria americana d’altra parte era legata fin dai tempi della Seconda guerra mondiale ai servizi segreti e in rapporti organici con ambienti siciliani. E’ d’altronde un fatto noto che lo sbarco degli alleati in Sicilia fu preparato dalla massoneria siciliana insieme a elementi della mafia americana. Io credo che si può dare per acclarata l’esistenza di rapporti non sempre leciti tra massoneria e potere politico- finanziario nazionale e internazionale nonché di una contiguità tra il livello oscuro della massoneria e le realtà criminali presenti nel nostro Paese. Così, per quanto riguarda La P2, numerose sentenze hanno accertato come Gelli godesse di un potere enorme ed avesse creato una rete di potere caratterizzata da favoritismi, finanziamenti concessi ai privati dalle banche vicine alla P2, da rapporti anche con poteri criminali, e come avesse un ruolo rilevante nel favorire le nomine anche di personaggi delle istituzioni; ma se aveva il potere di fare nominare una determinata persona, aveva anche il potere di asservirla a sé. E’ appena il caso di ricordare come Gelli raggiunse l’apice del proprio potere con l’appoggio di banchieri iscritti alla P2 quali Michele Sindona e Roberto Calvi. Va poi ricordato, a proposito degli intrecci tra massoneria e servizi segreti, come Gelli dal 1941 al 1945 sembra sia stato al servizio del Counter Intelligence Corp, cioè il controspionaggio militare americano. E che il potere di Gelli permanesse immutato anche dopo le indagini aperte sulla P2, a seguito della scoperta della lista degli iscritti, è testimoniato da una lettera inviata da Gelli al gran Maestro del Grande Oriente, nella quale lo stesso si dichiara certo dell’esito favorevole dell’indagine. (Non è un mistero per alcuno-scrive Gelli- che queste conclusioni saranno interamente assolutorie). E in effetti le indagini, non concluse dal Procuratore di Palmi Agostino Cordova, vennero trasferite per competenza alla Procura di Roma dove il procedimento, dopo essere rimasto fermo per circa sei anni, nel dicembre del 2002 venne archiviato dal giudice Augusta Iannini.  Sempre De Bernardo evidenzia come il trasferimento della inchiesta Cordova alla Procura di Roma coincise con la pax mafiosa seguita all’assassinio di Falcone e Borsellino del 1992, anno in cui ebbe inizio l’inchiesta di Cordova. Analogie inquietanti. Lo stesso Cossiga, in una intervista, affermò che la P2 era stata una creazione degli americani, una “operazione “Filoamericana e atlantica…la P2 era perciò un baluardo anticomunista, un caposaldo di un certo tipo di politica estera e di pensiero”. Se le sentenze hanno escluso che la P2 cospirasse contro lo Stato, tuttavia “le ragioni atlantiche” che secondo la P2 dovevano cambiare l’Italia, erano certamente illegali. Si può parlare di poteri forti o poteri occulti anche a proposito dell’Opus Dei? Indubbiamente l’Opus Dei e la massoneria presentano una caratteristica comune che è quella della riservatezza interna. Dichiarò, in proposito, l’ex Gran Maestro Di Bernardo, in una intervista del 23 marzo 1991: “Se si parla di potere occulto, volendo fare riferimento alla massoneria, bisognerebbe considerare anche l’Opus Dei, che svolge una attività particolarmente occulta”. Ed ancora, in una intervista rilasciata a Giovanni Bianconi del “Corriere della Sera” Di Bernardo non lesina critiche all’Opus Dei. Afferma infatti: “Forse che quello non è un potere occulto? La massoneria (quella ufficiale, n.d.r.) cerca sempre di far conoscere le proprie finalità, si muove sempre sulla strada della trasparenza. Non mi risulta che l’Opus Dei abbia fatto qualcosa di simile. Eppure esiste e si muove ai limiti della riservatezza. Dobbiamo pensare che in Italia esistano due pesi e due misure?” Quanto fin qui scritto porta a ritenere che un gruppo ristretto di persone detiene ed orienta la politica finanziaria e internazionale e che con i suoi meccanismi di globalizzazione impone, in maniera sempre più incisiva, il proprio potere alle masse. Possiamo dire che una ristretta elite, l’uno per cento dell’umanità comanda sul restante 99% definendone il destino e in alcuni casi persino la sopravvivenza. Ma ciò che è più grave è che tale uno per cento detiene il proprio potere in “regime di democrazia rappresentativa”, favorito dalla legislazione e addirittura con il consenso popolare! E ciò è stato possibile, come scrive Rosario Castello nel libro “L’invisibile identità del potere nascosto”, grazie alla finanza mondiale con l’arma della globalizzazione e della moneta privata. E’ pertanto fondato ritenere che durante gli incontri che periodicamente hanno luogo tra i partecipanti del Bilderberg, della Trilaterale e degli altri organismi simili, vengano prese dalla classe dirigente globale, al riparo della privacy armata e della segretezza, le decisioni più rilevanti per il futuro dell’umanità su politica, economia e questioni militari, decisioni che sono e rimangono top secret.” Noi ci illudiamo di essere liberi ma l’illusione viene meno nel momento in cui i nostri diritti entrano in conflitto con quelli che sono gli interessi dei poteri forti e ci rendiamo conto di chi comanda realmente in questa società. Si assiste oggi ad un appiattimento dei partiti politici, delle istituzioni e degli organi di informazione che noi crediamo liberi e indipendenti ma che mai si porranno, salve rare eccezioni, in contrasto con tali poteri. In realtà sono le elite finanziarie di cui ho parlato che in ambito politico, finanziario, economico e dell’informazione, stabiliscono al nostro posto quali sono i limiti di conoscenza e di libertà oltre i quali non è consentito andare. Woodrow Wilson, nel 1913 eletto Presidente degli Stati Uniti, dopo la approvazione del “Federal Reserveact (la legge costitutiva della Federal ReserveBank) e la sua promulgazione da parte dello stesso Wilson, anni dopo dichiarò: “Sono uno degli uomini più infelici. Io ho inconsapevolmente rovinato il mio paese, una grande nazione industriale è ora controllata dal suo sistema creditizio. Non siamo più un governo della libera opinione, non più il governo degli ideali e del voto della maggioranza, ma il governo dell’opinione e della coercizione di un piccolo gruppo di personaggi dominanti”. Considerazione che anche oggi non può non essere condivisa.

Mattei, Kennedy, Moro: quando la mafia decideva i destini del mondo, scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" il 24 ottobre 2017. Il Presidente degli Stai Uniti Donald Trump ha annunciato su Twitter la sua intenzione di divulgare i documenti, a lungo coperti dal segreto di Stato, sull’assassinio di J.F. Kennedy avvenuto a Dallas, nel Texas, il 22 novembre 1963. Sia la Commissione Warren che indagò sull’omicidio del Presidente degli Stati Uniti sia la stessa famiglia Kennedy, avevano optato per l’apposizione del segreto di Stato sui documenti riguardanti l’assassinio. Si trattò di una scelta infelice dato che tale decisione non fece altro che rafforzare le tesi degli scettici e dei complottisti. In realtà, nel corso degli anni, sono stati desecretati più del 90% dei documenti soprattutto a seguito del film JFK di Oliver Stone. I rimanenti documenti avrebbero dovuto essere desecretati nel 2017, come previsto nel “President Jhon F. Kennedy Assassination Records Collectio Act, intenzione che sembra avere, in questi giorni, manifestato il Presidente Trump. Avverso tale intenzione di Trump è stata tuttavia avanzata, da ambienti della Casa Bianca e in particolare dalla CIA la preoccupazione che la pubblicazione dei file più recenti potrebbe mettere in pericolo le operazioni di intelligence. In una dichiarazione giurata, Jefferson Morley, giornalista del Washington post ed esperto di servizi segreti, ha dichiarato che la CIA dispone di circa 1100 documenti riguardanti l’assassinio di Kennedy che dovrebbero esser mantenuti segreti fino al 2017, documenti che non sono mai stati visti dal Congresso degli Stati Uniti. E’ fondato ritenere che vi siano pressioni da parte delle Agenzie federali, CIA ed FBI, per convincere il Presidente Trump a mantenere ancora il segreto sui rimanenti documenti e ciò al fine di evitare di mettere in pericolo i segreti nazionali, relativi ad inchieste collegate che potrebbero divenire di pubblico dominio. Se Il Presidente Trump dovesse cedere alle pressioni dei suddetti organismi, rimarranno negli archivi dei documenti che potrebbero portare alla luce oscure e dubbie attività della CIA come quelle, ad esempio, relative ai programmi di assassinio di leader stranieri. Tra i documenti ancora secretati vi sono ad esempio quelli relativi ad Edward Hunt l’agente della Cia che partecipò allo sbarco fallito nella Baia dei Porci a Cuba nel 1961 e che divenne famoso nello scandalo del Watergate che costrinse alle dimissioni il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon nel 1974. Quello di Kennedy non è stato il primo omicidio di un presidente degli Stati Uniti. Prima di lui vennero assassinati Abram Lincoln, ucciso il 14 aprile 1865, James Garfield, ucciso il 2 luglio del 1881, William McKinley ucciso il 6 settembre 1901. E ciò senza contare i numerosi attentati falliti. L’assassinio di Kennedy, avvenuto a Dallas il 22 novembre del 1963, fu un evento determinante nella storia degli Stati Uniti per l’impatto che ebbe sulla nazione e sulla politica del Paese. Per l’omicidio venne arrestato Lee Oswald a sua volta ucciso da Jack Ruby che morì a sua volta in carcere di cancro. Numerose sono state le ipotesi sull’uccisione di Kennedy: un complotto di cubani, della mafia, della stessa CIA. La Commissione parlamentare Warren, istituita per indagare sull’assassinio del presidente degli Stati Uniti, chiuse frettolosamente l’inchiesta archiviando il caso come omicidio ad opera di un fanatico e cioè: Lee Oswald. Sulla morte di Kennedy quindi esiste una verità ufficiale, quella della commissione Warren, istituita il 29 novembre 1963 dal Presidente Lyndon B. Johnson che concluse che Lee Oswald fu il solo esecutore materiale dell’omicidio. Le conclusioni della Commissione furono molto contestate e furono formulate molte ipotesi cospirazioniste. Soprattutto dei dubbi, peraltro non privi di un certo fondamento, sorsero sul fatto che soltanto Oswald possa essere stato l’esecutore materiale. Oswald infatti avrebbe sparato tre o quattro colpi a tempo di record – 6,75 secondi – un tempo ritenuto da coloro che contestarono le risultanze della commissione Warren, troppo breve. Un documentario, andato in onda sul canale televisivo CBS, dimostrò che in realtà si trattava di un tempo più che ragionevole per un tiratore scelto (qualità che non risulta avesse Lee Oswald) dato che, undici tiratori, messi alla prova, avevano esploso tre colpi in un tempo medio di 5,6 secondi. Tuttavia, alcuni testimoni affermarono concordemente di avere udito un quarto colpo che sarebbe stato sparato da una collinetta adiacente e quindi non soltanto dal deposito di libri da cui avrebbe sparato Oswald. Il che indurrebbe a ritenere la partecipazione all’assassinio di più persone. Cinque autorevoli storici americani, docenti universitari, hanno pubblicato dei libri nei quali hanno ricostruito l’omicidio di Kennedy. Di essi, quattro hanno sostenuto che Kennedy fu vittima di un complotto e che Oswald non agì da solo e uno ritiene che l’omicidio potrebbe essere avvenuto con il coinvolgimento di alcuni ufficiali dell’intelligence americana. David Kaiser, del Naval War College e Michael Kurt, poi, quest’ultimo della Luisiana University, sono concordi nel ritenere che a tirare i fili di tutta la vicenda sia stata la CIA. Fletcher Prouty, capo delle operazioni speciali del Pentagono dal 1960 al 1964 ed ufficiale di collegamento con la CIA, in una intervista rilasciata il 19 marzo del 1992 all’ “Unità”, sostenne che Kennedy venne ucciso in seguito ad una vera e propria cospirazione politica affermando che si trattò di un colpo di Stato in piena regola e che Lee Oswald non era colpevole. L’assassinio, eseguito militarmente con grande professionalità e coperture da “una anonima assassini”, sarebbe stato programmato e realizzato per la tutela degli affari e degli interessi di un strettissima elite di personaggi che da secoli si tramandano il governo del pianeta, interessi che venivano minacciati da Kennedy divenuto incontrollabile e pericoloso. Non soltanto l’uccisione di Kennedy ma tanti altri delitti sarebbero quindi stati eseguiti nell’ottica del dominio del mondo e delle risorse e a tal proposito Fletcher ricorda la guerra del petrolio e il cartello del petrolio nel mondo ed aggiunge: “Il Presidente degli Stati Uniti fu ucciso nello stesso piano strategico in cui fu eliminato l’anno precedente, Enrico Mattei. Lei ha presente che cosa rappresenta il potere di controllo sulle fonti energetiche? Si tratta del governo mondiale: Mattei come Kennedy e poi come Aldo Moro, sono stati uccisi da mani diverse ma per lo stesso motivo: non si adattavano a discipline superiori. E tanti altri sono stati uccisi come loro”. In altri termini una ristretta elite avrebbe il dominio della gran parte del continente. Ci si troverebbe in presenza di un governo segreto costituito da pochi gruppi di potere che regolano la fame, l’energia, le guerre e che non esitano a ricorrere al crimine ogni qualvolta vedono minacciati i loro affari e i loro interessi. Realizzati i delitti si sono occultate e si continuano a d occultare le prove. Ciò ad esempio è avvenuto più volte in America (ma anche in Italia) nel caso Nixon, nel caso dei bombardamenti segreti in Laos e Cambogia, in Iran, in Nicaragua, con i Contras, con gli ostaggi in Iran e dopo Kennedy con l’uccisione di Martin Luther King e Bob Kennedy. Ma tra coloro che improntarono la loro attività a un forte impegno democratico si possono ancora ricordare Allende, Palme, e Moro. Nell’assassinio di Kennedy non possono trascurarsi alcune strane coincidenze che sembrerebbero avvalorare, nell’omicidio del Presidente americano, un connubio tra politica e strutture criminali quali mafia e massoneria. Ma probabilmente si tratta soltanto di coincidenze che tuttavia qualche dubbio lo suscitano. Il giorno dell’assassinio infatti a Dallas, sulla autovettura in cui si trovavano John Kennedy e la First Lady, vi era il governatore del Texas John Connally, un nome che, curiosamente compare nei verbali delle varie inchieste italiane sulla Loggia massonica P2. Connally, fervente anticomunista e in seguito ministro del Tesoro sotto l’amministrazione Nixon, era infatti amico e sodale del venerabile Licio Gelli come scrive l’ex giudice Imposimato nel libro “La Repubblica delle stragi impunite”. E non può non evidenziarsi e lasciare perplessi come negli omicidi di Kennedy e di Aldo Moro si trovino gli stessi personaggi legati alla mafia e alla massoneria come appunto il governatore del Texas Jhon Connally e il suo braccio destro Philip Guarino. E a proposito di quest’ultimo, Luigi Cipriani, nel suo intervento in aula del 2 agosto 1990, in occasione dell’anniversario della strage di Bologna, evidenziò come Guarino, che negli Stati Uniti aveva diretto il comitato elettorale di Regan e di Bush, fosse stato grande amico di Sindona e dirigente della Franklin Bank che Sindona aveva acquistato negli Stati Uniti. Matteo Lecs poi, un massone inquisito per la strage di Bologna, ha parlato dei rapporti di Philip Guarino con Gelli e delle riunioni che venivano tenute a Livorno alle quali partecipava un ufficiale della base americana diCamp Derby e nel corso delle quali si discuteva delle operazioni che Gelli e la P2 conducevano in quel periodo. Il Lecs dichiarò anche che gli elenchi veri della P2 sono depositati in codice presso il Pentagono. In un messaggio inviato agli americani, John Kennedy sembra quasi tracciare il profilo di quel coacervo di interessi che poco tempo dopo decreterà la sua morte. Disse infatti Kennedy in quella occasione: “La parola segretezza è ripugnante in una società libera e noi abbiamo avuto storicamente come persone un senso innato di avversione alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Per questo si oppone a noi, in tutto il mondo, una cospirazione monolitica e spietata fondata principalmente sull’uso di mezzi sotterranei per espandere la propria sfera di influenza. Sull’infiltrazione anziché l’intrusione. Sulla sovversione anziché sulle elezioni. Sull’intimidazione anziché sulla libera scelta. E’ un sistema che ha coscritto vaste risorse umane e materiali per la costruzione di una fitta rete, una macchina altamente efficiente che combina operazioni militari, diplomatiche, di intelligence, economiche, scientifiche e politiche. La preparazione di queste operazioni viene nascosta, non resa pubblica. I loro errori sepolti, non sottolineati. Gli oppositori sono messi a tacere, non elogiati. Il costo di queste operazioni non viene messo in discussione; nessun segreto viene rivelato. E’ per questo che il legislatore ateniese Solone decretò che il rifiuto di una vertenza, di un dibattito pubblico, costituiva un reato per ogni cittadino. Sto chiedendo il vostro aiuto nell’arduo compito di informare ed allertare il popolo americano, fiducioso che con il vostro aiuto l’uomo potrà essere quello per cui è nato: libero e indipendente”. In fondo lo stesso concetto avevano espresso lo statista inglese Benjamin Dislaeli e il Presidente Franklin Delano Roosevelt. Disse infatti il primo: “Il mondo è governato da personaggi molto diversi da quelli che immaginano coloro che non si trovano dietro le scene”. E in maniera più incisiva disse il secondo: “La verità su questo tema è che elementi della finanza sono proprietari del governo nei suoi cardini principali dai giorni di Andrew Jackson”. Si riuscirà mai a sapere la verità su Dallas? Io credo di no poiché, per quello che ne sappiamo oggi, non vi sarebbe nulla di scritto e documentato che proverebbe, nell’assassinio di Kennedy, un complotto di quelli che oggi si suole definire “poteri forti”. Uno spiraglio tuttavia sembra potersi aprire se, come annunciato dal presidente Trump, saranno definitivamente e completamente aperti gli archivi che contengono i documenti sull’assassinio di Kennedy, fino ad oggi coperti dal segreto di Stato. Soltanto in tal modo, io credo, si potrà riprendere in mano il controllo della democrazia eliminando la parola “segretezza” che, come affermò Kennedy, è una parola ripugnante in una società libera.

Via Fani, 16 marzo del 1978. I segreti inesplorati sul caso Moro, scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" l'11 marzo 2018. Sono passati quaranta anni da quando il 16 marzo del 1978, Aldo Moro, mentre si stava recando alla Camera dei deputati per la presentazione del nuovo governo, fu vittima di un agguato effettuato da un commando delle Brigate rosse che, con una vera e propria azione militare, uccisero i cinque uomini della scorta e sequestrarono il presedente della Democrazia cristiana. Il sequestro si concluse dopo 55 giorni di prigionia nel covo di via Montalcini, con l’uccisione di Moro, fatto trovare all’interno di una Renault rossa, il 9 maggio a Roma in via Caetani, una via che si trova tra la sede della allora Democrazia cristiana e via delle Botteghe Oscure, la sede nazionale del Partito comunista italiano. Oggi, tutto, per ciò che riguarda questo grave fatto, sembra essere stato chiarito. In realtà molti sono i punti oscuri che ancora permangono e che non sono stati, volutamente o no, sufficientemente approfonditi. Così dicasi per ciò che riguarda il possibile coinvolgimento della P2 e dei servizi segreti, dell’URSS e degli Stati Uniti o di Israele Ed ancora non si è sufficientemente approfondita la vicenda del falso comunicato n. 7 e la scoperta del covo di via Gradoli. O ancora il ritrovamento, nell’ottobre del 1990, in un appartamento in via Montenovoso a Milano, appartamento occupato dalle BR e già allora attentamente perquisito, di documenti relativi alla prigionia di Aldo Moro. Per ciò che riguarda il possibile coinvolgimento degli Stati Uniti e dell’URSS, si può affermare che sia gli uni che gli altri potrebbero essere stati mandanti del sequestro. Non vi è dubbio infatti come il progetto di apertura del governo al PCI di Berlinguer, che come è noto era uno dei più convinti sostenitori dell’Eurocomunismo, fu mal visto dagli Stai Uniti che temevano un siffatto programma: se attuato, avrebbe cambiato gli equilibri di potere sia nazionali che internazionali. Ma anche dalla stessa URSS, una siffatta apertura poteva essere non gradita dato che tale evenienza avrebbe dimostrato, come è stato osservato, che un partito comunista era in grado di andare al potere in maniera democratica e di sfuggire così alla dipendenza dal PCUS di Mosca. Sin dagli anni 70 vi era sempre stata, negli USA una forte contrarietà sia da parte della amministrazione repubblicana con Nixon e Ford sia da parte di quella democratica con Carter (presidente dal 1977 al 1981, nel periodo in cui si verifica il sequestro e l’uccisione di Moro), alla politica perseguita da Moro che mirava a fare partecipare i comunisti al governo. Un segnale ben preciso si ebbe infatti nel settembre del 1974, allorquando Moro, allora Ministro degli esteri, si recò negli Stati Uniti. In questa occasione infatti vi fu un confronto molto duro tra l’allora segretario di Stato Henry Kissinger e Moro il quale voleva convincere Kissinger che data l’ascesa elettorale del partito comunista, un modo per fermare tale ascesa era proprio quello di fare partecipare i comunisti alla responsabilità di governo e che in pratica si trattava soltanto non di una alleanza di governo vera e propria ma di un accordo provvisorio per trovare una soluzione alla crisi economica. Kissinger, in questa occasione, per nulla convinto dalle affermazioni di Moro, minacciò che se l’Italia avesse perseguito tale strategia avrebbe tagliato gli aiuti economici di cui l’Italia in quel momento aveva particolare bisogno. Naturalmente ciò non significa affermare che l’ordine di sequestrare ed uccidere Moro sia venuto da Kissinger o da chi per lui, ma bisogna comprendere i meccanismi che stanno alla base di quasi tutti i delitti eccellenti. Non c è in altri termini nessun politico che direttamente dica ad altri di commettere un determinato delitto. Basta infatti che il potere politico lanci un messaggio quale ad esempio. “I comunisti stanno per impossessarsi del potere; la situazione è grave”. Questo messaggio viene recepito da un livello inferiore che non ha nessun contatto con il livello superiore ma che si rende conto della preoccupazione di quest’ultimo e trasmette il messaggio ad un livello successivo che comprende cosa fare ed esegue. Se, come si è detto, gli Stati Uniti erano fortemente contrari all’ipotesi che il partito comunista potesse andare al governo e che pertanto avrebbero fatto qualsiasi cosa per impedire tale evenienza, è semplicistico pensare che le Brigate rosse abbiano fatto tutto da sole e di loro iniziativa. Esse, come è stato osservato, gestirono un appalto e solo se si ritiene fondata questa tesi, si può comprendere ciò che avvenne durante i 55 giorni in cui Moro fu prigioniero delle Brigate Rosse. Significativa in proposito è la circostanza che la decisione di uccidere Moro viene presa proprio nel momento in cui la DC, attraverso l’allora presidente del Senato Fanfani, si apre alla trattativa. Rafforza ancora l’ipotesi di un coinvolgimento degli Stati Uniti nel sequestro Moro, quanto dichiarato nel 2005 da Giovanni Galloni, ex vicesegretario della democrazia cristiana secondo cui Moro gli disse di essere conoscenza del fatto che sia i servizi americani che quelli israeliani, avevano degli infiltrati nelle BR e che nessun aiuto davano ai servizi italiani per l’individuazione dei covi di tale organizzazione. Nella seduta del 22 luglio 1998, dinanzi alla Commissione parlamentare di inchiesta sul terrorismo in Italia, lo stesso Galloni dichiarò come per gli americani impedire l’entrata dei comunisti al governo era una questione strategica di vita o di morte dato che se si fosse verificata una siffatta evenienza temevano di perdere le basi militari che gli Usa avevano sul territorio italiano in una posizione idonea a fare fronte ad una eventuale invasione dell’Europa da parte dei Sovietici. Dichiarò in particolare Galloni: «Quindi, l’entrata dei comunisti in Italia nel Governo o nella maggioranza era una questione strategica, di vita o di morte, “life or death” come dissero, per gli Stati Uniti d’America, perché se fossero arrivati i comunisti al Governo in Italia sicuramente loro sarebbero stati cacciati da quelle basi e questo non lo potevano permettere a nessun costo. Qui si verificavano le divisioni tra colombe e falchi. I falchi affermavano in modo minaccioso che questo non lo avrebbero mai permesso, costi quel che costi, per cui vedevo dietro questa affermazione colpi di Stato, insurrezioni e cose del genere. » (Dichiarazioni di Giovanni Galloni, Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 39ª seduta, 22 luglio 1998.) Emanuele Macaluso, in un articolo pubblicato il 26.09.1982 sull’Unità scrisse: “Caso Moro. Noi siamo tra coloro che non hanno mai creduto che a rapire ed uccidere il presidente della Dc siano state solo le Brigate rosse che organizzarono l’infame impresa. Abbiamo sempre pensato che gli autonomi obiettivi politici delle Br coincidessero con quelli di potenti gruppi politico-affaristici, nazionali ed internazionali che temevano una svolta politica in Italia”. Ma che Moro fosse inviso agli Stati Uniti a causa della sua politica di avvicinamento al partito comunista, emerge anche dalle dichiarazioni rese dalla moglie di Moro in occasione del primo processo al nucleo storico delle BR. La vedova di Moro dichiarò che fin dal 1974 il marito era stato oggetto da parte di esponenti politici degli USA, tra cui il segretario di Stato Henry Kissinger, di moniti e di avvertimenti sulla pericolosità di qualsiasi legame con il PCI. Riferì in particolare che nel marzo del 1976 il marito ricevette un avvertimento esplicito da parte di un personaggio americano che, avvicinatolo, lo aveva apostrofato duramente. L’episodio fu riferito dalla vedova Moro dinanzi alla Commissione di inchiesta in questi termini: “: «È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto, senza svelarmi il nome della persona. […] Adesso provo a ripeterla come la ricordo: ‘Onorevole (detto in altra lingua, naturalmente), lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere’». Un altro aspetto, forse non sufficientemente approfondito è quello relativo ad una macchina tipografica che collegherebbe il delitto Moro a Gladio, organizzazione quest’ultima che altro non era se non una propaggine della Cia. La stampatrice infatti, usata dalle BR per redigere i comunicati emessi durante i 55 giorni del sequestro del presidente della DC, venne portata nella tipografia brigatista di via Pio Foà a Roma da Mario Moretti nel 1977. Ebbene tale macchina tipografica proveniva ufficialmente, come sostenuto in un servizio del 1990 dell’ “Espresso” da un reparto unità speciali dell’esercito, sigla RUS. Secondo quanto dichiarato dal generale Gerardo Serravalle alla Commissione stragi, il RUS era “una proiezione del centro addestramento guastatori, il Cag di Alghero” Lo stesso Serravalle, che fu a capo di Gladio dal settembre 1971 al luglio del 1974, precisò che il “RUS” era un settore supersegreto, “sempre compartimentato da tutti”. Dichiarazioni in contrasto con quanto invece affermato a suo tempo, dall’ex capo del SISMI, Giuseppe Santovito, dinanzi alla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro. In relazione alla rivelazione dell’Espresso, il senatore Sergio Flamigni, componente della Commissione Moro ed autore del libro “La tela del ragno” sul sequestro Moro ebbe a dichiarare: “E’ una informazione di grande valore, che consente di rileggere in una nuova luce tutta la storia della “stampatrice” usata durante il sequestro del leader democristiano”. Alla Commissione Moro, Flamigni ed altri commissari cercarono di approfondire la questione nel corso delle audizioni dei dirigenti dei servizi ed emerse che l’ufficio “RUS” era uno dei compartimenti segreti di Gladio, che altri non era, come si è detto, che una propaggine della Cia; il che ci riporta ancora una volta a un possibile coinvolgimento degli USA nel sequestro Moro. Non vi è dubbio pertanto che ci si trovò in presenza di una circostanza che sembrava avallare i sospetti di collegamento tra brigatisti e servizi deviati. Non risulta che le indagini sul punto che indurrebbero a ritenere un collegamento tra le BR e Gladio e quindi la CIA siano state approfondite al fine di chiarire o comunque smentire un siffatto rapporto. Nell’ambito di una inchiesta aperta dal PM De Ficchy nel 1992 sul caso Moro si indagò anche sul ruolo che avrebbe svolto l’ex colonnello del Sismi, Camillo Guglielmi, ufficiale che, come venne accertato, si trovava nei pressi di via Fani, al momento in cui ebbe luogo l’agguato delle BR. Il Guglielmi inoltre sembra che fosse l’uomo incaricato dai servizi segreti di tenere i rapporti con esponenti della criminalità. La presenza dl Guglielmi in via Fani non era stata segnalata agli inquirenti e venne alla luce casualmente a seguito della rivelazione di un ex carabiniere che poi fu costretto a ritrattare. Interrogato nel 1991, Gugliemi ammise che si trovava in via Fani a suo dire perché invitato a pranzo da un collega e che assistette al rapimento di Moro. Affermò di essere stato invitato dal colonnello Armando D’Ambrosio che effettivamente abitava nei pressi di via Fani. Questi dichiarò che Guglielmi si era presentato a casa sua poco dopo le nove ma negò di averlo invitato a pranzo aggiungendo che si era intrattenuto con lui solo qualche minuto perché, sempre a dire del Guglielmi, egli doveva tornare in strada in quanto “doveva essere accaduto qualcosa”. Lasciando l’abitazione del collega, circostanza inverosimile, Guglielmi disse di non essersi accorto che all’incrocio con via Fani c’era stata una strage e di avere appreso che era stato sequestrato Moro soltanto quando era rientrato a casa. La versione fornita dal Guglielmi, come emerso nell’ambito dell’inchiesta condotta dal P.M. De Ficchy, fu smentita dall’ex agente del Sismi Ravasio il quale, parlando di Guglielmi, disse che la mattina del sequestro Moro, l’alto ufficiale si era precipitato in via Fani dopo avere ricevuto una telefonata di Musumeci, ai vertici del Sismi, che lo aveva invitato a recarsi subito in via Fani avendo appreso da un infiltrato delle BR, il cui nome di copertura era “Franco” che in via Fani sarebbe successo qualcosa di grosso e che forse avrebbero rapito Moro. Guglielmi, recatosi in via Fani sostenne successivamente di non aver potuto intervenire. Lo stesso, come scrive la giornalista Rita Di Giovacchino ne “Il libro nero della Prima Repubblica” avrebbe confidato a Ravasio di essere andato in via Fani a cose fatte e di essere rimasto sconvolto: “Ero lì’, c’erano tutti quei corpi a terra e non ho potuto fare niente”. Una strana circostanza è quella che per anni i servizi segreti fecero circolare la notizia che Gugliemi era morto. La figura e il ruolo di quest’ultimo, mai chiariti, riconducono verosimilmente a un coinvolgimento nel sequestro Moro dei servizi segreti e ,considerati i rapporti che Guglielmi teneva con la criminalità, a un interessamento della criminalità e in particolare della mafia, della ‘ndrangheta e della banda della Magliana, contattati per la liberazione di Moro, Il pentito Marino Mannoia ha riferito che negli ultimi giorni della prigionia di Moro circolava una specie di parola d’ordine : “Lasciate perdere le iniziative per trovare Moro, qualcuno ha già deciso che deve essere ucciso”. Un elemento che rafforza la convinzione che il sequestro Moro non fu gestito esclusivamente dalle Brigate Rosse, così come ritenuto in sede processuale, è dato dal famoso comunicato numero 7, quello con cui i brigatisti annunciarono l’esecuzione di Moro indicando in un laghetto ghiacciato in provincia di Roma il luogo in cui era stato abbandonato il cadavere del presidente della DC. Ebbene, tutti i cinque processi del caso Moro hanno accertato che fu Antonio Giuseppe Chicchiarelli, un falsario legato alla banda della Magliana, a redigere il suddetto comunicato (il c.d. comunicato del lago della Duchessa) e che la stessa macchina da scrivere veniva usata nello stesso periodo di tempo dai brigatisti e da un soggetto esponente della criminalità romana e dei servizi segreti. Ciò venne confermato dalla testimonianza dell’ex capo dell’Ucigos, dr.Fariello il quale, sentito il 7 novembre 1980 dalla Commissione parlamentare di indagine sul delitto Moro, allorquando gli fu mostrato il comunicato n. 7 affermò: “…era autentico, lo do per scontato…io mi baso sui miei collaboratori, i quali a suo tempo hanno riconosciuto che la battuta e la testina erano le stesse (di quelle usate per gli altri comunicati brigatisti n.d.r.)

Moro, 40 anni senza verità. Chi era Martin Woodrow Brown? Scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" il 14 marzo 2018. La figura di Chicchiarelli non venne approfondita nel corso dei processi sul sequestro e l’uccisione di Moro, cosa che sarebbe stata opportuna se si considera che lo stesso aveva collegamenti oltre che con la criminalità (Cosa Nostra e banda della Magliana), con estremisti di destra e di sinistra, la loggia P2, l’Opus Dei e i servizi segreti. Secondo il confidente del Sisde e dei carabinieri Luciano Dal Bello, soprannominato Gheddafi, Chicchiarelli era un esponente delle BR. Ed ancora il 14 aprile 1979 fu fatto ritrovare “casualmente” in un taxi a Roma un borsello con materiale vario riguardante il sequestro e l’omicidio Moro, l’omicidio Pecorelli e il depistaggio del lago della Duchessa, borsello che risultò appartenere al Chicchiarelli il quale però venne sostanzialmente lasciato ai margini del processo Moro anche quando vennero rinvenuti due spezzoni di foto scattate, quasi sicuramente da Chicchiarelli, all’interno del covo dove era tenuto prigioniero Moro. Il ruolo rivestito dal Chicchiarelli nella vicenda Moro e i motivi che lo spinsero a redigere il falso comunicato non sono mai stati accertati e chiariti. Un dato però è certo e cioè che questi era certamente a conoscenza dei retroscena della vicenda Moro. Il 28 settembre 1984 Chicchiarelli venne ucciso in un agguato a Roma. Il possibile coinvolgimento della CIA nel sequestro Moro emergerebbe dalla vicenda che vide protagonista Aldo Semerari, direttore dell’Istituto di criminologia dell’università di Roma, docente di psichiatria forense, più volte inquisito per terrorismo nero. Nell’estate del 1978 pervenne, indirizzata personalmente al Semerari, una lettera che lo stesso aprì e lesse insieme al suo collega Antonio Mottola. La lettera che era a firma di tale “Mister Brown” diceva che il sequestro e la morte di Moro erano riconducibili a “un complotto della CIA”. La lettera venne inviata al generale dei carabinieri Ferrara, ma non risulta che sul contenuto della stessa siano state effettuate particolari indagini. Nel luglio del 1981 Mottola venne assassinato dopo essere stato prelevato presso la propria abitazione da tre uomini. Aldo Semerari scomparve il 25 marzo del 1982: il suo cadavere decapitato sarà ritrovato all’interno di una fiat 128, parcheggiata in viale Elena, a pochi metri dal municipio di Ottaviano. Una circostanza strana si verifica il 14 giugno1986 allorquando un cittadino inglese, tale Martin Woodrow Brown muore mentre viene trasportato in ospedale a Pisa. Nella sua borsa vengono rinvenuti degli articoli in tedesco e in italiano che riguardano la camorra e le BR tedesche e italiane. Ma circostanza interessante è che nella borsa vi è anche una lettera inviata da Semerari a un funzionario della Criminalpol nella quale lo stesso annotava alcune sue valutazioni sulle Brigate Rosse. Ma chi era Woudrow Brown? Era una spia, un mitomane un criminologo? Tra il materiale ritrovato nella borsa vi è anche un ritaglio di giornale dal quale risultava che Brown era stato fermato dalla Polizia di Dallas in occasione dell’assassinio di Kennedy, nel 1963. Si trovava a breve distanza dal luogo in cui si era trovata a transitare la macchina di Kennedy. Per gli inquirenti Brown era un mitomane con una passione per le indagini e nessun collegamento aveva con ambienti della criminalità e del terrorismo. Resta comunque il fatto, non spiegato, di come lo stesso fosse in possesso di una lettera di Semerari indirizzata alla Criminalpol e sulla cui autenticità gli inquirenti avanzarono qualche dubbio pur non escludendola. La verità giudiziaria nei vari processi Moro si basò quasi esclusivamente sulla ricostruzione della vicenda che ne fece il brigatista Valerio Morucci nel suo c.d. memoriale, redatto in carcere con la collaborazione del giornalista democristiano Remigio Cavedon. Si è sempre ritenuto, sulla base della ricostruzione della vicenda effettuata dall’ex brigatista, che nel sequestro e nell’assassinio di Moro tutto fosse chiaro. Il memoriale fu visto con favore dalla DC e fu avallato dall’ex capo delle BR Mario Moretti nonché da una parte della magistratura. In realtà come osserva l’ex senatore Sergio Flamigni nel libro “Patto di omertà” il memoriale è un documento pieno di omissioni, di reticenze, di bugie, di vuoti e di ambiguità “che racconta una verità ufficiale menzognera dall’inizio (la strage di via Fani) alla fine (la prigionia e l’uccisione di Moro”. In questo libro Sergio Flamigni, non solo ritiene del tutto inattendibile il memoriale ma afferma che lo stesso sarebbe il frutto di un” patto di omertà” stipulato dagli ex terroristi con settori politici, statali ed istituzionali. In altri termini il memoriale avrebbe avuto come finalità quella di impedire una ricostruzione completa e veritiera del sequestro e dell’omicidio del presidente della DC presentando delle lacune gravissime e dei quesiti ancora oggi privi di risposta. Nel memoriale si sostiene che la strage e i 55 giorni della prigionia di Moro vennero eseguiti e gestiti soltanto dalle BR senza l’intervento di complicità esterne, di manovre o trattative occulte. In realtà come si è visto rimangono ancora alcuni aspetti oscuri della vicenda che non furono adeguatamente scandagliati e che possono così riassumersi: nessuno raccolse mai i numerosi avvertimenti che indicavano che proprio quella mattina Moro sarebbe stato rapito. Le linee telefoniche di buona parte di Roma restarono fuori uso durante il periodo del rapimento. Il colonnello dei servizi segreti Guglielmi era presente al rapimento fornendo versioni contrastanti e smentite della sua presenza in via Fani la mattina del 16 marzo 1978. A distanza di 39 anni dall’agguato vennero fuori alcune foto scattate sul luogo della strage e poi scomparse. Si tratta di 11 fotografie scattate da un ottico di via Stresa, Gennaro Gualerzi il cui esercizio si affacciava a metà della stradina che si snoda sull’incrocio-scena della sparatoria. Della esistenza di queste foto vi è traccia in un rapporto del Nucleo Operativo dei Carabinieri (allegato agli atti della prima Commissione Moro (voll. 30-39). Circa il numero di queste foto si rileva una correzione a mano che lo porta a 16 ma quelle effettive sono solo 11. Tra queste foto vi è l’immagine di Giustino De Vuono, un ex legionario vicino all’estremismo politico che nel 1975 partecipò insieme ad elementi di Autonomia operaia al sequestro dell’ing. Carlo Saronio. Il De Vuono venne riconosciuto da un testimone tale Rodolfo Valentino. Si ipotizzò che il De Vuono, presente sul luogo dell’agguato, non avesse partecipato all’azione di sequestro ma si trovasse sul posto con il ruolo di supervisore. La domanda che ci si pone è perché queste foto sparirono dagli atti per 39 anni? Nessuna spiegazione plausibile è stata data del fatto che la stampante utilizzata per la redazione dei comunicati delle BR proveniva da un ufficio riservato dei servizi segreti. Non tutti i componenti il gruppo di fuoco dell’agguato sono stati identificati. Alcune delle borse che Moro portava sempre con sé, non furono prelevate dal commando brigatista. Però scomparvero ugualmente, e non se ne seppe più nulla. Non è stato accertato da chi Chicchirelli, componente della banda della Magliana, ricevette l’incarico di redigere il falso comunicato della Duchessa nel quale, come si è detto, si diceva che il cadavere di Moro era stato sepolto in tale lago. Chicchiarelli, che venne ucciso a Roma nel 1984, era in effetti in contatto con le BR e quasi sicuramente si era recato nel covo in cui era tenuto prigioniero Moro. La banda della Magliana, alla quale Chicchiarelli apparteneva, era legata al terrorismo nero, alla mafia, a Giusva Fioravanti, all’aristocrazia nera romana, a Flavio Carboni, a Francesco Pazienza e a Pippo Calò. Nessuna indagine risulta essere stata effettuata al fine di accertare quale fosse il nesso tra questi personaggi e le Brigate Rosse e il ruolo dagli stessi avuto nella vicenda Moro. Da quanto fin qui, sia pure sinteticamente detto, si intuisce nella vicenda del sequestro e della uccisione di Moro, un intreccio perverso, ancora oggi oscuro, tra varie componenti, quali servizi di sicurezza anche stranieri, criminalità comune ed organizzata, massoneria, interessi transnazionali. E non è senza significato il fatto che il comitato costituito presso il ministero dell’Interno per seguire la vicenda del sequestro Moro era quasi completamente costituito da esponenti piduisti che con l’assassinio di Moro verosimilmente perseguivano gli interessi delle suddette componenti. In ogni caso la vicenda Moro non potrà mai essere compresa a fondo se non verrà vista avuto riguardo al contesto internazionale in cui maturò il delitto: una dimensione senza cui esso è condannato a restare inintelligibile.

Il caso Moro e gli infiltrati dei servizi nelle brigate rosse, scrive il 4 giugno 2018 Piccole Note su Il Giornale. Difficile dire cose nuove sul caso Moro, la tragedia che ha cambiato l’Italia nel profondo e che resta snodo centrale della storia del nostro Paese, anche recente (è nota l’assidua frequentazione del presidente del consiglio italiano Matteo Renzi con Michael Ledeen, uomo della Nato la cui storia personale è legata anche a quei giorni).  Tante interpretazioni di quell’oscura vicenda, tanti interrogativi, tante spiegazioni o rivelazioni che spesso vanno a intorbidire ancora di più le acque. A dire qualcosa di nuovo è stato Giovanni Galloni, figura di primo piano della democrazia cristiana, in una intervista a una televisione poco nota, Attivo-tv, tempo fa. Nel suo intervento, l’esponente della Dc, ricordando quei giorni, spiega: «Io non posso dimenticare il discorso che ebbi con Moro poche settimane prima del suo rapimento. Discutevamo con Moro delle Br, delle difficoltà di trovare i covi delle Br, e Moro mi disse: “La mia preoccupazione è questa: che io ho per certo la notizia che i servizi segreti sia americani che israeliani hanno degli infiltrati all’interno nelle Br, però non siamo stati avvertiti di questo, perché se fossimo stati avvertiti i covi li avremmo trovati». Un ricordo postumo, che giustifica così: «Me ne sono ricordato proprio per le difficoltà che nei 55 giorni della prigionia di Moro noi avemmo con i nostri servizi segreti a metterci in contatto con i servizi segreti americani per ritrovare la prigione di Moro, che non fu mai ritrovata». Mentre invece, ragiona ancora Galloni, quanto le Brigate rosse rapirono il generale americano James Lee Dozier (1981) «la prigione fu ritrovata nel giro di quindici giorni». Possibile che da questi infiltrati all’interno delle Brigate rosse non arrivò alcuna indicazione? A questa domanda, posta dall’intervistatore, Galloni risponde che forse qualche informazione, in effetti, era trapelata. E rammenta come il giornalista Carmine Pecorelli, del cui assassinio «fu accusato ingiustamente Andreotti», doveva aver saputo qualcosa. Così Galloni: «Pecorelli tre giorni prima del rapimento di Moro scrisse una notizia un po’ ambigua sulla sua agenzia, dicendo: “il 15 di marzosi verificherà un nuovo fatto gravissimo in Italia in cui saranno implicate personalità di grande rilievo”. Lo disse tre giorni prima […]. In realtà poi sapemmo che la cattura di Moro doveva avvenire il giorno prima [Moro fu rapito il 16 marzo ndr.], quindi aveva imbroccato decisamente tutto». Tanto che, è l’ipotesi di Galloni, il direttore dell’Osservatore politico (Op) sarebbe stato ucciso proprio perché, a un certo punto, avrebbe minacciato «di rivelare da dove aveva attinto quelle notizie. E fu fatto fuori scientificamente, in maniera molto adeguata, probabilmente da servizi». Il mistero che ancora aleggia su quell’oscura vicenda è dovuto anche alla reticenza dei brigatisti. Le loro dichiarazioni, infatti, non sono state «convincenti», secondo quanto riferito a Galloni dai magistrati che in diverse inchieste e gradi di giudizio hanno cercato di far luce sul caso Moro. Ancora Galloni: «Le brigate rosse interrogate oggi ci dicono che hanno già detto tutto […] Non è così. Probabilmente qualche cosa ci hanno taciuto; anche loro hanno voluto coprire certe situazioni, certe realtà. Questo è l’interrogativo che nasce». Un interrogativo che investe anche i servizi segreti italiani, meglio i servizi «cosiddetti deviati», che poi deviati non furono secondo Galloni. Semplicemente si trattava di funzionari che «in buona fede, ritenevano che, stante la stretta alleanza che avevamo con l’America, su alcune questioni delicate dovevano rispondere prima ai loro colleghi americani della Cia che non al governo italiano».

Lo rivela l'ex vicesegretario DC, Giovanni Galloni. Moro sapeva che le "Br" erano infiltrate da Cia e Mossad, scrive il 13 luglio 2015 Pmli. Prendendo spunto dal caso dell'imam egiziano rapito da spie americane nel nostro Paese, in un'intervista trasmessa il 4 luglio scorso dal programma di approfondimento quotidiano "Next" di Rainews24, l'ex vicepresidente della DC Giovanni Galloni ha rivelato nuovi particolari sul rapimento di Aldo Moro che confermano l'ipotesi non nuova di un ruolo occulto della Cia e del Mossad in quella vicenda. "Non posso dimenticare - ha dichiarato Galloni - un discorso con Moro poche settimane prima del suo rapimento: si discuteva delle BR, delle difficoltà di trovare i covi. E Moro mi disse: 'La mia preoccupazione è questa: che io so per certa la notizia che i servizi segreti sia americani che israeliani hanno infiltrati nelle BR ma noi non siamo stati avvertiti di questo, sennò i covi li avremmo trovati"'. L'ex vicepresidente del CSM ha aggiunto di essersene ricordato proprio ora "perché nei 55 giorni di prigionia di Moro avemmo grandi difficoltà a metterci in contatto con i servizi americani, difficoltà che non incontrammo poi durante il rapimento del generale Dozier". Il generale americano della Nato J. L. Dozier fu rapito dalle "BR" a Verona il 17 dicembre 1981 e liberato senza colpo ferire con un blitz delle forze speciali dei Nocs il 28 gennaio 1982. Il modo rapido e apparentemente "brillante" con cui fu risolto il caso destò subito forti sospetti sulla possibilità che i rapitori fossero infiltrati dai servizi segreti americani, se non addirittura che la "liberazione" dell'ostaggio fosse stata in qualche modo concordata con i rapitori. Galloni conferma questi sospetti, rivelando una sorta di politica a doppio binario da parte dei servizi segreti Usa nei due casi: collaborativa nel caso di Dozier, per nulla collaborativa nel caso del rapimento di Moro. In effetti Galloni aveva già rivelato qualcosa di simile qualche anno fa, il 22 luglio 1998 davanti alla Commissione parlamentare sulle stragi, quando riferì che Moro gli aveva detto: "La cosa che mi preoccupa è che credo che i Servizi segreti americani e israeliani abbiano elementi sulle Brigate rosse che ci sarebbero utili per le nostre indagini, ma non ce li hanno detti". Secondo questa prima dichiarazione Moro avrebbe lamentato solo una mancanza di informazioni da parte dei servizi Usa e israeliani, mentre ora Galloni precisa che il presidente della DC era "certo" che essi avessero degli infiltrati nelle "BR" e che di questo non tenessero informate le autorità italiane.

Il vero obiettivo del rapimento Moro. La differenza è sostanziale, e tale da dare corpo all'ipotesi, già avanzata da alcune fonti e suffragata da diversi elementi mai chiariti finora, della presenza di spie della Cia e del Mossad dietro le quinte del rapimento di Moro. In particolare le rivelazioni di Galloni confermano in pieno quello che noi abbiamo sempre denunciato e sostenuto fin dall'inizio della vicenda di Moro, e cioè che il suo rapimento, detenzione e assassinio furono pianificati ed eterodiretti, tramite l'infiltrazione della Cia e del Mossad nelle sedicenti "Brigate rosse", da parte del governo Usa per impedire che si realizzasse il disegno di Moro di pilotare l'ingresso del PCI in un governo di "unità nazionale" insieme alla DC. A conferma di ciò Galloni aggiunge nell'intervista altri particolari significativi, come l'osservazione che "tutti i magistrati che hanno lavorato sul rapimento Moro hanno detto che le dichiarazioni delle BR non sono state del tutto convincenti. I brigatisti interrogati ci dicono di aver raccontato tutto ma sappiamo che non è così. Qualcosa ci hanno taciuto, resta da capire che cosa hanno voluto coprire. E l'interrogativo nasce in relazione anche ai servizi segreti deviati italiani, che rispondevano prima ai colleghi americani della Cia che ai loro superiori". E come l'impressione riportata dai suoi numerosi viaggi negli Usa effettuati tra il 1978 e il 1984, dove "venni a sapere - confida l'ex vicepresidente della DC e del CSM - che la Cia era estremamente preoccupata per l'Italia, per il fatto che se i comunisti arrivavano al governo loro non avrebbero potuto mettere certe basi in Italia: una questione di vita o di morte, per loro, rispetto alla quale qualunque atto sarebbe stato giustificabile". Che gli americani avessero informazioni di prima mano sul rapimento di Moro, tali che se avessero voluto avrebbero potuto portare all'individuazione della prigione di Moro di via Montalcini, per Galloni è dimostrato anche dallo strano preannuncio del rapimento dello statista democristiano, fatto tre giorni prima in forma criptica dal giornalista Mino Pecorelli, legato ai servizi italiani "deviati" e alla Cia, sul suo foglio scandalistico "OP". "L'assassinio di Pecorelli - aggiunge l'intervistato - potrebbe essere stato determinato dalle cose che il giornalista era in grado di rivelare". Le rivelazioni di Galloni sul coinvolgimento dei servizi segreti americani nella vicenda Moro sono suffragate anche da una testimonianza del giornalista de "l'Unità" Luigi Cancrini, che in un articolo sul suddetto quotidiano del 7 luglio riporta le confidenze che gli furono fatte nel 1990 in punto di morte dal professor Franco Ferracuti, docente di psicologia giuridica all'università della Sapienza, uomo legato ai servizi segreti e alla P2 e facente parte della commissione del ministero degli Interni istituita da Cossiga al tempo del sequestro di Moro: il professore gli rivelò che le riunioni della commissione che coordinava al massimo livello le azioni di tutte le forze dell'ordine erano "non solo frequentate ma sostanzialmente dirette da due funzionari della Cia".

Reazioni sprezzanti. Malgrado tutto ciò le dichiarazioni di Galloni a Rainews24 sono state praticamente ignorate tanto dalla destra neofascista quanto dalla "sinistra" borghese, ormai perfettamente convergenti nel negare qualsiasi interpretazione "dietrologica" del rapimento e dell'uccisione di Moro, attribuendoli esclusivamente all'ideologia "rivoluzionaria" aberrante dei sedicenti "brigatisti rossi". C'è da segnalare tuttavia gli interventi di due "parti in causa", e cioè i senatori neofascisti Francesco Cossiga e Paolo Guzzanti. Il primo, con una lunga lettera a "l'Unità" del 7 luglio, in cui ridicolizza "i ricordi sinistri di Galloni", sostenendo che al tempo del rapimento Moro mai quest'ultimo, pur essendo a stretto contatto con lui come suo referente per la DC, gli prospettò l'ipotesi di un'infiltrazione della Cia e del Mossad nelle "BR". Il secondo, che è anche presidente della Commissione Mitrokin, con un fondo su "Il Giornale" della famiglia di Berlusconi di cui è anche il vicedirettore, in cui rigetta le rivelazioni di Galloni quali frutto di una falsa tesi diffusa allora dal Kgb sovietico, che a suo dire sarebbe invece il vero servizio segreto infiltrato nelle "BR" e che ordinò e diresse per loro tramite il rapimento e l'assassinio di Moro. Per quanto riguarda Cossiga c'è da dire che ammesso dica il vero (cosa che nel suo caso c'è sempre da dubitare), non ci sarebbe comunque da meravigliarsi che Galloni non gli avesse riferito le preoccupazioni di Moro, specie se essendo depositario delle confidenze dello statista DC fosse stato già allora a conoscenza del ruolo di Cossiga come capo di Gladio, e quindi referente diretto dei servizi segreti americani. Quanto alla tesi di Guzzanti, pur non escludendo del tutto che anche il Kgb possa aver avuto contatti e infiltrati nelle "BR", cosiccome analoghi interessi alla Cia e al Mossad nel far fallire il "compromesso storico", da qui a scambiarne il ruolo con gli americani nel caso Moro ce ne corre. Basti pensare alla vicenda del rapimento dell'imam egiziano e a come la Cia si muove in tutta libertà nel nostro Paese e con la piena collaborazione dei servizi segreti italiani, suoi stretti alleati dal 1945 in poi, per capire chi tra i due - Cia o Kgb - abbia potuto più facilmente attuare e gestire un'operazione politico-militare così complessa come il rapimento e l'uccisione di Moro. E in ogni caso, ammesso che a rapire Moro fosse stato un servizio segreto avversario della Cia, possibile che questa, che opera in Italia come in casa sua, non ne sapesse nulla e non fosse in grado di scovare la prigione del sequestrato? Si provi a immaginare un'operazione altrettanto spettacolare e clamorosa, attuata dalla Cia in un paese dell'allora blocco socialimperialista sovietico, condotta per 55 giorni sotto il naso del Kgb, senza che questo riuscisse a capirci nulla. Quantomeno irreale! Resta da capire perché Galloni si è deciso solo ora, dopo quasi trent'anni, a rivelare l'importante confidenza di Moro, quando tutto è stato abbuiato e nessuno, né a destra né a "sinistra", ha più interesse a fare luce sui veri burattinai, in Italia e all'estero, che hanno tirato le fila del suo rapimento e sul disegno politico che lo ha ispirato: che è quello piduista della seconda repubblica neofascista, presidenzialista e federalista di Gelli, Craxi e Berlusconi, ma che oggi sta bene anche alla "sinistra" borghese composta da rinnegati, falsi comunisti, riformisti e democristiani. Il fatto è che anche Galloni, come appartenente a tale "sinistra", ha coperto questo disegno è stato complice, ed è per questo che le sue rivelazioni finiscono per essere reticenti e tardive e cadere oggi sostanzialmente nel vuoto. Mentre se fatte a suo tempo avrebbero avuto ben altro peso ed effetto sulla situazione politica.

CASO MORO: GALLONI RISPONDE A PASCALINO, scrive il 9 dicembre 1993 Adnkronos. Il Consiglio Superiore della Magistratura non può interrogare l'ex Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Roma, Pietro Pascalino, sulle rivelazioni di Francesco Cossiga in merito al caso Moro, dal momento che il magistrato è andato in pensione. In ogni caso, al termine dell'ispezione promossa dal ministro Conso, il Csm sicuramente si pronuncerà sull'accaduto. E' quanto si legge in una lettera inviata dal Vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni, a Pietro Pascalino. ''Ho preso cognizione -scrive Galloni- della sua lettera aperta nella quale esprime il comprensibile disagio in lei provocato dalle dichiarazioni dell'onorevole Cossiga sulla collaborazione di magistrati per la formazione di un piano diretto a comprimere la libertà personale dell'onorevole Moro nel caso in cui fortunatamente fosse stato liberato dalla sua prigionia''. ''Per quanto fui a conoscenza della dolorosa vicenda -prosegue Galloni- nei 55 giorni di ansiosa attesa e di speranza della restituzione di Moro vivo non posso che confermare la sua categorica smentita. Tuttavia per ragioni insuperabili di forma e di sostanza che lei ben conosce non possiamo come Csm aprire un'indagine promossa o sollecitata da un magistrato che, pur sentendosi a ragione parte ancora in senso morale dell'ordine giudiziario servito con ben 40 anni spesi con intelligenza e con grande senso di equità al servizio della giustizia, non fa piu' parte solo materialmente dell'ordine soggetto al governo del Csm''.

Giovanni Galloni è morto/ “Il cervello più lucido della Dc”: amico di Moro, ex ministro e vicepresidente Csm. È morto Giovanni Galloni, ex ministro e storico esponente della Dc: "il cervello più lucido della Democrazia Cristiana". Amico di Moro e Andreotti, ex vicepresidente del Csm: la sua eredità, scrive il 23 aprile 2018 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario". Era definito negli ambienti della politica come “il cervello più lucido della Dc”: è morto nella sua abitazione di Roma nord Giovanni Galloni, storico rappresentante della Democrazia Cristiana, più volte ministro e anche vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm). Un addio importante nel mondo della Prima Repubblica, un esponente di rilievo che fece spesso da “tramite” per le varie anime interne della “Balena Bianca” da Andreotti e Moro, profondo uomo di cultura e di fede è stato ed è ancora per tutti gli “eredi” della Dc uno dei maggiori ispiratori. Nei due libri scritti “Trent’anni con Aldo Moro” e “Giuseppe Dossetti profeta del nostro tempo” Galloni ha saputo raccontare le due anime della Democrazia Cristiana, ovvero la sacralità della Dottrina sociale della Chiesa e insieme il rispetto e il valore della Carta Costituzionale di cui lui fu un grande “estimatore”. «Certamente vengono da lì i valori e le regole di cui abbiamo bisogno per vincere non soltanto la corruzione ma anche la più estesa malattia politica che sta mettendo a dura prova l’Italia», disse di quel libro Beppe Pisanu in una intervista sul Corriere della Sera. Fu tra i fondatori della corrente di sinistra della Democrazia cristiana, tra i migliori amici di Aldo Moro e più volte ministro dell’Istruzione sia nei governi Goria (dal 1987 al 1988) che nell’esecutivo De Mita (1988-1989); per 4 anni poi fu anche il vicepresidente e membro del Csm, oltre che in epoca più recente (era il 2009) fu tra i fondatori del Movimento Sinistra cristiana-Laici per la giustizia. Nel ricordare più volte l’amico ucciso nel celebre sequestro delle Brigate Rosse, Galloni amava ripetere che «Moro in un discorso una settimana prima del rapimento mi disse che “La mia preoccupazione è questa: che io so per certa la notizia che i servizi segreti sia americani che israeliani hanno infiltrati nelle Br ma noi non siamo stati avvertiti di questo, sennò i covi li avremmo trovati”». Nelle sue lezioni di politica e giurisprudenza, Galloni ripeteva spesso che finita l’epoca dei partiti ideologici (Pci, Dc, Psi ecc) bisognava assolutamente tornare alla cultura politica della Carta Costituzionale o ci saremmo arresi allo stallo e al caos politico. Galloni lascia una famiglia che lo adorava, in particolare modo i due figli Nino (noto e stimato economista) e Matteo, un sacerdote che a Firenze ha fondato anni fa la comunità Amore e Libertà per accogliere bambini poveri, malati e sotto disagio inviati dai Centri Sociali.

Nino Galloni: Come ci hanno deindustrializzato, scrive il 29 luglio 2013 "Inchiesta On Line". Per il Dossier L’Europa verso la catastrofe? pubblichiamo una intervista di Claudio Messora de Il fatto quotidiano a Nino Galloni, economista, ex direttore del Ministero del Lavoro. Nino Galloni è figlio di Giovanni Galloni amico e stretto collaboratore di Aldo Moro.

MESSORA: Nino, buongiorno.

GALLONI: Buongiorno!

MESSORA: Benvenuto su byoblu.com, a queste interviste volute dalla rete. Io ero rimasto molto colpito dalla tua affermazione in un convegno che ripresi e misi su Youtube, intitolando il video “Il funzionario oscuro che fece paura a Kohl”. Nel tuo racconto del processo con il quale siamo entrati nell’euro, tratteggiavi questa decisione assunta dalla politica italiana di un vero e proprio progetto di deindustrializzazione del nostro paese. E mi sono sempre chiesto: ma perché mai, alla fine, la politica avrebbe dovuto decidere questo strangolamento, questo inaridimento, la morte del nostro tessuto produttivo? Ho cercato, via via, delle risposte nel tempo, ma oggi che sei qua forse queste risposte ce le puoi dare tu. È un processo, quello di deindustrializzazione, che parte da molto lontano. Riesci a farci una carrellata di eventi e poi arriviamo al focus?

