Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2023

LO SPETTACOLO

E LO SPORT

NONA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

INDICE PRIMA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Artista.

Il rapper, il trapper oppure del sottogenere dei «gangsta».

L’hip-hop.

L'Autotune.

Si stava meglio quando si stava peggio.

Laureati.

Gli Stadi.

Imprenditori ed Agenti.

Gli Autori.

I Parolieri.

Il Plagio.

Le Colonne Sonore d’Italia.

Le Fake news.

Le Relazioni astratte.

Le Hollywood d’Italia.

Revenge songs.

Achille Lauro.

Ada Alberti.

Adele.

Adriano Celentano.

Adriano Pappalardo.

Ainett Stephens.

Alain Delon.

Alan Sorrenti.

Alba Parietti.

Alberto Fortis.

Alberto Marozzi. 

Al Bano Carrisi.

Al Pacino.

Aldo Savoldello: Mago Silvan.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Ale e Franz.

Alec Baldwin.

Alena Seredova.

Alessandra Martines.

Alessandra Mastronardi.

Alessandra e Valentina Giudicessa.

Aleandro Baldi.

Alessandro Baricco.

Alessandro Benvenuti.

Alessandro Bergonzoni.

Alessandro Borghi.

Alessandro Cattelan.

Alessandro Cecchi Paone.

Alessandro e Leo Gassmann.

Alessandro Haber.

Alessandro Preziosi e Vittoria Puccini.

Alessia Fabiani.

Alessia Marcuzzi.

Alessia Merz.

Alex Britti.

Alex Di Luca.

Alexia.

Alfonso Signorini.

Alvaro Vitali.

Amadeus.

Amanda Lear.

Amara Rakhi Gill.

Ambra Angiolini.

Amedeo Minghi.

Amleto Marco Belelli, il Divino Otelma.

Andrea Bocelli.

Andrea Delogu.

Andrea Pucci.

Andrea Roncato.

Angela Cavagna.

Angela White.

Angelina Jolie.

Angelo Branduardi.

Angelo Duro.

Annalisa.

Anna Chetta alias Linda Lorenzi.

Anna Falchi.

Anna Mazzamauro.

Anna Tatangelo.

Anna Valle.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonella Marino.

Antonino Cannavacciuolo.

Antonio Banderas.

Antonio Diodato.

Antonio Albanese.

Antonio Ricci.

Ariete si chiama Arianna Del Giaccio.

Arnold Schwarzenegger.

Articolo 31.

Arturo Brachetti.

Asia e Dario Argento.

Barbara Bouchet.

Barbara D’Urso.

Barbra Streisand.

Beatrice Fazi.

Beatrice Rana.

Beatrice Venezi.

Bebe Buell.

Belen Rodriguez e Stefano De Martino.

Beppe Convertini.

Beppe o Peppe Vessicchio.

Biagio Antonacci.

Bianca Balti.

Bob Dylan.

Bobby Solo: Roberto Satti.

Brad Pitt.

Brenda Lodigiani.

Brendan Fraser.

Brigitte Bardot.

Britney Spears.

Brooke Shields.

Bruce Willis.

Bruno Gambarotta.

Bugo.

Candy Love.

Carla Signoris.

Carlo Conti.

Carlo Freccero.

Carlo Verdone.

Carlotta Mantovan.

Carmen Russo.

Carol Alt.

Carole Andrè.

Carolina Crescentini.

Cate Blanchett.

Caterina Caselli.

Catherine Deneuve.

Catiuscia Maria Stella Ricciarelli: Katia Ricciarelli.

Cecilia Gasdìa.

Celine Dion.

Cesare Cremonini.

Capri Cavanni.

Charlize Theron.

Cher.

Chiara Claudi.

Chiara Francini.

Chiara Mastroianni.

Christian Clay.

Christian De Sica.

Christina Aguilera.

Christopher Walken.

Chu Meng Shu.

Cinzia Leone.

Cirque du Soleil.

Clara Serina.

Claudia Cardinale.

Claudia Gerini.

Claudia Koll.

Claudia Pandolfi.

Claudio Amendola.

Claudio Baglioni.

Claudio Cecchetto.

Claudio Santamaria.

Clint Eastwood.

CJ Miles.

Colapesce e Dimartino.

Colin Farrell.

Coma_Cose.

Corrado Tedeschi.

Costantino della Gherardesca.

Costantino Vitagliano.

Cristiana Capotondi.

Cristiana Capotondi.

Cristiano De André.

Cristiano Malgioglio.

Cristina Comencini.

Cristina D’Avena.

Cristina Scuccia.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Dado.

Dalila Di Lazzaro.

Daniel Craig.

Daniele Luttazzi.

Daniele Silvestri.

Dargen D'Amico.

Dario Farina.

David Lee.

Den Harrow.

Dennis Fantina.

Diana Del Bufalo.

Diego Dalla Palma.

Diego Abatantuono.

Diletta Leotta.

Donatella Rettore.

Dredd.

Drusilla Foer.

Ed Sheeran.

Edoardo Bennato.

Edoardo Costa.

Edoardo Vianello.

Edwige Fenech.

Elena Di Cioccio.

Elena Santarelli.

Elenoire Casalegno.

Eleonora Abbagnato.

Eleonora Daniele.

Eleonora Giorgi.

Elettra Lamborghini.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Valentini.

Elodie.

Ema Stockolma.

Emanuela Fanelli.

Emanuela Folliero.

Emanuela Trane: Dolcenera.

Emma Marrone.

Enrica Bonaccorti.

Enrico Bertolino.

Enrico Beruschi.

Enrico Brignano.

Enrico Lo Verso.

Enrico Ruggeri.

Enrico Silvestrin.

Enrico Vanzina.

Enza Sampò.

Enzo Braschi.

Enzo Ghinazzi, in arte Pupo.

Enzo Iacchetti.

Ernia.

Eros Ramazzotti.

Eugenio Finardi.

Euridice Axen.

Eva Elfie.

Eva Henger.

Eva Menta e Alex Mucci.

Eva Robin’s.

Ezio Greggio.

Fabio Concato.

Fabio De Luigi.

Fabio Fazio.

Fabio Rovazzi.

Fabrizio Bentivoglio.

Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli.

Fabrizio Bracconeri.

Fabrizio Corona.

Fabrizio Moro.

Fanny Ardant.

Fedez e Chiara Ferragni.

Ferzan Ozpetek.

Ficarra e Picone.

Filippa Lagerbäck e Daniele Bossari.

Fiordaliso.

Fiorella Mannoia.

Fiorella Pierobon.

Fioretta Mari.

Francesca Alotta.

Francesca Michielin.

Francesca Neri.

Francesca Reggiani.

Francesco Baccini.

Francesco De Gregori.

Francesco Facchinetti.

Francesco Guccini.

Francesco Leone.

Francesco Nuti.

Francesco Pannofino.

Francesco Renga.

Francesco Salvi.

Francis Ford Coppola.

Franco Nero.

Francois Ozon.

Frank Matano.

Frankie Hi Nrg Mc.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gabriele Salvatores.

Gabriella Golia.

Gabry Ponte.

Gaiè.

Gazzelle, all’anagrafe Flavio Bruno Pardini.

Gegia (Francesca Antonaci).

Gene Gnocchi.

George Benson.

Geppi Cucciari.

Gerry Scotti.

Ghali.

Gianna Nannini.

Gigi e Andrea.

Giampiero Ingrassia.

Giancarlo Giannini.

Giancarlo Magalli.

Gianluca Colucci: Gianluca Fru.

Gianluca Grignani.

Gianmarco Tognazzi.

Gianni e Marco Morandi.

Gigi D'Alessio e Anna Tatangelo.

Gigi Folino e il Gruppo Italiano.

Gigliola Cinquetti.

Gino Paoli.

Gino & Michele.

Giorgia.

Giorgia Surina.

Giorgio Mastrota.

Giorgio Pasotti.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanni Caccamo.

Giovanni Muciaccia.

Giovanni Pietro Damian: Sangiovanni.

Giovanni Scialpi.

Giuliana De Sio.

Giulio Rapetti Mogol.

Giulio Scarpati.

Giuseppe Tornatore.

Gli AC/DC.

Gli Inti-Illimani.

Gloria Guida.

Guendalina Tavassi.

Guillermo Mariotto.

Guns N' Roses.

Gwyneth Paltrow.

Henry Winkler.

Harry Styles.

Helen Mirren.

Heather Parisi.

Eva Herzigova.

Eva Longoria.

Iaia Forte.

Gli Skiantos.

I Baustelle.

I Cccp Fedeli alla Linea. 

I Cugini di Campagna.

I Gialappa' s Band.

I Guzzanti.

I Jalisse.

Il Volo.

I Maneskin.

I Marlene Kuntz.

I Metallica.

I Modà.

I Negramaro.

I Pooh.

I Righeira.

I Ricchi e Poveri.

I Rolling Stones.

I Santi Francesi.

I Sex Pistols.

Ilary Blasi.

Elena Anna, Ilona Staller: Cicciolina.

Irene Maestrini.

Isabella Ferrari.

Isabella Rossellini.

Isotta.

Iva Zanicchi.

Ivan Cattaneo.

Ivana Spagna.

Ivano Fossati.

Jack Nicholson.

Jane Fonda.

Jennie Rose.

Jeremy Renner.

Jerry Calà.

Jo Squillo.

John Malkovich.

Johnny Depp.

Johnny Dorelli.

Joss Stone.

Jude Law.

Julia Roberts.

Justine Mattera.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Kanye West.

Kasia Smutniak.

Kate Winslet.

Ke Hui Quan.

Kevin Costner.

Kevin Spacey.

Kira Noir.

Lady Gaga.

Laetitia Casta.

La Gialappa’s Band.

Lalla Esposito.

Lars von Trier.

Laura Chiatti.

Laura Freddi.

Laura Morante.

Laura Pausini.

Lavinia Abate.

Lazza.

Lella Costa.

Leo Gassmann.

Lenny Kravitz.

Leo Gullotta.

Leonardo DiCaprio.

Leonardo Pieraccioni.

Levante.

Lewis Capaldi.

Lia Lin.

Licia Colò.

Liliana Cavani.

Lily Veroni.

Lina Sotis.

Linda Evangelista .

Lino Banfi.

Linus.

Lisa Galantini.

Little Dragon.

Lizzo.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Cherubini: Jovanotti.

Loretta Goggi.

Lory Del Santo.

Luc Besson.

Luc Merenda.

Luca Argentero.

Luca Barbareschi.

Luca e Paolo.

Luca Medici: Checco Zalone.

Luca Miniero.

Luca Ravenna.

Lucia Mascino.

Luciana Littizzetto.

Ludovica Martino.

Ludovico Peregrini.

Luigi Lo Cascio.

Luisa Corna.

Luisa Ranieri.

Luna Star.

Madame.

Maddalena Corvaglia.

Madonna.

Mago Forest, alias Michele Foresta.

Mahmood.

Malena, all’anagrafe Filomena Mastromarino.

Malika Ayane.

Manila Nazzaro.

Manuel Agnelli.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marco Bellocchio.

Marco Bocci.

Marco Columbro.

Marco Della Noce.

Marco Ferradini.

Marco Giallini.

Marco Masini.

Marco Mengoni.

Marco Predolin.

Marco Risi.

Margherita Buy.

Maria Giovanna Elmi.

Maria Grazia Buccella.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Sofia Federico.

Maria Teresa Ruta.

Marina Suma.

Mario Biondi.

Mariolina Cannuli.

Marisa Laurito.

Marisela Federici.

Martin Scorsese.

Mascia Ferri.

Massimo Boldi.

Massimo Ceccherini.

Massimo Ciavarro.

Massimo Ghini.

Massimo Ranieri.

Matilda De Angelis.

Matilde Gioli.

Mattia Zenzola.

Maurizio Battista.

Maurizio Ferrini.

Maurizio Milani.

Maurizio Potocnik, in arte Reeds.

Maurizio Seymandi.

Maurizio Vandelli.

Maurizio Zamboni .

Mauro Coruzzi alias Platinette.

Mauro Pagani.

Max Felicitas.

Max Laudadio.

Max Pezzali e gli 883.

Megan Daw.

Megan Gale.

Mel Brooks.

Melissa Stratton.

Memo Remigi.

Micaela Ramazzotti.

Michael Caine.

Michael J. Fox.

Michele Guardì.

Michele Placido.

Michele Riondino.

Michelle Hunziker.

Michelle Yeoh.

Mika.

Milena Vukotic.

Mina.

Minnie Minoprio.

Miranda Martino.

Mita Medici.

Monica Bellucci.

Myss Keta.

Mr. Rain.

Morgan.

Nada.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Natasha Stefanenko.

Naomi Campbell.

Neri Parenti.

Nicole Doshi.

Niccolò Fabi.

Nina Moric.

Nina Zilli.

Nino D'Angelo.

Nino Formicola: Gaspare di Zuzzurro e Gaspare.

Nino Frassica.

Noomi Rapace.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Omar Pedrini.

Omar Sharif.

Orietta Berti.

Ornella Muti.

Ornella Vanoni.

Ozzy Osbourne.

Pamela Anderson.

Pamela Prati.

Pamela Villoresi.

Paola Barale e Raz Degan.

Paola&Chiara.

Paola Gassman e Ugo Pagliai.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Turci.

Paolo Belli.

Paolo Calabresi.

Paolo Conte.

Paolo Rossi.

Paris Hilton.

Pasquale Petrolo in arte Lillo; Claudio Gregori in arte Greg.

Patty Pravo.

Patti Smith.

Peppino di Capri.

Peter Gabriel.

Pico.

Pier Francesco Pingitore.

Pierfrancesco Favino.

Pier Luigi Pizzi.

Piero Chiambretti.

Piero Pelù.

Piero Pintucci. 

Pilar Fogliati.

Pino Insegno.

Pino Scotto.

Pio ed Amedeo.

Povia.

Pupi Avati.

Quentin Tarantino.

Quincy Jones.

Raf.

Renato Pozzetto.

Renato Zero.

Renzo Arbore.

Ricky Martin.

Rita Pavone.

Ringo.

Robbie Williams.

Robert De Niro.

Roberta Lena.

Roberto da Crema.

Roberto Vecchioni.

Rocco Hunt.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Rocío Muñoz Morales e Raoul Bova.

Roman Polanski.

Ron: Rosalino Cellamare.

Ronn Moss.

Rosa Chemical.

Rosalba Pippa: Arisa.

Rosanna Fratello.

Rosario e Giuseppe Fiorello.

Rupert James Hector Everett.

Sabina Ciuffini.

Sabrina Impacciatore.

Sabrina Salerno.

Samuel L. Jackson.

Sandy Marton.

Sandra Milo.

Sara Diamante.

Sara Tommasi.

Scarlett Johansson.

Sean Penn.

Selen.

Selva Lapiedra.

Serena Grandi.

Sergio Caputo.

Sergio Castellitto.

Sergio Rubini.

Sergio Vastano.

Sergio Volpini.

Sharon Stone e Michael Douglas.

Shakira.

Simona Izzo.

Simona Tabasco.

Simona Ventura.

Simone Cristicchi.

Syusy Blady e Patrizio Roversi.

Sofia Scalia e Luigi Calagna, Sofì e Luì: Me contro Te.

Sonia Bruganelli e Paolo Bonolis.

Sophia Loren.

Stanley Tucci.

Stefania Orlando.

Stefania e Silvia Rocca.

Stefania Sandrelli.

Stefano Accorsi.

Susan Sarandon.

Susanna Messaggio.

Sydne Rome.

Sylvester Stallone.

Sveva Sagramola.

SZA, vero nome Solána Imani Rowe.

Taylor Swift.

Tananai.

Terence Blanchard.

Teresa Mannino.

Teresa Saponangelo.

Teo Mammucari.

Teo Teocoli.

Tiberio Timperi.

Tim Burton.

Tinto Brass.

Tiziana Rivale.

Tiziano Ferro.

Tom Cruise.

Tom Hanks.

Tommaso Paradiso.

Toto Cutugno.

Tullio Solenghi.

U 2.

Uccio De Santis.

Ultimo.

Umberto Smaila.

Wanna Marchi.

Will Smith.

Woody Allen.

Valentina Lodovini.

Valeria Golino e Riccardo Scamarcio.

Valeria Marini.

Valeria Rossi.

Valeria Solarino.

Valerio Scanu.

Valerio Staffelli.

Vanessa Gravina.

Vasco Rossi.

Vera Gemma.

Veronica Maya.

Victoria Cabello.

Vincenzo Salemme.

Viola Valentino.

Vittoria Belvedere.

Vladimir Luxuria.

Zucchero Fornaciari.

Yuko Ogasawara.

Xxlayna Marie.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Sanremo 2024.

Sanremo. Sociologia di un festival.

La Selezione…truccata.

I Precedenti.

Il FantaSanremo.

Gli Inediti.

I Ti caccio o non ti caccio?

Gli Scandali.

La Politica.

Le Anticipazioni. Il Pre-Voto.

Quello che c’è da sapere.

I Co-conduttori.

I Super Ospiti.

Testi delle canzoni di Sanremo 2023.

La Prima Serata.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

La Quinta ed Ultima Serata.


 

INDICE SESTA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Certificato medico sportivo.

Giochi Sporchi del 2022.

Quelli che…il Coni.

Quelli che…il Calcio. La Fifa.

Quelli che…La Uefa.

Quelli che…il Calcio. La Superlega.

Quelli che…il Calcio. La FIGC.

Quelli che…una Compagnia di S-Ventura.

Quelli che…i tiri Mancini.

La Furbata.

Quelli che…il Calcio. Gli Arbitri.

Quelli che…il Calcio. La Finanza.

Quelli che…il Calcio. I Procuratori.

Quelli che…il Calcio. I Tifosi.

Quelli che…il Calcio. I Figli d’Arte.

Quelli che…il Calcio. La Politica.

Quelli che…il Calcio. Gli Altri.

Quelli che…il Calcio. Lionel Messi.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…il Calcio. Le Squadre.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…il Calcio. Le Squadre.

Il Calcioscommesse.

Quelli che…I Traditori.

Quelli che…Fine hanno fatto.


 

INDICE NONA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I 10 proprietari più ricchi nello sport.

Quelli che…I Superman.

Quelli che…è andato tutto storto.

Quelli che…la Palla Canestro.

Quelli che…la pallavolo.

Quelli che il Rugby.

Quelli che ti picchiano.

Quelli che…il Tennis.

Quelli che…il pattinaggio.

Quelli che…l’atletica.

Quelli che…i Motori.

Quelli che…la Bicicletta.

Quelli che…gli Sci.

Quelli che…il Nuoto.

Quelli che…la Barca.

Quelli che…l’Ippica.

Quelli che… il Curling.

Il Doping.
 


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

NONA PARTE



 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I 10 proprietari più ricchi nello sport: la classifica di Forbes. Storia di Simone Golia su Il Corriere della Sera l’8 aprile 2023.

Tepper (Carolina Panthers, football/Charlotte FC, calcio): 18,5 mldCalcio (tanto) ma non solo fra i proprietari sportivi più ricchi al mondo. Nella consueta classifica annuale stilata da Forbes non mancano le sorprese. Ad aprire la top 10 ci pensa l’americano David Tepper (65 anni) gestore di hedge fund con un patrimonio da 18,5 miliardi di euro. Possiede i Carolina Panthers in Nfl e lo Charlotte Fc in Mls. Nel 2016 ha sostenuto la campagna presidenziale di Jeb Bush, fratello di George W. Il Washington Post lo ha descritto come un uomo rozzo, la cui schiettezza negli anni è cresciuta quasi quanto il suo patrimonio netto: «Se entro in un ristorante e vedo un cameriere s.., penso “Potrei semplicemente comprare questo posto e licenziare quel ragazzo”», dichiarò in un’intervista.

Masayoshi Son (Fukuoka SoftBank, baseball): 22,5 mld Nel 2022 è stato per un periodo l’uomo più ricco del Giappone nonostante abbia perso circa 70 miliardi di dollari durante la bolla finanziaria delle dotcom del 2000. La sua infanzia è stata contraddistinta dalla povertà, con Masayoshi che veniva portato dalla nonna a bordo di un carrello di legno di casa in casa a raccogliere i rifiuti dei vicini, in modo da nutrire gli animali della loro piccola fattoria. A sedici anni, dopo quattro settimane di vacanza studio a Berkeley, dice ai genitori di voler mollare il liceo e di volersi trasferire in California: «Nel Paese che accoglie tutti e dove tutti hanno uguali opportunità». Il padre, che lo ha sempre ritenuto un genio, lo lascia andare. A 24 anni Masayoshi fonda Softbank, che oggi è la trentanovesima azienda del mondo. Possiede i SoftBank Hawks, una squadra di baseball giapponese.

Ratcliffe (Nizza e Losanna, calcio/Team Ineos, ciclismo): 22,9 mld Nel giugno del 2019 l’uomo più ricco d’Inghilterra, con un patrimonio stimato da oltre 20 miliardi, compra il Nizza per 100 milioni di euro (mai nessun club francese era costato così tanto). Poco prima aveva messo le mani sul Team Sky, oggi noto col nome Ineos Grenadiers, squadra di ciclismo capace di vincere sette volte il Tour de France. Negli ultimi mesi si è parlato molto di lui perché impegnato in una vera e propria asta contro la Banca islamica del Qatar (guidata dal nipote del proprietario del Psg) per l’acquisizione del Manchester United, di cui è da sempre un gran tifoso.

Robert e Michael Hartono (Como, calcio): 23,1 mld (65°)I due patron — che hanno acquistato il Como nell’aprile 2019 — sono fondatori del marchio di sigarette Djarum, uno dei più famosi di tutta l’Asia. Multimiliardari, in Indonesia comandano un impero: oltre alla maggioranza della Bank Central Asia, ecco un ruolo di primo piano in e-commerce, piattaforme streaming, produzioni cinematografiche, bibite, società di elettronica e compagnie di viaggi. La scorsa estate hanno portato a termine l’acquisto dell’ex campione del Barcellona e della Spagna Cesc Fabregas.

Famiglia Mateschitz (Lipsia, calcio/Team Red Bull, F1): 34,7 mld Lo scorso ottobre, a 78 anni, è venuto a mancare Dietrich Mateschitz (in foto) a causa di una lunga malattia (cancro). È stato il co-fondatore dell’azienda di bevande energetiche Red Bull e il fondatore, oltre che proprietario, della Red Bull Formula One Racing Team. Nel 2021 l’azienda, fondata all’inizio degli anni 80, ha venduto quasi 10 miliardi di lattine in 172 nazioni. Intorno al marchio ha saputo costruire un impero sportivo e mediatico. Uomo schivo e mai propenso a rilasciare interviste, nonostante la vasta ricchezza, indossava jeans e maglioni. Da lassù sorriderà nel vedere il dominio di Verstappen in Formula 1 e le cessioni illustri del Lipsia, modello di riferimento per molti nel calcio odierno.

Francois Pinault (Rennes, calcio): 40,1 mld François Pinault (classe 1936) è il presidente onorario del gruppo di lusso Kering, che possiede i marchi di moda Saint Laurent, Alexander McQueen e Gucci. Pinault ha fondato Kering, inizialmente un’azienda di legno e materiali da costruzione, nel 1963. Nel 1999 ha indirizzato il suo business verso i beni di lusso e oggi la società da 22 miliardi di dollari viene gestita dal figlio François-Henri. Nota la sua passione per l’arte (ha una collezione da 3.000 pezzi che comprende opere di Picasso, Mondrian e Koons). Come molti magnati internazionali ha deciso di investire nel calcio ed è proprietario del Rennes, squadra che ha portato ai vertici della Ligue 1.

Rob Walton (Denver Broncos, football USA): 57,6 mldErede della catena Wal-Mart, è considerato da Forbes come uno degli uomini più ricchi al mondo con un patrimonio stimato di quasi 58 miliardi di dollari. Nel giugno del 2022 un consorzio familiare da lui guidato decide di acquistare i Denver Broncos, una delle franchigie più di successo della Nfl, per una somma pari a 4,65 miliardi (si è trattato dell’acquisto più oneroso della storia dello sport nordamericano). L’altyra sua grande passione riguarda le auto, di cui è assiduo collezionista. Nel suo garage la Shelby Daytona Cobra Coupé del 1965, la Ferrari 250 GTO del 1963, la Maserati 450S del 1957, la Jaguar C-type del 1953 e molte altre bellezze vintage.

Steve Ballmer (LA Clippers, basket): 80,7 mldSteve Ballmer è l’ex Ceo di Microsoft. Lo è stato dal 2000 al 2014 dopo avervi messo piede nel 1980 come semplice dipendente. Lo stesso anno in cui ha deciso di ritirarsi dall’azienda, ha acquistato i Los Angeles Clippers per 2 miliardi. Nel 2022, lui e sua moglie Connie hanno donato circa 425 milioni di dollari all’Università dell’Oregon per creare un istituto mirato ai bisogni comportamentali e di salute mentale dei bambini.

Mukesh Ambani (Mumbai Indians, cricket): 83,4 mldFiglio di Dhirubhai Ambani, che nel 1966 aveva fondato Reliance Industries come piccolo produttore tessile, Mukesh da ragazzo si trasferisce a Palo Alto, in California, per frequentare la Stanford Business School. Tornato in patria, guida lo sviluppo industriale dell’azienda. Nel 2002 il padre muore per un ictus, dando vita alla faida fra i figli, placata grazie all’accordo trovato dalla madre. Mukesh mantiene il controllo sulle operazioni di raffinazione, petrolchimica, gas e tessili e oggi è il nono uomo più ricco del pianeta. A lui appartengono i Mumbai Indians, la squadra di cricket di maggior successo di tutta l’India.

Carlos Slim (Real Oviedo, calcio): 93 mld La sorpresa delle sorprese. Chi ha la fortuna di avere il proprietario più ricco del mondo? Il Real Oviedo, squadra che da 8 anni gioca nella serie B spagnola e che attualmente vive un campionato piuttosto anonimo (16esimo posto). Nel 2012 Carlos Slim, imprenditore messicano e allora in cima alla classifica mondiale dei paperoni, versa i due milioni (per lui spiccioli) necessari per salvare lo storico club delle Asturie dall’incubo del fallimento. Lui e la sua famiglia controllano América Móvil, la più grande azienda di telecomunicazioni mobili dell’America Latina. Possedeva pure il 17% del New York Times, ma l’ha venduto, ed è stato a lungo sostenitore di Sergio Perez, il pilota messicano della Red Bull.

Messner, guerra sul record degli 8mila. Il Guinness gli toglie il primato: "Ha scalato solo 13 vette". L'alpinista attacca: "Ridicolo". Lucia Galli il 26 Settembre 2023 su Il Giornale.

Ci sono re che non hanno bisogno di corone. Per questo l'ennesimo dubbio sulle imprese di Reinhold Messner e sui capostipiti della fortissima scuola polacca, da Jerzy Kukuczka a Krystof Wielicki, lascia più spazio all'amarezza che allo stupore. Il sito 8000ers, il data base più accreditato per chi ami record e statistiche sul mondo dell'Himalaya e delle terre alte, lo aveva annunciato a metà settembre: i parametri cambiano, si fanno più stringenti. Chi desidera essere annoverato come summiter, cioè conquistatore di una cima, deve comprovarlo con tanto di foto, prove e pedigree. Di solito leggi o regole nuove non sono retroattive, soprattutto non dovrebbero esserlo in quota dove pochi decenni pesano come ere geologiche: basti pensare che cosa potesse significare anni fa scalare senza Gps, radio, selfie di gruppo in vetta, al netto dell'attrezzatura moderna.

Ma tant'è: in dubbio fra le imprese del re degli Ottomila sarebbe l'ascesa all'Annapurna del 24 aprile 1985. A spodestare, all'alba degli 80 anni, Messner dalle sue cime aveva già provato un anno fa Eberhard Jurgalski, cronista tedesco fra i collaboratori del sito che ha immediatamente solleticato l'interesse del britannico libro dei Guinnes dei primati che, infatti, da ieri non annovera più l'alpinista di Funes come il primo ad aver completato, fra il 1970 e il 1986, le salite dei 14 Ottomila del pianeta. Tutti senza ossigeno, molti in solitaria o per vie inedite e tanti in compagnia di Hans Kammerlander, altro altoatesino che proprio sull'Annapurna, quasi 40 anni fa, avrebbe mancato la vetta «Per 5 -6 metri», così puntualizzano i moderni revisori dei conti. Con buona pace dell'Annapurna, «dea dell'abbondanza» anche di polemiche: i suoi 8091 metri ne fanno il decimo Ottomila del pianeta, ma il più pericoloso, con una mortalità del 40%. Ne sa qualcosa Simone Moro, che degli Ottomila è il re delle invernali: nel Natale del 1997 vide trascinato via da una valanga il suo grande amico e fortissimo alpinista Anatolij Buukrev e sopravvisse a sua volta per miracolo. Scalato per la prima volta nel 1950 da Maurice Herzog ed, in prima invernale solo nel 1987 da Kukuzcka altro censurato dal guinness dei primati, Messner e Kammerlander lo avevano affrontato due anni prima. Per Reinhold era l'11esimo Ottomila, per Hans, il secondo. «Chi sa di alpinismo non dà credito a questo revisionismo» il commento secco di Messner: «Le cime sono fatte di ghiaccio e neve, a quelle quote il vertice può cambiare e nel caso dell'Annapurna che ha sei punte ed una cresta che, dai 7200 metri, si allunga per oltre 3 km è davvero difficile stabilire quale fosse il punto più alto nel 1985. Non ho mai scalato per un record, ne ho mai richiesto che mi venissero appuntate medaglie al petto». Fine delle polemiche? Il sito del Guinnes ora affida il primato al veterinario statunitense Ed Viesturs (nella foto) che ha effettivamente scalato i 14 Ottomila fra 1989 e 2005. Peccato che ad essere cancellati dai Guinness siano anche altri. Via il polacco Jerzy Kukuczka, cui bastarono solo 8 anni, rispetto ai 16 di Messner, per collezionare la preziosa raccolta, prima di morire sul Lhotse nel 1989, quando Viesturs stava cominciando la sua carriera. «Tu non sei secondo: sei grande», gli disse Messner proprio in seguito all'invernale all'Annapurna. Via anche il fortissimo Krystof Wielicki e via, fino all'11esima posizione di questa hit, anche un altro italiano, Sergio Martini, classe 1949, che aveva eguagliato Messner nel 2000, completando i suoi 14 Ottomila. Per lui sarebbe in discussione il Lhotse. Salvi invece i record di Silvio Mondinelli, Nives Meroi ed Abele Blanc. Un bel pasticcio d'alta quota.

"Non ho mai rivendicato nessun record". Guinness toglie la corona a Reinhold Messner: “Non è lui il Re degli ottomila” per 5 metri. La replica: “Sciocchezze” non vi intendete di montagna e alpinismo. Redazione su Il Riformista il 26 Settembre 2023 

Il libro Guinness dei primati toglie a Reinhold Messner la corona di re degli ottomila. Non è stato lui ad aver scalato per primo tutti i 14 ottomila, secondo il cronista di alpinismo tedesco Eberhard Jurgalski.

Messner e Hans Kammerlander nel 1985 avrebbero mancato la vetta dell’Annapurna. “Sciocchezze”, replica il 79enne: “In primis – prosegue – non ho mai rivendicato nessun record, perciò non mi possono disconoscere nulla. Inoltre, le montagne cambiano. Sono passati quasi 40 anni, se qualcuno è salito sull’Annapurna di certo siamo stati io e Hans”.

Chi ha sostituito Messner in classifica

Sul sito Guinness World Records l’americano Edmund Viesturs viene ora indicato come la prima persona ad aver scalato tutti i 14 ottomila tra il 1989 e il 2005. Si fa esplicitamente riferimento alle contestazioni di Jurgalski riguardo al vecchio record. Il tedesco, specializzato nella verifica delle grandi imprese alpinistiche, basandosi sulla foto di vetta scattata quel giorno, sostiene che i due siano andati vicini alla vetta, ma che non l’abbiano raggiunta. Parliamo comunque di pochi metri, 5-6 metri, come lui stesso sottolinea.

“Nessuno che se ne intende di alpinismo metterebbe in dubbio la nostra impresa, Jurgalski infatti non ne sa nulla”, risponde Messner. “La montagna cambia, come ogni cosa in natura. Soprattutto sull’Annapurna basta che crolli la cornice di neve e la vetta si abbassa di cinque metri”, prosegue l’altoatesino.

“La cresta che porta verso la vetta è lunga 3 chilometri, Jurgalski ha semplicemente confuso la cima est con quella principale. Qui evidentemente qualcuno vuole farsi notare senza avere la minima competenza”. Secondo il re degli ottomila (spodestato, almeno per Guinness), anche “l’alpinismo è cambiato negli anni. Prima tutto girava intorno alla conquista, ovvero le prime scalate delle vette inviolate, poi invece si è iniziato a puntare sulla difficoltà dell’impresa, come abbiamo fatto io e Hans scalando l’Annapurna da una parete interminabile e difficilissima durante una tempesta di neve. Questo di per sé era già un’impresa”.

Il parere di Hans Kammerlander

Non usa mezzi termini neanche il suo compagno di cordata Hans Kammerlander. “Così si distrugge l’alpinismo”, sentenzia. “Non mi interessa il numero di ottomila scalati, ne ho abbastanza nel mio palmares, ma tutto il dibattito è davvero ridicolo”, aggiunge l’altoatesino. Kammerlander sottolinea che “ovviamente non esiste la certezza assoluta, erano altri tempi, senza gps.

A quelle quote basta una tempesta di neve e la luce del sole offuscata. Siamo tuttora convinti di essere stati sulla vetta, ma chi sa se dietro al masso c’erano altri 5-6 metri da salire. Questo non toglierebbe comunque nulla alla nostra impresa”, ribadisce il 66enne. “Qualcuno vuole riscrivere la storia dell’alpinismo, ma sbaglia”. In merito ad altre vette contestate da Jurgalski, Kammerlander si dice dispiaciuto per “altri alpinisti di altissimo livello, come Gerlinde Kaltenbrunner, che hanno sempre praticato un alpinismo pulitissimo e ora quasi passano per dei bugiardi. L’umanità davvero sta peggiorando”, conclude rammaricato.

"Così distruggono l’alpinismo". Perché il Guinness World Records ha tolto a Reinhold Messner il primato degli 8mila metri. Per la pubblicazione l'alpinista italiano non è stato il primo a scalare tutti i 14 ottomila del mondo. La replica: "L'alpinismo non è uno sport, non esistono competizioni e vincitori. Ma la montagna cambia, come ogni cosa in natura". Redazione Web su L'Unità il 26 Settembre 2023

Secondo il Guinness dei primati non sarebbe stato Reinhold Messner a scalare per primo i 14 ottomila metri del mondo. E così la pubblicazione che dall’agosto del 1955 raccoglie tutti i primati del mondo, umani e naturali, originali e sportivi, ha tolto all’alpinista italiano la corona di Re degli ottomila metri. “Sciocchezze”, ha replicato lui che sulle sue imprese, comprese anche quelle sugli ottomila metri, ha pubblicato diverse opere tra cui Annapurna. Cinquant’anni di un Ottomila (per Vivalda, 2000). L’alpinista 79enne ha comunque voluto specificare che “l’alpinismo non è uno sport e per questo non esistono né competizioni né vincitori”.