GALLONI: Credo che la data dalla quale dobbiamo necessariamente partire sia il 1947, quando al Trattato di Parigi De Gasperi cede una parte della nostra sovranità, ma in cambio ottiene il riassetto di certi equilibri. La componente socialcomunista esce dal governo, ma manterrà una grande influenza nel campo creditizio e questo, vedremo, sarà un fattore decisivo una trentina di anni dopo.

MESSORA: gli Stati Uniti hanno avuto un bel ruolo in questa decisione.

GALLONI: Gli Stati Uniti hanno avuto un bel ruolo perché chiaramente gli aiuti del Piano Marshall erano condizionati all’uscita dei comunisti dal governo. In realtà Togliatti, giustamente, si lamentava del fatto che ci fosse questo ricatto, ma era perfettamente consapevole di doverlo fare di uscire dal governo, anche perché tutto sommato alla Russia stalinista non faceva comodo un Partito Comunista al governo, come poi trent’anni dopo non farà scomodo il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, che tutto sommato era stato additato come interessato a fare avvicinare i comunisti all’area di governo, cosa che poi potrebbe essere sfatata.

Ma torniamo all’industria. Quindi nel 1947 la produzione industriale, per non parlare della produzione agricola italiana, è a livelli del 1938. Il paese è semidistrutto. Tuttavia inizia una ricostruzione. Ad un certo punto di questa ricostruzione, in cui hanno un ruolo le industrie energetiche, quindi Mattei, ma si comincia a sviluppare in modo sorprendente anche il nucleare, ci si trova già negli anni ’60 nel miracolo. Cioè piccole industrie, grandi industrie, industrie a partecipazione statale, soprattutto, e anche cooperative, trainano l’Italia in una situazione completamente diversa. Negli anni ’70 scopriamo che abbiamo superato l’Inghilterra, scopriamo che ci stiamo avvicinando alla Francia, scopriamo che possiamo, dal punto di vista manifatturiero, andare a dar fastidio alla Germania. Nel ’71 si sgancia la moneta dall’oro e questo rende teoricamente tutto più facile: gli aumenti salariali anche in termini reali, la spartizione dei guadagni di produttività che va in parte ai lavoratori e quindi aumentano i consumi, aumentano le vendite, aumenta il valore delle imprese. Questo è un concetto fondamentale che oggi è stato completamente dimenticato. Oggi la consapevolezza e l’orizzonte delle imprese – e di questo ha grave responsabilità la Confindustria – è ridotto all’immediato, al profitto annuale. Le imprese dovrebbero traguardare obiettivi di crescita del valore delle imprese stesse, in modo di contrattare poi con le banche tassi di interesse buoni e invece manca completamente questa consapevolezza.

MESSORA: Negli anni ’70 eravamo all’apice.

GALLONI: All’apice. Diciamo che forse l’anno di maggior crescita è proprio il ’78, che è l’anno, non a caso, del rapimento di Moro.

MESSORA: Cioè noi stavamo raggiungendo e superando le altre economie avanzate.

GALLONI: C’erano stati altri segnali gravissimi di attacco al sistema italiano, come appunto l’omicidio di Mattei, ordinato perché aveva pestato i piedi alle “Sette Sorelle” in Medio Oriente, trovando una formula che ci aveva dato una posizione nel Mediterraneo veramente ragguardevole dal punto di vista della politica estera. E non ci dimentichiamo che Moro era amico degli arabi moderati, quindi aveva contro Israele e aveva contro gli arabi estremisti. Poi abbiamo visto che aveva contro la Russia, che non voleva un avvicinamento del Partito Comunista Italiano al governo e anzi mal sopportava l’importanza in Europa di questo grande partito, e gli americani che temevano – questa è la versione non dico ufficiale, ma su cui concordano molti osservatori, che dobbiamo (va citato in questo caso) alla ricostruzione di mio padre, che era principale collaboratore di Moro a quei tempi – che  l’avvicinamento del Partito Comunista all’area di governo,  secondo i loro centri studi, i loro servizi, avrebbe potuto vanificare il principale piano strategico di difesa dell’Occidente nei confronti della Russia sovietica, che aveva una supremazia evidente di terra. Quindi un’avanzata dei carri armati sovietici attraverso la Germania orientale, poteva essere fermata prima che i carri arrivassero nella Germania occidentale solo con degli ordigni atomici tattici che erano necessariamente e solo piazzabili e piazzati nel Nord-Est dell’Italia. Quindi se non si poteva fermare con armi atomiche nucleari tattiche l’avanzata dell’esercito sovietico verso occidente, l’Europa era persa e quindi gli americani se ne sarebbero dovuti andare dall’Europa, conseguentemente dal Mediterraneo che – teniamolo sempre presente – è l’ombelico del mondo. Ma questo è un quadro teorico.

MESSORA: Spieghiamolo bene. Cosa c’entra Moro in questo quadro? Cosa c’entra Moro con le bombe nucleari?

GALLONI: c’entra! Perché se Moro faceva riavvicinare i comunisti al governo, si pensava che i comunisti avrebbero posto un veto all’uso di ordigni nucleari, anche nel caso di un’avanzata dei carri armati sovietici verso occidente. Ma erano scenari che gli americani fanno continuamente, non è detto che le politiche si debbano ispirare a quello. Però c’è un fatto di cui ci sono testimonianze certe, anche della famiglia di Moro: Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima, Moro lo aveva riferito alla famiglia e la famiglia aveva detto “ritirati dalla politica”, cosa che poi lui non aveva fatto, ma non si sa poi che cosa avesse in mente di fare dopo quel fatidico marzo 1978.

MESSORA: Quindi le Brigate Rosse in realtà avevano avuto un ruolo…

GALLONI: Dobbiamo distinguere le prime Brigate Rosse, per capirci quelle di Curcio, che erano un fenomeno promanante dall’incontro tra l’estremismo, un certo tipo di estremismo marxista-leninista, che bene o male aveva un legame col Partito Comunista, anche se lontano, e forze che tutto sommato, partigiani ed ex partigiani che avevano conservato le armi, anche perché si sapeva che dall’altra parte c’era la minaccia; tutti gli anni ’70, e forse anche prima, sono stati vissuti con l’idea che potesse esserci un golpe di destra, quindi partigiani ed ex partigiani avevano conservato armi, soprattutto nel nord. Quindi una certa continuità col terrorismo si può anche vedere. Le seconde Brigate Rosse, quelle che – per capirci – rapirono Moro, eccetera, invece sono fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani, israeliani; ci sono evidenze ormai incontrovertibili su questa lettura. Torniamo all’industria. Il problema qual è? Il problema è che in pratica il gioco è: quanto e come ci avviciniamo all’Europa, quanto e come sviluppiamo l’economia italiana, che già appunto era arrivata a livelli, come abbiamo detto, di eccellenza. Allora ci sono due strategie, fondamentalmente. C’è la strategia più moderata che vuole l’Europa e che faceva capo anche a Moro, ma che faceva capo anche a Paolo Baffi, governatore della Banca d’Italia, e ad altri personaggi del mondo economico e finanziario italiano, e poi invece emerge una posizione più estremista, pro Europa, che praticamente fa propria l’idea che si debba combattere la classe politica corrotta e clientelare e tutte le sue espressioni facenti capo fondamentalmente alla Democrazia Cristiana e ai suoi partiti alleati, compreso il Partito Socialista, e che per questo si debbano anche cedere porzioni di sovranità, e si comincia con la sovranità monetaria.

MESSORA: Ma chi si faceva propugnatore di questa tesi?

GALLONI: Intanto era cambiata la dirigenza della Banca d’Italia ed era passata la linea, diciamo, più estremista sull’Europa, facente capo a Carlo Azeglio Ciampi. Poi la sinistra democristiana era divisa tra la sinistra sociale, che faceva capo a Donat-Cattin, che era su posizioni euromoderate, e la sinistra politica, che faceva capo a De Mita e soprattutto a Beniamino Andreatta, che invece era su posizioni euroestremiste e giustificavano questa rinuncia alla sovranità monetaria, cioè alla possibilità dello Stato di fare investimenti pubblici produttivi, per impedire alla classe politica stessa, corrotta e clientelare, di avere potere. Quindi per sottrarre potere alla classe politica, si cominciò a rinunciare alla sovranità monetaria, quindi agli investimenti pubblici. Quindi la classe politica poi si trovò ad occuparsi solo di nomine, di poltrone, eccetera, perché non c’era più da discutere gli investimenti pubblici che ormai dovevano minimizzarsi. Degli investimenti pubblici la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia, i trasporti e via dicendo, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale.

MESSORA: Mario Monti era molto vicino a De Mita, quindi potremmo dire che già da allora era un euroestremista.

GALLONI: Di Monti mi ricordo la posizione sulla scala mobile, che era stata considerata interessante da Donat-Cattin, però poi, per il resto, era sicuramente un rappresentante della scuola monetarista, non era un keynesiano. I keynesiani si stavano abbandonando. Anche Andreatta, pur essendo stato un keynesiano, era entrato in quella che noi chiamiamo “la corrente neo-keynesiana”, li chiamiamo anche “keynesiani bastardi”, di cui il maggior rappresentante era il premio Nobel Modigliani, i quali proponevano appunto questo passaggio rispetto alla moneta che impedisse alla classe politica di decidere investimenti in infrastrutture per lo sviluppo industriale, per lo sviluppo del paese. Ecco, questo è stato un errore cruciale che ha determinato poi l’esplosione dei tassi di interesse e quindi del debito pubblico, ma soprattutto l’accorciamento di orizzonte delle imprese industriali che assumevano sempre di meno perché dovevano valutare il profitto immediato e non potevano stare a fare grandi progetti industriali. Quindi quello che accadde per gli investimenti pubblici, accadde anche per gli investimenti privati, a causa degli alti tassi di interesse. Io negli anni ’80 feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione. Il passaggio successivo però è molto più grave e riguarda appunto il periodo che va dalla fine degli anni ’80 all’inizio delle privatizzazioni.

MESSORA: Ci arriviamo. Ci spieghi però, a noi che non siamo economisti, come si lega questa nuova politica monetarista con l’esplosione dei tassi di interesse? Questo passaggio tecnico ce lo spieghi un po’?

GALLONI: Fino al 1981 la Banca d’Italia, se un’emissione di obbligazioni pubbliche che servivano per ottenere moneta da parte dello Stato non veniva completamente coperta, comprava lei il restante, quindi era la compratrice di ultima istanza, come diceva il mio maestro Federico Caffè. Questo faceva sì che se l’emissione avveniva a un tasso di interesse basso, mettiamo del 3%, e una parte non veniva comprata proprio perché il rendimento era basso, la Banca d’Italia comprava quello che avanzava e quindi emetteva moneta. Con il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, era data alla Banca d’Italia la facoltà di non essere obbligata… Sembra un po’ un gioco di parole però, in fondo, lo stesso divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, di cui stiamo parlando, non è che obbligava la Banca d’Italia a non comprare titoli, le dava la facoltà di non farlo e la pratica, voluta da Carlo Azeglio Ciampi, fu di applicare questo divorzio in modo letterale. Per la cronaca, ricordo che l’Inghilterra aveva le stesse regole, perché noi copiammo quelle, ma non le praticava. Cioè la Banca d’Inghilterra, quando serviva, stampava sterline a gogò, mentre la Banca d’Italia si irrigidì su quella facoltà che le era stata riconosciuta attraverso una semplice lettera del Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, e quindi la parte di emissione obbligazionaria che non veniva coperta, causava un aumento del tasso di interesse finché non si piazzava questo residuo, ma poi questo tasso di interesse andava ad essere applicato su tutta l’emissione della mattinata. Quindi in questo modo c’è stata una rincorsa dei tassi di interesse verso l’alto. In effetti io feci un appunto e ci fu una discussione col Ministro del Tesoro, in cui dimostrai oltre ogni ragionevole dubbio, applicando semplicissimi tassi di capitalizzazione – come sanno tutti gli economisti – che il debito pubblico sarebbe raddoppiato e avrebbe superato il Pil. Addirittura mi dissero che il debito pubblico non poteva superare il Pil, se no il sistema saltava, al che io gli feci presente che non era così, perché il debito è uno stock e il Pil è un flusso. Ma avevano deciso una cosa e non volevano più cambiarla, non accettavano né le critiche di Federico Caffè né quelle di Paolo Leon, figuriamoci le mie! Per cui poi litigammo e io andai via da quella amministrazione. E siamo a metà degli anni ’80. Il peggio deve ancora arrivare.

MESSORA: Lo scopo era soltanto quello nobile di sottrarre alla politica la gestione dei soldi e quindi andare verso un’Europa che avrebbe potuto salvarli in qualche maniera, o c’era anche sotto una strategia che poi avrebbe portato al nostro processo non solo di deindustrializzazione ma anche di privatizzazione? Qual è stata la road map successiva?

GALLONI: Nel mio ultimo libro “Chi ha tradito l’economia italiana”, infatti, affronto questo problema e identifico due tipi di personaggi, cioè quelli che in buona fede volevano fare i salvatori della patria, come hai ricordato tu, ma anche quelli che traguardavano nella possibilità di una svendita delle partecipazioni statali, nelle privatizzazioni – allora si chiamavano dismissioni – la possibilità di fare immensi profitti, come fu. Quindi c’è stata anche una parte di questa componente, diciamo così, anti-statalista, anti-italiana, anti-sviluppista, che ha fatto affari strepitosi e su cui qualcuno, infatti, ha proposto una commissione di indagine parlamentare.

MESSORA: arriviamo quindi, con questo ragionamento, all’inizio degli anni ’90.

GALLONI: Sì. Diciamo che c’è il passaggio successivo. È prima dell’inizio degli anni ’90, perché all’inizio degli anni ’90 avviene il crollo del sistema monetario europeo, perché non era sostenibile per la semplice ragione che produceva tassi di interesse più alti per i paesi deboli, che quindi si indebolivano di più, e tassi di interesse più bassi per i paesi forti, che quindi si rafforzavano di più. Ad un certo punto il sistema è saltato, ma era prevedibile. Ma noi ci dobbiamo rapportare, raccontando gli eventi, al tempo in cui accadevano, perché col senno del poi siamo tutti bravi.  Nell’89 è emerso, qualcuno aveva detto – lì entra in gioco l’oscuro funzionario, probabilmente-, l’apice della classe politica italiana, che tutto sommato faceva capo in quel momento a Giulio Andreotti, capisce che bisogna trovare una strada un po’ diversa, perché se no si compromettono gli interessi nazionali. Tra le altre cose, quindi, mi manda un biglietto, mi scrive Giulio Andreotti e mi dice “caro dottore, vuole collaborare con noi per cambiare l’economia di questo paese?”. Al che io entusiasticamente aderisco. Per farla breve io mi trovo al vertice del Ministero del Bilancio, che era il ministero cruciale, alla fine dell’estate del 1989. Quindi in quel momento Andreotti era più vicino alle posizioni americane e più lontano dalle posizioni europeistiche estreme. Passano poche settimane, perché dalla fine di agosto dell’89, quando io ho ripreso servizio al mio ex ministero, fino a quando praticamente vengo di nuovo estromesso, che è novembre, passano due mesi praticamente. In questi due mesi io metto mano, e si sa in giro che io sto mettendo mano, ci fu anche un mio incontro molto in tensione con Mario Monti alla Bocconi. Io stavo appunto col mio Ministro e ci fu questo scontro piuttosto forte sul problema della moneta e del debito pubblico; avevamo posizioni completamente diverse.

MESSORA: La tua qual era?

GALLONI: La mia era che praticamente si dovesse operare per abbassare i tassi di interesse in qualunque modo e dimostrai appunto che la Banca d’Inghilterra aveva lo stesso regime nostro, cioè il divorzio, ma non lo praticava, quindi quando serviva al paese stampava sterline. Questo era il problema.

MESSORA: E la sua?

GALLONI: La sua, che si dovesse andare avanti su una politica di forte europeizzazione e quindi si dovesse continuare con questo forte debito pubblico. Dopo questo incontro alla Bocconi in effetti si scatena l’inferno, perché arrivano pressioni dalla Banca d’Italia, dalla Fondazione Agnelli, dalla Confindustria e vengo a sapere che persino un certo Helmut Kohl aveva telefonato al Ministro del Tesoro Guido Carli per dire “c’è qualcuno che rema contro il nostro progetto”, adesso le parole le ho ricostruite in base a delle testimonianze dirette, però vengono fatte pressioni sul mio Ministro affinché io venga messo da parte, cosa che avviene nel giro di un pomeriggio, nel senso che io ottengo dal Ministro la verità, mi rivela la verità, la scriviamo su un pezzo di carta perché lui temeva ci fossero dei microfoni, gli faccio vedere questo pezzetto di carta, dico “ci sono state pressioni anche dalla Germania sul Ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?” e lui mi fece di sì con la testa. Per cui ho mantenuto rispetto per questa persona, però me ne sono andato. Che cosa era successo? Che fino all’estate del 1989 Andreotti era contrario alla riunificazione tedesca e questo fatto impediva qualunque progresso, ovviamente, perché la Germania voleva fare la riunificazione.

MESSORA: e ci fu quella famosa battuta.

GALLONI: sì, sì. Infatti in quei tempi ad Andreotti chiesero “ma lei ce l’ha tanto con la Germania?”, dice “no, io amo la Germania. Anzi, la amo talmente tanto che mi piace che ce ne siano addirittura due!”. Questa era la frase. Passano appunto pochi mesi e invece la Germania, pur di ottenere la riunificazione, si mette d’accordo con la Francia per rinunciare al marco, che era quello che faceva paura alla Francia. Però perché questo accordo tra Kohl e Mitterand regga, occorre deindustrializzare l’Italia e indebolire l’Italia. Perché se no che fanno? Si passa a una moneta unica e l’Italia poi…

MESSORA: che stava fiorendo.

GALLONI: stava già perdendo colpi l’industria italiana, da vari punti di vista, però era una situazione ancora di dominio del panorama manifatturiero internazionale. Eravamo la quarta potenza che esportava. Voglio dire, eravamo qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero. Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici e cose del genere. Dopodiché, ovviamente, si entra nella stagione delle privatizzazioni spinte, negli anni ’90, in cui praticamente quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale.

MESSORA: Quindi decidono la deindustrializzazione. Dopodiché c’è qualcuno che si attiva.

GALLONI: Sì. La deindustrializzazione significa che non si fanno più politiche industriali. Non ci dimentichiamo che poi c’è stato un periodo in cui Bersani era Ministro dell’Industria, in cui, diciamolo, teorizzò che non servivano le strategie industriali. Adesso sta dicendo il contrario, ma poteva pensarci pure prima. Per dirne una. Non si fanno politiche per le infrastrutture. Questo è importante, perché è un paese che è molto lungo, quindi è costoso trasportare le merci da sud a nord, mentre il nord è già in Europa dal punto di vista geografico e infrastrutturale, il centro e il sud sono lontani, quindi potenziare le infrastrutture sarebbe stato strategico.

Poi, alla fine degli anni ’90, si introduce la banca universale, quindi la possibilità per la banca di occuparsi di meno del credito all’economia e di occuparsi di più di andare a fare attività finanziarie e speculative che poi avrebbero prodotto solo dei disastri, come sappiamo.

MESSORA: La fine del Glass-Steagall Act.

GALLONI: Sì, esatto. Poi la mancanza di strategie efficaci della stessa FIAT, dell’industria privata. Ripeto, in quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti – che poi avrebbero prodotto la precarizzazione – aumentare i profitti, quindi una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale, quindi perdita di valore delle imprese, perché le imprese guadagnano di valore se hanno prospettive di profitto che dipendono dalle prospettive di vendita. Questo è l’ABC. Se invece difendono il profitto oggi perché devono realizzare e devono portare ai proprietari una certa redditività ma poi, voglio dire, compromettono il futuro di un’azienda, questa perde di valore.

MESSORA: Si narra di questo incontro sul Britannia. Qual è stato il ruolo anche dell’Inghilterra, secondo te?

GALLONI: L’Inghilterra non è che avesse un interesse diretto all’indebolimento dell’Italia nel Mediterraneo, ma ha una strategia complessiva in Africa e in Medio Oriente, che ha sempre teso ad aumentare i conflitti, il disordine, e c’è la componente che fa capo alla corona, di cui sono espressione anche alcuni movimenti ambientalisti, che poi si debba puntare a una riduzione drastica della popolazione del pianeta; quindi è contraria ad ogni politica che invece favorisca lo sviluppo così come lo intendiamo comunemente.

MESSORA: Quindi è vero che sul Britannia si presero delle decisioni?

GALLONI: Qui dobbiamo capirci. Allora, Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli Illuminati di Baviera, sono tutte cose vere. Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decidono delle cose. Ma non è che le decidono perché veramente le possono decidere, è perché non trovano resistenza da parte degli Stati. L’obiettivo è quello di togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale in questo senso. Dopodiché è ovvio che se gli Stati sono stati indeboliti o addirittura nei governi ci sono rappresentanti di questi gruppi, che siano il Britannia, il Bilderberg, gli Illuminati di Baviera, eccetera, negli Stati Uniti d’America c’era la Confraternita dei Teschi, di cui facevano parte padre e figlio Bush, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti. E’ chiaro che dopo questa gente risponde a questi gruppi che li hanno, bene o male, agevolati nelle loro ascese.

MESSORA: Quindi alla fine decidono.

GALLONI: Ma perché dall’altra parte è mancata, da parte dei cittadini e degli Stati, una seria resistenza. Quindi praticamente questi dominano la scena.

MESSORA: Quindi non è colpa di questi ma è colpa di chi non si oppone abbastanza.

GALLONI: Questi si riuniscono, decidono delle cose, però rimangono lì. Ci sono sempre stati i circoli dei notabili che hanno deciso delle cose. Mica è detto che siano riusciti sempre a farle!

MESSORA: Però in questo caso ci sono riusciti.

GALLONI: In questo caso ci sono riusciti perché non hanno trovato resistenza.

MESSORA: Quindi è colpa nostra.

GALLONI: Beh, sì, un po’ sì, secondo me.

MESSORA: L’ignavia del cittadino che non rivendica il potere.

GALLONI: Sì. Ad esempio l’idea montiana che l’aumento della base monetaria produca inflazione è stato ciò che ha consentito di attrarre anche i sindacati in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981, quando invece si è dimostrato, anche in tempi recenti, che l’emissione e l’autorizzazione di mezzi monetari per migliaia, decine di migliaia di dollari e di euro non ha prodotto l’iper inflazione. Quindi evidentemente è qualcos’altro che genera l’inflazione, non è la quantità di moneta. La quantità di moneta può influire sui tassi di interesse attraverso le tensioni della domanda di essa, ma non è che influiscano direttamente sull’inflazione. Certo, paradossalmente potrebbe essere il contrario: se la moneta è poca e i tassi di interesse aumentano, quelli hanno effetti sui livelli dell’inflazione.

MESSORA: Quindi l’ignoranza degli attori sociali è stata o anche un certo tornaconto?

GALLONI: Una cosa non esclude l’altra. Diciamo che quelli che volevano avere un certo tornaconto facevano leva sull’ignoranza dei fatti monetari, dei partiti, dei sindacati, della classe dirigente e anche una certa scomparsa della scuola keynesiana dovuta a vari fattori anche oscuri.

MESSORA: Quindi privatizzazioni. Anni ’90. Cosa succede poi?

GALLONI: Dopo gli anni ’90 la situazione praticamente comincia a precipitare quando inizia questa crisi, che è il 2001. Quando gli operatori di borsa si accorgono che anche i titoli che avevano tirato fino a quel punto, e-commerce, e-economy, prodotti avanzati, eccetera, non danno più rendimenti crescenti, allora cominciano a svendere e comincia la speculazione al ribasso. In quelle condizioni le banche, che avevano preso grandi impegni coi sottoscrittori dei loro titoli, perché erano diventate, come ho ricordato prima, universali, per garantire questi rendimenti fanno operazioni di derivazione. Le operazioni di derivazione sono tipo catene di Sant’Antonio: tu acquisisci denaro per dare i rendimenti e quindi posticipi la possibilità di dare i rendimenti agli ultimi che ti hanno affidato delle somme. Questa cosa, si è fatta nel giro di due o tre mesi, perché dopo c’era la ripresa, era sempre stata fatta dalle banche, è un’operazione tecnica, diciamo così. Quindi di tre mesi in tre mesi si diceva che arrivava la ripresa. Centri studi, economisti, osservatori, studiosi, ricercatori, tutti sui loro libri paga, prevedevano di lì a tre mesi, di lì a sei mesi, la ripresa. Non si sa perché. Perché le politiche economiche volute per esempio da Bush, tipo la riduzione delle tasse, erano chiaramente politiche che non avrebbero risolto il problema della crescita. Poi tutte queste guerre americane, speculazioni, vanificavano la potenza di un dollaro che se fosse stato destinato a investimenti produttivi, alla ricerca, alle infrastrutture, eccetera, probabilmente avrebbe creato una situazione accettabile. Invece non si faceva niente di tutto questo, non si avviavano gli investimenti produttivi pubblici, perché i privati non investono se non c’è prospettiva di profitto; come avviene in borsa così avviene nell’economia reale. Quindi siamo andati avanti anni e anni con queste operazioni di derivazione, emissione di altri titoli tossici. Finché si è scoperto, intorno al 2007, che il sistema bancario era saltato, nel senso che nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose che faceva lei stessa, cioè speculazioni in perdita. La massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava, per la prima volta, la massa di quello che le famiglie, le imprese e la stessa economia criminale mettevano dentro il sistema bancario. Di qui la crisi di liquidità che deriva da questo, cioè che le perdite superavano i depositi e i conti correnti. A questo punto è intervenuta la FED e ha cominciato a finanziare le banche, anche europee, nelle loro esigenze di liquidità. La FED ha emesso, dal 2008 al 2011, 17 mila miliardi di dollari, cioè più del Pil americano, più di tutto il debito pubblico americano, ha autorizzato o immesso mezzi monetari in qualche modo e poi ha chiesto all’Europa di fare altrettanto. L’Europa alla fine del 2011 ha offerto qualche resistenza e poi, anche con la gestione di Mario Draghi, ha fatto il “quantitative easing”, cioè dare moneta illimitatamente per consentire alle banche di non soffrire di questa crisi di liquidità derivante dalle perdite che superano nettamente le entrate. Ovviamente l’economia è sempre più in crisi, quindi i depositi che seguono gli investimenti produttivi sono sempre di meno e le perdite, invece, sono sempre di più. Allora il problema qual è? Perché continua questo sistema? Questo sistema continua per due ragioni. La prima è che chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite. Perché non guadagna su quello che sono le performance, come sarebbe logico, ma guadagna sul numero delle operazioni finanziarie che si compiono, attraverso algoritmi matematici, sono tantissime nell’unità di tempo. Quindi questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo. Non vanno a ramengo perché poi le banche centrali, che sono controllate dalle stesse banche che dovrebbero andare a ramengo, le riforniscono di liquidità.

MESSORA: Non solo le banche centrali, anche i governi.

GALLONI: Sì, ma sono le banche centrali che autorizzano i mezzi monetari.

MESSORA: Ma i Monti bond? Chi ce li ha messi i soldi?

GALLONI: Sì, però i debiti pubblici sono bruscolini. Nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di decine di trilioni di dollari e di euro.

MESSORA: Sì, questo non lo discuto. Però quello che abbiamo dato di Monti bond, alla fine si sarebbe risparmiata forse l’IMU agli italiani. Per cui sulle singole famiglie questo discorso ha valore.

GALLONI: sì, sicuramente sulle singole famiglie. Certo, avremmo potuto risparmiarci l’IMU invece che darli al Monte dei Paschi. Però è una piccola cosa rispetto ai 3-4 quadrilioni di titoli tossici che oggi sono in giro per il mondo.  Sono tremila, quattromila trilioni. Un trilione sono mille miliardi. Quindi stiamo parlando di grandezze stratosferiche. Siccome le perdite si aggirano sul 10%, mediamente, che è quello che ovviamente questi titoli non rendono, avremmo bisogno a regime non di qualche decina di trilioni, come hanno dato oggi le banche centrali alle banche, ma praticamente dai 300 ai 400 trilioni di dollari. Cioè in pratica stiamo parlando di 6 volte il Pil mondiale. Sono cose spaventose.

MESSORA: Quindi come se ne esce adesso?

GALLONI: Se ne esce con un accordo tra gli Stati, Cina, India, Stati Uniti d’America, possibilmente Europa e qualcun altro, che congelano tutta questa massa, la garantiscono, la trasformano invece in mezzi monetari che servano per lo sviluppo. Quindi a quel punto poi il problema diventerebbe la capacità di progettare infrastrutture, voli su Marte, acchiappare gli asteroidi per farne delle miniere, voglio dire, se ci vogliamo allargare. Se ci sono queste capacità progettuali, industriali, produttive, forze disoccupate, eccetera, noi ne usciamo. Diversamente la teoria ci porta a pensare che potrà esserci una grande botta iperinflattiva che cancellerà tutti i debiti.

MESSORA: Traduci per i non capenti.

GALLONI: Allora, dai debiti si esce in vari modi. Primo, perché si hanno dei redditi che consentono di ripagare in qualche modo i debiti, e questa è la via maestra, quindi non ci si dovrebbe mai indebitare per somme che si sa che non si possono ripagare attraverso i nostri redditi; e questa sarebbe la regola numero uno. Quindi il debito non è un male, il debito è un bene se tu hai il reddito (nel caso degli Stati il Pil) sufficiente per poi fronteggiare la situazione. C’è la remissione del debito, che è una possibilità anche parziale che io ho sollevato in una mia ricerca sulle banche italiane anni fa, quando ci fu la crisi del 2007-2008, che tutto sommato agevolerebbe anche le banche e ci metterebbe tutti in condizione di avere fondamentalmente, per 8 anni, un 5% in più di reddito, riducendo del 40% i crediti delle banche; questa è un’altra possibilità. E poi c’è l’inflazione che praticamente, se non ci sono indicizzazioni, si mangia il debito, perché decresce il valore della moneta e conseguentemente decresce l’importanza del debito. Queste sono le strade che si possono aprire a livello operativo nei confronti della gestione del debito.

MESSORA: A livello nazionale? Per esempio andrebbe bene per l’Italia o parli a livello europeo?

GALLONI: A livello nazionale c’è appunto chi parla di varie misure riguardanti il debito pubblico. In realtà la cosa migliore sarebbe riprendere il percorso della crescita e quindi minimizzare l’importanza del debito rispetto alla ricchezza nazionale. Non ci dimentichiamo che le ricchezze pubbliche e private in Italia sono 10 volte il Pil, quindi ovviamente ce n’è, non è che non riusciremmo a ripagare il debito. Però il debito non è che si deve ripagare, come credono alcuni, il debito sta lì. L’importante è ridurre i tassi di interesse e che i tassi di interesse siano più bassi dei tassi di crescita, allora non è un problema. Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico. Diversamente può succedere, come è successo in Grecia, che per 300 miseri miliardi di euro poi se ne perdano a livello europeo 3.000 nelle borse. Allora ci si interroga: ma questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Ma chi comanda effettivamente in questa Europa si rende conto? Oppure vogliono obiettivi di questo tipo per poi raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati per obiettivi poi fondamentalmente, come è stato in Italia con le privatizzazioni, di depredazione, di conquista di guadagni senza lavoro?

MESSORA: Adesso c’è un altro ciclo di privatizzazioni. Sembra che ci stiamo avvicinando a quello.

GALLONI: Il problema delle privatizzazioni è anche quello dei prezzi di vendita. Perché se ovviamente, come è successo negli anni ’90, ci si aggirava intorno ai valori di magazzino, voi capite di che truffa stiamo parlando. È chiaro che se poi i prezzi di vendita fossero troppo alti, nessuno comprerebbe. Bisogna trovare una via di mezzo. Ma in realtà bisognerebbe cercare di ragionare sulle capacità strategiche e sul mantenimento di poli pubblici di eccellenza che servissero per rilanciare la ricerca, il campo dell’acquisizione delle migliori tecnologie per il trattamento dei rifiuti, che per esempio in Italia avrebbe delle prospettive enormi. Non ci dimentichiamo che in Italia siamo depositari di due brevetti fondamentali, uno è dell’Italgas e l’altro dell’Ansaldo, per produrre degli apparati relativamente piccoli che consentono al chiuso, quindi senza emissioni, di trasformare i rifiuti in energia elettrica e in altri sottoprodotti utili per l’agricoltura e per l’edilizia.

MESSORA: E dove stiamo andando in Europa, in questo momento?

GALLONI: Io avevo identificato una spaccatura di impostazione, anche al momento in cui Monti era diventato Presidente del Consiglio dei Ministri, tra le posizioni americane e le posizioni europee. In Europa si diceva “lacrime e sangue. Prima il risanamento dei conti pubblici e poi lo sviluppo”. Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa. In condizioni di ripresa è facile ridurre la spesa pubblica, ma in condizioni recessive ridurre la spesa pubblica significa far aumentare la recessione con conseguenze sulle entrate e sulle uscite.

MESSORA: ma è possibile, secondo te, che questi non lo sanno?

GALLONI: Ma bisogna vedere quali sono i loro obiettivi.

MESSORA: Quali sono?

GALLONI: E che ne so quali sono i loro obiettivi?

MESSORA: Si possono immaginare?

GALLONI: Sono obiettivi anche di asservimento dei popoli, chiaramente. Mentre la posizione americana era una posizione di sviluppo, cercando di non peggiorare i conti pubblici, che già è una versione possibilista. Ma non è la concezione né di Monti né della Merkel né del polo europeo, chiaramente. Quindi al momento le uniche speranze sono quelle di una politica nuova che reintroduca la Glass-Steagall, che riproponga la sovranità monetaria a livello europeo o se no si torni alle valute nazionali o al limite alla doppia circolazione, che sarebbe assolutamente sostenibile.

MESSORA: Valuta nazionale più euro?

GALLONI: Sì. Terza cosa da fare è un gestione diversa dei debiti pubblici, tranquillizzante, perché ci sono tanti altri modi per gestire i debiti pubblici. In parte qualcosa, addirittura, è stato anticipato da Draghi che è intervenuto sul mercato secondario raffreddando gli spread. Quindi praticamente forse Draghi ha fatto una retromarcia rispetto alle decisioni dell’inizio degli anni ’80 dei cosiddetti divorzi tra governi e banche centrali. Poi in Italia dobbiamo assolutamente riposizionare la pubblica amministrazione. Oggi è piazzata in modo di creare un’alleanza tra irregolari e criminali. Questo ci porta a una sconfitta. La pubblica amministrazione si deve piazzare in un altro modo, si deve piazzare tra gli irregolari e i criminali. I criminali li deve trattare come meritano, con gli irregolari, invece, deve avere tutto un altro atteggiamento, cioè deve essere la stessa pubblica amministrazione che deve realizzare gli adempimenti previsti dalle normative e quando c’è scontro, perché spesso c’è scontro tra norma e diritto, tra norma e buonsenso, tra norma ed equità, il funzionario pubblico deve essere messo in condizioni di scegliere il diritto, l’equità e il buonsenso e vedere di tutelarsi rispetto alla arida applicazione della norma. Se non si fa questo non si va da nessuna parte. E poi, quello che è forse più importante e che riassume un po’ tutto, dobbiamo acquisire quelle strepitose tecnologie oggi a disposizione dell’umanità, che rimetteranno in gioco tutti gli equilibri geopolitici a livello internazionale e a livello locale, ma che sono la nostra più grande speranza per l’ambiente e per lo sviluppo, per esempio tutte le tecnologie di trasformazione e di trattamento dei rifiuti solidi urbani. Ci sono, ripeto, delle tecnologie, alcune sono già applicate, ad esempio a Berlino si stanno applicando. Tu vai a conferire i tuoi rifiuti e ti danno dei soldi, poi ricevi energia gratis, non inquini, non ci sono i cassonetti per strada, non ci sono i mezzi comunali o municipali che intralciano il traffico per trasportare l’immondizia, non ci sono cattivi odori, non ci sono emissioni nocive. Questo è fondamentale. L’azzeramento delle emissioni genotossiche e la limitazione di quelle tossiche nell’ambito dei parametri internazionali.

MESSORA: Facciamo un ragionamento sullo scenario geopolitico globale. Spiegaci come si bilanciano gli interessi degli Stati Uniti e quelli dell’Europa con quelli della Cina, se questi Stati Uniti d’Europa convengono oppure no agli Stati Uniti, se c’è una pressione, secondo te, da parte loro e in che modo la Cina può influire in questo processo, se è un influsso positivo o negativo. Lanciamoci in queste speculazioni.

GALLONI: Diciamo che dopo Kennedy gli Stati Uniti sono sempre più risultati preda dei britannici. È lì che c’è un nodo fondamentale da sciogliere. Peraltro gli Stati Uniti hanno drammaticamente cercato, in determinate situazioni regionali, come può essere la più importante il Mediterraneo, dei partner adeguati. L’Italia questa partita non se l’è saputa giocare dopo la caduta del muro di Berlino, per le ragioni che dicevamo all’inizio. La Cina si sta avvicinando agli Stati Uniti d’America sotto certi profili, ma è ancora lontanissima sotto altri profili. Non dobbiamo neanche sopravvalutare certi comparti manifatturieri, che se anche fossero totalmente ceduti alla Cina e all’India – ma c’è anche il Brasile, c’è anche il Sud Africa, ci sono tante altre realtà emergenti nel pianeta – non sarebbe un dramma. Il problema è che noi abbiamo un futuro, ad esempio nei nostri rapporti con la Cina, se capiamo che non dobbiamo andare lì in Cina per fare un business qualunque, ma se capiamo che cedendo anche parti delle nostre produzioni industriali e manifatturiere, otteniamo però una maggiore penetrazione rispetto ai nostri prodotti di qualità, di eccellenza, perché non ci dimentichiamo che stiamo confrontando un mercato di 60 milioni di persone con un mercato che è 20 volte più grande. Quindi è chiaro che se noi rinunciamo a qualche cosa, ma riusciamo anche ad esportare un po’, quel po’ moltiplicato per la domanda che in questo momento sta crescendo, ci dà tutto un altro risultato. Però della Cina parlerei da un altro punto di vista. All’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese è stato deciso un grande cambiamento di rotta, cioè di puntare di più sulla crescita della domanda interna e di meno sulle esportazioni. Questo potrebbe essere l’inizio della fine della cosiddetta globalizzazione. Non ci dimentichiamo che la globalizzazione è il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente, quello che non rispetta la salute. Questa è la causa principale delle crisi che stiamo vivendo: che invece di premiare il produttore migliore, abbiamo premiato il produttore peggiore. Questo ha danneggiato le industrie europee e soprattutto l’industria italiana, chiaramente. E non solo l’industria, anche l’agricoltura.

MESSORA: Perché si demanda la questione della tutela dei diritti oltre il confine, dove non c’è un controllo.

GALLONI: Si deve rimettere in piedi l’economia, nel senso che deve avere tutta la sua importanza l’economia reale. L’economia reale deve avere una finanza che la aiuta. Poi se c’è un’altra finanza che va a fare disastri da qualche altra parte, che non influiscano sull’economia reale, sulla vita dei cittadini. Questo deve essere il primo punto che corrisponde alla reintroduzione della legge Glass-Steagall in pratica. Per questo possono essere utili le doppie e le triple circolazioni monetarie, le monete complementari e addirittura la reintroduzione di monete nazionali, pure in presenza di una moneta internazionale.

MESSORA: Ma per scontrarsi o per far fronte alla Cina è necessario avere gli Stati Uniti d’Europa o basta anche il piccolo guscio di noce italiano, come alcuni dicono?

GALLONI: Io non penso che ci si debba scontrare o frenare la Cina. Bisogna avere delle strategie industriali, e non solo industriali, in grado di difendere i nostri interessi, i nostri valori, i nostri principi, le nostre vocazioni. Dopodiché ci si confronta con i cinesi e si vede quali sono le sinergie che possono essere messe in campo. Si deve fare un discorso di carattere strategico, secondo me.

MESSORA: Ma la politica di Nino Galloni quale sarebbe? Uscire dall’euro e recuperare sovranità monetaria o puntare sul “più Europa”?

GALLONI: A me interessa che ci siano spese in disavanzo, perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione è un crimine puntare al pareggio di bilancio. Ovviamente se gli Stati hanno pareggio di bilancio, è possibile che l’Europa faccia gli investimenti in disavanzo, e allora mi sta benissimo l’euro.

MESSORA: Cosa che non c’è.

GALLONI: Cosa che non c’è, ma è il terzo passaggio che potrebbe essere favorito dalla gestione Draghi. Io non lo escludo. Perché chi immaginava che avrebbero dato mezzi monetari illimitatamente alle banche? Chi immaginava che sarebbero intervenuti per raffreddare gli spread acquistando i titoli pubblici sui mercati? Adesso il terzo e ultimo passaggio è quello di accettare di autorizzare mezzi monetari per la ripresa, per lo sviluppo, per gli investimenti produttivi. L’importante però è che questo non avvenga in una logica di quantitative easing. Cioè la politica monetaria sbagliata può impedire lo sviluppo, ma la politica monetaria giusta non produce lo sviluppo. Cioè la moneta è una condizione necessaria, ma non sufficiente dello sviluppo. Quindi non basta approntare mezzi monetari a gogò e allora si acchiappa lo sviluppo. Questa è una visione di tipo liberista riguardante le emissioni monetarie. In realtà bisogna fare dei progetti di infrastrutture, di ricerca, di ripresa industriale, di salvaguardia della salute e degli interessi dei cittadini e soprattutto dell’ambiente, e sulla base di queste grandi strategie approntare i mezzi monetari che certamente non sarebbero scarsi. Quindi se io dovessi ripetere i miei punti fondamentali, immediati: una legge che ripristini la netta separazione tra i soggetti che fanno speculazioni finanziarie sui mercati internazionali dai soggetti che devono fare credito all’economia. Perché la prima cosa è il credito, la più grande componente della moneta, il 94% della moneta è credito. Poi il discorso della sovranità monetaria, come ho detto prima. O gli Stati o l’Unione Europea devono fare spese in disavanzo per acchiappare la ripresa. Una diversa gestione dei debiti pubblici, che è possibile, un diverso posizionamento della pubblica amministrazione, perché il cittadino deve vedere un amico nello Stato, nella pubblica amministrazione, quindi fermare anche questo progetto di polizia europea senza controlli che potrebbe compiere qualunque azione senza dover rispondere a nessuna autorità.

MESSORA: Eurogendorf con base in Italia a Vicenza.

GALLONI: Quinto: acquisizione di tutte quelle grandi tecnologie che oggi sono a disposizione dell’umanità per migliorare veramente le condizioni di vita di tutti.

MESSORA: L’ultima domanda. Tedeschi cattivi? Amici o buoni?

GALLONI: I tedeschi sono posizionati nella storia e nella geografia in modo di doversi in qualche modo espandere. Se devono assumere una posizione di leader, devono anche accettare di rivedere le proprie politiche estere. Quindi un paese che voglia essere leader, come sono stati gli Stati Uniti d’America, importano più di quello che esportano. Se i tedeschi non accettano di importare più di quello che esportano, non possono neanche pretendere di essere leader.

ALTRO CHE CONTRO IL COMPROMESSO STORICO. CI VOLEVANO SOVIETIZZARE. IL TERRORISMO COMUNISTA-ISLAMISTA.

Da Ansa il 28 aprile 2019.- "Potevo salvare Moro, fui fermato". Così il super boss della camorra, Raffaele Cutolo, in carcere da anni, in un verbale inedito di un interrogatorio del 2016 di cui riferisce oggi in esclusiva Il Mattino. "Aiutai - spiega Cutolo - l'assessore Cirillo (rapito e successivamente rilasciato dalle Br, ndr), potevo fare lo stesso con lo statista. Ma i politici mi dissero di non intromettermi". Nel '78 Cutolo era latitante e si sarebbe fatto avanti per cercare, sostiene lui, di salvare Moro. "Per Ciro Cirillo si mossero tutti, per Aldo Moro nessuno, per lui i politici mi dissero di fermarmi, che a loro Moro non interessava". Le dichiarazioni di Cutolo risalgono al 25 ottobre del 2016, come risposte alle domande del pm Ida Teresi e del capo della Dda, Giuseppe Borrelli.

Paolo Guzzanti, quando era presidente della Commissione Mitrokin, fu a un passo dalle prove che il terrorismo rosso aveva contatti con i Paesi dell'Est. Ma poi tutto fu insabbiato, scrive Paolo Guzzanti, Martedì 09/04/2019 su Il Giornale. «Venga a Budapest e troverà tutte le risposte che cerca» mi aveva scritto nell'estate del 2005 il procuratore generale di Budapest per posta diplomatica. E mi dette un assaggio: il terrorista venezuelano Ilich Ramirez Sanchez, detto Carlos lo Sciacallo - mi disse - fu trapiantato dal Kgb sovietico a Budapest negli anni Ottanta e gli ungheresi furono costretti a sopportarlo mentre scorrazzava per la città con i suoi pistoleros, protetto dalla Stasi tedesca. Quando Carlos andava in missione terroristica in Europa occidentale, mi spiegò ancora il magistrato, gli ungheresi furono autorizzati a fotografare i documenti che si trovavano nelle abitazioni della banda: «Dovevamo consegnare tutto, ma abbiamo fatto le copie: venga a Budapest e saprà tutto sui rapporti fra terrorismo e Kgb». La Commissione bicamerale Mitrokhin di cui ero Presidente stava per chiudere i battenti avendo ultimato i suoi compiti ma, insieme al deputato Enzo Fragalà (uno squisito dandy e intellettuale palermitano) riuscimmo a vincere le resistenze delle sinistre e ottenere una rogatoria internazionale. Ci presentammo dunque a Budapest dove la Commissione fu ricevuta in un palazzo di stile sovietico-babilonese. Aleggiava ancora l'odore inconfondibile dei Paesi comunisti: varechina e scarpe vecchie, the perfect mix. Fummo accolti sontuosamente con tè, pasticcini, discorsi e grandi applausi per la ritrovata democrazia. Poi il procuratore si schiarì la voce e ci presentò un giovane maggiore in uniforme dal nome impronunciabile il quale issò sul tavolo una grande valigia di cuoio verde dagli angoli lisi. La aprì e mostrò il contenuto: pacchi di fogli ingialliti, contenitori di dossier a soffietto con la costa cartonata e disse: «Qui troverete tutto: nomi e cognomi, foto, date e recapiti degli uomini delle Brigate Rosse eterodirette dalla Stasi e dal Kgb e tutto ciò che abbiamo raccolto in questi anni». Mi sembrava di sognare. Chiesi: «Anche ciò che riguarda il rapimento e la morte di Moro?». Certo, disse. Tutto. Troppo bello per essere vero. Infatti, ecco la postilla avvelenata: «Purtroppo non siamo liberi di consegnarvi questo materiale senza il permesso di quelli del piano di sopra». E chi sono quelli del piano di sopra? «Noi abbiamo un trattato con la Federazione Russa come ogni Paese dell'ex Patto di Varsavia e non siamo proprietari dei documenti di quell'epoca. Ma entro una settimana spediremo tutto per valigia diplomatica». La fine è nota. Non arrivò nulla perché gli amici del piano di sopra dissero di no. Andai a protestare col un certo generale Ollo, l'uomo del collegamento con i Paesi della Nato, e quello allargò le braccia. Non possiamo farci nulla. Fine dell'illusione. Il tesoro restò sepolto. Pochi mesi dopo finì la legislatura e dunque anche la Commissione Mitrokhin. Non vorrei sembrare patetico con questo ricordo. Vorrei invece pronunciare un atto d'accusa. Non contro i russi o gli ungheresi, ma contro coloro che in Italia ebbero le informazioni che ho appena riferito (atti ufficiali di una rogatoria internazionale) che una Commissione del Parlamento raccolse con le stesse funzioni di un magistrato. Invece, tutti zitti. Come mai, pur avendo la notizia del tesoro contenente i legami del terrorismo italiano con i servizi segreti dell'Est, comprese le coperture di fiancheggiatori, esecutori e complici di delitti come la cattura, interrogatorio ed esecuzione di Aldo Moro, nessuno delle varie Commissioni e processi Moro Ter, Quater, Quinque e così via, abbia fatto un salto sulla sedia gridando che si doveva a tutti i costi recuperare il materiale di Budapest? Soltanto l'onorevole Enzo Fragalà, anima di quella rogatoria, insorse contro gli insabbiatori ma fu barbaramente assassinato a bastonate sotto la porta del suo studio il 23 febbraio 2010. A questi ed altri eventi ho pensato leggendo gli eccellenti interventi ieri e l'altro ieri sul Giornale sul tema del terrorismo dopo il caso Battisti firmati da Alessandro Gnocchi e del mio ex consulente Gianni Donno, storico ed accademico. E vedo che ancora una volta si torna sulla segretezza di alcuni documenti e all'invocazione al governo affinché imponga di aprire la gabbia in cui la colomba della verità è imprigionata. Questo nobile impulso può essere, se preso da solo, alquanto fuorviante perché l'esperienza di investigatore storico mi suggerisce che la «ciccia» sia altrove che non in un armadio blindato. Ogni Commissione parlamentare ha infatti diritto di ottenere documenti, non importa quanto riservati, segreti o segretissimi, da tutte le agenzie ed enti dello Stato come magistratura, servizi segreti, polizie e carabinieri. Questi enti, a norma di legge, consegnano documenti su cui è scritto riservato, segreto o segretissimo e restano proprietari di questa classifica («classified» è la parola inglese per segretato). Il Parlamento è autorizzato a leggere, ma non a riprodurre. Un consulente di Commissione può apprendere ma non può svelare l'originale. Io ho personalmente letto centinaia di documenti segretissimi (e come me ogni commissario) e posso garantire che dentro c'è soltanto burocrazia. Direte: dunque sarebbe tutto pulito? No, al contrario. Tutto è molto più sporco di quanto si immagini. Solo che il marcio è nascosto molto meglio. Un solo esempio: la mia Commissione deve moltissimo a un servitore dello Stato, militare e galantuomo (che non nomino per non arrecargli ulteriori danni) il quale ci spiegò a tutti e quaranta senatori e deputati che un documento si nasconde dandogli un nome diverso o cambiando la sua collocazione. Per la mia esperienza, i documenti ci sono, basta cercarli e i famosi «misteri italiani» sono tutti risolvibili. Ho trovato un documento della Stasi tedesca (il servizio segreto della DDR) che apparteneva a un magistrato illustre, ma era illeggibile per le righe nere della censura. Dandomi da fare ottenni lo stesso documento da una fonte diversa e appresi così che proprio il terrorista Ilich Ramirez Sanchez detto Carlos lo Sciacallo, dava conto ai suoi referenti tedeschi e russi di essere l'attentatore del cosiddetto «treno di Natale» del 1983, per cui furono condannati dei neofascisti. Qualcuno ha forse fiatato? Nulla. Quando con la Commissione andammo a Parigi per un'altra rogatoria presso la Procura, non soltanto scoprii che il parquet dei magistrati inquirenti d'Oltralpe funziona, ma feci amicizia con il «Giovanni Falcone francese», ovvero Jean-Louis Bruguière, colui che ha stroncato le attività di Carlos e dei suoi affiliati terroristi arabi, il quale mi disse: «So da un ufficiale del Kgb che l'attentato al Papa del 13 maggio 1981 fu organizzato dal servizio segreto militare Gru sovietico che aveva assoluto bisogno di garantirsi lo spazio di manovra di una Polonia sgombra dal Papa e da Solidarnosc». Con Fragalà organizzammo e facemmo votare una analisi medico legale computerizzata delle foto dell'attentato in piazza San Pietro e scoprimmo attraverso i periti che l'uomo che era accanto ad Ali Agca mentre sparava al Papa era il signor Antonov, cioè il capo del servizio segreto bulgaro e referente delle forze armate sovietiche. Le sinistre della Commissione, profondamente irritate, chiesero un secondo expertise di loro scelta, che però confermò senza esitazione il primo e fu questa la svolta e anche l'inizio della fine della più delicata e maltrattata inchiesta che il Parlamento abbia avviato e poi con poco coraggio seppellito. L'accesso ai documenti è dunque molto importante e va sostenuto, ma senza nutrire illusioni superflue sulla localizzazione del tesoro. Il tesoro, vi assicuro, è in genere altrove.

Così fu bloccato da Est il "compromesso storico". Il piano di staccare il Pci da Mosca scatenò il Kgb Anche Orbán dovrebbe riaprire gli archivi..., scrive Paolo Guzzanti, Mercoledì 10/04/2019, su Il Giornale. Intanto, sono grato anch'io al ministro Salvini per i suoi propositi e, visto che è amico del premier ungherese Viktor Orbán, mi permetto di suggerirgli di chiedere a quel leader di recuperare la promessa valigia di cuoio verde e farmela recapitare o almeno invitarmi a Budapest per esaminarla. Sarebbe l'ora che l'Italia reclamasse ciò che fa parte della sua storia. In questo articolo vorrei spiegare, specialmente a chi è più giovane e non sa, per quale motivo il dossier Mitrokhin che tutti i Paesi occidentali ricevettero dagli inglesi, soltanto in Italia diventò una vicenda furiosa e scalmanata, conclusa da un bel po' di morti, sfuggiti all'attenzione dei giornalisti eroici. Il fatto: quando gli inglesi annunciarono per via diplomatica negli anni Novanta di voler distribuire ai Paesi alleati le schede di loro interesse redatte dal maggiore Vasilij Mitrokhin, in Italia e soltanto in Italia successe il finimondo in casa comunista, divisa verticalmente fra l'ala americana (Giorgio Napolitano era da tempo uno stimato amico di Henry Kissinger) e quella pro-sovietica capeggiata da Armando Cossutta. Il comunismo sovietico era già crollato e avevano proposto nel 2000 una commissione parlamentare d'inchiesta che non andò in porto, io fui eletto nel 2001 in Senato come giornalista esperto dei fatti e l'anno successivo, varata faticosamente la legge, fui dichiarato presidente eletto da un lividissimo Giulio Andreotti che mi fu contro da subito e per sempre. Il terrorismo rosso (e in parte nero) era già finito da oltre dieci anni e il presidente emerito Francesco Cossiga era già andato in pellegrinaggio nelle carceri per visitare i brigatisti e certificarli come «bravi ragazzi che avevano un po' esagerato» o anche «boys scout della rivoluzione». Quando ero un redattore del quotidiano socialista Avanti!, negli anni Sessanta, fui personalmente avvicinato da uomini del Kgb un po' troppo entusiasti dei miei articoli, anche perché i sovietici preferivano reclutare fra socialisti e democristiani per non esporre gli iscritti al Pci. Quando interrogammo nella commissione Mitrokhin l'ex capo della Rezidentura sovietica a Roma, Leonid Kolosov, quello raccontò un sacco di balle, ma era certamente sincero quando disse che davanti alla sua porta «c'era la fila» degli informatori che odiavano l'America e volevano collaborare con i russi. Ma sui reali informatori e agenti di influenza non indagò nessuno perché era considerata un'attività poco amichevole nei confronti del Pci il cui segretario, Enrico Berlinguer, aveva del resto fallito nel tentativo di sottrarre il suo partito ai finanziamenti di Mosca (vedi L'Oro di Mosca del nostro Valerio Riva). Berlinguer aveva tentato di installare una nuova ideologia: quella del comunista geneticamente ariano del bene che guarda più a Santa Maria Goretti che a Lenin. Il Kgb sosteneva allora anche gli estremisti di destra e qualsiasi gruppo eversivo in Europa. Pochi si sono presi la briga di leggere un testo fondamentale: A Cardboard Castle? An Inside Story of the Warsaw Pact 1955-1991. Il grosso tomo, 720 pagine, contiene tutti i verbali delle riunioni del Patto di Varsavia (l'anti-Nato del blocco sovietico) da cui si può vedere come, fino al 1991, l'Est progettasse ogni anno una nuova invasione dell'Europa occidentale anche con atomiche tattiche sull'Italia, col pretesto di reagire preventivamente a un imminente attacco della Nato. Il progetto era politico oltre che militare: l'Europa tecnologica sarebbe stata resa irrecuperabile agli Stati uniti con una guerra lampo che sigillava porti e aeroporti e sarebbe stata aggregata al sistema sovietico, come spiegò Vladimir Bukowskij in EURSS. Unione europea delle Repubbliche Socialiste Sovietiche nel 2007 quando a suo parere il progetto politico era ancora in svolgimento. Questo piano aveva bisogno di una continua pressione terroristica in Occidente (Francia e Italia con la banda Carlos e i suoi agenti interni, la Frazione Armata Rossa in Germania, l'appoggio all'Ira irlandese e all'Eta basca, per azioni di infiltrazione). In Italia il progetto del Compromesso storico era stata benedetto dalla Cia americana (vedi Maurizio Molinari L'Italia vista dalla Cia con i documenti originali) con la garanzia di Aldo Moro nelle vesti di Presidente della Repubblica (si dovette estromettere con una falsa campagna mediatica l'innocente presidente Giovanni Leone sulla base di documenti americani fatti apparire ad hoc) e il senso strategico era di distaccare per sempre il Pci dall'Unione Sovietica e portarlo al governo dopo aver scatenato la famosa operazione «Clean Hands» (Mani Pulite) che avrebbe decapitato la corrotta Prima repubblica per far posto ai comunisti italiani. Tutto ciò è narrato per filo e per segno con tutti i documenti in The Italian Guillotine: Operation Clean Hands and the Overthrow of Italy's First Repubblic scritto in inglese da Stanton H. Burnett e Luca Mantovani, un libro che, curiosamente, nessun editore italiano ha avuto il fegato di pubblicare. La reazione sovietica non si fece aspettare: dopo un primo tentativo fallito di uccidere Berlinguer mandato da Cossutta a visitare la Bulgaria, con la consolidata tattica del camion che sbuca all'improvviso (morì l'autista di Berlinguer il quale rimase lievemente ferito e fu subito fatto riportare in Italia dai corpi speciali, mandati da Cossiga). Poi arrivò la strage di Via Fani, dove tutti furono uccisi da una sola arma e un solo killer e la neutralizzazione del garante del Compromesso destinato al Quirinale. L'operazione era politicamente ovvia. Attendiamo da Orbàn le carte. Il Compromesso storico fallì, il Pci tornò ad elemosinare la sua paghetta al Cremlino anche se l'operazione mani pulite portò realmente alla ghigliottina la prima Repubblica e certamente Achille Occhetto, leader del rinominato partito comunista, avrebbe vinto con la sua Gioiosa macchina da guerra se l'imprenditore Silvio Berlusconi non si fosse messo di traverso costruendo il bipolarismo impossibile e battendo il vecchio piano degli anni Settanta. Ciò accadde dopo la fine della Guerra fredda, ma l'apparato di sostegno a tutte le forme di terrorismo in funzione tattica era rimasto funzionante. Il mea culpa dello scrittore francese Daniel Pennac, ipocrita e conformista anche se avverte rossore sulle guance, è esemplare. Quando nel 1999 a dieci anni dalla caduta del Muro di Berlino, per iniziativa di Berlusconi, organizzammo un grande convegno internazionale di cui fui il chairman, conobbi un uomo dagli enormi baffi rossicci furibondo e aggressivo. Era Lech Walesa, l'elettricista cattolico che aveva organizzato, insieme al papa polacco Karol Wojtyla, il sindacato Solidarnosc che aveva conquistato le piazze polacche, occupato il Paese e paralizzato le manovre militari sovietiche. Walesa parlava soltanto polacco e una ragazza mesta e gentile traduceva con sbalorditiva rapidità: «Che diavolo vi è venuto in mentre di celebrare la caduta del Muro di Berlino decisa da Gorbaciov? Siamo noi, i polacchi, che abbiamo fatto cadere il sistema, noi del Paese da cui doveva partire la guerra, noi destinati al sacrificio, noi polacchi che ci siamo ribellati e abbiamo vinto. Altro che muro! altro che Berlino!». Aveva perfettamente ragione. Il Muro venne giù quando Gorbaciov lo decise d'accordo con il presidente Reagan che pronunciò lo storico invito: «Mister Gorbaciov, tear down this wall!». La nostra storia, quella della contiguità culturale e militare fra terroristi alla Cesare Battisti e sistema sovietico è però ancora tutta da raccontare e da rivelare, almeno per le nuove generazioni che si affacciano al mondo fresche e pulite e che chiedono il sacrosanto rispetto della verità.