Secondo il cronista di alpinismo tedesco Eberhard Jurgalski, Messner e Hans Kammerlander nel 1985 avrebbero mancato la vetta dell’Annapurna. E ora sul sito Guinnes World Records viene indicato lo statunitense Edmund Viesturs come la prima persona ad aver scalato tutti i 14 ottomila metri tra il 1989 e il 2005. Nell’attribuzione si fa esplicito riferimento alle contestazioni del giornalista tedesco. Annapurna è un massiccio montuoso himalayano situato nel Nepal centrale. Jurgalski ha basato la sua contestazione da un confronto fotografico: secondo il giornalista Messner e Kammerlander non erano in piedi sulla cima nella scalata del 1985 e tornarono indietro alcuni metri prima del traguardo perché pensavano di aver già raggiunto la vetta.

Per ottenere il Guinness il punto più alto di una montagna deve essere raggiunto a piedi e in modo verificabile. “La montagna cambia, come ogni cosa in natura – ha commentato Messner all’Ansa – Soprattutto sull’Annapurna basta che crolli la cornice di neve e la vetta si abbassa di cinque metri. La cresta che porta alla vetta è lunga 3 chilometri, Jurgalski ha semplicemente confuso la cima est con quella principale. Qui evidentemente qualcuno vuole farsi notare senza avere la minima competenza. L’alpinismo è cambiato negli anni. Prima tutto girava intorno alla conquista, ovvero le prime scalate delle vette inviolate, poi invece si è iniziato a puntare sulla difficoltà dell’impresa, come abbiamo fatto io e Hans scalando l’Annapurna da una parete interminabile e difficilissima durante una tempesta, che di per sé era già un’impresa”.

Messner, classe 1944, già all’età di cinque anni aveva scalato con il padre la prima cima di 3000 metri. Dopo un breve periodo da insegnante alla scuola media, si è dedicato completamente all’alpinismo. È stato commentatore televisivo, europarlamentare, ha creato una Fondazione che sostiene le popolazioni di montagna in tutto il mondo, ha scritto opere e realizzato film. Ha ottenuto numerosi premi e onorificenze, tra cui uno dei più prestigiosi riconoscimenti conferiti dalla Casa Reale britannica, la Patron’s Medal della “Royal Geographic Society” per il suo contributo all’alpinismo e alle regioni di montagna.

Duro il commento, sempre all’Ansa, anche di Hans Kammerlander. “Così si distrugge l’alpinismo. Non mi interessa il numero di ottomila scalati, ne ho abbastanza, ma tutto il dibattito è ridicolo. Ovviamente non esiste la certezza assoluta, erano altri tempi, senza gps. A quelle quote basta una tempesta di neve e la luce del sole offuscata. Siamo tuttora convinti di essere stati sulla vetta, ma chi sa se dietro al masso c’erano altri 5-6 metri da salire. Questo non toglierebbe comunque nulla alla nostra impresa”. Redazione Web 26 Settembre 2023

Messner e il record degli Ottomila cancellato: «Cima mancata? Ridicolo ma non conta: l'alpinismo non si fa per il Guinness». Stefano Pancini il 25 Settembre 2023 su Il Corriere della Sera.

L'alpinista altoatesino smentisce la ricostruzione del gionalista tedesco Jurgalski: «Invenzioni per lucrare sulla mia schiena. La montagna cambia...» 

Tolto il Guinness World Records a Reinhold Messner. Dopo le tesi sollevate dal cronista tedesco tedesco Eberhard Jurgalski che avrebbe dimostrato che nel 1985 Messner e il suo compagno di scalata Hans Kammerlander  avrebbero mancato la vetta dell’Annapurna, massiccio montuoso himalayano situato in Nepal centrale, Messner è stato spodestato dal celebre libro dei Guinness dei primati come primo alpinista ad aver scalato tutti i 14 ottomila senza l’uso di ossigeno supplementare: al suo posto, ora, c’è lo statunitense Edmund Viesturs. «So perfettamente quale mirabolante impresa abbiamo compiuto io e Kammerlander nell’aprile del 1985 per conquistare l’Annapurna: nessuno potrà portaci via quel che è nostro» è il commento di Reinhold Messner. 

Secondo il giornalista Eberhard Jurgalski avreste mancato la cima.

«Quanto afferma quest’uomo è tutta un’invenzione fatta per lucrare sulla mia schiena. Chiunque s’intenda di alpinismo non metterebbe mai in dubbio la nostra impresa. Inoltre, la montagna cambia, come ogni cosa in natura. Sull'Annapurna basta il vento a modificare completamente la conformazione nevosa con le raffiche in grado di smuovere blocchi di ghiaccio grandi quanto un camion, andando così a rimodellare la cresta e anche a spostare la cima, intesa proprio come il punto più alto. È talmente sciocco pensare che chi ha scalato una parete da quattro mila metri, una delle più difficili dell’Himalaya, si fermi prima di compiere i restanti cinque metri che lo separano dalla vetta».  

Cosa ricorda di quei momenti?

«Abbiamo cercato la sommità di quella montagna, in balia di una tormenta di neve e di una fitta nebbia. Percorrere quella cresta finale, che ci ha condotti alla cima, era difficile e per andare avanti abbiamo dovuto osservare un comportamento assai prudente, dettato dalla bufera che imperversava. Alla fine abbiamo con grande determinazione raggiunto il punto più alto. Per noi è stato un soffio di liberazione. A questo punto sapevamo che avremmo potuti far ritorno passando per la parete meno esposta alla forza del vento». 

 Il Guinness World Records le ha tolto il titolo di Re degli ottomila metri. Quanto è dispiaciuto?

«Non mi interessa. Non ho fatto quel che ho fatto per stabilire un record. Mi possono togliere quello che vogliono: io so che cosa ho fatto. L’alpinismo non fa record. A me è sempre importato dell’esperienza umana e dell’avventura vissuta. Non ho mai cercato di essere nel libro dei record». 

 Com’è questo mondo di cui ci sta parlando?

«Il mio alpinismo non era un alpinismo di conquista, questo tipo alpinismo sugli Ottomila, detto di “conquista”, termina negli anni Sessanta. Io incomincio un nuovo alpinismo, quello della “difficoltà”, e lo faccio assieme a tanti altri: dopo che tutte le cime principali vennero scalate e conquistate, noi - che rappresentavamo la nuova generazione - abbiamo iniziato a vedere la conquista della vetta come un semplice punto di arrivo, cercando di aprire nuove vie difficili per arrivare sulle cime già scalate. A questo, ha fatto seguito l’alpinismo della “rinuncia”, ovvero fare a meno degli aiuti tecnici, dalle bombole d’ossigeno all’elicottero di supporto».

 Quanto è competitivo tutto questo?

«L’alpinismo di oggi lo è. Ne hanno fatto una disciplina olimpica con l’arrampicata su una parete artificiale situata dentro una palestra. Pareti di cinque metri? Io ho scalato pareti di quattromila metri. Oggi l’alpinismo è diventato sport per l’arrampicata indoor, è diventato turismo nelle Alpi dove si preparano piste dove accompagnare le persone in quota. L’alpinismo che ho praticato io era e rimane avventura, e oggi sono sempre di meno coloro che praticano la questa formula, tra loro dei giovani promettenti e molto bravi che stanno seguendo le mie orme. Il vero alpinista va dove tutti gli altri non ci sono, dovendo fare affidamento su risorse limitate e quindi dovendo fare i conti con la sopravvivenza alla cui base c’è l’esperienza». 

Chabal, l'orco timido del rugby che faceva l'operaio. Gigantesco, brutale, terrificante, eppure interiormente docile e profondo: storia (breve) di uno sportivo diverso dall'immagine riflessa sul campo. Paolo Lazzari il 18 Giugno 2023 su Il Giornale.

A soffiare su quella vecchia fotografia si fa una fatica terribile. Non solo perché gli strati del tempo hanno aderito alla pellicola. C'è anche il fatto che quel bambino lì sembra tutto fuorché un terrificante profeta di sventura sportiva altrui. Sébastien Chabal a nove anni è gracile, timido, compìto. Scuola, a Valence - nel Drôme - è un posto sicuro. Però non brilla. Ai ricevimenti le maestre pigolano la solita tiritera: "Generoso, ma potrebbe fare di più". A casa scuotono il capo relativamente: sono tutti più o meno orsi, consumati dal lavoro, affezionati ai modi spicci.

Poi un giorno arriva un click. La maestra di matematica lo sgrida, lui risponde per le rime e quella gli assesta un ceffone. Lì il mondo docile di Sébastien subisce una mutazione genetica. La rabbia che reprimeva internamente fuoriesce, fluviale. Una botta come un'epifania. Più tardi mollerà la scuola e si avvicinerà ad un giro di compagnie discutibili. Qualche furto, qualche prepotenza, qualche rissa. Anche perché, mentre cresce la carta di identità, sgorgano anche muscoli e centimetri. Si guarda allo specchio e fatica a entrarci dentro. Spunta anche la prima peluria sotto il mento. Ancora non sa che diventerà la sua coperta contro le malignità del mondo.

La brutta deviazione che ha inforcato la corregge la fabbrica. Ci entra poco più che adolescente, perché le casse di casa languono. Tornitore/fresatore, che poi sarebbe una metafora del suo approccio ad una vita venuta giù ruvida, da levigare con sudore zampillante. Clangori metallici. Calore opprimente. Arsura costante. Effluvi minerali a cospargere l'aria. Dalle 7 alle 17, tutti i giorni. Una partita difficile, ma lui ci sguazza dentro. Adora l'ingaggio fisico. Gli piace collaborare con quegli altri. E l'equivalente in franchi di mille euro al mese è decisamente sufficiente per la vita priva di sussulti che intende condurre.

Però le cose non vanno quasi mai come le avevi pensate. Sébastien necessita comunque di uno sfiatatoio. Il corpo di quel bambino non esiste più. Ora è una fiera di 191 centimetri e oltre cento kg. Gioca a rugby tra i dilettanti del Valence, ma più per sfogare quello strapotere fisico che per un interesse autentico. Non ha tecnica. Ignora i fondamentali del gioco. Ha decisamente iniziato troppo tardi. Però è generoso, come a scuola. E stavolta brilla, diversamente da quel che accadeva tra i banchi. Al punto che un giorno, all'uscita dall'allenamento, lo afferra per un braccio Michel Couturas, suo futuro genitore sportivo. "Hey, ti voglio al Bourgoin".

Altro click. Altra porta scorrevole. Il boss lo pungola e lo fa crescere. "Se non te la senti c'è sempre il ping pong". Ma Sébastien se la sente eccome. E impara così alla svelta che nel Duemila, ventitreenne, lo convocano per il primo Sei Nazioni. Stringe da soli sei anni l'ovale sotto al bicipite. Poi succede tutto così in fretta. Si fa crescere la barba. Indossa uno sguardo perennemente truce. Travolge avversari in serie. Come un tir lanciato a tutta su una pista da ballo. Gli affibbiano un soprannome sintomatico: l'orco. Perché è enorme, tribale nelle movenze. Perché incute timore soltanto a leggerlo in formazione. Però conserva il cuore timido di quel bambino di Valence.

Lo dimostrerà spiazzando tutti con la sua biografia, "La mia piccola stella". Dentro è una mischia tra vita e sport, che in fondo sono la stessa cosa. C'è lui che spiana il neozelandese Chris Masoe, non esattamente un fuscello. C'è la lite con il nostro Martin Castrogiovanni per uno sguardo di troppo alla fidanzata dell'azzurro. Eppoi il sogno rimasto inevaso dell'università. La nascita della figlia e lui che non può andarci. Le cattive compagnie di un tempo che ancora oggi inumidiscono gli occhi. Le grandi conquiste e le delusioni lancinanti con la Francia.

Il condensato di una vita illeggibile come il ribalzo di un pallone da rugby. Sai dove cadrà, ma non indovini mai la direzione successiva. Chabal non poteva aspettarsi tutto questo, ma in fondo è rimasto sempre fedele a sé stesso. Orco da fuori, per forza e rabbia che erompe. Uomo sensibile dentro, a livello del cuore, il suo muscolo più grande.

Solo in America. Vince Papale, la storia del vero Rocky. Nella città di Philadelphia prima di Sylvester Stallone un altro italo-americano era riuscito a diventare un grande dello sport nonostante fosse avanti con l'età. La storia dell'underdog più famoso della NFL è tanto incredibile quanto poco conosciuta. Luca Bocci il 15 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Una città di "perdenti"?

 Chi era Vince Papale?

 Troppo bello per essere vero?

 Una vita spesa bene

Poche cose sono così americane come il mito della terra delle seconde opportunità, l’unico posto al mondo dove, una volta caduto, puntare alle stelle non è solo possibile ma quasi obbligatorio. C’è chi dice che l’epopea del sogno americano e della stessa frontiera sia basata quasi esclusivamente sul mito dell’underdog, lo sfigato sul quale non scommetteresti neanche un centesimo che, grazie alla determinazione e al duro lavoro, riesce ad avere successo. A chi considera gli americani gente mai cresciuta che continua a credere alle favole, vorrei far notare che la loro fede nel futuro è tanto genuina quanto incrollabile. Buona parte del successo clamoroso di questo paese è dovuto proprio alla consapevolezza che nessun incidente è troppo grave da impedirti non solo di rialzarti ma anche di trionfare. Non è dato sapere se sia questa fede a dare origine alle grandi storie o se sia esattamente il contrario. Una cosa è certa: senza queste storie è impossibile capire il mondo degli sport americani.

Se vi dicessi le parole Philadelphia e vincente per caso, sono sicuro che gran parte di voi mi risponderebbero senza esitare con due parole: Rocky Balboa. Il protagonista della fortunata serie di film che hanno reso Sylvester Stallone una stella a livello planetario è conosciuto praticamente da tutti. Quello che però non è molto conosciuto è come questa storia sia stata ispirata ad una vicenda veramente successa ma in uno sport diverso dal pugilato, il football. Proprio quando il film stava per uscire nei cinema, un trentenne venuto dal nulla riusciva a guadagnarsi un posto in una franchigia NFL, i Philadelphia Eagles, senza mai aver giocato al college. La storia del rookie più anziano del football pro è legata a triplo filo con lo spirito working class della Città dell’Amore Fraterno, diventando poi un film, “Invincibile”, nel 2006. Questa è la storia di Vince Papale, il vero Rocky.

Una città di "perdenti"?

Prima di descrivervi questa storia estremamente americana, meglio guardare alla città che è non solo sfondo ma vera protagonista. Philadelphia è una delle più antiche città del Nord America ma non ha niente di nobile. Rimane una città pratica, alla mano, senza troppi grilli per la testa, che fa l’impossibile per non credere a chi mormora che i suoi giorni migliori siano decisamente alle spalle. L’orgoglio della città della Pennsylvania sembra tutto riposto nel suo piatto simbolo, quella Philly Cheese Steak che ha estimatori in America e non solo. Di solito in questi casi servirebbe una sferzata da parte delle franchigie dei vari sport per dare quella scossa necessaria per svoltare l’angolo. Invece, da qualche tempo, le squadre di Philadelphia non fanno che dare delusioni ai tifosi. A chi dice che in America non sanno cosa voglia dire il tifo, sapete come la chiamano la City of Brotherly Love certi appassionati di sport? Loserville, la città dei perdenti. La delusione dell’ennesimo Super Bowl perso, peraltro in seguito ad una decisione discutibile degli arbitri, non è che l’ultima ingiuria alla passione dei fedelissimi di Philly, che sono entrati in un circolo di schiaffi da far paura. Tre finali perse nello stesso anno: i Phillies perdono le World Series, gli Union perdono la finale della MLS e, infine, gli amatissimi Eagles nel football. Chiaro che il nervosismo in città sia ai limiti di guardia.

Nel 2012 era toccato ad Atlanta una tripletta del genere ma la metropoli del Sud ha un’economia che gira e una movida culturale ben viva. Philadelphia, invece, non ha niente del genere. A meno di un rinascimento imprevedibile dei Sixers, ben lontani dai tempi di Doctor J, la depressione non potrà che continuare. A cosa si attaccano quindi gli sportivi? Al mito dell’underdog, agli eroi tutti d’un pezzo, profondamente working class. Ce ne sono uno vero e uno inventato che conoscono tutti, Vince Papale e Rocky Balboa, con la speranza che il terzo sia Jalen Hurts, il quarterback degli Eagles cui il carattere certo non manca. Cosa fare se il famoso “process” dei 76ers, il loro rebuilding che va avanti da anni ed anni, non ne vuole sapere di terminare? Come reagire all’ennesima stagione da dimenticare dei derelitti Flyers? Trovando conforto nel passato, nelle storie di quegli underdog che ce l’hanno fatta, confermando che Philadelphia non è condannata solo a perdere. Visto che Rocky, fino a prova contraria è solo un personaggio, meglio richiamarsi al vero eroe che ancora scalda il cuore di Philly, l’inimitabile Vince Papale.

Chi era Vince Papale?

Come succede spesso quando le grandi storie vengono trasformate in sceneggiature ad uso e consumo di Hollywood, il confine tra realtà e finzione è quantomai labile. Il caso del rookie più anziano della storia della NFL non fa affatto eccezione. Decisamente è il caso di chiarire le cose ed attenerci esclusivamente ai fatti, senza farsi prendere la mano dall’emozione. Ecco quindi la storia dell’eroe popolare di Philadelphia. Vincent Francis Papale è nato il 9 febbraio 1946 nella cittadina di Glenolden, a poche miglia dalla grande città della Pennsylvania. Alla Interboro High School il figlio di una normale famiglia italo-americana è appassionato di sport e ne prova diversi, dal football al basket fino all’atletica. Nella squadra varsity se la cava anche discretamente ma nel suo ultimo anno delle Superiori preferisce specializzarsi nei salti, ottenendo risultati più che discreti nel triplo, nel salto in lungo e specialmente nell’asta, dove finisce quarto in tutta la Pennsylvania. Il suo record è ancora nella top 10 dei migliori astisti delle superiori di sempre, il che spiega perché il Saint Joseph’s College gli offrì una borsa di studio.

Dopo essersi laureato in marketing, Vince prova ad entrare nel mondo del lavoro ma le cose non vanno decisamente come previsto. Sei anni dopo, l’ex stella dell’atletica è un supplente nella sua vecchia high school e, per fare qualche soldo in più fa il barman in un club di Philadelphia. Il football, a dire il vero, non l’aveva mai dimenticato. Visto che anche le leghe minori pagano decisamente meglio delle mance o dello stipendio da insegnante, provò ad entrare nei Bell, la squadra di Philly che giocava nella World Football League, uno dei tanti sfortunati tentativi di insidiare il primato della NFL nel football professionistico. Vince entra nel roster come wide receiver e fa una buona impressione. Le sue statistiche non sono affatto male: 9 passaggi per 121 yards, una media decisamente alta, 13,4 yards after catch. Evidentemente uno degli scout degli Eagles era presente, tanto da garantirgli un incontro privato con il nuovo, ambizioso allenatore degli Eagles, Dick Vermeil.

L’incontro non fu decisivo ma valse a Papale un invito ad un workout privato richiesto dal general manager Jim Murray per valutare alcuni walk-on, giocatori senza contratto ansiosi di entrare nel football senza passare dal draft. Nessuno si aspettava che Vince, un trentenne che non aveva mai giocato a football nel college, entrasse davvero in squadra ma ce la fece davvero, causando le reazioni entusiastiche di tutti i tifosi della Pennsylvania. Nelle due stagioni e mezza passate con gli Eagles, dal 1976 fino all’infortunio alla spalla nel 1979, Vince giocò 41 delle 44 partite della regular season, recuperando due fumble e mettendo una storica ricezione di 15 yards.

La sua storia però funzionò sia nello spogliatoio che in città, tanto da valergli il titolo di capitano degli Special Teams e il premio di Man of the Year per il suo impegno nella comunità. Dopo aver lasciato la NFL, Papale passò dietro al microfono, lavorando prima alla radio e poi alla televisione per otto anni, per poi passare ad una professione più tranquilla, occupandosi di mutui. Papale si è trasferito a Cherry Hill, New Jersey con la moglie Janet ed i figli Vincent e Gabriella. A Philadelphia, però, nessuno lo ha dimenticato.

Troppo bello per essere vero?

Come è successo che questa storia curiosa ma fondamentalmente popolare solo a Philly e dintorni sia arrivata sulla scrivania di un attore famoso come Mark Wahlberg? Il merito è tutto di NFL Films, che nel 2002 dedicò un servizio alla storia del rookie più vecchio della lega, trasmesso durante l’intervallo di Monday Night Football per celebrare i 25 anni dall’uscita di Rocky. La storia piacque ad un producer della Disney, che cercò subito di assicurarsene i diritti. Wahlberg è un grande tifoso dei New England Patriots e fu tra i primi ad essere contattati per interpretare Papale sul grande schermo. Il film arrivò quattro anni dopo con un cast di tutto rispetto, da Greg Kinnear ad Elizabeth Banks ma, chiaramente, nel passaggio alcuni aspetti della vicenda furono “aggiustati”. Eccone alcuni dei più curiosi.

Vince Papale giocò un solo anno a football perché era troppo gracile e basso. Visto che la famiglia non poteva permettersi la retta universitaria, accettò la borsa di studio per l’atletica. Evidentemente il tempo passato ad allenarsi gli fece bene, tanto da fargli guadagnare diversi centimetri d’altezza e una quindicina di chili di muscoli.

Se il padre e il nonno di Vince allevavano maiali, la madre Almira aveva giocato a baseball negli anni ‘30 in una delle tante leghe professionistiche femminili. In un’intervista Vince dichiarò che “quando non era malata, la mia più grande gioia era riuscire a battere mia madre in una corsa. Era un’atleta incredibile. Evidentemente il mio successo è dovuto in buona parte ai miei geni”.

Dopo aver lasciato l’insegnamento per una carriera nei Philadelphia Bell, Vince finì con parecchi debiti quando la WFL fallì. In un’intervista dichiarò che “appena hai qualche soldo in tasca finisci per fare delle stupidaggini. I problemi iniziano quando gli assegni non arrivano più a fine mese”.

Nonostante quanto sia detto nel film, furono gli Eagles ad invitare Vince ai provini aperti, assieme a qualche altro giocatore dei Bell. Effettivamente quel giorno si presentarono personaggi abbastanza singolari, come ricorda coach Vermeil. “Degli 800 che si presentarono ce n’erano di ogni tipo. Si andava da un dottore a gente con una pancia clamorosa fino a ragazzi che avevano appena finito la high school”.

Cosa convinse coach Vermeil a dare una possibilità a Papale? “Il carisma, sicuramente e il fatto che fosse l’eroe dei tifosi di South Philly, l’area dove abbiamo lo stadio. Poi era davvero bravo”. La storia dell’incontro nel parcheggio mentre riparava la sua macchina rotta è invece del tutto inventata. Quando Vermeil gli comunicò che era entrato in squadra, Vince era nello spogliatoio. Papale, però, non se la prese: “cose del genere nel cinema sono normali”.

Il touchdown segnato nel momento cruciale del film è un’altra invenzione degli sceneggiatori ma Vince non se l’è presa più di tanto, come del fatto che ci sia voluto così tanto tempo prima di vedere la sua storia sul grande schermo. In un’intervista Papale disse di essere “contento che ci siano voluti 30 anni, così posso condividerla con più persone, dai miei figli alla mia splendida moglie”. La sua scena preferita? Quando gioca coi suoi amici nel fango, dietro al bar. “Rappresenta l’innocenza di quelle partite, la gioia di giocare. Eravamo tutti gente cresciuta capace comunque di tornare bambini, divertirsi come se fossimo ancora alle elementari”.

Una vita spesa bene

Dopo un cammino così particolare, forse la cosa più speciale della vita di Vince Papale è quanto sia rimasta profondamente normale. A parte essere grato per aver potuto realizzare il suo sogno da bambino e giocare per la sua squadra del cuore, Vince rimane coi piedi fermamente piantati per terra. Quando un reporter dell’affiliata di Philadelphia della NBC gli chiese come sarebbero andate le cose se non ce l’avesse fatta a giocare per gli Eagles, Papale non si scompone più di tanto. “La mia vita sarebbe andata bene lo stesso. Sarei tornato all’università per prendermi un master per poi tornare ad insegnare alla high school. Sarei quasi in pensione ora”.

Come già dimostrato quando era nella NFL, Vince non si è mai abbattuto di fronte alle avversità. Qualche anno fa gli fu diagnosticato un tumore al colon, una malattia molto aggressiva che è comunque riuscito a sconfiggere. Le lezioni imparate nella lotta contro il cancro le sta trasmettendo agli altri, sia come testimonial e speaker per la charity degli Eagles Fly for Leukemia che come motivational speaker. L’impegno sociale di Papale non si è limitato al cancro ma lo ha visto impegnato in una serie di associazioni, dai Vietnam Veterans alle società per la cura della spina bifida e della sclerosi multipla fino alla American Heart Association.

Questo forse è il lato più bello di questa vicenda. Come tanti altri underdog vincenti, Vince Papale è rimasto non solo umile ma sempre disposto ad aiutare chi si trova nella sua situazione a trovare il coraggio di rimettersi in piedi. Questa, in fondo, è la vera lezione dietro a queste storie all’apparenza fin troppo petalose. Il fatto è che in America non hanno l’orrore per la retorica figlio alle nostre latitudini dell’overdose ricevuta durante il Ventennio e negli anni della Prima Repubblica. Dall’altra parte dell’Atlantico sognare non solo è possibile ma è quasi un imperativo categorico, un dovere sociale. Certo, c’è chi dice che il sogno americano è morto e sepolto e qualche anglofilo che cita il grandissimo comico George Carlin, che usava dire che “si chiama sogno perché devi essere addormentato per crederci davvero”.

Possibile, ma fino a quando ci saranno storie come quella di Vince Papale molti americani “non studiati”, che non sono passati nel tritacarne dell’ideologia woke che sono le università moderne continueranno a credere che se ti impegni e lavori duro tutto è possibile. Saranno pure sempliciotti ma non mi sembra che tutta la nostra sofisticazione intellettuale ci abbia fatto combinare qualcosa di meglio dalle nostre parti.

Se un sogno è talmente bello da farti alzare presto la mattina o a lavorare alle due di notte come sto facendo in questo momento, cosa importa se è vero o no? Invece di stare lì pronti a saltare sul carro del vincitore, provate una volta ogni tanto a fare il tifo per gli underdog. Non solo vi farà bene all'anima ma, magari, riuscirà a cambiarvi anche la vita. Non ci vuole molto, basta crederci. E se non mi credete, chiedete a Vince Papale. Lui sa come si fa.

Estratto dell'articolo di Niccolò Maurelli per repubblica.it il 27 aprile 2023. 

Un debito di 300 mila real brasiliani (quasi 60 mila dollari) verso la scuola delle figlie, ora maggiorenni. Vampeta – gli interisti lo ricordano bene – torna a far parlare di sé. Il giudice ha già disposto il sequestro di medaglie, trofei e capi d'abbigliamento, nonché il blocco del conto corrente – ci sono poco più di 600 dollari – dell'ex calciatore, che entro sabato 29 aprile dovrà anche elencare tutti i suoi beni soggetti a pignoramento. 

In tribunale Vampeta ha sostenuto che la responsabile del contratto con la scuola fosse la sua ex moglie, che si è difesa spiegando di non aver potuto provvedere al pagamento perché l'ex Inter sarebbe in ritardo anche con gli alimenti. In passato lo aveva anche accusato di averla picchiata.

Il soprannome di Marcos André Batista Santos, Vampeta, deriva dall'unione tra le parole "vampiro" e "capeta" (diavolo). […]La sua carriera iniziò in Olanda, al Psv, dove giocava insieme a Ronaldo il Fenomeno. È proprio grazie al suggerimento dell'amico Ronaldo che il presidente nerazzurro Massimo Moratti decise di sborsare 30 miliardi di lire al Corinthians per portare Vampeta all'Inter. Stagione 2000/2001: il bilancio del brasiliano è disastroso. Una sola presenza in Serie A. 

[…] Giancarlo Antognoni, all'epoca direttore generale della Viola, di lui disse: "È un Tardelli moderno". Il caso vuole che proprio Tardelli – subentrato a Lippi sulla alla guida dell'Inter – relegò Vampeta in panchina. […]

Ma Vampeta viene ricordato soprattutto per le sue giocate fuori dal campo. Nel 1999 fu il primo brasiliano a posare nudo per la rivista gay "G Magazine".  Spiegò di essersi spogliato per soldi: "Mi hanno pagato 80mila dollari e una buona parte l’ho destinata in beneficenza per ristrutturare un cinema a Nazaré das Faronhas, il mio paese".  

In un’intervista a Playboy, parlò così della sua esperienza a Milano e Parigi: "Moratti sa tutto di petrolio, ma di 'bola' non s’intende. Milano è una città di negozi dove piove sempre. Neppure Parigi mi piace: c’è la torre, ci sono i musei, ma preferisco la spiaggia di Bahia, per chi sa vivere non c’è posto migliore. La mia seconda patria è l’Olanda, un Paese libero: donne, droga, birra. La gente fuma, beve e si fa gli affari propri".

La sua esperienza con le donne? "Ne ho avute più di 400", ha raccontato.  Davanti al presidente brasiliano – in un ricevimento dopo la vittoria del Mondiale – si è esibito in alcune capriole. Vampeta ha chiuso la sua carriera nel suo paese d'origine, passando per il Brasiliense e il Goias, una squadra che lui disse essere piena "bambi", un termine che in Brasile viene usato per etichettare in modo dispregiativo gli omosessuali. […]

Debiti, fortune sciupate, prigione e droga: da Vampeta a Iaquinta e Tyson, gli sportivi finiti in disgrazia. Marco Letizia, Carlos Passerini e Maria Strada su Il Corriere della Sera il 26 Aprile 2023

Campioni del calcio, del tennis e non solo: quando dopo il successo sul campo arrivano i guai, spesso finanziari

Vampeta sul lastrico, rischio pignoramento

Oggi le cose per Vampeta — che nel 2000 l'Inter pagò 30 miliardi e che rimase solo 4 mesi —, campione del Mondo con il Brasile 200, non vanno affatto bene. Il tribunale di San Paolo ha ordinato il sequestro di tutti i trofei e le medaglie vinti in carriera per un debito di 50.000 euro relativo a tasse scolastiche non pagate per le due figlie, Giovana e Gabriela, 20 e 22 anni. A questo link tutti i dettagli.

Fredy Guarin, lacrime dal carcere

Fredy Guarin, ex centrocampista dell’Inter, non ha trascorso particolarmente bene l’ultimo periodo. Ad aprile 2021 è stato arrestato, e poi condannato, per violenza domestica: una rissa, ubriaco, in casa contro i suoi genitori. Nel settembre 2022, dal carcere, ha scritto di essere pentito. E ha girato un videoselfie spiegando: «Queste lacrime sono quelle di un uomo pieno di peccati, errori, vizi. Dio mi ha già perdonato e io mi sono perdonato.Non è mai troppo tardi per cambiare».

Madjer: 6 mesi di carcere in primo grado

È stato vincitore di una coppa dei Campioni da giocatore e allenatore della Nazionale di calcio del suo Paese. Ma il tribunale di Algeri lo ha condannato in primo grado di giudizio a 6 mesi di reclusione per false dichiarazioni. È questa la pena comminata a Rabah Madjer - vincitore della Coppa dei Campioni con il Porto nel 1987 grazie ad un suo gol di tacco contro il Bayern Monaco, che gli valse il soprannome «Il Tacco di Allah». Madjer è stato anche multato di 100 mila dinari (pari a 640 euro). Il tribunale lo ha invece assolto dalle accuse di frode, falsificazione, uso di un falsario e furto di identità. Il 2 giugno 2022, il tribunale di Algeri aveva chiesto 18 mesi per corruzione, nei confronti dell’ex calciatore. L’agenzia nazionale per l’editoria e la pubblicità (un ente governativo responsabile della distribuzione di annunci pubblicitari sui giornali), si era costituita parte civile contro l’ex calciatore, insieme a Ibrahim.M, uno dei suoi partner nel quotidiano Al-Balagh («L’annuncio»), di cui era proprietario durante l’epoca in cui il Paese era guidato dal defunto Abdelaziz Bouteflika.

Boris Becker: 8 mesi in carcere

Boris Becker è stato condannato per bancarotta fraudolenta a due anni e mezzo di carcere dal tribunale di Southwark, sud di Londra. È stato ritenuto colpevole per quattro dei 24 reati fiscali per cui era finito sotto processo, nato per prestiti mai ripagati alla banca privata Arbuthnot Latham (3,6 milioni di euro) e a un uomo d’affari inglese (altri 1,6 milioni). Non solo: non ha dichiarato una proprietà immobiliare in Germania e, per nascondere denaro ai creditori, lo ha trasferito su conti di altre persone, nella maggior parte dei casi familiari. Dopo aver scontato 8 mesi della pena in carcere, a dicembre del 2022 è stato estradato in Germania dove è in regime di libertà vigilata.

Benjamin Mendy

Benjamin Mendy, terzino francese del Manchester City di 27 anni, era titolare fisso nella formazione allenata da Pep Guardiola, con 10 presenze in Nazionale, quando la sua carriera ha subito un repentino stop a causa di quattro accuse per stupro e una per violenza sessuale per fatti avvenuti Cheshire tra l’ottobre 2020 e l’agosto 2021, le vittime sarebbero tre ragazze di età superiore ai 16 anni. Messo in custodia cautelare dalla giustizia inglese lo scorso 21 agosto, ha affrontato l’udienza preliminare l’11 settembre. E’ rimasto in carcere per 5 mesi prima di essere messo in libertà su cauzione, in attesa che si concluda il processo.

Vincenzo Iaquinta

Da campione del mondo nel 2006 alla condanna a due anni in primo grado. E’ la triste storia di Vincenzo Iaquinta che conquisto in Germania il titolo con l’Italia di Marcello Lippi, ma terminata la carriera è stato investito dai guai giudiziari che hanno coinvolto la sua famiglia. Imputato per reati relativi al possesso di armi finite nelle mani del padre che non le poteva detenere è stato condannato di Aemilia, il più grande processo mai celebrato nel Nord Italia contro la `ndrangheta.

Arantxa Sanchez

C’era una volta una regina del tennis. Quattro titoli del grande Slam vinti in carriera, ex numero uno del ranking mondiale, Arantxa Sanchez, spagnola, oggi 46enne, dal successo ai debiti e non solo. I guai finanziari riguardano sette milioni di euro che la banca del Lussemburgo le chiede dal 2011. Minacciando di farla finire in carcere. Tutto perché ai tempi della gloria tennistica spostò la residenza ad Andorra per pagare meno tasse. Accertato l’illecito il fisco spagnolo le impose il pagamento di 3,5 milioni di euro. Lei decise di intraprendere una battaglia legale, persa, che fece innalzare il debito a 5,2 milioni di euro. Un buco coperto dal Banco de Sabadell e dalla Banca del Lussemburgo. Intanto lei si trasferì a Miami e da allora le banche creditrici la inseguono. Basta? No, il marito l’ha lasciata, ha chiesto il divorzio, le avrebbe portato via tutti i trofei vinti e avrebbe chiesto anche la custodia dei due figli sostenendo che non sia in grado di fare la madre.

Sulley Muntari

Ai poliziotti che l’hanno fermato al valico di frontiera tra Italia e Svizzera ha detto semplicemente: «Sto attraversando un momento difficile, ma sistemerò tutto al più presto». Questo non ha impedito agli agenti di sequestrargli il mezzo, un Suv dal valore di 150mila euro, per alcune rate di noleggio non pagate. Il centrocampista ghanese, 33 anni, ex di Inter e Milan in un passato non troppo lontano sembra essere passato anche lui dalle stelle alle stalle.

Emerson Fittipaldi

Emerson Fittipaldi, due volte iridato di F1 (1972 e 1974), nonché trionfatore in due edizioni della 500 Miglia di Indianapolis (1989 e 1993), ha problemi economici. Tanto che le autorità gli hanno sequestrato trofei e auto da corsa dal suo museo personale. Il 76enne, bicampione del mondo, al momento è braccato dai creditori.

Garrincha

La sua è la storia forse più nota. Una parabola esistenziale incredibile. Secondo molti, è stato la più grande ala destra della storia del calcio. Un fuoriclasse assoluto, un campione del dribbling anche per via di una gamba sinistra più corta della destra di sei centimetri. Morì solo, senza un soldo e alcolizzato, a 49 anni. Lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano scrisse: «Non fu un vincitore, fu un perdente con fortuna».

John Charles

Il «Gigante buono», l’ex centravanti della Juventus, nel 1988, finì addirittura in carcere, e fu rilasciato su cauzione, per morosità nell’affitto della sua casa ad Huddersfield, in Inghilterra. Qualche tempo prima il gallese, in bianconero tra il 1957 e il 1962,aveva cercato fortuna come allenatore delle giovanili in Canada, invano. Subito dopo il ritiro aveva investito in un pub, non ottenendo grande successo. È morto nel 2004: negli ultimi anni gravi problemi di salute e alcune speculazioni sbagliate ne avevano aggravato le difficoltà economiche. Ad aiutarlo era intervenuto il suo amico Giampiero Boniperti.

Mike Tyson

Dopo aver guadagnato in carriera oltre 400 milioni di dollari, il pugile li ha sperperati in case di lusso, automobili e “cuccioli” come la sua tigre domestica. Nel 2003, dovendo tra l’altro nove milioni all’ex moglie, 13 al Fisco americano e 4 a quello inglese, dichiarò bancarotta.

Evander Holyfield

Non se l’è passata troppo bene nemmeno il grande rivale di Tyson, Evander Holyfield: nonostante gli sponsor, un videogioco e una casa discografica con il suo soprannome, «Real Deal», una catena di ristoranti (con lo stesso nome) e le numerose apparizioni in tv e sul grande schermo, balletto compreso, nel 2012 ha dichiarato fallimento mettendo all’asta diversi memorabilia. La ragione? I figli. Ne ha messi al mondo 11.

Bjorn Borg

11 titoli del Grande Slam tra il 1974 e il 1981, ex numero uno del tennis mondiale. Guadagnava milioni ogni anno. Ma, lasciati i campi da tennis, lo svedese si è smarrito dandosi alle droghe. Qualcuno parlò anche di un tentato suicidio nel 1989, circostanza sempre smentita dall’interessato che parla, invece, di intossicazione alimentare seguita da un paio di sonniferi. Una serie infinita di donne, delle quali una lo inguaiò perché trovata in possesso di cocaina. Tentò una linea di abbigliamento, non gli andò bene. Adesso gestisce una linea di intimo e un sito internet per il dating.

Marion Jones

Campionessa mondiale dei 100 metri a fine anni Novanta, costretta a un ritiro per lo scandalo dell’industria farmaceutica Balco (fu accusata di usare almeno cinque diverse sostanze illegali), trovata positiva all’antidoping per Epo nel 2006, si è vista cancellare i risultati 2000-2004 (cioè cinque medaglie olimpiche, due ori mondiali nei 200 e 4x100) e si è trovata a dover restituire anche i premi in denaro (circa un milione di dollari). Nel 2008 è stata condannata a sei mesi di carcere e ai lavori socialmente utili per aver mentito a un giudice riguardo all’uso di sostanze dopanti. In seguito si è dedicata al basket, giocando anche in Wnba, ma finendo licenziata da Tulsa.

Andy Brehme

In Italia i tifosi lo ricordano come una delle principali stelle dell’Inter dei record. La sorte non sorride più ad Andreas Brehme, ex terzino sinistro nerazzurro e campione del mondo con la Germania a Italia ‘90 (suo fu il gol su rigore che permise alla squadra teutonica di battere l’Argentina di Maradona). Negli anni ha accumulato una montagna di debiti. A fine 2014 l’ex collega Oliver Straube per dargli una mano gli propose un impiego come inserviente in un’impresa di pulizie

Vin Baker

Ex cestista dei Celtics, Knicks e in Nba per 13 anni, medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Sydney 2000, nel 1998 aveva ammesso i suoi problemi di dipendenza dall’alcool. Da quell’anno in avanti la sua carriera è declinata. Dallo scorso anno lavora dietro a un bancone di Starbucks.

Dorothy Hamill

Campionessa olimpica e mondiale di pattinaggio artistico nel 1976, l’americana è stata vittima di una lunga depressione dovuta anche all’eccessivo perfezionismo con cui la madre l’aveva educata, e ai due divorzi (uno dall’attore Dean Paul Martin, morto poco dopo) e uno con il medico Dorothy Hamill. Comprò lo show professionistico di pattinaggio itinerante Ice Capades (gli antenati di Disney On Ice), ma poco dopo dichiarò bancarotta.

Gilbert Bodart

Era un mito, per i tifosi del Brescia. Due stagioni fra il 1998 e il 2000, poi il passaggio al Ravenna. Con la nazionale belga 12 presenze tra il 1986 e il 1995: potevano essere di più, ma davanti c’erano Pfaff e Preud’homme. Poi, qualche scelta sbagliata e i problemi finanziari. Il momento più buio nel 2008, quando finisce al fresco per una rapina nei pressi delle Grotte di Han. Passa qualche mese in carcere, poi esce e lavora come cameriere in un bistrot di Huy. «Ho passato momenti terribili - ha detto - ma non sbaglio più: nella vita si deve sempre guardare avanti». Oggi ha 53 anni e cerca di fare l’allenatore in Belgio. Ha appena scritto un’autobiografia.

Scottie Pippen

La stima è di 120 milioni di dollari smarriti. Di cui 4 spesi per un aereo Gulfstream che non poteva volare, più uno per ripararlo. Altri pessimi investimenti della stella dei Bulls lo hanno mandato in bancarotta. E nel 2013 ha persino perso la causa contro i media con i quali sosteneva di non essere in bancarotta.

Joachim Fernandez

Descritto come il «nuovo Desailly», Joachim Fernandez, centrocampista senegalese che passò per il Monza e venne acquistato dal Milan senza mai giocare, è stato trovato morto di freddo, a 43 anni in un hangar abbandonato vicino Parigi. Da tempo viveva come un clochard.

Maurizio Schillaci

Questa no, questa non è una storia nota. È quella di Maurizio Schillaci, «l’altro Schillaci», secondo qualcuno ben più forte del cugino Totò, il re delle Notti Magiche di Italia ’90. Cresce nelle giovanili del Palermo, arriva a Licata voluto da Zeman allenatore e segna 22 gol in 66 partite. Trequartista di gran tecnica ma con poca testa, lo prende la Lazio in B, ma gioca poco per un infortunio al tendine, quindi passa al Messina con suo cugino. Ma la sua storia calcistica è destinata a finire presto. Per colpa soprattutto della droga: prima la cocaina, poi l’eroina. Oggi fa il clochard a Palermo. Nel 2014 è uscito un film su di lui, dal titolo «Fuorigioco».

Diego Mendieta

Una storia assurda, la sua. Perché Diego Mendieta, calciatore professionista paraguaiano nel dicembre 2012 è morto a soli 32 anni perché non poteva permettersi di pagare le cure sanitarie necessarie dopo aver contratto una malattia. La sua ultima squadra, il Persis Solo, in Indonesia, non gli aveva pagato gli ultimi quattro mesi di stipendio.

Sheryl Swoopes

Tre ori olimpici. Uno mondiale (con due bronzi), la cestista americana (tra le prime a fare coming out) entrata da pochi giorni nella Hall of Fame , nel 2013 ha ammesso di avere grossi guai finanziari:la stella delle Houston Comets fuori dal parquet non si è rivelata saggia negli investimenti e nelle spese, al punto da aver perso tutte le sue memorabilia perché non poteva permettersi di pagare 300 dollari di affitto dello spazio in un magazzino. Decine i milioni persi.

Derrick Coleman

L’ex 76ers dopo il ritiro ha investito in diverse proprietà immobiliari e ditte nella città di Detroit, pesantemente colpita dalla crisi del mondo dell’auto. Non è andata come si aspettava, e nel 2010 è andato in bancarotta con debiti per oltre 4 milioni a 99 diversi creditori. La sua casa in una ricca cittadina del New Jersey è finita all’asta.

Roberto Tavola

«Prima i giornali li facevo vendere, ora li vendo». Parola di Roberto Tavola, ex centrocampista della Juventus: a diciotto anni esordì in B, quattro anni dopo passò alla Juventus con cui conquistò due scudetti e una coppa delle Coppe. Poi, la discesa. A 27 anni scende in serie C e a trenta decide di lasciare. Dopo alcuni investimenti sbagliati (negozi di abbigliamento andati male) oggi ha 58 anni e si sveglia ogni mattina alle 5 per consegnare i giornali. La ricchezza è solo un ricordo. Ma, a differenza di molti altri giocatori di questa squadra, a lui non è andata poi così male.

Fabio Macellari

Ha giocato nell’Inter, anche se per poco: 11 presenze nella maledetta stagione 2000/01. Poi Lecce, Cagliari, Bologna. Poi un infortunio grave. «Da lì per debolezza o sconforto ho cominciato a fare ciò che un calciatore non dovrebbe - raccontò a Sky - Stare sveglio fino a tardi, usare cose che non si devono usare, la droga, la discesa fu velocissima perché non sei più lucido quando fai certe cose». Ne è uscito. Tornato per un certo periodo a Bobbio a vivere con la sua famiglia, ha lavorato come taglialegna. Nel dicembre 2015 diventa allenatore del Seulo 2010, in Prima Categoria sarda. Ha 41 anni.

Paul Gascoigne

L’ultima bravata, l’ha visto finire in ospedale dopo la rissa in un hotel di Londra. Il 26 marzo scorso invece l’hanno visto inciampare uscendo da un taxi con in mano una bottiglia di gin, il volto tumefatto con tagli a fronte, naso e labbro. Ubriaco fradicio. L’ex calciatore di Tottenham e Lazio non riesce a scacciare i suoi demoni. I vicini, viste le sue condizioni, hanno allertato la polizia ma Gazza, salito a bordo di un altro taxi, è sparito nuovamente, rientrando nella sua casa di Poole due ore più tardi. A quel punto è stato portato in ospedale. Gazza oggi ha 49 anni.

Müller

Luiz Antônio Correia da Costa noto come Müller oggi ha 50 anni, in Italia ha giocato col Torino (1988-1991) e col Perugia (1997), più 56 presenze con 12 gol in Nazionale, con la quale è stato campione del mondo a Usa 1994. Abbastanza insomma per garantirsi una vita agiata anche una volta appesi gli scarpini al chiodo. Non è andata così. Da calciatore girava in Ferrari, poi è arrivato a chiedere spiccioli agli amici. Un giorno ha mollato moglie e famiglia, si è messo con una 17enne, ha avuto una crisi mistica, è diventato pastore evangelico. Oggi sta meglio: è tornato addirittura a giocare, con il Florianopolis, quarta serie paulista, più per fare pubblicità alla squadra che per guadagnare qualcosa. «Tante persone mi hanno aiutato — ha detto — ora voglio essere io ad aiutare il prossimo»

Jorge Cadete

Jorge Paulo Cadete Santos Reis, nato nel 1968 a Pemba, ai tempi colonia portoghese, oggi Mozambico. Seconda punta di buon talento ma senza particolare senso tattico, malgrado il fisico minuto aveva nel colpo di testa forse il proprio punto di forza, e non è un caso che l’unico gol che segnò in 13 non indimenticabili apparizioni a Brescia fu proprio un’illusoria capocciata in una partita persa 3-2 a Mompiano contro il Cagliari. Gli andò molto meglio al Celtic Glasgow, dove divenne un mito: nel 1996/97 segnò la bellezza di 30 gol in 37 partite. Partecipò anche all’Europeo del ’96 col Portogallo di Figo e Rui Costa. In tutta la carriera, durata quasi vent’anni, ha guadagnato qualcosa come 4 milioni di euro. «Li ho persi tutti, non ho più niente - ha raccontato poi - a volte sento ex calciatori che dicono di avere un sacco di amici nel calcio: è una balla, quando lasci, nessuno vuole più saperne di te». Mettici due matrimoni falliti, gli amici che tali non erano, gli investimenti sbagliati. Vive a Lisbona con i genitori Antonio e Fernanda con un sussidio di povertà dello Stato, 180 euro a settimana.

George Best

Pallone d’oro 1968, il «Quinto Beatle», un talento immenso. Ma un motto chiaro come il suo destino: «Ho speso molti soldi per alcool, donne e macchine veloci. Il resto l’ho sperperato». È morto nel 2005 per le conseguenze del suo alcolismo.

Earvin «Magic» Johnson.

Dan Peterson.

Stephen Curry.

Oscar Daniel Bezerra Schmidt.

Michael Jordan.

Earvin «Magic» Johnson.

Magic Johnson nel club degli sportivi miliardari: più soldi da imprenditore che da sportivo. Storia di Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera martedì 31 ottobre 2023.

Earvin «Magic» Johnson è il quarto sportivo professionista a diventare miliardario, ma sul campo l’ex leggenda dell’Nba ha guadagnato molto meno degli altri colleghi «Paperoni» Michael Jordan e LeBron James, come del golfista Tiger Woods.

«Solo» 40 milioni dal basket di campo

Per un atleta che ha chiuso la sua carriera da giocatore di basket oltre 30 anni fa (nel 1991 la sua ultima partita ai massimi livelli), hanno fatto la differenza soprattutto le scelte oculate nelle vesti di imprenditore. Sui campi da basket è stato tra i più forti, ma ha guadagnato come professionista «solo» 40 milioni di dollari, rispetto alla ricchissima Nba odierna (su un totale di 479 milioni di dollari in 20 anni, lo stipendio di LeBron solo nell’ultima stagione è stato pari a 44,5 milioni, più di quanto incassato da Johnson in tutta la carriera). Nel club degli sportivi miliardari Magic dimostra così che come uomo d’affari ha saputo reinventarsi meglio, battendo tutti gli altri specialmente con gli investimenti.

«Magic» patrimonio: squadre, assicurazioni, cinema e caffè

Dopo l’addio al basket, Magic Johnson ha messo a segno tanti altri canestri sotto forma di investimenti e scelte finanziarie azzeccate. Da imprenditore attento ha saputo spaziare dalle quote delle squadre sportive ai cinema, fino alla catena di caffetteria Starbucks e alle assicurazioni sanitarie. Ora il cinque volte campione Nba possiede una quota di minoranza dei Washington Commanders, franchigia di football americano, e tre squadre professionistiche di Los Angeles: le Sparks della Wnba (la lega americana professionistica femminile di basket), i Dodgers del baseball e i Lafc, club di calcio campione degli Stati Uniti per il quale gioca attualmente Giorgio Chiellini. Del suo patrimonio attuale fanno parte anche gli introiti derivanti dalla partecipazione del 60% alla società di assicurazioni sulla vita EquiTrust, comprata nel 2015 e che rappresenta attualmente la maggior parte delle entrate dell’ex Nba. Infine intrattenimento e caffetteria, con una catena di cinema tutta sua e una joint venture con Starbucks, per aprire sale e locali specialmente nei quartieri abitati da cittadini afroamericani. Al conto delle aziende non manca infine un impianto di imbottigliamento della PepsiCo, situato non lontano da Washington.

Imprenditore più forte dell’Hiv

La carriera post-basket di Magic Johnson è stata così decisamente più fortunata delle ultime battute della sua carriera e di quella, breve, da allenatore Nba (fu suo l’allora record negativo di dieci sconfitte consecutive nella storia dei Lakers. Dopo questa esperienza la leggenda ha deciso di non voler più proporsi come coach). Nel mondo degli affari, spesso lontani dal mondo della pallacanestro, «Magic» ha dato una svolta alle sue «prestazioni» e di certo al peso del suo portafogli, fino agli attuali 1,2 miliardi registrati da Forbes. Uno spirito di iniziativa che non è stato compromesso dalle sue condizioni di salute, dopo che ha trascorso oltre 30 anni, quasi metà della sua vita di 64enne, convivendo con l’Hiv. Risultato positivo dopo la stagione 1990-91, annunciò inizialmente il ritiro, ma riuscì poi a tornare in campo per giocare altre 32 partite ufficiali con i Lakers. Fu però poi costretto a lasciare definitivamente l’agonismo, non tanto per un peggioramento della sua salute, quanto per le polemiche provocate dalla presenza in campo di un giocatore sieropositivo. Per Johnson si trattò soprattutto di un dramma umano, oggi ben ripagato dagli affari che ha saputo concludere lontano dai campi di basket.

Dan Peterson.

Estratto dell'articolo di Daniele Dallera per il “Corriere della Sera” lunedì 11 settembre 2023.

Dan Peterson dall’Illinois, Stati Uniti. Sbagliamo se la inseriamo nei nostri ritratti di «Italiani»? Facciamo un sopruso?

«No, affatto, mi sento italiano: 3 settembre 2023, sono 50 anni che vivo in Italia, arrivai a Bologna nel ’73 dal Cile, dove allenavo la Nazionale e stava scoppiando il colpo di Stato, per allenare la Virtus. Parlo e scrivo in italiano, credo di aver detto più parole in italiano che in inglese, anche se il mio accento è rimasto quello del ’73». 

(...) 

Perché non ha mai guidato?

«Meglio così, ho evitato un pericolo ai milanesi. Poi a Milano sono impazienti, hanno il clacson facile con chi non guida bene e veloce».

Si è anche sposato a Milano, due volte con Laura: la prima a Miami e la seconda appunto nella chiesetta di Assago.

«Una bella cerimonia a distanza di 20 anni dal primo matrimonio di Miami a casa di Bob McAdoo. Nella chiesa di Assago c’erano quasi tutti i miei giocatori».

Dino Meneghin testimone.

«Il più grande giocatore italiano che io abbia allenato: un vincente. Poi se c’è lui, c’è la squadra, la fa Dino con il suo esempio, un leader che tratta tutti allo stesso modo, dalla star al più giovane. Io l’ho definito “la locomotiva”. Fedele a questo soprannome, al mio compleanno me ne ha regalata una, un modello di locomotiva bellissimo». 

Il suo podio dei giocatori che ha allenato: dopo Meneghin chi c’è?

«Mike D’Antoni l’oriundo più forte, Bob McAdoo lo straniero».

Valerio Bianchini il suo grande rivale come allenatore era in chiesa anche lui il giorno del suo matrimonio.

«Siamo veri amici. Anche se al segno della pace, all’invito del prete che celebrava la messa ha fatto una battuta meravigliosa: eh no, questo è troppo, chiedere la pace a me e Dan. Avversari in campo, in panchina, sui giornali, tra noi polemiche vivaci, ma amici nella vita. Oltre a Valerio Bianchini ho avuto altri rivali importanti, Sandro Gamba, Arnaldo Taurisano, Boscia Tanjevic. Sapevano sempre come mettermi in difficoltà».

Segue il basket, ne scrive come editorialista sulla Gazzetta dello Sport. Ma è vero che quello di adesso non le piace più come prima?

«Lo seguo e lo studio attentamente. Non è che mi piaccia meno, dico solo che è cambiato, ai miei tempi si copriva di più tutto il campo, c’era meno tiro da tre e meno pick and roll (fase di gioco che libera il compagno al tiro da fuori) e più gioco complessivo». 

Cosa le è venuto in mente di ritirarsi a soli 51 anni? Perché ha smesso di allenare così presto?

«È stato l’errore più grande della mia vita».

Non è di questa idea la moglie Laura: «Non è vero e tu Dan lo sai: si sono aperte molte altre strade».

Vero anche questo: televisione, pubblicità, comunicazione. Dan Peterson spiega iniziando da «Well» (bene), l’unica americanata che si permette nel suo ricco e raffinato eloquio: «Well, ero giunto alla fine, ero molto stanco, anche un po’ esaurito. Non volevo poi tenere in ostaggio la mia società, l’Olimpia Milano, costringerla ad aspettare, almeno un mese, la mia decisione. Così ho scelto di smettere». 

Ed è iniziato il Dan Peterson show, televisione e pubblicità. La gente si è innamorata delle sue telecronache e dei suoi spot.

«In pubblicità mi hanno lasciato libertà, ho avuto spazio per essere me stesso, in tv certe battute le ho adattate e “rubate” dal mondo televisivo americano». 

Come quando diceva «mamma butta la pasta...»?

«Sì, ho sentito una cosa simile da un telecronista americano, ma lui a partita quasi finita, ormai scontata, parlava di caffè. Essendo in Italia io ho preferito adattare quel finale alla pasta, piatto che mi sembrava più adeguato». 

E con il tè Lipton è diventato addirittura una icona.

«Lavoro di squadra tra autori che mi hanno permesso libertà di interpretazione: così nasce quel “tè Lipton per me numero 1...». 

Lei ancora adesso fa conferenze in giro per l’Italia, la chiamano società, aziende, gruppi imprenditoriali: cosa insegna?

«La sessione più richiesta è “team building”, come si costruisce una squadra vincente». 

È vero che una parte molto apprezzata è quando lei si intrattiene sul linguaggio degli indiani?

«Ho studiato il linguaggio degli indiani d’America, quello dei segni, faccio degli esempi, rappresentano una sintesi molto efficace e fanno sempre un certo effetto». 

(...)

Le prossime elezioni Usa: voterà stavolta?

«Ribadisco: io scelgo la persona. Chi viene eletto deve capire che deve abbandonare l’ideologia e governare, amministrare. Si deve confrontare con i bisogni della gente. Io da cittadino ne ho quattro: 1, sicurezza internazionale, non voglio per esempio che la Russia sia in grado di attaccare i nostri confini. 2, sicurezza interna. 3, solidità economica e finanziaria. 4, creare infrastrutture e servizi per il cittadino: autostrade, ponti, trasporti, scuole, università, ospedali. Capito perché detesto l’ideologia, è questa tendenza che mi ha fatto schiacciare il pulsante off quando si deve votare».

Ideologia e social sono i nemici di chi governa?

«Succede anche in Italia, a Giorgia Meloni per esempio: c’è la tendenza sui social al massacro. Non mi piace». 

Se Biden si ricandida a 82 anni, può farlo anche lei che ne ha 87.

«Well, io sono messo meglio del Presidente degli Stati Uniti. Non sbaglio nomi, non mi confondo ancora. A 87 anni sono solo un po’ più lento: l’altro giorno camminavo e una signora passandomi di fianco mi ha superato. Mi sono detto: ehi Peterson cerca di andare più veloce...».

Stephen Curry.

Estratto dell'articolo di Roberta Valent per “il Venerdì di Repubblica” il 3 marzo 2023.

«Non ce la farai mai. Non arriverai in Nba. Non sei abbastanza alto. Non sei abbastanza forte. Non sei abbastanza veloce». Sono le parole che Stephen Curry da giovane si è sentito ripetere all'infinito. […] Oggi Steph Curry, soprannominato Baby-Faced Assassin (l'assassino con il volto da bambino), è considerato da tutti uno dei giocatori più influenti della storia del basket. Uno specialista del tiro da tre punti capace di cambiare la pallacanestro moderna. […]

La sua carriera, oggi, è celebrata in Stephen Curry: Underrated, il documentario scritto e diretto da Peter Nicks e prodotto da Ryan Coogler (Black Panther, Wakanda): mescolando vita privata, filmati d'archivio e interviste, racconta l'ascesa di Curry da giocatore underrated – sottovalutato – di un piccolo college di Division Ia star Nba, mostrandoci il suo lato più personale, l'impegno nelle cause sociali e la fede cristiana. […]

Steph, perché ti chiamano Baby-Faced Assassin?

«È un mio alter ego. Rappresenta i due lati della mia personalità che tutti conoscono. Da un lato quello innocente, l'atteggiamento gentile che ho con tutti. E poi c'è il killer a sangue freddo che compare quando gioco, quando gli avversari cercano di intimidirmi. Mi conoscono anche come Chef Curry, da una canzone rap che mi ha dedicato Drake (ride)».

Perché hai voluto Peter Nicks per raccontare la tua storia?

«[…]È stato lui a suggerirmi un punto di vista documentaristico per andare oltre la superficie. Ho pensato che sarebbe stato bello far vedere quanto i miei primi anni siano stati duri, pieni di dubbi, visto che nessuno aveva capito il mio potenziale, tranne pochi eletti: ho voluto mostrare il ruolo che quelle persone hanno avuto nella mia crescita, rivelando cose che nessuno sapeva di me».

Cosa c'è di nuovo in Underrated?

«La particolarità del film non era tanto quella di seguire me e i Warriors durante la stagione vincente in Nba. Volevo fosse centrata in parallelo anche sugli anni della mia squadra di college, Davidson, e mostrare attraverso le immagini quanto quella comunità fosse unita. […]».

 Ti sei laureato durante le riprese…

«Sì, in Sociologia, la scorsa primavera. Volevo far vedere la realtà della vita: i sacrifici e le ricompense date dal duro lavoro. […]».

E poi c'è il tuo rapporto con la fede.

«[…] Sapere che c'è qualcosa di più grande mi aiuta a trovare uno scopo. Nelle cose che faccio tengo sempre a mente che io rappresento Dio, rappresento la mia famiglia, le persone che hanno avuto fiducia in me. La fede mi ricorda che siamo tutti su questa terra per un motivo: sollevarci l'un l'altro e diffondere positività e amore. Non esiste la perfezione, ma tutti abbiamo l'opportunità di avere un impatto sugli altri, non dimentichiamolo mai».

 Film, basket, impegno sociale: c'è qualcosa che non fai?

«Non posso sciare né fare snowboard. È scritto nel mio contratto!».

Oscar Daniel Bezerra Schmidt.

Da ilnapolista.it il 5 febbraio 2023.

Oscar Daniel Bezerra Schmidt, in Campania è per tutti solo Oscar. Il recordman mondiale di punti segnati: 49.737, “più di un mito autentico come Kareem Abdul Jabbar” come giustamente scrive Carmelo Prestisimone che l’ha intervistato per il Corriere della Sera. E’ entrato nella Hall of Fame di Springfield ma non ha mai giocato in Nba. Era il fuoriclasse della Juve Caserta che poi vinse lo scudetto quando lui se ne andò. Lui la ricorda così:

 «Fu il suggello di un progetto che continuò con i giovani campani, con scugnizzi che fecero cose straordinarie come Nando Gentile, Enzino Esposito. Contro di me ci fu un complotto. Dovetti andare via da Caserta dopo 8 stagioni. Tre anni prima morì il presidente Maggiò. Con lui avevo firmato un contratto di 4 anni dopo che il Real Madrid mi propose un triennale. Se ci fosse stato ancora lui sarei rimasto e avrei vinto anche io. Non mi permisero di restare a giocare in A1…».

Il brasiliano ha quasi 65 anni e ha superato due operazioni al cervello per rimuovere due tumori: “Ora sto bene. Battere la malattia è stata la mia più grande vittoria, il mio miglior canestro. Sono andato due volte sotto i ferri per eliminare due tumori al cervello: il primo grosso 8 centimetri, l’altro più piccolo. Da un orecchio all’altro. E gli interventi lunghissimi alla clinica di San Paolo. Il primo durato 8 ore, l’altro 6 ore e mezzo”.

 Oscar dice che l’estrema medicalizzazione dello sport riguardava ai suoi tempi anche il basket, non solo il calcio: “Nel basket la situazione era simile a quella del calcio. Molti assumevano farmaci misteriosi. Non ho mai preso il Micoren di cui si parla molto. Ricordo che per il raffreddore qualche medico consigliava l’Afrim. Era ritenuto dopante. Alle Olimpiadi non me lo fecero usare. Provai a risolvere il problema col Rinosol”.

Michael Jordan.

Estratto dell'articolo di Roberto Gotta per "Il Giornale" il 17 febbraio 2023.

C’è un’intera generazione, che comprende sicuramente padri e madri di famiglia, che Michael Jordan, il vero Michael Jordan, non l’ha mai visto giocare dal vivo, o in diretta. […] Sembra ieri, ma sono già passati 25 anni da quando MJ, […] vinse il sesto e ultimo titolo della sua carriera, con il memorabile tiro del sorpasso su Utah in gara 6 della finale del 1998, tuttora la partita Nba più vista nella storia.

Jordan aveva 35 anni e dunque aritmeticamente, freddamente, che oggi ne compia 60 anni è solo logico, ma fa comunque impressione a chi lo ha seguito, lo ha visto crescere e ne ha condiviso da lontano l’irripetibile parabola di campione ineguagliabile e uomo immagine capace di creare un modello e una filosofia commerciale, visibile ancora oggi, ad esempio, sulle maglie del Psg, fornite dalla Jordan Brand.

 Irripetibile, per il suo talento e per i tempi: lontano dalla nascita il web come strumento pubblico, ancor più distante l’avvento dei social media, Jordan divenne una superstar per passaparola, per quelle poche immagini che arrivavano nelle rare dirette Nba sulle reti nazionali e nella rubrica della sera del canale Espn e per gli articoli, sempre più estasiati, di chi aveva avuto la preveggenza e il privilegio di andarlo a vedere già al college, North Carolina.

Dove aveva vinto subito il titolo, già lì con il canestro del sorpasso pur da giocatore meno esperto sul parquet, e aveva trovato nel coach Dean Smith un secondo padre. Secondo, perché al padre naturale, James, assassinato in circostanze misteriose nel 1993, […] Sorrisi pubblici e cattiveria agonistica, una voglia di vincere arrivata spesso a consumare le sue energie e al tempo stesso a ricaricarle, con conseguenze di vario tipo sui compagni di squadra[…]

Un ritiro nel 1993 dopo la morte del padre, seguito dal tentativo non riuscito di realizzare il grande sogno d’infanzia di diventare un giocatore professionista di baseball, un altro nel 1999, un periodo di disagio come dirigente di Washington che mal sopportava l’indolenza dei propri giocatori e pareva consumato dal risentimento ogni volta che una delle superstar in crescita, come Kobe Bryant, veniva paragonato a lui, l’uscita di scena nel 2003 e l’acquisto della squadra di Charlotte nel 2010, in ossequio al proprio formidabile senso degli affari.

Un uomo amichevole e feroce al tempo stesso, un carattere complesso sintetizzato nel discorso che fece nel settembre del 2009, in occasione dell’ingresso alla Hall of Fame: commozione e amore per il basket ma anche frecciate, spesso gratuite, a chiunque avesse mai messo in discussione il suo talento e il suo valore […].

Julio Velasco.

Ana Paula Borgo.

Julia Ituma.

Paola Egonu.

Francesca Piccinini.

Julio Velasco.

Il ritorno. Julio Velasco, chi è il ct della Nazionale di pallavolo femminile: il motivatore chiamato con l’obiettivo Olimpiadi. Redazione su L'Unità l'8 Novembre 2023

Julio Velasco, l’allenatore che alla guida della nazionale italiana di pallavolo maschile portò la cosiddetta “generazione di fenomeni” a vincere tra il 1989 e il 1996 tre campionati d’Europa e due campionati del mondo, oltre ad un argento alle Olimpiadi di Atlanta 1996, è il nuovo ct della nazionale femminile, che aveva già guidato nel biennio 1997-98.

Ad annunciare il ritorno di Velasco è la Fipav, la Federazione Italiana Pallavolo. “Per l’allenatore di La Plata, fino ad agosto direttore tecnico delle nazionali giovanili maschili, si tratta di ripartire con una nuova avventura sulla panchina azzurra. L’incarico di Velasco partirà dal 1° gennaio”. “Siamo molto contenti che Julio abbia accettato la nostra proposta – le dichiarazioni del presidente della Fipav Giuseppe Manfredi -. Siamo convinti che affidare la nazionale femminile a un tecnico del suo spessore sia in questo momento la scelta migliore. Ci sono tutti i presupposti affinché questo nuovo percorso possa regalarci soddisfazioni, sicuramente porterà un contributo importante, come è sempre stato, alla causa azzurra“.

Chiaro l’obiettivo di Velasco e delle Azzurre: le Olimpiadi di Parigi 2024 e la prima medaglia medaglia della storia per la pallavolo femminile. Ma il primo step sarà la Nations League in cui l’Italia dovrà confermare la sua classifica per essere ripescata ai Giochi olimpici. Altro punto chiave sarà quello di superare i “drammi” nati dalla precedente gestione a guida Davide Mazzanti, con la rottura dei rapporti tra il ct e diverse giocatrici del blocco azzurro come Bosetti, Monica De Gennaro, Cristina Chirichella ma soprattutto Paola Egonu, che aveva rinunciato torneo di qualificazione olimpica dopo l’Europeo trascorso prevalentemente in panchina.

La carriera nella pallavolo italiana

Nato a La Plata il 9 febbraio 1952. Inizia la sua carriera da allenatore in Argentina nel Ferro Carril Oeste (1979-82), prima di sbarcare in Italia nel 1983 per allenare la Latte Tre Valli Jesi in A2. La svolta arriva nel 1985 col passaggio alla Panini Modena Volley, dove vince quattro Scudetti consecutivi. Nel 1989 viene chiamato alla guida della nazionale italiana maschile, reduce da anni complicati: alla guida degli azzurri compie un percorso incredibile portando la nazionale a diventare negli anni ’90 un autentico “carro armato”, vincendo tre campionati d’Europa e due campionati del mondo, cinque World League oltre ad un argento olimpico.

Una squadra trascinata da leggende come Andrea Zorzi, Andrea Giani, Andrea Lucchetta: la “generazione di fenomeni” che porterà in seguito la Fibv, La Fédération Internationale de Volleyball, a premiare quella come la “Squadra del secolo”.

Nel biennio 1997-98 Velasco allena la nazionale femminile italiana. Nei due anni alla guida della selezione femminile, conduce le Azzurre a un quinto posto agli Europei del 1997, deludente rispetto alle ambizioni iniziali, quindi Velasco lascia la panchina al suo vice Angelo Frigoni, già suo secondo ai tempi della nazionale maschile.

Da una sua idea prende vita il Club Italia, una squadra formata dalle giovani più promettenti selezionate dalla FIPAV. Ha guidato poi le nazionali di Repubblica Ceca (2001-2003), Spagna (2008-11), Iran (2011-14) e Argentina (2014-18). È poi tornato a Modena, prima dell’avventura di pochi mesi fa con Busto Arsizio: Velasco dovrà lasciare il posto da allenatore nel club di A1, la Federazione non ha dato l’ok al doppio incarico.