La legittimità delle Crociate, un atto di difesa, scrive Massimo Viglione il 23 novembre 2015. Dal VII all’XI secolo l’Islam ha sistematicamente attaccato e invaso manu militari gran parte delle terre di quello che era l’Impero Romano d’Occidente (premendo nel contempo senza sosta alle porte di quello d’Oriente), conquistando gran parte del Medio Oriente, l’Africa del Nord, la Penisola Iberica, tentando di varcare i Pirenei, poi occupando la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, risalendo con scorrerie fino a Lione e poi in Svizzera e alle Alpi, ponendo delle enclave fisse vicino Roma (le basiliche di San Pietro e San Paolo e l’abbazia di Montecassino furono distrutte), ma soprattutto terrorizzando per secoli le popolazioni cristiane mediterranee, specialmente quelle italiane. Quattro secoli di invasioni militari (massacri di uomini, deportazioni di donne negli harem, conversione forzata dei bambini) e razzie, di cui nessuno mai potrà fare il calcolo non tanto dei danni materiali, quanto del numero dei massacrati e del dolore immenso causato a intere generazioni di cristiani, senza che questi potessero in alcun modo contrattaccare. Gli stessi pellegrini che andavano in Terra Santa venivano spesso massacrati, specie a partire dall’XI secolo, con l’arrivo del dominio dei turchi selgiuchidi. Tutto quanto detto deve essere tenuto presente prima di emettere qualsivoglia giudizio storico e morale sulla crociate: non si può infatti presentare i crociati come una “banda di matti fanatici” e ladri che calò improvvisamente in Palestina per rubare tutto a tutti e uccidere i poveri musulmani indifesi. Ciò è solo ridicolo, evidentemente sostenuto da chi non cerca la verità storica ma è mosso solo dal suo odio anticristiano (o dalla sua simpatia filoislamica). Come sempre ufficialmente dichiarato dalla Chiesa tramite la voce dei Papi e dai teorici del movimento crociato (fra questi, san Bernardo di Chiaravalle) e dai teologi medievali (fra gli altri, san Tommaso d’Aquino e anche santa Caterina da Siena), lo scopo e la legittimità delle crociate risiedono nei seguenti princìpi fondamentali:

Il diritto/dovere assoluto della Cristianità a rientrare in possesso dei Luoghi Santi;

La difesa dei pellegrini (e a tal fine nacquero gli Ordini monastico-cavallereschi);

La legittima difesa dai secolari assalti della Jahad islamica.

Come si può notare, tutti e tre i princìpi indicati si fondano pienamente sul diritto naturale: quello del recupero della legittima proprietà privata lesa, quella della difesa del più debole dalla violenza ingiustificata, quello della legittima difesa da un nemico ingiustamente invasore. È interessante notare a riguardo che le fonti islamiche sulle crociate, pur accusando i crociati di atti barbarici e stragisti di ogni genere, mai mettono però idealmente in dubbio il loro diritto alla riconquista dei Luoghi della Redenzione di Cristo. Da conquistatori, essi sanno che il diritto del più forte, su cui essi si fondano, prevede anche il contrattacco. A questi tre princìpi poi, santa Caterina da Siena ne aggiunge un altro: il doveroso tentativo di conversione degli infedeli alla vera Fede, per la loro salvezza eterna, bene supremo di ogni uomo. Per necessaria completezza, occorre tener presente poi che il movimento crociato non si esaurì nell’ambito dei due secoli (1096-1291) in cui avvennero la conquista e la perdita della Terra Santa da parte cristiana (crociate tradizionali); infatti, a partire dal XIV secolo, e fino agli inizi del XVIII, con l’avanzata inarrestabile dei turchi ottomani, di crociate se ne dovettero fare in continuazione; questa volta però non per riprendere i Luoghi Santi, ma per difendere l’Europa stessa (l’Impero Romano d’Oriente cadde in mano islamica nel 1453) dalla conquista musulmana. I soli nomi di Cipro, Malta, Lepanto, Vienna (ancora nel 1683) ci dicono quale immane tragedia per secoli si è consumata anche dopo le stesse crociate “tradizionali” e ci testimoniano un fatto incontrovertibile e di importanza capitale: per quattro secoli prima e per altri quattro secoli dopo le crociate “tradizionali”, il mondo cristiano è stato messo sotto attacco militare dall’Islam (prima arabo, poi turco), subendo quella che può definirsi la più grande e lunga guerra d’assalto mai condotta nella storia, in obbedienza ai dettami della Jihad (Guerra Santa) voluta e iniziata da Maometto stesso. Mille anni di guerre. Per questo, occorre essere sereni, preparati e giusti nei giudizi. Le crociate furono insomma anzitutto guerre di legittima difesa e di riconquista di quanto illegittimamente preso da un nemico invasore. Pertanto, ebbero piena legittimità storica e ideale (ciò non giustifica, ovviamente, tutte le violenze gratuite commesse da parte cristiana nel corso dei secoli). Ancor più ciò è valido a partire dal XIV secolo, quando l’unico scopo del movimento crociato divenne la difesa della Cristianità intera aggredita dai turchi.

Con la Rivoluzione Francese abbiamo diviso lo Stato dalla Chiesa e questi ci vogliono imporre un nuovo tipo di regime teocratico ideologico?

Israele-Gaza: tutti i falsi miti da sfatare. Dall'onnipotenza del Mossad alla lobby ebraica e all'idea di "Due popoli due Stati". La complessità del conflitto israelo-palestinese negli anni ha generato una serie di convinzioni che non si basano sui fatti. Il dizionario del conflitto dalla A alla Z, scrivono Anna Mazzone e Paolo Papi su "Panorama". Israele ha avvertito i palestinesi della Striscia di Gaza di abbandonare le loro abitazioni. La pseudo-tregua è durata un batter di ciglia. I razzi di Hamas continuano a piovere in Israele e lo Stato ebraico ha ripreso i bombardamenti su Gaza e si prepara (forse) a un'operazione terrestre. Compresso tra i suoi falchi, Netanyahu sembra non avere chiara la rotta da seguire e intanto il numero dei morti aumenta di ora in ora. Si parla di più di 200 persone, tutti palestinesi e 1 israeliano. Il conflitto israelo-palestinese affonda la sua storia nella notte dei tempi. Difficile districarsi nelle fitte trame degli eventi, dei passi fatti in avanti e di quelli (tanti) fatti indietro. E, soprattutto, difficile non ascoltare le sirene dei "falsi miti". Idee preconcette, spesso frutto di propaganda da una parte e dall'altra, che a forza di essere ripetute sono diventate realtà. Abbiamo provato a smontarli uno per uno. 

Il mito dei Paesi arabi "fratelli". Non è vero, contrariamente a quanto sostiene la vulgata corrente, che i palestinesi siano vittime esclusivamente delle rappresaglie israeliane. I Paesi arabi che confinano con Israele, Gaza e Cisgiordania sono stati, nonostante la retorica antisionista dei governi arabi strumentalmente usata in chiave interna, tra i più feroci nemici degli oltre 5 milioni di profughi palestinesi della diaspora, considerati - ovunque siano stati ospitati - come dei paria senza diritti, degli inguaribili attaccabrighe da confinare in campi sovraffollati, senza servizi né diritti e controllati a vista dalle onnipotenti polizie locali. Dalla Giordania - dove durante il settembre nero del 1970 la polizia giordana lanciò una sanguinosa operazione contro i gruppi palestinesi nei campi - al Libano - dove i 500 mila profughi che vivono nei campi sono considerati tuttora senza diritti politici e sociali - fino al Kuwait - dove i lavoratori palestinesi furono espulsi durante la prima guerra del Golfo per il sostegno che l’Olp ricevette dal regime di Saddam - non c’è Paese arabo che - al di là delle magniloquenti dichiarazioni di solidarietà ai fratelli palestinesi  - abbia mai offerto un concreto aiuto ai palestinesi fuggiti dalle loro case. Sempre in Giordania (e anche in Libano) un palestinese non può studiare Legge o Medicina e non può essere proprietario di un immobile. Se questi sono "fratelli", allora forse è il caso di parlare di "parenti serpenti".

Il mito dei negoziati. Non è vero, o meglio: è estremamente improbabile, visto anche il disimpegno americano - che una soluzione al conflitto israelo-palestinese possa essere frutto di un negoziato tra i leader dei due campi, come dimostrano i fallimenti di tutti gli accordi di pace degli anni '90 e 2000. È assai più probabile che le tendenze demografiche di lungo periodo dei due gruppi etnici possano mutare, irrimediabilmente, nei prossimi decenni, la natura politica dello Stato di Israele. E questo per una ragione molto semplice: se guardiamo alle proiezioni statistiche scopriamo che al momento in Terra Santa vivono 6.1 milioni di ebrei e 5.8 milioni di arabi. La demografia dice che gli arabi fanno molti più figli degli ebrei. E' inevitabile pensare che nel giro dei prossimi dieci anni, qualora non si riuscisse a raggiungere una soluzione "Due popoli due Stati", Israele potrebbe perdere progressivamente il suo carattere di Stato ebraico. Insomma, quello che non si riesce a raggiungere da più di mezzo secolo al tavolo dei negoziati, potrebbe realizzarlo la Natura.

Il mito degli insediamenti congelati. Nonostante il governo israeliano abbia più volte dichiarato l'intenzione di congelare i nuovi piani di insediamento nella West Bank, questo non è accaduto. L'ultimo esempio è molto recente. Ai primi di giugno di quest'anno l'esecutivo israeliano ha annunciato uno stop nella costruzione di nuove abitazioni in Cisgiordania. In realtà, però, su un piano che prevedeva 1.800 nuovi insediamenti ne sono state costruite 381. Forte la pressione da parte di cinque Paesi dell'Unione europea affinché Israele congelasse i suoi piani sui nuovi insediamenti. Ma il governo Netanyahu ha fatto sapere che lo stop è arrivato per motivi "tecnici" e non in seguito alle pressioni europee. 

Il mito della lobby ebraica. E' sicuramente il mito più gettonato. Quello dell'esistenza di una lobby ebraica in grado di influenzare qualsiasi avvenimento socio-economico-politico nel mondo è il cavallo di battaglia dell'esercito dei complottisti. Il mito della lobby "giudaica" affonda le sue radici nell'antisemitismo e, come tutti i miti, si fonda su idee fantasiose ripetute a oltranza, nei secoli dei secoli, fino a diventare - almeno per alcuni - delle verità inviolabili. E' il mito che ha gettato le fondamenta dello sterminio nazista e che ha motivato nei secoli l'odio nei confronti degli ebrei, accusati - dopo la Seconda guerra mondiale - di fare "marketing dell'Olocausto" per poter mantenere una situazione di potere nel mondo. In realtà, basterebbe una sola domanda per smontare il mito della lobby ebraica: perché - se la lobby esiste sul serio - Israele non riesce a modificare l'immagine che passa sulla maggior parte dei media nel mondo e che assegna allo Stato ebraico la maglia nera del carnefice a fronte di una Palestina presentata largamente come vittima indiscussa?  Il vecchio adagio che la verità sta nel mezzo in realtà vale sia per Israele che per la Palestina, ed è troppo semplice e superficiale credere che esista una struttura monolitica e unica come la potente lobby ebraica, in grado di modificare i destini del mondo. 

Il mito di "Due popoli, due Stati". La soluzione "Due popoli due Stati" è l'idea di creare uno Stato palestinese indipendente, che possa esistere "assieme" a Israele. Negli anni è diventata una sorta di "mito", perché sarebbe sicuramente la soluzione migliore per risolvere un conflitto così complesso, ma è pur vero che al momento le parti in causa sono troppo distanti. La creazione di creare uno Stato binazionale non ottiene ugualmente supporto e i sondaggi dimostrano che sia gli israeliani che i palestinesi preferirebbero la "mitica" soluzione "Due popoli due Stati". E allora perché questa soluzione non viene raggiunta? La risposta affonda le sue radici in anni e anni di conflitto israelo-palestinese per la terra, la legittimazione, il potere. Un tema molto sentito dai palestinesi è il controllo delle frontiere e la libertà di movimento. Movimento che Israele restringe e controlla ai check-point e all'ingresso della città di Gerusalemme. E' molto difficile negoziare una soluzione "Due popoli due Stati" se non ci si riesce a mettere d'accordo sui confini come punto di partenza. Un ulteriore motivo di conflitto è la disputa sul controllo di Gerusalemme, casa di molti siti sacri per gli ebrei, ma anche per i palestinesi (e i cristiani). C'è poi la questione degli insediamenti israeliani nella West Bank, che fa parte dei territori palestinesi. L'espansione degli insediamenti israeliani nella West Bank è vista da molti come il principale ostacolo alla costruzione di una pace stabile e duratura. Infine c'è Hamas, l'organizzazione terroristica che controlla Gaza, che non vuole l'esistenza di Israele e si batte per cancellare lo Stato ebraico dalla mappa mediorientale. Di fronte a queste considerazioni, è evidente come la soluzione "Due popoli due Stati", pur essendo la migliore da praticare, è anche un falso mito da sfatare. Almeno finché le parti non muoveranno passi in una direzione diversa da quella presa finora.

Il mito dell'estremismo "solo" arabo. Per chi crede che nel conflitto israelo-palestinese il "terrorismo" si esprima solo sul fronte islamico, questo è un altro mito da sfatare. In Terra Santa gli estremisti sono anche ebrei e rappresentano un serio problema per il governo israeliano. Ultra ortodossi, gli estremisti ebraici si sono spesso distinti per attacchi di gruppo a donne. Come nel caso della ragazza presa a sassate a Beit Shemesh (nei pressi di Gerusalemme) perché stava attaccando dei poster della lotteria nazionale per le strade del villaggio. In occasione della recente visita di Papa Francesco in Terra Santa, le autorità israeliane hanno vietato a cinque noti estremisti di mettere piede nella città di Gerusalemme. Considerano lo Stato israeliano "un nemico" e attaccano con bombe e attentati, esattamente come gli omologhi della controparte palestinese. Un nome su tutti è quello di Yigal Amir, il terrorista ultranazionalista che nel 1995 ha ucciso Yitzhak Rabin, perché non accettava l'iniziativa di pace sposata dal premier israeliano e la sua firma sugli accordi di Oslo.

Il mito dell'onnipotenza del Mossad. I servizi segreti israeliani vengono spesso portati a esempio di infallibilità, ma non è così. Anche perché è umanamente impossibile. Tuttavia, il mito dell'onnipotenza del Mossad è uno delle fondamenta su cui si articola il mito della lobby ebraica, e pertanto resiste tenacemente nel tempo. Eppure, i flop del Mossad (e dello Shin Bet, l'intelligence israeliana per gli affari interni) sono sotto gli occhi di tutti. Cominciano nell'ottobre del 1973, quando Aman, i servizi militari israeliani, giudica "Poco probabile" lo scoppio di una guerra con i Paesi arabi, Qualche giorno dopo l'esercito sirio-egiziano attacca Israele, cogliendo il Paese del tutto impreparato. Il capo di Aman fu costretto a dimettersi. Poco prima, a luglio dello stesso anno, gli agenti del Mossad danno la caccia ai leader di Settembre Nero, l'organizzazione terroristica islamica responsabile dell'uccisione di 11 atleti israeliani ai Giochi olimpici di Monaco del '72. Gli 007 israeliani credono di avere individuato Hassan Salamé (uno dei leader) in Norvegia. Lo colpiscono, ma poi scoprono di avere ucciso per sbaglio un cameriere di origine marocchina. In tempi più recenti, a gennaio del 2010 in un hotel di Dubai viene ucciso Mahmoud al Mabhouh, uno dei comandanti di Hamas. Le foto dei killer (agenti del Mossad) fanno il giro del mondo con i loro passaporti, su operazione della polizia locale. Infine, a giugno 2011 i siti dell'IDF, di Shin Bet e del Mossad vengono violati da un gruppo di hackers di Anonymous, che minaccia un attacco cibernetico contro Israele. Per due ore i siti non sono accessibili.

Violenti scontri a Gaza: 16 palestinesi uccisi dall'esercito israeliano. Oltre mille feriti. L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l'intervento della comunità internazionale dopo la violentissima battaglia al confine con la Striscia dove ha preso il via la “Grande marcia del ritorno” che commemora gli scontri del marzo 1976. La mobilitazione durerà fino al 15 maggio, giorno della Nakba. Fonti diplomatiche: all'Onu riunione d'urgenza a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza, scrive il 30 marzo 2018 "La Repubblica". Sedici morti e più di mille feriti nella Striscia, secondo il ministero della Sanità. Tra le vittime, la più giovane ha 16 anni. È il bilancio, ancora provvisorio secondo fonti mediche di Gaza, degli scontri tra palestinesi e forze della sicurezza israeliane scoppiati al confine tra il sud della Striscia e Israele, dove ha preso il via la “Grande marcia del ritorno” convocata da Hamas nell'anniversario dell'esproprio delle terre arabe per creare lo Stato di Israele nel 1948. Da fonti diplomatiche si apprende che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, su richiesta del Kuwait, terrà una riunione d'urgenza sui tragici eventi di Gaza. La stessa fonte, coperta da anonimato, ha precisato che la riunione avverrà a porte chiuse a partire dalle 18.30 ora locale (le 00.30 in Italia). La Grande Marcia si è aperta nella Giornata della Terra che ricorda l'esproprio da parte del governo israeliano di terre di proprietà araba in Galilea, il 30 marzo 1976. Le proteste dureranno fino al 15 maggio, anniversario della fondazione di Israele, per i palestinesi "Nakba", la "catastrofe", come la chiamano, perché molti furono costretti ad abbandonare per sempre case e villaggi. 

L'esercito ha aperto il fuoco in più occasioni con colpi di artiglieria, munizioni vere e proiettili di gomma vicino alla barriera di sicurezza davanti a cui hanno manifestato 17 mila palestinesi. Dalla folla sono stati lanciati sassi e bottiglie molotov verso i militari. Di primo mattino il colpo di artiglieria di un carro armato aveva ucciso Omar Samour, un agricoltore palestinese di 27 anni che era entrato nella fascia di sicurezza istituita dalle forze armate israeliane. Testimoni hanno raccontato che si trovava su terreni vicini alla frontiera e un portavoce dell'esercito ha spiegato l'episodio parlando di "due sospetti che si sono avvicinati alla barriera di sicurezza nel sud della Striscia di Gaza e hanno cominciato a comportarsi in maniera strana", e i carri armati hanno sparato contro di loro". Successivamente è stato ucciso con un colpo allo stomaco un 25enne a est di Jabaliya, nel nord del territorio costiero e altri due (fra cui un 38enne) in punti diversi della frontiera. La maggior parte dei feriti sono stati colpiti da proiettili di gomma e gas lacrimogeni.

L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l'intervento della comunità internazionale. Yusef al Mahmoud, portavoce dell'Anp a Ramallah, ha chiesto "un intervento internazionale immediato e urgente per fermare lo spargimento del sangue del nostro popolo palestinese da parte delle forze di occupazione israeliane". L'esercito israeliano ha precisato di aver preso di mira "i principali istigatori" delle proteste violente e ha ribadito che non verrà permesso a nessuno di violare la sovranità di Israele superando la barriera di sicurezza e per questo ha anche schierato un centinaio di tiratori scelti. Secondo il generale israeliano Eyal Zamir, l'esercito è intervenuto perché ha "identificato alcuni terroristi che cercano di condurre attacchi, camuffandosi da manifestanti". Zamir ha chiesto ai residenti palestinesi di stare lontano dal confine e ha accusato Hamas di essere responsabile degli scontri in corso. Le manifestazioni sono partite da sei punti dell'arido confine tra Gaza e Israele, lungo una cinquantina di chilometri: in particolare Rafah e Khan Younis nel sud, el-Bureij e Gaza City al centro, Jabalya nel nord. Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha arringato la folla assicurando che "è l'inizio del ritorno di tutti i palestinesi". Fonti dell'esercito di Tel Aviv hanno descritto gli scontri: "Fanno rotolare pneumatici incendiati e lanciano pietre verso la barriera di sicurezza, i soldati israeliani ricorrono a mezzi antisommossa e sparano in direzione dei principali responsabili e hanno imposto una zona militare chiusa attorno alla Striscia di Gaza, una zona dove ogni attività necessita di autorizzazione".

L'esercito israeliano ha detto che una ragazzina palestinese di 7 anni è stata "mandata verso Israele per superare la barriera difensiva". "Quando i soldati hanno realizzato che era una ragazzina - ha continuato l'esercito - l'hanno presa e si sono assicurati che tornasse in sicurezza dai genitori". Secondo l'esercito - citato dai media - la ragazzina è stata inviata da Hamas che "cinicamente usa le donne e i bambini, li manda verso la frontiera e mette in pericolo le loro vite". La protesta, che secondo gli organizzatori sarebbe dovuta essere pacifica, ha l'obiettivo di realizzare il "diritto al ritorno", la richiesta palestinese che i discendenti dei rifugiati privati delle case nel 1948 possano ritornare alle proprietà della loro famiglia nei territori che attualmente appartengono a Israele. Sono giorni che Israele fa intendere che avrebbe usato le maniere forti. Il ministro della Difesa, Avigdor Liberman, aveva avvertito che qualsiasi palestinese si fosse avvicinato a una barriera di sicurezza avrebbe messo a repentaglio la propria vita. Secondo i media israeliani, Liberman da stamane si trova presso il quartier generale dell'esercito per monitorare la situazione. L'esercito ha dichiarato la zona "area militare interdetta". Scontri sono in corso anche in Cisgiordania, nelle zone di Ramallah e di Hebron. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz la mobilitazione chiamata da Hamas è anche un modo per sviare l'attenzione dal pantano politico all'interno della Striscia: dove dopo la guerra del 2014 le infrastrutture sono in rovina e la gestione delle necessità quotidiane è sempre più complicato. "Condanniamo in modo forte l'uso sproporzionato della forza da parte di Israele contro i palestinesi durante le proteste pacifiche di oggi a Gaza", ha detto il ministro degli Esteri della Turchia. "È necessario che Israele ponga fine rapidamente all'uso della forza, che innalzerebbe ulteriormente le tensioni nella regione", afferma Ankara, lanciando un invito "alla comunità internazionale a rispettare la sua responsabilità di convincere Israele ad abbandonare il suo atteggiamento ostile".

Israele spara sulla marcia palestinese: 15 morti a Gaza. Striscia di Gaza. Uomini, donne e bambini per il ritorno e il Giorno della terra: i cecchini israeliani aprono il fuoco su 20mila persone al confine. Oltre mille i feriti, scrive Michele Giorgio il 30.3.2018 su "Il Manifesto". Manifesto Il video che gira su twitter mostra un ragazzo mentre corre ad aiutare un amico con ‎in mano un vecchio pneumatico da dare alle fiamme. Ad certo punto il ragazzo, ‎avrà forse 14 anni, cade, colpito da un tiro di precisione partito dalle postazioni ‎israeliane. Poi ci diranno che è stato “solo” ferito. Una sorte ben peggiore è toccata ‎ad altri 15 palestinesi di Gaza rimasti uccisi ieri in quello che non si può che ‎definire il tiro al piccione praticato per ore dai cecchini dell’esercito israeliano. ‎Una strage. I feriti sono stati un migliaio (1.500 anche 1.800 secondo altre fonti): ‎centinaia intossicati dai gas lacrimogeni, gli altri sono stati colpiti da proiettili veri ‎o ricoperti di gomma. È stato il bilancio di vittime a Gaza più alto in una sola ‎giornata dall’offensiva israeliana “Margine Protettivo” del 2014. ‎Gli ospedali già ‎in ginocchio da mesi hanno dovuto affrontare questa nuova emergenza con pochi ‎mezzi a disposizione. Hanno dovuto lanciare un appello a donare il sangue perché ‎quello disponibile non bastava ad aiutare i tanti colpiti alle gambe, all’addome, al ‎torace. ‎«I nostri ospedali da mesi non hanno più alcuni farmaci importanti, ‎lavorano in condizioni molto precarie e oggi (ieri) stanno lavorando in una doppia ‎emergenza, quella ordinaria e quella causata dal fuoco israeliano sul confine», ci ‎diceva Aziz Kahlout, un giornalista.

Gli ordini dei comandi militari israeliani e del ministro della difesa Avigdor ‎Lieberman erano tassativi: aprire il fuoco con munizioni vere su chiunque si fosse ‎spinto fino a pochi metri dalle barriere di confine. E così è andata. Per giorni le ‎autorità di governo e i vertici delle forze armate hanno descritto la Grande Marcia ‎del Ritorno come un piano del movimento islamico Hamas per invadere le ‎comunità ebraiche e i kibbutz a ridosso della Striscia di Gaza e per occupare ‎porzioni del sud di Israele. Per questo erano stati fatti affluire intorno a Gaza ‎rinforzi di truppe, carri armati, blindati, pezzi di artiglieria e un centinaio di ‎tiratori scelti. ‎

Pur considerando il ruolo da protagonista svolto da Hamas, che sicuramente ‎ieri ha dimostrato la sua capacità di mobilitare la popolazione, la Grande Marcia ‎del Ritorno non è stata solo una idea del movimento islamista. Tutte le formazioni ‎politiche palestinesi vi hanno preso parte, laiche, di sinistra e religiose. Anche ‎Fatah, il partito del presidente dell’Anp Abu Mazen che ieri ha proclamato il lutto ‎nazionale. E in ogni caso lungo il confine sono andati 20mila di civili disarmati, ‎famiglie intere, giovani, anziani, bambini e non dei guerriglieri ben addestrati. ‎Senza dubbio alcune centinaia si sono spinti fin sotto i reticolati, vicino alle ‎torrette militari, ma erano dei civili, spesso solo dei ragazzi. Israele ha denunciato ‎lanci di pietre e di molotov, ha parlato di ‎«manifestazioni di massa volte a coprire ‎attacchi terroristici» ma l’unico attacco armato vero e proprio è stato quello – ‎ripreso anche in un video diffuso dall’esercito – di due militanti del Jihad giunti ‎sulle barriere di confine dove hanno sparato contro le postazioni israeliane prima ‎di essere uccisi da una cannonata.‎

La Grande Marcia del Ritorno sulla fascia orientale di Gaza e in Cisgiordania è ‎coincisa con il “Yom al-Ard”, il “Giorno della Terra”. Ogni 30 marzo i palestinesi ‎ricordano le sei vittime del fuoco della polizia contro i manifestanti che in Galilea ‎si opponevano all’esproprio di altre terre arabe per costruire comunità ebraiche nel ‎nord di Israele. I suoi promotori, che hanno preparato cinque campi di tende lungo ‎il confine tra Gaza e Israele – simili a quelle in cui vivono i profughi di guerra -, ‎intendono portarla avanti nelle prossime settimane, fino al 15 maggio quando ‎Israele celebrerà i suoi 70 anni e i palestinesi commemoreranno la Nakba, la ‎catastrofe della perdita della terra e dell’esilio per centinaia di migliaia di profughi. ‎Naturalmente l’obiettivo è anche quello di dire con forza che la gente di Gaza non ‎sopporta più il blocco attuato da Israele ed Egitto e vuole vivere libera. Asmaa al ‎Katari, una studentessa universitaria, ha spiegato ieri di aver partecipato alla ‎marcia e che si unirà alle prossime proteste ‎«perché la vita è difficile a Gaza e non ‎abbiamo nulla da perdere‎». Ghanem Abdelal, 50 anni, spera che la protesta ‎‎«porterà a una svolta, a un miglioramento della nostra vita a Gaza‎».‎

Per Israele invece la Marcia è solo un piano di Hamas per compiere atti di ‎terrorismo. La risposta perciò è stata durissima. Il primo a morire è stato, ieri ‎all’alba, un contadino che, andando nel suo campo, si era avvicinato troppo al ‎confine. Poi la mattanza: due-tre, poi sei-sette, 10-12 morti. A fine giornata 15. E ‎il bilancio purtroppo potrebbe salire. Alcuni dei feriti sono gravissimi.‎

Si rischia la Pasqua di rappresaglia. In Israele si rischia una Pasqua di rappresaglia, scrive Fiamma Nirenstein, Sabato 31/03/2018 su "Il Giornale". C'è confusione sui numeri ma non sul significato della «Marcia del ritorno», come l'ha chiamata Hamas. 15 morti, 1.400 feriti e 20mila dimostranti sul confine di Israele con Gaza, in una manifestazione organizzata per essere solo la prima in direzione di una mobilitazione di massa che dovrebbe avere il suo apice il 15 di maggio, giorno della Nakba palestinese, il «disastro», festa dell'indipendenza di Israele, che coinciderà anche con il passaggio dell'ambasciata americana a Gerusalemme. Un'escalation continua di eccitazione mentre cresceva l'incitamento ha visto per ben quattro volte unità di giovani armati di molotov, bombe a mano e coltelli, infiltrati dentro il confine. Un esempio limitato di quello che Hamas vorrebbe riprodurre su scala di massa, ovvero l'invasione di Israele, come nei loro discorsi ieri hanno ripetuto i leader massimi Ismail Hanyie e Yehyia Sinwar. Non a caso nei giorni della preparazione si sono svolte esercitazioni militari con lanci di razzi e incendi di finti carri armati, pretesi rapimenti e uccisioni che hanno persino fatto scattare i sistemi antimissile spedendo gli israeliani nei rifugi. Il messaggio di Hamas era chiaro: marciate, noi vi copriamo con le armi. Ma le intenzioni terroriste sono state incartate dentro lo scudo delle manifestazioni di massa e l'uso della popolazione civile, inclusi donne e bambini, è stato esaltato al massimo. Molti commentatori sottolineano che se Hamas decide di marciare, non ci sia molta scelta. E una marcia di civili risulta indiscutibile presso l'opinione pubblica occidentale, ma il messaggio sottinteso è stato spezzare il confine sovrano di Israele con la pressione della folla civile, utilizzare le strette regole di combattimento dell'esercito israeliano che mentre lo stato maggiore si arrovellava, si è trovato nel consueto dilemma delle guerre asimmetriche: tu usi soldati in divisa e il nemico soldati in abiti civili, donne, bambini, talora palesemente utilizzati come provocazione. L'esercito ha confermato che una piccola di sette anni per fortuna è stata individuata in tempo prima di venire travolta negli scontri. E in serata Israele ha bombardato con cannonate e raid aerei tre siti di Hamas a Gaza in risposta a un tentativo di attacco armato contro soldati. La protesta di Hamas - che arriva alla vigilia della festa di Pesach, la Pasqua ebraica - ha vari scopi: il primo è legato alla situazione interna di Gaza. L'uso militarista dei fondi internazionali e il blocco conseguente del progresso produttivo ha reso la vita della gente miserabile e i confini restano chiusi. È colpa della minaccia che l'ingresso da Gaza di uomini comandati da un'entità terrorista, comporta per chiunque, israeliani o egiziani. Hamas con la marcia incrementa la sua concorrenza mortale con l'Anp di Abu Mazen, cui ha cercato di uccidere pochi giorni fa il primo ministro Rami Hamdallah; minacciata di taglio di fondi urla più forte che può contro Israele, cosa su cui la folla araba, anche quella dei Paesi oggi vicini a Israele come l'Arabia Saudita e l'Egitto, la sostiene. Il titolo «Marcia del ritorno» significa che non può esserci nessun accordo sul fondamento di qualsiasi accordo di pace, ovvero sulla rinuncia all'ingresso distruttivo nello Stato ebraico dei milioni di nipoti dei profughi del '48, quando una parte dei palestinesi fu cacciata e una parte se ne andò volontariamente certa di tornare sulla punta della baionetta araba. Israele ha cercato invano di evitare che alle manifestazioni si facessero dei morti. Ma nessuno Stato sovrano accetterebbe da parte di migliaia di dimostranti guidati da un'organizzazione che si dedica solo alla sua morte una effrazione di confini. Hamas userà i nuovi shahid (povera gente) per propagandare la sua sete di morte in nome di Allah e contro Israele. Certo questo non crea in Israele maggiore fiducia verso una pace futura.

Il silenzio assordante sul massacro dei curdi, scrive Marco Rovelli il 29 marzo 2018 su Left. Fin dove arriva l’estensione dell’impunità? Fin dove ci si può spingere nel massacro e nel disprezzo del diritto? Fin dove si può farlo nella più totale indifferenza della comunità internazionale e dei media? Erdogan ci sta mostrando sul campo che questi confini sono assai estensibili. Quella porzione di Medio Oriente che dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano prese il nome di Siria, e che adesso si è dissolta a sua volta, è il luogo ideale per riplasmare i confini di ciò che è lecito. Ed è lecito tutto ciò che si può fare, come nello stato di natura di Hobbes e Spinoza. In quello stato di natura non esiste alcuno Stato civile: l’assoluta libertà di massacro di Erdogan, allora, ci mostra che non è collassata solo la sovranità statale siriana, ma pure qualsiasi simulacro di comunità internazionale. Erdogan ha di fatto invaso la Siria, e tutto accade come nulla fosse: perché, dal punto di vista di una comunità internazionale, che non esiste in quanto comunità normata da un diritto, nulla è, in effetti. Erdogan massacra i curdi, tanto combattenti quanto civili, e, ancora, nulla è. I curdi del resto sono da cent’anni l’assoluto rimosso del Medio Oriente, vittima silenziosa delle strategie delle sovranità statali. Negli ultimi quindici anni i curdi hanno provato a mettere in discussione il principio della sovranità dello Stato-nazione, attraverso la teoria del confederalismo democratico: e così adesso, quel Leviatano si abbatte su di loro, in forma di vendetta, lacerando ancora le carni di quel popolo ribelle. Mentre il sacrificio si compie, il mondo resta ammutolito. Ma non perché sgomento dalla terribile entità di quel massacro. Piuttosto, perché nulla sa, e, se sa qualcosa, preferisce non farne parola. Così appaiono del tutto naturali le immagini di Erdogan in visita in Italia senza che nessuno dei nostri governanti abbia osato far cenno dei suoi crimini. Un’infamia inemendabile. E allora, sia gratitudine a chi è penetrato nei cancelli della fabbrica Agusta, il luogo primo della nostra complicità nel massacro in corso. È con i nostri elicotteri Agusta Westland che il massacro viene compiuto. Le pale degli elicotteri fanno un rumore tale, e le bombe sganciate, che il silenzio dei media e dei governanti si fa sempre più assordante. Fanno bene al cuore le immagini della partecipazione alle manifestazioni per Afrin, certo: ma è sempre troppo poco quel che possiamo fare, perché il silenzio del discorso pubblico ci sopravanza. Ciò, ovviamente, non ci esime dal continuare a fare. Bisogna ricordare, senza posa, a fronte dell’obsolescenza programmata del discorso pubblico, dove i morti scompaiono dalla scena più velocemente di una qualsiasi canzone pop, di qualsiasi tormentone estivo, come si getta un bene di consumo qualsiasi nell’immondizia. Ricordiamo, invece. Ricordiamoci di Alan Kurdi, quel bambino curdo finito morto riverso sulla spiaggia, che il mondo ha guardato in faccia per un istante, commuovendosi come sempre per interposta persona, per poi assistere il giorno dopo a un nuovo spettacolo che cancella quello del giorno precedente. Ricordiamolo, che migliaia di piccoli Alan Kurdi sono uccisi, o costretti a un esodo immane, dalle nostre bombe. E ricordiamo che Erdogan sta provando a uccidere la speranza più luminosa di un Medio Oriente da troppo tempo disperato, la speranza costruita giorno dopo giorno da un movimento curdo che tenta di ridare forma e contenuti e pratiche nuovi a una parola da noi usurata e consunta e abusata: democrazia. Ricordiamolo, che è perché i curdi del Rojava sperimentano una democrazia radicale, che sono massacrati.

MIGRAZIONI O INVASIONI? Di Claudio Mutti 1 dicembre 2016. La storiografia italiana e francese è solita applicare la definizione di “invasioni barbariche” a quel vasto fenomeno di spostamenti a catena che si verificò tra l’Asia e l’Europa a partire dal IV secolo d. C., portando popolazioni eterogenee a stabilirsi in sedi diverse da quelle originarie, spesso sui territori appartenenti o appartenuti all’Impero romano. Gli storici tedeschi e ungheresi, per ragioni facilmente comprensibili, hanno preferito far uso di termini più neutri e anodini, quali Völkerwanderung e népvándorlás (“migrazione di popoli”). L’odierna penetrazione di masse umane originarie dell’Asia e dell’Africa entro i confini europei è a volte paragonata al fenomeno che ebbe luogo nel Tardoantico e nell’Alto Medioevo; ed anche i termini “migrazione” e “invasione”, quando vengono applicati al caso attuale, riflettono prospettive e percezioni alquanto diverse.

“Migrazione”, infatti, è il termine con cui viene comunemente indicato lo spostamento che individui, famiglie o gruppi più o meno numerosi intraprendono con l’intenzione di stabilirsi in una nuova sede, in maniera provvisoria o definitiva. La teoria geopolitica è solita distinguere i movimenti migratori, rispetto alla volontà dei migranti, in volontari e coatti. Si parla di migrazione volontaria quando gl’individui decidono liberamente di andare a stabilirsi in un luogo in cui sperano di migliorare la loro condizione economica. Invece, una migrazione viene considerata coatta quando i migranti trasferiscono altrove la loro residenza per effetto di una costrizione esercitata dal potere politico (ad esempio, nel caso in cui siano vittime di una deportazione); il movimento migratorio è considerato coatto anche quando viene intrapreso allo scopo di evitare il coinvolgimento in eventi bellici o in catastrofi naturali. Alle due suddette varianti della tipologia migratoria è possibile aggiungerne una terza: quella che in uno studio recente Kelly M. Greenhill (già assistente del senatore John Kerry e consulente del Pentagono) definisce come coercive engineered migration, ossia “migrazione coatta progettata”. Le migrazioni “create ad arte” (engineered) sono, secondo la definizione fornita dalla studiosa stessa, “movimenti di popolazione transfrontalieri che vengono deliberatamente creati o manipolati al fine di estorcere concessioni politiche, militari e/o economiche ad uno o più Stati presi di mira”.

Le migrazioni coatte progettate vengono a loro volta distinte in espropriatrici, esportatrici, militarizzate. “Le migrazioni progettate espropriatrici – scrive la Greenhill – sono quelle il cui obiettivo principale consiste nell’appropriazione del territorio o della proprietà di un altro gruppo o gruppi, oppure nell’eliminazione di tale gruppo o gruppi in quanto minacciano il dominio etnopolitico o economico di coloro che progettano l’(e)migrazione; rientra in questo caso ciò che è comunemente noto come pulizia etnica”.

Si parla invece di “invasione” allorché un gruppo militare o anche un gruppo di civili penetra in un territorio, vi si diffonde e lo occupa, sottraendolo, tutto o in parte, al controllo ed alla sovranità della popolazione autoctona. Non è dunque necessario che un’invasione, per essere tale, venga portata a termine con le armi; anzi, un’invasione può avvenire in modo pacifico, se a stanziarsi su un determinato territorio e a modificarne l’omogeneità etnica o culturale sono masse umane disarmate ma numericamente consistenti.

Vi sono infatti casi nei quali un fenomeno immigratorio si configura come un’invasione vera e propria. L’immigrazione di massa possiede allora l’efficacia di un’arma di distruzione di massa. Esempi storici in tal senso non mancano: si pensi all’immigrazione che ha praticamente cancellato dal territorio degli attuali Stati Uniti d’America la presenza della popolazione autoctona o a quella che ha trasformato la Palestina nell’odierno “Stato d’Israele”. Da parte sua, Kelly M. Greenhill individua circa una cinquantina di casi di migrazioni architettate o comunque eterodirette ed utilizzate, tutti casi verificatisi dopo che nel 1951 entrò in vigore la Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati.

Perciò l’invasione migratoria attualmente diretta verso l’Europa, se si vuole riproporre un termine usato dalla studiosa statunitense, è “un’arma di guerra” (a weapon of war), che rientra nel novero delle armi non convenzionali impiegate nella cosiddetta “guerra asimmetrica”. Come il terrorismo, la manipolazione dei mezzi di comunicazione, la pirateria informatica, le turbative dei mercati azionari, così anche i flussi migratori che investono l’Italia e la regione balcanica – flussi sollecitati, attirati, agevolati ed importati – costituiscono un’arma non convenzionale utilizzata per destabilizzare l’Europa. È dunque in corso qualcosa che, a detta di Samar Sen, ambasciatore dell’India all’ONU, assomiglia molto ad una guerra. “Se aggredire un Paese straniero – argomenta il diplomatico – significa colpire la sua struttura sociale, danneggiarne l’economia, costringerlo a rinunciare a porzioni del suo territorio per accogliere profughi (refugees), qual è la differenza tra questo tipo di aggressione e il tipo più classico, che si ha quando viene dichiarata una guerra?” Il medesimo concetto è stato espresso nel corso di una conferenza sul conflitto in Cossovo tenuta l’11 dicembre 2000 alla Brandeis University: “La natura della guerra è cambiata – ebbe a dire Martha Minow, della Harvard Law School –; ora la guerra sono i profughi (refugees)”.

Gli strateghi di questa guerra sui generis agiscono allo scoperto. Uno di loro, il famigerato speculatore statunitense George Soros, il 20 settembre 2016 ha apertamente rivendicato dalle colonne di “The Wall Street Journal” il proprio ruolo di finanziatore dell’invasione. “Ho deciso – ha dichiarato – di stanziare 500 milioni di dollari per investimenti destinati in modo specifico ai bisogni di migranti, rifugiati e centri d’accoglienza. Investirò in nuove imprese, società già esistenti, iniziative di impatto sociale fondate dai migranti e rifugiati stessi. Anche se il mio impegno principale consiste nell’aiutare migranti e rifugiati che arrivano in Europa, cercherò progetti di investimento che avvantaggino i migranti in tutto il mondo”.  

Come furono inventati i palestinesi, scrive di Robert Spencer il 19 agosto 2018 su l’Informale. Nel 1948, il nascente Stato di Israele sconfisse gli eserciti di Egitto, Iraq, Siria, Transgiordania, Libano, Arabia Saudita e Yemen che volevano distruggerlo completamente. Il jihad contro Israele proseguì, ma lo Stato ebraico tenne duro, sconfiggendo ancora Egitto, Iraq, Siria, Giordania e Libano nella guerra dei Sei Giorni nel 1967 e l’Egitto e la Siria ancora una volta nella guerra dello Yom Kippur del 1973. Nell’ottenere queste vittorie contro enormi difficoltà, Israele riscosse l’ammirazione del mondo libero, vittorie che comportarono l’attuazione più audace e su più ampia scala nella storia islamica del detto di Maometto: “La guerra è inganno”. Per distruggere l’impressione che il piccolo Stato ebraico stesse fronteggiando ingenti nemici arabi musulmani e che stesse prevalendo su di loro, il KGB sovietico (il Comitato sovietico per la sicurezza dello Stato) inventò un popolo ancora più piccolo, i “palestinesi”, minacciato da una ben funzionante e spietata macchina da guerra israeliana. Nel 134 d.C., i Romani avevano espulso gli ebrei dalla Giudea dopo la rivolta di Bar Kokhba e ribattezzarono la regione Palestina, un nome tratto dalla Bibbia, il nome degli antichi nemici degli Israeliti, i Filistei. Ma il termine palestinese era sempre stato riferito a una regione e non a un popolo o a una etnia. Negli anni Sessanta, tuttavia, il KGB e il nipote di Hajj Amin al-Husseini, Yasser Arafat, crearono tanto questo presunto popolo oppresso quanto lo strumento della sua libertà, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP). Ion Mihai Pacepa, già vicedirettore del servizio di spionaggio della Romania comunista durante la Guerra Fredda, in seguito rivelò che “l’OLP era stata una invenzione del KGB, che aveva un debole per le organizzazioni di ‘liberazione’. C’era l’Esercito di liberazione nazionale della Bolivia, creato dal KGB nel 1964 con l’aiuto di Ernesto ‘Che’ Guevara (…) inoltre, il KGB creò il Fronte democratico per la liberazione della Palestina, che perpetrò numerosi attacchi dinamitardi. (…) Nel 1964, il primo Consiglio dell’OLP, composto da 422 rappresentanti palestinesi scelti con cura dal KGB, approvò la Carta nazionale palestinese – un documento che era stato redatto a Mosca. Anche il Patto nazionale palestinese e la Costituzione palestinese nacquero a Mosca, con l’aiuto di Ahmed Shuqairy, un influente agente del KGB che divenne il primo presidente dell’OLP”. Affinché Arafat potesse dirigere l’OLP avrebbe dovuto essere un palestinese. Pacepa spiegò che “egli era un borghese egiziano trasformato in un devoto marxista dall’intelligence estera del KGB. Il KGB lo aveva formato nella sua scuola per operazioni speciali a Balashikha, cittadina a est di Mosca, e a metà degli anni Sessanta decise di prepararlo come futuro leader dell’OLP. Innanzitutto, il KGB distrusse i documenti ufficiali che certificavano la nascita di Arafat al Cairo, rimpiazzandoli con documenti falsi che lo facevano figurare nato a Gerusalemme e, pertanto, palestinese di nascita”. Arafat potrebbe essere stato marxista, almeno all’inizio, ma lui e i suoi referenti sovietici fecero un uso copioso dell’antisemitismo islamico. Il capo del KGB, Yuri Andropov, osservò che “il mondo islamico era una piastra di Petri in cui potevamo coltivare un ceppo virulento di odio antiamericano e antisraeliano, cresciuto dal batterio del pensiero marxista-leninista. L’antisemitismo islamico ha radici profonde… . Dovevamo solo continuare a ripetere i nostri argomenti – che gli Stati Uniti e Israele erano ‘paesi fascisti, imperial-sionisti’ finanziati da ricchi ebrei. L’Islam era ossessionato dall’idea di evitare l’occupazione del suo territorio da parte degli infedeli ed era assolutamente ricettivo al ritratto da noi fatto del Congresso americano come un rapace organismo sionista volto a trasformare il mondo in un feudo ebraico”. Il membro del Comitato esecutivo dell’OLP, Zahir Muhsein, spiegò in modo più esaustivo la strategia in una intervista del 1977 al quotidiano olandese Trouw: Il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno stato palestinese è solo un mezzo per continuare la nostra lotta contro lo stato di Israele per la nostra unità araba. In realtà, oggi non c’è alcuna differenza fra giordani, palestinesi, siriani e libanesi. Solo per ragioni politiche e strategiche parliamo oggi dell’esistenza di un popolo palestinese, dal momento che gli interessi nazionali arabi esigono che noi postuliamo l’esistenza di un distinto “popolo palestinese” che si opponga al sionismo. Per ragioni strategiche, la Giordania, che è uno stato sovrano con confini definiti, non può avanzare pretese su Haifa e Jaffa mentre, come palestinese, posso indubbiamente rivendicare Haifa, Jaffa, Bee-Sheva e Gerusalemme. Tuttavia, nel momento in cui rivendicheremo il nostro diritto a tutta la Palestina, non aspetteremo neppure un minuto a unire Palestina e Giordania. Una volta che era stato creato il popolo, il loro desiderio di pace poteva essere facilmente inventato. Il dittatore romeno Nicolae Ceausescu insegnò ad Arafat come suonare l’Occidente come un violino. Pacepa raccontò: “Nel marzo del 1978 condussi in gran segreto Arafat a Bucarest per le istruzioni finali su come comportarsi a Washington. ‘Devi solo far finta di rompere con il terrorismo e riconoscere Israele, ancora, e ancora e ancora’, disse Ceausescu ad Arafat. (…) Ceausescu era euforico all’idea che Arafat e lui potessero riuscire ad accaparrarsi un Premio Nobel per la pace con la loro farsa del ramoscello d’ulivo. (…) Ceausescu non riuscì a ottenere il suo Premio Nobel per la pace. Ma nel 1994 Arafat lo ricevette, proprio perché continuò a interpretare alla perfezione il ruolo che gli avevano affidato. Aveva trasformato la sua OLP terrorista in un governo in esilio (l’Autorità palestinese), fingendo sempre di porre fine al terrorismo palestinese, pur continuando ad alimentarlo. Due anni dopo la firma degli accordi di Oslo, il numero degli israeliani uccisi dai terroristi palestinesi era aumentato del 73 per cento”. Questa strategia ha continuato a funzionare alla perfezione, attraverso i “processi di pace” negoziati dagli Stati Uniti, dagli accordi di Camp David del 1978 alla presidenza di Barack Obama e oltre, senza posa. Le autorità occidentali non sembrano mai riflettere sul perché siano tutti falliti così tanti tentativi di raggiungere una pace negoziata tra Israele e i “palestinesi”, la cui esistenza storica oramai tutti danno per scontata. La risposta, ovviamente, sta nella dottrina islamica del jihad. “Cacciateli da dove vi hanno cacciato” è un ordine che non contiene alcuna mitigazione e che non accetta nessuno.

Nota: Questo è un estratto esclusivo dal nuovo libro di Robert Spencer, The History of Jihad From Muhammad to ISIS. Tutte le citazioni sono contenute nel libro. Traduzione in italiano di Angelita La Spada 

Terrorismo islamista. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il terrorismo islamista o, meno correttamente, islamico è una forma di terrorismo religioso praticato da diversi gruppi di fondamentalisti musulmani per raggiungere vari obiettivi politici in nome della loro religione. Eccezione fatta per alcune sporadiche manifestazioni di antica militanza oltranzista religiosa condotta con metodi sanguinari dalla setta degli assassini(specialmente in Persia e negli ex-dominî fatimidi quali Egitto e Siria), il fenomeno ha assunto dimensione globalmente rilevante solo nel secondo dopoguerra, in particolare a seguito dell'irrisolta questione palestinese[senza fonte], varie organizzazioni della cui resistenza hanno fatto ricorso a strumenti quali attentati dinamitardi, rapimenti, dirottamenti aerei, omicidi e attentati suicidi. L'anelito verso l'instaurazione di un nuovo ordine sociale ancorato ai valori dalla propria fede per fronteggiare le sfide del presente, al pari di un certo qual spirito apocalittico, è un topos ricorrente da tempo immemorabile in numerose religioni. Tale concezione, parlando di Islam, affonda le proprie radici fin dalle origini di questa religione. Già fin da dopo il 750, in effetti, con la fine del califfato omayyade, si attendeva da parte di nostalgici sostenitori della dinastia abbattuta dagli Abbasidi l'epifania di un non meglio precisato Sufyāni, appartenente cioè al deposto casato omayyade del ramo sufyanide, che avrebbe riportato per volere divino la Umma alla sua purezza originaria. Analogamente, nel 1258, la presa di Baghdadda parte dei Mongoli e la conseguente distruzione del califfato abbaside fu ricollegata dal giurista e teologo hanbalita del XIV secolo Ibn Taymiyya all'allontanamento della comunità dei credenti dalla pretesa «retta via» della prima Umma musulmana. Al giorno d'oggi le azioni poste in essere da tali gruppi rappresentano, secondo la loro ideologia, un tentativo di ricreare una società perfetta — ancorché utopistica— in quanto asseritamente modellata secondo i dettami del Corano e, di conseguenza, priva di quelle ingiustizie sociali, politiche ed economiche attribuite dall'ecumene islamica ai regimi secolarizzati (munāfiqūn, «ipocriti» e proni al mondo occidentale, definito kāfir, «infedele») i cui governanti sarebbero di fatto asserviti al Cristianesimo e al sionismo e, quindi, pervicacemente ostili all'Islam più "puro". Non manca, peraltro, chi considera le organizzazioni terroristiche di matrice islamica l'ala estrema di una «religione politica», adottando una terminologia analoga a quella utilizzata per definire il nazismo. Vi furono in passato gruppi, configurati come sette religiose, che contestarono alla maggioranza dei credenti musulmani o agli ulema, il cosiddetto clero islamico, l'allontanamento dal retto insegnamento di Maometto, che essi cercarono di contrastare con un loro distacco fisico o simbolico dalla società, come fece la setta dei kharigiti (arabo kharaa, «coloro che vanno fuori») ove non fosse possibile il ricorso a una «doverosa» violenza, come fu il caso della setta degli Assassini. Nei cosiddetti versetti della spada della Sura IX del Corano, cosiddetta "della conversione", è scritto: «Quando poi saran trascorsi i mesi sacri, uccidete gli idolatri dovunque li troviate, prendeteli, circondateli, appostateli, ovunque in imboscate. Se poi si convertono e compiono la Preghiera e pagano la Dècima, lasciateli andare, poiché Dio è indulgente, clemente.» (Cor., IX:5) « Combattete coloro che non credono in Dio e nel Giorno Estremo, e che non ritengono illecito quel che Dio e il Suo Messaggero han dichiarato illecito, e coloro fra quelli cui fu data la Scrittura, che non s'attengono alla Religione della Verità. Combatteteli finché non paghino il tributo, uno per uno, umiliati.» (Cor., IX:29) I summenzionati passi sono stati oggetto di interpretazioni non univoche: da una parte alcuni studiosi hanno interpretato i questi passaggi coranici come giustificazione per l'uccisione su larga scala degli infedeli, mentre vi è chi non è d'accordo con tale visione, privilegiando una lettura non orientata alla violenza, ispirata piuttosto alla tolleranza, così come invocato nella sura II:256: « Non vi sia costrizione nella Fede: la retta via ben si distingue dall'errore, e chi rifiuta āġūt e crede in Dio s'è afferrato all'impugnatura saldissima che mai si può spezzare, e Dio ascolta e conosce.» (Cor., II:256). Tra le varie ipotesi formulate per spiegare l'origine del terrorismo islamista moderno figurano la rivoluzione iraniana, il ritiro sovietico dall'Afghanistan e la rivitalizzazione della religione a livello globale post-guerra fredda: «Mentre è impossibile stabilire in maniera definitiva quando fu usato per la prima volta, le radici di quello che oggi chiamiamo "terrorismo" affondano in un passato di 2000 anni fa. Inoltre il terrorismo odierno ha in qualche maniera chiuso il cerchio, con molti dei suoi praticanti attuali spinti da convinzioni religiose – cosa che guidò molti dei predecessori originari.» Nel 1979 la rivoluzione islamica in Iran spazzò via lo shah Mohammad Reza Pahlavi, con tutte le forze d'opposizione riunite attorno all'ayatollah Khomeini. Il nuovo governo instaurò la shari'a nel Paese e col tempo iniziò a finanziare anche movimenti politici tra cui Hezbollah in Libano, successivamente classificato come terroristico in vari Paesi del mondo, compresi quelli arabi come la Giordania, l'Arabia Saudita e l'Egitto di Mubarak; i citati condannarono le azioni di Hezbollah, mentre Siria e Iran si dichiarano favorevoli alle azioni dell'organizzazione. L'Unione europea rifiutò inizialmente di qualificare Hezbollah come organizzazione terroristica, ma il 10 marzo 2005 il Parlamento europeo adottò una risoluzione non vincolante che di fatto accusa Hezbollah di aver condotto «attività terroriste»; gli Stati Uniti esercitarono pressioni sull'Unione per fare includere il movimento nella lista delle organizzazioni terroristiche[18]; il Consiglio d'Europa accusò poi Imad Mughiyah di essere membro di Hezbollah e di attività terroristica. Il primo movimento che teorizzò l'uso della lotta per ripristinare lo stile di vita ortodosso dei primi credenti (salaf al-aliīn, «i pii antenati», da cui il termine salafita), fu quello dei Fratelli Musulmani. Il movimento, fondato in Egitto nel 1928 a opera di Hasan al-Banna, si diffuse rapidamente in Siria, Giordania e Sudan, e, alla fine degli anni quaranta, esso contava circa 500 000 adepti, con la volontà di affrancare il mondo islamico dalla sua sudditanza, psicologica e politica, nei confronti dell'Occidente non-musulmano, anche se ancora il salafismo non aveva l'accezione attualmente in uso e collegata al rigido fondamentalismo. Le metodologie di organizzazione del movimento ricalcarono quelle di ideologia marxista che si andavano affermando dopo la fine della seconda guerra mondiale nei Paesi arabi, in corso di affrancamento dai regimi coloniali, con un emiro al posto della segreteria generale e la shura al posto del «comitato centrale» dei gruppi marxisti, e nelle università spesso i gruppi studenteschi islamisti contendevano il predominio intellettuale a quelli marxisti, più allineati ai governi esistenti. I Fratelli Musulmani, organizzati secondo una rigida struttura gerarchica, divennero così il primo vero movimento di massa neo-islamico e, all'inizio degli anni cinquanta, sull'onda della guerra in Palestina, esso arrivò a raccogliere circa due milioni di aderenti. Nelle prime fasi della guerra afghano-sovietica le varie centinaia di arabi che si erano trasferite a Peshāwar, in Pakistan, occuparono solo ruoli di supporto, compreso Ayman al-Zawāhirī che effettuò varie missioni umanitarie con la Mezzaluna Rossa, ma a un certo punto iniziarono a crearsi i presupposti per un diverso tipo di impegno. ʿAbd Allāh al-ʿAzzām era un predicatore nato in Palestina, trasferitosi in Arabia Saudita e poi in Pakistan, i cui sermoni avevano influenzato anche il pensiero di bin Laden e che aveva istituito un'organizzazione denominata Maktab al-Khidamat (MAK), finalizzata alla gestione dell'afflusso di volontari e fondi in loco per il sostegno ai mujaheddin[23]; quando i due si incontrarono a Peshāwar, al-ʿAzzām iniziò a teorizzare una lotta come obbligo morale per tutti i musulmani, come nel suo libro Ultime Volontà del 1986; in Difendere la terra dei musulmani è il dovere più importante di ognuno, al-ʿAzzām afferma che: « Questo dovere non si concluderà con la vittoria in Afghanistan; il jihad resterà un obbligo personale finché ogni altra terra appartenuta ai musulmani non ci sarà restituita così che l'Islam torni a regnare; davanti a noi si aprono la Palestina, Bukhara, il Libano, il Ciad, l'Eritrea, la Somalia, le Filippine, la Birmania, lo Yemen del Sud, Tashkente l'Andalusia.» Nei testi di al-ʿAzzām viene ripetutamente citato il martirio come mezzo per ottenere le ricompense nell'altra vita quali «l'assoluzione da tutti i peccati, settantadue bellissime vergini, e il permesso di portare con sé settanta membri della propria famiglia»; comunque sugli obiettivi da perseguire emersero contrasti tra al-Zawhāhirī e al-Azzām, che portarono quest'ultimo a essere dapprima fatto bersaglio di un attentato fallito e poi ucciso da tre mine. Una radicale trasformazione del terrorismo islamico si è avuta con l'emergere di nuovi Stati con grandi disponibilità finanziarie come l'Arabia Saudita e gli emirati del Golfo Persico, caratterizzati anche da forme di governo che si influenzano reciprocamente con gli ambienti "clericali" islamici e con le dottrine legate a correnti di pensiero integraliste come il wahhabismo. Questi Stati hanno indirettamente finanziato (foss'anche inconsapevolmente), attraverso donazioni da parte di istituzioni caritatevoli, gruppi più o meno legati al terrorismo, e lo stesso si può dire di facoltosi esponenti del mondo privato di questa stessa area. Non esiste un automatismo tra donazione e finanziamento al terrorismo, ma parte dei soldi destinati ad opere assistenziali è stata usata per gestire istituzioni di accoglienza in aree come il Pakistan, dalla quale gli stranieri provenienti dal Golfo Persico, dalle Filippine o da altri paesi con una popolazione almeno in parte islamica sono stati smistati presso i campi di addestramento situati in Afghanistan o nell'area di confine tra i due paesi; qui è stata fatta una ulteriore selezione tra i candidati, destinandone alcuni a corsi specifici di uso degli esplosivi e demolizione o gestione degli ostaggi. La pratica era comune nel periodo dal 1990 al 2001 e assolutamente trasversale tra le varie sigle del terrorismo islamista. Tra i nomi più noti dei terroristi addestrati in questi campi figura ʿAbd al-Rasūl Sayyāf, cui è dedicato il gruppo terroristico filippino Abū Sayyāf. In altri casi dei fondi sono stati usati per finanziare direttamente spedizioni di armi, come ad esempio dall'Alto Commissariato saudita per i rifugiati all'Alleanza Nazionale Somala di Mohammed Farrah Aidid, in cui armi e munizioni provenienti da Sudan e Iraq sarebbero stati trasportati dai sauditi, insieme a beni di necessità, nascoste nei doppi fondi di container fino ai magazzini della SNA a Mogadiscio.

Questioni aperte e dibattute rimangono:

se le motivazioni dei terroristi o supposti tali siano di auto-difesa o espansionistiche, di autodeterminazione popolare o di supremazia islamica;

se gli obiettivi dei terroristi o supposti tali siano non di tipo militaristico;

se l'Islam perdoni o giustifichi, e in quali casi, il terrorismo;

se alcuni attentati vadano compresi nel terrorismo islamista o se siano da considerare semplici atti di terrorismo attuati da musulmani;

quanto appoggio abbiano nel mondo musulmano e, in caso, per quale tipo di terrorismo islamista propendano;

se il conflitto arabo-israeliano sia la radice del terrorismo islamista o ne sia solo una concausa.

Il modo nel quale il terrorismo viene combattuto dagli Stati Uniti d'America, sua principale controparte, non è da tutti ritenuto efficace; tra i dubbiosi un ex giudice francese, Jean-Louis Bruguiere, che ritiene venga raccolto un eccesso di informazioni, ma poi non venga analizzato, ed un altro ostacolo è la scarsità di coordinamento tra le troppe agenzie federali statunitensi. Lo stesso giudice ha peraltro evidenziato come organizzazioni ufficialmente umanitarie come la Insani Yardim Vakfi abbiano avuto almeno in passato legami con al-Qaida. Sebbene Stati Uniti e Israele siano gli obiettivi più spesso colpiti dal terrorismo islamista, molti attentati sono avvenuti in altri Paesi e contro altri obiettivi: a metà degli anni novanta nel mirino dei terroristi c'era la Francia, come strascico della guerra civile algerina; la Russia ha subito molti attentati terroristici per il suo coinvolgimento nella seconda guerra cecena e nel 1997 il governo cinese fu il principale artefice dell'Organizzazione per la cooperazione di Shanghai voluta anche per combattere i movimenti islamici in Asia centrale. Tra il 2005 e 2007 l'Iraq fu il luogo dove si concentrò maggiormente l'attività terroristica: solo nel 2005 oltre 8 000 iracheni morirono a causa di attentati. Non tutti gli attentati elaborati da organizzazioni terroristiche islamiste ebbero successo; tra i fallimenti figura il progetto Bojinka (una esplosione simultanea in volo di undici aerei di linea), attacco con missili terra-aria a un aereo di linea israeliano con 260 persone a bordo al decollo da Nairobi il 28 novembre 2002; contemporaneamente a quest'ultimo, tuttavia, un attentato con una jeep imbottita di esplosivo contro un albergo frequentato da turisti israeliani, con tredici morti e decine di feriti. Solo parzialmente riuscito era stato, quasi dieci anni prima, l'attentato al World Trade Center del 1993, in quanto l'obiettivo era l'implosione delle Torri gemelle tramite cariche di esplosivo collocate in un parcheggio sotterraneo; ciononostante vi furono sei morti. L'ideatore e realizzatore del piano, Ramzi Yusuf, non cercò la morte nell'esplosione, a dimostrazione che non tutte le espressioni di terrorismo islamista cercano il martirio dell'esecutore, fatto salvo l'obiettivo comune di colpire l'Occidente. Secondo i dati elaborati dal centro nazionale per l'antiterrorismo statunitense, l'estremismo islamico tra il 2004 e i primi mesi del 2005 si rese responsabile di circa il 57% delle vittime e del 61% dei ferimenti per terrorismo, considerando solo i casi in cui la matrice è chiara. Gli atti terroristici dell'estremismo islamico includono dirottamenti di aerei, decapitazioni, rapimenti, assassinii, autobombe, attentati suicidi e, occasionalmente, stupri. L'attività dei terroristi islamisti è spesso indicata come jihad ("sforzo, "impegno", qui inteso però in senso bellico), ma questa espressione non intende necessariamente una azione violenta. Le minacce, incluse quelle di morte, sono spesso emesse come fatwa, (sentenze legali islamiche su fattispecie giuridiche del tutto astratte). Obiettivi e vittime includono sia musulmani che non musulmani. I musulmani sono normalmente minacciati con il takfir (condanna di "miscredenza" grave, emessa contro un musulmano o un gruppo che si definisca islamico, tale da rendere teoricamente lecito "versarne il sangue"). Questa è una condanna a morte implicita perché, secondo gli hadith del Profeta, nell'Islam la punizione degli apostati è la morte. Secondo il Rapporto sul terrorismo internazionale di matrice jihadista della Fondazione ICSA presentato alla Camera dei deputati italiana il 28 novembre 2013, negli ultimi 5 anni vi sono state in Europa 14.470 vittime di attentati terroristici di matrice islamica, con 153 morti compresi gli attentati nel 2015 in Francia, ed in Italia si riscontra un aumento della cyber-jihad, cioè l'attività terroristica programmata od effettuata via web. La galassia terrorista si articola in molte organizzazioni, in alcuni casi direttamente sponsorizzate da servizi segreti nazionali, come il caso della deviata Inter-Services Intelligence pakistana che ha sostenuto i Talebani in Afghanistan e sostiene tuttora Lashkar-e Taiba nella sua campagna di destabilizzazione del Kashmir indiano e negli attacchi all'India. In alcuni casi sono direttamente gli stati a supportare militarmente, spiritualmente e finanziariamente le organizzazioni, come nel caso dell'Iran verso Hezbollah; stime ritengono che il sostegno duri da 25 anni e che vi siano stati trasferimenti di valuta e materiale dell'ordine dei 100 milioni di dollari annui, anche se la provenienza è di una fonte non terza come il Mossad, il tutto finalizzato anche ad espandere la propria influenza regionale. Le organizzazioni evolvono col tempo, o spariscono a beneficio di nuovi gruppi sotto la pressione degli stati e delle forze di polizia; un esempio è il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento che ha raccolto l'eredità e il ruolo del Gruppo Islamico Armato (GIA) in Algeria e nella zona del Sahel, espandendosi nel Mali dove sotto il nome di Al-Qa'ida nel Maghreb islamico (AQMI) ha fomentato la guerra civile e la secessione del nord del paese, dimostrando di poter perseguire obiettivi politico-militari di ampio respiro rispetto all'esecuzione di attentati e alla propaganda[45]; il cambio di nome evidenzia inoltre la volontà di sottolineare l'affiliazione ad Al-Qāʿida o quanto meno una contiguità di metodi ed obiettivi. I soldi che finanziano l'operatività di queste organizzazioni provengono da varie fonti come donazioni di privati, ma anche e soprattutto vendita di armi o di droga come nel caso dell'AQMI[45]. Un'altra fonte, anche se indiretta, è la pirateria navale, come nel caso della pirateria somala dalla quale l'organizzazione Al Shabab ha preteso percentuali dell'ordine del 20% dei riscatti ai pirati, e non ricevendoli ha proceduto ad "arrestare" alcuni tra loro. Al-Gama'at al-Islamiyya è una organizzazione egiziana che si è resa responsabile del massacro di Luxor e di una intensa campagna terroristica, anche se nel 2003 aveva dichiarato di abbandonare la lotta armata. In realtà vi sono stati massicci rilasci di suoi membri dopo i 25 anni dalla morte di Sadat, che avrebbe dovuto essere un segno di confidenza del governo egiziano dell'epoca sulla riduzione della minaccia[48]. L'organizzazione ha come leader religioso ʿUmar ʿAbd al-Ramāned affonda le sue origini nei Fratelli Musulmani, una cui frangia denominata Al-Jihād o Tanīm al-Jihād (Organizzazione del Jihād) fu costituita nel 1980 ed è elencata dalle Nazioni Unite tra le entità appartenenti o associate ad al-Qāʿida.; l'organizzazione è responsabile dell'assassinio di Anwar el-Sadat nel 1981. Tuttavia un leader della Jamāʿa, Mohammad Hasan Khalil al-Hakim (Muhammad al-ukayma), disse anche che non tutti i membri della Jamāʿa erano ancora propensi all'uso della violenza e che alcuni rappresentanti della Jamāʿa avevano negato di essersi uniti ad al-Qāʿida[51]. Lo Shaykh ʿAbd al-Akhir ammād, ex leader della Jamāʿa dichiarò ad al-Jazeera: "Se [alcun]i fratelli ... hanno raggiunto [al-Qāʿida], ciò è la loro personale scelta e io non credo che la maggioranza dei membri di al-Jamāʿa al-Islāmiyya condividano la medesima opinione"[52]. In realtà al-Qāʿida non è una organizzazione rigida, e spesso ha concesso l'uso del proprio nome, in una specie di franchising del terrore a gruppi che rappresentavano interessi locali particolari, pur nell'ambito del fattore comune dato dalla fede islamica e dalla lotta contro gli infedeli. Altra organizzazione molto importante ed attiva nel sud-est asiatico è il già citato gruppo Abu Sayyaf (letteralmente padre di Sayyaf). Il nome deriva dal fatto che il suo fondatore diede il nome di Sayyaf a suo figlio; questo nome però è ispirato al predicatore wahhabita afghano Sayyaf, che nel 1981 fondò una fazione, Ittehad e-Islam, che venne scelta come interlocutore dal servizio segreto pakistano ISI e godeva di finanziamenti e supporti religiosi sauditi[53]. Sayyaf in origine si chiamava Ghulam Rasud (servo o schiavo del Profeta) in Abd al-Rab al-Rasud (servo di Dio e del Profeta), poiché la venerazione di un essere umano, sia pure il Profeta, implicata dal primo nome era inaccettabile dai fedeli di stretta osservanza wahhabita; con i fondi arabi venne creata intorno al 1984 una città, nota comeSayyaffabad (letteralmente città di Sayyaf) che ospitava un campo profughi ma anche magazzini di armi e materiale bellico, strutture di addestramento, moschee e madrasse, nei pressi della città di Pabbi, ad est di Peshawar. Un'altra organizzazione relativamente recente è Boko Haram, attiva in Nigeria dove sta tentando di scatenare una guerra civile di matrice religiosa tra la componente cristiana e quella musulmana di questa repubblica federale. Al-Qaida è una rete mondiale panislamica di terroristi sunniti neo-neo-hanbaliti, capeggiata da Ayman al-Zawahiri, diventata famosa in particolare per gli attentati dell'11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti. Attualmente sembra sia presente in più di 60 Paesi. Il suo obiettivo dichiarato è l'utilizzo del jihad per difendere l'Islam dal Sionismo, dal Cristianesimo, dall'Occidente secolarizzato e dai governi musulmani filo-occidentali o "moderati", quali quello dell'Arabia Saudita che è visto come insufficientemente islamico e troppo legato agli USA. Formata nel periodo successivo l'invasione sovietica dell'Afghanistan, nei tardi anni ottanta da Bin Laden e Muhammad Atef, al-Qāʿida rivendica il legittimo uso delle armi e della violenza contro l'Occidente e il potere militare degli Stati Uniti d'America e di ogni Stato che sia alleato con essi[58]. Dalla sua formazione, al-Qāʿida ha compiuto numerosi attacchi terroristici in Africa, Vicino Oriente, Europa, e Asia. Sebbene un tempo fosse sostenuta dai Talebani, gli Stati Uniti d'America e il governo britannico non considerano i Talebani un'organizzazione terroristica. Fath al-Islam è un gruppo islamista operante fuori dal campo-profughi di Nahr al-Bared, nel settentrione del Libano. Fu costituito nel novembre 2006 da militanti che ruppero col gruppo filo-siriano di Fath-Intifada, a sua volta un gruppo scissionista di al-Fatḥ, e guidato da un militante clandestino palestinese chiamato Shaker al-Absi. Gli appartenenti del gruppo sono stati genericamente descritti dai media come militanti jihadisti, e il gruppo stesso è stato descritto come un movimento terrorista ispiratosi ad al-Qa'ida. Il suo fine ufficiale è quello di portare tutti i campi-profughi palestinesi sotto l'imperio della Shari'a e i suoi obiettivi prioritari sono la lotta contro Israele e gli Stati Uniti d'America[60]. Le autorità libanesi hanno accusato l'organizzazione di essere coinvolta nell'attentato dinamitardo del 13 febbraio 2007 contro due minibus, nel quale hanno trovato la morte tre persone, mentre 20 altre sono rimaste ferite, nella libanese Ain Alaq, con quattro attentatori identificati e rei confessi dell'attentato. Hamas, ("scossa" o "zelo" in arabo, ma acronimo di Harakat al-Muqawama al-Islamiyya, "Movimento di Resistenza Islamica"), cominciò a propugnare attacchi contro obiettivi militari e civili israeliani[64] all'inizio della Prima Intifada nel 1987. Come organizzazione che si ispira esplicitamente alla Fratellanza Musulmana per la Palestina, la sua leadership è assicurata da «…intellettuali della pia classe media […] da rispettabili chierici devoti alla religione islamica, da dottori, chimici, ingegneri e insegnanti». Lo Statuto di Hamas del 1988 esorta alla distruzione di Israele sebbene i suoi portavoce non ricordino sempre in modo così esplicito questo fine strategico. La sua «ala militare» rivendica sempre la responsabilità degli attentati perpetrati contro lo Stato d'Israele. Hamas è stata anche accusata di sabotaggio del processo di pace israelo-palestinese, avviato con gli ormai falliti Accordi di Oslo, grazie al lancio di operazioni armate contro i civili israeliani anche nel corso delle elezioni, al fine di esasperare l'animo dei cittadini dello Stato ebraico e indurli a eleggere candidati collocati su posizioni sempre più estremistiche, al fine di rendere impraticabile un avvicinamento delle posizioni fra i contendenti. Ad esempio, «…una serie di attacchi suicidi spettacolari condotti da palestinesi e che portarono alla morte di 63 israeliani, condussero direttamente alla vittoria elettorale di Benjamin Netanyahu e del partito Likud il 29 maggio 1996». Hamas giustifica tali attacchi come necessari nel combattere l'occupazione militare israeliana dei territori palestinesi occupati e come risposta agli attacchi condotti da Israele contro obiettivi palestinesi. Il movimento serve anche da collettore di fondi, usati tra l'altro per fini di assistenza caritatevole dei rifugiati palestinesi. Hamas è stata definita come "gruppo terroristico" dall'Unione europea, dal Canada, dagli Stati Uniti d'America, da Israele, dalla Commissione ONU per i diritti umanie da Human Rights Watch. Gli oppositori di tale definizione oppongono la supposta non legittimità dello Stato di Israele in ragione delle modalità che portarono all'autoproclamazione d'indipendenza nel 1948. Hezbollah è un partito politico sciita libanese, dotato di sue proprie milizie armate e di un articolato programma mirante allo sviluppo sociale delle aree libanesi (di quelle meridionali in particolare) e di strutture in grado di portarlo a effettiva realizzazione. Jaljalat (in arabo: «Tuono dirompente») è un gruppo islamico salafita armato operante nella Striscia di Gaza che ha preso ispirazione da al-Qāʿida. Nato nel 2007 mentre Hamas conquistava il potere, Jaljalat raccoglie fuoriusciti di Hamas ed ex militanti di un altro gruppo vicino ad al-Qāʿida, l'Esercito dell'Islam. Nel settembre 2009, l'organizzazione rivelò di aver cercato di assassinare il precedente presidente statunitense Jimmy Carter ed il Quartetto del Medio Oriente inviato da Tony Blair. Una nuova sigla che si è affacciata sulla scena mondiale è lo Stato Islamico, (IS), proclamatosi indipendente il 29 giugno 2014 ma in precedenza conosciuto anche come Stato Islamico dell'Iraq e al-Sham, comunemente tradotto come Stato Islamico dell'Iraq e della Siria (ISIS) oppure Stato Islamico dell'Iraq e del Levante (ISIL). La sua origine è legata alla Jamā'at al-Tawīd wa l-jihād, al-Qāʿida in Iraq e Mujāhidīn del Consiglio della Shura (attivo dal 1999 al 2006), fondato dal salafita e takfirista giordano Abu Mus'ab al-Zarqawi. La sua storia si è incrociata con quella del siriano Fronte al-Nusra, che crebbe rapidamente diventando una forza combattente sostenuta dall'opposizione siriana. Il gruppo gihadista, attivo in Siria e in Iraq, ha come leader nel 2014 Abu Bakr al-Baghdadi, che ha unilateralmente proclamato la rinascita del califfato nei territori caduti sotto il suo controllo. Peculiarità dello Stato Islamico è quella di riunire in una sola entità le caratteristiche dell'esercito, delle modalità terroristiche, della fisicità del territorio in cui risiede e della struttura statale. Lo Stato Islamico ha anche coniato una sua moneta, seppure non riconosciuta a livello internazionale: il Dinaro dello Stato Islamico.

SEGRETI DI STATO/ Dal Lodo Moro alle stragi, i silenzi di un testimone scomodo. E' tornata d'attualità la vicenda del cosiddetto lodo Moro. "La Stampa" ha intervistato Bassam Abu Sharif, ma i conti non tornano. Molte le reticenze. E non solo sue, scrive Salvatore Sechi il 5 luglio 2017 su "Il Sussidiario". E' tornata d'attualità la vicenda del cosiddetto lodo Moro. Il termine indica lo scambio (una sorta di informale patto di non belligeranza) tra Aldo Moro, per conto del governo italiano, e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, un'organizzazione del terrorismo palestinese affiliata all'Olp. Il Fplp risulta legatissimo all'Unione sovietica, alla primula rossa del terrorismo Carlos, alle Cellule rivoluzionarie tedesche di Thomas Kram. Attraverso il responsabile per l'informazione, Bassam Abu Sharif (più tardi stretto collaboratore di Arafat), il Fronte intrattiene ottimi rapporti con il col. Stefano Giovannone, uomo di assoluta fiducia di Moro sulle questioni e i rapporti mediorientali. E con la sua collaborazione invia in Italia il giordano Abu Saleh Anzeh. Sarà sempre Giovannone a proteggere Abu Saleh (un finto studente nelle università di Perugia e Bologna) anche dai tentativi della questura del capoluogo emiliano e in generale del ministero dell'Interno di rimandarlo in Giordania, per antisemitismo e odio rissoso verso Israele. Come capo-centro del Sismi, da Beirut nel 1972-1981, e in quanto collegato a Moro, Giovannone ha l'incarico di vigilare sulla sicurezza delle nostre rappresentanze diplomatiche in Medio oriente. Acquisisce una conoscenza preziosa e ineguagliata dei problemi e dei dirigenti politici del Medio oriente. Morto nel 1985, dopo un calvario giudiziario in cui è stato lasciato solo dai suoi referenti politici, ai minuziosi contatti con i palestinesi di Giovannone si debbono i sette anni di pace di cui l'Italia ha potuto godere dal 1973 all'80. Da quanto emerge da diversi documenti dell'intelligence, il nostro governo gioca la carta della diplomazia parallela. Condivide l'obiettivo di dare ai palestinesi uno Stato e riconosce un vero e proprio salvacondotto per i terroristi (o estremisti arabi che li si voglia chiamare), cioè il diritto a lottare per conseguirlo anche col trasporto di armi sul nostro territorio. In cambio, il Fronte si impegna a non compiere azioni di guerra o di rappresaglia anti-israeliana all'interno delle nostre frontiere, oltre a fornire — pare — una moral suasion sui paesi arabi per la fornitura (e il prezzo) del petrolio. L'intesa si rompe nell'inverno del 1979-1980. Abu Saleh Anzeh (legatissimo ad Habbash), insieme a Daniele Pifano e ad altri tre rappresentanti romani di Autonomia vengono fermati e arrestati il 7 novembre 1979 a Ortona e condannati dai tribunali di Chieti e di Ortona, il 25 gennaio 1980, a sette anni di carcere per il trasporto di alcuni missili Sam 7 Strela di fabbricazione sovietica. Sono solo in transito da noi, ma la loro destinazione è di essere usati contro un nostro alleato, Israele. I paesi arabi reagiscono con una forte minaccia. Se Abu Saleh Anzeh non verrà immediatamente liberato (il che avverrà il 17 giugno 1981 per decorrenza dei termini di custodia), ci saranno pesanti ritorsioni contro la popolazione civile (Giovannone parla di una città o di un aeroporto). Questo è il messaggio che i nostri servizi (Ucigos e Sismi) recepiscono e diffondono. Nel giro di qualche semestre si avrà l'abbattimento nel mare di Ustica di un aereo Dc9 dell'Itavia (con la morte di 81 persone) e l'attentato alla stazione centrale di Bologna con 200 feriti e 84 morti. Il 2 settembre a Beirut scompaiono due giornalisti, Italo Toni e Graziella De Palo, che il Fplp avrebbe dovuto proteggere. Forse i due giornalisti hanno appurato troppo sui responsabili della strage di Bologna? C'è un collegamento tra i due episodi? A chiarire il clima di quel periodo la Commissione parlamentare d'inchiesta su Moro ha di recente chiamato uno dei dirigenti del Fplp, amico di Giovannone, Bassam Abu Sharif. La Stampa lo ha fatto intervistare da Francesca Paci. In realtà la sua testimonianza, che sia Fioroni sia la giornalista non hanno pensato minimamente di contestare, è poco affidabile e reticente. Vediamolo da vicino. Sharif ignora la differenza, sul piano giuridico, tra la promessa di un impegno e un "lodo". Il Fronte avrebbe concesso solo la prima, e l'Italia si sarebbe obbligata a fornire un aiuto umanitario che per la verità era in corso da anni. La mediazione svolta da Giovannone non può essere scambiata per una responsabilità istituzionale per la quale il colonnello dei carabinieri non aveva la veste né le deleghe. Sharif dice di avere contato circa un migliaio di italiani che frequentarono i corsi di addestramento militare e ideologico, e ricorda l'opzione del Fronte per il sindacato. Ma non è in grado di fare i nomi di nessuno. Non spende una parola su Rita Porena, una giornalista e ricercatrice del ministero degli Esteri che era legata a Giovannone, ma anche a lui e al responsabile dei servizi segreti di Al Fatah, Abu Iyad. Per la verità, è incomprensibile, se è ancora in vita, la mancata testimonianza di costei. Avventata mi pare la negazione di ogni rapporto tra il Fplp e le Brigate rosse. E' vero che inizialmente ci furono delle resistenze, ma le testimonianze raccolte dal giudice Mastelloni, insieme alle memorie di Mario Moretti, presso il Tribunale di Venezia mostrano che fu stabilita una collaborazione sul traffico delle armi. Suscitano ulteriori dubbi e riserve sull'affidabilità di Sharif la sua dichiarazione di non sapere nulla di quanto avvenne a Ortona, come della strage di Ustica e di quella di Bologna. Eppure Abu Saleh Anzeh, cioè una persona molto vicina ad Habbash e a Giovannone, è direttamente o indirettamente presente in tutte queste vicende. Sulla crisi dei missili del novembre 1979, quando il lodo Moro si ruppe, il silenzio di Sharif è solo reticenza. Trovo molto strano e preoccupante che il senatore Fioroni e i suoi collaboratori di centro-sinistra e di centro-destra non abbiano voluto contestare le affermazioni di questo alto dirigente del Fplp. Per quale ragione l'hanno invitato in Commissione se non avevano nulla da chiedergli?

1969 – 1978: la politica estera di Aldo Moro ai tempi del terrorismo internazionale, scrive Enrico Malgarotto il 12 aprile 2018 su "socialnews.it". “L’Unione Sovietica mira ad indebolire l’Europa occidentale con una manovra per linee esterne, tentando di separare politicamente da essa il Medio Oriente e l’Africa del Nord. In questo stato di cose si rafforzano i segni di un progressivo disimpegno degli Stati Uniti dall’Europa. E’ umano che il popolo americano cominci ad essere stanco di vedere schierati alla difesa dell’Europa occidentale i figli di coloro che la liberarono. Ciò pone, tuttavia, problemi di sicurezza interna e anche di obiettivo politico che noi europei dobbiamo prepararci ad affrontare al più presto.” Questo appunto inedito di Aldo Moro risalente al marzo del 1970 è stato ritrovato nell’archivio di Stato dall’ Avvocato e scrittore Valerio Cutonilli, autore, insieme al Giudice Rosario Priore, di un interessante libro sulla strage di Bologna e sui rapporti tra lo Stato italiano e le organizzazioni terroristiche palestinesi. La nota, ignorata per oltre 40 anni, si rivela particolarmente significativa se si esamina il contesto in cui è stata vergata e, più ancora, se si comprende la lucida analisi che connota la visione dello Statista sugli equilibri geopolitici dei decenni successivi e sulla stabilità interna di un’Italia ancora provata dalla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 e che si preparava ad affrontare un importante vertice con la Germania, a sostegno della Ostpolitik per l’apertura con i paesi dell’Est.

Tale visione, da qualcuno definita “eretica”, si rivelerà profetica alla luce degli avvenimenti degli anni seguenti. L’allora Ministro degli Esteri Moro, autore di questa annotazione, sapeva bene quale fosse la situazione internazionale tra la fine degli anni sessanta ed il decennio successivo. Gli Stati Uniti erano impegnati nella guerra del Vietnam con ingenti forze militari e risorse. Questa concentrazione di fondi ed energie verso il sud est asiatico aveva portato l’Amministrazione statunitense a rivedere le proprie priorità a svantaggio della tradizionale centralità dell’Europa nella propria pianificazione. Sebbene questo spostamento verso l’estremo oriente della politica estera di Washington fosse stato oggetto di appositi negoziati con la controparte sovietica, i fatti successivi hanno dimostrato che il Cremlino ha approfittato di questa situazione per agire contro l’Europa occidentale ed i suoi alleati. Questo processo sarebbe avvenuto non attraverso un conflitto frontale con la NATO, ma ricorrendo ad una guerra non convenzionale attuata da organizzazioni terroristiche supportate dai Servizi segreti del blocco orientale.

Verso il Lodo Moro: il terrorismo palestinese. In quegli anni faceva la sua comparsa in Europa il fenomeno terroristico dei gruppi palestinesi. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e Settembre Nero sono i nomi delle maggiori formazioni operanti in quegli anni, sebbene la galassia delle unità terroristiche arabe fosse molto più vasta. Sono molti i fatti salienti, tra il 1969 e il 1973, che hanno visto come epicentro l’aeroporto di Roma – Fiumicino e che avrebbero portato il nostro Paese ad imboccare la strada dell’accordo con questi gruppi, ad iniziare dal dirottamento su Damasco di un aereo della TWA in volo da Los Angeles a Tel Aviv (con scalo a Roma) compiuto il 29 agosto 1969 dalla più famosa terrorista dell’organizzazione palestinese, Leila Khaled, cui è seguito l’attentato del 16 giugno 1972 messo in atto con un mangianastri imbottito di tritolo dotato di un timer regalato da due giovani arabi a delle ragazze israeliane conosciute poco prima. Nonostante la deflagrazione dell’ordigno nella stiva durante il volo, l’aereo, non avendo riportato danni, atterrava a Tel Aviv. Il 4 aprile 1974 a Ostia, fuori Roma, due membri dell’organizzazione palestinese venivano fermati e arrestati per detenzione di alcuni missili Strela di costruzione sovietica – facilmente trasportabili – da usare contro un aereo della compagnia di bandiera israeliana El Al durante le fasi di decollo o atterraggio. Il 17 dicembre 1973 a Fiumicino, cinque terroristi lanciavano delle bombe incendiarie all’interno di un aereo della statunitense Pan Am uccidendo trenta passeggeri tra cui quattro italiani. Il gruppo terroristico, poi, prendeva possesso di un velivolo della Lufthansa (la compagnia di bandiera tedesca) costringendo il pilota a decollare. Dopo aver fatto scalo per il rifornimento di carburante ad Atene, il velivolo veniva fatto atterrare a Kuwait City dove, una volta liberati gli ostaggi, le Autorità provvedevano ad arrestare i terroristi, rilasciati, in seguito e posti a disposizione dell’organizzazione terroristica palestinese. Anche i siti industriali sono stati oggetto di attentati da parte di tali organizzazioni arabe come occorso il 3 agosto del 1972 all’oleodotto di Trieste (in concomitanza con un simile attacco avvenuto in quegli anni in Olanda).  

Il Lodo Moro. Di fronte alla portata degli attentati i Paesi europei decisero di entrare in contatto con le formazioni per stringere speciali accordi affinché il proprio territorio fosse escluso da ulteriori attacchi. L’Italia, presumibilmente nel 1972/1973, attraverso il Ministero degli Affari Esteri, allora retto da Aldo Moro, stringeva un patto – passato alla storia come il Lodo Moro – che concedeva piena libertà alle organizzazioni palestinesi di muoversi nel nostro territorio e ad utilizzarlo come base logistica per azioni in tutta Europa. La controparte avrebbe assicurato che in Italia non ci sarebbero stati altri attentati, ad esclusione delle sedi e dei siti americani ed israeliani presenti nel territorio della penisola. Probabilmente l’autore materiale dell’accordo e’ stato il Servizio segreto italiano: prima il SID, il Servizio informazioni Difesa (organo d’intelligence italiano dal 1965 al 1977) e poi il SISMI – Servizio Informazioni Sicurezza Militare (a partire dal 1978) nella figura del Colonnello Stefano Giovannone, responsabile del centro del Servizio a Beirut, in Libano. L’agente infatti per tutto il periodo di durata del Lodo, aveva provveduto a mantenere i contatti tra Roma e il Medio Oriente sia con le organizzazioni terroristiche sia con gli altri Paesi, in particolare Giordania e Libano, che mal tolleravano la massiccia presenza di organizzazioni palestinesi nel proprio territorio. L’assenza di azioni terroristiche in Italia suggerisce che nel corso degli anni settanta l’accordo tra le parti sia stato sostanzialmente rispettato. Come hanno dimostrato diversi eventi, i terroristi scoperti e arrestati in procinto di progettare attentati nel nostro Paese sono stati liberati e riportati alle loro basi palestinesi anche attraverso la Libia di Mu’ammar Gheddafi, da sempre Padre Protettore di tali organizzazioni, cui forniva campi di addestramento e significativo supporto.

Da Ortona a Bologna: la violazione del Lodo. Nel novembre del 1979 ad Ortona, piccola cittadina abruzzese, i Carabinieri sequestrarono dei missili Strela (lo stesso modello usato dai due arabi a Ostia nel 1974) ad alcuni rappresentanti romani di Autonomia Operaia, movimento della sinistra extraparlamentare e rivoluzionaria in aperta opposizione al Partito Comunista Italiano di quel periodo. Indagando sulla provenienza delle armi, le Autorità Giudiziarie arrestavano a Bologna Abu Anzeh Saleh, ufficialmente studente fuori corso presso l’Ateneo ma, in verità,  membro, in qualità di responsabile della rete logistica in Italia, del gruppo terroristico FPLP e della formazione tedesca Separat di Carlos lo Sciacallo, nome di battaglia di Ilich Ramirez Sanchez, famoso rivoluzionario venezuelano marxista – leninista e filo arabo, autore, con i suoi gruppi, di numerosi attentati in tutta Europa. Fin da subito le poche persone a conoscenza dell’accordo stretto da Moro si rendevano conto che l’arresto di Saleh avrebbe potuto essere considerato dalle formazioni palestinesi come una violazione del Lodo, con le inevitabili conseguenze che ciò avrebbe comportato. Attraverso le informazioni raccolte dal Colonnello Giovannone, cominciavano ad arrivare a Roma i primi segnali d’allarme circa la volontà di compiere un’azione punitiva nei confronti dell’Italia da parte dell’ala più oltranzista dell’organizzazione palestinese. Col passare dei mesi, con la condanna di Saleh, dal Medio Oriente giungeva la notizia che l’eventuale attacco contro il nostro Paese sarebbe avvenuto per mano di elementi esterni al FPLP. Il 2 agosto 1980 una bomba nascosta dentro una valigia nella sala d’aspetto della stazione di Bologna esplodeva causando ottanta vittime e il ferimento di circa duecento persone. Per circa trent’anni o più si è voluto associare questa strage alla matrice neofascista nell’ambito della strategia della tensione, tuttavia altri punti di vista, ancorché controversi ed in parte smentiti, porterebbero a puntare il dito contro quel Carlos a capo del gruppo Separat di cui anche lo stesso Saleh faceva parte.  

La spinta dall’est del terrorismo europeo. Le formazioni eversive di estrema sinistra presenti in tutta Europa negli anni settanta e ottanta erano le francesi Action Directe, le tedesche RAF o Rote Armee Fraktion – conosciute anche come Banda Baader – Meinhof dal nome dei due capi storici – e le italiane Brigate Rosse. Questo sistema eversivo europeo occidentale, in coordinamento con quello medio orientale, nella sua fase più matura, era gestito dall’Unione Sovietica. I Servizi segreti di Mosca, quelli cecoslovacchi (Stb) e della Germania orientale (Stasi e Hva) hanno contribuito a supportare il terrorismo rosso di quegli anni. Fin dai primo dopoguerra, la Cecoslovacchia si è sempre dimostrata in prima linea per quanto riguarda le attività clandestine comuniste in occidente. Per approfondire quest’ultimo aspetto è necessario far riferimento a diverse fonti tra cui l’archivio Mitrochin, (il voluminoso dossier sui documenti top secret del kgb che l’ex archivista del Servizio sovietico Vasilij Nikitič Mitrochin ha portato in occidente nei primi anni novanta contribuendo a svelare la fitta rete di legami tra il blocco orientale e l’occidente durante la guerra fredda) ed il libro di Antonio Selvatici “Chi spiava i terroristi? KGB, STASI – BR, RAF. I documenti negli archivi dei servizi segreti dell’Europa <<comunista>>” Ed. Pendragon, 2010, i quali trattano in modo approfondito le dinamiche con cui gli organi di intelligence d’oltrecortina aiutavano i terroristi. I campi erano stati creati dal Kgb nel 1953 per addestrare anche il personale dell’apparato militare clandestino in seno al PCI, composto soprattutto da ex Partigiani comunisti fuggiti dall’Italia in quanto colpevoli, durante la guerra, di crimini e per questo motivo ricercati dalle Autorità, alle attività di sabotaggio, guerriglia, intercettazione, all’uso delle armi interrate dal Kgb nel nostro Paese (che si aggiungevano a quelle utilizzate dalle formazioni rosse durante l’ultimo biennio della Seconda Guerra Mondiale e mai restituite agli alleati alla fine del conflitto) e alle comunicazioni radio cifrate. Karlovy Vary è il nome della località nell’ex Cecoslovacchia in cui sorgeva il campo d’addestramento gestito, a differenza di quello che si potrebbe pensare, non dai Servizi segreti di Praga ma dal Gru, l’organo di intelligence militare di Mosca. La presenza degli 007 sovietici in questi campi potrebbe confermare la tesi secondo cui la stagione degli attentati degli anni settanta e ottanta non fosse solo una manovra politica ma una vera e propria guerra contro l’occidente, combattuta con strumenti ben lontani dal concetto tradizionale di conflitto. Nel 1974, dopo l’arresto, da parte dei Carabinieri di Renato Curcio e Alberto Franceschini, esponenti di spicco delle BR ma completamente slegati ed autonomi dalle trame politiche di Mosca e Praga, il Servizio segreto cecoslovacco incrementò la propria presenza a fianco del movimento eversivo. I vertici del PCI erano a conoscenza di questi legami “pericolosi” tra est e ovest al punto che il segretario del partito Enrico Berlinguer inviava, nel 1975, una delegazione a Praga guidata da Salvatore Cacciapuoti, in qualità di responsabile agli affari internazionali del PC, per conoscere quanti e chi fossero gli italiani addestrati in Cecoslovacchia. Dalle Autorità slave solo silenzio (probabilmente dovuto alla volontà di non trattare l’argomento con elementi esterni o perché, come effettivamente è stato, i Servizi cecoslovacchi non avevano alcuna autorità su questi campi) e una vaga promessa di inviare a Roma una relazione in merito. L’invio della delegazione è dovuto al fatto che il PCI, soprattutto a partire dal 1974, cominciava a considerare la questione terrorismo rosso con molta preoccupazione, soprattutto perché era a conoscenza che elementi interni al partito continuavano a collaborare alle attività clandestine comuniste d’oltrecortina e che l’unica soluzione per contribuire a fermare l’ondata eversiva che stava colpendo l’Italia (e forse anche per scongiurare eventuali situazioni di imbarazzo politico) era collaborare con le Forze dell’Ordine, in particolare con la Sezione antiterrorismo dei Carabinieri guidati dal Generale Carlo Alberto dalla Chiesa.

Contatti tra le Brigate Rosse e l’FPLP. Le Brigate Rosse godevano anche del supporto delle formazioni palestinesi, le quali mettevano a disposizione dei terroristi italiani i campi di addestramento del Libano, Yemen, Siria e Iraq mentre, come in una sorta di scambio, le BR custodivano le armi che i terroristi arabi portavano in Italia per colpire gli obiettivi israeliani e statunitensi presenti nel nostro Paese. Questi contatti erano avvenuti durante gli anni settanta proprio quando, come già detto, i Servizi segreti italiani stringevano con il Fronte Popolare di Liberazione delle Palestina (FPLP) di George Habbash il Lodo Moro. Come riportato dalla Stampa, citando le carte della Commissione parlamentare d’Inchiesta sul caso Moro, già a partire dal 1976 i Vertici del FPLP cominciavano una rivoluzione all’interno delle varie sigle arabe a causa delle diverse vedute circa la richiesta di Mosca di por fine ai dirottamenti aerei e cominciavano a diffidare delle BR. Inoltre i vertici arabi volevano mantenere, a tutti i costi, la parola data al Governo Italiano attraverso il Lodo risparmiando la penisola da ogni tipo di attacco. Il già citato Colonnello Giovannone, il capo centro del SID/SISMI in Libano, veniva informato dal suo omologo palestinese circa i piani eversivi delle BR in Italia. L’ultima nota inviata a Roma dall’Ufficiale del Servizio risaliva al 18 febbraio 1978 e diceva:”[…] Mio abituale interlocutore rappresentante Habbash, incontrato stamattina, ha vivamente consigliatomi non allontanarmi da Beirut, in considerazione eventualità di dovermi urgentemente contattare per informazioni riguardanti operazione terroristica di notevole portata programmata asseritamente da terroristi europei che potrebbe coinvolgere nostro Paese se dovesse essere definito progetto congiunto discusso giorni scorsi in Europa da rappresentanti organizzazione estremista. Alle mie reiterate insistenze per avere maggiori dettagli, interlocutore ha assicuratomi che opererà in attuazione confermati impegni miranti escludere nostro Paese da piani terroristi del genere, soggiungendo che mi fornirà soltanto se necessario, elementi per eventuale adozione adeguate misure da parte delle nostre Autorità.” A distanza di circa un mese dalla ricezione di questo telegramma da parte del governo italiano, l’Onorevole Aldo Moro veniva rapito dalle Brigate Rosse. Con la morte dello statista si concludeva quello che può essere definito “Il decennio di Aldo Moro”, iniziato nel 1969 in qualità di Ministro degli Esteri e terminato nel 1978 da presidente della Democrazia Cristiana con il suo assassinio.

Strage di Ustica, il testimone che riscrive la storia d'Italia: "Era guerra, ho visto tutto", scrive il 20 Dicembre 2017 “Libero Quotidiano”. Si riaccende lo scontro politico, dopo le novità arrivate dagli Usa, sul caso Ustica, con la nuova testimonianza su quanto avvenne il 27 giugno del 1980, la notte in cui il Dc9 Itavia, in volo da Bologna a Palermo, con a bordo 81 persone, sparì dai radar, finendo in mare. Le parole di Rian Sandlin, l’ex marinaio della portaerei Saratoga, che al giornalista Andrea Purgatori racconta di un conflitto aereo, nel Mediterraneo, tra caccia americani e libici, rilanciano, di fatto, l’ipotesi di un incidente di guerra che coinvolse il volo civile italiano. Parole che - in attesa di un interessamento della Procura di Roma - riaprono il dibattito tra chi sostiene la tesi della bomba a bordo e chi pensa che a colpire l’aereo sia stato un missile, forse alleato. Per Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione Parenti delle Vittime della strage di Ustica "il fatto che due Mig libici fossero stati abbattuti la notte di Ustica lo avevano già detto altri, ma sentirlo dire da un signore che stava sulla Saratoga, che finora gli Usa ci avevano detto stesse in rada, è una novità importante". "È chiaro che ci sono cose non dette su Ustica, ma il problema non è la verità, perché loro, al governo, sanno qual è la verità, il problema è che non vogliono raccontarla", aggiunge Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione 2 agosto: "Pensavano con la direttiva Renzi di tacitare la richiesta di verità, ma non hanno fatto il loro dovere fino in fondo, ora basta, diano le carte vere". Di cosa "vergognosa" e di "bufala gigantesca", parla invece il senatore di Idea, Carlo Giovanardi. "Sono falsità - sottolinea - già smentite da sentenze penali passate in giudicato che dicono che non c’è stata alcuna battaglia aerea, nessun missile, nessun aereo in volo". Giovanardi, non dà alcun credito alle ultime novità: "Ci sono 4mila pagine di perizie internazionali che dicono dov’era la bomba, quando è esplosa e tutti i dettagli - spiega il senatore di Idea - dall’altra, invece, abbiamo 27 versioni diverse" che accusano "gli Usa, i francesi, i libici". "Ho letto cose terrificanti in Commissione Moro - ricorda il senatore che è membro dell’organismo che indaga sulla morte del leader Dc - sui palestinesi che preparavano un terribile attentato, i documenti sono ancora segretati e Gentiloni, che abbiamo chiesto venisse a riferire, non ci risponde". "Per arrivare a chiarire rendiamo pubbliche quelle carte, in particolare il carteggio del biennio ’79-’80 dei nostri servizi da Beirut che parla delle minacce di rappresaglia da parte dei palestinesi, dopo lo stop al Lodo Moro", conclude il senatore di Idea.

Giovanni Lindo Ferretti e la stage di Bologna: furono o no i fascisti?, scrive il 2/08/2017 Chiara Comini. Avvenne il 2 agosto del 1980 alle 10.25 l’esplosione, causata da una bomba, che provocò la morte di 85 persone e 200 i feriti. Oggi, dopo 37 anni dalla strage, Giovanni Lindo Ferretti lancia una provocazione. Ferretti, noto per essere stato il cantate del gruppo musicale CCCP Fedeli alla linea, nato nell’Emilia degli anni Ottanta, in un intervista rilasciata a Repubblica dichiara: “Non concordo con il pensiero della maggioranza dei bolognesi, non credo che l’attentato del 2 agosto sia opera di fascisti italiani. Mi dispiace non essere in sintonia con la mia città, quella in cui ho vissuto di più. Quando è successo il 2 agosto io ero ancora un bolognese di adozione, ma io non ci ho mai creduto”. Continua affermando: “In quel momento i palestinesi avevano dei problemi con lo Stato italiano e il fatto che non siano state fatte indagini su tre o quattro personaggi in quei giorni a Bologna mi convince oltremisura. Se almeno si fossero fatte le indagini…”. Secondo Ferretti sarebbe più plausibile la pista, allora archiviata, definita “Lodo Moro”, o “Lodo Palestinese”: il patto tra servizi segreti italiani e la dirigenza palestinese per evitare attentati in Italia. Solo negli ultimi anni si sono iniziate a scoprire le carte, ammettendo l’effettiva esistenza dell’accordo, allora considerato una tesi complottista. Un documento segreto, emerso anni fa grazie a Enzo Raisi, datato 17/02/1978 e pubblicato nel 2015 dal Quotidiano nazionale, prova l’esistenza del Lodo Moro. Raisi il 2 agosto 1980 era nei pressi della stazione, in procinto di partire per il servizio militare. Da quel giorno si è assiduamente dedicato alla ricerca della verità. La sua convinzione è che la strage sia stata opera dei palestinesi in combutta con Carlos, un terrorista internazionale famoso anche con il nome di “Sciacallo”. Non è da sottovalutare che tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980, fosse stato arrestato e condannato il responsabile del Fronte per la liberazione della Palestina in Italia. Nel libro “Ustica storia e controstoria”, scritto dall’on. Eugenio Baresi, possiamo leggere: “Fra il sette e otto novembre 1979, in un casuale controllo – ricorda Baresi – vengono sequestrati missili antiaerei a membri dell’Autonomia romana e ad un palestinese, Abu Anzeh Saleh, […], rappresentante in Italia del Fronte per la liberazione della Palestina (FPLP). La Procura di Chieti con assoluta e inusuale velocità perviene ad un’immediata condanna il 25 gennaio del 1980. Il responsabile del FPLP in Italia, arrestato e condannato, è residente da anni a Bologna”. La strage della stazione di Bologna, pertanto, si collocherebbe in uno scenario intrecciato di fatti avvenuti in quegli anni che la collegherebbero dall’omicidio di Aldo moro e all’aereo di Ustica, che Baresi considera un “avvertimento non capito”. L’ordigno a Bologna sarebbe stato il secondo avvertimento. Ferretti conclude la sua dichiarazione a La Repubblica dicendo: “Tutte le persone che conosco e a cui voglio bene non lo vogliono nemmeno sentire. Questa città si è fatta un punto di onore nel rivendicare una necessità di antifascismo militante 50 anni dopo l’epopea fascista e ha avuto un’occasione meravigliosa”. Resta il fatto che questa ipotesi, dopo quasi quarant’anni dalla tragedia, grazie a documenti allora secretati, ha iniziato a prendere sempre più forma.

C’è una pista araba per la strage alla stazione di Bologna? Scrive Paolo Delgado il 2 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Trentasette anni dopo la bomba alla stazione di Bologna, cioè la più sanguinosa strage nella storia d’Italia, oggi si ripeteranno puntualissime le polemiche che accompagnano da sempre la commemorazione. Stavolta nel mirino ci sarà la stessa procura di Bologna, fortemente criticata per aver archiviato l’inchiesta sui mandanti della strage. E’ opportuno ricordare che, secondo una sentenza definitiva ma giudicata quasi ovunque non credibile, non sono ancora stati individuati né i mandanti, né il movente, né gli esecutori materiali della strage. Ci sono tre condannati, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, ma come “anelli intermedi”: quelli che avrebbero organizzato, su mandato non si sa di chi, l’attentato poi realizzato non si sa da chi per non si sa quali ragioni. Si può scommettere che nella polemica sui mandanti non una parola verrà dedicata alla denuncia che il quotidiano romano Il Tempo porta avanti, inascoltato, da una settimana. Il direttore Gian Marco Chiocci ha rivelato che esistono delle note dell’allora capo dei servizi segreti in Medio Oriente Stefano Giovannone, capocentro Sismi a Beirut e già uomo di fiducia di Aldo Moro. Le informative, ancora secretate dal Copasir, potrebbero secondo Chiocci gettare una luce tutta diversa sulla strage e sui suoi mandanti. Le note di Giovannone sono state visionate dai parlamentari della commissione Moro, ma senza il permesso di fotocopiarle né di diffonderne i contenuti. Prima di entrare nel merito degli appunti del vero ideatore del famoso Lodo Moro, quello che consentiva alle organizzazioni palestinesi di usare di fatto l’Italia come base in cambio dell’impegno a non colpire obiettivi italiani ( a meno che, segnalava però Cossiga, non avessero rapporti con Israele: il che, secondo l’ex presidente picconatore, escludeva dall’accordo gli ebrei), bisogna chiarire perché quelle note sono importanti e fino a che punto costituiscono un elemento valido per l’individuazione della verità sulla strage del 2 agosto 1980. A rendere particolarmente interessante quel documento è prima di tutto proprio il fatto che siano note di pugno di Giovannone. Non si trattava infatti di un agente dell’Intelligence come tanti: “Stefano d’Arabia”, com’era soprannominato, era senza dubbio la persona che nello Stato italiano conosceva meglio, più a fondo e più da vicino le organizzazioni palestinesi, nei confronti delle quali provava una assoluta simpatia. Il secondo elemento d’interesse è la stessa scelta di mantenere il segreto su quelle note del 1979- 80 a destare curiosità e sospetti: cosa giustifica, a quasi quarant’anni di distanza, tanta prudenza? Allo stesso tempo va chiarito che gli appunti di Giovannone non indicano affatto con certezza una responsabilità palestinese nella strage. In compenso confermano al di là di ogni dubbio che le indagini trascurarono deliberatamente una pista e scelsero, non sulla base di elementi concreti ma al contrario ignorando i soli elementi concreti a disposizione, di seguire solo quella neofascista. L’antefatto è noto ma conviene riassumerlo. Nella notte tra il 7 e l’8 novembre tre autonomi romani del collettivo di via dei Volsci furono arrestati a Ortona mentre trasportavano per conto dei palestinesi due lanciamissili Sam- 7 Strela di fabbricazione sovietica. Giovannone si mobilitò immediatamente, poche ore dopo l’arresto, per cercare invano di risolvere l’incidente, evidentemente molto preoccupato per qualcosa, anzi per qualcuno, che non potevano certo essere i tre autonomi. Si trattava infatti Abu Anzeh Saleh, ufficialmente studente a Bologna, in realtà responsabile militare del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina in Europa. Saleh, che aveva chiesto ai tre autonomi di occuparsi del trasporto, senza chiarire di cosa si trattasse, fu arrestato pochi giorni dopo. Qualche settimana fa l’allora dirigente dell’Fplp Abu Sharif, nel corso dell’audizione di fronte alla Commissione Moro, ha rivelato che proprio Saleh era il dirigente palestinese a cui lo Stato italiano si era rivolto, dopo il sequestro di Moro, chiedendo un intervento dell’Olp a favore della liberazione dell’ostaggio. I rapporti stretti tra Giovannone e Saleh sono confermati dall’interessamento del potente colonnello perché al palestinese, espulso nel ‘ 74, fosse consentito il ritorno e il soggiorno in Italia. La preoccupazione di Giovannone era comprensibile e fondata. Sin dal ‘ 73 era in vigore l’accordo con il Fronte, come con altre organizzazioni palestinesi, che avrebbe dovuto mettere Saleh al riparo da ogni rischio d’arresto. Il colonnello aveva capito al volo che, con tre autonomi italiani di mezzo e nel clima dell’epoca, ottenere la scarcerazione del palestinese sarebbe stato molto difficile. Era ben consapevole di quanta irritazione ciò avrebbe comportato nei vertici dell’Fplp, allora fortemente influenzato dalla Libia, e quanto fosse di conseguenza alto il rischio di una reazione violenta. Pochi giorni dopo gli arresti, Giovannone accenna, nelle informative ancora secretate, a una lettera inviata al premier italiano Cossiga da Arafat, evidentemente preoccupatissimo per i sospetti di collusione tra palestinesi e terrorismo italiano. Nella lettera, mai consegnata a Cossiga per l’intervento del responsabile dell’Olp in Italia Nemer Hammad, Arafat attribuiva alla Libia ogni responsabilità per il trasporto dei lanciamissili. In dicembre Giovannone accenna per la prima volta a una divisione tra falchi e colombe ai vertici dell’Fplp e del conseguente rischio di dure rappresaglie ove l’Italia non mantenesse i propri impegni con il Fronte. In concreto, senza la liberazione di Saleh e la restituzione dei lanciamissili. Il colonnello torna a registrare la possibilità di rappresaglie e di iniziative punitive nei confronti dell’Italia nei primi mesi del 1980, dopo che il 25 gennaio tutti gli imputati erano stati condannati in primo grado a sette anni. In aprile Giovannone riporta le preoccupazioni dello stesso leader dell’Fplp George Habbash, che si dice pressato dall’ala estremista del Fronte favorevole alla rappresaglia. Nella stessa occasione il responsabile dei servizi segreti italiani in Medio Oriente specifica che l’eventuale attentato sarebbe commissionato a un’organizzazione esterna all’Olp, quella di Carlos con il quale, aggiunge Giovannone, l’area dura dell’Fplp ha appena preso contatti. L’esecuzione, prosegue la nota, sarebbe probabilmente affidata a elementi europei, per non ostacolare il lavoro diplomatico in vista del riconoscimento dell’Olp da parte dell’Italia. In maggio Giovannone cita apertamente un ultimatum, con scadenza il 16 maggio, dopo il quale la maggioranza sia dei vertici che della base del Fronte è favorevole a riprendere la piena libertà d’azione in Italia, se nel frattempo non ci sarà stata la liberazione di Saleh. Il colonnello afferma anche che, secondo le sue fonti, a premere per un’azione violenta è la Libia, principale sostegno del Fronte ma che, in ogni caso, nulla succederà prima della fine di maggio. La fase più pericolosa è invece considerata l’avvio del processo d’appello, il 2 luglio. Nelle settimane seguenti il governo italiano fa sapere di essere pronto a prendere in considerazione la condizione di Saleh, ma non quella dei tre autonomi italiani, e di essere disponibile a indennizzare i palestinesi per i due lanciamissili sequestrati. Il 29 maggio però la Corte d’Appello dell’Aquila respinge la richiesta di scarcerazione di Saleh e le fonti di Giovannone alludono a due possibili ritorsioni: un dirottamento aereo oppure l’occupazione di un’ambasciata. Ma è lo stesso capocentro del Sismi, in giugno, a sottolineare che gli siano stati segnalati obiettivi falsi allo scopo di coprire quelli e a ipotizzare un attentato “suggerito” dalla Libia all’Fplp ma non rivendicato per evitare di creare problemi all’Olp. L’ultimo appunto è di fine giugno. Giovannone dice di essere stato informato sulla scelta del Fronte di riprendere a muoversi in piena libertà, cioè senza più offrire le garanzie previste dal Lodo Moro e afferma di aspettarsi «reazioni particolarmente gravi» se l’appello non rovescerà la sentenza di condanna. Il processo però viene subito rinviato fino a ottobre. Le comunicazioni di Giovannone si fermano qui, ma l’11 luglio il direttore dell’Ucigos prefetto Gaspare De Francisci mette in allarme con una nota riservata il direttore del Sisde Giulio Grassini in merito a possibili ritorsioni da parte dell’Fplp. Né l’informativa di Giovannone né i molti altri elementi che potrebbero indicare una pista libicopalestinese per la strage sono tali da permettere di arrivare a conclusioni credibili, come troppo spesso ha cercato di fare negli ultimi anni uno stuolo di investigatori dilettanti. Ma il punto non è sostituirsi agli inquirenti. È, più semplicemente, chiedersi perché, che, con elementi simili a disposizione, gli investigatori abbiano deciso, sin dalle prime ore dopo l’attentato, di seguire tutt’altra pista.  

Quegli ipocriti perbenisti dell’Lgbt. Demonizzano D&G, ma restano in silenzio sui gay uccisi dall’Is, scrive Giulio Meotti il 16 Marzo 2015 su “Il Foglio”. Nulla hanno mai detto sugli omosessuali palestinesi, tutti fuggiti in Israele per non finire spellati vivi sotto il regime di Arafat e Abu Mazen, per non parlare di Hamas. Non soltanto il mondo Lgbt si è voltato dall’altra parte, ma ha pure accettato, senza soprassalto di dignità, accecato com’è, che il Gay Pride di Madrid boicottasse gli omosessuali israeliani. Nulla, ma proprio nulla, l’Lgbt ha detto negli anni Novanta mentre in Algeria i fondamentalisti islamici annunciavano come avrebbero risolto la questione gay: “Nella lotta contro il male abbiamo il dovere di eliminare gli omosessuali e le donne depravate”. Nulla o quasi ha detto contro Mahmoud Ahmadinejad, il presidente iraniano che qualche anno fa, oltre alle camere a gas, negò l’esistenza di gay nella Repubblica islamica? Va da sé che adesso i capi Lgbt stiano in silenzio, mentre lo Stato islamico getta dai palazzi di Siria e Iraq i reprobi omosessuali, bendati, uno dopo l’altro, per un “peccato” da mondare con la morte, e le pietre della folla. Non uno striscione, non un appello, non una campagna che provenga dal mondo della militanza gay. Due giorni fa, il più noto editorialista australiano, Andrew Bolt, si è chiesto perché non c’erano barche contro l’Is alla fiera di Sydney dell’orgoglio gay friendly. Non una barca su centocinquanta. Opinionisti gay spesso accusano gli “islamofobi” di voler dividere mondo islamico e omosessuali. Come ha fatto Chris Stedman su Salon: “Stop trying to split gays and Muslims”. In questi giorni invece si sono tutti scatenati – a cominciare da Elton John, e poi via via altre celebrities – contro Dolce e Gabbana, il due fondatori della casa di moda italiana, rei di credere alla famiglia tradizionale e che i figli non si fabbricano in provetta. “Filthy”, lercio, osceno, schifoso, è l’aggettivo più usato su twitter contro i due stilisti italiani da parte della comunità gay nel mondo, che adesso annuncia il boicottaggio. La rappresaglia economica ha già funzionato contro Barilla e Mozilla, i cui capi erano stati accusati di “omofobia” e poi costretti a umilianti scuse pubbliche. E la rappresaglia funzionerebbe se volessero davvero attirare l’attenzione del mondo su quei regimi arabo-islamici dove gli omosessuali sono davvero discriminati, altro che in occidente. Eppure ipocrisia e silenzio annebbiano l’Lgbt. Mai una volta che denuncino i versetti della Sunna, che assieme al Corano compone la legge islamica, e in cui degli omosessuali si dice: “Quando un uomo cavalca un altro uomo, il trono di Dio trema. Uccidete l’uomo che lo fa e quello che se lo fa fare”. Qualche giorno fa il settimanale inglese Spectator ha sintetizzato l’indulgenza Lgbt: “Perché la battaglia per i diritti gay si ferma ai confini dell’islam”. Non è che il diritto alla vita di un gay è meno importante del diritto di Elton John ad avere un bambino? Non è che sputare contro Dolce e Gabbana renda perfino, in termini di probità morale, mentre denunciare i fanatici islamici può costare la testa e allora è meglio glissare? Perbenisti.

QUELL'ESKIMO IN REDAZIONE.

Anni di piombo: i giornalisti e le Brigate Rosse, scrive "Cultura.biografieonline.it".

I giornalisti nel mirino delle Br. A partire dal 1977 anche i giornalisti entrano nel mirino dei terroristi rossi (Brigate Rosse). Tra il primo e il 3 giugno, tre direttori vengono gambizzati a Genova, Milano e Roma. Si tratta di Vittorio Bruno de “Il Secolo XIX”, Indro Montanelli de “Il Giornale” e Emilio Rossi del “Tg1”. Lo scopo è quello di intimorire il mondo giornalistico. Nei mesi di luglio e settembre vengono feriti altri giornalisti e a novembre i brigatisti alzano il tiro sparando a Carlo Casalegno, vice direttore de “La Stampa”, che muore dopo tredici giorni.

L’agguato di Carlo Casalegno. È il 16 novembre del 1977 quando Carlo Casalegno viene ferito dalle Brigate Rosse a Torino. Colpito con quattro pallottole alla testa, rimane vivo per 13 giorni ricoverato in terapia intensiva presso l’ospedale Le Molinette. Muore il 29 novembre, dopo vari giorni di agonia. Casalegno Aveva ricevuto minacce, una bomba era arrivata al giornale, da alcuni giorni era scortato. Quel giorno un improvviso mal di denti lo costringe ad andare dal dentista: è senza scorta. Quando arriva a casa, ad attenderlo nell’androne trova gli assassini, che gli sparano a bruciapelo.

1980, la Brigata 28 marzo: ancora attentati. Il terrorismo si scatena di nuovo contro i giornalisti nel 1980. La Brigata 28 marzo, gruppo terroristico di estrema sinistra, ferisce a Milano Guido Passalacqua inviato di “Repubblica”. A maggio uccide Walter Tobagi, giovane inviato del “Corriere della Sera”. È un delitto feroce e assurdo che desta sospetti perché il volantino di rivendicazione appare scritto da persone che hanno una buona conoscenza del mondo del giornalismo milanese. Per i socialisti i mandanti vanno cercati in via Solferino, sede del Corriere. I processi contro Marco Barbone e i suoi compagni dimostrano l’infondatezza di questi sospetti.

Il delitto di Walter Tobagi. È il 28 maggio 1980 quando, poco prima delle 11, il giornalista esce di casa e si reca verso via Salaino, dove ha lasciato l’auto in un garage. Viene affiancato da due giovani armati: sparano, Tobagi cade a terra, vicino al marciapiede. Si saprà poi che all’agguato partecipano sei giovani: Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele Laus e Manfredi De Stefano. A sparare il colpo mortale è Marco Barbone.

Chi è Marco Barbone. All’epoca dei fatti Barbone ha 22 anni. E’ esponente della Milano “bene”, leader dell’organizzazione terroristica di estrema sinistra, chiamata “Brigata 28 marzo”. Nata a Milano nel maggio del 1980 con lo scopo di lottare e contrastare il mondo dei media, in particolare i giornalisti della carta stampata.

Il sequestro Aldo Moro. I problemi più complessi sorgono dall’evento cruciale: il sequestro di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. La notizia del sequestro e del massacro della scorta viene diffusa la mattina del 16 marzo 1978 dalla radio, dalla televisione e dalle edizioni straordinarie di molti quotidiani. Nel corso della prigionia, i servizi segreti non riescono a trovare Moro. Nasce il dibattito, in Italia, tra chi sostiene la necessità di trattare con le Brigate Rosse e chi, al contrario, rifiuta ogni compromesso. Così lo Stato non tratta: il 9 maggio del 1978 il cadavere del presidente della Dc viene ritrovato all’interno di una Renault 4, a Roma, in via Michelangelo Caetani.

1980: Le Br sfidano i giornali. Alla fine del 1980 le Br sfidano direttamente i giornali. Per rilasciare il magistrato Giovanni D’Urso chiedono che vengano pubblicati i proclami dei loro compagni incarcerati a Trani e a decidere se accettare o meno devono essere i giornali. La maggior parte delle testate respinge il ricatto, mentre pubblicano i proclami “Il Messaggero”, “Il Secolo XIX”, “L’Avanti!”, “Il Manifesto” e “Lotta continua”. Il “Corriere della Sera” decide di adottare il “completo silenzio stampa” e quindi di non dare neppure notizie riguardanti il terrorismo. Gli altri quotidiani del gruppo devono adottare la stessa linea. Nel 1982, subito dopo la pubblicazione dei documenti brigatisti e la chiusura del supercarcere dell’Asinara, i terroristi rilasciano il magistrato.