Velasco nel calcio tra Lazio e Inter

Ma la fama e la popolarità di Velasco spingeranno il ct della nazionale di pallavolo anche in altri “lidi”. Nel 1998 Sergio Cragnotti, all’epoca presidente della Lazio, lo chiama per ricoprire la carica di direttore generale del club di calcio. Due anni dopo, siamo nel 2000, Velasco transita per un breve periodo anche nell’Inter, sotto la presidenza di Massimo Moratti, come responsabile dell’area fisico-atletica del club neroazzurro di Milano. Redazione - 8 Novembre 2023 

Ana Paula Borgo.

Estratto dell'articolo di Fabrizio Rinelli per fanpage.it il 12 maggio 2023.

Il mondo della pallavolo è in lutto per la morte di Ana Paula Borgo. La pallavolista brasiliana è deceduta a soli 29 anni a causa di un cancro allo stomaco che le era stato diagnosticato a settembre 2022 e che l'ha costretta a ritirarsi dall'attività agonistica. Ad annunciare la morte è stata la madre di Ana Paula riferendolo ai media brasiliani. In Italia abbiamo imparato a conoscere la pallavolista nella stagione 2021/22 quando è stata in forza al Volley Bergamo 1991. Una sola stagione per lei con il team bergamasco prima del ritorno in Brasile.

Lo stesso club lombardo attraverso un post sul proprio profilo Instagram ha espresso profonda tristezza per questa tragica notizia: "Fai buon viaggio Ana Paula – si legge – È un giorno triste per la famiglia rossoblù colpita da un dolore immenso: si è spento il sorriso di Ana Paula Borgo". Il cancro era stato diagnosticato ad Ana Paula Borgo nel corso delle visite mediche effettuate nel precampionato di Barueri, squadra che l'atleta avrebbe difeso nell'ultima Superliga. 

[…]

Ana Paula ha combattuto da guerriera come ha sempre fatto, fino all'ultimo giorno. Al suo fianco, il marito Carlos Guedes, a cui la giocatrice brasiliana aveva scritto solo alcuni giorni fa una bellissima lettera aperta in un post su Instagram a corredo di una foto che li ritraeva felici. 

Nel corso della sua carriera, Ana Paula Borgo ha anche arricchito il suo palmares con un bel po' di presenze con la maglia dell’Under 22 brasiliana (con cui ha vinto il titolo Sudamericano), dell’Under 23 – che l’ha vista laurearsi campionessa mondiale – e anche della nazionale maggiore, con cui ha esordito nel 2019. 

Julia Ituma.

Julia Ituma, morta la pallavolista dell’Igor Gorgonzola Novara. Pierfrancesco Catucci su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2023

La giocatrice di 18 anni, stella della nazionale italiana juniores di pallavolo, è stata trovata senza vita a Istanbul, in Turchia, dove si trovava con la sua squadra dopo la semifinale di ritorno di Champions League

Julia Ituma, pallavolista di 18 anni, una delle stelle della nazionale italiana juniores di volley, è stata trovata morta nella mattinata di giovedì 13 aprile a Istanbul, in Turchia, dove si trovava con la sua squadra per la semifinale di Champions League. In un video sarebbero registrati gli ultimi attimi di vita della campionessa. Il suo decesso, attribuito dai media turchi a un gesto volontario, ha sconvolto il mondo dello sport italiano.

Julia Ituma sognava di diventare la nuova Paola Egonu. Aveva percorso, bene o male, gli stessi passi della campionessa azzurra. Prima il Club Italia e la trafila nelle nazionali giovanili, poi l’Igor Gorgonzola Novara con cui ieri aveva perso 3-0 la semifinale di ritorno di Champions League a Istanbul contro l’Eczacibasi (mettendo a referto due punti).

E proprio dalla Turchia arriva la notizia della sua morte, in circostanze ancora da chiarire del tutto. Il suo corpo è stato ritrovato all’alba davanti all’albergo in cui la squadra soggiornava in attesa del rientro in Italia previsto inizialmente per oggi.

La lunghissima telefonata in albergo, poi la caduta

Secondo le ricostruzioni Ituma è precipitata da una finestra dello stabile. Sulla sua morte sta indagando la polizia turca; i media turchi parlano di un gesto volontario .

Ituma alloggiava con la squadra al Volley Hotel di Istanbul, l’albergo adiacente alla Burhan Felek Sports Hall, il palazzetto in cui avevano giocato ieri.

La giovane azzurra condivideva la stanza al sesto piano della struttura con una compagna, Julia Varela, che avrebbe detto di essersi a un certo punto addormentata e di non avere quindi certezza di quanto accaduto successivamente.

La giocatrice sarebbe rientrata in stanza poco prima di mezzanotte dopo essere rimasta a lungo nei corridoi dell’albergo tra le 22.30 e le 23.50.

Le immagini riprese dalla telecamere dell’albergo mostrano la ragazza camminare a lungo davanti alla sua camera, con in mano il suo cellulare (che è stato sequestrato: secondo i primi accertamenti l’atleta avrebbe avuto una lunga telefonata con qualcuno).

Ituma poi si accovaccia, prima di rialzarsi, dare un’ultima occhiata al cellulare, e rientrare in stanza. Non è ancora certo però cos’è successo dopo.

Ora la salma è all’istituto di medicina legale per determinare la causa del decesso.

Il corpo di Julia è stato ritrovato intorno alle 5.30 di stamattina ai piedi dell’albergo da alcuni dipendenti che avevano notato inizialmente solo un paio di scarpe.

Immediato l’intervento dei paramedici che hanno constatato il decesso e della polizia che ha avviato le indagini.

La nascita a Milano e la carriera

Nata a Milano nel 2004 da genitori nigeriani, Ituma era arrivata la scorsa estate a Novara dopo un triennio nel Club Italia, la formazione federale che disputa il campionato di serie A2 con una selezione dei migliori prospetti azzurri.

Cresciuta con il mito di Robertlandy Simon, il centrale cubano di Piacenza, aveva cominciato a giocare a pallavolo all’età di 11 anni. Altezza e prestanza fisica l’avevano indirizzata verso il volley dopo un tentativo anche con il basket e da lì era iniziato il percorso di crescita che l’aveva già vista protagonista con la Nazionale Under 19 (oro europeo la scorsa estate e riconoscimento di miglior giocatrice del torneo) e con l’Under 18 vicecampione del mondo nel 2021.

Dopo una prima fase di carriera nel ruolo di schiacciatrice, Ituma dalla scorsa estate si era spostata nel ruolo di opposto (lo stesso di Egonu) e a Novara era il cambio dell’esperta turca Karakurt. Nel mondo del volley era considerata come l’opposto della Nazionale azzurra del futuro, anche per via dei numeri impressionanti che portava in dote. Alta 192 cm, già a 15 anni aveva un’esplosività muscolare che le permetteva di saltare 3,35 metri, quota che tante giocatrici di alto livello non raggiungono. «Di ragazzine ne ho viste tante – aveva detto di lei Pasquale D’Aniello, l’allenatore della Nazionale Under 16 con cui aveva vinto l’argento europeo nel 2020 – ma Julia ha qualcosa in più delle altre. La prima volta che è arrivata al Centro Pavesi (il centro sportivo federale di Milano in cui si allenano, giocano e vivono le ragazze del Club Italia, ndr), ha fatto cose impressionanti. Nel giro di un anno e mezzo è diventata una delle giocatrici più importanti in questa categoria».

E così, dalla società parrocchiale di Milano San Filippo Neri al Club Italia (con in mezzo gli studi all’Istituto tecnico industriale Ettore Conti di Milano) è cresciuta fino ad arrivare all’Igor Gorgonzola Novara che piange la sua scomparsa e annuncia che «manterrà un rispettoso silenzio sulla vicenda in attesa dell’esito delle indagini».

I genitori in Turchia

«Il Consolato generale a Istanbul e l’ambasciata di Ankara, in stretto raccordo con la Farnesina – si legge in una nota del Ministero degli Esteri – stanno seguendo con la massima attenzione la triste vicenda della giovanissima pallavolista Julia Ituma. Il Consolato generale si è immediatamente attivato con i familiari di Julia ai quali sta prestando la massima assistenza mentre un costante raccordo è assicurato con la squadra e il suo direttore sportivo, nonché con la Federazione italiana di pallavolo e le autorità locali».

I genitori di Julia intanto sono partiti per la Turchia riferisce il suo procuratore, Bruno Saltini che aggiunge: «Julia a Novara si trovava bene ed era felice».

Lo choc nel mondo dello sport

Tantissime le reazioni del mondo della pallavolo alla morte di Julia Ituma. Da segnalare quella dell’ex tecnico della nazionale maschile di volley, Mauro Berruto, responsabile sport per il Partito democratico: «Sono sconvolto dalla tragica scomparsa di Julia Ituma, pallavolista diciottenne della Igor Novara. Il mio abbraccio alla famiglia, al club, a tutta la grande comunità della pallavolo italiana».

«Notizie che non vorremmo mai leggere. Tanta tristezza per il dramma che ha portato via a 18 anni Julia, promessa del volley azzurro. Una preghiera per lei, un abbraccio di vicinanza alla sua famiglia e alle sue compagne di squadra» ha sottolineato invece il leader della Lega e Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini.

Commosso il ricordo di Julia da parte del ministro per lo Sport e i Giovani Andrea Abodi: «Sono addolorato e incredulo di fronte alla tragedia che si è consumata nella notte in Turchia e ha strappato la vita a Julia Ituma. Quando succedono queste tragedie la prima domanda che ci si pone è “Perché?”. Le indagini sono in corso, ma qualsiasi possano essere state le circostanze, non ci riporteranno Julia con la sua solarità e il suo sorriso. Mi stringo in un forte abbraccio alla sua famiglia alla quale porgo le più sentite condoglianze e mi unisco al dolore delle compagne di squadra e di tutto il movimento della pallavolo italiana in questo difficile momento».

Il sindaco di Novara, Alessandro Canelli, ha invece voluto testimoniare il cordoglio della cittadinanza per la morte di Julia Ituma: «Non ci sono parole di fronte a certe tragedie. Le più sentite condoglianze a nome dell’amministrazione comunale e della città di Novara alla famiglia di Julia, ai suoi amici e alla società sportiva che questa giovanissima atleta ha rappresentato con grande professionalità».

«Siamo tutti sgomenti per questa tragedia che colpisce non solo il mondo pallavolo, ma tutto lo sport italiano – è il commento del presidente della Federvolley Giuseppe Manfredi –. Oggi piangiamo la scomparsa, non solo di un grande talento, ma soprattutto di una meravigliosa ragazza di 18 anni che abbiamo visto crescere da vicino nel Club Italia, stagione dopo stagione. Il primo pensiero va alla famiglia di Julia, alla quale invio le più sentite condoglianze e garantisco che la Federazione Italiana Pallavolo fornirà il massimo sostegno. Siamo in costante contatto con la società Igor Gorgonzola Novara e con il presidente della Federazione Turca per dare tutto il supporto possibile. In questo momento penso che ogni altra parola sia inutile, è una tragedia immensa a cui nessuno di noi era minimamente preparato».

Un minuto di raccoglimento sarà osservato su tutti i campi di pallavolo prima di tutte le partite che si giocheranno da oggi a domenica.

La morte di Julia Ituma ha fatto venire in mente a molti appassionati la fine di un’altra pallavolista italiana, Giulia Albini, 30 anni, che morì suicida sempre a Isanbul nel 2012 gettandosi da uno dei ponti sul Bosforo. Un mistero anche quello che non si è mai chiarito del tutto.

Il giallo della telefonata, i video dell’albergo: cosa sappiamo della morte di Julia Ituma. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2023

Julia Ituma, campionessa della pallavolo italiana, è morta a 18 anni a Istanbul; le indagini su quanto accaduto si stanno concentrando sui video delle sue ultime ore e sui tabulati del suo telefonino, che è stato sequestrato

Julia Ituma, campionessa di pallavolo italiana di 18 anni, è morta nelle prime ore del mattino di giovedì 13 aprile a Istanbul. Si trovava nella principale città turca per la semifinale della Champions league di volley contro l’Eczacıbaşı, cui partecipava con la sua squadra, la Igor Gorgonzola Novara.

Il corpo della ragazza è stato trovato ai piedi dell’hotel dove alloggiava con le sue compagne, il Volley Hotel, adiacente alla Burhan Felek Sports Hall, il palazzetto in cui aveva giocato la partita di mercoledì.

Ituma è precipitata dalla finestra del sesto piano dell’albergo: i media turchi parlano di un gesto volontario.

Quello che sappiamo delle ultime ore di vita di Ituma — ora al vaglio degli inquirenti turchi — si deve soprattutto alle immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza dell’hotel.

Si tratta di due video: il primo delle telecamere interne all’albergo, che riprendevano i movimenti nei corridoi; il secondo delle telecamere puntate sulla facciata dell’hotel, che hanno filmato gli istanti della caduta.

Gli orari

La giocatrice sarebbe rientrata in stanza poco prima di mezzanotte.

Tra le 22.30 e le 23.50, però, la campionessa sarebbe rimasta a lungo nei corridoi — deserti — dell’albergo.

Non è chiaro a che ora sia avvenuta la caduta dalla finestra: un dettaglio che però dovrebbe essere noto agli inquirenti grazie alle telecamere esterne all’albergo.

Quello che è noto è che il corpo di Julia Ituma è stato ritrovato intorno alle 5.30 del mattino da alcuni dipendenti dell’hotel, che avevano notato inizialmente solo un paio di scarpe.

La telefonata

Gli inquirenti hanno sequestrato il cellulare di Ituma.

Il Procuratore capo dell’Anatolia starebbe concentrando le indagini sull’analisi dei tabulati per capire con chi la giocatrice avrebbe parlato — nel corso di una chiamata che sarebbe stata, secondo alcune fonti, «animata» — o scambiato messaggi, prima di precipitare nel vuoto.

I video

Nei video ripresi all’interno dell’albergo, si vede la campionessa mentre cammina a lungo nel corridoio che conduce alla sua stanza.

Dopo aver chiuso la conversazione telefonica, la ragazza — in felpa e calzoncini scuri — cammina lentamente per il corridoio, torna indietro, si siede a terra, resta con la schiena appoggiata alla parete della sua stanza, con la testa affondata tra le ginocchia.

Infine si alza e — sempre tenendo in mano il cellulare, che guarda un’ultima volta — entra in camera mentre le altre luci dietro di lei in corridoio si spengono.

La compagna di stanza

La giovane azzurra condivideva la stanza al sesto piano dell’albergo con una compagna, Lucia Varela Gomez, 19 anni.

Varela si sarebbe accorta del dramma solo all’arrivo della polizia, alle prime luci dell’alba di giovedì mattina.

Agli inquirenti avrebbe detto di essersi addormentata e di non avere quindi certezza di quanto accaduto successivamente.

«Quando è venuta nella stanza abbiamo parlato fino all’01:30 circa», avrebbe detto alla polizia. «Poi sono andata a letto e ho dormito».

La lettera della pallavolista Stella Nervini a Julia Ituma: «Ti rivedrò in ogni salto e ogni schiacciata». Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2023

La professionista del Chieri Fenera dopo la scomparsa della 18enne in forza alla Igor Novara: «Non potrò mai ringraziarti abbastanza per esserti fidata di me, per avermi permesso di conoscere la vera Titu»

«Ti rivedrò in ogni salto, di quelli che ti lasciano a bocca aperta, ti rivedrò in ogni boato dopo una schiacciata, ti vedrò sempre accanto a me in ricezione, mamma mia che disastro la tua ricezione. Ti rivedrò in ogni film visto insieme. Ti rivedrò nel tuo album preferito dei Thegiornalisti, proprio quello che io odiavo. Eri la mia spina nel fianco e sempre lo sarai». 

Stella Nervini, giocatrice professionista del Chieri Fenera, ha scritto all'amica Julia Ituma, la pallavolista della Igor Novara morta nella notte dopo essere caduta da una finestra dall'albergo di Istanbul, dove era in trasferta con la sua squadra. Le due avevano giocato assieme per due stagioni, dal 2020 al 2022, tra le fila del Club Italia, prima che le loro strade si dividessero, Ituma a Novara e Nervini a Chieri e si dovevano incontrare domenica sera per la partita dei play off che si svolgerà proprio a Chieri. 

«Chi ti conosce e ci conosce sa quanto fosse controverso il nostro rapporto: amore e odio, due forze in continuo conflitto unite da un profondo rispetto – continua l'atleta-. Chi ti conosce davvero sa che anima fragile tu fossi, quanto bisogno d'amore si celasse dietro ai tuoi gesti, alle tue parole forti, alle tue forme di arroganza. Non potrò mai ringraziarti abbastanza per esserti fidata di me, per avermi permesso di conoscere la vera Titu e per essere stata una delle persone più genuine che io abbia mai incontrato. Non ti dirò di volare alto nel cielo, quello lo facevi già quaggiù. Spero solo che tu possa trovare quella pace e quella serenità che qua non hai trovato. Proteggici, mia cara amica, giocherai sempre al mio fianco. La tua spina nel fianco. Stella».

"Giù dalla finestra". Orrore a Istanbul, trovata morta la 18enne stella del volley Azzurro. La giovane pallavolista, militante tra le file dell'Igor Novara, è stata trovata morta davanti a un albergo di Istanbul dove soggiornava con la sua squadra. Sulle circostanze del decesso non si esclude nessuna ipotesi. Rosa Scognamiglio il 13 Aprile 2023 su Il Giornale.

La pallavolista Julia Ituma, 18 anni, è stata trovata senza vita nella mattinata di giovedì 13 aprile all'esterno di un albergo di Istanbul in cui soggiornava con la squadra, l'Igor Volley Novara, in vista della semifinale di ritorno della Champions League nella capitale turca. La notizia è stata confermata da fonti del club e della federpallavolo all'Ansa. Sulle circostanze del decesso sono in corso degli accertamenti da parte delle autorità straniere. Al momento, non si esclude nessuna ipotesi. "Igor Volley comunica con profondo dolore e commozione la prematura scomparsa della pallavolista azzurra Julia Ituma. - si legge in un post condiviso sulla pagina Facebook del club - La tragedia sarebbe avvenuta nelle prime ore del giorno e sulle dinamiche dell’accaduto sta indagando la polizia turca. Igor Volley tutta desidera esprimere il proprio cordoglio e la partecipazione al dolore della famiglia di Julia e dei suoi cari. Il club e tutti i suoi tesserati, affranti dalla perdita, manterranno un rispettoso silenzio sulla vicenda in attesa dell’esito delle indagini".

Il decesso

Il corpo della pallavolista è stato ritrovato alle 5.30 di questa mattina fuori dall'hotel in cui allogiava con la sua squadra. Ieri sera aveva disputato la semifinale di ritorno di Champions League contro l'Eczacibasi Dynavit Istanbul. Stando a quanto riporta il giornale turco Hurryet, la giovane sarebbe precipitata da una finestra al sesto piano della struttura, ma le circostanze del decesso non sono ancora chiare. Julia condideva la stanza con la collega Julia Valera che, però, non si sarebbe accorta di nulla fino all'arrivo della polizia. I filmati estratti dalle telecamere interne dell'albergo - scrivono i media turchi - avrebbero ripreso la giovane mentre vagava per i corridori dell'albergo tra le 22.30 e le 22.50 prima di entrare in camera. Le scarpe che avrebbe indossato - il condizionale è d'obbligo perché, al momento, si tratta solo di indiscrezioni - sono stati ritrovate sull'asfalto. Sulla tragica vicenda sta indagando la polizia turca che, a quanto trapela, non esclude l'ipotesi di un gesto volontario.

Il cordoglio

La morte prematura della pallavolista azzurra ha sconvolto l'intero mondo dello sport. Mauro Berruto, ex allenatore della Nazionale italiana di Pallavolo maschile, ha espresso parole di cordoglio per i familiari della ragazza. "Sono scioccato dalla tragica morte della 18enne giocatrice di pallavolo Julia Ituma Della Igor Novara. - ha scritto il mister su Twitter - Le Mie Condoglianze Alla Famiglia, Alla Società E All'intera Grande Comunità Pallavolistica Italiana".

Chi era Julia Ituma

Nata a Milano nel 2004, da genitori nigeriani, la scorsa estate è approdata tra le file dell'Igor Volley di Novara dopo un triennio nel Club Italia, la formazione federale che disputa il campionato di serie A2. Aveva cominciato a giocare a pallavolo all'età di 11 e, lo scorso anno, ha ottenuto il riconoscimento di migliore giocatrice della campionato europeo Under 19 indossando la casacca azzurra. Nel mondo del volley, italiano e internazionale, era considerato un vero e proprio talento. Di lei Pasquale D'Aniello, l'allenatore della Nazionale 16, aveva detto: "Di ragazzine ne ho viste tante, ma Julia ha qualcosa in più delle altre. La prima volta che è arrivata al Centro Pavesi ha fatto cose impressionanti. Nel giro di un anno e mezzo è diventata una delle giocatrici più importanti in questa categoria".

L'oratorio, l'esordio, la Nazionale: chi era la star del volley morta a 18 anni. Nata e cresciuta a Milano, fin da bambina aveva dimostrato grande talento atletico. La scorsa estate aveva vinto l'oro europeo con la Nazionale Under 19 ottendo il riconoscimento di miglior giocatrice del torneo. Rosa Scognamiglio il 13 Aprile 2023 su Il Giornale.

Sognava di affermarsi nel mondo dello sport Julia Ituma, la pallavolista italiana di 18 anni trovata senza vita all'esterno di un albergo di Istanbul all'alba di giovedì 13 aprile. Fin da ragazzina si era distinta per il suo grande talento atletico appassionandosi al volley quando aveva poco più di 11 anni. Pasquale D'Aniello, ex allenatore della Nazionale under 16, con cui aveva vinto l'argento europeo nel 2021, di lei aveva detto: "Di ragazzine ne ho viste tante, ma Julia aveva qualcosa in più delle altre".

Chi è Julia Ituma

Nata a Milano nel 2004 da genitori nigeriani, Julia Ituma è cresciuta alla periferia Nord della città meneghina con la sorella maggiore, Vanessa, e il fratellino di 15. Da bambina aveva fatto un tentativo con il basket, salvo poi decidere di giocare a pallavolo: la sua più grande passione. All'età di 11 anni c'era stato l'esordio con la polisportiva parrocchiale di San Filippo Neri di via Gabbro, ad Affori. Dopo le scuole medie aveva scelto il liceo scientifico Ettore Conti e l'anno scorso anno aveva sostenuto l'esame di maturità.

La carriera

Altissima fin dall'adolescenza, all'età di 14 anni Julia era passata al Club Italia allenandosi presso il centro sportivo federale Pavesi, in zona Lampugnano. Lo scorso anno era arrivata all'Igor Volley Novara distinguendosi per le sue notevoli abilità tecniche (riusciva a saltare a 3,35 metri). Nel 2021 aveva vinto l'argento ai Campionati del Mondo con la Nazionale Under 18 e nel 2022 l'oro agli Europei con l'Under 19. Inoltre, era stata insignita del titolo di "miglior giocatrice del torneo". Una carriera brillante che si è interrotta tragicamente questa mattina. Ieri sera, Julia ha giocato la sua ultima partita in Champions League. Oggi pomeriggio sarebbe dovuta rientrare in Italia.

La camminata e il telefono: gli ultimi attimi di Julia Ituma in un video. Le telecamere di sorveglianza dell'hotel potrebbero aver ripreso gli ultimi minuti di vita di Julia Ituma, trovata morta ai piedi del suo hotel in Turchia. Francesca Galici il 13 Aprile 2023 su Il Giornale.

Ci sarebbero i video delle telecamere di sorveglianza a immortalare gli ultimi istanti di vita di Julia Ituma, la pallavolista 18enne, futura stella della nazionale maggiore italiana, morta in un hotel di Istambul, dove si trovava con la sua squadra per la Champions League. Secondo i media turchi la sua morte sarebbe da ricodurre a un gesto volontario ma le indagini sono ancora in corso e non si può escludere nessuna pista per il momento.

L'oratorio, l'esordio, la Nazionale: chi era la star del volley morta a 18 anni

Nelle immagini si vedrebbe la pallavolista che cammina avanti e indietro nel corridoio davanti alla sua stanza al sesto piano per oltre un'ora mentre tiene tra le sue mani il telefono cellulare, tra le 22.30 e le 23.50. Quindi, stando a quanto riporta il Corriere, la ragazza si accovaccia per qualche secondo, dà un altro sguardo al telefono e, a quel punto rientra nella sua stanza. Da lì in poi non ci sono altre immagini e il resto della ricostruzione dev'essere effettuato dalle forze dell'ordine.

Julia Ituma alloggiava in una stanza al sesto piano insieme a una compagna di squadra, che però ha dichiarato che a un certo punto si è addormentata, quindi non si è accorta di quanto stava accadendo. È stata la polizia, questa mattina, a svegliarla dopo aver appreso l'accaduto. Il telefono della vittima è stato sequestrato e pare che in quei frangenti in cui si trovava nel corridoio, probabilmente proprio per non svegliare la sua compagna di stanza, ci sia stata una lunga telefonata con qualcuno. Al momento non sono stati rivelati maggiori dettagli, mentre la salma è stata inviata al dipartimento di medicina legale per lo svolgimento dell'autopsia.

Il corpo è stato trovato questa mattina attorno alle 5.30 da alcuni operai dell'albergo, che in un primo momento avevano notato solamente un paio di scarpe. La chiamata ai servizi di soccorso è stata immediata ma quando i medici hanno raggiunto il luogo della tragedia non hanno che potuto constatare la morte della giovane. Il consolato generale a Istanbul e l'ambasciata a Ankara, in stretto raccordo tra loro, stanno seguendo con la massima attenzione il caso. Il consolato si è immediatamente attivato con i familiari a cui sta fornendo la massima assistenza mentre un costante raccordo è assicurato con la squadra e il suo direttore sportivo, nonché con la federazione italiana pallavolo e le autorità locali. La squadra della giocatrice, in evidente stato di choc, farà il suo ritorno in Italia questo pomeriggio.

Estratto da lastampa.it il 14 aprile 2023.

È mistero sugli ultimi minuti della pallavolista italiana Julia Ituma e sulle sue condizioni psicologiche e di salute la sera prima della morte nel Volley Hotel di Istanbul. Il quotidiano turco Hurriyet che ricostruisce l'ultima serata della giocatrice sostiene che Julia avesse detto alle compagne di squadra e all'allenatore di non stare bene, e avrebbe poi scritto «Addio» nel gruppo WhatsApp della squadra prima di precipitare dal sesto piano della sua stanza d'hotel.

 «Notizia falsa», smentisce però da Novara Giuseppe Maddaluno, addetto stampa della Igor con cui Julia Ituma era in trasferta. «Nessuna delle sue compagne ha ricevuto un messaggio di addio, né ha scritto “Arrivederci” sul gruppo WhatsApp della squadra». Di certo – al momento – c’è solo che la sua compagna di stanza, la spagnola Lucia Varela Gomez, ha dichiarato: «Abbiamo parlato fino all’1,30. Poi ho dormito. Sono stata informata la mattina che era caduta».

Le pressioni e le telecamere dell’hotel

Sulla vicenda la procura di Roma ha aperto un’inchiesta. I magistrati vogliono capire che cosa sia accaduto, e far luce su una storia ancora avvolta da molte ombre.

Julia Ituma è rimasta per più di un’ora, tra le 22,30 e le 23,50, tra i corridoi dell'albergo. Poche ore prima della morte. La squadra italiana aveva appena perso 3-0 la semifinale di ritorno di Champions League con l'Eczacibasi Dynavit Istanbul.

 Le immagini delle telecamere mostrano Julia mentre cammina a lungo, sola e con passo lento, immersa nei suoi pensieri, prima di accovacciarsi a terra, la testa appoggiata alle gambe, accanto alla sua camera, al sesto piano del Volley Hotel. Quando si rialza, l’atleta, 19 anni da ottobre, fa uno stretching veloce, come se le si fosse addormentata una gamba tenendo a lungo quella posizione innaturale. Prima di entrare in camera, un ultimo sguardo al cellulare, che è stato sequestrato dalla polizia turca: dai tabulati risulta un uso prolungato del telefonino nelle ore precedenti l morte.

 (…)

Estratto dell'articolo di Brunella Giovara per repubblica.it il 14 aprile 2023.

[…] Alla mamma si dice sempre la verità, forse. E l'ultima chiacchierata con Julia è stata vera e così sincera che "mi ha detto: mamma, abbiamo perso. Io ho fatto due punti, ma la squadra ha fatto schifo". E com'era, Julia? "Forte, come sempre. Era una ragazza molto forte, e non solo in campo. A 17 anni era in Serie A, quante sue compagne sono ancora in C. Aveva il successo nelle mani...". A 18 anni e qualche mese, Julia Ituma è sul lettino di un obitorio a Istanbul, […]. Suicidio, dice la polizia turca che sta facendo le indagini, ma non le ha certo già chiuse. […] come dice la madre Elizabeth, "era così forte, la mia ragazza, che non posso credere che si sia voluta buttare da una finestra. E poi qualcuno mi ha detto che era un balcone, insomma io voglio vedere con i miei occhi, i documenti, il posto. E Julia".

 E ieri sera è infine arrivata nella stanza 606 del Volley Hotel, […] Ha guardato il letto non ancora rifatto, e si è anche affacciata alla grande finestra che dà sul parcheggio, e guardando in basso ha facilmente immaginato la caduta di Julia, dal sesto piano fino alla tettoia che copre l'ingresso. L'altra mattina verso le 5 un inserviente ha trovato due scarpe sportive davanti alla reception, […], ma poi ha guardato meglio e ha visto quel corpo e lì è cominciato "il mio incubo", dice Elizabeth, "vorrei svegliarmi ma non ci riesco. Non riesco a realizzare questa cosa". […]

 E su questa moquette da albergo si è spenta la vita breve di questa ragazza, alla fine di una serata certamente difficile, ma non solo per lei: perso 3 a 0 contro l'Eczacibasi Dynavit Istanbul. Semifinale di ritorno di Champions League, quindi fuori dai giochi. La squadra va a cena, poi tutti a dormire perché il giorno dopo si ritorna in Italia. […] alle 22 Julia chiama la madre, e chiacchierano un po', lei commenta la partita e poi ciao, a dormire.

Ma Julia non dorme proprio, anzi esce dalla stanza che divide con la spagnola Lucia Varela, e decide di stare da sola nel corridoio. Le telecamere interne dell'albergo la inquadrano a lungo, tra le 22.30 e le 23.50. […] Cammina su e giù, avanti e indietro. Ha il cellulare in mano, e ogni tanto lo usa, la polizia lo ha sequestrato per capire con chi ha parlato e a chi ha scritto.

Di sicuro ha parlato con un ragazzo, un suo compagno di scuola nel liceo privato di Novara dove studiava da quando è entrata nella Igor Gorgonzola. Hanno litigato, come succede ai ragazzi. Erano fidanzati? Non si sa, ma di certo hanno discusso e a lungo e pesantemente, tanto che quel ragazzo ha poi mandato messaggi a Lucia, per dirle quello che era successo, e voleva essere sicuro che Julia fosse tranquilla. E lei non lo era, perché il video la riprende poi seduta per terra sulla moquette, la schiena appoggiata alla parete.

È davanti alla sua stanza, e lì sta tanto, e a un certo punto è proprio abbandonata a una disperazione evidente. La testa sulle ginocchia, quelle gambe lunghissime che erano la sua forza. Piange? Non si capisce bene. E poi si rialza, dà ancora un'occhiata al cellulare, […] e rientra in camera. Racconterà alla polizia la compagna Lucia che al suo rientro si sono messe a parlare, e così sono andate avanti fino all'una e mezza di mattina. Di cosa hanno parlato? Del litigio, sicuro. Della partita, probabilmente, e anche della loro vita di giocatrici professioniste, piccole di età ma già autonome […] E poi Lucia si è addormentata. L'altra ha aperto la finestra scorrevole, scavalcato il parapetto, e così se ne è andata.

"E la sua compagna di stanza non ha sentito niente? Mi sembra impossibile", dice la mamma. "Io non sono ancora riuscita a piangere, perché non ci credo ancora. A Pasqua eravamo insieme, abbiamo festeggiato con la famiglia, noi e i suoi fratelli. Julia era contenta", e la zia Helen racconta che qualche sera fa avevano giocato insieme, "mi sfidava a una gara di ballo, un rap del nostro Paese di origine, la Nigeria. Si balla dimenando il sedere, e abbiamo tanto riso. Poi è diventata seria e mi ha detto che basta, doveva andare a dormire perché il giorno dopo aveva l'allenamento". […]

Estratto dell’articolo di Pierfrancesco Catucci per corriere.it il 14 aprile 2023.

(…)

 Dal registro delle chiamate è emerso che nelle ore precedenti aveva parlato a lungo con un ragazzo di Novara, uno studente dello stesso liceo privato che frequentava quest’anno dopo il quadriennio all’istituto tecnico industriale «Ettore Conti» di Milano. Di fatto, nelle ore successive, il ragazzo non è più riuscito a parlarle.

 E, dopo diversi tentativi di rimettersi in contatto con lei, ha cominciato a contattare le sue compagne di squadra. Un messaggio privato su Instagram ad alcune di loro, tra cui anche Varela Gomez, per avere notizie di Julia, chiedere aiuto a rimettersi in contatto con lei ed esprimere loro la sua preoccupazione per non averla sentita tranquilla.

Messaggio letto all’alba di ieri, quando tutta la squadra è stata svegliata dopo il ritrovamento del corpo senza vita della giocatrice da parte di alcuni operai, la cui attenzione era stata attirata da un paio di scarpe chiare apparentemente abbandonate ai piedi dell’albergo. Sotto choc tutta la delegazione novarese, rientrata alle 19.40 di ieri in Italia. Capo chino e volti addolorati per le ragazze e lo staff del club che aveva fatto esordire in serie A1 Julia, in prestito dalla Savino del Bene Scandicci (che ieri sera ha conquistato la Coppa Cev, l’equivalente dell’Europa League del calcio, e ha annullato tutti i festeggiamenti). La predestinata della pallavolo italiana l’anno prossimo avrebbe dovuto vestire la maglia di Cuneo, dove avrebbe avuto la possibilità di giocare con più continuità e proseguire il proprio percorso di crescita con Massimo Bellano, l’allenatore che l’aveva accolta al Club Italia e che l’aveva allenata anche nelle Nazionali giovanili.

 (..)

«Addio», l'ultimo messaggio di Julia Ituma su WhatsApp alle compagne di squadra. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 14 Aprile 2023.

La pallavolista avrebbe parlato a lungo al telefono con un ragazzo che frequenta l'Istituto di Novara. La procura valuta l'apertura di un'indagine. Le compagne: nulla lasciava presagire. I dubbi della società sul messaggio inviato nella chat

«Addio». È con un messaggio su Whatsapp che Julia Ituma avrebbe salutato alcune compagne che con lei giocavano a pallavolo. Un messaggio che non sarebbe stato mandato in un gruppo ufficiale della squadra Igor, dove Julia giocava e ha giocato anche l'ultima partita di mercoledì sera, ma ad un gruppo con alcune amiche. Un messaggio inviato poco prima di cadere giù dal sesto piano dell'hotel Volley dove lo staff e la squadra erano ospiti dopo la partita contro l'Eczacibasi. Lo avrebbe inviato nella notte, dopo aver parlato fino all'1.30 con la compagna di stanza Lucia Varela. Ma lo stesso club ancora ieri smentiva «categoricamente» che la giovane abbia scritto quel messaggio nel gruppo poco prima della morte.