Così i giornalisti chiusero gli occhi sulle Brigate rosse. Negli anni '70 i quotidiani ignorarono i terroristi. Per preconcetto ideologico, scrive Michele Brambilla, Martedì 17/07/2018, su "Il Giornale". Il Giorno, quotidiano di proprietà pubblica, il 23 febbraio del 1975 sentì il dovere di dare ai suoi lettori la chiave di lettura di un fenomeno che stava diventando sempre più inquietante: le Brigate Rosse. Per farlo, impegnò una delle sue firme più prestigiose: quella di Giorgio Bocca. L'articolo, a pagina 5, aveva un titolo che non lasciava spazio a equivoci: «L'eterna favola delle Brigate Rosse». «A me queste Brigate Rosse», scriveva Bocca, «fanno un curioso effetto, di favola per bambini scemi o insonnoliti; e quando i magistrati e gli ufficiali dei Cc e i prefetti ricominciano a narrarla, mi viene come un'ondata di tenerezza, perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile, ma viene raccontata con tanta buona volontà che proprio non si sa come contraddirla». Purtroppo, quella delle Br non era una favola. Non interessava solo i bambini scemi o insonnoliti. Non faceva per nulla tenerezza e, soprattutto, non era una storia «vecchia, sgangherata, puerile». Nel momento in cui Bocca scriveva quel pezzo, le Br avevano già compiuto una serie di azioni delle quali gli italiani erano venuti a conoscenza non leggendo libri di fiabe, ma la cronaca nera dei giornali. La prima impresa brigatista risaliva addirittura a cinque anni prima: il 17 settembre 1970 era stato incendiato il garage di un dirigente della Sit Siemens di Milano. Una cosa da ridere, in confronto alla vera guerriglia rivoluzionaria. Ma da quel momento era cominciata una paurosa escalation. Il 3 marzo del 1972, sempre a Milano, era stato rapito il dirigente della Siemens Idalgo Macchiarini; il 12 febbraio del '73 altro sequestro: a Torino, del sindacalista della Cisnal Bruno Labate; il 10 dicembre 1973 ancora un rapimento, quello a Torino di Ettore Amerio, capo del personale del settore auto della Fiat. A conferma che di un'escalation si trattava, e quindi che i bersagli delle Br erano sempre più importanti e difficili da colpire, il 18 aprile del 1974 era stato sequestrato a Genova, e poi a lungo tenuto prigioniero e «processato», il sostituto procuratore della Repubblica Mario Sossi, un magistrato cattolico osservante, considerato dalla sinistra un duro, un intransigente, un conservatore. Insomma, un reazionario. E a conferma che, nel momento in cui veniva pubblicato il pezzo di Bocca, le Brigate Rosse avevano già fatto capire di non scherzare, il 17 giugno '74 c'era stato il duplice omicidio, a Padova, di due aderenti al Movimento Sociale Italiano: Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci. E il 16 ottobre dello stesso anno 1974, a Robbiano di Mediglia, il maresciallo dei carabinieri Felice Maritano era rimasto ucciso in uno scontro a fuoco con dei brigatisti. Nel frattempo (9 settembre '74) erano stati arrestati a Pinerolo due capi storici delle Br, Renato Curcio e Alberto Franceschini. Il 20 febbraio '75, cioè tre giorni prima dell'apparizione sul Giorno dell'«eterna favola delle Brigate Rosse», un commando di questa formazione che secondo alcuni non esisteva neppure era riuscito a far evadere Renato Curcio dal carcere di Casale Monferrato. Com'era dunque possibile che, nonostante tre omicidi, quattro sequestri e un'evasione, Giorgio Bocca scrivesse in quei termini delle Brigate Rosse? C'erano fatti che non potevano essere ignorati. Ma la risposta è contenuta nello stesso articolo «L'eterna favola delle Brigate Rosse». Giorgio Bocca spiegava che le prove raccolte su questi tupamaros italiani erano talmente ridicole da non poter essere prese sul serio: «Questi brigatisti rossi», si legge in quell'articolo, «hanno un loro cupio dissolvi, vogliono essere incriminati a ogni costo, conservano i loro covi, le prove di accusa come dei cimeli, come dei musei. Sull'auto di Curcio, al momento dell'arresto, vengono trovati dei documenti, delle cartine; in un covo, intatto, c'è, si dice, la cella in legno in cui era prigioniero Sossi... E, naturalmente, bandiere con stelle a punte irregolari». (...)

Giorgio Bocca faceva notare, sempre in quell'articolo, che ai magistrati e alla polizia aveva «fatto parecchie pubbliche domande sulle incongruenze, quasi divertenti, di questi guerriglieri, senza ricevere né sdegnate smentite né spiegazioni convincenti». E allora, che cos'erano queste Br? «Una cosa è certa», scriveva Bocca, «le vigilie elettorali hanno per queste Brigate Rosse un effetto da flauto magico, due o tre note e saltano fuori nello stesso modo rocambolesco in cui sono scomparse». Il pezzo, come un processo, finiva con un verdetto: «Questa storia è penosa al punto da dimostrare il falso, il marcio che ci sta dietro: perché nessun militante di sinistra si comporterebbe, per libera scelta, in modo da rovesciare tanto ridicolo sulla sinistra». Questo si leggeva, nel 1975, su un giornale considerato «borghese». Anni dopo, Giorgio Bocca fece pubblica autocritica, ammettendo di «non aver capito niente» del terrorismo rosso. Ma va detto che sia lui personalmente, sia Il Giorno non erano certo eccezioni nel panorama della stampa italiana. Erano anzi la regola. Da quando le bombe, gli omicidi, gli attentati, gli scontri di piazza avevano avvelenato la politica e non solo la politica del Paese, i mass media erano entrati in un tunnel.

Giugno 1977: la campagna Br contro i giornalisti e il black out su Montanelli, scrive il 2 giugno 2018 Ugo Maria Tassinari.

1 giugno 1977 Genova. Vittorio Bruno, vice direttore del Secolo XIX di Genova viene ferito alle gambe da un giovane armato di pistola. L’attentato avviene vicino all’ingresso della tipografia. Le Br rivendicano l’attentato con un volantino in cui dichiarano guerra a tutta la stampa.

2 giugno 1977 Milano. Indro Montanelli, direttore del Giornale Nuovo, viene colpito alle gambe da un uomo armato di pistola con silenziatore. L ‘attentatore e un suo complice raggiungono una macchina che li attendeva e fuggono. L’attentato è rivendicato con una telefonata al Corriere d’Informazione dal “gruppo Walter Alasia” delle Br.

3 giugno 1977 Roma. Emilio Rossi, direttore del TG l, viene colpito da due giovani, un uomo ed una donna armati di pistola. L ‘attentato avviene in via Teulada a pochi metri dalla sede Rai di Roma. I due giovani dopo aver sparato si allontanano a piedi con un terzo complice. L’attentato è rivendicato con un volantino fatto pervenire all’ANSA e al Messaggero dalle Br. Nel volantino Rossi viene definito “direttore del più grande giornale di regime”. Così, in rapida successione, si dispiega la campagna brigatista contro la “stampa di regime”, con gli attacchi eseguite da tre delle principali colonne della Br. Mancano soltanto i torinesi. A perenne vergogna, invece, della stessa stampa la vergognosa scelta di “oscurare” il fatto che una delle vittime era il più noto e prestigioso giornalista italiano, Indro Montanelli, all’epoca protagonista di una “scissione da destra” del Corriere della Sera per fondare il Giornale, organo di battaglia anticomunista ben prima che divenisse proprietà di Berlusconi. Non solo il Corriere della Sera (in basso), che aveva dirette ragioni di bottega, ma anche numerosi altri quotidiani. Tra questi la Stampa (a sinistra) che il 3 giugno fa (del tutto volontariamente) un clamoroso “errore”, titolando in prima pagina sul ferimento di due direttori (Bruno e Montanelli) sull’articolo da Milano sulla gambizzazione del secondo, mentre il primo è stato ferito l’1 e in pagina c’è un altro articolo sugli sviluppi delle indagini. Viola così una regola ferrea: non si titola su elementi che non sono presenti nell’articolo. Fedele al suo personaggio di feroce anticomunista (all’epoca) non farà la mattina per poi avviare un dialogo umano con il leader delle Br che gli aveva sparato alle gambe, Franco Bonisoli. 

Ugo Tognazzi è il Capo delle BR, scrive il 13 maggio 2011 Pier Luca Santoro su mediahub.it. "Il Male" è stata una rivista satirica di grande successo in Italia. Edita tra il 1978 ed il 1982 con cadenza settimanale è stata diretta anche da Vincenzo Sparagna poi co-fondatore di Frigidaire. Uno dei motivi di successo della pubblicazione si legava al filone di falsificare le prime pagine dei principali quotidiani italiani. Il paginone centrale, mascherato da un qualsiasi quotidiano nazionale, diventava la prima pagina del Male, dalla finta prima di Repubblica che annunciava a caratteri cubitali "Lo stato si è estinto" al Corriere dello Sport" che riportava l'annullamento dei mondiali del '78, passando per l'annuncio dell'avvenuta invasione aliena del Corsera. E' ancora molto vivo nella mia mente il ricordo di come mi divertissi all'epoca, mentre andavo al liceo in autobus, ad esibire le diverse versioni per poi spiare di nascosto le facce, le reazioni degli altri passeggeri. Come noto, erano quelli, anche, "anni bui", un periodo difficile della storia della nostra nazione caratterizzato dal fenomeno del terrorismo. Una delle versioni che ebbe maggior successo fu l'annuncio, in tre versioni diverse che riproducevano la prima pagina del Giorno, della Stampa e di Paese Sera, dell'arresto di Ugo Tognazzi identificato come il capo delle Brigate Rosse.

Dall'eskimo al burqa (in redazione). Così il buio della ragione contraddistingue i nostri intellettuali e la nostra cultura, scrive Nicola Porro Domenica 27/03/2016, su "Il Giornale". C'è un libro che le nuove generazioni, specialmente, dovrebbero leggere. Per la verità è consigliabile anche a quella fascia di ex giovani nati agli inizi degli anni '70, dunque troppo giovani per sapere cosa stesse succedendo accanto a loro. Scritto nel '91, per le edizioni Ares, da Michele Brambilla, si intitola L'eskimo in redazione. Varrebbe la pena leggerlo per due ordini di motivi. Uno contingente: anche oggi siamo immersi in un pensiero unico sul fenomeno del terrorismo islamista. Chi pensa che accoglienza e integrazione siano due balle, viene trattato come un paria. E infine c'è una ragione più storica: occorre conoscere il livello di cialtronaggine che ha caratterizzato la nostra classe giornalistica e culturale nel ventennio del terrorismo. Che poi sono gli stessi che si sono fatti establishment spiegando alle nuove generazioni quali errori non fare, proprio loro che ne hanno commessi una caterva. D'altronde era la generazione che inventò lo slogan giornalistico più ridicolo del secolo: i fatti separati dalle opinioni. Brambilla ci racconta bene come le cronache erano per lo più ideologiche, altro che opinioni. Quello di Brambilla è il racconto di un orrore a cui solo pochi si seppero sottrarre: Montanelli, Pansa, Casalegno, Tobagi. È l'orrore per cui nei giornalisti degli anni '70 l'ideologia veniva prima della cronaca. L'orrore per cui campagne di stampa hanno armato la mano che ha ucciso il commissario Calabresi. L'orrore orwelliano del pensiero unico per cui i manifesti della gente per bene erano firmati da Eco e da Fo, da Scalfari e da Mieli. L'orrore per cui, nonostante tutte le evidenze, giornalisti come Bocca, Sechi (pensate un po', ancora considerato un mito del giornalismo), Galli e mille altri ci hanno raccontato per anni che le Brigate Rosse erano sedicenti, e che piuttosto era in corso una strategia della tensione sotto la regia della destra. L'orrore della signora Cederna (quanto continua a essere celebrata...), la quale nel '72 aveva il coraggio di scrivere sull'Espresso: «Ho capito da sola in questi anni come è scomodo essere in una minoranza specialmente quando si ha ragione». E aggiungeva che Feltrinelli era stato ucciso chissà da chi e non, come si seppe qualche anno dopo (ma tutti lo sapevano anche allora), da un incidente sul lavoro, piazzando un ordigno su quel traliccio. E la sua supposta minoranza era piuttosto la maggioranza degli intellettuali dell'epoca. Brambilla fa un lavoro grandioso: mette in fila questa galleria degli orrori, fa nomi e cognomi, cita date e giornali e mette in evidenza questo impasto di conformismo e di vigliacca omologazione. Merita un posto d'onore nella nostra Biblioteca liberale, anche se non si tratta di un saggio economico, non affronta questioni filosofiche, ma meglio dei primi e dei secondi racconta il buio della ragione che ha contraddistinto i nostri intellettuali e la nostra cultura.

L’eskimo in redazione, i bei giornali di una volta, scrive il 6 marzo 2016 Stefano Olivari su "L'Indiscreto.info". La fusione Repubblica-Stampa-Secolo-eccetera già definita e quella Corriere della Sera-Sole 24 Ore scenario credibile hanno già scatenato i rimpianti per il presunto bel giornalismo di una volta, quello che mai si sarebbe conformato al pensiero unico. Leggendo a distanza di oltre quarto di secolo L’Eskimo in redazione – Quando le Brigate Rosse erano ‘sedicenti’ viene qualche dubbio, perché Michele Brambilla già nel 1990 ebbe il merito di analizzare gli anni di piombo, non ancora storicizzati perché molti dei suoi protagonisti erano ancora in pista, dal punto di vista di chi li avrebbe dovuti raccontare ai lettori. I giornalisti, insomma. Un libro che suo tempo generò fortissime polemiche, dovute alla cattiva coscienza di una stampa che aveva sottovalutato i pericoli del terrorismo rosso continuando a sostenere la tesi che si trattasse di operazioni portate avanti da fascisti mascherati, al soldo della CIA o di indefinibili poteri forti. Brambilla, attuale direttore della Gazzetta di Parma, si muove su più fronti. Il primo è proprio quello della paternità dei crimini, anche quando chi li aveva commessi li rivendicava con orgoglio e la sua storia politica era evidente. Così per anni, fino a quasi il sequestro Moro, le Brigate Rosse quando venivano nominate erano accompagnate nell’articolo dall’aggettivo ‘sedicenti’. Le sedicenti Brigate Rosse, così come sedicenti erano altri gruppi della stessa area, altro non sarebbero stati che gruppi di destra diretti astutamente dalle forze della reazione: questo si leggeva sul Corriere della Sera e su altri grandi giornali nazionali, con la ovvia eccezione del Giornale che nel 1974 Indro Montanelli fondò proprio per sfuggire al pensiero unico e perché non si riconosceva più nel Corriere di Piero Ottone. Il secondo fronte su cui si muove Brambilla è quello del doppiopesismo. L’attentato rivendicato dal neofascista è indubbiamente opera sua, quello del brigatista una manovra per influire sul voto popolare ed impedire l’arrivo del PCI al governo. Questi della maggioranza silenziosa e della CIA però avevano sbagliato i calcoli, visto che alle Politiche del 1976 il partito allora guidato da Enrico Berlinguer toccò il suo massimo storico superando il 34% dei voti. Il doppiopesismo si applica anche alle vittime: quella di destra è uno che in qualche modo se l’è cercata (esempio classico Sergio Ramelli, iscritto al Fronte della Gioventù ma non certo un attivista) mentre quello di sinistra è la vittima di uno Stato reazionario. E qui si arriva ai tanti uomini dello Stato maltrattati anche dai giornali cosiddetti borghesi, quelli con lettori che istintivamente avevano più fiducia nel prefetto Mazza che in Sofri. Il caso Calabresi è da manuale, con una campagna di odio senza precedenti che non fu soltanto di Lotta Continua (tra i tanti firmatari del documento dell’Espresso in cui veniva definito ‘commissario torturatore’ svettavano Eco, Fellini, Bobbio, Guttuso, Scalfari, Bocca, Moravia…) e che terminò con l’assassinio di Calabresi, ma anche i magistrati capaci di mantenere equilibrio (fra questi Gerardo D’Ambrosio) venivano giudicati con sospetto perché facevano il gioco del ‘nemico’. Brambilla mette insieme verità giudiziarie, semplice logica e articoli dell’epoca, in un affresco che sarebbe esilarante se non fosse popolato di morti e di violenza ideologica. Non classificabile il Corriere della Sera che non comprò la foto più famosa degli anni di piombo (quella scattata in via De Amicis, a Milano, durante gli scontri in cui fu ucciso il vicebrigadiere Antonio Custra) e che non mise il nome di Montanelli (non ancora icona anti-berlusconiana) nel titolo dell’articolo sulla sua gambizzazione, imbarazzanti le tante ipotesi fatte sulle morti di Pasolini e Feltrinelli (con la scomparsa del ‘Se la sono cercata’), di assoluto culto gli articoli che mettevano in relazione la strage dei Graneris (storia con cui Vespa oggi farebbe 1.200 puntate di Porta a Porta), assimilabile per certi versi alla vicenda di Pietro Maso, con una vendetta contro partigiani comunisti. Solo in pochi, non a caso i più grandi (su tutti Bocca), seppero poi fare autocritica, ma in generale davanti all’evidenza dei fatti si preferì la notizia asettica o il silenzio. Insomma, nemmeno editori diversi possono fare più di tanto contro il pensiero unico, che a prescindere dalla realtà ha già i suoi buoni e i suoi cattivi. La forza di questo libro, per niente datato nonostante abbia ormai più di 25 anni, è proprio questa: il pensiero unico non è una tavola di leggi imposte da un grande vecchio, ma un conformismo a cui quasi tutti si adeguano per pigrizia e soprattutto convenienza. L’abbiamo visto applicato al terrorismo di sinistra come all’europeismo, al liberismo come all’immigrazione, a seconda dei periodi, con una ‘linea’ a cui la maggioranza si adegua perdendo ogni capacità critica e svegliandosi troppo tardi. Ma qui già stiamo andando sui massimi sistemi, dimenticando una questione mai davvero analizzata: l’intolleranza quasi genetica della sinistra (e non parliamo di terrorismo o violenza fisica) nei confronti di chi la pensa diversamente, che non si esprime con la spranga ma in maniere molto più sottili e durature.

Quell’eskimo in redazione che fa ancora vergognare. Esclusiva intervista a Michele Brambilla: il mea culpa mancato dei giornalisti italiani sugli anni di piombo, scrive il 13 giugno 2018 Frediano Finucci su "Informazionesenzafiltro.it". Il mea culpa è una pratica a cui i giornalisti italiani sono da sempre poco avvezzi. Non tiriamo in ballo la legge sulla Stampa e l’obbligo della rettifica per chi è oggetto di notizie false o imprecise: chi l’ha vissuto sulla propria pelle sa quanto sia difficile – se non impossibile – ottenere la pubblicazione di una rettifica, su di un giornale o un notiziario, con la stessa evidenza della notizia da rettificare. Figuriamoci poi sul Web. Sull’argomento “mea culpa e stampa” esiste però un caso editoriale sul quale da decenni, nel mondo del giornalismo italiano, si discute di malavoglia e sottovoce, come si fa nelle famiglie per il caso di un parente che ha dato scandalo e delle cui malefatte tutti sono al corrente. Protagonista è il giornalista Michele Brambilla, attuale direttore della Gazzetta di Parma, per decenni inviato del Corriere della Sera e de La Stampa, già vicedirettore de Il Giornale e di Libero. Brambilla nel 1990 ha scritto un libro molto documentato, L’eskimo in redazione, nel quale dimostra come la quasi la totalità della stampa italiana negli anni ’70 abbia fatto di tutto per negare l’esistenza delle Brigate Rosse e per dare la colpa a elementi neofascisti di gravissimi fatti di cronaca nera che in realtà non avevano alcuna connotazione politica. Una tesi semplice ma dirompente che torna d’attualità oggi, nel quarantennale dall’assassinio di Aldo Moro.

Dopo l’uscita del tuo libro quanti giornalisti hanno fatto mea culpa per avere negato l’esistenza delle BR?

«Alcuni, anche se non subito. Giorgio Bocca fu uno dei primi a farlo, e in tempi non sospetti, quando scusarsi non era di moda. Nel corso degli anni Paolo Mieli ed Eugenio Scalfari hanno riconosciuto di avere sbagliato: qua mi riferisco a una delle nefandezze legate a quegli anni, vale a dire l’incitamento della stampa all’odio verso il commissario di polizia Luigi Calabresi con il famoso documento pubblicato sull’Espresso nel giugno 1971, dove più di 800 esponenti del mondo culturale e giornalistico accusavano il commissario della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Nel complesso però sono stati pochi quelli che hanno fatto pubblica ammenda. Uno dei primi fu certamente Giampaolo Pansa che, pur essendo di sinistra, tra l’altro non aveva di che pentirsi avendo sempre fatto un tipo di giornalismo corretto. Il mondo che non si è mai pentito è quello che ad esempio gravitava intorno a Dario Fo, che continuava a sostenere che Calabresi era un poco di buono».

Chi non ha fatto mea culpa, secondo te, non l’ha fatto per quale motivo?

«Direi essenzialmente per orgoglio e ideologia. Nel primo caso perché se per un essere umano è difficile dire “ho sbagliato”, lo è di più per un giornalista. Nel secondo caso, ovvero l’ideologia, perché negare l’esistenza di un terrorismo rosso ancora oggi vuol dire affermare che la Sinistra era (ed è) esente dal peccato originale della violenza, perché sta sempre dalla parte degli ultimi e dei poveri. Non si vuole ammettere insomma la possibilità che anche da sinistra possa venire violenza, il che storicamente è successo – e non solo in Italia, intendiamoci. Per questo ancora oggi quando si parla delle BR c’è sempre dietro un complotto, delle macchinazioni del potere: si sostiene che le bombe furono solo fasciste, che non furono i brigatisti a rapire Moro, anzi: furono manovrati. Ma per queste affermazioni non ci sono prove».

Qual è stato il mea culpa più sincero da parte di un collega?

«Difficile dirlo ma per farti capire il clima – e non solo di allora – che persiste nella categoria, ti racconto un episodio. Nel 2012 scrivevo per La Stampa e fui inviato in un cinema romano a vedere l’anteprima per i giornalisti del film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage, sulla bomba di piazza Fontana e i fatti che ne seguirono. Valerio Mastandrea interpretava il commissario Calabresi, dipinto come una figura positiva, un giovane poliziotto schiacciato da vicende più grandi di lui, rispettoso degli indagati durante gli interrogatori; soprattutto – come emerge dalla verità storica – si precisava che il commissario non si trovava nella stanza della Questura di Milano dalla cui finestra l’anarchico Pinelli volò giù, morendo. Al termine della proiezione, quando si riaccesero le luci, in sala calò il gelo: nessuno dei giornalisti applaudì e dai commenti si capiva che i presenti si aspettavano da un regista apertamente di sinistra come Giordana tutto meno che la riabilitazione di Calabresi. Andai subito a parlare con Giordana riferendogli delle perplessità dei colleghi e lui rispose: “quando ero militante di sinistra fui arrestato e interrogato da Calabresi il quale fu di una correttezza esemplare, un poliziotto che si sforzava di capire le rimostranze di una generazione”. Morale: Per i giornalisti italiani a partire dagli anni ’70 Calabresi fu un capro espiatorio, e quando una categoria fa una scelta del genere poi è difficile tornare indietro».

C’è stato qualche collega che dopo aver letto il libro ti ha detto in privato che avevi ragione, ma poi non ha fatto scuse pubbliche?

«Ti rispondo ancora una volta con un episodio. Il mio libro è stato pubblicato da quattro editori e ha avuto una quindicina di ristampe. Quando uscì, nel 1990, lavoravo al Corriere della Sera, e con l’eccezione de La Repubblica L’eskimo in redazione fu recensito da tutti i giornali italiani. Allora al Corriere il direttore era Ugo Stille e tra i vicedirettori c’era un gentiluomo piemontese che si chiamava Tino Neirotti, che mi disse: “hai fatto un libro bellissimo, ora dico ai colleghi della Cultura di scrivere una recensione”. Nessun giornalista però si dichiarò disposto a farlo: nessuno voleva “sporcarsi le mani”. Allora Neirotti mi disse: “Michele, scrivi tu una scheda di sessanta righe sul tuo libro, non firmarla e a lato mettiamo un pezzo di Giuliano Zincone che secondo me qualche riflessione sul tema la fa volentieri”. Ebbene, una volta scritta la scheda, da sessanta righe previste diventò una segnalazione di una riga e mezzo con accanto il pezzo di Zincone che mi stroncava. Questo per dirti che persino un vicedirettore non era riuscito non dico a far pubblicare un’autocritica, ma nemmeno a garantire una parità di dibattito. E questo, credimi, lo dico con dolore profondo, perché il Corriere è un pezzo della mia vita».

In occasione del quarantennale della morte di Moro la stampa italiana ha affrontato anche il tema della negazione delle BR da parte dei giornali di cui parli nel libro?

«Alcuni l’hanno fatto: Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, demolendo la riproposizione del cosiddetto “mistero del caso Moro”, e anche sul Post di Luca Sofri sono apparsi articoli che smontavano le tesi complottistiche sull’eccidio di via Fani. Nonostante questo ancora oggi si vuol far credere che non ci sia stato un terrorismo di sinistra. Proviamo a riflettere: i “bombaroli” neri degli anni ’70, quelli davvero coperti da alcuni elementi dei Servizi segreti italiani, sono stati fatti scappare all’estero o messi in condizione di essere assolti nei processi. I rapitori di Moro hanno passato 20/30 anni in galera: se davvero fossero stati collaboratori di Servizi italiani o esteri questi li avrebbero fatti scappare, assolti o al limite uccisi. Che interesse avrebbero i brigatisti a negare ancora oggi di essere stati manovrati?»

Dopo gli anni del terrorismo, a tuo parere, ci sono stati nella stampa italiana episodi di conformismo estremo, di miopia giornalistica analoghi a quelli che racconti nel libro?

«Si. Uno è stato la prima fase di Mani Pulite che ho seguito sin dall’arresto di Mario Chiesa. Di nuovo: non credo che dietro lo scoppio di Tangentopoli ci sia stato un complotto di chissà chi. Tutto nacque dalla grande abilità di Antonio di Pietro – forse più bravo come poliziotto che come magistrato – a trovare le prove della corruzione dei politici. Allora montò un’indignazione popolare verso i politici corrotti, e all’inizio fu giusto per la stampa italiana appoggiare le inchieste; dopodiché la cosa sfuggì di mano ai giornalisti. Subito le procure di tutt’Italia cominciarono ad arrestare politici e imprenditori senza avere però le competenze di Di Pietro, e la grande stampa peccò di conformismo appoggiando sempre e comunque i magistrati. Fu allora che nacque l’idea generale che i politici sono tutti corrotti e nel nostro Paese lo sono più che in altri. Il “fa tutto schifo” e il “tutti sono colpevoli” non li ha inventati Beppe Grillo, ma proprio i “giornaloni” verso i quali il comico si accanisce. I pochi che non si accodavano al conformismo verso i magistrati – ad esempio Giuliano Ferrara o Filippo Facci – venivano accusati di essere complici dei ladri. C’è però una grande differenza tra il conformismo totale della stampa negli anni di piombo e quello di Mani Pulite. Nel primo caso – con l’eccezione de Il Giornale di Montanelli – tutti i quotidiani erano concordi nell’esprimere dei dubbi sulla reale esistenza delle Brigate Rosse, che non a caso definivano “sedicenti”; nel caso di Tangentopoli il conformismo si spezzò dopo un paio d’anni quando venne indagato Silvio Berlusconi: allora i giornali e l’opinione pubblica si divisero tra chi lo difendeva a spada tratta e chi invece appoggiava i giudici di Milano. Ora, Berlusconi ha avuto sicuramente dalla sua buona parte dei media di cui è proprietario, ma anche i cronisti di Mani Pulite di allora (molti dei quali hanno fatto autocritica) riconoscono che fu eccessivamente demonizzato, tant’è che oggi nei suoi confronti è in corso, come dire, una sorta di riabilitazione».

L’ESKIMO IN REDAZIONE DI BRAMBILLA. UN IMPORTANTE LIBRO SUL CONFORMISMO. Scrive il 20/11/2015 Stefania Miccolis su "Lamescolanza.com".  È difficile essere obiettivi con il libro “L’Eskimo in redazione” di Michele Brambilla. È difficile tenere un distacco adeguato per dare una valutazione a favore o contro, drugstore there soprattutto se si è affetti da una sorta di pregiudizio dovuto a una formazione culturale ben precisa. Ma il libro è certamente di alto interesse e porta a una riflessione profonda, e senza dubbio fa comprendere meglio il clima di quegli anni di piombo, capitolo buio della storia italiana. All’epoca della sua uscita nel 1990 (ristampato varie volte e nel 2010 da ed. Ares), fu recensito da molti quotidiani tranne che dal Corriere della Sera dove Brambilla lavorava, luogo in cui i tanti giornalisti indossavano un Eskimo per coprire i loro cachemire. Fu oggetto di discussione, un testo scomodo per tutta una élite culturale di sinistra. Il titolo del libro che fa riferimento a una canzone di Francesco Guccini diviene un nuovo modo di dire per indicare i “tempi in cui il giornalismo era allineato su posizioni più gruppettare che di sinistra”. Il lavoro di Brambilla si basa su una ricerca accurata, fatta in particolare negli archivi del Corriere della Sera, una carrellata o miscellanea di articoli di giornalisti di prestigio dell’epoca, quelli che Indro Montanelli indica come “l’intellighenzia (inutile aggiungere “di sinistra”: quella di destra non è riconosciuta come intellighenzia)”.  Ma questo, tiene a sottolineare lo stesso autore, “lungi dall’essere un libro contro la sinistra, è un libro di denuncia di uno dei vizi mai morti della nostra categoria: il conformismo”: la sinistra negli anni ’70 è la vincente di turno, e sua è l’egemonia culturale. È un “libro-documento” come scrive Indro Montanelli nella prefazione, dove “c’è tutto quello che bisogna sapere” ed è “scritto a futura memoria, nella speranza che la memoria serva a qualcosa”. Vengono raccontati gli anni di piombo, e analizzati alcuni dei casi importanti delle Brigate Rosse. Ne esce un quadro ideologizzato e fazioso: le Brigate Rosse erano le “sedicenti Brigate Rosse”, a detta dei molti giornali borghesi che “per anni hanno fatto intendere agli italiani che quelle formazioni non erano rosse, e quindi erano nere, o peggio ancora al servizio delle istituzioni. Ma il loro programma era quello di aumentare la tensione al punto di scatenare una reazione dei conservatori che avrebbe convinto tutta la sinistra a scendere nelle strade e nelle piazze per dar vita alla guerra civile e instaurare un nuovo regime, marxista”. “Le Brigate Rosse hanno sempre rivendicato le proprie azioni e la propria appartenenza alla sinistra rivoluzionaria”. Si diceva fossero “fascisti mascherati”, e che “di rosso avessero solo il nome” (Sandro Pertini); Biagi, Bocca e molti altri avevano sottovalutato la gravità del loro potere rivoluzionario. Si prendeva in considerazione la “strategia della tensione” che serviva a spostare a destra l’equilibrio politico italiano, mentre “la teoria degli opposti estremismi”, ovvero l’esistenza di due terrorismi, uno rosso e uno nero, era solo un alibi per le forze conservatrici. Un vero coro conformista, solo pochi si distinguevano fra cui Pansa, Tobagi e Montanelli, che si attenevano ai fatti e senza incriminare nessuno aspettavano le sentenze, e comunque condannavano qualsiasi tipo di terrorismo, a destra e a sinistra. Brambilla fa coincidere l’inizio della violenza politica in Italia con la morte, rimasta impunita, il 19 novembre 1969 dell’agente di polizia Annarumma, (questo fu “l’esordio degli scontri di piazza e della guerriglia”), nello scontro a Milano fra estremisti di sinistra e forza pubblica. Nessuno voleva dare la colpa agli estremisti. Poi venne il 12 dicembre del 1970 e il prefetto di Milano Mazza scrisse un rapporto al Ministero degli Interni in cui segnalò la violenza rossa e la violenza nera e per questo non fu mai perdonato dalla sinistra e da allora Mazza venne considerato un ottuso conservatore reazionario. Ecco poi dunque il caso di Giangiacomo Feltrinelli morto perché gli era scoppiata in mano una carica di dinamite per fare saltare un traliccio e provocare il black-out in una zona di Milano. Ma tutti scrissero che Feltrinelli “Il guerrigliero dei Navigli” o “il rivoluzionario dorato” era stato ucciso, che vi era “Il sospetto di una spaventosa messa in scena” che fosse “un delitto”. Solo Montanelli e pochi altri ebbero il coraggio di andare contro a una stampa preconcetta, quella della “verità in tasca” che ingannava i lettori. Montanelli nel 1972 diceva che non c’era nulla da obiettare se fossero ipotesi di una messa in scena e di un delitto, ma “ciò che rifiutiamo è il tentativo di spacciarla come una certezza già acquisita”; “in questa orgia di bombe e incalzare di attentati, in questo macabro carnevale di cadaveri e nella irresponsabile speculazione che si cerca di farne strumentalizzandoli a scopi di parte, l’unica speranza riposa proprio nella pubblica opinione, nella saldezza dei suoi nervi, nell’equilibrio del suo giudizio […] la esortiamo a non credere, per ora, a nessuno”. Altro caso analizzato, il delitto Calabresi, ucciso nel 1972 da due colpi di pistola, “e, ancor prima, da una campagna diffamatoria forse senza precedenti in Italia” dopo la morte nel 1969 di Giuseppe Pinelli. E così venne chiamato il “commissario finestra”. Accusato della morte di Pinelli, diversi furono gli appelli e le lettere aperte, e le adesioni degli uomini di cultura “una delle prove più evidenti del conformismo di allora”. L’autore espone un documento firmato da filosofi, intellettuali, registi cinematografici, storici, giornalisti e pubblicato sull’Espresso il 13 giugno del 1971, in cui Calabresi veniva definito un “commissario torturatore” e il “responsabile della fine di Pinelli”. Questo fa comprendere quanto la cultura italiana, scrive Brambilla, fosse monopolizzata. E neanche dopo la sua morte Calabresi fu lasciato in pace. Sofri riconobbe durante il processo che vi fu una campagna diffamatoria sul giornale di lotta continua sul commissario: “una specie di gusto inerte, diciamo, dell’insulto, del linciaggio, della minaccia, si è impadronito di noi, e non solo di noi”. Indro Montanelli fu “fra i giornalisti che non seguirono l’onda” e lo difese: “Calabresi pagò con la vita la campagna di opinione che lo dipingeva come un brutale torturatore al servizio dei golpisti. Ma nemmeno il suo assassinio turbò i sonni dei suoi accusatori. L’unica loro preoccupazione fu di risolvere in chiave nera anche quel delitto”. Una forte disputa la ebbe con Camilla Cederna; fra i due botta e risposta sui giornali, per Montanelli la Cederna era colpevole di prendere sempre “posizioni preconcette”. Poi ancora si parla dell’attentato a Indro Montanelli “Uno dei clamorosi casi di censura politica attuata dai giornali italiani. “Quando le Br mi spararono alle gambe – dice Montanelli -, i grandi quotidiani non misero neppure il mio nome nel titolo” (tranne Scalfari e Bocca). Infine Brambilla non lascia in disparte neanche il caso di Pier Paolo Pasolini, nulla a che vedere con terrorismo o estremismo, ma “l’appiccicare un’etichetta politica, ovviamente di stampo reazionario, anche a ciò che di politico non aveva alcunché, rientrava nella logica di quegli anni, la logica delle sedicenti Brigate Rosse e delle provocazioni del potere”. Un delitto che poi con l’intervento di Oriana Fallaci, che mai rivelò le sue fonti, diventò delitto politico, addirittura paragonabile al caso di Feltrinelli. Solo la morte di Moro scosse le coscienze, anche se non tutti furono capaci di autocritica. Certo è che alcuni giornalisti riconobbero di avere sottovalutato la violenza delle Brigate Rosse. Per Bocca – La Repubblica, febbraio 1979 – “in quegli anni dal 69 al 72 l’informazione fu travolta da uno spirito fazioso e dalla rivelazione, per molti di noi traumatizzante del “terrorismo di Stato”. “In quegli anni noi cronisti non capimmo niente della sinistra armata”, “perché non si volle dire e capire sin dagli inizi che le Brigate Rosse erano una cosa seria? Noi conosciamo i nostri errori.” E così Walter Tobagi nel 1979 sul Corriere della Sera “…i germi del partito armato c’erano, ed erano espliciti. Solo i pregiudizi ideologici impedivano di rendersene conto”. Montanelli, nella sua acuta, concisa prefazione, ritiene che Brambilla abbia compilato una preziosa “comparsa per il cosiddetto Tribunale della storia”, tribunale del quale non ha molta fiducia, ma certamente chi vorrà ricostruire gli anni di piombo non potrà fare a meno di questo libro.

Ne ammazza più la penna che le BR. «Io non credo che le Brigate Rosse fossero molto lusingate dalla partecipazione, dalla loro parte, degli intellettuali - non credo. Erano gli intellettuali che volevano mettersi – casomai - al sicuro. Gli intellettuali italiani, si ricordi, per nove decimi stanno dalla parte di chi picchia. Mai dalla parte di chi le busca! È sempre stato così» (Indro Montanelli ad Alain Elkann), scrive Valerio Alberto Menga il 26 novembre 2015 su "L'Intellettualedissidente.it". La Repubblica ha dato notizia dell’avvenuto passaggio di direzione del quotidiano da Ezio Mauro a Mario Calabresi. È però noto che tra le firme illustri del sopracitato giornale vi era quella di Adriano Sofri, ritenuto il mandante dell’omicidio del Commissario Luigi Calabresi, padre del neodirettore di Rep. Le due firme avrebbero potuto convivere con ovvie difficoltà. Così Adriano Sofri si è dovuto ritirare. E la cosa ha suscitato molto scalpore. Spieghiamo il perché, ripercorrendo la Storia recente. Milano, 12 dicembre 1969. Ore 16:37. Sette chili di tritolo esplodono all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura sita in Piazza Fontana. 16 morti e 87 feriti. La polizia imbocca subito la pista anarchica. Dopo alcune indagini e interrogazioni ai tassisti che quel giorno hanno portato sul luogo dell’attentato, spunta fuori il nome dell’anarchico Pietro Valpreda, noto per essere un ballerino con inclinazioni “bombarole”, ma solo a parole. Poi, la notte successiva alla strage, si interroga Giuseppe Pinelli, anarchico anche lui. Verrà portato in questura per una serie di lunghi ed estenuanti interrogatori. Tre giorni dopo l’attentato, il 15 dicembre del 1969, Pinelli precipita dal quarto piano dell’aula dell’interrogatorio e si schianta al suolo. Arriverà già morto all’ospedale Fatebenefratelli. Questa è una vicenda a tinte fosche, dai mille risvolti. Sono gli anni della Guerra Fredda. L’Italia ha paura di divenire una repubblica sovietica da una parte, e dall’altra di ritornare alla dittatura nera. Con Piazza Fontana ebbero inizio i tristemente noti “Anni di piombo” e con essi la teoria della “Strategia della tensione”. Una teoria secondo cui uomini di stato, servizi segreti, terroristi rossi e neri avrebbero stretto un patto scellerato, portando la Repubblica Italiana alla sua ora più buia. L’obiettivo supposto? Condizionare l’opinione pubblica italiana, spaventata da una serie di attentati ben orchestrati, affinché la colpa ricadesse sugli “opposti estremi” e i voti confluissero verso il più rassicurante centro democristiano. In seguito alla strana morte dell’anarchico Pinelli il movimento extraparlamentare Lotta Continua indicava il commissario Luigi Calabresi come il responsabile, oltre che esecutore materiale, della morte di Pinelli, avvenuta probabilmente (sempre secondo LC) per un colpo di karate ben assestato.  Il 10 giugno 1971 il settimanale L’Espresso pubblicò una lettera aperta sul caso in questione. In questa lettera si formulavano una serie di accuse a persone che avrebbero condizionato il processo in favore del commissario Calabresi, avvalendosi della “indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica”, dando per scontata l’uccisione di Pinelli per mano o responsabilità diretta del commissario Calabresi. La lettera era “rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni” e si chiedeva (leggesi pretendeva) l’allontanamento di costoro dai loro uffici, in quanto si rifiutava di “riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini”. La lettera, partendo da 10 firme iniziali, arrivò, al momento della pubblicazione, al numero di ben 757 personalità di spicco della società italiana, comprendendo la quasi totalità dell’intellighenzia della Sinistra di allora e di oggi, ma non solo. Tra questi nomi si ricordano, in ordine sparso, quelli di: Norberto Bobbio, Umberto Eco, Dario Fo, Franca Rame, Margherita Hack, Giorgio Bocca, Eugenio Scalfari, Inge Feltrinelli, gli Editori Laterza, Giulio Einaudi, Federico Fellini, Paolo Mieli, Tinto Brass, Luigi Comencini, i fratelli Taviani, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Marco Bellocchio, Folco Quilici, Carlo Levi, Alberto Moravia, Dacia Maraini, Alberto Bevilacqua, Primo Levi, Giancarlo Pajetta, Furio Colombo, Camilla Cederna, Tiziano Terzani, Toni Negri e i fratelli Carlo e Vittorio Ripa di Meana. (Qui l’elenco completo dei firmatari. Vedere per credere). Il Premio Nobel Dario Fo, in seguito alla firma, ebbe pure la brillante idea di portare in scena lo spettacolo Morte accidentale di un anarchico. In tale spettacolo Calabresi era soprannominato “il Commissario Cavalcioni” a causa della strana usanza da lui praticata nei confronti degli interrogati, messi, appunto, a cavalcioni di una finestra, per poi, ovviamente, farli cadere giù. Nella lunga video-intervista che tenne Alain Elkann con Indro Montanelli negli anni Novanta per la Storia d’Italia, il buon vecchio Indro, ebbe a dire di Calabresi quanto segue: “Se c’era un funzionario corretto e che veniva portato ad esempio da tutti i suoi colleghi questi era Calabresi”. E poi ricordò un piccolo dettaglio: “Calabresi non era in questura nel momento in cui avvenne il fattaccio”. Ma erano anni in cui il vento del conformismo tirava a sinistra e la verità veniva dettata dagli dei del proletariato armato. Quella lettera risuonò come una vera e propria condanna a morte. Tant’è che un anno dopo la sua pubblicazione, Luigi Calabresi verrà freddato dai sicari di Lotta Continua. Giustizia proletaria fu fatta. Era il 17 maggio del 1972. Solo pochi giornalisti italiani non si unirono al coro. Tra loro Giampaolo Pansa (unitosi oggi ad un altro coro), Massimo Fini e il già citato Indro Montanelli. Il caro Indro, a causa della sua dissidenza nei confronti della linea editoriale filobrigatista che il Corriere della Sera pareva aver assunto in quegli anni, lasciò, nauseato, la redazione del giornale ritirando la sua penna. Il 2 giugno 1977, Montanelli fu “gambizzato” da parte delle Brigate Rosse. Ne uscì vivo, con qualche ferita alle gambe. Non si saprà mai chi fu il mandante. Si mormorò però che, come in altri casi analoghi, in qualche salotto-bene della sinistra di allora si brindò all’evento. Sofri, ha ricordato Montanelli, scrisse una lettera alla vedova Calabresi in cui negava di esser stato il mandante dei sicari di suo marito. Si assumeva però, in quell’occasione, la responsabilità per aver contribuito a creare l’atmosfera che condusse all’assassinio del marito. E di ciò le chiese perdono. Venti anni dopo l’omicidio Calabresi, L’Europeo mandò un redattore ad intervistare i firmatari dell’appello di Lotta Continua per rendergliene conto: dissero di non ricordarsene più. Montanelli, nell’intervista con Elkann, ebbe a dire: «Nessuno di loro ha fatto atto di contrizione. Gli unici che lo hanno fatto sono stati quelli che si trovano in galera». Quando si dice: “ne ammazza più la penna”… Oggi, Giampiero Muhgini, insieme a Fulvio Abbate, ha ricordato i fatti narrati alla telecamera di Teledurriti. E bisogna rendergliene atto, dato che Mughini stesso fu uno dei giovani esaltati di Lotta Continua. Ma la sua firma, a quella dannata lettera, non comparve. Per chi avesse l’interesse e il coraggio di ripercorrere quegli anni e quelle vicende, può trovare tutto nel saggio di Michele Brambilla L’eskimo in redazione. Quando le Brigate Rosse erano “sedicenti”.

Quei giornali che negavano le Br. ll nuovo libro del conduttore di Matrix, giornalista liberale, contro i concreti pericoli del pensiero unico, scrive Nicola Porro il 9 Ottobre 2016 su "La Gazzettadiparma.it". C’è un libro che le nuove generazioni, specialmente, dovrebbero leggere. Per la verità è consigliabile anche a quella fascia di ex giovani nati agli inizi degli anni settanta, dunque troppo giovani per sapere cosa stesse succedendo in Italia nei loro primi anni di vita. Scritto nel 1991 da Michele Brambilla, si intitola «L’eskimo in redazione». Varrebbe la pena leggerlo per due ordini di motivi. Il primo è contingente: anche oggi siamo in una situazione paragonabile, immersi in un pensiero unico sul fenomeno del terrorismo islamista. Chi pensa che accoglienza e integrazione siano due etichette vuote, chi ritiene che il fenomeno non derivi da presunte colpe dell’Occidente, chi denuncia la violenza fondamentale di certe interpretazioni, molto diffuse, del Corano, viene trattato come un paria. C’è poi una ragione più storica: occorre conoscere bene il livello di cialtroneria che ha caratterizzato la nostra classe giornalistica e culturale nel ventennio del terrorismo. Uno dei più delicati della nostra breve stagione repubblicana. Che poi sono gli stessi intellettuali che si sono «fatti» establishment spiegando alle nuove generazioni quali errori non fare, proprio loro che ne hanno commessi un’infinità. Criticavano il presunto «regime» di allora per trovare un posto al sole e, quando ci sono riusciti, hanno messo in opera esattamente il medesimo modello di controllo degli spazi culturali che criticavano negli anni settanta. D’altronde era la generazione che inventò lo slogan giornalistico, alla luce di ciò che avvenne, più ridicolo del secolo: «i fatti separati dalle opinioni». Brambilla ci racconta bene come le cronache erano per lo più ideologiche, altro che opinioni. Sentite cosa scriveva l’inventore del fortunato slogan, Lamberto Sechi, del «Giornale» di Montanelli: «Quando ‘il Giornale’ finanziato da Cefis commemora, nel settimo anniversario della morte di Giovanni Guareschi, un uomo che ha dedicato la maggior parte della sua vita alla denigrazione dell’antifascismo e della repubblica, qualsiasi fascista ha diritto di sentirsi, nonché giustificato, riverito, degno di un medaglione su uno di molti (ormai quasi tutti) giornali di regime». Insomma «il Giornale» non poteva e non doveva, secondo l’autorevole opinione dell’inventore dei fatti separati dalle opinioni (regola a cui si sarebbero dovuti attenere tutti i giornalisti a eccezione dell’inventore della stessa), commemorare nell’anniversario della morte il padre di Don Camillo e Peppone, uno degli autori più amati dagli italiani. Come scrive il Nostro, bastava questa commemorazione «per essere ritenuti non solo dei fascisti, ma addirittura dei complici morali dei bombaroli che sterminavano innocenti sui treni». Il racconto di Brambilla è il racconto di un orrore a cui solo pochi si seppero sottrarre: Montanelli, Pansa, Casalegno, Tobagi. È l’orrore, come detto, per il quale nei giornalisti degli anni settanta l’ideologia veniva prima della cronaca. L’orrore per il quale le campagne di stampa hanno armato la mano che ha ucciso il commissario Calabresi. Camilla Cederna (bisognerà dire una volta che non merita neanche un centesimo della correttezza e della fama di cui ancora gode) disse che Calabresi aveva interrogato l’anarchico Pinelli «per 77 ore ininterrotte». Totalmente falso. «Lotta continua» e «l’Unità» si inventarono che Calabresi era un agente della Cia. Totalmente falso. Fu «Lotta continua» a scrivere: «Luigi Calabresi deve rispondere pubblicamente del suo delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara». E ancora: «Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati, ma è questo sicuramente un momento e una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato allo stato assassino». E quando Calabresi sporse querela 44 redazioni di riviste politiche e culturali (tra cui alcune cattoliche) sottoscrissero un documento di solidarietà a «Lotta continua». Brambilla racconta l’orrore orwelliano del pensiero unico per cui i manifesti della gente per bene erano firmati da Eco e da Fo, da Scalfari e da Mieli. Manifesti in cui si scriveva: «Combattere un giorno con le armi in pugno contro lo stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento». E pensare che tanti di quelli che all’epoca firmarono oggi sono i padroni. L’orrore per il quale, nonostante tutte le evidenze, giornalisti come Bocca, Sechi (pensate un po’, ancora considerato un mito del giornalismo), Galli e mille altri ci hanno raccontato per anni che le Brigate rosse erano sedicenti, e che piuttosto era in corso una strategia della tensione sotto la regia della destra. L’orrore della signora Cederna (quanto continua a essere celebrata) che nel 1972 aveva il coraggio di scrivere sull’«Espresso»: «Ho capito da sola in questi anni come è scomodo essere in una minoranza specialmente quando si ha ragione». Poco più giù diceva che Feltrinelli era stato ucciso chissà da chi e non, come si seppe qualche anno dopo (ma tutti sapevano anche allora), per un incidente sul lavoro, piazzando un ordigno su quel traliccio. E la sua supposta minoranza era, piuttosto, la maggioranza degli intellettuali dell’epoca. Brambilla fa un lavoro grandioso: mette in fila questa galleria degli orrori, fa nomi e cognomi, cita date e giornali e mette in evidenza questo impasto di conformismo e di vigliacca omologazione. Merita un posto d’onore in questa nostra Biblioteca liberale, anche se non si tratta di un saggio economico, non affronta questioni filosofiche, ma meglio dei primi e dei secondi racconta il buio della ragione che ha contraddistinto i nostri intellettuali e la nostra cultura. Il fenomeno non era confinato certamente alla sola Italia. I paesi anglosassoni hanno però poi saputo combattere contro questo piatto e ormai canuto conformismo culturale. Oggi la cultura del dubbio, il punto di vista dell’individuo contro quello della massa, il privilegio del pensiero contro il gusto della moda restano merce rara. Negli anni settanta gli intellettuali, che bene descrive Brambilla, erano affascinati dalla rivoluzione e disgustati dalla cosiddetta maggioranza silenziosa. Avevano clamorosamente ingannato e oggi le giovani generazioni e quelle di mezzo pendono dalle labbra di questi vecchi tromboni che hanno sbagliato tutto e dai quali si attendono uno strapuntino o almeno un decente assegno consegnato a margine di uno dei tanti ridicoli premi giornalistici da strapaese che i vecchi arnesi controllano con efficacia.

Le Brigate Rosse e i quotidiani francesi dal caso Sossi alla tragedia Moro, scrive Eleonora Marzi.

Riassunto. Le Brigate Rosse sono state un fenomeno sociale e politico controverso che ha creato una frattura nella società italiana e nel mondo politico degli anni Settanta. Il presente articolo si propone di analizzare le pubblicazioni che il quotidiano Le Monde diede del fenomeno in due momenti cruciali: la nascita delle Brigate Rosse come soggetto mediatico con il rapimento del giudice Mario Sossi nel 1974, e il suo gesto più eclatante, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel 1978. Così, attraverso un’analisi dei pezzi di giornalismo di quel periodo è possibile prefigurare lo scenario di comprensione e il messaggio che conseguentemente venne trasmesso al paese.

Indice

1. Il sequestro Sossi o «l’operazione girasole»

1.1 Il dato storico: il sequestro

1.2 Le particolarità del Caso Sossi e il percorso identificativo delle BR

2. I quotidiani e le Brigate Rosse: un nuovo e misterioso soggetto politico si affaccia sulla scena mediatica

2.1 Le Monde e gli «sconosciuti armati»

3. Il caso Moro o «l’operazione Fritz»: l’apice delle Brigate Rosse

3.1 Il dato storico: tra via Fani e via Caetani

3.2 L’analisi di Le Monde: chi sono le Brigate Rosse?

Testo integrale. Le Brigate Rosse sono state un fenomeno sociale e politico controverso che ha spaccato la società italiana e il mondo politico degli anni Settanta. Ancora oggi è un caso che continua a dividere il mondo degli studiosi, anche a causa delle discordanti testimonianze dei protagonisti: si tratta infatti di un soggetto scivoloso, la cui ricostruzione storica presenta numerose zone d’ombra. Uno dei principali ostacoli alla carenza di esattezza storica consiste nella mancata metabolizzazione del fenomeno da parte degli italiani. É perciò interessante fornire un punto di vista altro, esterno, alla cui prospettiva storica si unisce l’analisi testuale dei pezzi di giornalismo in un epoca nella quale i fatti quotidiani erano la principale fonte di informazione – internet non esisteva – e la neo-arrivata televisione si posizionava ancora in una zona di consumo di nicchia. Si è scelto dunque di analizzare, attraverso le pagine del quotidiano Le Monde, due momenti storici precisi, la nascita “mediatica” delle Brigate Rosse – resa possibile dal rapimento del magistrato Mario Sossi, e il loro atto più eclatante, il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro. La metodologia impiegata per condurre questo lavoro unisce in un discorso che si vuole pluridisciplinare la storia e la cultura italiana ad una forma di critica giornalistica che si concentra sia sui contenuti che sulla loro presentazione formale. Prima di affrontare il discorso sulla comunicazione si rende necessario compiere un breve excursus al fine di presentare utili elementi storici per una migliore comprensione.

1. Il sequestro Sossi o «l’operazione girasole».

1.1 Il dato storico: il sequestro. Il 18 aprile 1974, il sostituto procuratore della Repubblica di Genova, il dottor Mario Sossi viene rapito da un commando armato, facente parte del gruppo di lotta marxista-leninista delle Brigate Rosse. La condizione per la liberazione del rapito è la scarcerazione e il successivo espatrio dei componenti della «XXII Ottobre», un gruppo di attivisti di sinistra i cui membri sono stati precedentemente condannati per diversi atti criminosi1. In realtà la tattica del sequestro si inscrive in una più ampia strategia volta ad indebolire lo Stato: le BR sono infatti convinte che in Italia vi siano le condizioni per una rivoluzione che però non si concretizzano per la mancanza di una guida rivoluzionaria e per il “tradimento” del Partito Comunista Italiano, oramai integrato nelle istituzioni. I brigatisti intendono perciò colpire con la lotta armata “l’ordine borghese”, così da mostrarne la debolezza, risvegliare la coscienza rivoluzionaria delle masse e porre le basi di una sollevazione. Le BR con il sequestro Sossi, anche detta «l’operazione girasole» decidono e attuano ciò che verrà descritto come «l’attacco al cuore dello Stato»; se precedentemente infatti si erano limitate ad azioni di propaganda “pacifica” con quest’azione compiono un passaggio ulteriore iniziando un percorso che sfocerà, come vedremo, nel drammatico epilogo del rapimento e della morte di Aldo Moro. Intendono dunque compiere un salto di qualità, adeguandosi al corso degli eventi che, a loro giudizio, costringe ad alzare il tiro rispetto alla precedente fase della propaganda armata. Da un opuscolo interno al movimento risalente al 1974 si legge: […] Perché se è vero che la crisi di regime e la nascita di una controrivoluzione agguerrita e organizzata sono il prodotto di anni di dure lotte operaie e popolari, è ancora più vero che per vincere il movimento di massa deve oggi superare la fase spontanea e organizzarsi sul terreno strategico della lotta contro il potere. E la Classe Operaia si conquisterà il potere solo con la lotta armata. Il procuratore Mario Sossi sarà detenuto per la durata di 35 giorni. Lungo questo arco di tempo l’opinione pubblica e le istituzioni, si divideranno su due linee contrapposte: l’una di intransigenza, la «linea della fermezza» (incarnata dal governo, dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista Italiano) l’altra d’apertura alla trattativa da parte di associazioni come «magistratura democratica». Le trattative per la scarcerazione sembrano concretizzarsi, ma il procuratore della Repubblica Francesco Coco si oppone al provvedimento; sebbene le richieste non vengano esaudite le BR rilasciano comunque Sossi in buone condizioni di salute. Il loro scopo, ovvero mostrare come lo Stato non sia in grado di proteggere i cittadini, è stato raggiunto. Hanno rapito e detenuto per 35 giorni un sostituto procuratore della repubblica, lo hanno interrogato, ed hanno confermato la loro analisi dello e sullo stato “borghese-canaglia”: nutrito da politiche farraginose, dedito alla pratica del sotterfugio e succube del capitalismo. Inoltre l’opinione pubblica, tacitamente e velatamente, le percepisce come un gruppo criminale “cavalleresco” per aver rilasciato il detenuto nonostante il mancato accordo.

1.2 Le particolarità del Caso Sossi e il percorso identificativo delle BR. L’importanza del caso Sossi, nella logica delle BR, è specialmente di natura propagandistica. Innanzitutto le BR si presentano all’opinione pubblica in modo organizzato, introducono il proprio programma, la propria ideologia e iniziano massicciamente quell’azione di chiamata alla lotta armata indirizzata alla classe proletaria. I terroristi sanno perfettamente che la loro richiesta è troppo alta per essere soddisfatta. Ciò che davvero gli interessa è la presentazione di loro stessi al paese, l’accertamento della veridicità delle loro tesi riguardo il tessuto politico, la risposta sociale alle loro azioni e la verifica della strategia mediatica che rappresenterà un punto cardine dei loro futuri attacchi. Il mezzo del “comunicato”, che troverà larghissimo impiego durante il sequestro Moro, inizia qui il suo percorso come strumento informativo e propagandistico per eccellenza, in grado di unire con un comune filo la stampa, il potere istituzionale e l’opinione pubblica in un gioco di specchi estremamente complesso. Il governo, il popolo e la comunicazione: il triangolo perfetto lungo il quale le BR giocheranno la loro partita al fine di istaurare ciò che definiscono lo «Stato proletario».

2. I quotidiani e le Brigate Rosse: un nuovo e misterioso soggetto politico si affaccia sulla scena mediatica. 8Come per un meccanismo di specchi riflessi, all’esordio delle BR sulla scena mediatica, lo sforzo maggiore dei quotidiani è diretto ad inquadrare e comprendere questo “nuovo” soggetto. Il tempo impiegato dai giornali a focalizzare il fenomeno, a definirne le dimensioni e a comprenderne le conseguenze fu determinante per il tipo di informazione che venne veicolata. Sulla scena nazionale ed internazionale si affaccia un nuovo protagonista: presenta tratti clandestini, usa le armi per portare a termine azioni criminali a fini politici e informa delle proprie rivendicazioni e dei propri programmi ideologici sia la classe governativa che l’opinione pubblica utilizzando dei “comunicati”. Non si tratta dunque di comuni malavitosi, ma di un gruppo che ha fini e scopi ben precisi che per i contemporanei risulta estremamente difficile chiarire. Al momento della loro comparsa sulle pagine dei quotidiani riguardo le BR si ipotizza tutto l’ipotizzabile. Il nome del gruppo armato è sistematicamente riportato tra virgolette, ad indicare un dubbio generico rispetto le reali origini e le motivazioni che muovono i combattenti. Ed è proprio questo clima di smarrimento a dare adito alle più fantasiose ipotesi con interrogativi che sui giornali francesi si accavallano in merito al colore politico dell’organizzazione, alla composizione e alla strutturazione del gruppo stesso. Come si vedrà nel corso dell’articolo il tema della reale identità delle Brigate Rosse sarà ampiamente indagato dai quotidiani, rappresentando in questo modo uno dei fulcri d’interesse del discorso mediatico e inoltre il punto d’incontro delle differenti interpretazioni provenienti dai vari Stati d’Europa.

2.1 Le Monde e gli «sconosciuti armati». Le Monde informa del sequestro Sossi nell’edizione del 20 aprile con un pezzo di Jacques Nobécourt in terzo taglio dal titolo: «Il sostituto procuratore di Genova è stato rapito da sconosciuti armati». La notizia è pubblicata due giorni dopo del fatto, elemento normale in epoca non ancora digitale, sebbene dia anche la misura di una attenzione di grado medio verso la notizia. É significativo come essi vengano definiti come degli “sconosciuti” anche se l’articolo si interroga sulla natura dell’organizzazione, pur non inoltrandosi in supposizioni caotiche; si limita a riportare il fatto certo. Nell’introduzione del pezzo la notizia è riportata con stupore: L’evento più spettacolare è il rapimento a Genova, giovedì alle nove, del sostituto procuratore della Repubblica, Mario Sossi, un uomo di quarant’anni che è uno dei giovani magistrati italiani più controversi degli ultimi anni. Il cronista, proseguendo il racconto del sequestro, riferisce: Mario Sossi rientrava a casa in autobus e davanti il suo domicilio alcuni uomini tra i venticinque e i trent’anni, secondo i testimoni, vestiti elegantemente e senza alcuna maschera, lo hanno costretto, minacciandolo con un’arma, a salire su un furgone. Il particolare dell’aspetto dei rapitori, eleganti e a viso aperto, deve aver colpito gli osservatori dell’epoca, ed è un elemento che colora di mistero l’identità del gruppo. Le Monde mostra cautela quando nell’individuazione del gruppo terrorista modifica lo status di «sconosciuti» precedentemente attribuito alle BR: «In alcuni comunicati trovati in una cabina telefonica, le “brigate rosse” rivendicano la responsabilità dell’operazione». L’atteggiamento è cauto, ben riscontrabile attraverso l’utilizzo delle virgolette che mantengono il soggetto terrorista in un campo di indefinitezza. Tuttavia il comunicato viene preso in considerazione, seppure non assunto a prova di certezza: Il ritrovamento dei comunicati non prova assolutamente che le «brigate rosse» esistano realmente, né che si tratti di un’organizzazione di estrema sinistra. Tuttavia, la personalità del magistrato tende a far credere che l’operazione è stata condotta da estremisti di sinistra. L’atteggiamento cauto porta Le Monde a non assumere posizioni nette in mancanza di dettagli. Gli unici elementi che potrebbero concorrere all’individuazione dell’identità sono di natura storica: Lo stesso modus operandi era stato utilizzato in dicembre in occasione del rapimento di uno dei capi del personale della Fiat a Torino. Questi era stato rilasciato dopo qualche giorno e i suoi rapitori, che si dichiaravano ugualmente appartenenti alle «brigate rosse», facevano apparentemente parte di un gruppo isolato, senza alcun legame con altre organizzazioni politiche. Le Monde si posiziona su una linea corretta nel non attribuire legami con altre organizzazioni politiche: in termini generali, alla data del rapimento, ogni interrogativo è aperto, l’orientamento politico del gruppo armato resta non definito così come la loro ideologia, e gli scopi che si prefiggono attraverso le loro azioni. Nel corso del sequestro l’attenzione del quotidiano sarà fortemente polarizzata sul comportamento tenuto dalla magistratura e sugli effetti che il ricatto delle Brigate rosse ha sulle relazioni tra questa e il governo. Il tema dell’identità delle BR non viene affrontato nella sua totalità, contentandosi di qualche definizione qua e là e più spesso di citazioni provenienti dalla stampa italiana. É questo il caso dell’edizione del 25 aprile, quando a seguito di un messaggio dell’ostaggio, viene sospesa dalla procura di Genova l’indagine su quest’ultimo. Il quotidiano riporta la reazione de La Stampa: La Stampa esprime un sentimento generalmente diffuso affermando che «il blocco dell’inchiesta non può non apparire come un gesto di abdicazione dello Stato». […] Ciò suscita sgomento, provoca un sentimento di sfiducia nei confronti del potere e della capacità di resistenza delle istituzioni davanti a tali fenomeni. Era permesso ai magistrati genovesi, direttamente implicati, di inclinarsi davanti alla sfida terrorista?. Il quotidiano si ferma alla definizione di “sfida terrorista” ma i moventi e le ideologie che vi si celano restano ignoti, come viene sottolineato in seguito: «Gli inquirenti sembrano convinti che il giudice sia detenuto a Genova, ma la natura delle “brigate rosse” resta misteriosa». Nell’articolo del 22 maggio «La sorte del giudice Mario Sossi non è stata svelata dai suoi rapitori» è riportato il punto di vista de l’Unità «L’Unità, organo del P.C.I. denuncia il fallimento di tutte le inchieste fatte per «smascherare e punire» le Brigate rosse e richiede che la «democrazia italiana si difenda da tutti gli attacchi e, in primo luogo, contro dei tali gesti criminali». Le linee utilizzate per definire i brigatisti si orientano intorno ad una definizione di criminalità, a volte di terrorismo, ma senza alcun riferimento al quadro ideologico che muove le loro azioni. Sulle reazioni provocate all’interno del potere giudiziario di cui tratta l’articolo del 14 maggio «Il caso Sossi accentua i dissensi all’interno della magistratura» il quotidiano tuttavia definisce una caratteristica brigatista quando scrive: […] si tratta della credibilità de la magistratura, e in particolar modo del ministero pubblico. Su questo punto, le Brigate rosse – qualunque sia il loro orientamento politico – hanno ottenuto una vittoria portando Mario Sossi, nelle sue lettere successive, a rinnegare il rigore delle sue proprie requisitorie e gettando dunque il dubbio su ciò che ispirava la sua interpretazione della legge. Si noti come l’orientamento politico delle Brigate Rosse resti incerto e come ingenerale si proceda a stenti e per piccoli passi alla definizione della loro identità. Un momento di sblocco può considerarsi postumo alla liberazione di Sossi in cui Le Monde giunge alle seguenti conclusioni: «Sossi è in buona salute; è dimagrito di cinque chili, ma la sua detenzione sembra essersi svolta in discrete condizioni. Poteva leggere i giornali e non ha mai avuto la sensazione che la sua vita potesse essere in pericolo». Si tratta di criminali cortesi, elemento ugualmente rintracciabile quando in cronista riporta le condizioni della liberazione del giudice: […] dopo aver fatto un viaggio in un furgoncino ed essersi svegliato dopo un lungo sonno provocato da una bevanda che gli era stata somministrata, Sossi si trovava in un luogo sconosciuto. Degli occhiali da sole nascondevano i suoi occhi bendati e aveva su di se un biglietto di prima classe per il tragitto Milano-Genova. […] Senza difficoltà il magistrato ha preso un taxi, si è recato alla stazione, è salito su treno ed è rientrato nella propria città. Il quotidiano scrive che i suoi rapitori hanno provveduto a fornirgli un biglietto di prima classe per il treno che gli avrebbe permesso di rientrare a casa: non si tratta di riflessioni esplicite, ma esse lasciano comunque trasparire un atteggiamento di stupore riguardo la condotta cavalleresca delle Brigate Rosse. Si consideri a questo proposito che le richieste del gruppo armato non erano state soddisfatte, o almeno lo erano state per una minima parte. É seguendo questo ragionamento che Le Monde si pone un interrogativo che trascende la mera cronaca: Per quale ragione le Brigate Rosse lo hanno liberato? Negli ultimi giorni, la situazione era sfociata in un’impasse totale, e ugualmente l’esecuzione del magistrato avrebbe avuto come solo effetto quello di provocare una reazione molto forte, che i rapitori certamente non si augurano. Si noti come vi sia la certezza che essi non siano sanguinari né crudeli. Le Monde prosegue nella sua ricerca: Durante la notte, l’ottavo comunicato delle Brigate rosse è stato trasmesso al Corriere della Sera per spiegare le ragioni della liberazione di Mario Sossi. La prima riguarda la decisione della corte d’appello di Genova che ha deciso di accordare la libertà provvisoria all’ottavo condannato del processo del 22 ottobre. La seconda motivazione apportata dalle Brigate rosse riguarda la volontà di «combattere fino alla fine». La conclusione del comunicato è la seguente: «Il significato strategico della nostra scelta è più chiaro che mai: la classe operaria prende il potere unicamente attraverso la lotta armata». Le Monde – a differenza di altri quotidiani, come ad esempio Le Figaro – non riporta la totalità del comunicato ma si limita a pubblicare singole frasi direttamente provenienti dal documento brigatista, commentando e deducendo. Lo scopo dei brigatisti, secondo Le Monde, è la strategia di lotta armata per il proletariato. Si tratta comunque di una consapevolezza ancora embrionale, con le zone d’ombra che prevalgono sulle conoscenze acquisite. Il ritratto dei terroristi è dunque qualcosa che resta nel vago, si comprende che la loro matrice è politica, si immagina un’appartenenza allo schieramento di sinistra ma molti sono i punti che rimangono in sospeso. In generale l’informazione è ben coperta con una presenza di 35 articoli su venti giorni; non vi sono mai prime pagine e gli articoli vengono presentati interamente nella sezione della cronaca internazionale. Questo elemento relativo alla posizione della notizia – che in analisi giornalistica risulta particolarmente indicativo dell’importanza che essa ha per l’opinione pubblica – sembra abbastanza naturale trattandosi effettivamente di cronaca estera: essa cambierà radicalmente durante il caso Moro – 55 giorni di detenzione – durante il quale la prima pagina sarà appannaggio della cronaca italiana. Siamo nel 1974, le BR si affacciano sul panorama politico italiano, gruppo terroristico che in quanto tale si serve della comunicazione in modo massiccio e importante. L’estremo della loro attività culminerà quattro anni dopo, nel 1978, allorché l’inasprirsi della lotta politica e sociale e più in generale un cambiamento del livello di tensione nella lotta armata porterà il gruppo a compiere un atto estremo: il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, l’allora presidente della Democrazia Cristiana. Anche in questo caso sarà necessario partire dal dato storico al fine di comprendere al meglio il trattamento che la stampa diede del caso.

3. Il caso Moro o «l’operazione Fritz»: l’apice delle Brigate Rosse.

3.1 Il dato storico: tra via Fani e via Caetani. La mattina del 16 marzo 1978 l’onorevole Aldo Moro, presidente del consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, si sta recando in Parlamento per assistere al voto di fiducia del IV governo Andreotti, formatosi l’11 marzo 1978. L’esecutivo – risultato di una tela tessuta congiuntamente da Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, segretario nazionale del Partito Comunista Italiano – è la sublime espressione delle convergenze parallele, e consiste in un governo monocolore con l’appoggio esterno dei comunisti, oltre che dei socialisti, dei repubblicani e dei socialdemocratici, entrato nella storia della Repubblica come compromesso storico25. Il ragionamento che porta alla necessità di creare un governo di solidarietà nazionale deriva dall’analisi dello stato di salute della società italiana, solcata dal disagio economico e dalla recrudescenza sociale. Quella stessa mattina del 16 marzo tra le 9.00 e le 9.15 in via Mario Fani a Roma un commando delle Brigate Rosse rapisce l’onorevole Aldo Moro e a colpi di mitragliatrice fa strage della sua scorta, composta da cinque uomini; l’azione è rapida e precisa, l’ostaggio non viene ferito ma caricato di una FIAT 125 e fatto sparire nel nulla. Ha inizio ciò che i terroristi preparavano da mesi: l’operazione Fritz. Il paese è sotto shock e la mobilitazione militare immediata con il dispiegamento di 6000 uomini delle forze dell’ordine lanciate in una massiccia caccia all’uomo. Perché le BR compiono un tale gesto? Moro appare ai loro occhi uno dei massimi responsabili delle ingiustizie e dei crimini commessi da quello che chiamano lo Stato Imperialista delle multinazionali, in qualità di protagonista della politica italiana da circa un ventennio. Per accertare le sue colpe nei confronti della classe proletaria, come capo e come rappresentante della DC, lo rinchiuderanno in una “prigione del popolo” sottoponendolo ad un processo ad opera del “tribunale del popolo”. Attraverso un’approfondita analisi dei loro documenti si possono rintracciare due tipologie di conseguenze che essi auspicavano; la prima era di natura strategica e in linea con l’attività propugnata fino a quel momento: la destabilizzazione dello Stato. La seconda era di natura ideologica: essi volevano ricevere lo status di interlocutori, anche se loro malgrado. Dichiara Moretti: Avremmo liberato Moro e si sarebbero spostati gli equilibri politici: chi, Pci o altri, avesse preso atto della nostra esistenza, avrebbe tentato un nostro recupero, un rientro, avrebbe fatto politica e rafforzato la sua contrattualità. Per avere un quadro generale del caso Moro occorre inoltre analizzare brevemente quali furono le posizioni incarnate ufficialmente dalle istituzioni. Fin dal principio infatti erano emersi due fronti: quello della fermezza, che niente avrebbe concesso ai terroristi, di cui facevano parte il PCI e la Democrazia Cristiana, e quello della trattativa, disposto a scendere a compromessi per il costo di una vita umana che comprendeva il Partito Socialista Italiano e il Vaticano. Ma quali furono le reazioni del fulcro di tale vicenda, del prigioniero Moro? Egli scrisse una grande quantità di materiale tra cui lettere, testamenti, promemoria e biglietti. Redasse 87 lettere, 27 furono recapitate di cui 16 destinate ad alte personalità politiche ed istituzionali. In questi scritti – mappatura della distribuzione del potere all’epoca – si trova tutto il tentativo di Moro di portare il suo partito ed il paese verso il fronte della trattativa. Salvarsi così la vita, «impedendo non in ultima analisi una frattura irreparabile nell’ethos della democrazia italiana». Purtroppo queste dichiarazioni scatenarono delle reazioni degli uomini di partito, i quali negarono alle parole di Moro prigioniero ogni validità etica e morale, ipotizzando uno stato psichico non attendibile. Le Brigate Rosse comunicano con l’esterno attraverso dei comunicati nei quali informano dello stato di salute di Moro e delle loro richieste. Il ritmo dei comunicati cadenza tutto il sequestro; si è arrivati al n° 6 quando il 15 aprile giunge una risoluzione che appare irremovibile «Aldo Moro è colpevole e viene perciò condannato a morte». Il subbuglio negli ambienti politici è massimo, l’opinione pubblica è sconcertata; il quotidiano italiano Il Messaggero riceve una telefonata che annuncia il luogo per il ritrovamento del comunicato n° 7. Secondo quest’ultimo, Moro sarebbe stato ucciso e il suo cadavere si troverebbe nei fondali del lago Duchessa, nella regione limitrofa a Roma. Vengono dispiegate migliaia di forze dell’ordine e sommozzatori ma dopo ore di ricerche del cadavere non v’è nessuna traccia. Si tratta di un comunicato falso, opera del magistrato Claudio Vitalone, scritto al fine di informare i terroristi che i servizi segreti erano in grado non solo di controllare le loro mosse, ma anche di occupare e manipolare i loro stessi canali mediatici. Il 20 aprile le BR fanno pervenire alla redazione di La Repubblica il vero comunicato n° 7 a cui è allegata una foto di Moro con in mano il quotidiano, ad indicare che egli è vivo, e all’interno del quale i brigatisti esplicitano il vero oggetto per salvare la vita di Moro: i tredici brigatisti detenuti e sotto processo nel tribunale di Torino. Va aggiunto al dato storico che contemporaneamente al periodo di detenzione dell’onorevole Moro, si sta svolgendo a Torino il processo contro i capi storici delle BR, tra cui vi sono Renato Curcio e Alberto Franceschini. I fili che da qui si dipanano sono incrociati, perché i brigatisti incarcerati rivendicano la responsabilità del rapimento Moro, creando notevoli problemi giuridici, e simmetricamente nella seconda parte del sequestro la richiesta dei brigatisti in libertà sarà di scarcerare quelli in prigione. La risposta ufficiale del governo è del 28 aprile, quando Andreotti in televisione comunica con fermezza il rifiuto delle istituzioni democratiche alla trattativa con i terroristi. Nonostante un ultimo appello della famiglia Moro il Governo mantiene la propria linea. Arriva il 5 maggio l’ultimo comunicato n° 9 dove si legge «Concludiamo […] la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato». Il 9 maggio 1978 sarà un giorno che cambierà per sempre il corso della storia italiana: in via Mario Caetani, a Roma vicino alle sedi della DC in Piazza del Gesù e del PCI in via delle Botteghe Oscure, viene ritrovato il cadavere dell’onorevole Aldo Moro, crivellato da undici colpi di mitragliatore nel bagagliaio di una Renault 4 rossa. Il paese sprofonda all’istante in uno stato di shock, le reazioni internazionali irradiano stupore misto ad orrore. La democrazia italiana non ha ceduto ai terroristi, ma lo ha fatto sacrificando la vita di un uomo30. Si svolgono dunque il 10 maggio i funerali privati a Torrita Tiberina; tre giorni più tardi piazza di San Giovanni in Laterano sarà invasa da una folla di comuni cittadini e presieduta da tutti gli uomini di potere per il rito funebre di Aldo Moro, senza salma e senza la presenza della famiglia.

3.2 L’analisi di Le Monde: chi sono le Brigate Rosse? La distribuzione della notizia sulle pagine di Le Monde risulta di primo impatto: su 55 giorni di sequestro 45 sono coperti dalla notizia sull’Italia, di cui 17 prime pagine. Rispetto alla copertura del caso Sossi la percentuale aumenta notevolmente, indice questo di un maggiore interesse verso la vicenda ma anche di una diversa portata del suo significato, non perché diverso il valore della vita dell’uomo in questione, ma perché con Moro entrano in gioco una serie di elementi che investono la totalità delle istituzioni del Paese e inoltre l’identità delle BR è, ad oggi, abbastanza chiara da poter far temere il peggio. La notizia del rapimento di Moro viene data in prima pagina, come articolo di testa in primo taglio. Le Monde rispetto ad altri quotidiani è piuttosto avaro di immagini; Le Figaro e Libération ad esempio pubblicheranno la foto che fece il giro dei quotidiani di tutto il mondo, quella del cadavere di Moro crivellato di colpi nel bagagliaio della Renault 4 in Via Fani mentre Le Monde si “limiterà” in questo caso a pubblicare un pezzo di solo testo, occupando però la quasi-totalità della prima pagina dell’edizione del 10 maggio 1978. Durante tutto il sequestro Moro, dal 16 marzo al 9 maggio 1978, le Brigate rosse stabilirono un contatto con il mondo attraverso i comunicati. In questo tipo di azioni il mezzo risulta fondamentale: il terrorismo si alimenta del rimbalzo dell’informazione spesso trattata in modo iperbolico e finzionale. Negli anni Settanta, in un’epoca non ancora multimediale, lo strumento cartaceo assume tutta la sua importanza e il mezzo attraverso il quale esso viene diffuso – la redazione giornalistica – si trova nell’occhio del ciclone della nostra analisi. I comunicati delle Brigate rosse seguivano un preciso iter: venivano nascosti dai “postini” Valerio Morucci e Adriana Faranda in luoghi pubblici, come cabine del telefono o cassonetti dell’immondizia, successivamente una telefonata informava uno o più redazioni di quotidiani sul luogo del ritrovamento. I comunicati, che spesso allegavano le lettere dello stesso Moro, in sostanza informavano governo e opinione pubblica sul corso del processo da parte del tribunale del popolo a cui il prigioniero era sottoposto e illustravano attraverso le analisi brigatiste quali fossero gli obiettivi che le stesse si propugnavano nell’ambito del loro progetto rivoluzionario. Il ritmo dei comunicati cadenza tutto il sequestro e di conseguenza tutta la produzione giornalistica che ad ogni ritrovamento, oltre a darne il fatto di cronaca forniva anche una serie di approfondimenti e riflessioni sulla vicenda e sui suoi protagonisti. Per seguire la linea che avevamo tracciato all’inizio dell’articolo ci concentreremo sulla questione dell’identità delle BR, elemento che, accanto ovviamente alla cronaca dei fatti, richiama l’attenzione ei giornalisti e degli osservatori. Due sono i fattori che concorrono alla discussione sulla loro identità quale si possono rintracciare le sfumature sfogliando le pagine dei quotidiani. Uno è il lungo calvario dei 55 giorni di sequestro che porta ad un progressivo aumento della percezione della crudeltà dei brigatisti, il secondo è l’apparente sdoppiamento dei terroristi presenti come carcerieri di Moro e contemporaneamente come “incarcerati” a Torino durante il processo al loro «primo gruppo». Questo apparente sdoppiamento dei terroristi crea una sorta di illusione ottica che spinge ad interrogarsi tra l’eventualità dell’esistenza di diverse brigate rosse o piuttosto un’evoluzione in corso all’interno dei quadri del movimento terrorista. Nel 1978 la stampa francese ha le idee abbastanza chiare su chi siano i brigatisti. Si conoscono il loro orientamento politico, la loro modalità d’azione, si conoscono i loro fini e scopi. Ma con il rapimento Moro, le BR realizzano un’azione spettacolare, di cui nessuno le avrebbe mai ritenute capaci. Vi sono dunque dei nuovi elementi che la stampa, l’opinione pubblica e la classe politica non hanno l’abitudine ad affiancare alle BR: ad esempio la scoperta di un’impressionante competenza nelle armi, elemento risultato dalla perfezione criminale dell’attentato, che farà nascere l’ipotesi di trovarsi di fronte a dei killer professionisti. Immediatamente Le Monde mostra un’approfondita conoscenza delle Brigate Rosse. All’indomani del rapimento di Moro, il quotidiano dà alle stampe un articolo monografico sulle BR altamente informativo: vi sono riferimenti ai processi in corso e l’individuazione di Curcio come capo dell’organizzazione è immediata. Le BR sono « un mouvement d’extrême gauche, partisan de l’action violente »31. Esse sono precisamente inquadrate e rapidamente viene compresa la loro pericolosità, più velocemente rispetto ad altri quotidiani, come ad esempio Le Figaro o Libération. Dalla penna di Robert Solé, alla data del 1 aprile scaturisce un’efficacie riassunto della situazione in Italia: Gli italiani sono alle prese con un nemico imprendibile in tutti i sensi. È riuscito a scappare alla più formidabile caccia all’uomo che questo paese – così poco poliziesco – ha mai conosciuto dopo la fine della guerra. D’altra parte, i suoi reali obiettivi sfuggono a tutti colo che vi riflettono con attenzione. Le brigate rosse sono, effettivamente, completamente scollegate dalla realtà. Esse invocano un «popolo» che le ignora, si identificano con un «proletariato» che le rigetta. Ma si mostrano anche estremamente efficaci sia nella strategia delle armi che in quella della tensione…una «follia lucida» si dice a Roma. Il riconoscimento della pericolosità delle BR è un tema al quale Le Monde dedica parecchio spazio, ovviamente specificando che ammettere la loro forza non significa né legittimarle tantomeno assolverle. Se Le Figaro ha in un primo momento definito la loro sceneggiatura come «banale», Le Monde non sottovaluta mai il loro potere, fino ad interrogarsi se esse siano «Les maîtres du jeu»: Nelle incertezze e nella confusione italiana si impone un dato evidente: le Brigate rosse stanno riuscendo, ben oltre le loro aspettative, nella loro impresa. Di fronte allo Stato, questo «contro-Stato selvaggio» di qualche fuorilegge ha raggiunto i propri obiettivi. Il suo nemico si discredita e si sgretola ogni giorno di più. Il dibattito di ordine «umanitario» per salvare la vita di Aldo Moro […] è in fondo un notevole successo del terrorismo. I ritratti delle BR forniti da Solé e Franceschini con i loro articoli hanno la precisione e l’esattezza di una biografia storica. Viene ripercorsa più volte nei particolari la storia del gruppo terrorista, si informa sul loro scopo iniziale di «costruire un’avanguardia proletaria armata per favorire il potere rivoluzionario delle classi oppresse che lottano contro il sistema»34. Indicativo è il titolo dell’articolo: «Delle brigate d’un rosso sospetto». I particolari seguono, viene ripercorsa la loro “carriera” riportando la svolta del ’74 con il relativo rapimento del giudice Sossi e la scalata verso l’attacco al cuore dello Stato. Rispetto ad altri quotidiani Le Monde cerca di scendere in profondità lasciandosi prendere dalla tesi, molto inflazionata in quel periodo, di una possibile influenza sul gruppo terroristico delle azioni di CIA o del KGB; nell’articolo dall’indicativo titolo «Manipolati? E da chi?» Le Monde porta un’ipotesi, palesa un’esitazione alla quale Solé adduce due argomentazioni: esse compiono delle azioni per la cui riuscita si necessita di precise informazioni, e spesso le loro azioni sortiscono l’effetto contrario a quello desiderato. Le BR mostrano certo le contraddizioni del regime ma «[…] le masse non seguono affatto la loro “avanguardia”». Le Monde prosegue: Molti uomini politici ne deducono che queste Brigate di un rosso sospetto sono contemporaneamente supportate e manipolate. E aggiungono: da servizi segreti stranieri […] Nelle conversazioni, oltre all’inevitabile CIA, si citano volentieri alcuni paesi dell’Est, come la Cecoslovacchia...Si tratta di un dubbio legittimo che Le Monde lascia in sospeso, siglando l’articolo con un sibillino «[…] resta ancora da provarlo». L’analisi scende nel particolare delle reazioni dell’opinione pubblica, dove, il ricorso alla violenza riduce gli spazi di simpatia diffusi soprattutto negli ambienti di estrema sinistra. Il quotidiano scrive: Invece di minare l’ultra-revisionismo di Berlinguer, le loro azioni spingono senza sosta il partito comunista verso il potere. Le istituzioni sono senza dubbio screditate, appaiono certamente alcune contraddizioni dello Stato, ma le masse non seguono affatto la loro [delle Brigate Rosse] «avanguardia»: al contrario si mobilitano contro la violenza […]. Le Brigate Rosse sperano forse di attaccare il forte potere di Roma provocando delle reazioni a catena fino al sollevamento popolare? Nulla di tutto ciò si è ancora verificato […] ogni volta che un corpo è crivellato da pallottole, i terroristi si allontanano un po’ di più dalla popolazione. Le Monde coglie il moto di base della reazione dell’opinione pubblica, che a prescindere dall’oggetto della contestazione reagisce togliendo supporto alla causa perché perpetrata con la violenza. Il 24 marzo l’ex sindaco della città di Torino, democristiano, Domenico Piantone subisce un attentato. L’evento conduce Le Monde verso un disarmante interrogativo: «Esistono diverse Brigate rosse?». La vittima viene ferita, non si comprende se lo scopo degli attentatori è stato raggiunto o se essi avrebbero voluto ucciderlo. Ciò porta Robert Solé a scrivere: «Questa nuova sparatoria pone varie questioni. Si tratta di un ritorno alla strategia precedente che puntava delle personalità d’importanza secondaria e consisteva, una volta su due, a intimidire senza uccidere?». Secondo i responsabili della DC, il fine degli attentatori era però quello di uccidere. Le Monde conclude dunque: Sono dunque di un tutt’altro livello «tecnico» rispetto a chi ha massacrato la scorta armata di Aldo Moro senza ferire, apparentemente, il presidente della DC. Anche se i due attentati rientrano all’interno della medesima strategia della «guerra civile anti-imperialista», nella quale si arrivare a domandarsi se non esistano diverse «Brigate rosse». La rabbia con la quale i dirigenti «storici» dell’organizzazione, sotto processo a Torino, rivendicano ogni attentato, la loro caparbia nel dimostrare ad ogni costo l’unità delle Brigate rosse, sono sospette. L’interrogativo che si pone Le Monde è analogo a quello di Le Figaro, le spiegazioni offerte però, differiscono. Per Le Monde l’ipotesi di una doppia esistenza potrebbe essere legata ad una differente competenza e padronanza della tattica criminale, da un lato killer professionisti che polverizzano una scorta, dall’altro goffi tiratori che gambizzano piuttosto che uccidere. Giungiamo all’epilogo del sequestro e Le Monde annuncia la notizia contenendo il suo stupore e spiazzamento rispetto all’atroce gesto compiuto dalle BR. Questo è ovviamente condannato, ma avendo il quotidiano inquadrato con più precisione la pericolosità dell’argomentazione non mostra eccessivo stupore davanti il crimine. Le Monde a mezzo di un editoriale del direttore Jacques Fauvet dal titolo particolarmente emblematico «Illegittima demenza »44 si indigna addirittura verso coloro che sono stati presi alla sprovvista dal crimine. «L’assassinio di Aldo Moro ha sorpreso soltanto gli ingenui e gli ottimisti impenitenti: l’Italia non ha vissuto per cinquantaquattro giorni un qualunque scherzo di studenti, ma un dramma sanguinario proveniente dal fanatismo più assoluto »45. Il direttore del giornale sottolinea l’evidenza dell’agguato di via Fani, che a suo avviso avrebbe mostrato sufficientemente la pericolosità del gruppo armato. L’epilogo del caso non deve far dimenticare che i commandos delle Brigate rosse avevano ucciso a sangue freddo le cinque guardie del corpo del presidente della Democrazia Cristiana per impossessarsi dell’ostaggio: fin dall’inizio avevano palesato il loro istinto di morte: lo hanno confermato anche durante la detenzione di Aldo Moro aggiungendo altre vittime al loro sinistro quadro di caccia. La loro crudeltà era dunque qualcosa di chiaro fin dall’inizio. Quando Fauvet parla nel suo articolo di illegittima demenza si riferisce ad uno stato che, seppure fuori dalle forme di pensiero delle persone “usuali”, non può essere scusato neanche attraverso la disperazione. Si riferisce alla diabolica sceneggiatura montata dalle BR che mostra «[...] non il prodotto dell’immaginazione di qualche giovane perduto, deluso, alla ricerca di un ideale, ma delle menti profondamente perversi, dei maniaci della politica allo stato peggiore »47. Anche Le Monde, rintraccia i segni di una logica altra, una logica sanguinaria. In un articolo di Robert Escarpit, egli individua il loro modus operandi ispirato in «Un culto perverso della personalità »48. Il cronista motiva: «Rapendo, torturando, massacrando degli individui o giocandoci come degli ostaggi, hanno rivelato la loro vera natura nella misura in cui pensavano influenzare in questo modo il destino dei popoli». Le Monde cerca di scendere nei meandri della buia e oscura logica che spinge i terroristi a compiere crimini efferati, e se durante il caso Moro, articoli sullo stesso tema presentavano un tono meno drammatico, ora a disastro avvenuto prendono tinte più fosche, più accese. L’importante, per Le Monde è scongiurare quella tendenza a considerare i brigatisti come degli ingenui, degli insoddisfatti, dei disperati: questo atteggiamento equivarrebbe a sottovalutare la loro vera forza, ossia non solo quella di essere gente senza scrupoli, ma di avere un piano ben preciso e soprattutto motivato anche se la legittimazione gli viene da loro stessi. Escarpit prosegue nella sua analisi: «Tutte le azioni, anche le più orribili, mostrano una profonda coerenza che esclude le improvvisazioni del cieco fanatismo». Giunge per Le Monde la condanna circa gli effetti nulli della campagna delle Brigate Rosse. Con il loro operato, afferma Escarpit, esse non giungeranno ai cambiamenti da loro auspicati: «[…] nessuno è indispensabile, e qualunque sia l’importanza politica della loro vittima, questi assassini che non rischiano neanche la pena di morte vogliono ignorare ciò che ogni terrorista sa: quando un uomo cade, un altro uomo esce dall’ombra e lo rimpiazza».

Per citare l'articolo. Eleonora Marzi, «Le Brigate Rosse e i quotidiani francesi dal caso Sossi alla tragedia Moro», 3/05/2017, su “Revues.univ-tlse2.fr”

I 55 GIORNI DI MORO CHE CAMBIARONO LA STORIA D’ITALIA.

Sequestro Moro: perché le prime ricerche fallirono. Tra riforma dei Servizi, trasferimento di uomini-chiave e mancato coordinamento passarono i primi 15 giorni. Tra gli errori anche quello di un supercomputer del Viminale, scrive Edoardo Frittoli il 13 aprile 2018 su "Panorama". Il rapimento di Aldo Moro aveva colto i Servizi Segreti italiani mentre si trovavano in una terra di nessuno: una fase transitoria e di completa trasformazione. La sensazione che la risposta delle Autorità all'azione brigatista fosse inefficace montò rapidamente in Italia già una decina di giorni dopo la strage di via Fani. Ma ciò che lascia maggiormente perplessi rileggendo le cronache di 40 anni fa è che tutto quello che fu costruito per combattere il terrorismo in quasi un decennio di strategia della tensione era stato decisamente indebolito in quella cruciale primavera del 1978. Il motivo della transizione era dovuto alla riforma dei Servizi, che prevedeva un vero e proprio smantellamento degli organismi precedenti e la formazione dell'UCIGOS (Ufficio Centrale per le Investigazioni Generali e per le Operazioni Speciali).

La situazione dei Servizi Segreti. Poco prima del rapimento di Moro diversi funzionari chiave dell'ex Sisde erano stati trasferiti ad altri incarichi. Si trattava di dirigenti molto attivi nell'antiterrorismo sin dalla strage di Piazza Fontana. Uno di loro, Guglielmo Carlucci (ex vicecapo del Sisde) si trovava in Questura a Milano la sera della morte di Pinelli. Si diceva sapesse ogni dettaglio sull'organico delle Br, tuttavia allo scioglimento del Servizio era stato assegnato alla Criminalpol. Il 10 gennaio 1978 era stato trucidato a Torino proprio dai brigatisti rossi il Maresciallo Rosario Berardi, uno dei massimi esperti dell'eversione terrorista, mentre il suo collaboratore più stretto Giorgio Criscuolo era stato inviato in un commissariato di provincia, proprio come il suo collega toscano Giuseppe Joele. Nel 1974, anno del rapimento di Mario Sossi era stato istituito proprio per l'emergenza terrorismo l'SdS (voluto dallo stesso Cossiga) con funzioni soprattutto operative, mentre il nuovo Ucigos avrebbe avuto funzione squisitamente informativa, quindi meno "sul campo". Da questo sostanziale caos nella storia dei Servizi Segreti partirono le prime ricerche della prigione di Moro, coordinate da un Consiglio di Sicurezza permanente con sede al Viminale e presieduto dal Ministro Cossiga.

Cervelli umani. Cossiga e il Consiglio di Sicurezza. Si trattava nella pratica un centro di raccolta delle informazioni convogliate da tutti gli organi di Pubblica Sicurezza, che si riuniva due volte al giorno. Ne facevano parte anche politici come il democristiano Nicola Lettieri (Sottosegretario agli Interni) e il compagno di partito Francesco Mazzola, nuovo in tale ruolo in quanto nominato il giorno stesso della strage di via Fani. Oltre al capo del Sisde prossimo alla riforma, nel consiglio sedeva anche il Generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che aveva allora l'incarico di responsabile della sicurezza nelle carceri italiane. Il nuovo Ucigos era rappresentato da un uomo di fiducia di Cossiga, Antonio Fariello. Sedevano al tavolo infine i comandanti di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza.

Fuori, il caos. Il numero del Viminale, l'ondata di perquisizioni a vuoto. Mentre si susseguivano i briefing del Consiglio del Viminale, Roma era nel panico. Si parlava continuamente di possibili attentati ai Ministeri, vi erano continui allarmi Nato nelle caserme, si temeva ancora il colpo di Stato. E quel che sembrava peggio era che, con il passare dei giorni, l'iniziale solidarietà degli italiani uniti nella difesa della democrazia stesse cedendo il passo alla rassegnazione e ancor peggio alla sfiducia nelle Forze dell'Ordine. Cossiga si era ispirato ai tedeschi nell'organizzazione delle ricerche e nella strategia di intervento. Questo perché nel 1977 si era consumato un rapimento che in pratica era la fotocopia di via Fani. I terroristi rossi della RAF avevano sequestrato il capo della Confindustria della Germania Ovest Hanns-Martin Schleyer utilizzando la tecnica del "cancelletto" dopo aver neutralizzato la scorta dell'industriale tedesco, azione replicata esattamente dalle Br in via Fani. Il Viminale prese contatti anche con uno psicologo che aveva partecipato alle operazioni di ricerca di Schleyer, Wolfgang Salewski, e istituì una linea telefonica per la raccolta di segnalazioni anonime (lo 06/4756989). Il numero fu tempestato di chiamate spesso di mitomani, medium, veggenti e parapsicologi. Con il passare del tempo la linea squillò sempre meno, così come si stese gradualmente il silenzio sulla localizzazione della prigione di Moro. Ma il peggio agli occhi dei cittadini lo offrirono le sortite isteriche delle Forze dell'Ordine. La prima e forse la più grottesca fu l'arresto la sera stessa del 16 aprile 1978 di un funzionario di banca tesserato Dc, Franco Moreno, accusato di essere un fiancheggiatore delle Br. Passò kafkianamente quattro giorni recluso a Regina Coeli con l'accusa di "omicidio plurimo e sequestro di persona" prima di essere rilasciato immediatamente al primo interrogatorio. Nei giorni successivi al rapimento del segretario Dc, Roma fu un fischiare continuo di sirene che uscivano giorno e notte dai commissariati coordinati dalla Questura di Roma San Vitale, che si erano concentrate nei primi giorni di ricerche nella zona di Monte Mario, nei pressi dell'abitazione della famiglia Moro. In totale le perquisizioni fino al 3 aprile 1978 saranno ben 233, i fermi 129 e 42gli arresti, tutti senza esito. Molti degli obiettivi indicati dagli inquirenti erano palesemente fuori bersaglio: il nervosismo e la fretta avevano portato la Questura a fare irruzione persino nella libreria alternativa di Roma "L'Uscita" (letteralmente devastata) e nelle sedi delle radio libere. Non andò meglio ai Carabinieri in mancanza di coordinamento con la Polizia di Stato nonostante l'impiego di uomini che negli anni precedenti e sotto la guida di Dalla Chiesa avevano portato all'arresto di Curcio e Franceschini.

Cervelli artificiali: gli errori del supercomputer della Questura. Se le menti umane brancolavano nel buio, non andò diversamente per l'intelligenza artificiale, vale a dire quella del supercomputer installato negli uffici di PS di Castro Pretorio e fortemente voluto da Cossiga. Il primordiale cervellone elettronico avrebbe dovuto incrociare i dati di 10 milioni di schede personali raccolte dai vari organi di Polizia. Fu un flop clamoroso, perché il computer indicò come responso finale 20 possibili autori del rapimento Moro. L'errore fu subito chiaro in quanto molti dei terroristi presunti si trovavano già in carcere (e in molti casi per reati comuni), uno compariva due volte con due nomi e due foto diverse. La tensione crescente per l'impasse nelle ricerche generò screzi tra il Viminale e le Forze dell'ordine da questo coordinate, con accuse reciproche di ritardi nell'organizzazione dei posti di blocco a cui si replicava con la mancata coordinazione strategica e con la carenza cronica di uomini e mezzi. I sindacati delle Forze dell'Ordine avevano denunciato all'indomani di via Fani il proprio malessere per la carenza di almeno 13.000 agenti. Quelli in servizio si sentivano allo sbaraglio, avevano la sensazione di rispondere ad ordini inefficaci e talvolta contradditori. Mancavano armi e munizioni e la sicurezza non era garantita, come aveva dimostrato la mancata dotazione alla scorta di Moro di auto blindate e giubbotti antiproiettile. In questo momento difficile Francesco Cossiga si chiuse nel riserbo più assoluto, cosa che fece irritare non poco l'opinione pubblica a cui fece eco Sandro Pertini, che più volte aveva punzecchiato il Ministro degli Interni per l'inefficienza strutturale dei Servizi e delle Forze dell'Ordine.

I militari intervengono. Inefficienza di un Esercito di soldati di leva. L'ultima decisione presa dal Viminale nei primi 15 giorni di prigionia di Moro fu quella di coinvolgere l'Esercito. Non andò meglio, nonostante Cossiga avesse dovuto trattare per due giorni con i vertici della Difesa. I militari italiani non avevano un piano di intervento antiterrorismo aggiornato, essendosi fermati alle ultime disposizioni operative risalenti al golpe Borghese del 1970.

Erano stati ai margini durante gli anni della strategia della tensione.  Il ritardo si palesò immediatamente anche perchè l'Esercito Italiano era ancora pressochè totalmente formato da militari in servizio di leva, che furono richiamati in numero di 1,200 per l'operazione dal nome altisonante di "Cintura di Ferro". Uscirono dalle caserme romane i mezzi e gli uomini dei Granatieri di Sardegna, i Bersaglieri e gli Artificieri da Civitavecchia mentre l'unico corpo speciale era rappresentato da un nucleo di Incursori di Marina trasferiti da La Spezia. I soldati di leva furono portati nelle strade ad istituire posti di blocco con vecchi fucili Beretta mod.59 (il Fal) e vetusti Garand tra le lamentele degli ufficiali di carriera che potevano misurare con mano tutta l'inadeguatezza degli organici dell'Esercito. Una situazione ben diversa da quella tedesca a cui si era ispirato il Ministero degli Interni, e lo si era capito dall'azione delle squadre speciali GSG-9, le teste di cuoio entrate in azione a Mogadiscio per la liberazione degli 86 ostaggi del volo Lufthansa dirottato dai terroristi come appendice del tragico rapimento Schleyer.

Il silenzio di Cossiga. Tra le maglie dei posti di blocco e dei rastrellamenti senza coordinamento, le Br furono in grado di lasciare impunite il comunicato n.2 nelle principali città italiane. Parole di sfida dei carcerieri di Aldo Moro che di lì a poco avrebbero fatto recapitare anche una lettera indirizzata a Cossiga. Parole siglate con la stella a cinque punte a cui si era contrapposto il cupo silenzio del Ministro, uomo normalmente incline alle esternazioni.

Sequestro Moro e BR: "Panorama" e il numero speciale dopo via Fani. Come il settimanale ha analizzato i fatti dopo il rapimento. Parlano Pertini e i think tank americani. Si rilegge la storia dell'escalation delle Br, scrive Edoardo Frittoli il 30 marzo 2018 su "Panorama". Il numero speciale di Panorama esce nelle edicole il 21 marzo 1978, a 5 giorni dalla strage di via Fani. Il direttore è Lamberto Sechi, firma l'editoriale Giuliano Amato.

Le "voci della strada" il giorno della Strage di via Fani. Stefano Benni, che nello 1978 curava la rubrica "opinioni per la Tv" su Panorama, fa rivivere ai lettori i momenti che accompagnarono uno dei giorni più drammatici della vita della Repubblica Italiana. Voci dal mercato, drappelli nei bar davanti alle televisioni poco dopo la prima diffusione della notizia da parte di radio e televisione. Benni ci lascia la testimonianza delle voci, delle imprecazioni, delle provocazioni e in generale dello sgomento e del terrore che il rapimento di Aldo Moro, (che molti ormai consideravano il prossimo Presidente della Repubblica) aveva pervaso gli Italiani. Squillano i telefoni delle radio "libere": le voci gracchiano notizie false tipo "è vero che hanno ucciso i figli di Moro"?  ma anche "Giustizia proletaria è fatta". Alle 10 la Rai manda le prime immagini che Benni guarda in un bar dove il silenzio e l'emozione sono rotte dalle parole di un anziano: "Quando hanno sparato a Togliatti non c'erano tutte queste cose qui…". Fuori dal bar un uomo dice di essere spaventato perché abita sopra una sezione del Pci. Un altro vuole andare a casa a vedere "la Tv Svizzera, per sapere la verità". La diffusione della notizia, quarant'anni prima di Twitter, avviene con ogni mezzo. Anche un sorpasso tra camionisti può funzionare, come raccontato da un trasportatore dell'ortomercato. Quindi al brusio continuo si sovrappone il gracchio di un altoparlante di una macchina del Pci che invita alla mobilitazione immediata dei cittadini, nel nome della solidarietà nazionale. Mentre passano le drammatiche immagini dell'Alfetta della scorta di Moro crivellata di colpi, c'è lo spazio anche per qualche frase cinica per esorcizzare la paura: "scommettiamo che stasera in tv salta anche Scommettiamo". Allora è davvero "la fine del mondo" è la risposta.

Parla Pertini. Tutto nasce da una frase pronunciata da Ugo La Malfa poco dopo la strage di via Fani: "siamo in guerra". E la guerra era proprio ciò che le Br volevano che lo Stato riconoscesse, argomento chiave del primo comunicato dal rapimento Moro. Il leader repubblicano è spinto dall'angoscia quando comincia a parlare di Tribunali Speciali, pena di morte, stato di emergenza nazionale. Gli risponderà Sandro Pertini, che aveva conosciuto le carceri del ventennio e le leggi speciali di Mussolini, intervistato da Panorama. Il futuro Presidente della Repubblica e ex Presidente della Camera è naturalmente molto ferrato sull'argomento: Più che di "guerra", come paventava La Malfa, Pertini parla una di guerriglia brigatista descrivendo l'azione intrapresa dai terroristi. E sa bene per esperienza che la guerriglia può far male, molto male. Era quella unica forma di lotta possibile che il partigiano Pertini combattè fino al 1945, sconfiggendo alla fine lo Stato fascista. Da uomo delle istituzioni democratiche se la prende con i Servizi segreti italiani, a suo avviso inefficienti nel prevenire l'agguato e il rapimento del Presidente Dc. Il futuro Capo dello Stato dichiara la propria convinzione che dietro all'azione vi sia una mente antidemocratica, che vorrebbe far tornare indietro di 50 anni l'Italia. Nel 1972 ebbe a scontrarsi con Francesco Cossiga proprio sull'argomento. Il tono si fa quindi duro quando Pertini esprime la convinzione che la centrale del terrorismo sia all'estero, in qualche punto nevralgico parte di una rete internazionale. Per questo "bacchetta" Cossiga, allora Ministro degli Interni per l'inefficienza nelle ricerche del covo dove Moro è nascosto. E' pessimista, ma non abbattuto il leader socialista: ancora una volta il suo sguardo volge indietro al delitto Matteotti, quando "il delitto vinse come arma politica". Ma nel marzo 1978, dice Pertini, la situazione è molto diversa. Nessuno si era ritirato sull'Aventino. Lo sciopero di massa seguito alla strage di via Fani era un segnale della presenza del Paese, da non sottovalutare e da non abbandonare a sé stessa. La responsabilità della fiducia al governo Andreotti (pur con tutte le lacune che Pertini tiene a sottolineare) significa una risposta forte dello Stato contro le armi delle Br. Che a Pertini rievocano molti fantasmi del passato.

Il punto di vista di Botteghe Oscure. E' affidata alla parola del deputato milanese Giovanni Cervetti (1933) la reazione del Partito Comunista Italiano alla strage di via Fani. Cervetti è membro della Segreteria Nazionale del partito dal 1975 dopo essere stato segretario della Federazione milanese del Pci. La sede nazionale del partito di Botteghe Oscure è tra le organizzazioni che per prime si muovono nelle immediate circostanze del rapimento di Moro costato la vita ai 5 uomini della scorta, facendo scattare l'"operazione periferia" cioè l'ordine di mobilitazione dei consigli di fabbrica attraverso una rete di circa 150 sedi decentrate tra Provincia e Regione. Il punto di vista dei comunisti emerge immediatamente e si può sintetizzare dalle parole di Cervetti come l'esito di un'azione delle forze reazionarie internazionali nella scia inaugurata nel 1969 con la strage di Piazza Fontana e proseguita nella "strategia della tensione". Il colpo di acceleratore dell'azione terroristica nel caso del rapimento Moro, secondo i dirigenti del Pci, sarebbe stato causato proprio dalla crescita elettorale inaugurata dalle politiche del 1976 e proseguita nell'avvicinamento alla Dc voluto e promosso dallo stesso Presidente democristiano. Nessun intervento esterno da parte di Mosca, che non avrebbe avuto motivo di colpire le istituzioni italiane nel momento di massimo favore di un partito membro dell'Internazionale comunista. Dall'intervista non emerge immediatamente la futura linea della fermezza che caratterizzerà la posizione del Pci di Enrico Berlinguer lungo i 55 drammatici giorni della prigionia di Moro. A poche ore dal rapimento le parole di Cervetti riecheggiano ancora un linguaggio "sinistrese": il ruolo primario del Pci di fronte all'attacco al cuore dello Stato avrebbe dovuto essere quello di organizzare "un grande contatto di massa del partito alimentando costantemente la discussione sulle radici e le azioni del terrorismo".

Visto dagli Stati Uniti. La parola ai think tank americani della Rand Corporation di Los Angeles: risponde alle domande di "Panorama" Brian Jenkins, uno dei massimi esperti di terrorismo internazionale. Sull'addestramento militare del commando di via Fani Jenkins allontana subito ogni ipotesi di coinvolgimento dei Servizi delle due grandi potenze della Guerra Fredda. Nè CIA nè KGB, forse i Palestinesi. Anche perché ci sarebbe il precedente dei terroristi tedeschi del gruppo Baader Meinhof (poi RAF) addestrati dai Palestinesi e autori dell'attacco al villaggio olimpico di Monaco di Baviera nel 1972. Gli esperti americani non escludono neppure la possibilità di un intervento dei Nordcoreani nell'appoggio logistico alle operazioni dei terroristi rossi in Europa. Se Jenkins e Robert Kupperman (esperto di terrorismo e consigliere dell'Us Arms Control and Disarmament Strategy) si dicono convinti del non coinvolgimento dei Servizi Segreti americani nel caso Moro, altrettanto ritengono per quanto riguarda una ipotetica azione del Kgb, condivisa da parte dell'opinione pubblica di destra in Italia, in funzione di contrasto all'"eurocomunismo" del Pci di Berlinguer. Secondo gli studiosi californiani l'Italia del 1978 sarebbe stata molto lontana dal Cile di Allende di 5 anni prima: quindi niente implicazioni delle grandi potenze. E in chiusura di intervista una dichiarazione non poco inquietante, se letta 40 anni dopo e se inquadrata nelle primissime ore che seguirono il rapimento di una delle figure più importanti della politica italiana del dopoguerra. "D'altra parte- dichiarava Michael Ledeen (consigliere di Kissinger) è difficile ipotizzare che atti come l'operazione Moro possano provocare svolte determinanti nella politica italiana". Ma per ammissione stessa degli esperti americani, le Brigate rosse erano state attentamente studiate negli ultimi mesi come uno dei 53 gruppi terroristici da prendere in seria considerazione, anche per i suoi possibili legami internazionali. Ma solamente con altre organizzazioni terroristiche internazionali: impermeabili ai Servizi occidentali.

Un legame con i "compagni" tedeschi? Quando Moro viene rapito, le Brigate rosse sono già entrate in una seconda fase organizzativa, quella successiva a Curcio e Franceschini già in carcere dal settembre 1974, rappresentata dalla leadership strategica di Mario Moretti. La prova dell'esistenza di legami con i terroristi tedeschi della Baader-Meinhof era emersa alla scoperta del covo di Robbiano di Mediglia (a pochi chilometri a Est di Milano) il 15 ottobre 1974 in seguito allo scontro a fuoco che costò la vita al Maresciallo dei Carabinieri Felice Maritano. In un opuscolo in tedesco appariva la foto di Pietro Bertolazzi, uno dei capi storici delle Br. Segno che qualcosa stava cambiando nelle relazioni dei terroristi rossi, e che la diffidenza dovuta alla prima impostazione leninista e operaista dei vecchi capi stava cedendo il passo ad una idea di internazionale del terrorismo che avrebbe prediletto l'azione di piccoli nuclei di guerriglieri al posto della grande sollevazione delle masse proletarie. Le azioni dei "Tupamaros" italiani furono forse lette in una chiave sbagliata, specie nel caso dell'azione più importante dopo via Fani, il rapimento del Procuratore Generale Mario Sossi. L'azione terminata con il rilascio dell'ostaggio dopo un "processo" non sarebbe tanto servito ad ottenere il rilascio dei terroristi del gruppo XXII ottobre, bensì a testare la reazione degli organi dello Stato prima di sferrare il "colpo al cuore" del 16 marzo 1978. Pochi giorni dopo Sossi i brigasti alzavano il tiro e uccidevano per la prima volta due militanti nella sede del Msi di Padova, provando in questo caso l'efficacia delle armi. Secondo il pm Emilio Alessandrini, che morirà nel 1979 sotto il piombo di Prima Linea, le Br della seconda generazione erano molto pericolose perché dotate di una rete capillare di "irregolari" ben coperti e difficilmente individuabili in grado di colpire rapidamente dappertutto. In questo nuovo corso, la Raf (Rote Armee Fraktion) tedesca era indubbiamente il modello di riferimento. Tornando al manuale ritrovato a Robbiano di Mediglia, si nota come diversi contenuti si ritrovino poi nel comunicato n.1 seguito di due giorni al rapimento di Aldo Moro: la centralità della Dc come obiettivo da colpire e l'analisi della storia dei partito da De Gasperi in poi. Esiste tra le righe dell'opuscolo il riferimento all'internazionalismo della lotta armata contro quella che i brigatisti considerano allo stesso modo un'organizzazione di potere transnazionale: Lo Stato Imperialista delle Multinazionali (SIM) citato poi continuamente nei comunicati redatti nel corso dei 55 giorni del sequestro Moro. Qualcuno parla di legami con le frange più oscure del terrorismo arabo-palestinese in un momento di grave tensione del Medio Oriente. Qualcuno invece, come l'avvocato esperto di terrorismo Giannino Guiso, parla addirittura di preparazione sotterranea alla terza guerra mondiale.

Banda Baader-Meinhof. Le idee, le bombe, i suicidi, “sospetti”. Nel 1968 in Germania si forma il gruppo terroristico Raf. E scoppia l’autunno caldo, scrive Paolo Delgado l'8 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Li chiamavano “Banda Baader- Meinhof” e i media tedeschi li definivano comunemente “anarchici”, oltre che naturalmente “terroristi”. In realtà il nome che si erano dati era Raf, Rote Armee Fraktion, Frazione dell’armata rossa, ed erano comunisti con forte venatura terzomondista. Per sconfiggerli, lo Stato varò leggi eccezionali infinitamente più dure di quelle adoperate in Italia contro le Br. Calpestò ogni diritto, umano e civile. Fu il momento più tragico della storia della Germania ovest nel dopoguerra: “l’autunno tedesco”. Bettina Rohl, figlia di Ulrike Meinhof, una delle più famose esponenti del gruppo, ha segnalato in una recente intervista quanto, secondo lei, la separazione dei genitori sia stata determinante nella scelta estrema di sua madre. Materiale sufficiente per consentire qualche titolo a effetto sul terrorismo tedesco derivato dalle sofferenze private di Ulrike, giornalista molto nota negli anni 60. In realtà neppure Bettina Rohl accenna una tesi così balzana. Si limita ad affermare che il “tradimento” di suo padre Klaus Rohl, direttore della rivista radicale tedesca Konkret, la stessa dove aveva a lungo lavorato Ulrike, avesse fatto vacillare l’equilibrio mentale della madre, spingendola nelle braccia dell’Armata rossa. È anche questa una forzatura. Iscritta al Partito comunista illegale sin dal 1959, poi redattrice di punta dell’infiammata Konkret, Ulrike Menhoif era sempre stata schierata su posizioni molto estreme. E’ possibile che l’abbandono da parte di Rohl abbia pesato sulla sua decisione, ma certamente fu più determinate la situazione che si era creata in Germania ovest alla fine degli anni 60. Lo stesso clima incandescente che aveva portato alla nascita della Raf, gruppo armato longevo il cui scioglimento fu annunciato solo nel 1998, con numerosi attentati spettacolari all’attivo e un bilancio di sangue pesante: 33 vittime, oltre 200 feriti. Più una sfilza impressionante di suicidi, su molti dei quali non hanno mai smesso di aleggiare sospetti di omicidio camuffato, tra cui quello della stessa Ulrike Meinhof. Il ‘ 68 tedesco inizia in realtà il 2 giugno 1967. Quel giorno, nel corso delle manifestazioni contro la visita dello Scià di Persia, uno studente di 27 anni, Benno Ohnesorg fu ucciso da un poliziotto a Berlino. La situazione era già tesa di per sé. Per la prima volta era al governo una Grosse Koalition e i già esigui spazi d’opposizione, con il partito comunista fuori legge, si erano definitiva- mente chiusi. Il capo del governo, Kurt Georg Kiesinger, aveva avuto in tasca la tessera nazista fino al 1945. Ex nazisti di spicco erano disseminati un po’ ovunque nella pubblica amministrazione. L’assassinio di Ohnesorg suscitò tra i giovani una reazione fortissima, che si tradusse nella nascita di un diffuso movimento rivoluzionario che coniugava spesso confusamente marxismo, terzomondismo e suggestioni controculturali. Dal quel terreno sarebbero presto nati i gruppi armati, come la stessa Raf, le Cellule rivoluzionarie, il Movimento 2 Giugno di Bommi Bauman, che prendeva il nome proprio dalla data dell’uccisione di Ohnesorg. Il 2 aprile 1968 quattro studenti, tra cui Andreas Baader e Gudrun Ensslin, diedero fuoco alla sede di due grandi magazzini a Francoforte per protesta contro la guerra in Vietnam. Meno di dieci giorni dopo il leader della Sds, guida del movimento studentesco, Rudi Dutschke fu ferito gravemente da un neofascista dopo una campagna martellante contro il movimento e contro Dutschke personalmente dei giornali del gruppo Springer. La Germania prese fuoco. Le manifestazioni furono violentissime, costellate da attacchi ai giornali di Springer. Gli attentatori di Francoforte furono condannati a tre anni, con pena temporaneamente sospesa nel giugno 1969. Cinque mesi dopo, in novembre, fu spiccato un nuovo ordine di arresto ma a quel punto tre di loro, tra cui Baader e Ensslin erano già riparati in Francia, ospiti del giornalista amico di Castro e di Guevara Regis Debray. Baader fu catturato nell’aprile 1970: meno di un mese dopo fu fatto evadere grazie all’aiuto di Ulrike Meinhof. Il ruolo della giornalista, che aveva chiesto un’intervista per far sì che il leader della Raf venisse spostato dal carcere permettendo l’evasione, avrebbe dovuto restare ignoto. Ma nell’imprevisto scontro a fuoco ci scappò un ferito grave e la giornalista decise di seguire Baader e la Ensslin in clandestinità. La Raf propriamente detta nacque allora. Il gruppo si trasferì in Libano, fu addestrato all’uso delle armi nei campi del Fronte popolare della Palestina. Strinse legami fortissimi con i palestinesi e probabilmente anche con qualche servizio segreto dell’est. Scelse il nome e il simbolo, pare commissionato da Baader a un grafico pubblicitario debitamente pagato: la stella rossa col mitra sovraimpresso e il nome del gruppo. Iniziarono le rapine e gli attentati, molti segnati dall’antimperialismo ma molti anche contro le propietà di Springer. La Raf diventò il pericolo pubblico numero 1 in Germania, oggetto di una caccia all’uomo di proporzioni inaudite che si concluse con l’arresto di tutti i dirigenti nel giugno 1972. Una nuova generazione di militanti riempì però i vuoti lasciati dagli arresti e iniziò allora la fase più tragica della storia tedesca nel dopoguerra. I detenuti furono rinchusi nel carcere di massima sicurezza di Stammheim, un inferno lastricato di isolamento assoluto, luci sempre accese, controlli permanenti. Nel 1974 Holger Meins proclamò uno sciopero della fame per protesta e ne morì. Nel 1976 morì anche la Meinhof: un altro suicidio. In occasione dell’inizio del processo ai capi della Raf, nell’aprile 1977, il gruppo uccise il pubblico ministero, Siegfried Buback, con l’autista e la guardia del corpo. In luglio fu colpito a morte il banchiere Hans Jurgen Ponto. Il 5 settembre fu sequestrato a Colonia il presidente della Confindustria tedesca, in un attacco che fece da modello al sequestro Moro. I quattro uomini della scorta furono uccisi. La Raf chiese il rilascio dei detenuti, lo Stato prese tempo pur avendo già deciso di non trattare. In ottobre l’Fplp si unì all’operazione con uno spettacolare dirottamento aereo. Per il rilascio degli ostaggi avanzò le stesse richieste dei rapitori di Schleyer, aggiungendo alla lista due detenuti palestinesi. Le teste di cuoio tedesche attaccarono l’aereo in sosta a Mogadiscio uccidendo quasi tutti i sequestratori. La stessa notte Baader, la Ensslin a Jan- Carl Raspe si suicidarono a Stammheim. Sulla loro morte, come su quella di Ulrike Meinhof non è mai stata fatta davvero chiarezza. Schleyer fu ucciso il giorno dopo. L’autunno tedesco durò ancora a lungo.

Sequestro Moro: tutti i comunicati delle Br nei 55 giorni di prigionia. L'analisi degli obiettivi e del linguaggio dei rapitori. Le lettere di Moro durante la drammatica trattativa tra le Br e lo Stato prima della tragica fine, scrive Edoardo Frittoli il 21 marzo 2018 su "Panorama". Tra Largo Arenula e Largo di Torre Argentina c'è un sottopasso pedonale. Sul tetto di una macchinetta automatica per le fototessere c'è una busta arancione. Dentro l'involucro, il primo comunicato delle Brigate Rosse viene ritrovato da un giornalista de "Il Messaggero" dopo una telefonata in redazione da parte dei rapitori. Si apre così la storia dei 9 comunicati (di cui uno falso) divulgati dai brigatisti durante i 55 giorni di prigionia del Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Di seguito, la sintesi e l'analisi dei messaggi inseriti nel contesto dei 55 giorni del sequestro.