Un ultimo pensiero scritto sul cellulare e rivolto a quelle compagne che considerava come una famiglia e che a cena, prima di far presente che non si sentiva molto bene, aveva anche tentato di consolare dopo la sconfitta ricevuta. Nient'altro. Nessuna spiegazione sul motivo di quel gesto. 

Un'indagine è stata stata avviata dall'ufficio del procuratore capo dell'Anatolia per capire il motivo che ha portato alla morte della pallavolista 18enne che giocava nell'Igor Novara . Ma resta ancora da chiarire il mistero dell'ultima telefonata fatta dalla giocatrice prima di rientrare in camera. Anche la procura di Novara valuta l'apertura di un'indagine.

La telefonata

Ituma avrebbe parlato a lungo al telefono con un ragazzo che frequenta l'Istituto privato di Novara, secondo i primi riscontri. Una chiamata in cui i due avrebbero discusso, anche secondo le prime testimonianze. Con lei che, come mostrano le telecamere di sorveglianza, nervosa, cammina a lungo su e giù per il corridoio per poi sedersi a terra nascondendo la testa tra le gambe. 

La compagna di stanza di Julia

Sarebbe sempre stato il giovane a scrivere anche alla compagna di stanza, Lucia Varela, per sapere come stesse Ituma. 

«Abbiamo chiacchierato per un'ora - ha raccontato agli inquirenti -. Poi mi sono addormentata. Mi ha svegliato la polizia per dirmi che Julia non c'era più». 

Partita rinviata

Intanto, mentre il corpo di Ituma nelle prossime ore sarà sottoposto all'autopsia, sembra ormai certo che Gara 1 dei quarti di finale Play Off di Serie A1 tra Reale Mutua Fenera Chieri e Igor Gorgonzola Novara, in programma domenica sul campo delle chieresi non si giocherà. Manca ancora l'ufficialità ma sembra impossibile pensare che le ragazze di Stefano Lavarini, tornata in Italia giovedì sera, possano essere in grado di scendere in campo a soli tre giorni dall’accaduto. E del resto anche nelle file delle rivali sono tante le atlete che conoscevano bene Julia, a cominciare dalla sua grande amica Stella Nervini, che le ha dedicato un commosso ricordo. Intanto, mentre si aspetta la decisione ufficiale, la Federazione ha annunciato la decisione di ricordare Julia Ituma con un minuto di silenzio prima di tutte le partite che si svolgeranno fino a domenica.

Il messaggio delle compagne

«Avremmo tanto voluto che Julia condividesse con noi il suo dolore, perché nella vita come nello sport qualsiasi ostacolo diventa più facile da superare se lo si affronta assieme, come una squadra». Lo affermano le compagne di Julia Ituma, in una nota congiunta diffusa dalla società Igor Volley Novara. «Non riusciamo - proseguono le pallavoliste - a capacitarci dell'accaduto, non riusciamo a farcene una ragione: nulla ha mai anche solo lasciato presagire che una cosa del genere potesse accadere, altrimenti saremmo intervenute, sostenendoci come siamo abituate a fare ogni qualvolta qualcuna di noi si dovesse trovare in difficoltà».

Estratto dell’articolo di Francesco Grignetti per lastampa.it il 15 aprile 2023

[...] La mamma di Julia Ituma rientra in Italia dopo 36 terribili ore trascorse a rivedere i corridoi dove sua figlia si disperava, la stanza al sesto piano del “Volley Hotel” dove alloggiava, la finestra da cui s’è lanciata nel vuoto. Una donna distrutta. E non ci possono essere altre parole quando tua figlia di 18 anni ha un tale dolore dentro da volerla finire qui e subito, e lei non se ne era resa conto. Se però quando è arrivata non riusciva a crederci, ora ci crede. È successo. Anche se lei, è immaginabile, non potrà mai accettarlo.

La signora Ituma ha ripetuto per tutto il giorno, inebetita nel coro di questa via crucis: «Julia aveva tutta la vita in mano. Aveva tutto il futuro davanti a sé». Ma proprio questo era il peso che la ragazza non s’è sentita di reggere.

 [...] Le autorità di qui considerano il caso già bell’e chiuso. Perché interrogarsi oltre? E invece mamma Ituma è piegata dagli interrogativi. […] Come è possibile che la compagna di squadra di Julia, una coetanea spagnola, Lucia Varela, che condivideva con Julia la stanza 606, abbia parlato con lei fino all’1.20 (così racconta) e poi si sia addormentata senza accorgersi che l’amica apriva una finestra e si gettava giù?

 La giocatrice spagnola l’hanno svegliata i poliziotti turchi alle 5 del mattino, quando hanno bussato frenetici alla sua porta, e si guardava assonnata in giro per la stanza perché non capiva che cosa era successo. E la finestra era ancora aperta.

 Il video di sorveglianza del corridoio dell’albergo l’hanno visto tutti […]. Si vede Julia che parla a lungo al telefono, poi guarda lo schermo con aria interrogativa, arrabbiata, delusa. Poi si accovaccia a terra. Quella telefonata ormai non è più un mistero. Era un amico di Novara con cui faceva coppia da poco tempo.

«Non un fidanzato», si dice. Un incontro di quelli che si fanno a 18 anni, specie se sei una promessa della pallavolo nazionale, già incassi 3 mila euro al mese, ma intanto sei sballottata da una città all’altra, prima Scandicci, poi Novara, prossimamente Chieri, senza un’amica o le compagne di classe. Era solo una vita di palestra, per lei, e con compagne di squadra che pure loro sono una compagnia di ventura internazionale, una che viene dalla Spagna, una dalla Turchia, lei che era italiana ma di origine nigeriana, nata alla Bovisa, vicino Milano, e però quella era già il passato remoto, due vite fa.

La mamma e i dirigenti sportivi nemmeno sapevano di questo incontro recente di Novara. Era un segreto ben conservato di Julia. Che tutti raccontano come una brava ragazza introversa, che dava poca confidenza, molto riflessiva. E questo era il difficile equilibrio della sua vita: sul campo una combattente, attaccante senza paura, aiutata dalla sua altezza di 1,92 che nel volley è una grande forza; nel privato una bella persona, un volto perfetto, ma timida, forse un po’ troppo chiusa per i suoi 18 anni, frenata da quest’altezza che la faceva svettare su tutti.

Comunque, che fosse un suicidio senza ombre, anche i poliziotti turchi ne hanno dubitato. Perciò hanno voluto controllare i video di sorveglianza, hanno sequestrato il cellulare […] e hanno voluto fare i controlli di medicina forense sulla posizione del corpo a terra, perché si sa che una persona cade in un certo modo se il gesto è volontario e in un altro modo se viene spinta. Questa, anzi, è stata la prima verifica che la polizia turca ha effettuato. E il riscontro non darebbe dubbi: Julia si è gettata volontariamente. […]

La mamma di Julia Ituma riavrà tutti i messaggi e le app del cellulare. L’addio alla pallavolista nel suo oratorio. Giovanna Maria Fagnani e Monica Ricci Sargentini su Il Corriere della Sera il 16 Aprile 2023

I detective turchi restituiranno una copia del telefonino. Martedì i funerali della pallavolista. Anche i familiari potranno sapere quali sono stati i suoi ultimi contatti

Julia è tornata a casa. La salma della giocatrice dell’Igor Novara, morta a Istanbul giovedì scorso per una caduta dal sesto piano dell’hotel dove alloggiava, è atterrata ieri mattina all’aeroporto di Malpensa ed è stata trasferita in una camera mortuaria a Milano in attesa dei funerali che si terranno martedì prossimo alle 11 nella chiesa di San Filippo Neri alla Bovisasca, dove c’è l’oratorio in cui la diciottenne aveva imparato a giocare a pallavolo. Il palazzo in piazzale Nigra in cui la madre Elisabeth vive con i fratelli Vanessa , 19 anni, e Daniel, 16 anni, ieri è avvolto nel silenzio.

I negozianti del quartiere sono addolorati. «È una bella famiglia, i ragazzi sono tre meraviglie» dice Mamadou Diane, commerciante e amico della signora. A Novara, dove la ragazza giocava da opposto, sul palazzetto dello sport è apparso uno striscione: «Vivrai sempre nel cuore di chi ti ama. Ciao Titu». Un minuto di silenzio è stato osservato su tutti i campi di pallavolo, da quelli delle giovanili a quelli della serie A. La scritta «Ciao Julia», accompagnata da un cuore rosso col numero 15, è apparsa sui display a bordo campo prima dell’inizio delle partite. Restano ancora tanti interrogativi sulla morte dell’atleta che aveva davanti a sé un futuro promettente. Ieri in aeroporto la madre, dopo aver salutato la figlia, ha incontrato gli ispettori della polizia turca che stanno conducendo le indagini.

I primi risultati dell’autopsia confermano il suicidio ma nessuno sembra sapere perché. La risposta potranno darla solo i tabulati telefonici e i messaggi che ora sono nelle mani degli investigatori e che saranno restituiti alla madre ad indagine conclusa: il telefonino è stato svuotato per fare una copia di tutti i dati. Solo allora questa donna straziata potrà dare un perché alla perdita della sua Julia. Mercoledì scorso, dopo aver perso la semifinale di ritorno di Champions League ed essere stata eliminata, la squadra è tornata in albergo dove ha cenato. Il clima era ovviamente mesto. Ituma era molto scossa. Ha chiamato la madre e ha parlato con lei della partita. Più tardi, intorno alle 22.30, le telecamere di sorveglianza dell’hotel mostrano la giovane camminare a testa bassa nel corridoio deserto.

Poi si accascia contro un muro e rimane in quella posizione a lungo, la testa raccolta tra le gambe. Infine si alza,in felpa e calzoncini scuri, le scarpe sportive ai piedi, guarda un’ultima volta il telefono prima di aprire la porta della sua camera mentre le altre luci dietro di lei si spengono. È quasi mezzanotte. Qualche ora dopo la ragazza si schianterà sull’asfalto. In commissariato la sua compagna di stanza Lucia Varela Gomez ha detto di aver parlato con la sua amica fino a mezzanotte e mezza, dopodiché si è addormentata e non si è accorta di nulla. Finché la polizia non ha bussato alla sua porta.

Secondo i media turchi Julia aveva chiamato un suo compagno di liceo, forse un fidanzato, che poi non sentendola più, nella notte, aveva scritto messaggi preoccupati alle sue compagne di squadra chiedendo notizie. Una circostanza smentita dall’Igor Novara che ha anche negato che l’atleta avesse mandato un WhatsApp sulla chat della squadra con scritto: «Addio».

Chiuse nel loro dolore a Novara le compagne di squadra, ieri, hanno ripreso gli allenamenti a porte chiuse. Tutte saranno in prima fila martedì, accanto alla famiglia, ai funerali che saranno aperti al pubblico. Ma il parroco, don Ivan Bellini, ha spiegato che saranno vietate «riprese e foto durante la celebrazione per mantenere un clima sobrio e rispettoso».

Julia Ituma e il "suicidio" di Giulia Albini: quell'inquietante precedente. Libero Quotidiano il 15 aprile 2023

La morte di Julia Ituma a Istanbul ha sconvolto il mondo dello sport e non solo. La pallavolista 18enne è stata trovata senza vita lo scorso giovedì mattina dopo una caduta dal sesto piano dell'albergo dove alloggiava con la sua squadra. Questo episodio tragico riporterebbe alla memoria un'altra vicenda altrettanto tragica, quella di Giulia Albini, risalente al 29 maggio 2012. Si trattava di una 30enne originaria della provincia di Verbania, il cui cadavere venne ritrovato da una barca di pescatori alle sei del mattino nel Bosforo.

Anche la Albini, come la Ituma, era una pallavolista: giocava nel Pallavolo Ornavasso in Serie A2. Dopo aver raggiunto Istanbul, secondo la ricostruzione fatta all'epoca dalle autorità turche, la donna avrebbe noleggiato un'auto e si sarebbe diretta verso il Ponte di Fatih Sultan Mehmet per poi gettarsi da un'altezza di 70 metri all'una e mezza di notte. Anche allora, dunque, si parlò di suicidio. E il motivo dell'estremo gesto sarebbe da ricondurre alla fine della storia d'amore extraconiugale con Lorenzo Micelli, allenatore dell'Eczacba Istanbul.

La vicenda, però, nonostante la velocità con cui è stata liquidata dai turchi, appare ancora piuttosto misteriosa. Proprio come quella della Ituma. "È una storia strana anche questa e non vorrei che le autorità turche decidano di chiudere le indagini troppo velocemente. Anche qui sono tante le stranezze: abbiamo visto il video delle sue ultime ore dove si vede una ragazza che barcolla, che quasi non si regge in piedi. Poi, invece, nelle ultime immagini non sembra lei: si alza con decisione, entra in camera e poi l'epilogo tragico", ha detto all'Agi Sonia Alfano, ex presidente della Commissione antimafia europea, preoccupata che la morte di Julia Ituma possa essere classificata come "suicidio per amore" come accadde per Giulia Albini. Secondo gli investigatori turchi, infatti, Julia avrebbe parlato a lungo con un ragazzo di Novara la notte della morte. Lo stesso ragazzo che poi in mattinata, non riuscendo a contattarla, avrebbe scritto ad alcune compagne di squadra di Ituma dicendo di essere preoccupato.

A far venire qualche sospetto è anche il fatto che la polizia turca avrebbe sequestrato il cellulare della giocatrice per poi cancellare tutto. "Come ha detto la madre di Ituma, le autorità turche hanno pulito il cellulare di Julia - ha spiegato la Alfano - e mi auguro che adesso ci sia collaborazione con le autorità italiane: vediamo se i dati del suo cellulare e del tablet saranno forniti all'Italia". Altro mistero riguarda il messaggio di addio che, secondo gli inquirenti turchi, la Ituma avrebbe mandato ad alcune amiche nella notte e che invece la società Igor Novara ha smentito sia mai arrivato.  

Paola Egonu.

Il personaggio della settimana. Egonu, la Nazionale e quel mancato orgoglio per l'azzurro. Per la seconda volta, Paola Egonu ha fatto i capricci e ha salutato la nazionale italiana. Forse è il momento di lasciarla per sempre. Francesca Galici l'11 Settembre 2023 su Il Giornale.

Paola Egonu lascia (ancora) la nazionale italiana. A questo punto viene da pensare che l'errore non sia il suo, che ha 24 anni e forse non ha ancora sviluppato la maturità adeguata per fare determinate scelte. È più probabile che sia di chi ancora continua ad aggrapparsi a una giocatrice che, per quanto talentuosa, non è in grado di gestire certe pressioni o, forse, non è così interessata a quella maglia. Il talento di Egonu non è in discussione ma solo chi non sa cosa significhi stare dentro uno spogliatoio e fare gioco di squadra può pensare che "talento" sia uguale a "convocazione" e "minutaggio" sia un'equivalenza granitica.

Ebbene, vi sveliamo un segreto: non è così. Non può essere e non dev'essere così, tanto meno quando si parla della nazionale. Indossare quella maglia significa sentirsi parte di un tutto, sentirsi parte di una collettività e di un gruppo che lavora per un obiettivo. Ognuno fa la sua parte al meglio delle sue possibilità, si lavora insieme e lo si fa con orgoglio. Ecco, forse, la parola chiave. In Paola Egonu probabilmente manca quest'ultimo elemento, che quando si viene convocati per una nazionale è parte integrante del gioco. Darle quella maglia non è un atto dovuto della federazione ma è un premio che viene concesso e del quale deve, o dovrebbe, essere orgogliosa.

Invece no. Appena un anno fa è andata via, ha sbattuto la porta e addirittura è andata in Turchia per disputare il campionato locale, inseguendo, più che un sogno sportivo, un sogno economico. Ha accusato il Paese in cui è nata e cresciuta di razzismo, ha ripudiato un popolo intero e annunciato che non avrebbe accettato le convocazioni con la nazionale italiana. Questo dopo aver vinto un bronzo ai mondiali e non aver certo giocato la sua miglior pallavolo. Non ha vinto l'oro e se ne è andata tra le polemiche. Poi qualcuno è tornato da lei, le ha chiesto di indossarla di nuovo per il campionato europeo. Non avrebbe dovuto, visto il suo comportamento, ma l'ha fatto.

Lei ha accettato. Ovviamente, non poteva certo pretendere di essere titolare di quella squadra dopo aver sparato ad alzo zero sul Paese. Anche se è brava, bravissima, la migliore, certi comportamenti hanno delle conseguenze. L'Italia stavolta ha vinto la medaglia di legno, classificandosi quarta tra la delusione generale. Lei ha avuto un ruolo marginale in questa squadra e invece di restare lì e col suo talento segnare la strada, anche se da comprimaria, ancora una volta ha sbattuto la porta. Ora c'è ancora qualcuno che le corre dietro, che la implora di ripensarci. L'allenatore della nazionale, anche per questa ragione, dopo le qualificazioni ai mondali verrà probabilmente mandato a casa senza tanti complimenti. E lei? Lei, con la qualificazione olimpica in tasca, nel caso arrivasse, sicuramente tornerebbe a vestire quella maglia.

Quella della nazionale, però, non è una maglietta qualunque che metti e togli come vuoi, che quando ti stanca lanci nell'armadio e poi quando ne hai voglia riprendi. È il simbolo di una Nazione che attorno a quella maglia si riconosce, che per quella maglia azzurra piange ed esulta. Se non ti senti in grado di sopportare la pressione e la responsabilità che questo comporta, se non senti quell'attaccamento, è meglio lasciarla andare per sempre. Altri prima di lei l'hanno fatto e non per questo sono considerati meno campioni. Sicuramente si troverà qualcun'altra che prenderà il suo posto, magari meno talentuosa, ma con quella grinta e quella voglia di lottare per quella maglia che lei - probabilmente - non ha. 

"Ha riempito la valigia di soldoni": Lucchetta stronca Paola Egonu. E sulla Nazionale... Un errore tecnico dettato dalla voglia di guadagnare molti soldi: non ha peli sulla lingua l'ex pallavolista Andrea Lucchetta che giudica l'operato di Paola Egonu e la scelta di andare a giocare in Turchia. Alessandro Ferro l'11 Settembre 2023 su Il Giornale.

Una situazione che è sfuggita di mano, già da tempo, e nel peggiore dei modi: la vicenda di Paola Egonu tiene banco anche tra gli ex pallavolisti più importanti e stimati del panorama italiano. Intervistato da Radio Anch'io Sport, l'ex nazionale italiano (e capitano) Andrea Lucchetta ha fatto una disamina (che non fa una piega) e di cui ci siamo occupati sul Giornale.it sulle cause della migrazione in Turchia e il mancato attaccamento alla maglia azzurra.

Le parole di Lucchetta

"Paola Egonu? La reputo un'atleta di interesse internazionale, penso sia la quarta giocatrice nel suo ruolo", ha affermato, sottolineando che "deve continuare il suo percorso di crescita". Un percorso che, però, si è interrotto bruscamente quando ha iniziato a indossare la maglia numero 8 del VakifBank Istanbul. Non solo un errore tecnico, secondo Lucchetta, ma un desiderio di guadagnare tanti soldi come capita spesso tra calciatori a fine carriera che emigrano in Arabia Saudita. "Paola Egonu si è fermata andando in Turchia per riempire la sua valigia di soldoni, ma doveva riempirla anche tecnicamente".

Nonostante il talento, quindi, la 24enne si è dimostrata molto fragile psicologicamente ma non solo: i problemi all'interno dello spogliatoio erano evidenti e lo stesso Lucchetta ne fa menzione. "Pressioni psicologiche non ci devono essere, bisogna avere degli obiettivi ben chiari. Rivelo una fragilità di gestione della sua immagine. Come giocatrice, poi, ci sono delle problematiche che il gruppo si porta dietro da qualche anno. La vittoria degli europei è stata solo una tregua".

Parole che pesano come macigni sulle responsabilità che Paola Egonu aveva e non ha saputo prendere. Pochi giorni fa la giocatrice ha detto di no alla maglia azzurra (per la seconda volta) mettendo a rischio alla possibile partecipazione alle Olimpiadi. La nota della Federvolley dei giorni scorsi ha sottolineato che Paola Egonu "ha concordato con il commissario tecnico e il presidente federale Manfredi di non partecipare al torneo in Polonia per prendersi un periodo di riposo". Come abbiamo visto sul Giornale.it, tra i retroscena per il suo abbandono della Nazionale italiana di pallavolo ci sarebbe la scelta, assieme ad altre colleghe, di andare via se fosse rimasto l'attuale coach, Davide Mazzanti.

Insomma, una bella gatta da pelare che non riguarda soltanto il "campo" ma anche tutto quanto c'è fuori: dagli sponsor alla Fipav, chissà come sarà il seguito di una vicenda che, al momento, è tutt'altro dal potersi definire conclusa.

Dagospia il 10 marzo 2023. PAOLA EGONU CHIAGNE E FOTTE: DESCRIVE L‘ITALIA COME IL SUDAFRICA DELL’APARTHEID AI TEMPI DI MANDELA MA QUESTO PAESE CONTINUA A PAGARLA BENE – L'ATLETA, DOPO I FALLIMENTI CON L’ITALVOLLEY, I MONOLOGHI SANREMESI E LE BATTUTE A VUOTO SULL’ITALIA RAZZISTA, DICE SI’ A MILANO. GUADAGNERA’ UN MILIONE E RINSALDERA’ IL LEGAME CON ARMANI DI CUI E’ TESTIMONIAL – ALLA FINE NON MALE PER UN PAESE DI COTONIERI CHE LEI RAPPRESENTA COME FOSSE L’ALABAMA DEGLI ANNI ’50…

Estratto dell’articolo di Davide Romani per la Gazzetta dello Sport il 10 marzo 2023.

«Ti aspetterò perché sei tu che porti il sole». Gli appassionati di pallavolo italiana nella scorsa primavera canticchiavano il successo dei Boomdabash “Per un milione”. Il testo della canzone portata a Sanremo nel 2019 rappresentava l’arrivederci a Paola Egonu, pronta ad approdare in Turchia, al Vakifbank Istanbul, con la pancia dai successi a Conegliano impreziositi anche dal record di vittorie consecutive (76 match di fila).

 Dopo una stagione il sole è pronto a tornare: la 24enne opposta – che a Sanremo 2023 è stata una della co-conduttrici della kermesse canora al fianco di Amadeus - ha rotto gli indugi e ha detto sì all’offerta del Vero Volley che dalla prossima stagione giocherà stabilmente a Milano. Un’operazione da circa 1 milione di euro a stagione (800 mila più premi e bonus) senza contare gli effetti collaterali che questa scelta comporterà in termini di visibilità e di opportunità, il legame con Giorgio Armani, di cui è testimonial. Una cifra di poco inferiore a quella percepita quest’anno sul Bosforo.

 (...)

Ufficialità L’annuncio non arriverà in tempi brevi anche perché tra pochi giorni Egonu sarà protagonista dei quarti di Champions League proprio contro il Vero Volley. L’andata a Istanbul è in programma il 15 marzo (ore 17.30) mentre il 21 marzo (ore 20) ritorno all’Allianz Cloud. Un antipasto prima della prossima stagione dove l’attende un’altra “partita” da giocare. Milano aspetta Paola «come i bimbi aspettano il Natale».

 La pallavolo è dunque pronta a riabbracciare la sua giocatrice di punta in attesa di scoprire il suo futuro con la maglia azzurra. Estate con la Nazionale che avrà due appuntamenti importanti: Europei e qualificazioni olimpiche. E nel torneo continentale l’Italia giocherà le prime gare all’Arena di Monza, l’impianto che fino a quest’anno ha ospitato i match della sua nuova squadra prima del passaggio a Milano. Per Paola un bell’antipasto prima dello sbarco nella città.

Estratto dell’articolo di Flavia Amabile per “La Stampa” il 14 gennaio 2023.

La pallavolista Paola Egonu la scorsa settimana ha ancora una volta denunciato il razzismo che non risparmia nemmeno chi è nato e cresciuto in Italia ed è un orgoglio nazionale. Lei, dopo gli insulti razzisti, per qualche mese ha preso le distanze dalla Nazionale e solo qualche giorno fa ha detto di essere pronta a tornare a rappresentare l'Italia.

 La giornalista Karima Moual è nata in Italia da genitori del Marocco, ieri dalle colonne della Stampa ha confessato di essersi arresa. «Non saremo mai italiani abbastanza come voi - ha scritto -. I nostri nomi sono troppo stranieri, le nostre facce, i tratti, il colore della pelle, ancora più se è nera, non passa».

 Non passa, no. Lo conferma Maurizio Ambrosini, sociologo e studioso delle migrazioni. «Siamo ancora sotto il duraturo influsso della retorica degli italiani "brava gente", non abbiamo sviluppato anticorpi sufficienti contro il linguaggio, il pensiero e l'approccio razzista. A Milano nel linguaggio corrente si è abituati a chiedere "Quanto guadagna al mese la tua filippina?". Si usa la parola filippina per definire le colf etichettando in modo profondamente razzista chi arriva dalle Filippine.

 Anche il termine badante, che indica un'attività svolta in gran parte da stranieri, ha nella parola un'inferiorizzazione di un lavoro che è molto di più che un semplice badare a delle persone anziane, vuol dire ascoltarle, accompagnarle, assisterle a volte con prestazioni parainfermieristiche. Di Paola Egonu si dice che questo Paese le ha dato la maglia azzurra, non che se l'è conquistata».

 […]

Jean-René Bilongo è originario del Camerun, vive in Italia dal 2000, è responsabile del Dipartimento Politiche Migratorie di Flai-Cgil Nazionale. «In Italia non si vuole affrontare il tema dell'inclusione delle diaspore presenti nel Paese. Abbiamo un modello di inclusione che è in atto ma manca una locomotiva che lo guidi a livello sociale». Che l'Italia sia razzista lo mostrano alcuni indicatori, aggiunge. […]

 Di fronte a tanto razzismo c'è speranza? Secondo Ambrosini ci sarebbe se si desse attuazione alla possibilità di far entrare gli immigrati a pieno ruolo nell'impiego pubblico, che è un ascensore sociale per i gruppi discriminati». Secondo Chef Kumalé «bisogna trovare nella scuola, nello sport e nel lavoro il modo di accorciare le distanze».

Jean-René Bilongo è il meno ottimista.

«C'è speranza? La speranza è sempre l'ultima a morire ma ci vogliono volontà vere a livello nazionale e non mi sembra che ci siano. Qualcuno sa che esiste una Consulta per i lavoratori immigrati e le loro famiglie presieduta dal capo del governo? E qualcuno sa che l'ultima volta che si è riunita è avvenuto nel 2007?».

Dagospia il 14 febbraio 2023.

Caro Dago, ti seguo sempre con interesse, perché riesci a raccontare l’attualità con grande ironia.

 Mi permetto però di scriverti per l’articolo che hai pubblicato su di me, anche se purtroppo non ne hai riportato il contenuto integrale, ed è un vero peccato perché così facendo hai estrapolato un’interpretazione mistificata e falsa di quel che ho scritto ( e l’articolo è per altro libero sul sito della Stampa. qui il link)

Non ho per esempio mai scritto che l’Italia o gli italiani nella loro totalità sono dei razzisti.

Ci ho tenuto molto a scriverlo con chiarezza perché sarebbe ingeneroso, generalizzare ed anche falso.

 Inoltre, io per carattere non frigno. Quanto scritto su La Stampa è un atto d’amore racchiuso in una lunga riflessione che mi costa molto. Vi invito perciò a rileggerla senza mistificare le mie parole.

Credo che almeno voi non abbiate bisogno di costruire nemici immaginari.

Con stima Karima Moual

Paola Egonu a Sanremo 2023, chi è la co-conduttrice della terza serata del Festival. Pierfrancesco Catucci su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2023.

Paola Egonu a 24 anni è la pallavolista più forte d’Italia, stella della Nazionale e del Vakifbank Istanbul. Nata a Cittadella da genitori nigeriani, si definisce «afroitaliana» e «libera» sessualmente

Dici Paola Egonu, dici una delle giocatrici di pallavolo più forti al mondo. Ma anche molto di più. Perché non c’è solo il volley nella vita della 24enne nata a Cittadella (in provincia di Padova) da genitori nigeriani e cresciuta più in fretta che poteva. Lei, che da bambina si vedeva suora come la zia e che a un tratto si è ritrovata campionessa. A 12 anni non le piaceva la pallavolo, tra compagne che non conosceva e qualcuno sempre lì a dirle cosa fare. A 15 anni è la promessa del Club Italia, a 18 gemma di Novara che costruisce attorno a lei (e alla veterana Francesca Piccinini) una squadra per vincere in Italia e in Europa, a 20 diamante di Conegliano che domina la scena internazionale, a 23 stella tra le stelle del Vakifbank Istanbul. Senza dimenticare l’azzurro, di cui è già passato, presente e futuro (si spera, ma questo è un altro capitolo).

Lei che ama definirsi «afroitaliana», forte e pragmatica quando c’è da attaccare 40, 50, 60 palloni e caricarsi la squadra sulle spalle, fragile quando non ci riesce e finisce sul banco degli imputati. Lei, ragazza con tutte le contraddizioni di chi vive da una vita sulle montagne russe e il peso della responsabilità di chi deve per forza lanciare un messaggio. Lei, sessualmente fluida, o meglio «libera», come rivendica ad alta voce, e fiera portavoce di chi ancora si sente discriminato.

C’è tutto questo, ma anche tanto altro nella Paola Egonu che stasera affianca Amadeus sul palco dell’Ariston di Sanremo. Alla conferenza stampa di oggi ha detto senza mezzi termini che l’Italia «è razzista», anche se «sta migliorando». E a chi le ha chiesto se nel suo monologo avrebbe parlato anche di razzismo — come paventato dal ministro Salvini — ha risposto così: «Mi racconterò, quindi sì affronterò anche questo tema».

Dal monologo, aveva spiegato, «vorrei che venisse fuori una piccola parte di me, quella più emotiva, più nascosta». Emotiva come la Paola che, dopo la finale per il bronzo dell’ultimo mondiale, scosse il mondo del volley con un addio alla Nazionale tra le lacrime dopo alcuni messaggi razzisti ricevuti sui social. «È una decisione che non ho ancora preso — ha chiarito nei giorni scorsi —. Non vorrei dare risposte incerte, sto provando a metabolizzare tutto quello che è successo». E stamattina ha aggiunto: «Se ci dovesse essere la possibilità, tornerei in Nazionale». Per ora, se da un lato il presidente della Federvolley Giuseppe Manfredi è fiducioso di riavere la migliore Egonu per l’Europeo (che si gioca anche in casa e si aprirà all’Arena di Verona a Ferragosto) e la qualificazione olimpica, dall’altro il commissario tecnico Davide Mazzanti rinvia ogni discorso convocazioni: «Sarà un nodo che scioglieremo più avanti. C’è accordo di non parlarne. Tutto quello che uscirà si saprà a maggio». L’allenatore con cui sembra l’opposto abbia avuto qualche frizione al Mondiale, però, offre subito l’elogio dell’azzurra: «Paola ha tanti talenti e sa gestire tanti palcoscenici in modo autentico. Dirà le cose in modo molto netto, come lei è».

Come fece in occasione della sua prima apparizione televisiva alle Iene, a ottobre 2021, quando raccontò la difficoltà di doversi svegliare ogni giorno e caricarsi tutta una serie di responsabilità, non necessariamente legate alla pallavolo: «La pressione può schiacciarti — disse in quel monologo — ovviamente questo fa parte del gioco: trasformare la difesa in attacco. Questo mi piace. Quello che non mi piace sono le etichette che la gente mi appiccica addosso. Chi preferisce giudicarmi per chi amo, per il colore della mia pelle, per il mio passaporto. Se proprio volete giudicarmi, fatelo con l’unica etichetta che mi appartiene: libera». Come i protagonisti del film d’animazione Soul (Pixar e Disney) a cui prestò la voce nel 2020. Libera di amare una donna, come raccontò al Corriere nel 2018 (all’epoca era fidanzata con la collega polacca Kasia Skorupa), o un uomo, come nell’ultima storia — finita da qualche mese — con un altro collega polacco, lo schiacciatore Michal Filip. Anche i genitori hanno accettato: «Quando ci si sente diversi si tende a nascondersi, ma mio padre ha capito».

Una «diversità» che Egonu ha scoperto a 4 anni, quando ha vissuto le prime discriminazioni all’asilo, raccontate nei giorni scorsi in un’intervista a Vanity Fair: «Se mai dovessi avere un figlio di pelle nera — spiega — vivrà tutto lo schifo che ho vissuto io. Se dovesse essere di pelle mista, peggio ancora: lo faranno sentire troppo nero per i bianchi e troppo bianco per i neri. Vale la pena, dunque, far nascere un bambino e condannarlo all’infelicità?».

Ora Paola veste la maglia del Vakifbank Istanbul, uno dei club più ricchi al mondo, ma il futuro è ancora nebuloso. Il suo contratto scade al termine di questa stagione e la società ha tempo fino al 31 marzo per esercitare l’opzione per il rinnovo. Alcuni siti specializzati turchi sono sicuri che non lo farà per ingaggiare la grande rivale di Paola, quella Tijana Boskovic campione del mondo con la Serbia che si libera a fine stagione dall’Eczacibasi, l’altra formazione di Istanbul che veleggia in testa alla classifica del campionato. E che il Vakif affronterà dopodomani pomeriggio, con una Egonu appena rientrata da Sanremo. C’è chi sostiene sia tutta una mossa del club (che non avrebbe fatto i salti di gioia per questa serata mondana) per spronarla a fare quel salto di qualità che ci si attende da una giocatrice del suo calibro e trascinare la squadra verso i successi a cui è abituata. E chi invece è sicuro che il suo futuro sarà sempre a Istanbul (sponda Eczacibasi) o addirittura di nuovo in Italia (con Milano e Scandicci che già stanno sondando il terreno).

Paola Egonu, d’altronde, ha sempre guardato più all’oggi che al domani. Nello sport, come nella vita: «L’idea del grande amore non mi fa impazzire: mi interessa ciò di cui ho bisogno in una certa fase della mia vita, non deve per forza essere per sempre». È cresciuta così, con i genitori partiti presto per Manchester e lei in giro per l’Italia e per il mondo a dover dimostrare di essere la più forte, tra record e qualche caduta. Dalla bandiera olimpica portata con fierezza alla cerimonia inaugurale di Tokyo alle lacrime per la delusione a cinque cerchi, dall’esaltazione per l’Europeo vinto qualche settimana più tardi alla disperazione per un Mondiale «fallito» a un passo dalla finale . Quando i beceri messaggi ricevuti sui social le portarono alla mente le cattiverie piovute dagli spalti di una palestra ai tempi delle giovanili da genitori di altre bambine che la insultavano per il colore della pelle.

Nello spogliatoio azzurro è una risorsa imprescindibile, ma anche una campionessa da gestire. Un talento puro che va maneggiato con cura. Lo sanno tutti gli allenatori con cui ha lavorato, tutte le compagne con cui ha condiviso un pezzo di percorso. Ma Paola Egonu, ormai, non è più solo una giocatrice di pallavolo. E stasera proverà a raccontare la persona che c’è dietro al personaggio.

Il monologo di Paola Egonu a Sanremo 2023. Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 9 febbraio 2023.

Paola Egonu ha preso la parola durante la terza serata del Festival di Sanremo

Elegante, spigliata e completamente a suo agio in un debutto non semplice, quello sul palco dell’Ariston, Paola Egonu, 24 anni, pallavolista dei record, ha gestito con grande naturalezza la serata in cui ha co-condotto il Festival. Ha presentato, sceso le scale con disinvoltura, ballato con Gianni Morandi sistemato su un gradino portatile per raggiungere i suoi 193 centimetri d’altezza.

La terza serata del Festival di Sanremo, in diretta

Era molto atteso anche il suo monologo. «Che emozione, spero di trasmettervi amore e empatia. Questa sera non sono qui a dare lezioni di vita perché alla mia età sono più le cose che posso imparare di quelle che posso insegnare», ha esordito.

«Io sono la prima di tre fratelli e devo tutto a mamma e papà sono loro che mi hanno sostenuto e insegnato che se vuoi qualcosa devi guadagnartelo senza temere i sacrifici... non sono madre ma sogno di diventarlo ma sono certa che nessun genitore sia felice di veder un figlio andare via, ma sapevo che questa era la mia strada».

Quindi una riflessione: «Perché mi chiedono se sono italiana, perché mi sento diversa? Con il tempo ho capito che questa mia diversità è la mia unicità. Perché io sono io? Perché io sono io».

Nello spiegare a modo suo il concetto del razzismo, ha usato una metafora dei bicchieri d’acqua: «Tra tanti bicchieri colorati tutti scelgono quello trasparente, ma poi scopri che se bevi l’acqua il contenuto è uguale».

«Come tutti ho dovuto affrontare dei momenti brutti... sono stata accusata di vittimismo e di non aver rispetto del mio paese e questo solo per aver mostrato le mie debolezze: amo l’Italia e vesto con orgoglio la maglia azzurra che per me è la più bella del mondo. Sono quella che spesso ha sbagliato gli appuntamenti importanti: sono più le finali che ho perso di quelle che ho vinto ma questo non fa di me una perdente così come non lo è chi prende un brutto voto a scuola e nemmeno chi arriva ultimo in classifica qui, a Sanremo».

Quindi la citazione del suo brano preferito di uno storico ultimo del Festival: Vasco. Vita spericolata. Quindi un sorriso a concludere il discorso. Applausi.

Calderoli: «Paola Egonu dice che l’Italia è razzista? Vorrei incontrarla e capire perché». Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera il 10 Febbraio 2023.

Il ministro commenta le parole di Paola Egonu a Sanremo e le sue riflessioni sul razzismo in Italia: «L’atleta si sarà imbattuta in qualche stupido»

Ministro Roberto Calderoli, cosa pensa delle accuse di razzismo che Paola Egonu rivolge agli italiani?

«Vorrei parlarle per capire le ragioni di quel che dice. Per me l’Italia non è razzista» risponde l’esponente leghista che finì sotto processo per un epiteto rivolto all’ex ministro Cécile Kyenge («di questo, però, non voglio più parlare»).

Come fa a dirsi così sicuro?

«Se si parla di un Paese intero non si può lanciare un’accusa del genere. Può essere, invece, che l’atleta si sia imbattuta in qualche stupido che ha avuto nei suoi confronti un comportamento assolutamente da condannare. Fare differenze sulla base del colore della pelle non è ammissibile».

Voi leghisti, specie agli inizi, siete stati accusati di razzismo, magari più nei confronti dei meridionali che delle persone di colore.

«Questa è un’accusa che sento fare da quando la Lega è nata. Guarda caso, però, proprio noi abbiamo avuto un amministratore locale, che poi è stato eletto senatore (Toni Iwobi, bergamasco d’adozione, a Palazzo Madama nella scorsa legislatura, ndr), di origine nigeriana. Alle chiacchiere noi rispondiamo con i fatti».

Beh, però sull’antimeridionalismo avete puntato molto in passato.

«È sempre stata una narrazione alimentata ad arte per cercare di contrastarci visto che avevamo argomenti validi. La contrapposizione fra Nord e Sud era funzionale a sbarrarci la strada. Ma anche qui, con i fatti, abbiamo dimostrato che perseguiamo una battaglia perché tutto il Paese cresca pur nelle sue differenze».

Si sta riferendo alla battaglia per l’Autonomia differenziata?

«Con quella e con il federalismo fiscale daremo ad ogni Regione la possibilità di svilupparsi secondo le proprie peculiarità e i propri bisogni».

L’accusano di voler spaccare l’Italia. Anche questa una forma di «razzismo» dei ricchi verso i poveri.

«Anche questa la sento dalla prima volta che sono diventato ministro, nel 2004. Vorrei rispondere dicendo che non puoi rompere ciò che è già rotto in almeno 3-4 parti. Ma non mi interessa polemizzare. Lavoro perché il divario si restringa».

Eppure, c’è chi non apprezza lo sbarco della Lega a Sud.

«Sì, qualche borbottio di pancia lo avverto quando vado nel Mezzogiorno. Ma è una visione assolutamente minoritaria e miope che non rappresenta nulla».

Sanremo 2023: Paola Egonu, non siamo razzisti, ma. Beatrice Dondi su L’Espresso il 10 Febbraio 2023.

Le gettano fango, insulti e accuse surreali di ingratitudine. E alla fine la campionessa co-conduttrice (si fa per dire) sul palco dell’Ariston recita un monologo che ha il doloroso sapore delle scuse: «Amo l’Italia e vesto con onore la maglia azzurra che è la più bella del mondo»

Io sono Paola, sono una donna, sono italiana. E sono alta. No, non lo ha detto ma a un certo punto lo avrà pur pensato visto che tutta la sua presenza sul palco della terza serata si sarebbe potuta riassumere con una radiografia del suo metro e novantatrè di splendore con e senza tacchi. Paola Egonu, co-conduttrice, si fa per dire, della terza serata del Festival, è stata presa ed esibita come una statuina, fatta cantare, ballare, giocare, perché incredibile, Paola sei bravissima, Paola non hai sbagliato, Paola, ma come sei bellina, alta e serena, alta e compita, alta e diligente. Una solfa ormai incancrenita con cui generalmente si avvolgono le donne, donne a caso, donne a prescindere, donne come “ci vorrebbe un presidente donna”.

Così dopo scenette varie mal costruite arriva il temuto monologo sui gradini dell’Ariston. Che avrebbe potuto essere contro il becero razzismo di cui questo Paese ancora ostinatamente non si vergogna. E che invece è diventato un messaggio di scuse. «Amo l’Italia e vesto con onore la maglia azzurra che è la più bella del mondo» dice Egonu e pazienza se dopo aver dimostrato di essere la più forte giocatrice del globo se ne è dovuta andare in Turchia. Pazienza se dopo l’annuncio della sua presenza al Festival si è vista tirare addosso una tale cascata melmosa da far piegare le spalle anche alle menti più solide.

«Spero che non venga a fare una tirata sull’Italia razzista, perché gli italiani sono un popolo che accoglie e che allunga la mano a tutti», aveva dichiarato con il consueto interesse sulle questioni festivaliere Matteo Salvini, omettendo che Paola Egonu è italiana quanto lui, nata a Cittadella, nel profondo Veneto, talmente italiana che ha persino ringraziato mamma e papà.

I commenti dopo la conferenza stampa del mattino, poche ore dal debutto, recitavano cose come «Sciacquati la bocca», o meglio ancora «Accusi gli italiani però poi vai a Sanremo con i soldi nostri», che poi sarebbero anche soldi suoi, visto che da buona italiana il canone tocca anche a lei. Fino alla perla del consigliere di Sangiuliano Francesco Giubilei, che dandole del tu con l’eleganza che contraddistingue questo tipo di esternazioni aveva twittato: «Amare l’Italia significa rispettarla e non attaccare la nazione che ti ha offerto molte possibilità tra cui essere a Sanremo quando potrebbero esserci tanti altri atleti di valore al tuo posto. Un po’ di riconoscenza farebbe bene». Riconoscenza, Paola, ingrata che non sei altro.

Dopo alzate di questo tipo poteva schiacciare, potente, come solo lei sa fare. Invece col foglietto stretto tra le mani, l’emozione legittima dei suoi 24 anni ha dovuto giustificare le sue insofferenze, perché è stata fraintesa, non è vero che non vuole avere figli in un Paese razzista, che crescerebbero discriminati, non è vero che non ha rispetto per l’Italia, sono solo accuse di chi crede che il bicchiere colorato contenga acqua da un gusto diverso rispetto a quello trasparente e non è vero che è un’ingrata, anzi, «Ho un profondo senso di responsabilità per questo Paese su cui ripongo le speranze di domani».

Tutto questo con l’emozione stanca, di chi ha dovuto imparare a non mettere le mani in borsa dentro a un negozio per evitare di essere accusato di furto. Perché alla fine come si dice, “non siamo razzisti, però”. E forse, dovremmo chiedere scusa a Paola Egonu per aver dovuto chiedere scusa.

La co-conduttrice della terza serata del Festival.Paola Egonu, il monologo a Sanremo e le smentite sui bimbi neri e Meloni al governo: “Italia razzista ma esagerazioni su di me”. Redazione su Il Riformista il 9 Febbraio 2023

Smentisce di aver mai detto che “se mai dovessi avere un figlio di pelle nera, vivrà tutto lo schifo che ho vissuto io”, così come quella che non avrebbe più messo piede in Italia se Giorgia Meloni avesse vinto le elezioni. A poche ore dalla terza serata del Festival di Sanremo dove sarà co-conduttrice con Amadeus e Gianni Morandi, la pallavolista Paola Egonu chiarisce alcune forzature dei media ribandendo che “l’Italia è un paese razzista” ma questo “non vuol dire che sono tutti razzisti”.

Nella conferenza stampa odierna, la campionessa di volley che oggi milita nella squadra turca del Vakik Bank Istanbul, ha contestualizzato la frase riportata nei giorni scorsi dal settimanale Vanity Fair, spiegando di “non aver mai detto quella frase” riconducibile “a un episodio che posso raccontare”, relativo a “prima della pandemia” quando “c’erano un sacco di casi in America, quando è nato il movimento Black Lives Matter. Io e mia sorella ne abbiamo parlato preoccupate: caspita, ci siamo dette, un domani potrebbe essere mio fratello, mio figlio. Era una preoccupazione, non ho detto che far nascere un bimbo di colore in Italia sarebbe stato condannarlo all’infelicità. Io non sono infelice, anzi sono molto felice. Quella frase è una esagerazione“.

Egonu, che ha 24 anni ed è nata a Cittadella (Padova) da genitori nigeriani, chiarisce un altro concetto ‘travisato‘ dai media dopo l’addio alla Nazionale di pallavolo, nell’ottobre 2022, e il successivo trasferimento in Turchia: “Non ho mai abbandonato l’Italia. Ho deciso di andare in Turchia per crescere. Sul fatto di tornare a giocare in Nazionale sto metabolizzando tutto. Se ci dovesse essere la possibilità sì, tornerei”. Così come spiega di non aver “mai detto una cosa del genere, non sono parole mie” rispondendo a chi le chiedeva se avesse detto che non avrebbe più messo piede in Italia se Giorgia Meloni avesse vinto le elezioni.

Una serie di rettifiche, prima di ribadire che in Italia il razzismo c’è “però questo non vuol dire che tutti sono razzisti, o tutti cattivi o ignoranti. L’Italia è un Paese razzista, ma sta migliorando. Non voglio sembrare polemica o fare la parte della vittima ma semplicemente dire come stanno le cose. Nel mio monologo mi racconto, quindi ci sarà una parte dedicata a questo”.

Monologo dove “mi racconto” e dove “ci sarà una parte dedicata al razzismo. L’ho scritto io facendomi aiutare. Ho voluto dire chi sono a 360 gradi, senza prendere spunti da episodi particolari”. Egonu non risponde invece alle parole, rilasciate ieri, da Matteo Salvini. Il leader delle Lega e vicepremier del governo Meloni aveva elogiato la pallavolista (“è una grande sportiva”), auspicando però “che non venga a fare una tirata sull’Italia paese razzista. Gli italiani hanno tanti difetti ma non sono razzisti. Mi auguro che non si sentano colpevolizzati da chi usa la tv pubblica per fare la morale”.

La scorsa settimana, nell’intervista pubblicata da Vanity Fair, Paola Egonu ricorda che “a quattro anni ho capito di essere diversa. Ero all’asilo e, con un mio amichetto, stavamo strappando l’erba del giardino: ci facevano ridere le radici. La maestra ci ha messo in castigo. Per tre volte le ho chiesto di andare in bagno. Per tre volte mi ha risposto di no. Alla fine ci sono andata di corsa, senza permesso. Troppo tardi: mi ero fatta tutto addosso. La maestra mi ha riso in faccia: “Oddio, fai schifo! Ma quanto puzzi!”. E, per il resto del giorno, non mi ha cambiata. Ho dovuto attendere, sporca, l’arrivo di mia madre nel pomeriggio. Ancora oggi, 20 anni dopo, fatico a usare una toilette che non sia quella di casa mia”.

Sono cresciuta – ricorda -in un contesto in cui lo standard di bellezza presupponeva l’essere bianca. E, sa, i ragazzini possono essere molto spiacevoli. Io ero sempre la più alta, ero nera, con questi ricci che odiavo. A un certo punto mi sono rasata a zero. Peccato che poi venivo presa in giro perché non avevo i capelli. La vita era uno schifo. Io mi sentivo uno schifo”.

Per la schiacciatrice in Italia oggi non c’è meno razzismo rispetto a venti anni fa. “Capita che mia mamma chieda un caffè al bar e che glielo servano freddo, che in banca lascino entrare la sua amica bianca ma non lei” denuncia Egonu che lo scorso ottobre 2022 ha detto addio, per il momento, alla nazionale dopo lo sfogo, al termine della finale per il terzo posto vinta contro gli Stati Uniti nei Campionati del Mondo, con il suo procuratore Marco Reguzzoni: “Mi hanno chiesto anche se fossi italiana … questa è la mia ultima partita in Nazionale, sono stanca. Non puoi capire. Vinciamo grazie a me, ma soprattutto quando si perde è sempre colpa mia …”.

La pallavolista co-conduttrice a Sanremo. Chi è il fidanzato di Paola Egonu, il gossip con Michal Filip: “Meglio non sportivi: tradiscono”. Vito Califano su Il Riformista il 9 Febbraio 2023

Non sono più due cuori nella pallavolo: quelli di Paola Egonu e Michal Filip. Relazione finita, frequentazione terminata, come ha raccontato la pallavolista, sportiva tra le più mediatiche e influenti degli ultimi anni, in un’intervista a Vanity Fair,. “Ci siamo frequentati per un po’. È già finita”. E aveva anche ammesso di cercare “una persona sicura di sé, che mi sappia stare accanto senza paura. Possibilmente non uno sportivo”, perché “tradiscono. Sono tutti sposati con figli, poi vai in trasferta e li becchi a fare serata con altre ragazze. Inconcepibile: investi del tempo per creare un legame con una persona, poi ti viene voglia di sc…re e butti tutto nel cesso? È un inferno per noi donne”.

Egonu sarà questa sera protagonista a Sanremo, dove farà da co-conduttrice. È nata a Cittadella, in provincia di Padova, padre camionista e madre infermiera, entrambi nigeriani. Soltanto lo scorso luglio Egonu ha trascinato l’Italia allo storico, primo trionfo delle azzurre in Nations League. Lei premiata come migliore giocatrice del torneo. Dopo l’addio al Conegliano, aveva ricominciato la stagione in Turchia, nel VakifBank Istanbul. Proprio in Turchia dove gioca Filip: opposto classe 1994, polacco, maglietta del Develi Belediyespor. I media aveva parlato parecchio la scorsa estate della vacanza della coppia in Sardegna con gli amici e del viaggio a Varsavia della coppia.

Relazione finita: adesso la sportiva è single. Qualche anno fa la pallavolista era stata legata a una compagna di squadra, Kasia Skorupa. “A me piacciono le persone, il genere conta poco”. E poi aveva aggiunto. “Ho ammesso di amare una donna – a Il Corriere della Sera – e lo ridirei, non mi sono mai pentita. E tutti a dire: ecco, la Egonu è lesbica. No, non funziona così. Mi ero innamorata di una collega ma non significa che non potrei innamorami di un ragazzo o di un’altra donna. Non ho niente da nascondere però di base sono fatti miei”.

Stasera a Sanremo porterà un monologo che parlerà anche di razzismo. “L’Italia è un paese razzista, ma non tutti sono razzisti o tutti cattivi, ma se mi chiedete se c’è razzismo la risposta è sì – ha detto in conferenza stampa – L’Italia sta migliorando da questo punto di vista e non voglio fare la vittima, ma dico come stanno le cose”. La campionessa ha anche preso le distanze dalle dichiarazioni riportate in un’intervista a Vanity Fair – “se mai dovessi avere un figlio di pelle nera, vivrà tutto lo schifo che ho vissuto io” – e ha detto di non aver “mai detto quella frase” e che si trattava di un episodio preciso: “Prima della pandemia, c’erano un sacco di casi in America, quando è nato il movimento Black Lives Matter. Io e mia sorella ne abbiamo parlato preoccupate: caspita, ci siamo dette, un domani potrebbe essere mio fratello, mio figlio. Era una preoccupazione, non ho detto che far nascere un bimbo di colore in Italia sarebbe stato condannarlo all’infelicità. Io non sono infelice, anzi sono molto felice. Quella frase è una esagerazione”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Estratto dell'articolo di Nina Verdelli per vanityfair.it il 3 Febbraio 2023.

A quattro anni ho capito di essere diversa. Ero all’asilo e, con un mio amichetto, stavamo strappando l’erba del giardino: ci facevano ridere le radici. La maestra ci ha messo in castigo. Per tre volte le ho chiesto di andare in bagno. Per tre volte mi ha risposto di no. Alla fine ci sono andata di corsa, senza permesso.

 Troppo tardi: mi ero fatta tutto addosso. La maestra mi ha riso in faccia: “Oddio, fai schifo! Ma quanto puzzi!”. E, per il resto del giorno, non mi ha cambiata. Ho dovuto attendere, sporca, l’arrivo di mia madre nel pomeriggio. Ancora oggi, 20 anni dopo, fatico a usare una toilette che non sia quella di casa mia».

Italiana di Cittadella, in provincia di Padova, figlia di genitori nigeriani, pallavolista di punta della squadra turca Vak?fBank e, forse, pallavolista più forte al mondo, la 24enne Paola Egonu sceglie con cura le cose da evitare, nel linguaggio e nella vita. Con il razzismo, però, non sempre ci riesce: non vuole nominarlo, perché «quando ne parli qualsiasi cosa dici ti si ritorce contro», ma poi in quella parola inciampa e finisce per snocciolare aneddoti di crudeltà.

Come quello capitato l’estate scorsa quando, al termine di una partita con la Nazionale, si è sfogata con il procuratore minacciando di lasciare le Azzurre: «Mi hanno chiesto perché sono italiana. Sono stanca». Potrebbe succedere ancora a Sanremo, dove sarà co-conduttrice insieme a Chiara Ferragni, Chiara Francini e Francesca Fagnani, qualora sul palco dell’Ariston decidesse di alzare la voce.

 Ci sta pensando?

«Preferisco usare quello spazio per parlare di sensibilità, di empatia, per raccontare chi sono fuori dal campo».

 E non subisce atti di razzismo fuori dal campo?

«A noi atleti conviene essere diplomatici per non infastidire i club, per non creare tensioni nella squadra. Forse quando smetterò di giocare potrò dire tutta la verità».

Quando smetterà di giocare, qualsiasi cosa dirà farà meno rumore.

«Lo so».

 Vuole provare a dirla ora la verità? Per esempio, rispetto a quando è stata maltrattata all’asilo, oggi c’è meno razzismo in Italia?

«No. Capita che mia mamma chieda un caffè al bar e che glielo servano freddo, che in banca lascino entrare la sua amica bianca ma non lei».

 Come è possibile, scusi?

«Sa che in alcune filiali si entra attraverso porte girevoli, aperte e chiuse dagli impiegati all’interno? Ecco, a lei non la aprivano. La cosa che mi fa più male è che non si arrabbia neanche: “È normale”, mi dice».

 Qualche anno fa ha raccontato che i suoi genitori raccomandavano a lei e ai suoi fratelli: «Vi diranno che i neri puzzano, voi fatevi trovare puliti».

«Ci hanno anche insegnato a non mettere mai le mani in borsa dentro a un negozio per evitare di essere accusati di furto. Ancora oggi, se ho il cellulare in tasca e devo mandare un messaggio, aspetto di uscire».

 Mai una reazione impulsiva?

«Alle medie una ragazzina continuava a prendermi in giro perché ero nera. Un giorno l’ho afferrata per i capelli e le ho urlato: “Dillo un’altra volta e ti metto le mani addosso, non ho paura di te”».

 Di questo governo ha paura?

«Più che altro mi suscita una domanda: perché all’apice ci sono persone insensibili che agiscono per il proprio interesse e non per quello del popolo? Quando ho letto alcune dichiarazioni dei sodali di Giorgia Meloni sull’aborto non ci potevo credere. Se un partito guidato da una donna non hai il coraggio di difendere le altre donne, allora non ci sono speranze».

Se la incontrasse, che cosa le vorrebbe dire?

«La stessa cosa che direi a tanti potenti: quando vedete la vostra gente soffrire, come fate ad andare a dormire sereni?».

Lei ci va a dormire serena?

«Più o meno».

[...]

Chi non apprezza?

«Per esempio quelli che mi insultano chiedendo perché sono italiana. Non sanno niente di me, di noi atlete. Non sanno quanto fatichiamo, quanto siamo stanche, quanto non ci sentiamo all’altezza, quanto a volte vorremmo solo prenderci una pausa da tutto, ma non possiamo. Non ho nemmeno il tempo per godermi una vittoria che arriva la sfida successiva: dopo lo scudetto c’è la Champions, e l’Europeo, la Super Coppa, le Olimpiadi. Allora poi succede che qualcuno mi dice la frase sbagliata e io mi domando: perché mai dovrei rappresentare voi?».

[...]

Si vede anche mamma, un giorno?

«Assolutamente sì. Il desiderio ce l’ho da quando sono piccola, ma solo recentemente ho capito che è realizzabile».

In che senso?

«Prima non riuscivo a immaginare che qualcuno potesse volere un figlio con me: non mi vedevo attraente».

 Prego?

«Sono cresciuta in un contesto in cui lo standard di bellezza presupponeva l’essere bianca. E, sa, i ragazzini possono essere molto spiacevoli. Io ero sempre la più alta, ero nera, con questi ricci che odiavo. A un certo punto mi sono rasata a zero. Peccato che poi venivo presa in giro perché non avevo i capelli. La vita era uno schifo. Io mi sentivo uno schifo».

Ora invece?

«Sto imparando che diverso non vuol dire brutto e che, sì, sono un’atleta ma sono anche una donna e che, come tale, posso essere sensuale. Me lo sono persino tatuata sulla coscia, guardi».

 [...]

E del suo fidanzato, il pallavolista polacco Michal Filip, è innamorata?

«Non è il mio fidanzato: ci siamo frequentati per un po’. È già finita».

Adesso è single?

«Sì. Spesso le persone con cui esco mi dicono: “Non sono abbastanza per te”. Ma come, scusa, secondo te io sprecherei il mio poco tempo libero con qualcuno che non è abbastanza? Sarei scema».

[...]

Che cosa cerca in amore?

«Una persona sicura di sé, che mi sappia stare accanto senza paura. Possibilmente non uno sportivo».

Perché?

«Perché gli sportivi tradiscono. Sono tutti sposati con figli, poi vai in trasferta e li becchi a fare serata con altre ragazze. Inconcepibile: investi del tempo per creare un legame con una persona, poi ti viene voglia di sc...re e butti tutto nel cesso? È un inferno per noi donne».

 Anni fa aveva trovato conforto proprio tra le braccia di una donna, la pallavolista Katarzyna Skorupa. I suoi come l’avevano presa?

«Malissimo. Erano preoccupati di quello che avrebbero pensato gli zii o i vicini di casa. Poi hanno capito che la mia non era una scelta. Chi opterebbe per uno stile di vita che ti mette contro tutti? Certe cose capitano e basta».

Dalla società, invece, si è sentita più accettata?

«Mica tanto: io me ne fregavo, baciavo la mia fidanzata anche in pubblico. Le reazioni, però, non sono sempre state gradevoli. Il problema è che la gente non pensa agli affari propri. Io dico, cosa vieni a giudicare me, o una coppia omosessuale che cresce i figli con amore, quando è pieno di famiglie tradizionali disfunzionali? È un mondo di m...da, me lo lasci dire. Spero che presto arrivi l’Apocalisse».

 Non le sembra di essere un po’ catastrofica?

«Sa che a volte con mia sorella ci chiediamo se sia opportuno per noi mettere al mondo dei bambini?».

 Che cosa intende?

«Io so già che, se mio figlio sarà di pelle nera, vivrà tutto lo schifo che ho vissuto io. Se dovesse essere di pelle mista, peggio ancora: lo faranno sentire troppo nero per i bianchi e troppo bianco per i neri. Vale la pena, dunque, far nascere un bambino e condannarlo all’infelicità?».

 Da ilnapolista.it il 3 Febbraio 2023.

A noi atleti conviene essere diplomatici per non infastidire i club, per non creare tensioni nella squadra. Forse quando smetterò di giocare potrò dire tutta la verità“. Paola Egonu tra pochi giorni co-condurrà il Festival di Sanremo. E’ è una delle più forti giocatrici di pallavolo del mondo, è nera, è italiana ed è “diversa da quando avevo 4 anni, da quando l’ho capito”. Egonu parla di razzismo (anche) in una lunga intervista concessa a Vanity Fair.

Capita che mia mamma chieda un caffè al bar e che glielo servano freddo, che in banca lascino entrare la sua amica bianca ma non lei. Sa che in alcune filiali si entra attraverso porte girevoli, aperte e chiuse dagli impiegati all’interno? Ecco, a lei non la aprivano. La cosa che mi fa più male è che non si arrabbia neanche: è normale, mi dice. Ci hanno anche insegnato a non mettere mai le mani in borsa dentro a un negozio per evitare di essere accusati di furto. Ancora oggi, se ho il cellulare in tasca e devo mandare un messaggio, aspetto di uscire”.

 “Prima non riuscivo a immaginare che qualcuno potesse volere un figlio con me: non mi vedevo attraente. Non mi vedevo attraente in un contesto in cui lo standard di bellezza è essere bianca.  Sono cresciuta in un contesto in cui lo standard di bellezza presupponeva l’essere bianca. E, sa, i ragazzini possono essere molto spiacevoli. Io ero sempre la più alta, ero nera, con questi ricci che odiavo. A un certo punto mi sono rasata a zero. Peccato che poi venivo presa in giro perché non avevo i capelli. La vita era uno schifo. Io mi sentivo uno schifo”.

Mi chiedo a volte se sia il caso di mettere al mondo dei bambini. Se mio figlio sarà di pelle nera vivrà tutto lo schifo che ho vissuto io. Se dovesse essere di pelle mista, peggio ancora: lo faranno sentire troppo nero per i bianchi e troppo bianco per i neri. Vale la pena, dunque, far nascere un bambino e condannarlo all’infelicità?”.

Egonu qualche anno fa ha avuto una relazione con la pallavolista Katarzyna Skorupa. Racconta che i suoi l’hanno presa “malissimo. Erano preoccupati di quello che avrebbero pensato gli zii o i vicini di casa. Poi hanno capito che la mia non era una scelta. Chi opterebbe per uno stile di vita che ti mette contro tutti? Certe cose capitano e basta. Io me ne fregavo, baciavo la mia fidanzata anche in pubblico. Le reazioni, però, non sono sempre state gradevoli. Il problema è che la gente non pensa agli affari propri. Io dico, cosa vieni a giudicare me, o una coppia omosessuale che cresce i figli con amore, quando è pieno di famiglie tradizionali disfunzionali? È un mondo di merda, me lo lasci dire. Spero che presto arrivi l’Apocalisse”.

Se l'Italia fosse davvero razzista, la Egonu non sarebbe la Egonu. L'atleta: «So che se il mio bimbo sarà di pelle nera affronterà lo schifo che ho vissuto io» Ma è proprio in questo Paese che la sua famiglia ha trovato accoglienza e lei il successo. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 05 febbraio 2023

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Aveva ventitrè anni Jesse Owens nero dell’Alabama, quando alle Olimpiadi del ‘36 divenne il lampo nel cielo oscuro della Berlino nazista, vincendo quattro medaglie d’oro in un oceano di teste ariane sotto choc. Aveva 24 Jackie Robinson, primo nero della Major League americana di baseball, quando veniva preso a pallate dai lanciatori anche della sua squadra; e, vincendo tutto s’infilò nei libri di storia come il «più grande sportivo americano di sempre». Paola Egonu padovana di genitori nigeriani ha la loro stessa età ma un approccio alla vita più catastrofico.

Paola è probabilmente la più grande pallavolista che l’Italia abbia mai prodotto, vanta una classe agonistica innaturale quanto il palmarès. Ed è ovvio che la sua intervista-provocazione a Vanity Fair,  rimbalzata su tutti i ntg e rotocalchi, astutamente uscita a margine del Festival di Sanremo di cui è una delle conduttrici, stia sollevando sdegno e solidarietà di fan e lettori.

Paola, richiesta di commento su una sua eventuale gravidanza si è pregiata di rispondere, di non volerlo, un figlio in Italia: «Se mio figlio sarà di pelle nera, vivrà tutto lo schifo che ho vissuto io. Se dovesse essere di pelle mista, peggio ancora: lo faranno sentire troppo nero per i bianchi e troppo bianco per i neri. Vale la pena, dunque, far nascere un bambino e condannarlo all'infelicità?».

Che è, ovviamente, una domanda retorica.

IL TRAUMA E LA MAESTRA Vale sempre la pena, L’insicurezza sociale di Paola, campionessa dal sorriso carsico, è inversamente proporzionale alla sua altezza (1,93!). Nell’intervista la ragazza racconta il trauma della maestra che alle elementari le impedì di andare in bagno portandola a farsela sotto (e accaduto anche a mio figlio, bianco e biondo, ma finora nessun trauma); per poi darle, con cattiveria della «puzzona, fai schifo» rovinando il suo rapporto con le toilette. E poi, Paola spiega che gli italiani sono inevitabilmente razzisti: «Capita che mia mamma chieda un caffè al bar e che glielo servano freddo, che in banca lascino entrare la sua amica bianca ma non lei».

O parla delle reazioni feroci nei corridoi scolastici: «Alle medie una ragazzina continuava a prendermi in giro perché ero nera. Un giorno l'ho afferrata per i capelli e le ho urlato: “Dillo un’altra volta e ti metto le mani addosso, non ho paura di te”». E, per inciso, Paola ha fatto benissimo: io consiglio sempre ai figli in difficoltà, di assestare ai bulli una testata secca sul setto nasale.

Dopo, però, Egonu carica il racconto. Narra degli estremi sacrifici sportivi a cui è sottoposta, non pensando che c’è pure chi –bianco come un cencio- fa la colf, sta in coda alla Caritas o lavora in miniera. E c’è perfino una discriminazione estetica: «Sono cresciuta in un contesto in cui lo standard di bellezza presupponeva l'essere bianca. Io ero sempre la più alta, ero nera, con questi ricci che odiavo» continua lei «a un certo punto mi sono rasata a zero. Peccato che poi venivo presa in giro perché non avevo i capelli. La vita era uno schifo. Io mi sentivo uno schifo». Certo, osservate dalla visuale dell’adolescente cresciuta in una famiglia di migranti nel profondo nord, le denunce sono comprensibili, e stringono il cuore. Come quando Paola evocò, tra le lacrime, l’episodio in cui un branco di tifosi sbagliati le urlarono di non esser degna di vestire la maglia azzurra. Dolore su dolore. A cui s’aggiunge anche la morte delle sua prima allenatrice Fabiola Bellù. Insomma, sfighe sempre all’orizzonte.

Noi tifosi capiamo tutto. E la abbracciamo dell’abbraccio eterno di quando vinse il suo primo scudetto, o il titolo di miglior giocatrice del continente. Epperò vorremo anche sgravarla di tutto questo dolore. Sottolineando qualche piccolo dettaglio che ne ridimensioni il dramma. Innanzitutto Egonu fa un’intervista a Vanity Fair, una delle riviste più fighette e patinate del mondo; e concede interviste a quotidiani come il Corriere della sera dall’età di 17/18 anni. E le sue speculazioni non riguardano la tecnica del bagher, il cambiopalla o la classifica dei play off. Sono opinioni richiestele in quanto opinion leader, in grado di modificare carichi pubblicitari ed etica delle aziende. Paola, meno di Fiona May (che prima di diventyare una star tv denunciò anche lei epoisodi di razzismo) ma come Andrew Howe, Fausto Desalu e soprattutto Marcel Jacobs, è un’italiana di seconda generazione perfettamente integrata in Italia; e anche la sua famiglia ha avuto identica accoglienza.  E spesso, come lei stessa ammette, per i ragazzini Egonu appare come modello di vita e di sport.

RESPIRO D’ORGOGLIO Pur avendo buttato lacrime e sangue, Egonu non se la passa male. Gli idioti razzisti esistono in ogni dove, cara Paola, basta ignorarli e non farsi sottomettere dalle patetiche minoranze, specie nei social. Quando farai un figlio, instillagli gli stessi respiri di orgoglio, di gioia e di coraggio che ti hanno spinto fin qui. (E se lo fai nascere nel mio Veneto, quei respiri saranno ancor di più i miei...)

Paola Egonu ha veramente rotto le balle. Cara pallavolista: un po’ meno selfie, pianterelli, interviste a Vanity Fair e un pochino più di realtà. Nicola Porro il 4 Febbraio 2023.

Nel giorno in cui l’Economist ci spiega che la nostra democrazia è diventata più fragile per colpa del governo Meloni, dobbiamo sorbirci anche l’intervista di Paola Egonu. La pallavolista, infatti, racconta in prima pagina della sua infanzia tremenda e di come una maestra cattiva le fece fare la pipì addosso: insomma, la sua intervista a Vanity Fair è una lamentela continua.

Egonu dice di aver vissuto di merda in questo Paese: “L’Italia è razzista” e ovviamente la colpa è della Meloni e dei leghisti. Ma l’eroina della sinistra non si ferma qui: dice che non vuole fare un figlio in Italia perché se nasce nero sarebbe un disastro e se invece nasce mulatto non verrebbe considerato fico né dai neri né dei biacchi.

Ragazzi, in un Paese che non vuole avere figli i problemi sono altri. Non una signora di grande successo che fa il suo pianterello su Vanity Fair e tutto il mondo le sta al cospetto.

Ieri, ad esempio, sono andato a presentare il mio libro a Sovico e ho incontrato una signora che mi ha detto che suo figlio invalido al 100% prende €385 al mese di accompagnamento. Ci sono persone che hanno situazioni di disagio mostruose, ma i giornali dedicano le loro prime pagine alla lagna della campionessa Egonu che dice di non volere un figlio nero o mulatto. Ma di che cazzo stiamo parlando?