COMUNICATO n.1 - Aldo Moro nella "prigione del popolo". E' il primo messaggio fatto pervenire ai media due giorni dopo la strage di via Fani. Viene ritrovato sabato 18 marzo 1978. Allegato al messaggio nella busta trovata sopra la macchina per fototessere c'è la polaroid che diventerà l'icona dei 55 giorni del sequestro di Aldo Moro. Il Presidente DC è ritratto in maniche di camicia, in apparenti buone condizioni fisiche. Dietro di lui un fondale con la stella a cinque punte su cui campeggia la scritta "Brigate Rosse". Il lessico del primo messaggio dei brigasti presenta già una serie di caratteristiche che ricorreranno nei comunicati successivi: la contrapposizione tra il "noi", che evoca anche una supposta unità del fronte terrorista ed il "loro", identificato come il nemico del proletariato (regime democristiano, Stato imperialista delle multinazionali, partiti dell'arco costituzionale ecc.). L'impressione è quella che i redattori dei messaggi vogliano arrivare subito all'obiettivo della propria legittimazione e ad un riconoscimento da parte dello Stato come interlocutori ufficiali e rappresentanti della giustizia nei confronti di un non meglio descritto "proletariato". Proprio questa volontà emerge fin dalle prime battute, dove si dichiara la detenzione del "prigioniero" (e non "ostaggio") in uno stato di detenzione carceraria, la famigerata "Prigione del popolo". Si nota subito l'enfasi posta dai brigatisti riguardo il successo dell'azione in via Fani, con l'eliminazione fisica non di una scorta regolare bensì degli appartenenti a non ben definiti "famigerati Corpi Speciali". Di seguito le Br analizzano il curriculum politico di Aldo Moro, che definiscono erede diretto dell'anticomunismo di Alcide De Gasperi, principale promotore dell'allontanamento di quel PCI erede della lotta partigiana dalla compagine del Governo e di conseguenza artefice della mancata rivoluzione proletaria che avrebbe dovuto seguire la fine della guerra. Nella seconda parte del primo comunicato le Brigate Rosse passano all'incitamento e alla ricerca dell'appoggio dei "compagni" tramite l'eco attesa dai media nazionali e internazionali. Si definisce il nemico da combattere, lo Stato Imperialista delle Multinazionali (una sorta di anticipazione delle future critiche alla globalizzazione) un organo sovranazionale rappresentato in Italia dalla Democrazia Cristiana, dai Servizi e dai partiti politici (non escluso il Pci, perchè siamo al culmine della fase di avvicinamento all'area di governo nota come "compromesso storico". Quindi il primo messaggio non è tanto rivolto allo Stato, bensì ai simpatizzanti e fiancheggiatori non organici alle Br, come in una sorta di dimostrazione dell'effettivo potere dei terroristi nell'azione militare pronta a colpire direttamente il "cuore dello Stato". Il comunicato si chiude infatti con l'uso di termini militari atti a dimostrare che vi sia in corso una guerra (come ad esempio l'espressione "stanare dai covi democristiani gli agenti controrivoluzionari" piuttosto che il "non concedere tregua" (notare che "Senza Tregua" era il titolo di un testo fondamentale sulla guerriglia partigiana scritto dal gappista Giovanni Pesce e considerato una guida negli ambienti del terrorismo come dimostrò la storia di Giangiacomo Feltrinelli). La parte finale è spezzettata in una serie di slogan, altra caratteristica ricorrente dei messaggi durante la detenzione di Aldo Moro.

COMUNICATO n.2 -  L'"Internazionale del terrore" letta dai terroristi. Questa volta, come a confermare la volontà dei rapitori di coinvolgere il più possibile i mass media e di raccoglierne la più larga eco possibile, i volantini vengono fatti trovare a Torino, Roma, Milano e Genova in seguito a telefonate alle redazioni locali dell'Ansa, delle radio e di alcuni quotidiani. E' il 25 marzo 1978. Moro ha trascorso la Pasqua nella "prigione del popolo". Sono passati 8 giorni dal primo comunicato e la reazione dello Stato al rapimento e alla strage degli agenti di scorta aveva portato alla fiducia immediata all'esecutivo guidato da Giulio Andreotti, che aveva già reso nota la linea della "fermezza" nel rifiutare ogni tipo di trattativa con i rapitori. L'incipit del messaggio dattiloscritto riguarda un prolisso elenco delle responsabilità di Aldo Moro nell'esercizio delle sue numerose cariche istituzionali dagli anni '50 in poi. Si fa accenno a passaggi fondamentali e oscuri nella storia della Repubblica, sopra tutti il "Piano Solo" e lo scandalo del Sifar del Generale De Lorenzo (1964). I rapitori dichiarano che tutti questi ultimi saranno i punti chiave dell'interrogatorio al prigioniero Moro e che le risposte saranno divulgate pubblicamente, cosa che non avverrà mai. Il comunicato, diviso anche in questo caso in due parti distinte, affronta quindi la definizione del nemico sovranazionale, quel fantomatico Stato Imperialista retto manu militari da organizzazioni identificate come "Internazionale del Terrore". Stati Uniti e Israele sarebbero i centri nevralgici della controrivoluzione e della repressione della lotta comunista e proletaria (contro gli irlandesi dell'IRA, i Palestinesi, I tedeschi della Raf, i Tupamaros). Importante il riferimento all'autonomia delle BR messa in dubbio dai giornali nella prima settimana della prigionia di Moro. Lo scritto si chiude con un riferimento non privo di interrogativi: si rende onore ai due giovanissimi "compagni" milanesi Fausto Tinelli e Lorenzo "Iaio" Iannucci, assassinati il 18 marzo 1978. Nonostante gli organi di informazione e gli inquirenti credessero fermamente nella pista dello spaccio di droga, le Br escludono anche il possibile movente politico indicando chiaramente il duplice omicidio quale opera di "sicari del regime", come fossero stati a conoscenza di qualche elemento oscuro nella vicenda.

COMUNICATO n.3 - La lettera a Cossiga. L'attacco al Pci di Berlinguer. La sera del 29 marzo 1978 si ripete la pratica usata per il recapito del comunicato precedente, fatto ritrovare nelle stesse città dopo le telefonate alle redazioni. Allegata al messaggio delle Br viene ritrovata una lettera scritta da Aldo Moro a Francesco Cossiga (Ministro degli Interni). L'autenticità delle parole del Presidente della Dc è subito messa in dubbio, poiché suona come un testo dettato dai carcerieri al fine di alzare il tono della trattativa con lo Stato. Ormai il Governo ed i rappresentanti dei partiti hanno definito la propria linea, con la Dc, il Pc e l'Msi per la fermezza, alla quale si contrapponeva la voce dei Socialisti di Craxi e dei Socialdemocratici aperti alla trattativa per avere salva la vita di Moro. La minaccia di rendere pubbliche le missive del prigioniero che avrebbero potuto contenere elementi compromettenti nei confronti della politica italiana fu una sorta di boomerang per Moretti e i suoi, che trovarono inefficaci e sminuite le armi costituite dalle parole di Moro da parte dei destinatari del comunicato. La risposta della controparte, rappresentata dalla posizione di assoluta intransigenza di Giulio Andreotti, costrinse i carcerieri a dichiarare che il "prigioniero" collaborasse fattivamente e stesse svelando segreti inquietanti. L'attacco è poi diretto al Partito Comunista Italiano accusato di tradimento del proletariato per la sua opera di "spionaggio e delazione" nel fabbriche. I toni contro Berlinguer sono durissimi: è il capo di un partito di traditori e spie asservito al potere Dc, alla quale in quei mesi i comunisti si sarebbero avvicinati. Il testo qui rispecchia l'origine vetero marxista del linguaggio originario delle Brigate Rosse sin dalla fondazione nel 1970.

COMUNICATO n.4 - Moro abbandonato, lettera a Zaccagnini - Le Br sulla difensiva. Squilla il telefono alla redazione milanese del quotidiano "La Repubblica". Una voce anonima annuncia la pubblicazione del quarto comunicato dopo il rapimento Moro. E' il 4 aprile del 1978. Anche in questo caso assieme al volantino viene ritrovata una lettera del prigioniero al Segretario della Dc Benigno Zaccagnini. Nello scritto autografo al compagno di partito Moro si sarebbe lamentato della linea intransigente espressa dai Comunisti, sentiti come traditori degli accordi del "compromesso storico". In un passo del manoscritto emerge una contraddizione con il primo comunicato riguardo la sicurezza della scorta e l'inadeguatezza i mezzi a disposizione di quest'ultima al momento dell'agguato di via Fani. Una situazione ben diversa da quella descritta dai terroristi che si erano pregiati di aver eliminato un nucleo di teste di cuoio armate di tutto punto.  Il comunicato va subito sulla difensiva: Moro è stato lasciato solo dalle istituzioni, e lo scritto a Cossiga divulgato con il comunicato n.3 sarebbe stato autenticamente redatto dal prigioniero, nonostante i giornali e le tv lo considerassero un messaggio sotto dettatura. Segue un testo contorto e scritto in un linguaggio esortativo sulle intenzioni programmatiche nel passaggio dall'azione clandestina alla vera e propria guerra del proletariato contro lo Stato Imperialista delle Multinazionali con una serie di passaggi strategici che ricalcano in qualche modo le azioni (non ben declinate nella realtà socio-economica italiana del 1978) dei primi nuclei comunisti organizzati alle origini della Rivoluzione di Ottobre.

COMUNICATO n.5 - Stralcio del "processo" a Moro, attacco a Paolo Emilio Taviani e al Pci di Berlinguer. E' un giorno di primavera ai Giardini Pubblici di Palestro, nel cuore di Milano. In un cestino dei rifiuti viene ritrovato il quinto comunicato dal giorno del sequestro di Aldo Moro. E' il 10 aprile 1978. Questa volta, insieme al consueto volantino con la stella a cinque punte è presente una parte delle risposte di Moro alle domande del "Tribunale del popolo". E' uno dei passaggi più inquietanti dei 55 giorni di prigionia, in quanto l'attacco è rivolto a Paolo Emilio Taviani, chiamato con spregio dai brigasti "teppista di Stato". Colpisce il fatto che proprio Taviani fosse stato in quei giorni uno dei più convinti sostenitori della fermezza contro ogni trattativa. Il politico Dc è chiamato in causa come tessitore di trame con i Servizi, la CIA, le altre cariche dello Stato in una rete segreta che ricorda da vicino la descrizione dell'organizzazione "Gladio". Le Brigate Rosse riprendono il discorso di Moro con una dimostrazione di forza che parte proprio da Taviani e dalle origini del terrorismo in Italia: il gruppo XXII ottobre di Genova (omicidio Floris, 1971). Le parole che seguono sono un elenco dell'azione delle Br della colonna genovese contro la "cricca democristiana" duramente colpita con l'uccisione del giudice Francesco Coco l'8 giugno 1976, il rapimento del magistrato Mario Sossi il 18 maggio 1974 ed altre azioni andate a segno come i ferimento del dirigente Ansaldo Carlo Castellano (17 novembre 1977). Sembra ancora un passo di difesa, quello compiuto dai redattori del comunicato numero 5: la trattativa sta andando in stallo, la risposta dello Stato è ancora stabile sul rifiuto. E' necessario per i sequestratori ribadire ancora una volta l'azione del fantomatico "partito armato dei proletari" in contrasto all'azione "repressiva" dello Stato, alla quale parteciperebbero attivamente Berlinguer ed il P "C" I, con le virgolette sulla "C" al fine di sottolineare il tradimento dell'ideale comunista.

COMUNICATO n.6 - L'imputato Moro è condannato a morte dal "popolo"- il distacco dalla realtà delle Br. Ancora una volta una telefonata a "Repubblica" anticipa il ritrovamento di un comunicato. Stavolta a Roma, ancora in un cestino dei rifiuti in via dell'Annunciata. E' il 15 aprile 1978 e sono passati appena cinque giorni dal comunicato ritrovato a Milano. L'attacco del comunicato sembrerebbe ad una prima lettura indicare il fallimento degli obiettivi del processo a Moro, il quale secondo i brigatisti non avrebbe aggiunto nulla di nuovo alla storia del potere democristiano dal dopoguerra. E' il comunicato che preannuncia la sentenza di morte per l'imputato del "Tribunale del popolo". Nelle parole dei brigatisti irrompe un linguaggio che per la prima volta utilizza una terminologia molto vicina a quella della mafia. I capi della Dc sono descritti infatti come "boss", appartenenti ad una "cosca" di politici. L'analisi delle Br di Moretti su 30 anni di Stato Imperialista sostenuto dalla Dc esce dai binari della realtà. La descrizione dell'oppressione di stato nei confronti delle avanguardie comuniste evoca direttamente la storia del nazismo: arresti di massa, rastrellamenti, torture, campi di concentramento per i "compagni combattenti". Non c'è più alcun riferimento a fatti precisi come nel caso del comunicato precedente (citazione dell'esperienza delle Br a Genova).

COMUNICATO n. 7 (FALSO) - Il cadavere di Aldo Moro sul fondale del lago della Duchessa. Viene trovato la mattina del 18 aprile 1978 a Roma in piazza Belli, a pochi passi dal Ministero di Grazia e Giustizia. Non è un documento originale, ma una copia battuto utilizzando una macchina da scrivere diversa dalla precedente. Importantissima la data del 18 aprile, che coincide con il ritrovamento del covo romano delle Br in via Gradoli 96, occupato da Mario Moretti e Barbara Balzerani ai vertici della colonna romana dell'organizzazione terroristica e autori della strage di via Fani. Inizialmente identificato come autentico dagli esperti, in realtà differisce dagli altri comunicati per molti aspetti, a partire da quello sintattico lessicale, ai contenuti, all'italiano incerto che lo allontanava dai messaggi ritrovati sino ad allora. Era inoltre molto più breve degli altri e non conteneva i soliti slogan conclusivi. Il messaggio annunciava l'avvenuta esecuzione del Presidente della Dc e l'occultamento del cadavere nei fondali "limacciosi" del lago della Duchessa, uno specchio d'acqua a 1,800 metri di quota tra Lazio ed Abruzzo. Naturalmente i sommozzatori giunti sul posto non trovarono altro che ghiaccio e neppure l'ombra del corpo di Aldo Moro, che era ancora in vita. Il comunicato del lago della Duchessa fu realizzato dal falsario Paolo Cucchiarelli, collegato alla banda della Magliana.

COMUNICATO n.7-  Moro è vivo, tutta la colpa è di Andreotti. L'ultimo scambio possibile. Il vero comunicato n.7 delle Brigate Rosse fu trovato due giorni dopo quello fasullo. Era stato lasciato a Roma in via dei Maroniti nella solita busta arancione. Nell'involucro c'è la seconda foto di Aldo Moro, quella che i brigatisti usarono per dimostrare immediatamente l'esistenza in vita del prigioniero, ritratto mentre tiene in mano una copia del quotidiano "La Repubblica" datata 19 aprile. Il linguaggio torna quello dei veri comunicati divulgati precedentemente. Il cuore del messaggio sono le pesantissime accuse al Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, che sarebbe stato l'autore del falso comunicato, di anni di trame con i Servizi deviati e addirittura della bomba in Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 come atto primo della "strategia della tensione". L'opinione delle Br a riguardo lascia un interrogativo riguardo alla decisione di colpire Aldo Moro piuttosto che Andreotti. Dopo il consueto delirio sulla risposta delle forze proletarie armate, giunge l'ultimatum di 48 ore allo Stato: la vita di Moro in cambio della libertà dei brigatisti incarcerati. O la sentenza del "popolo" sarà eseguita nonostante gli appelli giunti alle Br da parte del Papa Paolo VI, della Caritas, delle organizzazioni umanitarie internazionali.

COMUNICATO n.8- Funesti presagi di un condannato a morte, la lista dei brigatisti per lo scambio. Il penultimo comunicato delle Br, ritrovato il 24 aprile 1978, giunge in un momento particolarmente drammatico dei 55 giorni del sequestro dello statista Dc. Due giorni prima il Papa Paolo VI aveva rivolto un appello ai brigatisti letto ambiguamente, poiché il pontefice implorava la liberazione dell'ostaggio "senza condizioni", escludendo quindi ogni forma di scambio o trattativa con i rapitori. La fermezza del governo Andreotti procedeva parallelamente all'isteria generale e allo spiraglio letto dai sostenitori della trattativa capeggiati da Bettino Craxi. Il clima di chiusura alle richieste delle Br gettò Aldo Moro (che soffriva da tempo di una forma depressiva) nello sconforto, che si può leggere in una seconda lettera a Zaccagnini nella quale il prigioniero accusa la condotta dei democristiani annunciando un cupo avvenire per la politica italiana che avrebbe pagato caro il prezzo del suo sacrificio. Il comunicato contiene i nomi dei brigatisti di cui i rapitori richiedono la liberazione in cambio di Moro. Sono in tutto tredici (Tra cui Franceschini e Curcio, oltre al delinquente comune Sante Notarnicola e altri detenuti).

COMUNICATO n.9 - La trattativa è fallita. Il Tribunale del popolo ha emesso la sentenza di morte per colpa della Dc e del Pci. L'ultimo messaggio delle Brigate Rosse precede di soli quattro giorni l'esecuzione di Aldo Moro. Il ritrovamento avviene intorno alle 16,30 del 5 maggio 1978 e a Torino viene lasciato in un luogo macabramente evocativo: nei pressi di Corso Regina Margherita e via Valdocco. E' il "Rondò della Forca" dove fino all'800 venivano impiccati i condannati a morte. Passano ben 10 giorni dall'ultimo messaggio in cui si moltiplicano gli appelli umanitari, si riaccende la flebile speranza di salvare la vita di Aldo Moro. In questo lasso di tempo il prigioniero moltiplica i suoi appelli per la trattativa, includendo anche politici al di fuori del suo partito come Pietro Ingrao e naturalmente Bettino Craxi. Il comunicato n.9 giunge alle redazioni come una doccia fredda. Il linguaggio dei terroristi si fa greve nello scaricare la responsabilità di un processo (deciso e svolto solo ed esclusivamente dalle Br) sulla Democrazia Cristiana e addirittura su Luciano Lama e Enrico Berlinguer. Tornano i temi ossessivi del nazismo, dei lager, delle SS e la descrizione delirante di sistematici "rastrellamenti nei quartieri proletari" perpetrati dalle Forze dell'Ordine. I rapitori di Moro, dopo aver annunciato ufficialmente la fine del processo e l'imminente esecuzione dell'imputato, si aggrappano alla consolazione di una presunta vittoria sullo Stato Imperialista, che non sarebbe riuscito ad individuare il carcere del Presidente Dc in quasi due mesi di sequestro. La postilla che segue la firma in calce al messaggio dichiara la volontà di diramare gli atti del processo del "Tribunale del popolo" ad un fantomatico "Movimento rivoluzionario". L'intenzione non avrà naturalmente alcun seguito. Quello che accadrà quattro giorni dopo sarà proprio l'esecuzione di Aldo Moro. Era il 9 maggio 1978. Per l'Italia la morte del Presidente Dc significherà la fine di un percorso che cambierà la storia della vita politica nazionale: la morte, contemporanea a quella del suo massimo esponente, dell'idea di "compromesso storico" tra la Dc e il Pci.

Perché Aldo Moro è il Kennedy italiano. I tanti dubbi sulla strage di via Fani e la gestione del sequestro, nel 1978. Le rivelazioni della figlia sulla mancata presenza dello statista sul treno Italicus. I nuovi interrogativi sollevati dalla Commissione parlamentare d’inchiesta. «La storia del delitto Moro è un impasto di mezze verità, bugie, depistaggi, manovre». Parola di un giornalista che ci ha costruito un libro di successo, uscito dopo 36 anni dalla prima stesura, scrive Antonio Ferrari il 12 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera”. Tra gli uomini migliori che ho conosciuto e frequentato, uno si staglia decisamente. Non era un filosofo, non un sofisticato intellettuale, ma un limpido servitore dello Stato: Sandro Pertini. Se non ci fossero stati il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro (rispettivamente il 16 marzo e il 9 maggio 1978, ndr.), probabilmente Pertini non sarebbe mai diventato presidente della Repubblica. Quando esplose fragorosamente lo scandalo della loggia massonica P2, centrale eversiva e criminale, per fortuna l’Italia era guidata da un grandissimo patriota, che seppe lenire anche le gravi ferite subite dal nostro amato Corriere della Sera, inquinato dalle pedine di Lucio Gelli. Pertini impose e ottenne la nomina di un direttore verticale come lui, e con lo stesso aspro carattere, Alberto Cavallari. Il presidente ripeteva: «Ai giovani non servono sermoni. Hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza, di altruismo». Sante parole, valide sempre, oggi come nel passato e sicuramente nel futuro.

Il frigorifero dei silenzi. Quando la mia azienda mi chiamò, dopo la pubblicazione della vergognosa lista dei piduisti, ero un giovane inviato speciale sotto scorta. L’anno prima, infatti, era stato ammazzato dai terroristi il collega Walter Tobagi, ed era necessario garantire la sicurezza a chi, come chi scrive, si occupava di terrorismo. L’azienda mi chiese di aiutare il Corriere a salvarsi l’anima, imponendo l’esempio delle figure non compromesse con Gelli. Mi convocò e chiese, anzi mi impose di scrivere un libro. Non ero pronto per un saggio. Optai per un romanzo, dove avrei raccontato i retroscena del sequestro e dell’assassinio di un uomo politico. Non avrei fatto il nome, ma tutti avrebbero capito. Non vi furono obiezioni. Firmai il contratto, ottenni l’anticipo, ma il mio libro finì nel frigorifero dei silenzi, della paura e dell’imbarazzo.

Trentasei anni dopo. Per 36 anni — ripeto, trentasei anni — non uscì. È uscito adesso perché sono un ostinato, un «guastafeste della memoria», come mi ha definito l’Ambasciatore Sergio Romano, che del Corriere è una della firme più illustri. Il romanzo, titolo Il Segreto, edito da @chiarelettere, è composto dal 60 per cento di verità comprovata, dal 20 per cento di fantasia, e dal restante 20 per cento di quella «zona grigia» che sempre accompagna le storie epocali. Per esempio: sappiamo davvero tutto sull’assassinio del presidente degli Stati Uniti John Kennedy a 55 anni di distanza? Sappiamo davvero tutto dell’11 settembre 2001 con l’attacco all’America? Pensate allora che sia possibile sapere tutto del nostro «11 settembre», cioè del sequestro e dell’assassinio di Moro? Pia illusione.

Le verità ufficiali. La rassicurante costruzione che ci è stata offerta per far quadrare il cerchio delle responsabilità, e cioè il ruolo esclusivo delle Brigate rosse, formazione appartenente all’album di famiglia della sinistra (ma solo all’inizio) non mi ha mai convinto. Allora non sapevamo tante cose e forse avevamo bisogno di parziali «certezze». La paura, infatti, può produrre danni gravi. Sapevo che il mio Segreto aveva toccato corde intoccabili, come il ruolo dei servizi segreti e forse di quella stessa P2 che aveva infangato il mio Corriere. Mi hanno ovviamente accusato d’essere il dietrologo che non sono mai stato. Non amo le appartenenze, le ideologie, i partiti. Cerco di pensare con la mia testa. Certo, se dietrologo vuol dire rifiutare le veline e diffidare delle presunte verità ufficiali, allora mi riconosco nel ruolo.

La Commissione d’inchiesta. Nella mia seconda vita, dopo aver seguito il terrorismo, sono andato all’estero, seguendo le vicende internazionali con identica passione, e impegnato soltanto a rendere più forte il Corriere e a cercare di far vedere i «sorci verdi» alla concorrenza. Però la vicenda del Segreto mi rodeva. E quando ho deciso di affidarmi al più bravo agente letterario italiano, Marco Vigevani, ho trovato finalmente la strada giusta. La gara è stata vinta da @chiarelettere, e siamo ormai alla sesta edizione. Ma non è solo questo che mi soddisfa. Sono i risultati dell’ultima Commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e sull’assassinio di Moro a tendermi la mano, dimostrando 36 anni dopo che alcune intuizioni non erano soltanto fantasie «dietrologiche», come speravano gli smemorati o i sabotatori della memoria.

Cosa è affiorato. La Commissione ha fatto affiorare: gli ambigui ruoli di Mario Moretti e Valerio Morucci; le ambiguità del ministro dell’Interno e futuro capo dello Stato Francesco Cossiga. Il quale non soltanto era convinto che Moro non fosse stato ucciso dalla BR, ma disse che conosceva il nome dell’assassino: non un brigatista ma un affiliato ad un’organizzazione criminale; le inascoltate dichiarazioni di testimoni preziosi come il palestinese Bassam Abu Sharif, esponente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, convinto che in via Fani abbiano agito gli americani; il ruolo di un brigatista lasciato espatriare e mai arrestato, Alessio Casimirri, figlio di un dipendente del Vaticano; le iniziative del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Cosa sappiamo. È ormai assodato che: 1) In via Fani c’erano «anche le Brigate rosse»; 2) in via Fani erano presenti agenti di almeno quattro servizi segreti; 3) in via Fani c’erano uomini della ‘ndrangheta e della Banda della Magliana; 4) almeno un corpo dello Stato sapeva che in via Gradoli c’era un covo delle BR (con all’interno Mario Moretti e Barbara Balzerani, armati fino ai denti), ma non fecero nulla per scoprirlo. Il collega Andrea Purgatori, già grande firma del Corriere della Sera e ora straordinaria punta professionale de La7, ha condotto un’inchiesta televisiva esemplare sul caso Moro, scoprendo senza alcun timore carte e sospetti che dovevano restare segreti. Tanto di cappello davvero. Perché la storia del delitto Moro è un impasto di mezze verità, bugie, depistaggi, manovre.

Il ricordo degli studenti. Anch’io, riprendendo le vicende ai quegli anni drammatici per il nostro Paese, ho potuto mettere a punto fatti e retroscena che 36 anni fa ignoravo. Per esempio, la figura morale di Aldo Moro. Ho parlato con i suoi studenti, con i suoi colleghi universitari, con chi lo ha ben conosciuto. L’ammirazione è intatta. Le lezioni del professore pugliese, grande visionario della Democrazia Cristiana, cominciavano tutte con una frase: «Prima di tutto la persona», con l’invito a «rispettare le idee di tutti». Moro si battè come un leone per far approvare la legge sull’istruzione obbligatoria fino alla terza media. Era convinto che la democrazia si sarebbe consolidata soltanto diffondendo la cultura.

Quell’agosto del ‘74. Alla destra tutto questo non piaceva. Nel ‘63, negli anni di De Lorenzo e del piano Solo, si prevedeva la soppressione di Moro e il confino in Sardegna degli altri leader democratici. Il leader della Dc era sempre nel mirino. Per ragioni internazionali (il compromesso storico che non piaceva né agli Stati Uniti né all’Unione Sovietica) e per ragioni di politica interna. È passata quasi sotto silenzio, nel 2004, un’intervista di rilasciata da Maria Fida Moro a Giorno, Carlino, Nazione, al Gazzettino di Venezia e al Venerdì di Repubblica, in cui la figlia dello statista raccontava quanto gli confidò suo padre. Il 4 agosto del 1974, Moro salì sul treno Roma-Monaco per raggiungere la famiglia in vacanza nel Trentino. All’ultimo momento fu invitato a scendere da due funzionari della Farnesina, perché c’erano documenti importanti da firmare. Di malavoglia, Moro scese e decise di partire poi in auto. Poche ore dopo quel treno (l’Italicus) saltò in aria a San Benedetto val di Sambro: 12 morti e decine di feriti. Una coincidenza? Forse. Oppure un segnale minaccioso inviato all’uomo politico che, due giorni prima di morire, a chi prevedeva che sarebbe diventato presidente della Repubblica, rispose: «No, mi faranno fare la fine di John Kennedy».

La Lega e i 5S come Dc e Pci nel ‘76: è ora di “un compromesso storico”, scrive Francesco Damato il 7 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  Nessuno aveva i numeri per governare e Moro trovò la soluzione. Nella storia ormai più che settantennale della Repubblica c’è un solo precedente di risultato elettorale neutro come quello di domenica scorsa. Esso risale al 1976, quando nel Parlamento eletto con un sistema integralmente proporzionale nessuno dei due partiti più votati – la Dc di Benigno Zaccagnini e Aldo Moro e il Pci di Enrico Berlinguer, dichiaratamente alternativi nella campagna elettorale – aveva i numeri per governare l’uno contro l’altro insieme con alleati disponibili e/ o sufficienti all’avventura. Che si trattasse di un’avventura era dimostrato da una situazione economica gravissima e da un ordine pubblico minacciato da un terrorismo di matrice non più soltanto nera ma anche rossa, affacciatosi sulla scena nel 1974 col sequestro del giudice Mario Sossi. La soluzione della crisi fu trovata da quel mago della mediazione che era Moro adottando, ma in una forma ridotta e contingente, il famoso ‘ compromesso storico’ proposto in una prospettiva più ampia alla Dc da Berlinguer. Il quale aveva temuto che anche in Italia una svolta marcatamente di sinistra finisse come in Cile. Dove i militari sostenuti dagli americani avevano soppresso nel sangue la democrazia. Ai colleghi di partito insofferenti e desiderosi di altre elezioni, anticipate come quelle appena svoltesi, Moro espose la parabola, diciamo così, dei due vincitori usciti dalle urne: la Dc e il Pci. Troppi per governare con i vecchi schemi di maggioranza e opposizione, capaci solo di paralizzarsi a vicenda. Occorreva quindi una stagione di decantazione o tregua, chiamata poi di ‘ solidarietà nazionale’, in cui entrambi i vincitori dovevano aiutarsi a vicenda a passare la nuttata, dicono a Napoli. E nacque il governo monocolore democristiano di Giulio Andreotti sostenuto in modo determinante dai comunisti: prima con l’astensione, poi con la vera e propria fiducia negoziata nella lunga crisi che precedette il tragico sequestro di Moro. Sta per ricorrerne il quarantesimo anniversario. Diversamente dal 1976, questa volta si è votato con un sistema elettorale misto: prevalentemente proporzionale, con una quota maggioritaria modesta ma sufficiente a produrre un effetto opposto a quello perseguito dai cultori del metodo maggioritario. Si è prodotta non più governabilità, parola quasi magica dei costituzionalisti anti- proporzionalisti, ma meno governabilità. I due vincitori di domenica scorsa, destinati nella parabola morotea a garantire una tregua obbligata dopo un risultato neutro, sono il candidato grillino a Palazzo Chigi, che ha preso tanti voti da farne indigestione, e la coalizione di centrodestra, anch’essa molto votata ma non tanto da disporre della maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, al pari del movimento delle 5 stelle. All’interno del centrodestra si è tuttavia verificato il sorpasso della Lega di Matteo Salvini sulla Forza Italia di Silvio Berlusconi, o del proconsole potenziale a Palazzo Chigi indicato dallo stesso Berlusconi alla vigilia del voto in Antonio Tajani, suo ex portavoce e attuale presidente del Parlamento Europeo. I due vincitori del 4 marzo si chiamano pertanto Di Maio e Salvini, col partito o la coalizione che hanno, rispettivamente, alle spalle. Coalizione, quella di cui Salvini ha conquistato la guida, che proprio per questa novità potrebbe però trovare ancora più difficilmente in Parlamento i voti che le sono mancati nelle urne per conquistare la maggioranza assoluta dei seggi. E ciò anche se il forzista Renato Brunetta, capogruppo uscente alla Camera, ha immaginato davanti ai microfoni nella notte dello spoglio elettorale una lunga fila di aspiranti al ruolo di responsabili, pronti cioè a saltare sul carro di un governo Salvini. Se il segretario della Lega dovesse pertanto rassegnarsi alla rinuncia ad un incarico presidenziale conferitogli dal presidente della Repubblica, come ha già reclamato, per mancanza dei numeri necessari alla fiducia, egli si ritroverebbe a maggior ragione da solo a rivendicare e a condividere con Di Maio la vittoria elettorale. E insieme rientrerebbero nello schema moroteo dei due vincitori costretti dal loro stesso ruolo ad accordarsi. Che è poi la cosa alla quale Renzi li ha praticamente e perfidamente sfidati collocando il suo malmesso Pd all’opposizione per rimanere fedele all’impegno elettorale di non accordarsi con gli ‘ estremisti’ dei campi avversi. Sembrerà un paradosso al simpatico Sergio Staino, espostosi sul Dubbio a favore di un’intesa fra i grillini e il Pd, forse preferito da Di Maio per le condizioni di debolezza in cui lo stesso Pd si trova dopo le elezioni, ma la posizione assunta da Renzi appare più in linea di altre con lo schema moroteo del 1976. Lo stesso Renzi si sorprenderà a sentirsi dare del moroteo, o quasi. E i suoi avversari di sinistra saranno letteralmente scandalizzati, al pari di Sergio Mattarella e dei suoi collaboratori al Quirinale, per il culto che hanno di Moro, ma così stanno le cose stando al precedente del 1976. Così è se vi pare, avrebbe detto Luigi Pirandello.

Aldo Moro, quei 55 giorni che cambiarono l'Italia, scrive Davide Gianluca Bianchi il 6 aprile 2008 su "L’Occidentale". Quando Moro fu rapito facevo la Quinta elementare e, nonostante questo ne ho un ricordo piuttosto nitido, soprattutto delle emozioni che quel grande fatto politico determinò nel nostro paese. L’episodio che più mi colpì allora, e che non raramente mi ritorna alla mente ancora oggi, è di carattere personale, ma significativo: la mattina del 16 marzo, mentre mi trovavo a scuola, improvvisamente si spalanca la porta ed una signora del personale non docente, trafelata, dice poche parole con evidente emozione: “Hanno rapito Moro”. La maestra di allora, non estranea alla Sinistra extraparlamentare, scoppia in una risata sarcastica, che lascia esterefatta la signora e anche qualche ragazzino che, pur senza afferrare tutti gli elementi della vicenda, non capisce cosa ci sia da ridere della morte di cinque uomini alle dipendenze dello Stato (che secondo Pasolini erano più proletari dei contestatori universitari). Era l’area della “contiguità”, come si diceva allora, della condivisione politica di un progetto che intendeva attaccare il “cuore dello Stato”, era la scelta della complicità fattiva da parte di alcuni, l’ambiguità.

MORO: I 55 GIORNI CHE CAMBIARONO L'ITALIA, scritto da Ferdinando Imposimato e Ulderico Pesce. Scheda artistica: “Non l’hanno ucciso solo le Brigate Rosse, Moro e i ragazzi della scorta furono uccisi anche dallo Stato.” Questa frase è il fulcro dell’azione scenica ed è documentata dalle indagini del giudice Ferdinando Imposimato, titolare dei primi processi sul caso Moro, che nello spettacolo compare in video interagendo con il protagonista e rivelando verità terribili che sono rimaste nascoste per quarant’anni. Il titolo dello spettacolo è “moro” con la “m” minuscola a voler sottolineare che nel cognome del grande statista c’è la radice del verbo “morire”. Come se la “morte” di Aldo Moro fosse stata “scritta”, fosse cioè necessaria per bloccare il dialogo con i socialcomunisti assecondando i desideri dei conservatori statunitensi e dei grandi petrolieri americani in Italia rappresentati da Giulio Andreotti e Francesco Cossiga che, dopo la morte di Moro, ebbero una folgorante carriera e condannarono l’Italia alla “sudditanza” agli USA.   Moro sente che uomini di primo piano del suo stesso partito “assecondano” la sua morte trincerati dietro “la ragion di Stato” e lo scrive in una delle ultime lettere che fanno da leit motive dello spettacolo: “Il mio sangue ricadrà su di voi, sul partito, sul Paese. Chiedo che ai miei funerali non partecipino né Autorità dello Stato, né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno voluto veramente bene e sono degni di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore”.

IL RACCONTO SCENICO. Il racconto scenico parte dai fatti del 16 marzo 1978 quando fu rapito Aldo Moro e furono uccisi gli uomini della scorta: Raffaele Iozzino, Francesco Zizzi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Oreste Leonardi. Raffaele Iozzino, unico membro della scorta che prima di morire riuscì a sparare due colpi di pistola contro i terroristi, era di Casola di Napoli e proveniva da una famiglia di contadini. Raffaele, alla Cresima, aveva avuto in regalo dal fratello Ciro un orologio con il cinturino in metallo. Ciro, quella mattina del 16 marzo era a casa e casualmente, grazie al vecchio televisore Mivar, vide l’immagine di un lenzuolo bianco che copriva un corpo morto. Spuntava da sotto al lenzuolo soltanto il braccio con l’orologio della Cresima. Questa è l’immagine emblematica che ricorre più volte nelle video proiezioni, questa immagine è la radice prima del dolore di Ciro, protagonista dello spettacolo. Questo dolore diventa rabbia, e questa rabbia lo spinge a rintracciare il giudice Imposimato titolare del processo al quale chiede di sapere la verità. Sarà il rapporto tra Ciro e il giudice, strutturato su questo forte desiderio di verità, a rendere chiaro al pubblico che la morte di Moro e dei giovani membri della scorta furono è “assecondata” dai più alti esponenti dello Stato italiano con la collaborazione dei Servizi segreti americani. Nello spettacolo assume una funzione altrettanto importante l’incontro e l’amicizia tra Ciro Iozzino e Adriana, la sorella del poliziotto Francesco Zizzi, altro membro della scorta di Moro, proveniente da Fasano in provincia di Brindisi, che quella mattina del 16 marzo era al suo primo giorno di lavoro sostituendo la guardia titolare che la sera prima, “stranamente”, era stata mandata in ferie. Francesco, diventato da poco poliziotto, aveva una grande passione per la chitarra e cantava le canzoni di Domenico Modugno, pugliese come lui e come lo stesso Aldo Moro che, in macchina, quella mattina, affrontava gli ultimi giorni della sua vita, ascoltando Zizzi che cantava “La Lontananza” di Modugno. L’ingenuità e la leggerezza dei membri della scorta irrobustiscono la disperata determinazione di Ciro Iozzino nella ricerca della verità. Questa ricerca lo porterà di fronte a molte “stranezze” portate avanti da statisti come Giulio Andreotti e Francesco Cossiga. Tra le “stranezze” scoperte e denunciate da Ciro Iozzino nello spettacolo ne ricordiamo alcune: in genere un’ora dopo il rapimento di una persona le indagini venivano assegnate, come stabilito dal Codice di procedura penale, al giudice istruttore che a Roma, il giorno in cui avvenne la strage, era Ferdinando Imposimato. Invece le indagini, trasgredendo il Codice, rimangono nelle mani della Procura della Repubblica di Roma che le affida al giudice Imposimato solo il 18 maggio 1978 quando Aldo Moro è già stato ucciso da nove giorni. Le “stranezze” denunciate nello spettacolo continuano. Il 31 gennaio del 1978, circa due mesi prima del rapimento Moro, nasce l’UCIGOS, un organismo di polizia speciale che va a lavorare alle dipendenze del Ministro dell’Interno che all’epoca era Francesco Cossiga. La famiglia di Iozzino non si spiega come mai nasca una squadra speciale di polizia investigativa senza l’autonomia che la Costituzione gli affida perché alle strette dipendenze di un ministero. Qualche mese prima della strage di via Fani accade una cosa ancora più inspiegabile, viene smantellato l’Ispettorato antiterrorismo diretto da Santillo che aveva raggiunto risultati eccellenti contro i terroristi e contro la Loggia Massonica P2. Fatto fuori Santillo e la sua “squadra”, a indagare sul terrorismo, prima del rapimento di Moro, rimaneva solo l’UCIGOS, che era alle strette dipendenze del ministro Cossiga. Chi aveva interessi a cancellare la squadra antiterrorismo di Santillo per fondare una polizia alle strette dipendenze di Cossiga? –si chiede Ciro Iozzino. Altra terribile verità scoperta da Ciro e denunciata nello spettacolo è quella secondo la quale uomini dell’UCIGOS ad agosto del 1978 erano già stati in via Montalcini n. 8, la prigione di Moro e che il quadro generale dei fatti fosse chiaro a pezzi dello Stato già allora. La denuncia finale che Ciro Iozzino fa nello spettacolo, e che allontana ogni dubbio sulla partecipazione dello Stato alla condanna a morte di Moro, suffragata da documenti, riguarda le rivelazioni di Pieczenik, un esperto di terrorismo mandato segretamente in Italia dal governo USA per la gestione del caso Moro. Pieczenik fa delle rivelazioni di cui è in possesso il giudice Imposimato e che riportiamo in parte, che diventano un momento importante dello spettacolo e, nel contempo, la rivelazione finale della verità sui mandanti dell’assassinio di Moro: “Quando Moro ha fatto capire attraverso le sue lettere che era sul punto di rivelare dei segreti di Stato e di fare i nomi di coloro che quei segreti detenevano, in quel momento mi sono girato verso Cossiga dicendogli che ci trovavamo a un bivio: se Moro potesse continuare a vivere o dovesse morire con le sue rivelazioni. La decisione di far uccidere Moro non è stata una decisione presa alla leggera. La decisione finale è stata di Cossiga, e presumo anche di Andreotti: Moro doveva morire.”

Note di regia. “Un altro spettacolo su Moro? Non se ne può più.” -direte. Avete ragione. Più che di spettacoli sul caso Moro c’è la necessità di sapere la verità sulla sua morte. Questo nostro lavoro vuole prima di tutto contribuire alla scoperta della verità e alla sua divulgazione. E’ un pò altezzoso il fine ma le scoperte del giudice Ferdinando Imposimato, titolare dei primi processi sul caso Moro, fino all’assassinio del fratello Franco, vanno verso la costruzione di una chiara verità: “Moro doveva morire”, era utile bloccare la sua apertura alla sinistra. Le nuove rivelazioni del giudice Imposimato rappresentano la base contenutistica del testo dove però le scoperte del giudice, sono intrecciate con la vita di Iozzino e Zizzi, due membri della scorta. Raffaele Iozzino era il poliziotto che riuscì a sparare due colpi contro i terroristi. Francesco Zizzi, era poliziotto ma soprattutto grande chitarrista e cantante di piano bar. Era al suo primo giorno di lavoro avendo sostituito, proprio quella mattina, la guardia titolare che aveva presentato un certificato medico. Nelle parole e nelle azioni di Ciro Iozzino, fratello di Raffaele, protagonista dello spettacolo, abbiamo voluto descrivere le ansie e la disperazione di un ragazzo del sud a cui “distruggono” la famiglia. Con la figura della mamma di Raffaele, continuamente evocata, abbiamo voluto far parlare la disperazione di una mamma che non riesce a darsi pace, una mamma che vede il figlio partire per servire lo Stato e che rimane ad aspettare la verità da più di trent’anni. Nello stesso tempo crediamo che questo lavoro contribuisca ad informare sulle “colpe” di Francesco Cossiga e Giulio Andreotti che “non hanno voluto salvare Moro”.

Gustavo Selva, Eugenio Marcucci: Aldo Moro. Quei terribili 55 giorni. Introduzione di Simona Colarizi, Collana: Problemi Aperti 2003, pp 446, Rubbettino Editore, Storia d'Italia. La cronaca del "caso Moro" così come gli italiani la vissero fra il 16 marzo e il 17 ottobre del 1978. Di quelle giornate il racconto conserva tutta la drammaticità e le emozioni provate da chi, come Selva e Marcucci, seguirono la vicenda momento per momento. Gustavo Selva, all'epoca direttore del GR2, commentò, con una serie di "editoriali", i passaggi più significativi che sono rimasti impressi nella memoria di tutti ma che i giovani non conoscono. Al testo è aggiunta una documentazione di particolare interesse: per la prima volta vengono raccolte tutte le lettere, anche quelle mai recapitate ai destinatari, che Aldo Moro scrisse dalla "prigione del popolo", dove le Brigate rosse lo segregarono per 55 giorni; il "memoriale" dettato dallo statista democristiano; l'ultimo discorso del 28 febbraio 1978 che Aldo Moro pronunciò davanti ai gruppi parlamentari della DC e che fu determinante per la formazione del Governo Andreotti appoggiato dal Partito Comunista.

Aldo Moro, i 55 giorni più lunghi della Repubblica. Lo statista democristiano fu rapito il 16 marzo 1978 e ucciso dalle Brigate Rosse il 9 maggio, scrive il 9 maggio 2017 "Ansa". Il 16 marzo 1978, poco dopo le 9, un commando delle Brigate Rosse entra in azione in via Fani, a Roma: blocca le auto del presidente Dc Aldo Moro, uccide i 5 uomini di scorta e portano via Moro su una Fiat 132 blu. Poco dopo rivendicano l'azione con una telefonata all' Ansa.  Il sequestro terminerà 55 giorni dopo, il 9 maggio, con l'uccisione dello statista. Ecco le tappe drammatiche di quei giorni.

- 16 marzo: poco dopo le 9 un commando delle Brigate Rosse entra in azione a via Fani, a Roma. In pochi minuti, dopo aver bloccato con un tamponamento le auto del presidente Dc Aldo Moro, le Br uccidono i 5 uomini di scorta e portano via Moro su una Fiat 132 blu. Poco dopo rivendicano l'azione con una telefonata all' Ansa. Cgil, Cisl e Uil proclamano lo sciopero generale. In serata il governo Andreotti, il primo con il voto favorevole del Pci, ottiene la fiducia alla Camera e al Senato.

- 18 marzo: Arriva il 'Comunicato n.1' delle Br, che contiene la foto di Moro e annuncia l'inizio del processo.

- 19 marzo: Papa Paolo VI lancia il suo primo appello per Moro.

- 20 marzo: al processo di Torino, il 'nucleo storico' delle Br rivendica la responsabilità politica del rapimento.

- 21 marzo: Il governo approva il decreto antiterrorismo.

- 25 marzo: Le Br fanno trovare il Comunicato n.2.

- 29 marzo: Arriva il ''comunicato n. 3'' con la lettera al ministro dell'Interno Cossiga in cui Moro dice di trovarsi ''sotto un dominio pieno e incontrollato dei terroristi'' e accenna alla possibilità di uno scambio. Moro non voleva renderla pubblica, ma i brigatisti scrivono di averla resa nota perchè ''nulla deve essere nascosto al popolo''. Recapitate anche altre lettere indirizzate alla moglie e a Nicola Rana.

- 4 aprile: Arriva il 'Comunicato n. 4', con una lettera al segretario della Dc Benigno Zaccagnini.

- 7 aprile: Il ''Giorno'' pubblica una lettera di Eleonora Moro al marito. La famiglia tiene un linea del tutto autonoma rispetto alla ''fermezza'' del governo. - 10 aprile: Le Br recapitano il comunicato n.5 e una lettera di Moro a Taviani, che contiene forti critiche.

- 15 aprile: Il 'Comunicato n.6' annuncia la fine del processo popolare e la condanna a morte di Aldo Moro.

- 17 aprile: Appello del segretario dell'Onu Waldheim.

- 18 aprile: Grazie ad un'infiltrazione d'acqua, polizia e carabinieri scoprono il covo di via Gradoli 96. I brigatisti (Moretti e Balzerani) sono però assenti. A Roma viene trovato un sedicente 'comunicato n.7' in cui si annuncia l'avvenuta esecuzione di Moro e l'abbandono del corpo nel Lago della Duchessa. Il comunicato, falso in modo evidente, è ritenuto autentico e per giorni il corpo di Moro sarà cercato, con un grande schieramento di forze, in un lago di montagna, tra le province di Rieti e L'Aquila, ghiacciato da mesi.

- 20 aprile: Le Br fanno trovare il vero 'Comunicato n.7', a cui è allegata una foto di Moro con un giornale del 19 aprile.

- 21 aprile: La direzione Psi è favorevole alla trattativa.

- 22 aprile: Messaggio di Paolo VI agli ''Uomini delle Brigate rosse'' perchè liberino Moro ''senza condizioni''.

- 24 aprile: Il Comunicato n.8 delle Br chiede in cambio di Moro la liberazione di 13 Br detenuti, tra cui Renato Curcio. Zaccagnini riceve un'altra lettera di Moro, che chiede funerali senza uomini di Stato e politici.

- 29 aprile: E' il giorno delle lettere. Messaggi di Moro sono recapitati a Leone, Fanfani, Ingrao, Craxi, Pennacchini, Dell' Andro, Piccoli, Andreotti, Misasi e Tullio Ancora.

- 30 aprile: Moretti telefona a casa Moro e dice che solo un intervento di Zaccagnini, ''immediato e chiarificatore'' puo' salvare la vita del presidente Dc.

- 2 maggio: Craxi indica i nomi di due terroristi ai quali si potrebbe concedere la grazia per motivi di salute.

- 5 maggio: Andreotti ripete il 'no alle trattative'. Il 'Comunicato n. 9' annuncia: ''Concludiamo la battaglia cominciata il 16 marzo, eseguendo la sentenza''. Lettera di Moro alla moglie: ''Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibilmente l'ordine di esecuzione''.

- 9 maggio: Verso le 13,30, in via Caetani (vicino alle sedi di Dc e Pci), dopo una telefonata di Morucci avvenuta poco prima delle 13, la polizia trova il cadavere di Moro nel portabagagli di una Renault 4 rossa. Era in corso la direzione Dc, dove sembra che Fanfani stesse per fare un discorso aperto alla trattativa. Moro sarebbe stato ucciso la mattina presto nel garage di via Montalcini, il covo usato dai brigatisti come ''prigione del popolo''.

Moro: Da via Fani a via Caetani, mappa di un sequestro. Tra le strade di Roma che raccontano covi e misteri a 40 anni dall'agguato, scrive Massimo Nesticò il 12 marzo 2018 su "Ansa”.  Da via Fani a Via Caetani. Passando per via Montalcini. Senza trascurare via Gradoli. Con una puntata 'fuori porta', tra Palidoro e Palo Laziale, sul litorale. I misteri del caso Moro si riflettono plasticamente sulla toponomastica di una città - Roma - che tra il 16 marzo ed il 9 maggio del 1978 era presidiata dalle forze dell'ordine, con posti di blocco ovunque. Ma nessun controllo si rivelò utile e le vie della Capitale si trasformarono in un labirinto senza uscita. Quarant'anni dopo, per ciascuna delle 'stazioni' lungo cui si è dipanata la via crucis dello statista democristiano restano aperti gli interrogativi su cosa sia davvero successo. Una coltre di nebbia favorita dalla rigida compartimentazione con cui si muovevano le Brigate Rosse, oltre che da reticenze e depistaggi messi in atto da diversi soggetti.

VIA FANI - Inizia tutto in via Fani, angolo con via Stresa, la mattina del 16 marzo, intorno alle 9. Quartiere Camilluccia, quadrante nord della città. Un commando di terroristi (ma c'erano solo loro? E quanti in realtà?) apre il fuoco sulla scorta del presidente della Dc, Aldo Moro (partito dalla sua casa in via del Forte Trionfale 79 per andare alla Camera a votare la fiducia al quarto governo Andreotti), uccidendo i cinque agenti: Oreste Leonardi e Domenico Ricci a bordo della Fiat 130 di Moro; Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi sull'altra vettura. Moro viene prelevato e sistemato a bordo di una Fiat 132 blu che riparte a tutta velocità verso via Trionfale, preceduta e seguita da altre due auto dei componenti del commando. Secondo le ricostruzioni fornite successivamente dai brigatisti, le tre auto vengono abbandonate tutte insieme nella vicina via Licinio Calvo.

VIA MONTALCINI - Quartiere Portuense. Al numero 8, interno 1, di questa via della Magliana, secondo quanto emerso dai processi, sarebbe stato tenuto sotto sequestro per 55 giorni il presidente della Dc. La prigione del popolo è in un territorio all'epoca capillarmente controllato dalla banda della Magliana che, a sua volta, ha legami solidi con apparati dello Stato deviati. Alcuni esponenti del gruppo criminale - da Danilo Abbruciati ad Antonio Mancini - abitano a pochi passi dal numero 8 di via Montalcini. L'appartamento è intestato alla brigatista Anna Laura Braghetti, la cosiddetta 'vivandiera'. Dentro ci sono anche Prospero Gallinari e Germano Maccari. Per gli 'interrogatori' arriva Mario Moretti, che parte da un altro luogo simbolo: via Gradoli 96. Tanti i dubbi sul covo: c'è chi ipotizza che lo statista sia stato prigioniero in altre zone. Addirittura sul litorale, in una zona più appartata e tranquilla rispetto a Roma, tra Focene e Palidoro, come indicherebbero i sedimenti trovati sugli indumenti del politico.

VIA GRADOLI - In questa traversa della Cassia, zona Nord, in una palazzina al numero 96, c'è Mario Moretti, sotto l'alias 'ingegner Borghi', con la compagna Barbara Balzerani. La Polizia, in occasione dei controlli fatti due giorni dopo la strage di via Fani, va in via Gradoli, come in altre strade del quartiere, ma non in quell'appartamento. Il 'covo di Stato' (nella definizione di Sergio Flamigni) viene scoperto solo il 18 aprile 1978, in seguito ad una perdita d'acqua segnalata dall'inquilina del piano di sotto. Si apprenderà poi che nella palazzina ci sono ben 24 case di società immobiliari intestate a fiduciari del Sisde. Altra stranezza: nel settembre del '79 il funzionario del Viminale Vincenzo Parisi compra un appartamento al numero 75, stesso stabile dove Moretti, prima e durante il sequestro, disponeva di un box auto. Tra l'81 e l'85 Parisi - nel frattempo diventato vicedirettore e poi direttore del Sisde - prosegue con gli acquisti al numero 75 ed anche al 96. Parisi diventa poi capo della polizia.

VIA CAETANI - Il sequestro si chiude con l'ultimo atto, questa volta al centro di Roma: in via Caetani - dietro Botteghe Oscure, sede del Pci e poco distante da piazza del Gesù, sede della Dc - dove la mattina del 9 maggio viene fatta trovare una Renault 4 amaranto con il cadavere del politico nel portabagagli. Tanti i dubbi sollevati da chi ritiene improbabile che i brigatisti quella mattina abbiano attraversato tutta la città per arrivare da via Montalcini al centro storico, con quell'ingombrante carico. C'è chi ipotizza che il prigioniero si trovava in realtà in un covo nei dintorni di via Caetani. L'informato Mino Pecorelli scrive il 17 ottobre 1978: "Il ministro di Polizia (Cossiga, ndr.) sapeva tutto, sapeva persino dove era tenuto prigioniero: dalle parti del ghetto". Altra suggestione: via Caetani costeggia due palazzi storici, Palazzo Caetani e Palazzo Antici Mattei. In quest'ultimo il Sismi fa degli accertamenti dopo via Fani identificando il direttore d'orchestra russo, naturalizzato italiano, Igor Markevitch e la moglie, Topazia Caetani. Markevitch venne poi indicato come possibile intermediario nella trattativa per liberare Moro e, da alcuni, addirittura come colui che condusse gli interrogatori sul politico. Successivamente, il Sisde installerà un ufficio nella piccola via alle porte del ghetto. L'ennesimo enigma di una storia ancora oscura, come una strada non illuminata.

Nella cella di Aldo Moro oggi dormono due bambine. Dall’appartamento di via Montalcini al covo di via Gradoli, ecco cosa resta, scrive Giovanni Bianconi il 10 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Nella stanza dove fu recluso Aldo Moro, ostaggio delle Brigate rosse dal 16 marzo al 9 maggio 1978, ora dormono due bambine di 7 e 4 anni. È la camera da letto e dei giochi delle figlie della famiglia che abita in via Camillo Montalcini 8, piano 1 interno 1. La «prigione del popolo» allestita dai terroristi in una ordinata palazzina piccolo-borghese alla periferia sud di Roma non ha più nulla di ciò che fu quarant’anni fa, quando in quell’appartamento di oltre cento metri quadrati, completo di giardino, cantina e garage dove avvenne l’esecuzione dell’ostaggio, abitavano i militanti delle Br Anna Laura Braghetti, Prospero Gallinari e Germano Maccari, con Mario Moretti che andava e veniva per interrogare il prigioniero. La cella di Moro era nascosta dietro un muro improvvisato che copriva un’intercapedine larga poco più di un metro e lunga quattro. Anche fuori l’ambiente è cambiato. Nello spazio verde sull’altro lato della strada, all’epoca abbandonato, oggi c’è un bel parco attrezzato, all’ingresso il capolinea degli autobus. Sui muri campeggiano un paio di graffiti illeggibili e una scritta neofascista contro Laura Boldrini. Nient’altro che evochi i contrasti politici di oggi, e tantomeno quelli del 1978, quando in questo luogo cambiò la storia d’Italia. La casa dove Moro fu segregato fu acquistata nel 1977 dalla Braghetti, non ancora entrata in clandestinità, che restò ad abitarci per qualche tempo dopo la conclusione del sequestro e lo smantellamento della prigione. Sul parquet, a terra, rimase il segno della parete rimossa. Nel ’79 la brigatista vendette l’appartamento alla stessa cifra a cui l’aveva comprato, 50 milioni di lire, e l’acquistò il capofamiglia del quarto piano, per la suocera. Ignaro di tutto. Finché un giorno bussarono gli investigatori, la signora mostrò il contratto d’acquisto dove compariva il nuovo indirizzo della Braghetti, che fu arrestata poco dopo. Poi si scoprì che quel covo era stato il carcere di Moro, e il segno sul parquet rimase lì a ricordarlo finché nel 2008 — dopo la morte della signora e l’ingresso di una nipote — i lavori di ristrutturazione tolsero ogni traccia. Non prima di un contatto con la famiglia Moro: «Voi avrete sempre il diritto di venire in questo luogo, ogni volta che vorrete». Un esempio di memoria privata che va oltre il tempo trascorso e la mutazione dei luoghi. L’anno scorso sono tornati qui i carabinieri del Ris, che in garage hanno fatto nuovi rilievi e prove di sparo per verificare la versione brigatista dell’omicidio, portando in via Montalcini una Renault 4 uguale a quella in cui fu riconsegnato il cadavere dell’ostaggio. Conclusione: «Si ritiene che non siano emersi elementi oggettivi tali da sconfessare un’azione di fuoco nel box in questione contro Aldo Moro». Diciotto chilometri più a nord, dall’altra parte della città, una sbarra a comando regola l’accesso in via Gradoli, una traversa della Cassia, dove c’era la base br abitata da Mario Moretti. «Certamente il luogo più enigmatico», scrive l’autore televisivo Roberto Fagiolo nel suo recentissimo Topografia del caso Moro (Nutrimenti editore). Il 18 aprile, un mese dopo la strage di via Fani, un’infiltrazione d’acqua dal secondo piano della palazzina B, interno 11, provocò l’irruzione dei vigili del fuoco: saltarono fuori armi e documenti delle Br, ma il sedicente ingegnere Mario Borghi, che l’aveva affittata tre anni prima, riuscì a farla franca insieme all’altra inquilina, la brigatista Barbara Balzerani. Poi si scoprì che già all’indomani del sequestro, il 18 marzo, la polizia aveva controllato l’edificio, all’interno 11 nessuno aprì e gli agenti se ne andarono; nonostante la signora di fronte sostenesse di aver sentito trasmettere nottetempo messaggi con l’alfabeto Morse (mai confermati). Seguirono la segnalazione su «Gradoli» giunta da una seduta spiritica, che portò gli investigatori in un paese del viterbese ma non nella via omonima, e la successiva scoperta di appartamenti in zona nella disponibilità dei servizi segreti. Ancora oggi, dice un inquilino che all’epoca non era nato, molte case sono intestate a società, «e chissà chi c’è dietro». Sul cancello gli annunci di vendite e affitti sono scoloriti dal tempo, l’appartamento delle Br è vuoto. Fino a dicembre era abitato da un anziano signore morto in solitudine, l’amministratore è alla ricerca degli eredi. Nessuno degli attuali inquilini era qui quarant’anni fa. Il portiere — un cingalese arrivato nel 1999 — ha sentito parlare di Moro e delle Br solo dopo tanto tempo, in occasione di un altro caso di cronaca dai risvolti politici emerso dal sottoscala del palazzo: gli incontri della transessuale Natalie, frequentata dall’allora presidente della Regione Lazio. Era il 2009, e per interrompere il viavai di giornalisti, curiosi e clienti fu montata la sbarra che oggi protegge la tranquillità degli abitanti e i segreti veri o presunti di quarant’anni fa. Da qui Mario Moretti portava i testi dei comunicati brigatisti nella tipografia di via Pio Foà 31, quartiere Monteverde. La polizia la individuò negli ultimi giorni del sequestro, ma l’irruzione avvenne dopo il 9 maggio. Tra macchine da scrivere e stampatrici c’era pure una fotocopiatrice dismessa dal ministero della Difesa, particolare che ha alimentato ulteriori sospetti. Oggi dietro la stessa saracinesca lavora un tappezziere che ha acquistato il locale nel 1994. Delle Br ha avuto i racconti del barbiere che lavorava nel negozio accanto, dove si appostavano i poliziotti durante i pedinamenti; ora il barbiere è in pensione, al suo posto c’è un parrucchiere per signore. Di fronte abitava il leader comunista Giancarlo Pajetta insieme alla giornalista Miriam Mafai, morta nel 2012, da cui ha preso il nome della Fondazione che ha sede nello stesso, anonimo palazzo. Di fianco, lungo la rampa che porta ai garage, un materasso sull’asfalto e un paio di coperte, accanto a un fornelletto e due pentole sporche, sono il ricovero di un senzatetto; quarant’anni fa sarebbe stato un testimone utile per l’antiterrorismo, oggi lo è di una nuova emergenza. A breve distanza, meno di cinque chilometri, un’altra base brigatista che ha avuto grande importanza durante il sequestro Moro: via Gabriello Chiabrera 76, alle spalle della basilica di San Paolo. Era il rifugio dei «postini» delle Br Valerio Morucci e Adriana Faranda. Da qui, la mattina del 16 marzo, Morucci e Franco Bonisoli uscirono per andare a sparare in via Fani contro gli uomini della scorta, mentre la Faranda rimase ad ascoltare i messaggi radio di polizia e carabinieri. Qui, la sera dell’8 maggio, Moretti e compagni decisero le modalità d’azione della mattina seguente: l’esecuzione di Moro e il trasporto del cadavere nel centro di Roma, dove in via Caetani un brigatista aveva parcheggiato la sua macchina per tenere il posto alla Renault 4 rossa. Anche in via Chiabrera, dove in fondo alla strada c’era un bar frequentato dai banditi della Magliana, nessuno s’era accorto di nulla all’epoca; ma nessuno sa niente nemmeno adesso. Nell’appartamento al primo piano affittato dalle Br abitano tre studentesse ignare di tutto. Che non mostrano alcuna curiosità per le Brigate rosse né per la storia di Aldo Moro. «Vabbè, ma noi che c’entriamo?», si schermisce quella che apre la porta. Pronta a richiuderla: «Arrivederci». La memoria può aspettare.