E nessuno provi a dire che questa signora ha un problemino, perché ogni critica diventa un presupposto per dire che l’Italia è un paese razzista. Qui l’unica cosa razzista è non riconoscere il fatto che, in Italia, ci sono bambini che non sono né neri né mulatti e hanno, ahimè, situazioni disastrose. Eppure i loro genitori sono ugualmente felici della loro esistenza e orgogliosi di averli messi al mondo.

Cara Egonu, un po’ meno selfie, pianterelli, interviste a Vanity Fair e un pochino più di realtà. Per carità, lo dico io che sono completamente scollegato dalla realtà, ma di certo non a questi livelli.

Nicola Porro, 4 febbraio 2023

Francesca Piccinini.

Flavio Vanetti per il “Corriere della Sera” il 4 febbraio 2023.

 Francesca Piccinini, già stella del volley, vivere un Mondiale a bordo campo come commentatrice tv non le ha procurato nostalgia?

«Un po' sì e non solo durante Italia-Usa per il bronzo. Quando brasiliane e serbe sono scese in campo per la finale ho immaginato di essere lì pure io. Il volley farà sempre parte di me».

 Che cosa manca ancora alla Nazionale rosa?

«Una leader. Paola Egonu e altre sono troppo giovani, oggi il faro è Monica De Gennaro. Bravissima, però servirebbe una figura ancora più iconica».

 Paola Egonu ha denunciato uno stato di malessere. Una fuoriclasse può diventare ingombrante?

«C'è sempre chi emerge, in una squadra. Serve l'intelligenza delle compagne, ma anche come ti poni nei loro confronti».

Che cosa aveva di unico il vostro gruppo che nel 2002 arrivò all'oro iridato?

«In quel Mondiale tutto andò alla perfezione: ci prendevamo per mano, compresi gli allenatori, ci trascinava una magia. Lo choc dell'esclusione di Maurizia Cacciatori? Non è stato quello a caricarci. Piuttosto la nostra impresa mi ricorda la recente vittoria al Mondiale dell'Italia maschile: non era favorita ma ha badato a fare il suo ed è arrivata al titolo».

 Che cosa sognava da bambina Francesca Piccinini?

«Sognavo di diventare quella che sono stata: pallavolista e azzurra. Mi sono innamorata del volley vedendo i cartoni animati di Mila e Shiro.La nazionale nipponica l'avrei poi affrontata: insomma, ho fatto il mio cartoon nella realtà».

 Lei ha cominciato la carriera a 14 anni e l'ha conclusa dopo i 40. Qual è il segreto della longevità?

«La passione. Poi ho ascoltato il corpo e a 41 anni mi allenavo come una ventenne».

A 18 anni volò in Brasile, prima italiana a fare questa esperienza: c'è stata anche un po' di incoscienza?

«Un po'? Diciamo tanta. Ma sono curiosa, amo scoprire. Le brasiliane venivano in Europa, io ho fatto il percorso contrario: è stata dura, ma ho ricevuto tanto come atleta e come donna».

 Curiosità, vicende strane di quel periodo?

«Era appena uscito "La vita è bella", il film di Benigni. Lo proiettavano in italiano, sottotitolato in portoghese. Tutti continuavano a dirmi: "Buongiorno principessa". Erano innamorati della principessa italiana, avevo tifosi in un Paese in cui il volley è una religione».

 Mabel Bocchi, ex del basket femminile, fece una battaglia perché le giocatrici adottassero i calzoncini al posto delle mutandine: troppi guardoni sugli spalti. Anche lei avvertiva di avere gli occhi addosso?

«Gli occhi addosso li avevamo eccome, pure noi giocavamo con quella tenuta. Non vedo nulla di male se una donna atleta usa certi indumenti, a patto però di non proporsi nel modo sbagliato. E se spuntano personaggi inopportuni, basta non dare corda».

 Lei ha posato senza veli per Playboy e Men's Health. Lo rifarebbe?

«Alla mia età, no. Se tornassi indietro, invece, sì: nessuna foto è stata volgare. Non credo di aver alimentato l'idea della donna oggetto: non mi sono mai sentita tale, mi sono solo provata in un'altra situazione per avere dei bei ricordi».

 Ha detto: «Smetto con il volley, ma non di sognare». Che cosa sogna adesso?

«Di fare un'altra vita. Sono stata sempre gestita da altri, ora voglio essere libera di decidere.Ma sempre nello sport, lavorando per i giovani».

La sua conterranea Maurizia Cacciatori dice: «Sono di Carrara, sono dura come il marmo».Lei che è di Massa, invece «Sono tosta pure io». Maurizia sostiene che la differenza di età non è stata una barriera per la vostra amicizia.

«Vero. E il passare del tempo ci ha unito ancora di più. Tanti pensavano che non fossimo amiche: falso. Si voleva che due belle ragazze che giocavano assieme non si parlassero: invece abbiamo sempre avuto un gran rapporto».

 Maurizia ha già dei figli, lei ancora no: per quanto ancora?

«Dipende da quel "signore" lassù. Vediamo, chissà».

Ricostruiamo l'elenco dei fidanzati. Cominciamo da Dj Ringo.

«Con lui è stato amore per anni».

 Era un pettegolezzo la relazione con Vieri?

«Assolutamente sì: infatti è stata smentita».

Gabriele Schembari.

«La storia è durata fino al 2019».

Ora si dice che sia legata all'ex calciatore Cristiano Doni.

«Confermo. Ma non vado oltre: il privato non si tocca. Cristiano è la persona giusta? Diciamo che sto bene e che sono serena».

 Mai stata vicina alle nozze?

«Come no! Guardate quanti morti (ndr: mostra gli anelli sulla mano sinistra) . Scherzo, era una battuta. Qualcuno mi ha chiesto di sposarlo, ma non era il momento giusto».

 Crede al matrimonio o alla convivenza?

«Credo allo stare bene assieme. Quanto capita prima delle nozze è decisivo: se non c'è un "prima" preferisco non sposarmi».

 «Franci» era il diavoletto dalle risate sataniche. Ma quella turbolenta non era la Cacciatori?

«Ero pazzerella, però mi mascheravo: sono stata camaleontica, le foto sexy lo provano. Cambio tanto anche nell'abbigliamento».

 Quali sono i suoi gusti?

«A seconda dello stato d'animo posso vestirmi da teenager - in fondo lo sembro sempre (segue una risata) -, o con un tailleur o con un tubino nero».

È vicepresidente dell'Uyba Volley femminile di Busto Arsizio. Come si rapporta con una giovane di oggi?

«Lo sport abitua a dialogare: ci sono regole, sei in un gruppo. Io mi trovo bene: poi, certo, ci sono quelle che sgarrano, salvo ritrovare la strada giusta. Tutti da giovani abbiamo fatto cavolate: l'importante è rientrare nel solco».

 I social network spiazzano o intrigano Francesca Piccinini?

«Mi piacciono, peccato non li abbiano inventati prima. Li uso anche per immagazzinare immagini, le foto non si stampano più».

 Vi avevano paragonate alle veline, qualcuno pensava che foste belle ma anche un po' oche.

«Oca non me l'hanno mai detto!».

Velina però sì.

«All'inizio ci dava fastidio: non è un problema nostro se i genitori ci hanno fatto carine. In palestra lavoravamo tanto, ci disturbava essere ridotte a pin up. Poi però ci abbiamo fatto il callo».

 Assieme alla Cacciatori è apparsa in «Maschi contro femmine».

«Ho avuto solo una parte minima. Mi sono divertita e ho capito quanto difficile sia girare un film. Sarei pronta a buttarmi nel cinema, adoro le novità: oggi vanno di moda le storie degli atleti, potrei raccontare la mia».

Con sua sorella ha lanciato un brand di moda: sarà il suo futuro?

«Ci sta: la linea di felpe che abbiamo creato è piaciuta».

 Ha detto che il suo secondo hobby è lo shopping

«Lo era. Ora mi sono data al padel: veloce, coinvolgente, facile da imparare anche da chi, come me, non ha mai avuto una racchetta in mano».

 Hanno scritto che «Franci» sarebbe tornata a giocare e che l'avrebbe fatto a Roma.

«Ma quel giorno era lo scorso 1° aprile: un bel pesce, insomma».

Non è che poi tutto si avvererà?

«Mi sento di escluderlo. Riprendere dopo un anno e mezzo di inattività è troppo. E se lo facessi direbbero che sono vecchia. Basta così».

L'Italia per la prima volta ha una donna premier.

«Non scendo nei dettagli politici, ma sono contenta. Tempo fa non sarebbe accaduto: è un bel passo in avanti per la donna italiana».

Si è lanciata in tv: commentatrice, opinionista o giornalista?

«Commentatrice-intervistatrice, però anche un po' giornalista».

Ai giornalisti a volte tirano le pietre.

«Ma sono una giornalista buona d'animo. Mi sono fatta guidare dalla curiosità: all'inizio ho faticato, poi ho ingranato. Bisogna allenarsi pure su questo fronte, l'esperienza sarà replicata».

 Quando incontra il c.t. Davide Mazzanti, che non l'ha voluta ai Giochi di Tokyo, che cosa gli dice?

«Credete a quello che ha dichiarato?».

Tocca a lei spiegare come stanno le cose: lui sostenne di non averla mai considerata per l'Olimpiade.

«Quanto è accaduto mi ha ferito: c'erano anche altre persone quando abbiamo parlato dei Giochi. E forse a Tokyo sarebbe servita una veterana come me: le ragazze non hanno raccolto nulla, eppure erano da medaglia».

 Il Bonitta che ad Atene 2004 l'ha fatta giocare poco merita le fiamme dell'inferno?

«È passato tanto tempo. Pure quella situazione mi ha fatto soffrire, però ho perdonato Marco Bonitta: nel 2014 mi ha fatto tornare in azzurro. Dietro a ogni scelta ci sono aspetti inimmaginabili, ignoro cosa capiti a certi allenatori. Me ne viene in mente uno che avevo a Bergamo. Dopo lo scudetto gli dissi: "Ora che ti sei affermato, resta umile: così andrai lontano"».

  Com' è andata a finire?

«Non mi ha ascoltato».

In quanto appassionata di Mila e Shiro, si era forse innamorata di Shiro?

«No, ero infervorata da Mila: mi sarebbe piaciuto saltare e schiacciare come lei».

Quei cartoni animati sono stati importanti per il volley.

«Hanno stregato la mia generazione. Magari un giorno farò anch' io un cartone animato a tema pallavolo».

Estratto da corriere.it venerdì 22 settembre 2023. 

Prima della partita, un video girato negli spogliatoi ha immortalato i momenti precedenti l’entrata in campo con un discorso motivazionale del capitano Michele Lamaro: «Facciamo sì che questo giorno rimarrà nostro per sempre. Gasiamoci a vicenda, uno ispira l’altro. Con quello che facciamo, con la disciplina. Andiamo là fuori e dimostriamolo. Insieme, come una famiglia!».

[…]

Estratto da sport.sky.it venerdì 22 settembre 2023.

Una partita dai due volti nel senso più letterale del termine quella fra Italia e Uruguay, prima della terza giornata della Rugby World Cup 2023. Gli Azzurri sono stati in grado di risollevare una partita che all’intervallo era sul 17-7 per gli avversari, trasformandolo nel 38-17 finale grazie a 4 mete in 15 minuti. Il primo tempo dell’Italia era iniziato bene. […]

È dalla fine del primo quarto di partita che l’Italia perde il bandolo della matassa. Al 23’ Lamaro concede un intercetto agli avversari, che si portano a 5 metri dalla linea. Niccolò Cannone si becca un giallo per un fallo cinico e lascia la squadra in 14. Sul drive da rimessa laterale che ne consegue, Fischetti commette un altro fallo impedendo la meta avversaria: per l’arbitro Gardner è meta di penalità e secondo giallo.

Il punteggio è in parità e l’Italia e in 13 contro 15, ma oltre ai problemi disciplinari sanguina possessi nel punto d’incontro, dove Manuel Ardao banchetta con 3 turnovers in appena 20 minuti. La doppia inferiorità numerica costa un’altra meta, segnata da Freitas al 37’ dopo una lunga azione d’attacco. Etcheverry ci mette anche il drop a tempo scaduto per andare al riposo su un minaccioso +10. L’Uruguay ha tenuto il possesso per il 58% del tempo e ha occupato il territorio italiano per il 62% del tempo.

Nella ripresa, però, si presenta un’altra Italia. Al 43’ il capitano dei Teros Villaseca si prende un giallo per un placcaggio alto su Pani. L’Italia va a 5 metri con la punizione, ma sul drive Nicotera è tenuto alto. Poco male: due minuti dopo Lamaro va oltre la linea di pura voglia. Passano sette minuti e segna Monty Ioane, dopo una prolungata azione offensiva azzurra. L’Italia ora è ben più precisa e puntuale nel punto d’incontro, Alessandro Garbisi accelera la manovra e la linea arretrata trova spazi importanti. Li trova anche Lorenzo Cannone, straripante come ball carrier a inizio ripresa, quando segna la meta del bonus al 56’, facendosi perdonare il 3 contro 1 ignorato un attimo prima nei 22 metri avversari.

Chiude i conti all’ora di gioco Nacho Brex, con Garbisi ad arrotondare il punteggio a dieci minuti dal termine. Gli Azzurri si prendono i 5 punti desiderati e si avviano alle due gigantesche sfide che li attendono contro Nuova Zelanda e Francia. Per un tempo il sogno di inseguire i quarti di finale si era prematuramente trasformato in un incubo, ma i secondi 40 minuti hanno restituito l’idea della forza che la nazionale azzurra può avere quando macina gioco a tutta forza. […]

Estratto da lastampa.it venerdì 22 settembre 2023. 

Rugby, rissa record in Rovigo-Padova: un placcaggio pericoloso scatena il finimondo

Altro che amichevole, sessantadue giocatori squalificati in un colpo solo sono un record […]

Facundo Diederich Ferrario ha subito un placcaggio pericoloso da Panunzi e ha reagito scagliando alcuni pugni, da lì è scaturita la rissa che ha coinvolto praticamente tutti i giocatori in campo. I due giocatori protagonisti dell'episodio iniziale sono stati puniti con 3 settimane di squalifica ma in totale sono scattate 62 sanzioni: 23 del Rugby Rovigo e 25 del Petrarca sono stati squalificati per una settimana mentre altri 5 atleti rossoblu e 6 padovani per due settimane.

Estratto dell'articolo di Domenico Calcagno per corriere.it mercoledì 16 agosto 2023.

Un cazzotto può cambiarti la vita… «No, io non ho dato nessun cazzotto a quell’arbitro, l’ho solo spinto» e riproduce il gesto, con una certa dolcezza. «Davvero — racconta Martin Castrogiovanni, ex pilone della Nazionale di rugby diventato uomo di spettacolo —. Stella, mia mamma, non voleva che giocassi a rugby e allora giocavo a basket. Vedevo i ragazzi del rugby, sempre insieme, compagni e amici, volevo andare con loro e quella spinta fu provvidenziale: mi squalificarono, addio basket. Mamma dovette rassegnarsi». 

Da Paranà, Argentina, a Calvisano, Italia.

«Avevo 19 anni, il passaporto italiano perché la mia famiglia è di origine siciliana. Primo alloggio una vecchia cascina, rumori, caldo. Scappo a casa di Fabio, un giocatore che arrivava dal mio stesso club di Paranà: vengo da te, sennò me ne torno in Argentina, gli dico. Per fortuna il presidente del Calvisano era Alfredo Gavazzi (che fu anche presidente della federazione, ndr), mi voleva bene come fossi suo figlio, invece di cacciarmi mi dà un appartamento in centro, probabilmente il suo più grande errore».

I sogni di allora?

«Tutti hanno sogni a quell’età, però non avrei mai pensato che mi sarebbe andata così bene. Dopo cinque anni in Italia arriva il Leicester, uno dei club più famosi d’Inghilterra. Mi chiedono di andare a giocare da loro: contratto di un anno al quale ne aggiungono poi altri tre». […] «A Leicester ho vissuto il periodo migliore da giocatore. Campionato tosto, un sacco di partite. E non era come adesso che i piloni vengono sostituiti dopo 50 minuti, allora te li facevi tutti 80. Là ho lasciato un pezzo di cuore e due ristoranti. Quando ero infortunato servivo ai tavoli. Ha presente Rocky Balboa nel film? Uguale. Venivano i compagni, i tifosi. Sono stato benissimo».

Quando girava voce che sarebbe andato a giocare in Francia, alle partite i tifosi venivano con la maschera di Castro.

«Mi volevano bene e decisi di rimanere, rinunciando anche a un bel po’ di soldi. Però c’era Dan Cole, inglese, più giovane di me, la competizione con lui era dura. Cominciai a giocare meno e ci rimasi male. Avevo scelto di restare per amore, avremmo potuto parlarci, trovare un accordo. Invece niente e così mi ritrovai in Francia».

Il Tolone, il Racing di Parigi e la festa di compleanno di Zlatan Ibrahimovic a Las Vegas. Era il 2016.

«La cosa più stupida della mia vita da giocatore. Ero infortunato. Potevo chiedere: posso andare alla festa di Ibra? Però ero convinto che mi avrebbero detto di no, allora raccontai che andavo in Argentina a trovare mia nonna. Ovviamente mi scoprirono subito e quello che accadde dopo mi portò ad allontanarmi dal rugby.

Avrei voluto chiedere scusa ai miei compagni, non fu possibile, il club mise di mezzo gli avvocati perché i francesi sono fatti così. La verità è che ero tornato dal Mondiale infortunato, avevo un contratto importante e forse non ero più il giocatore che loro si aspettavano. Me lo hanno fatto pagare. […] Chiudere così mi ha ferito». 

[…] Ha finito anche Sergio Parisse, col quale ha diviso un bel pezzo di vita e i posti in fondo al pullman della Nazionale. Lei lo avrebbe convocato per il prossimo Mondiale?

«Ogni allenatore fa quello che crede sia giusto. Però per il mio sport Sergio è stato Totti e nemmeno Totti è stato trattato benissimo. Non so cosa sia successo, […] ma sono convinto che avrebbe portato qualcosa di importante a questa Nazionale. Oggi poi domina il marketing, convocare Parisse sarebbe stato un bel colpo. Di cosa si sarebbe parlato per anni? Dell’unico giocatore capace di giocare sei Mondiali. […]».

Dal rugby al mondo dello spettacolo. Sempre in competizione.

«La vita è competizione, lo spettacolo, la tv, è una competizione diversa. In campo quando vedevo un buco mi ci buttavo con la testa, ora è diverso. Credo di aver pensato sempre troppo alla competizione, sei un atleta e vuoi vincere. Non posso giocare a calcetto, sto imparando a giocare a carte, prima nemmeno potevo giocare a risiko perché volevo sempre vincere. Durante il primo lockdown ho dovuto rivedere un po’ di cose, ora sono molto migliorato». 

Soddisfatto di questa nuova vita?

«Mi diverto, è un modo per mettersi alla prova. […] La verità è che ho sempre avuto fortuna. Tutti mi hanno dato una mano, Belen mi aiutava con il copione, Gerry Scotti, Maria De Filippi mi hanno fatto sentire bene. Teo Mammuccari […] mi ha dato una mano. Mi hanno incoraggiato. […]». 

Nessun rimpianto per non aver fatto l’allenatore?

«Ho smesso col rugby perché non mi piaceva più e non ho mai pensato che allenare mi avrebbe ridato quello che avevo vissuto da giocatore. Rispetto tutti quelli che allenano, ma non è per me. Vivo un’altra vita. […]». 

[…]  Lei è sempre presente alle iniziative di Bebe Vio.

«Bebe è la dimostrazione che troppe volte pensiamo in modo sbagliato, dimostra che è giusto fare le cose e non farsi condizionare da niente. Sono convinto che se da ragazzo avessi vissuto le esperienze che vivo adesso, sarei diventato una persona migliore. Collaboro anche con Amref, sono andato in Africa con Daniela, mia moglie. Ci sono tante cose da fare». 

Daniela è sua moglie da quasi tre anni, come vi siete conosciuti?

«Io ero in Argentina, lei in Italia, a una cena di un amico in comune, alla quale non voleva andare. Per fortuna all’ultimo momento ha cambiato idea. Questo amico decide di fare una videochiamata per salutarmi e, tra le varie persone, parlo anche con lei. Mi sono fatto mandare il numero di Daniela e abbiamo iniziato a scambiarci messaggi. Io sono tornato dopo diverso tempo dall’Argentina, ma in tutto quel periodo ci siamo scritti e, non appena rientrato in Italia, ci siamo incontrati». 

Come l’ha conquistata?

«Sono timido, le prime mosse le ha fatte lei. Ci siamo trovati subito in sintonia, è nato tutto in modo immediato e naturale. Abbiamo iniziato a convivere poco prima del lockdown del 2020, un’esperienza che ha rafforzato il nostro rapporto. […]».

[…] Si è mai pentito della spinta data a quell’arbitro?

«Insomma, con gli arbitri è sempre difficile. Nel rugby non puoi aprire bocca che scatta subito la sanzione. Però una piccola rivincita me la sono presa quando mi hanno chiamato a giocare nel torneo degli ex che si fa alle Bermuda. Iniziamo, l’arbitro fischia, io mi avvicino e gli chiedo: stai bene? Certo, risponde. La scena si ripete altre quattro volte e alla fine lui perde la pazienza. Ma perché continui a chiedermi se sto bene? Perché stai arbitrando malissimo».

LA BOXE.

Hurricane.

Carmen Basilio.

Sandro Mazzinghi.

Sugar Ray Robinson.

Sandro Mazzinghi.

Nino Benvenuti.

Rocky Marciano.

Primo Carnera.

Daniele Scardina.

Jake LaMotta.

Martin Bakole.

Irma Testa.

Hurricane.

Hurricane, la vera storia del pugile accusato di omicidio. Nel 1967 il potenziale campione afroamericano Rubin Carter finì all'ergastolo con l'accusa di triplice omicidio: Bob Dylan ne prese pubblicamente le difese, scrivendo una canzone leggendaria. Paolo Lazzari il 16 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Mentre percorre le strade di mezza Francia divora avidamente quelle pagine. Si mette a leggere nei caffè, nei ristoranti e pure dentro le camere d'albergo. Quando finisce, comprende che deve fare qualcosa. Così Bob Dylan alza la cornetta del telefono, gira la rotella per comporre il numero della sua etichetta discografica ed esordisce sicuro: "Ho un'idea per una nuova canzone". Poi riaggancia e stringe nuovamente la biografia del pugile "Rubin Carter - per tutti Hurricane" tra le dita: è l'incipit di una battaglia che finirà soltanto undici anni dopo.

Il film su questa storia, "Hurricane - Il grido dell'innocenza", va in onda stasera, 16 ottobre, alle 23.45 su La7.

Per contestualizzare tocca riavvolgere ulteriormente il nastro. Bisogna tornare al tragico mattino del 17 giugno del 1966, precisamente alle 2.30. Il posto è il Lafayette Bar and Grill a Paterson, New Jersey. Coda di una notte lunga che sta per trasformarsi in alba. Ultime birre pretese sul dorso del bancone umido, ultime chiacchiere, ultimi saluti. Non è una di quelle occasioni in cui ti aspetti di poter morire da un momento all'altro. La vita però è un posto strano. Un attimo sei lì che scherzi e qualche istante dopo ti ritrovi disteso per terra, in una pozza di sangue.

Due persone, afroamericani secondo le prime ricostruzioni, hanno fatto irruzione aprendo il fuoco. Uccidono due uomini e feriscono gravemente una donna, che morirà in ospedale un mese più tardi. Un quarto avventore viene preso di striscio: se la caverà, ma perderà la vista da un occhio. Premessa doverosa: Paterson, al tempo, è esattamente il tipo di posto in cui non ti vorresti trovare se la tua pelle non è bianca. La città è percorsa da anni da manifestazioni della comunità afro, che accusa la polizia di soprusi costanti.

Lampeggianti che ora incidono il buio color petrolio. Macchine costrette ad accostare. Manette per un tizio che di nome fa John Artis e per Rubin Carter. Singolare che la soffiata sia giunta da un noto malvivente, Alfred Bello, che si trovava in zona per fare una rapina. Nessuno li ha visti in volto. Però in galera ce li sbattono lo stesso. Pesa come un macigno, secondo una parte della stampa dell'epoca, il fatto che Carter abbia assunto una posizione radicale contro la polizia bianca anni prima, quando un agente aveva pestato a morte un ragazzino afroamericano.

L'accusa, pesantissima, è di triplice omicidio. La condanna, che arriva puntuale dopo un processo frettoloso, è monumentale: carcere a vita. Roba capace di disintegrare un'esistenza. Nel caso di Carter, che all'epoca ha soltanto trent'anni, anche una carriera. Rubin si muoveva infatti con disinvoltura nel circuito dei pesi medi. A boxare aveva iniziato presto, subito strappando un'attenzione dilagante tra gli addetti ai lavori. Il pubblico se n'era invaghito per la potenza con cui riusciva a sferrare i suoi pugni. Un particolare che gli era valso il soprannome di "Hurricane".

In carriera, fino a quel momento, poteva vantare 27 vittorie, un pareggio e soltanto dodici sconfitte. Aveva anche sfidato il campione dei medi e si avviava alla maturità sportiva più completa. Adesso, però, le sbarre avrebbero inibito il pugile che poteva ancora essere. Il prossimo potenziale campione del mondo languiva in una cella angusta.

Quando Bob Dylan scrive "Hurricane", la canzone che racconta la sua vicenda, Carter è in carcere da otto anni. Il pezzo viene registrato nell'ottobre del 1975, come prima traccia dell'album Desire. Dylan non si è soltanto letto tutta la Bio. Ha anche deciso di andare trovare Rubin in carcere. Adesso che è persuaso dalla sua innocenza smuoverlo è un'impresa intricata, ma gli avvocati della Columbia Records riescono comunque a convincerlo che è meglio proporre un'altra versione della canzone. Una dove non si fanno pubblicamente tutti i nomi.

La campagna della star per riaprire il processo di Hurricane, comunque, è partita. Dylan racconta la storia in ogni tappa del suo tour, che conosce il suo apice al Madison Square Garden di New York, nel dicembre del 1975, con una vera e propria nottata dedicata al pugile. Lo tsunami mediatico sortisce l'effetto desiderato. Carter è stato condannato da una giuria di soli bianchi e il processo va riaperto. L'esito però è atterrente: anche in seconda battuta viene condannato all'ergastolo. 

Adesso pare davvero finita. Dylan e la sua casa discografica, intanto, devono respingere al mittente pesanti accuse di diffamazione. Gli avvocati di Carter però non desistono e si appellano alla Corte Federale. Nel 1985 il giudice Haddon Lee Sarokin riconosce che Hurricane ha subito una condanna basata su motivazioni razziali: l'uomo che avrebbe potuto diventare campione del mondo uscirà tre anni dopo, nel febbraio del 1988.

Da quel momento, e fino alla morte, sopraggiunta nel 2014, Carter si occuperà di diritti dei carcerati. Nel 1999, sulla sua storia, verrà basato anche un film di culto (stasera in tv) con Denzel Washington protagonista, "Hurricane - Il grido dell'innocenza". Un pezzo di vita ormai è andato. Le battaglie però durano per sempre. Paolo Lazzari

Carmen Basilio.

Carmen Basilio, il contadino che si inventò sovrano della boxe. Coltivava cipolle insieme ai genitori, era iper religioso, menava durissimo: storia di un emigrato che raddrizzò un destino insipido a forza di pugni. Paolo Lazzari il 15 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Sul panciuto battello che sbuffa verso le coste di un mondo inesplorato, si fanno forza stringendo un santino della Madre Santissima del Carmelo. Maria viene da Campobasso, Giuseppe dalla Ciociaria. Al sentimento religioso ti ci aggrappi a prescindere, ma vale di più se i denti che hai in bocca dondolano e le guance sono scavate. L'attracco in America è l'opportunità di correggere quel destino avverso. Certo, non è che sappiano poi far molto. Appartengono ad una generazione che non ha potuto studiare, circostanza che annacqua pure l'ingegno. Però una cosa la sanno fare bene. Coltivare i campi. Le cipolle, in particolare, vengono su succulente.

Si assestano a Canastota, Stato di New York, i Basilio - perché è questo il cognome di Giuseppe - e in un piccolo appezzamento di terreno iniziano a fare quello che gli viene meglio. Quando si sorprendono anche più solidi finanziariamente, decidono che è venuto il momento di fare un figlio. Nascerà il 2 aprile del 1927. Lo chiameranno Carmine, per la devozione di cui sopra, ma prestissimo lo slang americano lo storpierà in Carmen. L'ereditarietà delle fortune, prima ancora di quella dei mestieri, lo vorrebbe destinato alla zappa. Lui si cimenta anche, per un bel pezzo d'adolescenza. Coltiva le cipolle, come i suoi. Ci sa fare.

Ma c'è una cosa che sa fare meglio. Tirar pugni. Non per improvvisare risse da saloon, dove sprizzare livore per la propria condizione sociale. No, Carmen Basilio mena sul ring. Eppure, a scrutarlo bene, si direbbe il classico underdog. Non arriva al metro e settanta, è minuto, ha i lineamenti marcati, scolpiti dall'indigenza, come i suoi. Però se ne frega ampiamente. Entra in una palestra della sua zona a diciott'anni e inizia ad assorbire la nobile arte. In breve tempo il suo terrificante gancio sinistro fa il giro delle labbra di mezza contea.

Da dilettante perde soltanto tre incontri su ventiquattro. Un rullo compressore. Si muove agile su quelle leve corte, ma alimentate da cosce piantate a terra, potenti come il motore di un aliscafo. Cerca il duello ravvicinato, senza timore - e come potrebbe averne, visto la vita che gli è toccata in sorte finora - distribuendo combinazioni di colpi che stordiscono avversari e bookmakers. E poi c'è un'altra cosa. Lui prima di ogni match prega tantissimo. E, appena finito, si raccoglie di nuovo, direttamente sul ring, le palpebre serrate, le mani giunte, la testa lievemente reclinata e quindi alzata sul finale, in direzione del cielo.

Le sue fortune però non germogliano soltanto dalla rabbia che aderisce alla pelle dei più poveri, oppure dalla fede. C'entra molto anche un tale che si chiama Angelo Merenda, nato da genitori calabresi. Uno che poi, per essere accettato, ha cambiato il cognome in Dundee. Quindi Angelo Dundee. Chi sarebbe? Soltanto l'allenatore che, in carriera, lavorerà con Sugar Ray Robinson, Muhammad Alì, George Foreman. E Carmen, ovviamente.

Il giorno in cui Basilio capisce che dovrà sicuramente paintarla di coltivare cipolle è il 10 giugno 1955, a Syracuse. Categoria dei pesi welter, un altro italo-americano di fronte, Tony De Marco, campione in carica da un paio di mesi. Ne esce una lotta terrificante. Entrambi rifiutano di arretrare. Entrambi sono zuppi di lividi. Ma alla dodicesima ripresa Tony barcolla eccessivamente, mentre Carmen continua a pestare duro. L'arbitro dichiara che c'è un nuovo campione in città. E anche per la rivincita le cose non andranno diversamente. I due si stringono la mano: fuori dal ring diventeranno amici fraterni.

In seguito il rampante Johnny Saxton gli sfilerà il titolo, ma Carmine se lo riprenderà poco dopo, sfasciando l'avversario in sole due riprese. Qui suona un altro campanello. Capisce che l'asticella va alzata ancora. Inizia a prendere peso. Intende cambiare categoria. Pesi medi.

Così eccolo lì, soltanto due anni dopo - è il 23 settembre 1957 - nel ventre incandescente dello Yankee Stadium di New York, a contendere il titolo mondiale. Per gli allibratori non ha la minimissima possibilità di spuntarla, visto che di fronte ha una semi - divinità come Sugar Ray Robinson. Più vincente, più pesante, più alto, più forte. Più tutto. La voce interiore di Carmen Basilio però fa spallucce. Chissenefrega se mi danno sfavorito? Io meno, poi vedremo. Dopo quindici devastanti riprese, Sugar deve alzare bandiera bianca. il coltivatore di cipolle è campione del mondo anche dei pesi medi.

Cinque dei suoi incontri verranno celebrati come match of the year dalla rivista Ring Magazine. Lui sarà premiato come fighter of the year nel 1957. E si toglierà ancora cumuli di soddisfazioni, fino a quando non appenderà i guantoni. A quel punto sfilerà in macchina accanto ai campi di Canastota, girerà la manovella del finestrino e li scruterà con deferenza. Certi, non puoi scegliere come nasci. Ma puoi sempre salire sul ring della vita per farti spazio. Paolo Lazzari

Sandro Mazzinghi.

L’omaggio di Pontedera al suo Mazzinghi, il campione del mondo che salì sul ring per una bistecca.  DARIO TORROMEO su Il Domani il 06 ottobre 2023

Una piazza per il pugile arrivato negli anni Sessanta alla cintura mondiale. In Australia gli organizzatori fecero suonare Nel blu dipinto di blu. Pensavano fosse l’inno italiano. La sua rivalità con Nino Benvenuti è stata leggendaria

Un autunno di tanti anni fa.

Un signore e un ragazzo parlano all’interno di una palestra, a Cascina.

«Figliolo, un novizio non si è presentato. Ti va di sostituirlo?».

«Ma io non sono mai salito su un ring».

«Non è un problema. Quel tipo lo batti facile».

«Sarà almeno sei chili più pesante di me!».

«Non trovare scuse, lo fai o no questo match?».

«Che ci guadagno?».

«Bistecca, patate, pane e un po’ di frutta».

«Accetto».

Cominciava in quel momento l’avventura pugilistica di Sandro Mazzinghi. La boxe era entrata nella sua testa qualche tempo prima. Aveva scavalcato un muretto, aperto una porta, percorso un lungo corridoio buio e si era trovato dentro il cinema. Soldi per pagare il biglietto non ne aveva. Ma quel film voleva proprio vederlo. Lassù qualcuno mi ama, con Paul Newman, raccontava la vita di Rocky Graziano. Si innamorava di quel personaggio, del mestiere che faceva.

GLI ESORDI

Era partita in salita la vita di Sandro. A cinque anni conosceva la guerra, scampava a un bombardamento che distruggeva il suo quartiere, Belladimai. Pativa la fame fino a sognare un pezzo di pane, a desiderarlo così tanto da sentirne il profumo, ma quando provava a toccarlo tutto svaniva lasciandolo solo, con tanta rabbia dentro.

Attaccava sempre. Chiudeva l’avversario all’interno di uno spazio non più grande di un paio di metri quadrati. Poi, cominciava il martellamento ai fianchi. Se distruggi le fondamenta, alla fine il palazzo cade. Il 7 settembre 1963 affrontava Ralph Dupas, a Milano, per il mondiale. Quarantamila persone a sostenerlo. Prima del match si inginocchiava nello spogliatoio, pregava. Signore, aiutami a superare i pericoli del match. So che potrebbe andare male, che potrei anche morire sul ring. Sono pronto a farlo. Ho lottato e sofferto nella mia vita. Adesso voglio vincere. Non per me, non per la gloria. Ma perché penso sia giusto. Vinceva per ko tecnico. Bissava il successo nella rivincita a Sydney, davanti a un pubblico composto in gran parte da emigranti. Molti di loro avevano scommesso un mese di stipendio su di lui. Impiegava 13 round per chiudere la pratica. Gli organizzatori facevano suonare Nel blu dipinto di blu, conosciuto nel mondo come Volare. Pensavano fosse l’inno italiano.