Aldo Moro, il buio oltre via Fani. Indagine sui retroscena del sequestro. Il 16 marzo in edicola con il «Corriere» un saggio di Giovanni Bianconi sulla tragedia del leader democristiano. Qui pubblichiamo una sintesi della nuova introduzione, scrive Giovanni Bianconi il 14 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Il testo che segue è una sintesi della nuova introduzione scritta da Giovanni Bianconi per la riedizione del suo libro «Eseguendo la sentenza», in edicola il 16 marzo con il «Corriere della Sera» in collaborazione con Giulio Einaudi editore. Sono passati quarant’anni, e più che in altre occasioni le celebrazioni per l’anniversario del sequestro di Aldo Moro e la strage della sua scorta — i carabinieri Oreste Leonardi e Domenico Ricci, insieme ai poliziotti Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi — assumono un significato particolare. Non solo perché è una ricorrenza «a cifra tonda» e dunque considerata più evocativa, ma per l’atmosfera in cui cade. È l’inizio di una nuova legislatura, caratterizzata da incognite e fermenti che, in tutt’altre condizioni, ricorda quella del 1978, quando il presidente della Democrazia cristiana cercava soluzioni a una situazione politica ugualmente ingarbugliata. E individuò una difficile via d’uscita che apriva nuove prospettive. La «solidarietà nazionale», che per un biennio aveva tenuto in vita il governo monocolore Dc grazie all’astensione degli altri partiti, si trasformò in «unità nazionale», con il voto favorevole di tutti gli alleati, comunisti compresi. Era la prima volta, dal 1947. Ma la mattina del 16 marzo 1978, quando il Parlamento doveva sancire questa svolta storica, le Brigate rosse tolsero dalla scena il protagonista principale della trama, e la via d’uscita si trasformò in un vicolo cieco. Destinato ad esaurirsi in pochi mesi, dopo l’omicidio di Moro, con una retromarcia che riportò le maggioranze di governo su percorsi più tradizionali. Rispetto ad allora tutto è cambiato, ma la politica italiana è sempre alla ricerca di qualche via d’uscita. Non ci sono più i partiti di allora e — soprattutto — non ci sono più le formazioni armate che condizionarono in maniera decisiva quel lungo tratto di strada, dalle Br in giù; e prima ancora le sigle neofasciste che con le bombe e le coperture degli apparati statali avevano alimentato la «strategia della tensione». Ciò nonostante la violenza politica, seppure con forme e prospettive nemmeno paragonabili, resta un fantasma sempre pronto ad agitarsi e ad agitare i contrasti che viviamo. Oggi non solo l’Italia, ma le società occidentali in genere sono chiamate a misurarsi con altre forme di terrorismo che quarant’anni fa non erano contemplate, seppure già covassero sotto i conflitti dell’epoca, in Medio Oriente e non solo. Rievocare i drammatici cinquantacinque giorni della primavera 1978 può servire a conoscere meglio la storia di ieri e quello che siamo diventati, fino ad oggi. In questo libro pubblicato nel 2008, a trent’anni dai fatti, ho cercato di ricostruire l’intera vicenda vista da tre angolazioni differenti, tutte essenziali: i brigatisti che sferrarono l’attacco, con il loro carico di ideologia e di morte; lo Stato che lo subì, nelle sue diverse articolazioni: la magistratura e le forze dell’ordine, il governo, i partiti e la Dc in primo luogo; Moro e la sua famiglia che inizialmente, in qualità di vittime, erano al fianco delle istituzioni ma da un certo momento in poi, quando l’ostaggio cominciò a scrivere le sue lettere dalla «prigione del popolo», divennero a loro volta antagonisti dello Stato e della «linea della fermezza» ufficialmente adottata. Ho cercato di scavare tra tanti episodi più o meno conosciuti, che si sono susseguiti e spesso accavallati in quei due mesi frenetici e drammatici, per portare alla luce sensazioni personali, stati d’animo, speranze, delusioni, ragioni e torti dei diversi protagonisti, per provare a meglio comprendere la storia più grande attraverso piccoli frammenti. Dalla prima edizione sono trascorsi altri dieci anni, ma la sostanza del racconto che si potrebbe fare oggi non è dissimile da quella di allora. Le ulteriori indagini di magistratura e commissione parlamentare d’inchiesta non hanno cambiato il quadro complessivo. Il mosaico che si può intravedere mettendo insieme le tessere dei tre punti di vista, resta sostanzialmente lo stesso. Con le ombre, i chiaroscuri, i rilievi e i vuoti che pure ci sono, ma non impediscono di vedere il disegno che s’è realizzato: un’azione politico-criminale, di stampo rivoluzionario, lanciata all’assalto di un sistema che per resistere all’urto ha scelto di sacrificare un suo illustre rappresentante finito «sotto processo» per conto di tutti gli altri, e condannato a morte. Schierandosi contro gli assassini che avevano trucidato la scorta e avrebbero ucciso il prigioniero, ma anche contro un uomo che fino all’ultimo ha cercato di salvare la propria vita e una certa idea dello Stato e delle istituzioni. Inutilmente.

Delitto Moro: l’identikit di "Defilato", un imprendibile delle Brigate Rosse. A Firenze c'è un uomo, in libertà, che era "il contatto sporco" dei fiancheggiatori delle Br che gestivano gli interrogatori del presidente della Dc, scrive Giorgio Sturlese Tosi il 15 marzo 2018 su Panorama. Quarant’anni dopo il sequestro Moro c’è ancora chi, tra quei terroristi che progettarono il più eclatante attacco allo Stato, è sfuggito agli arresti. Qualcuno che conosce molti segreti delle Brigate rosse, dagli anni ’70 ai giorni nostri. Il suo nome in codice è il “Defilato”, l’uomo che unisce via Fani agli ultimi attentati brigatisti di Nadia Desdemona Lioce; il giovane militante che accompagnava il braccio destro di Barbara Balzerani, componente del commando che sequestrò Moro, nei suoi soggiorni fiorentini e ha poi permesso di organizzare il gruppo di Nadia Lioce. Passando come testimone, se non protagonista, dei delitti brigatisti degli anni ’80. L'antiterrorismo continua a dargli la caccia perché ha ancora le chiavi di accesso a molti segreti delle vecchie e delle nuove Brigate Rosse, dai covi agli arsenali, ai nomi dei brigatisti ancora in libertà. A svelare la sua esistenza agli investigatori è stata la brigatista Nadia Desdemona Lioce, la primula rossa che aveva ucciso Massimo D’Antona e Marco Biagi e che fu catturata il 2 marzo 2003 a Castiglion Fiorentino dopo lo scontro a fuoco sul treno in cui persero la vita il sovrintendete di Polizia Emanuele Petri e il terrorista Mario Galesi. O meglio, sono stati i computer e i floppy disk scoperti, nove mesi dopo quella sparatoria, nel covo brigatista in via Montecuccoli, a Roma. Quell’archivio digitale conteneva 183.690 files, protetti da numerose password. Violate grazie anche alla collaborazione dell’Fbi statunitense. Dalla lettura di quei documenti gli investigatori scoprirono che il Defilato era l’unico che – scrivevano le stesse Br nei loro documenti interni - "conosceva i meccanismi per entrare in contatto con la sede centrale, le modalità di ripresa del rapporto con l’Istanza Centrale cioè la parte residua dei militanti di quel collettivo”. Cioè di quei compagni che parteciparono alle azioni degli anni ’80. Quel nome in codice ha destato l’interesse dello Sceti (Servizio contrasto estremismo e terrorismo interno), l’ex Ucigos. E soprattutto della Digos fiorentina, che ben conosceva la storia dei movimenti eversivi toscani. Furono così ripescate le indagini condotte sull’omicidio, nel 1987, dell’ex sindaco Lando Conti. Rileggendo quegli atti, in questura hanno ritenuto di poter retrodatare la militanza nella lotta armata della Lioce fino a quegli anni. La brigatista, che oggi sconta la sua pena al 41bis nel penitenziario dell’Aquila, unica detenuta “politica” in regime di carcere duro, nel 1978, da Foggia, si trasferisce a Pisa e già scrive lettere d’amore immaginando il suo futuro dietro le sbarre.

Frequenta ambienti antagonisti, viaggia tra Mosca e il Nicaragua e, quando le Br toscane uccidono Lando Conti, viene perquisita dalla Digos. Conti venne ucciso con la stessa mitraglietta Skorpion impiegata negli omicidi di due militanti del Msi, a Roma, nel 1978; del professor Ezio Tarantelli, sempre a Roma nel 1985, e del senatore democristiano Roberto Ruffilli, nel 1988, Forlì. Quella mitraglietta, marchio di fabbrica Br, non è mai stata ritrovata. E le sentenze hanno accertato che non tutti i responsabili di quegli omicidi sono stati individuati e condannati. Tra i loro fiancheggiatori c’erano certamente militanti dei Nuclei comunisti combattenti, organizzazione guidata da Nadia Lioce che progettava la ricostruzione delle nuove Brigate Rosse. Ancora oggi il dossier della Digos sulla Lioce sta a portata di mano, accanto all’ufficio di Gabinetto, al secondo piano della questura di via Zara, a Firenze. A parte la beffarda logica alfabetica che lo posiziona accanto a quello del terrorista nero Mario Tuti, il fascicolo della Lioce si distingue per i colori: poche pagine bianche, relativamente recenti, e quelle ormai gialle e fragili delle antiche indagini sul Comitato rivoluzionario toscano, l’organizzazione che, in riva d’Arno, diede ospitalità alla Direzione Strategica delle Brigate Rosse che, proprio da Firenze, nel 1978, gestì il sequestro, gli interrogatori e l’assassinio di Aldo Moro. Tra quelle carte vecchie e nuove c’è una corposa relazione che la Digos ha inviato alla procura della Repubblica di Firenze nel 2006. Panorama ha potuto leggere quelle carte dove, per la prima volta, si traccia il profilo politico e criminale del Defilato, fino ad ipotizzare quattro nomi di personaggi tuttora a piede libero, depositari di segreti protetti per decenni. Trentotto pagine con le quali gli investigatori, riassumendo piste investigative dimenticate o inedite, ricostruiscono una matrice fiorentina, ma anche pisana e del litorale tirrenico, dell’organizzazione eversiva più sanguinaria della nostra storia. Panorama ha consultato gli atti processuali e i vecchi atti di indagine citati nella relazione riservata. Una rilettura che, dopo decenni, dimostra che, grazie a quei nomi, è possibile riannodare il filo dei misteri che ancora avvolgono gli assassinii commessi da brigatisti vecchi e nuovi. Fino a suggerire un’inedita chiave di lettura della metamorfosi del brigatismo italiano: che cioè se Curcio, partendo da Trento, fondò le Brigate Rosse, il loro sanguinario cammino fu portato avanti soprattutto da ex militanti di Lotta Continua, fondata a Pisa da Adriano Sofri. I nomi contenuti nella relazione inviata alla procura di Firenze, che però non riuscì ad emettere capi d’accusa circostanziati, riportano ai covi toscani dove si riunivano Mario Moretti e compagni. E al magma di fiancheggiatori che da Pisa e della costa tirrenica predisposero i preparativi per il sequestro Moro. Sul cruscotto della Renault 4 dove fu recuperato il corpo dello statista, infatti, era esposto il tagliando assicurativo rubato proprio a Pisa nel 1976 dal Comitato rivoluzionario toscano. Proprio da quel gruppo di militanti (Paolo Baschieri, Dante Cianci - altro foggiano emigrato a Pisa come la Lioce -, e Giampaolo Barbi), fermati a Firenze, nel dicembre 1978, con varie armi comprate con lo stesso porto d’armi utilizzato per acquistare un fucile pompa marca Ithaca trovato nel covo di via Gradoli il 18 aprile 1978. Oltre alle chiavi di uno dei covi fiorentini dove si riunivano, nei giorni del sequestro Moro, Moretti e la Balzerani.

D’altronde Barbara Balzerani a Firenze aveva stretto rapporti con i componenti della brigata Catabiani, attiva dalla costa al capoluogo toscano, con frequenti incursioni a Milano e Roma, poi confluita nel Comitato rivoluzionario toscano.

Il Defilato fa parte di quel gruppo ma riesce a sfuggire agli arresti. Poi, negli anni ’80, sempre accompagnandosi alla Balzerani - che dal carcere rivendica l’omicidio Moro - contribuisce a riformare le Brigate Rosse. Partecipa quindi all’organizzazione degli ultimi omicidi firmati dalla stella a cinque punte (Ezio Tarantelli, Lando Conti e Roberto Ruffilli) e per qualche anno, appunto, si defila. Fino ad essere riattivato, nel 1997, dalla Lioce, che ben conosceva. Ma chi è il Defilato? Gli esperti dell’antiterrorismo hanno redatto una lista di quattro nomi; tutti personaggi ben noti ai più anziani tra i poliziotti fiorentini. Mentre a Roma gli analisti sperano che le nuove tecnologie possano estrarre un’identità certa dalle prove dormienti repertate sugli omicidi D’Antona e Biagi. Capelli e altri reperti biologici che quindici anni fa non fornirono un profilo genetico completo, che i nuovi strumenti acquistati dalla Polizia scientifica potrebbero ricostruire. Panorama ha rintracciato quei quattro sospettati. Sono nati tra il 1962 il 1965. Uno di loro è di origini straniere, un altro gestisce un bar, uno è un sindacalista e un altro partecipa alle iniziative dell’Associazione nazionale partigiani. Tutti e quattro sono ancora attivi nell’ultrasinistra. Tutti hanno frequentato o frequentano il Centro popolare autogestito Firenze Sud, come faceva Mario Galesi e, prima di lui, alcuni dei brigatisti degli anni ’80. Lo stesso centro sociale fiorentino dove Barbara Balzerani, oggi libera, proprio nella ricorrenza del sequestro Moro, “per fuggire ai fasti del quarantennale”, ha annunciato la presentazione del suo ultimo libro. Alla riunione, tra vecchi compagni e giovani antagonisti che forse nemmeno sanno chi era Aldo Moro, potrebbe esserci anche il Defilato. (Una versione più breve di questo articolo è stata pubblicata sul numero di Panorama in edicola il 15 marzo 2018, in un servizio ampio dedicato ai 40 anni dal rapimento e l'omicidio di Aldo Moro).

Rapimento Moro: 40 anni fa la strage di via Fani. Il 16 marzo 1978 un commando delle Br rapiva il Presidente della Dc Aldo Moro uccidendo tutti gli uomini della scorta. Italia sotto shock, scrive Edoardo Frittoli il 14 marzo 2018 su "Panorama". Nel 40° anniversario della Strage di via Fani dove fu rapito il Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro e dove furono trucidati i 5 componenti della sua scorta, ripercorriamo con le immagini la cronaca di quel giorno che cambiò la storia dell'Italia repubblicana.

Roma, via del Forte Trionfale. Ore 8,45 di giovedì 16 marzo 1978: il giorno del "compromesso storico". L'Alfetta bianca della scorta del Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro attende con il motore acceso fuori dal civico 79. Il politico pugliese (62 anni e 5 mandati da Presidente del Consiglio alle spalle) era atteso alla Camera dei Deputati per votare la fiducia al quarto governo Andreotti a cui per la prima volta avrebbero partecipato i deputati del Partito Comunista Italiano di Enrico Berlinguer. Il clima del Paese in quel marzo del 1978 era molto teso, segnato profondamente dalla lunga scia di delitti da parte delle organizzazioni terroristiche che caratterizzarono gli anni di piombo. Le Brigate Rosse avevano alzato il tiro fin dal secondo arresto del leader Renato Curcio nel 1976 e, sotto la guida organizzativa di Mario Moretti, avevano assassinato a Genova il Procuratore Generale Francesco Coco e gli uomini della scorta. Oltre ai morti nelle forze dell'ordine dovuti a diversi scontri a fuoco con i brigatisti, gli uomini di Moretti facenti parte della "colonna romana" compirono la prima azione nella Capitale, ferendo il 12 febbraio 1977 Valerio Traversi, membro del Ministero di Grazia e Giustizia. L'attacco al "cuore dello Stato" era cominciato. Poco dopo, a Torino, sarà la volta dell'assassinio del presidente dell'Ordine degli Avvocati Fulvio Croce. A Milano, pochi giorni dopo sarà gambizzato Indro Montanelli, così come altri giornalisti di diverse testate e orientamenti politici. Il 16 novembre fu ferito Carlo Casalegno, che morirà dopo 13 giorni di agonia. Proprio l'emergenza generata dall'attività dei terroristi aveva portato ai cosiddetti "governi di unità nazionale" nei quali era maturata l'idea del compromesso storico tra DC e PCI, osteggiato dal dissenso interno di parte dei rappresentanti dei due partiti e dagli Stati Uniti, che avevano già ammonito Moro sulla ferma intenzione di Washington di interrompere gli aiuti americani in caso di coinvolgimento dei Comunisti nel Governo italiano. Nei giorni precedenti il 16 marzo, inoltre, Aldo Moro era stato fatto bersaglio della campagna scandalistica legata al processo sullo scandalo Lockheed, secondo le cui indiscrezioni il mediatore politico delle tangenti per le forniture militari, in codice "Antelope Cobbler", sarebbe stato proprio il Presidente DC. Pochi minuti dopo l'arrivo della scorta, Moro prendeva posto sul sedile posteriore della Fiat 130 blu ministeriale e la colonna si muoveva rapidamente verso Montecitorio.

Via Fani angolo via Stresa. Ore 9:00. La strage. All'incrocio tra le due vie del quartiere Trionfale, la storia italiana sarà segnata da uno dei fatti più sconvolgenti dal dopoguerra. All'improvviso la vettura di Moro tamponava una Fiat 128 familiare di colore bianco con targa falsa del Corpo Diplomatico (CD 19707), che aveva tagliato la strada alle due auto in viaggio verso la destinazione. In una manciata di secondi il commando terrorista sbucato dai cespugli di fronte al bar "Olivetti" fa fuoco sull'Alfetta della scorta, uccidendo sul colpo gli agenti Giulio Rivera e Raffaele Iozzino, l'unico riuscito a scendere dall'auto durante l'assalto. Il Vicebrigadiere Francesco Zizzi giaceva ferito gravemente dai proiettili delle BR, l'unico rimasto in vita oltre a Moro. All'interno dell'auto di Aldo Moro giaceva il corpo dell'autista, L'appuntato dei Carabinieri Domenico Ricci. Sul sedile anteriore del passeggero della 130 il corpo del maresciallo dei CC Oreste Leonardi, responsabile della scorta. Di dietro, il posto vuoto occupato dall'Onorevole Aldo Moro. La prima volante della Polizia di Stato giungeva sul posto pochi minuti dopo l'agguato, intorno alle 9:05 proveniente dal Commissariato Monte Mario, distante circa 2 km. da via Fani. Gli agenti allontanavano a fatica la folla, chiedendo l'intervento delle ambulanze. Le pattuglie giunte per prime in via Fani diramavano la segnalazione di ricercare un'altra Fiat 128 bianca targata Roma M53995, una Fiat 132 blu (Roma P79560) e una moto Honda di colore scuro. I poliziotti riportano quanto riferito dai testimoni, che avrebbero visto i membri del commando indossare divise da "marinai o da agenti di PS". Alle 9:20 fu informato il Ministro dell'Interno Francesco Cossiga.

Ore 9:25 GR2 Edizione Straordinaria. Quando giungono gli uomini della Digos, nelle case degli Italiani le trasmissioni radiofoniche della mattina sono interrotte dalla sigla dell'edizione straordinaria del GR2: la voce del giornalista Cesare Palandri, rotta dall'emozione, diffonde la notizia del rapimento di Aldo Moro e della strage degli agenti di scorta.  Nel frattempo sul luogo della strage la Digos inizia a raccogliere prove ed indizi, faticando per la pressione della massa di cittadini attorno alla scena. Nella Fiat 130 vengono rinvenute due borse e documenti dell'Onorevole Moro, le armi cariche della scorta e la radio dell'Alfetta con il ricevitore appoggiato sul pianale, come fosse stata pronta all'uso. A poca distanza gli uomini delle Forze dell'Ordine rinvengono a fianco della 128 una borsa e, a poca distanza, un caricatore con 22 colpi e un cappello dell'Alitalia.

Ore 9:45 I posti di blocco, le telefonate all'Ansa, la seduta a Palazzo Chigi. Tre quarti d'ora dopo l'agguato i posti di blocco delle Forze dell'Ordine sono completati. Nel frattempo era stata ritrovata la Fiat 132 usata dai terroristi per la fuga e abbandonata in via Licinio Calvo, ad appena 2 km. da via Fani. Dall'aeroporto militare di Pratica di Mare si alzavano in volo due elicotteri. Alle 10:00, esattamente un'ora dopo la strage, i brigatisti rivendicavano l'attentato alle sedi dell'Ansa di Milano e Roma, usando la famosa espressione "attacco al cuore dello Stato". Il Ministro dell'Interno Francesco Cossiga convocava allora il supervertice interforze al quale prendono parte il Ministro della Giustizia Bonifacio, quello delle Finanze Malfatti (a capo della GdF) e della Difesa Ruffini. Con loro i capi delle tre Armi, della Polizia e dei Carabinieri, il Questore di Roma e i comandanti dei Servizi Segreti. Alle 10:20 si riunisce anche il Governo con le rappresentanze dei Partiti. Lo sgomento e la concitazione inducono il Presidente della Camera Sandro Pertini ad invitare i rappresentanti delle forze politiche italiane a votare immediatamente la fiducia al Governo di solidarietà nazionale guidato da Giulio Andreotti. Quando anche i telegiornali nazionali danno la notizia del rapimento e della strage della scorta, dal Policlinico Gemelli giunge la notizia del decesso dell'unico sopravvissuto all'agguato, il Vicebrigadiere Francesco Zizzi, ricoverato con tre colpi di arma da fuoco in pieno torace.

Primo pomeriggio del 16 marzo 1978: l'Italia si ferma. Mentre gli inquirenti ascoltavano le prime concitate testimonianze dei cittadini che avevano assistito all'agguato, in tutta Italia i lavoratori delle aziende pubbliche e private si fermavano. I sindacati pronunciavano lo sciopero generale e nelle piazze della principali città italiane affluivano spontaneamente centinaia di migliaia di persone in solidarietà alle istituzioni democratiche. Non mancò qualche episodio isolato di giubilo alla notizia, limitato tuttavia a qualche elemento tra le componenti di estrema sinistra degli studenti e di alcuni esponenti della sinistra extraparlamentare che vedevano la soluzione nell'allargamento della lotta armata. Ma nella pressoché totalità, gli Italiani erano attoniti e spaventati: l'azione terroristica era arrivata all'obiettivo in una manciata di secondi, portando con sè l'angoscia sulla sorte di Aldo Moro e lo sgomento per la morte violenta degli uomini della scorta.

Cala la sera sul giorno più lungo: inizia la notte della Repubblica. Al calare della luce del sole il buio della sera dell'attentato al cuore dello Stato è interrotto dalla luce tremola dei milioni di apparecchi televisivi sintonizzati sui canali della Rai che trasmettono le immagini della strage. Il Consiglio dei Ministri con i rappresentanti dei partiti vota la fiducia all'esecutivo alle 20:45. Roma è blindata da una rete di posti di blocco intrecciata da 2.000 agenti, che attendono ulteriori rinforzi da altre città. Mentre l'Italia fatica a prendere sonno al termine di quel giorno drammatico, nessuna traccia del Presidente della Democrazia Cristiana e del commando dei rapitori. Iniziavano i 55 giorni di detenzione del "prigioniero" Aldo Moro in un appartamento di proprietà della brigatista Anna Laura Braghetti al primo piano di via Montalcini, 8 nel quartiere Portuense. La "prigione del popolo" dove, dietro ad una parete costruita appositamente, fu rinchiuso e processato il Presidente della DC nella sua cella di 4 metri per 1. Oppure in altri luoghi di detenzione, come sostenuto in tempi recenti da diversi studiosi del caso Moro: forse in una villa sul litorale romano, forse in un appartamento di proprietà dello Ior a pochi passi da via Caetani, dove la storia del rapimento ebbe il suo tragico epilogo.

Sequestro Moro, Bodrato: «Quel 16 marzo tememmo che fosse iniziata l’insurrezione», scrive Carlo Fusi il 14 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  Guido Bodrato, che all’epoca era il numero due della Dc, guidata da Zaccagnini, e che ebbe un ruolo decisivo in tutti i drammatici 55 giorni del rapimento. Guido Bodrato, Dc, classe 1933: il 27 marzo prossimo compirà 85 anni. A metà degli anni ‘ 70, assieme a Corrado Belci, Luigi Granelli e Giovanni Galloni, ha fatto parte della “banda dei 4”, termine mutuato dalla Rivoluzione culturale avviata da Mao Tsedong e poi rovesciata come struttura di potere popolare. Meno enfaticamente, la banda scudocrociata identificava i migliori cervelli in circolazione che stazionavano all’ombra di Aldo Moro. In quel livido marzo di quarant’anni fa, Bodrado festeggiò il suo compleanno più amaro: undici giorni prima la Brigate Rosse avevano rapito l’allora presidente della Dc sterminando la sua scorta. Quattro decenni hanno inevitabilmente cambiato la prospettiva di quell’atto terroristico che segnò l’apogeo dell’attacco “al cuore dello Stato”. Ma Bodrato conserva il sentimento e la memoria di una cesura che fu allo stesso tempo, politica, storica, culturale e personale. Stroncò la vita di Moro, immerse l’Italia negli Anni di piombo, pose una pietra tombale sulla stagione del dialogo volta a realizzare la cosiddetta “democrazia compiuta”, quella dell’alternanza: finissima tessitura politica morotea, strappata e rimasta incompiuta per come era stata concepita nella mente del suo creatore. «E’ passato tanto tempo, sono state dette e scritte moltissime cose», sussurra Bodrato riandando a quesi terribili 55 giorni di prigionia che poi portarono al martirio di Moro. «Quando ci comunicarono la notizia, stavamo entrando in Parlamento per il voto di fiducia al governo Andreotti. Fu un colpo durissimo».

Ma lei quale fu la prima cosa che pensò: hanno vinto i terroristi oppure c’è la vita di un amico in pericolo mortale?

«Fu impossibile selezionare sentimenti così netti in quel momento. Pensai alla scorta che era stata distrutta, assieme ad altri amici ci domandavamo se Moro era morto nell’attentato oppure no. Fu un miscuglio di emozioni: grandi e tremende tutte».

E magari la principale era l’angoscia per quanto stava avvenendo e i pericoli che dischiudeva…

«Per forza. Però vede, le voglio dire una cosa. A quarant’anni di distanza, molti si rifanno al rapimento di Moro come se quell’atto segnasse l’inizio dell’incubo terrorista. Non è così. Da tempo infatti nella realtà italiana incubava la degenerazione della violenza politica, dalla piazza all’omicidio politico. Le cose erano già accadute, i morti c’erano già stati. Il rapimento Moro rappresentò un salto di qualità e costrinse tutti ad interrogarsi sul suo significato, sulla sua valenza».

Cosa accadde in quei primi momenti?

«Ci riunimmo subito tutti a palazzo Chigi per valutare la situazione, decidere cosa fare e come reagire. Si sovrapponeva il fatto che stavamo per votare la fiducia al governo».

Ecco, appunto: la fiducia al governo. Non aveste subito la percezione che fosse quello l’obiettivo politico delle Br: sabotare l’intesa Dc- Pci?

«Guardi, a questa distanza temporale c’è il rischio di mischiare le valutazioni fatte allora a caldo con quelle successive. Certamente la prima cosa che cercammo di capire era cosa significava il rapimento: se fosse un atto chiuso in sè oppure il segnale d’avvio di una strategia di tipo insurrezionale. Adesso, a tanti anni di distanza, è possibile mettere in ordine le cose, allora non era così».

Davvero pensaste che l’Italia poteva diventare terra rivoluzionaria?

«Ma non era forse questo l’obbiettivo dei terroristi? Nella strategia delle Br c’era la convinzione di essere l’avanguardia di una rivoluzione che doveva nascere da una insurrezione. Cosa dovevamo fare? Tra le proteste dei Radicali e dell’estrema sinistra, optammo per un dibattito di fiducia molto veloce. Ma c’era da affrontare un’emergenza nazionale».

Era l’attacco al cuore dello Stato…

«Così si è detto dopo. In quel momento c’era il rapimento di Moro: anche lui stava arrivando a Montecitorio per la fiducia. Tutti sapevano che si trattava di una discussione dall’esito assai incerto. La mia interpretazione – che ho raccolto in un libro scritto assieme a Belci e credo sia l’unica testimonianza di parte democristiana – è che il rapimento di Moro ha avuto come effetto quello di indurre il pci a votare una fiducia che probabilmente non avrebbe votato. L’intenzione brigatista era stroncare la politica di incontro tra Dc e Pci e nel tempo medio l’obiettivo fu raggiunto. Ma nell’immediato, creando appunto un’emergenza terroristica, l’effetto fu di spingere le principali forze politiche ad unirsi per fronteggiare quel tipo di pericolo, tralasciando di affrontare qualunque altra questione politica e sociale. E’ una contraddizione, qualche volta dimenticata. Ma ci sono testimonianze dirette che la confermano. I comunisti si aspettavano alcuni cambiamenti nella compagine governativa che invece non ci furono. Senza il rapimento Moro non avrebbero votato a favore del governo. Ricordiamo tutta la polemica interna al Pci se stare oppure no in mezzo al guado, se stare dentro o fuori della maggioranza».

A quarant’anni di distanza, lei conferma la scelta della fermezza, del no alla trattativa? Oppure bisognava agire diversamente?

«Un tema che non si è mai posto. Si trattava di salvare la vita di Moro e anche di respingere la possibilità di un riconoscimento politico alle Br. Io non ho mai dimenticato che prima del rapimento c’erano già stati dei morti; che gli attentati c’erano e poi sono proseguiti; non posso dimenticare l’assassinio di Ruffilli seppur avvenuto successivamente; non posso dimenticare gli amici colpiti dai terroristi a Genova, a Milano a Torino. Colpiti perché democristiani. Guardi, chi insiste sulla trattativa ignora la realtà delle cose. Io non posso farlo. Sicuramente lo Stato era impreparato; sicuramente c’era chi approvava l’azione delle Br. Ricordo che Liberazione fece un inserto su quella vicenda che io ho conservato. Una parte della popolazione italiana appoggiava le Br. Gli studenti della mia città giustificavano il rapimento di Moro perché era l’Uomo del Regime che si era arricchito sulle sciagure del Paese; così come a destra c’erano persone che sostenevano che Moro se l’era voluta. Il Paese era tutt’altro che unito. La Dc cercò una soluzione ma a patto che non apparisse come un riconoscimento all’azione del terrorismo brigatista perché questo non avrebbe fatto altro che allargare il bacino della violenza senza peraltro salvare la vita di Moro. Le ricostruzioni in base alle quali la fermezza per il Pci era il riconoscimento del senso dello Stato e per la Dc il tradimento del senso dell’amicizia non mi appartengono».

C’era anche una parte del Paese che era agostica: nè con lo Stato né con le Br…

«Come dice lei: era agnostica. Guardi una parte dell’Italia così c’è sempre stata. C’era ieri e c’è anche oggi. Chi possiede un minimo di conoscenza della cultura politica di Moro sa che di questi sentimenti del profondo dell’Italia lui era assolutamente consapevole. Era maestro ed è rimasto insuperato in quel tipo di analisi. Chi si considera moroteo sa benissimo che le cose non sono mai del tutto limpide, che ci sono sempre zone d’ombra e aree di compromissione nell’opinione pubblica».

E’ senso comune sostenere che dopo l’uccisione di Moro l’Italia non fu più la stessa. Che quei 55 giorni segnarono una cesura. Secondo lei cosa davvero cambiò nel profondo con l’uccisione del presidente della Dc?

«Siamo tutti d’accordo che è stato così, anche se poi ognuno declina quella consapevolezza in modo diverso. Certo, dopo l’uccisione di Moro non è finita la Storia: le nuove generazioni che non hanno vissuto quella tragedia non capiscono nemmeno il problema se è posto così. Per quel che era un processo avviato verso quella che si definiva una democrazia compiuta, per quello che era il sottilissimo filo che legava Moro e Berlinguer, certamente la sua barbara uccisione ha troncato quel filo, ha azzerato quel processo. C’è stata una profondissima svolta nella vita politica del Paese, penso nessuno possa negarlo. Naturalmente non è finita la politica. Chi non condivideva quel disegno non si è sentito affatto messo fuori gioco: al contrario. E’ una innegabile constatazione: una certa politica è stata colpita al cuore. Una politica che in larga parte si fondava sulla possibilità di costruirla, di interpretarla, di darle un’anima da parte di Aldo Moro. Lui ne era il garante e sapeva di esserlo. Non si può dire che morto lui è finita la storia democratica italiana: sicuramente però ha perso il regista di una partita politica fondamentale».

E adesso Bodrato, cosa rimane? Che Italia c’è del dopo Moro?

«L’Italia è cambiata molto, e molto è cambiato il mondo. La politica fa fatica a interpretare la realtà. Per esempio: il mondo digitale che ci circonda la mia generazione non lì’ha conosciuto e fa fatica ad adeguarvisi. Ma non c’è dubbio che ha una influenza decisiva nel disegnare la realtà che viviamo e la politica fatica a interpretarla. Non ci sono più le grandi fabbriche, è scomparsa o quasi la classe operaia. Ancora nel 1978 gli scioperi si decidevano davanti ai cancelli di Mirafiori: ora Mirafiori non c’è più. Sono in atto mutamenti profondi. Se la politica li affrontasse con lo sguardo lungo, considerando il dialogo – ecco il punto – una forza della politica e non espressione della sua debolezza, se lo facesse senza posizioni dogmatiche, e Moro era tutto fuorché un dogmatico, allora probabilmente ne verrebbe un vantaggio per tutti. Si è persa la capacità di legare una visione più generale – per Moro direi anche culturale e religiosa – della vita con la politica».

Cioè si è persa la capacità di pensare la politica come uno strumento per governare la società?

«Sì, dice bene: governare. Ma stiamo attenti. Oggi governare significa conquistare il potere ed esercitarlo fino in fondo e senza limiti. Per Moro non era assolutamente così. Le Br lo consideravano l’espressione dello Stato delle Multinazionali, ed invece è noto che Moro era tutt’altro. Io non mi considero assolutamente un interprete del suo pensiero, però dico questo. Manca Moro come persona, ovviamente, anche se oggi sarebbe centenario. Manca in particolare la sua capacità di riflessione, manca vorrei dire il Moro “montiniano”. Moro ha rappresentato l’espressione più compiuta di una generazione che considerava la politica non mera conquista del potere. Era un politico laico e non leninista, nel senso che la dimensione cattolica serviva ad esaltare la sua laicità e non a soffocarla, dunque era soprattutto laico liberale. Si è persa quella dimensione della vita democratica che in lui era vivissima. Oggi c’è il rischio che votare non significhi più affermare la democrazia bensì addirittura uscirne. Anche in Turchia e in Russia si vota: ma è un voto plebiscitario. Abbiamo perso la capacità di riflettere sulle radici più profonde della democrazia, che si esprime, è vero, nel voto ma può anche finire per avere un significato opposto. Ebbene la capacità di Moro era di arrivare al fondo delle cose, di capire il senso degli accadimenti senza lasciarsi trascinare dalla dimensione del momento. Amava approfondire, insomma. Oggi chi lo fa?».

In morte di Aldo Moro, scrive il 14 marzo Piccole Note su "Il giornale". Tante e diverse in questi giorni le rivisitazioni del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro. Sono passati quarant’anni dal suo assassinio ed è atto dovuto. Purtroppo sono tutte più o meno stucchevoli. Con questo articolo iniziamo una serie di riflessioni sulla vicenda. Per cenni, come si può scrivere di queste cose. Un premessa d’obbligo è sulle ricostruzioni. Di tanto in tanto spuntano nuovi covi dei brigatisti, nuovi particolari su quanto accaduto in via Fani e altrove in quei terribili giorni.

Di ricostruzioni. Si tratta di particolari importanti, ma secondari. Tutti sanno che Moro non è stato nel covo che ci hanno detto i brigatisti. Semplicemente non avrebbe potuto stare in quello sgabuzzino senza deperire, né poteva avere sabbia nei risvolti dei pantaloni e tanto altro. Come tutti sanno che Moro era stato salvato dai suoi compagni di partito, come scritto da Pecorelli (e altri). Liberato, Aldo Moro non è stato ucciso nel bagagliaio, come da narrativa ufficiale. È stato ucciso in macchina durante il trasferimento in auto, mentre era seduto sul sedile posteriore, come ricostruito in maniera definitiva da Paolo Cucchiarelli in “Morte di un Presidente”, uno dei pochi libri sull’omicidio Moro che val la pena leggere perché supportato da documenti d’epoca più che sorprendenti. Uno di questi, tanto per citare, è la foto del bagagliaio della Renault 4 dove fu trovato il corpo di Aldo Moro. Una foto successiva, del bagagliaio vuoto, mostra come la macchia di sangue sul tappetino non si trovasse nella zona dove stava poggiato il busto dello statista, quello martoriato dai colpi, ma sotto le gambe, che colpi non avevano ricevuto. Insomma, come indica anche la posa del tutto innaturale del corpo, Moro fu ucciso e poi stipato nel bagagliaio: il corpo che andava irrigidendosi fu costretto a forza nello spazio angusto del ripostiglio. Ma chi vuole può leggere il libro citato che, come detto, è uno dei pochi che dice qualcosa di interessante sul tema.

Aldo Moro e il compromesso storico. Ma interrogarsi su queste cose, anche se utile e prezioso, non esaurisce un tema molto più vasto, sul quale non vengono poste domande. Oggi possiamo fare un primo cenno su questo livello. Una narrativa consolidata spiega che il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro fu un attacco al cuore dello Stato. Lo Stato avrebbe vacillato, certo, ma si sarebbe poi ripreso e avrebbe contrattaccato riuscendo a debellare il nemico. Nulla di più falso: l’omicidio Moro fu un omicidio politico perfettamente riuscito. Moro, Andreotti, Berlinguer, Rodano e Paolo VI (nei modi e nelle forme con le quali un Papa può accompagnare un processo politico) avevano immaginato un cambiamento epocale. Tale era il compromesso storico, il più grande disegno politico del Dopoguerra. Che aveva prospettiva globale e non solo italiana. Una prospettiva che avrebbe fatto del Pci italiano, ormai scollegato da Mosca, il punto di riferimento della sinistra d’Occidente. E avrebbe così indotto l’Unione sovietica a intraprendere un cammino di riforme ben prima dell’era Gorbacev. Con Moro quella prospettiva fu uccisa. Un omicidio politico perfettamente riuscito, appunto.

Il rapimento dell’onorevole Moro, la morte dei 5 agenti di scorta, i 55 giorni del sequestro e il tragico epilogo: I dubbi sulle verità svelate, i segreti mai rivelati e i timori di rivelazioni devastanti. A 40 anni dalla strage di via Fani, il docuweb di Giovanni Bianconi e Antonio Ferrari sui retroscena del sequestro. Giovanni Bianconi, giornalista del Corriere della Sera, è in edicola dal 16 marzo con il libro «Eseguendo la sentenza», in vendita con il «Corriere della Sera» in collaborazione con Giulio Einaudi editore. Antonio Ferrari, ex inviato ed ora editorialista del Corriere della Sera, è in libreria dal 14 settembre con il Segreto (edizione Chiarelettere), romanzo che racconta un’altra verità sul delitto Moro: un’opera di fantasia che vale come un’inchiesta.

Sequestro Moro, cosa ci faceva il boss in via Fani? Una foto può riaprire il caso. Sparito e poi riapparso, lo scatto che ritrae un capo della ’ndrangheta potrebbe dare un volto a uno dei colpevoli dell'eccidio, impunito dopo 40 anni, scrive Paolo Biondani il 15 marzo 2018 su "L'Espresso".  Il mistero di una foto. Scattata in via Fani il 16 marzo 1978, poco dopo il sequestro di Aldo Moro e l’eccidio della scorta. Un’immagine scomparsa dal palazzo di giustizia di Roma. E ritrovata in copia a Perugia. Una foto che potrebbe dare un volto e un nome a uno dei colpevoli che da 40 anni restano impuniti. E riscrivere uno dei capitoli più tragici della nostra storia. Perché l’uomo della foto non è uno dei brigatisti già identificati e condannati: assomiglia terribilmente a un mafioso della ’ndrangheta. Un boss di alto rango, che scambiava favori sporchi con un militare dei servizi segreti. Una foto collegata ad altri misteri: la presenza in via Fani di due sconosciuti, in moto, armati di almeno un mitra che ha sparato. E il recente ritrovamento in Calabria di due mitragliette skorpion, che i boss più potenti della ’ndrangheta collegavano proprio al caso Moro. Tutto parte dalla storia della moto, che è confermata anche dagli studiosi più scettici. Vladimiro Satta è uno storico che ha firmato vari saggi per smontare «i falsi misteri del caso Moro». Sentito dall’ultima commissione parlamentare d’inchiesta, ha riconfermato la sua conclusione: «Moro è stato sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse di Mario Moretti, che non erano etero-dirette». Le tante dietrologie di questi anni, ha aggiunto però lo studioso, hanno distolto l’attenzione dall’unico vero mistero, che «merita di essere approfondito»: la «questione della moto Honda». Di cosa si tratti lo ha spiegato ai parlamentari il pm romano Antonio Marini: «Un cittadino mio omonimo, Alessandro Marini, che nel momento dell’agguato si trovava sul suo motorino all’incrocio di via Fani, ha visto passare una moto Honda di grossa cilindrata, da cui sono stati esplosi alcuni colpi contro di lui». Il magistrato romano sottolinea che la presenza della moto in via Fani «non è un’ipotesi, ma un fatto accertato con sentenza definitiva: «i brigatisti sono stati condannati in tutti i gradi di giudizio anche per il tentato omicidio di Alessandro Marini». In concorso con gli ignoti motociclisti. La «moto Honda di colore blu» è stata vista da altri tre testimoni oculari, sempre accanto a due soli brigatisti (poi condannati). Un teste ha notato anche «il calcio di un mitra». Il killer che ha sparato, «quello seduto dietro», impugnava «una mitraglietta di piccole dimensioni» ed era «coperto da un passamontagna scuro». Per cui avrebbe potuto tornare senza problemi a godersi la scena in via Fani. I brigatisti del commando hanno sempre smentito la presenza di qualsiasi moto, rivendicando di aver fatto «tutto da soli». Sul caso Moro però i terroristi rossi, dissociati compresi, hanno offerto nel tempo solo verità parziali, aggiustate dopo la scoperta e le successive condanne di altri complici, come Alessio Casimirri o il carceriere Germano Maccari. Le prime indagini sulla moto, quindi, seguono l’ipotesi più logica: altri due brigatisti ancora ignoti. Ma la pista rossa porta solo a due ex autonomi, riconosciuti totalmente estranei al caso Moro. Il primo a parlare di complici esterni è un super pentito della ’ndrangheta, Saverio Morabito, arrestato in Lombardia nei primi anni ’90. Le sue confessioni hanno permesso al pm milanese Alberto Nobili e alla Direzione investigativa antimafia di ottenere più di cento condanne nel maxi-processo Nord-Sud. Morabito, giudicato nelle sentenza «di assoluta attendibilità», rivela che un mafioso importante, Antonio Nirta, nato a San Luca l’8 luglio 1946, negli anni ’70 aveva legami inconfessabili con un carabiniere di origine calabrese, Francesco Delfino, poi diventato generale dei servizi. Il pentito ne parla con paura e aggiunge che il suo capo, Domenico Papalia, gli rivelò che «Nirta fu uno degli esecutori materiali del sequestro Moro»: un segreto di mafia confermatogli anche dal boss Francesco Sergi. Il pm Nobili trasmette il verbale al collega Marini, che riapre l’indagine sui due in moto. E riascolta una telefonata intercettata durante il sequestro Moro. Un nastro del 1978, ma tenuto segreto fino al 1982. Un parlamentare calabrese della Dc, Benito Cazora, impegnato come tanti a cercare il covo brigatista, spiega al segretario di Moro che la ’ndrangheta può aiutare, ma vuole qualcosa in cambio: «Quelli giù, dalla Calabria» chiedono di «far sparire una foto del 16 marzo, presa lì sul posto», perché si vede «uno di loro... un personaggio noto a loro». L’inchiesta accerta che la profezia calabrese si è avverata. Un fotografo, Gherardo Nucci, ha scattato numerose foto in via Fani subito dopo l’agguato. Il rullino risulta consegnato all’allora pm romano Luciano Infelisi, ma non si trova più: è sparito. A recuperare alcune copie di quelle foto, anni dopo, sono i magistrati di Perugia che indagano sull’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Visto che «i calabresi di giù» parlavano di un’immagine pubblicata, le verifiche si concentrano su una foto apparsa su un quotidiano del 17 marzo. È lo scatto riprodotto in queste pagine. In via Fani, davanti al bar Olivetti e ai corpi delle vittime, c’è un uomo che fuma una sigaretta. Giacomo Lauro, un altro grande pentito calabrese, vede la foto e conferma: «È Antonio Nirta». La somiglianza è riscontrata anche da una perizia dei carabinieri del Racis. Per fare un confronto, L’Espresso ha recuperato due foto segnaletiche di Nirta del 1968 e del 1975. Tra il boss e l’uomo di via Fani coincidono tutti i dettagli visibili: capigliatura, forma del naso, orecchio, occhi, sopracciglia... Se non è lui, è un sosia.

La pista della ’ndrangheta è accreditata anche dall’ex procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, e dal suo aggiunto Giuseppe Lombardo. Sentiti dalla commissione il 28 settembre scorso, i due magistrati premettono che la famiglia Nirta “la maggiore” fa parte di «un livello altissimo della ’ndrangheta», una cupola segreta con referenti nell’economia, politica e servizi. E in questo quadro inseriscono i legami tra Antonio Nirta e il generale Delfino. I procuratori calabresi aggiungono che un armiere importante della ’ndrangheta, quando si è pentito, ha fatto ritrovare un arsenale micidiale, con due armi speciali. Due «mitragliette tipo skorpion» che un boss potentissimo gli diede da «custodire con particolare cura e attenzione, perché sono simili a quelle usate per Moro». Dicendo «simili», sottolineano i pm, il pentito e il suo boss non parlano delle armi usate dai brigatisti, ma le collegano comunque al caso Moro. I due in moto, secondo i testimoni, non erano del commando: facevano da copertura esterna ai terroristi. A tutt’oggi solo un ex brigatista, Raimondo Etro, ha parlato della moto. Etro non era in via Fani, ma dopo l’agguato ha ricevuto le armi in custodia da Alessio Casimirri. Mentre gliele consegnava, proprio Casimirri gli parlò di «due in moto», non previsti da altri brigatisti, tanto da definirli «due cretini». Al processo Moro, quando si scoprì un viaggio di Mario Moretti a Reggio Calabria, altri brigatisti reagirono con stupore. Oltre al capo delle Br, chi potrebbe conoscere questi segreti è Casimirri, che però non è mai stato arrestato ed è latitante dal 1982 in Nicaragua. La commissione Moro ha recuperato un documento del 1982 da cui risulta che fu fermato dai carabinieri, ma incredibilmente rilasciato. Lo stesso Etro, che era suo amico e scappò con lui, oggi sospetta una fuga favorita dai servizi. Antonio Nirta, intervistato dall’autore di questo articolo durante un processo, non ha mai ammesso nulla, ma ha risposto con una frase allusiva: «Cosa volete da noi? In Italia comandano gli americani». Delfino, che dopo il caso Moro lavorò alla Nato e poi a New York, era soprannominato «l’americano». Purtroppo il generale è morto il 2 settembre 2014, portando con sé tutti i suoi segreti.

Sequestro Moro, le Br hanno sempre mentito. A quarant’anni di distanza dal rapimento sono ancora troppe le zone d’ombra. Che mettono seriamente in dubbio la versione "ufficiale" delle Brigate Rosse, scrive Federico Marconi il 15 marzo 2018 su "L'Espresso". A quarant’anni da quei 55 giorni che hanno sconvolto l’Italia, il Caso Moro rimane ancora avvolto nel mistero. Non sono bastati cinque processi, sette commissioni parlamentari, decine di inchieste giornalistiche e opere storiografiche, per elaborare una ricostruzione del rapimento, del sequestro e della morte del presidente della Democrazia Cristiana, che faccia definitiva chiarezza. Sono ancora molti coloro che, nonostante siano tacciati di complottismo e dietrologia, continuano a mettere in dubbio l’asse portante della “verità ufficiale”: la versione dei fatti fornita dalle Brigate Rosse. O meglio, le versioni dei fatti. I brigatisti, infatti, nel corso degli anni hanno deciso di collaborare con gli inquirenti, pentendosi o dissociandosi, e godendo così di forti benefici carcerari. Ma le loro ricostruzioni sono state sempre parziali e spesso in contrasto. Basti pensare alle due testimonianze più celebri: quella di Valerio Morucci, sul cui memoriale si fonda gran parte della verità processuale, e quella del regista dell’“attacco al cuore dello Stato”, l’irriducibile Mario Moretti.

Sono molti i punti che non combaciano tra le ricostruzioni dei due Br, ma anche tra queste e le testimonianze di chi ha assistito all’agguato. Morucci ha scritto che i brigatisti presenti in via Fani erano solamente nove, numero confermato anche da Moretti. Il capo delle Br ha poi sempre dichiarato di essere stato l’unica persona all’interno della Fiat 128 bianca che blocca la scorta di Moro e di esservi rimasto fino alla fine della sparatoria. Ma i presenti al momento della strage hanno testimoniato di aver visto due persone scendere da quella macchina e sparare verso l’auto della scorta di Moro. Se così fosse il numero dei presenti in via Fani non sarebbe quello indicato dai brigatisti. Nel corso degli anni, il numero dei componenti del commando ha subito continue modifiche: si è passati dai sette condannati nei primi processi, ai nove indicati da Morucci, agli undici individuati tra anni ’80 e ’90. Senza considerare i due uomini, di cui ancora non si è scoperta l’identità, che hanno sparato verso un testimone, Antonio Marini, mentre erano a bordo di una moto Honda al seguito del convoglio brigatista. Allo stesso tempo è cambiato anche il numero dei carcerieri del presidente Dc. Nel 1993, Moretti ha svelato la presenza di un quarto uomo in via Montalcini, oltre lui, Barbara Balzerani e Prospero Gallinari, che avrebbe partecipato all’omicidio Moro: il suo nome è Germano Maccari e viene subito arrestato e condannato a 30 anni. Perché smascherarlo quindici anni dopo la morte del politico pugliese? Tante contraddizioni rimangono poi su molti altri aspetti: sul percorso fatto dai brigatisti in fuga da via Fani, sulle modalità con cui sono state abbandonate le auto utilizzate, sul luogo in cui Moro è stato tenuto prigioniero, e persino sulla dinamica dell’assassinio del presidente Dc. Nel 2017, questa è stata oggetto di una perizia dei Ris, incaricati dalla Commissione Moro che ha lavorato nell’ultima legislatura, e che ha messo nero su bianco che no, lo statista non è stato ucciso coricato nel portabagagli come hanno sempre dichiarato i brigatisti, ma era seduto e avrebbe guardato il suo assassino negli occhi. A quarant’anni di distanza quindi sono ancora molte le zone d’ombra, e viene spontaneo chiedersi se le Br non abbiano sempre mentito. Hanno voluto coprire qualche compagno sfuggito alla giustizia? O hanno celato la presenza di complici non appartenenti alle Brigate Rosse?  

Ritrovare Moro: a 40 anni dal sequestro l'Italia è di nuovo in un momento cruciale. I quarant’anni del suo rapimento coincidono con le elezioni del 4 marzo 2018 e con l’apertura di una fase politica molto delicata, come quella di allora. Nuove elezioni che sembrano chiudere una fase di lungo periodo, quello che cominciò dopo la morte del leader della Dc, scrive Marco Damilano il 15 marzo 2018 su "L'Espresso". Immagini dell'archivio Aldo Moro conservate nel centro documentazione Sergio Flamigni. Moro tra i militari, Moro tra la gente, Moro in auto scoperta, Moro con le bacchette che mangia giapponese. Affacciato da un balcone sopra la scritta “Viva Moro”, inchinato, reclinato, omaggiato da politici locali, vescovi, ambasciatori, insegnanti, imprenditori, poveracci. Scorro per ore e ore, sul computer, sugli album, sui ritagli, le foto di Aldo Moro, dopo aver letto la sua corrispondenza riservata con Eugenio Scalfari, Indro Montanelli, Alberto Ronchey, Vittorio Gorresio. Nel suo archivio personale, conservato nel centro di documentazione di Oriolo Romano che porta il nome dell’ex senatore del Pci Sergio Flamigni, sono raccolte quindicimila immagini: diapositive, fotogrammi, gli scatti ufficiali in bianco e nero degli anni Cinquanta e le polaroid a colori sbiaditi degli anni Settanta, le foto comparse sulla stampa italiana e internazionale del Presidente, ritagliate, incollate e conservate. Mucchietti di carta, con le graffette colorate e ora arrugginite. In una scatola che contiene articoli ingialliti c’è un biglietto del sarto Randolfo Conti, via Duilio 7, nel quartiere romano di Prati, con la fattura per un abito e fodera due petti con gilet, costo 15 mila lire, datata 11 giugno 1955. Quando Moro giura da ministro della Giustizia, il 6 luglio, deve ancora compiere quarant’anni. L’immagine pubblica esisteva già anche in una stagione in cui pensavamo non ci fosse. Moro si ripete, si replica, sempre uguale, sempre identico a se stesso, sempre rigorosamente vestito di scuro e in giacca e cravatta, così, per quindicimila volte, e sempre diverso, impercettibilmente in movimento, come lo era quella politica, la sua politica. Messe tutte insieme, in ottomila giorni di quei 23 anni fanno in media quasi due foto al giorno, sono il film di un uomo totalmente dedito alla politica, al governo, al potere, ma anche della vita collettiva degli italiani, di trent’anni di progresso, di benessere, di sviluppo, di protagonismo nel mondo, e poi di improvvisa cupezza e depressione. Quando il grigio era il colore dominante si intuiva una febbrile vitalità, verso gli anni Settanta le tinte si fanno plumbee. Di tutti questi momenti Moro era stato il garante, lui a tenere in equilibrio la crescita economica e la maturazione democratica che l’Italia non aveva mai avuto. Fino ai due ultimi scatti, quarant’anni fa, i due dei 55 giorni del rapimento nel covo delle Brigate rosse, dopo la strage di via Mario Fani del 16 marzo 1978 con l’omicidio dei cinque agenti della scorta: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi. Lo ricordano tutti, in camicia, anche i più giovani che non c’erano. In pochi, invece, ricordano oggi chi era Aldo Moro, la sua politica, il suo progetto, il suo metodo. I quarant’anni del suo rapimento coincidono con le elezioni del 4 marzo 2018 e con l’apertura di una fase politica molto delicata, come quella di allora. Nuove elezioni che sembrano chiudere una fase di lungo periodo, quello che cominciò dopo la morte di Moro. La fine della Repubblica dei partiti, rappresentativi della società in ogni sua piega, e l’emergere di leader e movimenti che si sono proposti di rappresentarsi da soli, seguendo il «moto indipendente delle cose» di cui aveva parlato Moro nel 1975. Dopo Moro è finito il suo partito, la Democrazia cristiana. Dopo Moro è finito il Pci. Il segretario Enrico Berlinguer morì nel 1984, ma tutto era terminato la mattina del 16 marzo 1978, con la violenta estromissione dalla scena del presidente democristiano che aveva strappato a Berlinguer qualcosa di più importante di un partner privilegiato: l’alleato indispensabile, insostituibile. Dopo Moro è finito anche Bettino Craxi. Moro era il potere fragile, Craxi il potere forte. Moro aveva capito che il potere si stava disgregando. Craxi, invece, pensava che solo il potere valesse, la conquista delle posizioni, lo sfondamento nelle linee avversarie, a qualunque costo, con qualsiasi mezzo. Furono sconfitti entrambi. Nessuno può dire cosa sarebbe successo se Moro non fosse stato rapito quella mattina di marzo, mentre andava a votare la fiducia al governo Andreotti. I segnali non erano positivi e la decisione del Pci di entrare in maggioranza per la prima volta dall’inizio della guerra fredda nel 1947 era messa a dura prova. Nell’intervista pubblicata postuma da Eugenio Scalfari nell’ottobre 1978, una rielaborazione di un colloquio che si era svolto nello studio di via Savoia il 18 febbraio, un mese prima del sequestro, il presidente della Dc sembrava ipotizzare una coabitazione al governo, una grande coalizione all’italiana. Finita la fase dell’emergenza, sarebbe cominciata quella dell’alternanza: «Se continua così, questa società si sfascia, le tensioni sociali, non risolte politicamente, prendono la strada della rivolta anarchica, della disgregazione. Se questo avviene, noi continueremo a governare da soli, ma governeremo lo sfascio del paese. E affonderemo con esso». Corrado Guerzoni, il portavoce di Moro, ha testimoniato che alla fine del colloquio il Presidente fece un gesto inatteso, strinse con la mano un braccio di Scalfari. Nell’ultimo discorso ai parlamentari democristiani, il 28 febbraio 1978, sedici giorni prima del rapimento, Moro aveva invitato i suoi amici di partito a guardare fuori dal Palazzo, nel cuore dell’emergenza italiana, «l’emergenza reale che è nella nostra società»: «C’è la crisi dell’ordine democratico, crisi latente, con alcune punte acute. Il dato serpeggiante del rifiuto dell’autorità, il rifiuto del vincolo, la deformazione della libertà che non sa accettare né vincoli né solidarietà. Immaginate cosa accadrebbe in Italia, in questo momento storico, se fosse condotta fino in fondo la logica della opposizione, da chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta fino in fondo...». E aveva concluso: «Se non avessimo saputo cambiare la nostra posizione quando era venuto il momento di farlo, noi non avremmo tenuto, malgrado tutto, per più di trent’anni la gestione della vita del Paese. È la nostra flessibilità, più che il nostro potere, che ha salvato fin qui la democrazia italiana...». Nel quarantesimo anniversario del rapimento, in un nuovo momento di passaggio, nell’Italia «dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili» di nuovo in bilico, in questi giorni di crisi che come quarant’anni fa richiedono più flessibilità che esercizio cieco del potere. In tutto l’Occidente le innovazioni non sono più governate dalla politica, la politica è apparenza di potere ma non sostanza. La politica non è più sfida di cambiamento dell’esistente, ma appiattimento sull’istante. La politica non coltiva più la speranza, ma la paura e la rabbia dei cittadini. Genera frustrazione negli elettori, promette quello che non riesce più a dare e prova a guadagnare consenso sulla frustrazione che ha generato. Per questo Moro va ritrovato, come scriveva Leonardo Sciascia nella prima pagina del suo libro dedicato al sequestro: «un tempo da ritrovare». Moro va strappato dal caso Moro, l’immagine del prigioniero cui è stato consegnato dai terroristi. Lo Stato non riuscì a farlo ma noi possiamo oggi liberarlo e riconsegnato alla politica, all’Italia di oggi di cui aveva capito molto, quasi tutto. Il leader che per la politica era vissuto e infine morto e che nella politica, tuttavia, non aveva mai esaurito la sua persona. «La verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto», scrisse Moro in una delle sue ultime lettere disperate dal covo delle Br al deputato dc Riccardo Misasi. «Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, ed io sarò comunque perdente. Lo so che le elezioni pesano in relazione alla limpidità ed obiettività dei giudizi che il politico è chiamato a formulare. Ma la verità è la verità». N