LA TRAGEDIA

Uno spacco profondo sullo zigomo sinistro cambiava la sua vita. Un’operazione avrebbe rimesso tutto a posto. Una buona notizia. Non si sarebbe potuto allenare per tre mesi. Una notizia notizia. Aveva del tempo libero. Una situazione a cui non era abituato. Decideva di accelerare una decisione già presa. Si sarebbe sposato. Lei si chiamava Vera Maffei. Era la più bella ragazza di Santa Croce. Matrimonio, veloce viaggio di nozze. Tragedia. La macchina lasciava Altopascio per imboccare la via Bientinese. Sandro alla guida, Vera al suo fianco. Ennesima curva, un dosso. Il gelo aveva trasformato la pioggia in un sottile strato di ghiaccio. La macchina perdeva aderenza, sbandava. Si accartocciava attorno a un albero. Poi, il buio.

Si erano sposati dieci giorni prima. Vera moriva sul colpo. Sandro si salvava miracolosamente. In ospedale quando apprendeva la notizia si disperava. Mi sento un cencio, un uomo vuoto, un’anima distrutta. Incubi, notti frequentate da demoni. Provava a riprendere il suo cammino. Decideva che l’unico modo per attenuare il dolore fosse quello di affrontarlo. A due mesi esatti dalla tragedia risaliva sul ring. La boxe è la mia vita, alla boxe devo tornare.

LA RIVALITÀ

In giro si muoveva un altro protagonista. Nino Benvenuti oro a Roma ’60, miglior pugile dei Giochi. Cinquantasei match da professionista, tutti vinti. Di quella sfida ne parlavano al bar, a scuola, al lavoro, per strada, al mercato. Gli incontri sarebbero stati due. Nel primo Sandro era in chiaro vantaggio sino al quinto round, nel sesto montante, dipinto da un maestro della nobile arte quale Nino era, metteva fine alla storia. Mazzinghi era ko.

Rivincita equilibrata, il verdetto avrebbe scontentato chiunque fosse stato dichiarato perdente. Premiava Nino che avrebbe perso il titolo contro Ki Soo Kim a Seul. Il coreano sbarcava a Milano per difendere la cintura contro Mazzinghi. Era una sfida dura, spietata. Nessuno dei due si concedeva pause.

Boxavano sempre all’attacco. Si picchiavano selvaggiamente per 15 riprese. C’erano 45.000 spettatori a San Siro, per un incasso che oggi sarebbe vicino al milione di euro. Vinceva Sandro ai punti. Una corrida, match così ne potevi fare uno solo nella vita. Noi Mazzinghi il pane ce lo sudiamo, è un pane inzuppato nel rischio.

Sandro se ne andava via per sempre il 22 agosto 2020. Lasciava Marisa, con cui aveva diviso cinquant’anni di vita. Due figli, David e Simone. La famiglia era stata il suo rifugio. Molto dell’amaro masticato era rimasto confinato nel libro di ricordi. Lui era Sandro Mazzinghi, l’uomo nato per combattere. Sentirsi amato, di certo non gli dava noia. Anzi, gli garbava assai.

Ieri la sua città ha dato il suo nome a una piazza. In serata è andato in scena al Teatro Era lo spettacolo “Il ciclone di Pontedera”. Oggi sarà consegnato a Marcello Lippi il premio dedicato ogni anno alla memoria del campione.

Sugar Ray Robinson.

Sugar Ray Robinson, pugile dai guantoni zuccherati: il più forte di tutti. Nato poverissimo in Georgia, si riscattò salendo sul ring: un irresistibile ballerino che distribuiva fendenti zuccherati. Per tutti, il miglior pugile di sempre. Paolo Lazzari il 24 Settembre 2023 su Il Giornale.

Bottom significa che più in basso di così non puoi mica scendere. Black bottom è la dizione completa: trattasi di un sobborgo di Detroit dimenticato dal fato, unicamente abitato da popolazione nera, intricato come una matassa di guai. Papà lavora sei giorni su sette per stappare le fognature cittadine. Mamma raggranella dieci dollari l'ora. E lui, che si chiama Walker Smith ed è nato il 3 maggio del 1921 in uno sparuto angolo della Georgia, ad Ailey, deve cercare di aiutare per quello che la sua tenera età consente.

Il primo impiego utile diventa una palestra visiva. Fa da assistente per il giovane pugile Joe Luis, futuro astro a stelle e strisce della boxe. Trascina con sé vestiti e guantoni, Walker, seguendolo pressoché ad ogni incontro. Fungere da factotum forse non è edificante, ma imprime in fondo alle sue pupille quelle braccia mulinanti, la cadenza delle gambe, la capacità di ovattare gli strilli della folla.

Un apprendistato rapido, perché mamma decide di andare a cercare fortuna a New York, e allora tocca fare i bagagli. Anche qui il ragazzino tenta di rendersi utile: conquista una porzione di marciapiede e si mette a lustrare scarpe, salvo poi realizzare che il guadagno è davvero risibile. Allora incrementa improvvisando spettacoli di danza. Ancora non può saperlo, ma quelle sequenze di passi improvvisati gli torneranno enormemente utili nell'immediato futuro.

Appena riesce, mette piede in una palestra cittadina e chiede di allenarsi per salire sul ring. Non avrebbe ancora l'età per farlo, ma il talento che manifesta è talmente acuto da indurre gli organizzatori ad uno stratagemma. Prenderà in prestito le generalità del compagno d'allenamento Ray Robinson per iniziare a combattere. Quel nome è tutt'altro che provvisorio: non se lo staccherà più di dosso. Però non è ancora completo. A cesellarlo, consegnandolo alla futura immortalità, ci penserà il manager George Gainford: You're boxing is sugar, gli dirà dopo essere rimasto estasiato al termine di un match. La tua boxe è zucchero. E all'ex Walker Smith serve meno di un amen per trasformarsi in Sugar Ray Robinson.

Si apre così una carriera monumentale. Il pugile dai guantoni zuccherati si infila nel circuito dilettantesco e lo percuote con grazia. Sul ring danza rapido e imprevedibile come su quei marciapiedi newyorchesi. Raffinato nei movimenti, saldo nell'incassare, letale nelle combinazioni. Troppa roba, decisamente, per i disgraziati che oscillano sulle soglie del professionismo. Sugar li miete tutti, anzi, li tritura: 85 vittorie, di cui 69 per ko.

Esordisce allora nel professionismo, subito battezzato dal salotto che più incute soggezione: il Madison Square Garden. La notte del 4 ottobre 1940 stende la prima di una impressionante serie di vittime, lo sfortunato Joe Echevarria. E ben presto comprende che il balzo da compiere è ancora maggiore, perché doma qualsiasi avversario con colpi allo zucchero soltanto per il suo personale brand, mentre per tutti quegli altri sembrano macigni dritti in faccia.

Molla i leggeri e sale ancora di peso, per duellare contro avversari che possano impegnarlo. All'inizio deve prenderci le misure, ma quando indovina il ritmo sfascia anche questa categoria. Fino a quando non incontra qualcuno degno del suo calibro. Jake Lamotta, la sua nemesi. La boxe aristocratica di Sugar si scontra un'infinità di volte con la feroce determinazione dell'italo americano. Ray lo sconfigge ai punti, ma l'altro lo spedisce ko nella rivincita. Un'onta che verrà smussata dai successivi incontri e definitivamente lavata nel sangue del Valentine's massacre, la grande mattanza inflitta da Sugar a Lamotta.

In mezzo c'era stata la guerra. Lui, come molti altri pugili dell'epoca, era stato chiamato ad esibirsi nelle basi militari americane, per rinfocolare l'entusiasmo dell'esercito. Ma quando gli era stato chiesto di salpare per fare altrettanto sul fronte, si era dileguato. Il grande vascello era partito senza che di lui si avessero notizie. Era durata per cinque giorni, finché lo avevano ritrovato disteso in un ospedale militare, finalmente destato - stando alla sua versione - dai postumi di una brutta caduta dalle scale. Gran parte della stampa gridò allo scandalo, all'astuto stratagemma per farla franca. Ad ogni modo la guerra finì e le sue vittorie resettarono l'incidente.

Poi però, in una fresca notte del giugno 1947, Ray fece un incubo. Si svegliò, la fronte madida, i brividi lungo la schiena: aveva sognato di uccidere Jimmy Doyle, il pugile che avrebbe dovuto affrontare la sera dopo per difendere il titolo dei pesi welter, conquistato un anno prima. Sconvolto dalla premonizione, si rifiutò inizialmente di combattere. Il consulto con alcuni uomini di chiesa lo persuase a salire lo stesso sul ring. All'ottavo round assestò un tremendo gancio destro al suo avversario, che collassò. Morì poche ore dopo in ospedale. Distrutto, Sugar pensò di smettere. Venne a sepere che Doyle avrebbe voluto comprare una casa alla madre, e gliela acquistò lui. Non era comunque abbastanza per lenire quel dolore squassante.

In seguito combattè in Europa, dove - secondo la leggenda - accontentò torme di corteggiatrici. Perché c'era anche un altro lato di Ray. Tanto imperterrito nello sport - rifiutò più volte coraggiosamente i tentativi della mafia italo americana di truccare gli incontri - quanto marito di più mogli e più volte fedifrago, padre discutibile, imprenditore svagato. Circuito da televisioni, registi e attori, lasciò la boxe nel 1952 per tentare di diventare una celebrità. Vi fece presto ritorno soltanto perché finiva ciclicamente sul lastrico. Conquistò di nuovo il titolo dei pesi medi, stappò un duello nuovo con l'italo americano Carmen Basilio e poi si trascinò a combattere fino al 1965.

Quando se ne andò in un placido aprile californiano del 1989, tifosi e avversari avvertirono un retrogusto amaro in fondo al palato. Di lui Muhammad Alì disse: "Sugar Ray Robinson è stato pound per pound il più grande di tutti i tempi. Era il re, il maestro, il mio idolo”. Quanta gente si è leccata le labbra con tutto quello zucchero.

Sandro Mazzinghi.

Menare come Sandro Mazzinghi, il pugile antidivo. Moriva di fame in tempo di guerra, picchiava come un fabbro già a quindici anni, odiava i riflettori: un combattente differente. Paolo Lazzari il 13 Agosto 2023 su Il Giornale.

A riassumere il pranzo si fa presto: un tozzo di pane. Poi mamma sfilava via con l'espressione mesta e il cuore pesante per quei due figli denutriti, ma questo è quel che passava la vita in tempo di guerra. Eppure ogni cosa, se la giri, mostra il lato positivo. Quella voragine nello stomaco poteva innescare una reazione necessaria, perché quando annaspi sul serio scopri di possedere risorse impensabili, le sfoderi, ti metti in gioco senza ritegno, perché tanto non puoi perdere più di quel che hai, cioè nulla.

Il primo a decidere di smetterla di grattare il fondo delle padelle era stato suo fratello Guido. Vivevano a Pontedera, i Mazzinghi, ma ancora non sapevano che quei pugni che raccoglievano briciole da succhiare avidamente sarebbero serviti per altri progetti. Per trasportarli altrove, lontano dalla fame e dallo strazio della povertà.

Dunque Sandro osservava il fratello muoversi con i guantoni infilati stretti ai polsi. Lo ammirava perché sapeva essere coraggioso in un mondo infestato da predatori voraci e opportunisti, che poi spesso sono la stessa cosa. E poi sceglieva la cosa che richiede più coraggio di tutte: si menava sul ring con gli altri uomini. Facendo così, e facendolo molto bene, aveva strappato un bronzo olimpico a Helsinki, nel 1952.

Allora era deciso. Ci avrebbe provato anche Sandro, che era di sei anni più giovane, classe 1938. Era salito sul suo primo quadrante a quindici anni e subito aveva iniziato a riversare in quel fazzoletto di metri quadri tutta la rabbia per le iatture che avevano costellato la vita sua e quella della sua famiglia. Grappoli di pugni, gambe che infilavano cadenze rapidissime, uno stile che certificava la sua ambizione: all'attacco, sempre, per inventarsi la vita e smettere di subirla.

Quell'attitudine gli era valsa una serie di formidabili pasti caldi. Aveva scoperto che con la pancia piena combatteva anche meglio. I muscoli crescevano rigogliosi sulle braccia e lungo il tronco: assomigliava ad una quercia saldamente radicata a terra. Tutto quel lanciarsi però gli avrebbe procurato qualcosa di più di un piatto di pastasciutta.

A venticinque anni non ha ancora mai combattuto per il titolo italiano, ma hanno appena ufficializzato la categoria dei Superwelter. Vale a dire le ben celebri 154 libbre. Ovvero 69 kg e poco più. Chance troppo appetitosa per allontanarsi dalla tavola adesso. Che di briciole ne ha ingurgitate fin troppe. Ora vuole addentare di più. Contro c'è l'esperto campione Ralph Dupas, americano che ha strappato la cintura a Dennis Moyer. Sembra una contesa impari, ma nel settembre del 1963, al Vigorelli di Milano, Sandro lo stende alla nona ripresa. Quello ci rimane stranito e invoca la rivincita, che si fa a Sidney. Giù anche lì, stavolta al tredicesimo round. Ora non ci sono più dubbi: Sandro Mazzinghi da Pontedera è campione del mondo. La Gazzetta titola "Mazzinghi pugno mondiale!". Un enorme pezzo del paese si identifica con il suo nuovo beniamino. "Ho scelto il pugilato perché due guantoni non costavano niente", ricorda le sue origini anche nel momento del trionfo.

Sempre in avanti, Sandro. Con la serenità di chi crede di avere già fatto conoscenza con la parte peggiore della vita. E invece la sorte ha in dote qualcosa di ancora peggiore. Una sera viene via presto da una cena a Montecatini. In macchina con lui c'è la moglie Vera Maffei. Fuori piove a diritto. In un tratto particolarmente infido le gomme perdono grip. La vettura corre dritta contro un albero. Lui viene sbalzato fuori e in qualche modo se la cava. Vera muore sul colpo. Soltanto due anni dopo aver vinto il titolo, la vita e la carriera sembrano finite per sempre.

Straziato nel fisico e deturpato nell'anima. Eppure deve tornare a combattere, perché le regole impongono che la cintura del campione debba restare un sogno condiviso. Sale di nuovo sul ring presto, forse troppo. E qui incrocia un altro intenso co-protagonista della sua vita, che pare anche l'esatto opposto di lui: bel faccino, passione per le foto e i riflettori, vita mondana certamente più frizzante. Sandro invece ripugna tutto questo. Schivo per carattere, scansa le occasioni pubbliche. Ma fatta salva questa differenza, Nino Benvenuti è un grandissimo pugile. Proprio come lui.

Chiaro che ne derivino scontri alla dinamite. Secchi di montanti che si incrociano con cumuli di diretti. Movimenti ferali di gambe e di bacino. Sopracciglia scheggiate, zigomi lividi. L'Italia adesso è divisa esattamente a metà, perché pure Benvenuti - il pugile di tutti, ma prima ancora degli esuli - è amatissimo. Sarà proprio lui a spuntarla nella sfida più decisiva contro Sandro, anche se in molti reclameranno contro un'intepretazione a loro dire fantasiosa del regolamento.

Ma se c'è un tratto del carattere di Mazzinghi che lo contraddistingue più di ogni altro, quello è l'indefettibile capacità di risollevarsi. Sconfitto e detronizzato, troverà comunque la forza interiore per tornare a sedersi nell'empireo dopo un sanguinoso match contro il coreano Ki-Soo Kim. Il manifesto più alto di una carriera sportiva immensa. La rappresentazione ultima di un uomo che non si è mai arreso alle storture dell'esistenza.

Nino Benvenuti.

Nino Benvenuti, il pugile degli italiani d'America. Faccia da film western, bello, spavaldo, vincente: per gli emigrati, o per chi era esule come lui, è stato la rappresentazione muscolare di un riscatto. Paolo Lazzari il 25 Giugno 2023 su Il Giornale.

Saliva sul ring oscillando le spalle con noncuranza, con quella faccia un po' così, da perfetto ribaldo. Da divo dei western e anche da uno che non riusciva a dubitare mai di sé stesso. Muscoli e sicumera. Difetto che si trasforma sovente in pregio se la distilli, fino a comprimerla tutta dentro ai guantoni. Nino Benvenuti era così. Centottantadue centimetri per nemmeno settanta kg di furente attitudine. Ma anche moltissima tecnica. Del resto mica vinci 82 incontri su 90 disputati in carriera, se sei uno normale. Non conquisti nemmeno il cuore degli italiani in America, tra l'altro.

Era iniziato tutto in quella palazzina affacciata sul mare. Ad Isola d'Istria, nel 1938, vivevano come una grande famiglia. Lui, mamma Dora, papà Fernando, i nonni e quattro fratelli. Uscivano in barca e cenavano a vino e pesce fresco. Era un posto placido e felice. Poi un giorno era cambiato tutto. Le feroci truppe del maresciallo Tito avevano iniziato a sfondare le porte. Uomini e donne gettati vivi nelle Foibe, violenze sparse, deportazioni nei campi di concentramento iugoslavi. L'isola gioiosa d'un tratto era zuppa di sangue e orrore. Toccava fuggire.

Nella vicina Trieste c'era la pescheria del nonno. Il primo rifugio sicuro. E il posto in cui la vita di Nino comincia a prendere forma. I suoi parenti lo iniziano gradualmente al pugilato, che in Italia è uno sport seguitissimo, nonché luogo di riscatto per chi vede trasfigurati in quegli eroi che menano ganci sul ring una forma di rivalsa interiore, per il solo fatto di sostenerli. L'acerbo Benvenuti assesta montanti ad un sacco di juta colmato di granturco e disposto in un angolo della casa. Poi inizia come dilettante: 120 successi, una sola sconfitta. Ruolino terrificante. Il mondo si accorge che è un fuoriclasse ai Giochi di Roma del 1960. Medaglia d'oro e premio di miglior pugile. Dietro di lui c'è un tizio che si chiama Cassius Clay.

Successi che espandono la gittata del suo nome oltre oceano. Dove si pensa che un pugile europeo non abbia chance contro i grandi boxeur americani. Pronostico sovvertito nella notte del 17 aprile 1967, al Madison Square Garden. Benvenuti è alla soglia dei trent'anni, nel pieno della sua maturità tecnica e fisica. Davanti però ha una montagna: Emile Alphonse Griffith, il campione del mondo statunitense dei pesi medi. Per i giornali Nino è spacciato, ma lui li sfida con la solita debordante tracotanza: "Sono io il numero uno". Media trasecolati: "Non gli manca certo la parola", sibila il New York Post. E invece Benvenuti vince nettamente ai punti. Incollati alla radio ci sono 18 milioni di italiani. Molti dei quali emigrati in America. Molti esuli come lui. In quel successo intravedono la loro rivincita sulle bassezze della vita. Nino Benvenuti diventa il loro eroe.

Perderà nella rivincita, combattendo con una costola rotta, ma trionferà definitivamente nelle "bella" spedendo al suolo l'avversario caraibico nel marzo del 1968. Per le riviste del settore è inevitabilmente il pugile dell'anno. Di certo è il combattente eletto da un popolo. In Italia, invece, scambia effusioni molteplici con il rivale Sandro Mazzinghi: come due macigni che collidono, frantumandosi a vicenda, mai deponendo le armi. Quel che invece gli tocca, nella coda della carriera, contro un terribile pugile con la faccia da Indio. L'argentino Carlos Monzon lo sconfigge due volte e la rivincita resta il livido più grande, perché il manager Bruno Amaduzzi getta la spugna. Sarà un sentore aspro al termine di una carriera costellata di trionfi. La disfatta insita soltanto nel cuore di chi ci tenta.

Alla fine, deposti i guantoni, si siede accanto a una moltitudine di successi. Il più grande però, resta quel gancio al cuore dei connazionali espatriati. Il suo colpo migliore.

Rocky Marciano.

Rocky Marciano, mito invincibile tra pugni senza tempo e un record. La grandezza di Rocky Marciano in un numero: 49 incontri, 49 vittorie. Una dannazione per chi ha provato a raggiungerlo. Sul ring per 240 round prima del ritiro "intelligente". Riccardo Signori l'1 Settembre 2023 su Il Giornale.

Nessun film di fantasia avrebbe potuto raccontare la storia di un "ideale" Rocky Marciano meglio di come l`abbia raccontata lui. Sono cento anni dalla nascita (1 settembre 1923) ma forse se n`è andato troppo presto per non averci lasciato con la voglia di riscoprirlo ogni volta. Così nascono e così finiscono le leggende e Rocky Marciano è stato il simbolo dell`Invincibile.

Una leggenda umana che si è legata ad un mito, squarcio di un`Italia che era andata a cercare fortuna oltre Oceano: italiani erano i genitori suoi che venivano dal nostro Sud. Papà Pierino Marchegiano da Ripa Teatina e mamma Pasqualina dalla provincia di Benevento. Rocky, che poi era Rocco Francesco Marchegiano, nacque a Brockton, terra fertile per il mondo dei pugni. A 15 anni, anno 1969, ci arrivò Marvin Hagler e cominciò ad imparare l`arte nella palestra dei fratelli Petronelli. Rocky invece morì proprio in quel 1969, il giorno prima di compiere 46 anni (31 agosto), fra i rottami di un aereo Cessna che andò ad abbarbicarsi all`unica quercia nel mezzo di un campo di grano, a pochi km dall`aeroporto di Newton. Era diretto a Des Moines, la capitale dello Iowa, si affidò ad un vecchio amico dall`eccesso facile. Il resto lo fece una tempesta. Lo trovarono inchiodato al suo posto, incapace di sfuggire all`unico colpo che lo mise ko.

In realtà Rocky, che ispirò tanti altri Rocky, non se ne andò mai perché se Carnera divenne il mito del gigante, che anzi instillò proprio le voglie in quel ragazzino, lui ha mantenuto la corazza dell`Imbattibile, nessun peso massimo è uscito dal ring professionistico da imbattuto (da dilettante qualche sconfitta arrivò) con quel numero 49 (49 incontri, 49 successi) che nella storia pugilistica è stato una dannazione per chi ha provato a raggiungerlo. Nessuno in così pochi anni di attività (1947-1955) riuscì a diventare un re del mondo e di un mondo. Gli americani trovarono la speranza bianca. E se Joe Louis è stato un campione dei campioni in quanto ad arte, Marciano interpretava la totale dedizione alla guerra sul quadrato: alto poco meno di un metro e 80, peso intorno agli 85 kg, ma la capacità distruttrice di un carro armato, l`88% dei match vinti per ko, due sole volte al tappeto: ad opera di Jersey Joe Walcott e dell`intramontabile Archie Moore.

Per tutti Rocky pareva uno sciame di api dal quale non sapevi liberarti. Non ti pungeva, ti demoliva. Qualcuno, Carmine Vingo, ragazzo di origine italiana, finì all`ospedale per un terrificante ko. Ma Rocky aveva cuore non solo fegato: gli pagò le cure. Ed, anzi, il giorno delle nozze gli regalò il mobilio per la camera da letto. Ad estremizzare, il mondo dei massimi è stato segnato da due poli di attrazione: Rocky Marciano, ribattezzato "The Brockton Blockbuster" (il demolitore di Brockthon), e Muhammad Alì effervescente chiacchierone, politico e predatore da palcoscenico che si ribattezzò "The greatest" (il più grande). Alì ha fatto storia con i pugni, le parole e qualche genialata politica. Marciano solo con i pugni ed il suo record. Due facce da leggenda.

È nato Rocky Marciano per lo strafalcione di uno speaker che sbagliava il cognome, ha saputo gestirsi economicamente: lontano da ogni spreco. È stato sul quadrato per 240 round ed ha incassato circa 4 milioni di dollari.

La popolarità lo portò in tv, recitò nel cinema con Bob Hope e Jerry Lewis. Da bambino rischiò di morire per una broncopolmonite. Mamma Pasqualina si affidò ad una guaritrice che lo tenne in vita con una strana brodaglia. Sul ring Rocky si affidava a quella combinazione "sinistro-diretto destro" che rese così tanti servigi da definirla affettuosamente "Suzie Q". Lui provava e quella risolveva i problemi. Così capitò al 13° round contro Jersey Joe Walcott, nel primo match per il titolo. «O lo butti giù o hai perso» gli dissero dall`angolo. "Suzie Q" fu impietosa. Era il 23 settembre 1952: così Marciano conquistò la corona che lasciò solo dopo aver abbattuto Archie Moore, 38enne re dei mediomassimi, pur avendo subito un atterramento.

Nello Yankee stadium di New York, quel 21 settembre 1955, Rocky sentì un campanello d`allarme. Con intelligenza non tornò mai sulla decisione. Eppure nell`ultimo round furono contati 64 colpi consecutivi a distruggere Archie. Gli ultimi di una storia che finirà mai.

Primo Carnera.

Quando il paesino di Sequals salvò la vita al suo Carnera. STEFANO BALASSONE su Il Domani il 28 giugno 2023

Novanta anni sono trascorsi dal 29 giugno del 1933 in cui Primo Carnera tolse al campione Sharkey il titolo mondiale dei massimi. Lui fu bravo con i pugni, il fascismo cercava miti per sé stesso e nulla meglio si prestava di quella figura di “gigante buono”

Sequals, il paese natio, gli ha dato la vita e durante la guerra gliel’ha salvata, senza che lui neppure lo sapesse

Tutto sommato Carnera è stato un divo padrone di sé stesso che alla fine è riuscito a farsi una famiglia tornando per morire proprio da dove era venuto.

Novanta anni sono trascorsi dal 29 luglio del 1933 in cui Primo Carnera tolse al campione Sharkey il titolo mondiale dei massimi. Lui fu bravo con i pugni, il fascismo cercava miti per sé stesso e nulla meglio si prestava di quella figura di “gigante buono” che grazie al “grande cuore” riusciva a farsi largo a suon di pugni nella vita, volando di potenza al di sopra di qualsiasi sospetto mercimonio.

Chi firma questo pezzo e nato dieci anni dopo quell’evento e in mezzo al rombo della guerra, proprio a Sequals nella villetta Mora, il nome da ragazza di mia madre, contigua tramite l’orto a quella dei Carnera. Primo e Lina s’erano trovati insieme tra i banchi della scuola comunale sebbene lui, più volte bocciato in quei tempi senza don Milani e insegnanti di sostegno, la superasse di esatti quattro anni e di oltre mezzo metro di statura. Lei di sicuro, figlia di imprenditore e nipote d’un astronomo, una mano gliela dava perché, le venne di raccontarcelo una volta, e quella volta sola, era naturale prendere a benvolere quel gigante (già d’allora) che girava a piedi scalzi e zoccoli su spalla per badare a risparmiarli.

LA CARRIERA

Negato agli studi letterari, al poderoso Primo (da notare il numero ordinale con cui le famiglie di campagna sequenziavano i figli, per distinguerli senza starci su a pensare) s’aprì la via del lavoro nel cantiere a rimestare cemento e spingere carriole. Ma aveva fiuto bastevole per capire di essere diverso e presto cercò di mettere meglio a frutto i suoi muscoli e talenti, dapprima come lottatore dentro un circo e poi ventiduenne sul ring, il 12 settembre del 1928. Dopo cinque anni stese Sharkey conquistando la corona di Campione.

IL MITO

Presto cedette il titolo a chi boxava meglio, ma il mito ormai era piantato perfino nel Duomo di Milano che in quei tempi di pappa e ciccia dell’arcivescovo del

Duce, fu ben lieto di dare il nome di “Primo Carnera” ad uno dei due pugili di marmo che si scambiano pugni fra le guglie. Primo, ovviamente, cercava di campare di quel mito, dato che altro non aveva a parte la casetta dentro Sequals e, dopo il pugilato, si volse al mondo dell’intrattenimento, dapprima con il wrestling e le lotte finte e poi, già cinquantenne, con particine in qualche film adatto. In Ercole e la Regina di Lidia (1959) gli toccò la parte di Anteo, il gigante che Ercole strapazza staccandolo cì di peso dal contatto con la Terra (sua madre Gea) che all’istante gli ricaricava l’energia. Inutile dire che Ercole (Steeve Reeves, il primo dei culturisti da proscenio) era allora un monumento di freschi muscoli e bellezza, mentre Carnera contribuiva con la stazza. Sicché per le spettatrici, almeno fuori di Sequals, lo scontro era bell’e che deciso. 

L’EROE LOCALE

Sequals, ai piedi delle Alpi, duemila abitanti e un paio di chiese, ebbe fino agli anni Sessanta le strade di pietrisco; l’acqua non arrivava da sola nelle case, ma la portava il barile a ruote riempito presso l’unica fonte al centro della piazza fra lunghe attese e discussioni. Il paese nel primo dopoguerra, altro che armonia agropastorale, aveva avuto la sua dose di manganello e ricino propinato da paesano a compaesano.

Nel secondo dopoguerra il Miracolo economico, i vigneti di pianura, le forniture all’esercito dislocato in Friuli contro le minacce sovietiche da oriente, portarono sviluppo; gli indennizzi del terremoto del 1976 furono ben spesi. E oggi il paesello è lindo e pinto.

In tutti questi anni, i nati a Sequals, trovandosi a sillabare a uno sportello quel nome impronunciabile, sapevano che sarebbe seguita puntuale la domanda: «Proprio il paese di Carnera?». Gestire con signorilità questa “gloria derivata” metteva a dura prova la modestia e offriva l’occasione per ottenere timbri non previsti dal diritto.  Così “Carnera” era una sorta di bene comunale e tutelato, come spiega una segreta vicenda nel cuore della guerra.

DA ICONA A BERSAGLIO 

Nel pieno della Repubblica sociale Carnera, che meglio avrebbe fatto a consigliarsi – come a scuola – con mia madre, fu arruolato  nei cinegiornali della Rsi e pronunciò sullo sfondo dei palazzi di Venezia, qualche parola d’occasione. Le frasi non dicevano alcunché ma la forza dell’icona c’era tutta associando ai repubblichini di Salò quel misto di bontà, durezza e lealtà su cui il mito di Carnera s’era costruito. Tanto bastava perché Carnera si ritrovasse ad essere un bersaglio nello scontro fra fascisti e partigiani, tant’è che, in una notte senza luna, quelli d’un paesello vicino a Sequals organizzarono una spedizione per trucidare il Mito a casa sua.

Ma i partigiani di Sequals, garibaldini e più o meno comunisti essi stessi, subodoravano il pericolo e presero a sorvegliare a turno la casa di Carnera. Non erano più teneri di cuore dei vicini (c’era anche mio zio a comandare, un sottufficiale sfuggito per un pelo alla trappola in nord Africa). Ma avevano assai chiaro che chi e quando colpire tra i fascisti era affare di paese, lì sarebbe giunta la corrispondente rappresaglia. Così, grazie a un misto di calcolo militare ed al retaggio politico del comandare a casa propria, i partigiani “di fuori”, ammoniti dalle parole e dalle armi, se ne tornarono di corsa a quella loro.  

PADRONE DI SÉ STESSO

Non sapremo mai quanto Carnera abbia colto delle complessità in cui viveva immerso. Da boxeur era un oggetto in mezzo agli intrighi dei manager che si contendevano i frutti del colosso, mentre lui andava di ring in ring dandole, prendendole e rischiando la pelle al limite del temerario, perfino contro fenomeni come Joe Louis. Ma forse l’istinto di conservazione ce l’aveva forte e smise di prendere pugni giusto in tempo per non distruggersi il cervello e potersi inoltrare nello spettacolo sulla spinta del suo mito.

Scrutandolo da lontano nel corso di uno dei suoi frequenti ritorni nel paesello (dove noi, da cittadini, passavamo l’estate con i nonni) non pareva che i pugni l’avessero leso nel cervello, mentre, a ripensarci, era chiaro che l’università della vita gli aveva tolto il troppo d’incanto dallo sguardo. La moglie “americana”, i figli, maschio e femmina, certo di lui molto più belli, attestavano un patrimonio d’affetto capace d’affrontare il taglia e cuci di paese. Affezionato, ma inevitabilmente un po’ geloso di quella straniera che Carnera glielo aveva un po’ rapito.

Resta il dato che Primo Carnera decise infine di tornare a Sequals per morirvi (nel 1967) ed essere seppellito, nel cimitero comunale. «L’ho fatto in segno di gratitudine verso la terra natia e il suo popolo. Alcuni fra i miei primi ricordi sono di quando giocavo con le pecore nelle colline di Sequals: non potevo mai dimenticare da dove ero venuto», dice oggi per suo conto l’intelligenza artificiale. A parte la lingua da tabloid, in effetti Primo Carnera lì nacque, lì morì e lì di certo sopravvive.

STEFANO BALASSONE. Critico, produttore e autore televisivo. Le sue pubblicazioni: La TV nel mercato globale, 2000, Come cavarsela in TV, 2001, Piaceri e poteri della TV, 2004, Odiens, sbirciando l'Italia dal buco dell'auditel, (2014).

Il colosso 90 anni dopo e il destino nel nome. Il 29 giugno del 1933 Primo Carnera mandò al tappetom l'America e diventò il "Primo" campione del mondo italiano. L'incontro durò meno di 6 riprese. La borsa del friulano era di 59mila dollari, gliene rimasero solo 360. Riccardo Signori il 26 Giugno 2023 su Il Giornale.

Non è stato un Colosso d`argilla, come voleva Budd Schulberg. E nemmeno dai piedi di argilla. Dopo quasi 100 anni parliamo ancora di lui, dopo 90 anni siamo qui a ricordare quella cintura di campione del mondo conquistata nella terra degli emigrati, davanti ad un campione paralizzato da un uppercut destro e ad un mondo che smise di chiamarlo "The Gorgonzola tower", "The Ambling Alp"(l`Alpe che cammina), "Old Satchel Feet" (vecchi piedi a cartella). Oppure "Leviatano veneto", come lo marchiò la famosa rivista "The ring" nel 1930: dimenticando che invece era friulano. Oggi come allora dici Carnera e basta la parola: icona di un gigante, simbolo di un fenomeno da baraccone diventato campione di una categoria regina della boxe. Il primo campione del mondo del nostro ring, dopo che Oddone Piazza (medi) e Domenico Bernasconi (gallo) avevano fallito l`assalto. Insomma non si nasce Primo, di nome, per caso.

Lo sport, che sa costruire meravigliose storie di vita, lo ha insegnato in quel 29 giugno 1933 in cui il mondo scoprì non tanto un pugile, perché sulla realtà pugilistica di Carnera si è navigato tra mistero e realtà, tra vero e non vero, quanto il personaggio da film e da fumetti: inverosimile forzuto dalle misure smisurate, il Gulliver che si districava nel mondo della mafia pugilistica. Dici Ercole ma pensi Carnera: cioè un personaggio reale, non da film. Non "uno scherzo della natura" come aveva scritto il New York American. E che nell`uppercut ci mise la forza di 43 milioni di italiani, suggerirono i giornalisti Usa. Scrisse una sintesi, diventata profetica, Adoldo Cotronei sul Corriere della sera: «La risonanza di questa avventura supererà il fatto sportivo». Così è stato. Il 29 giugno (1967) fu anche il giorno del suo saluto a questa terra: la storia non ha tralasciato i particolari. Certo è che Carnera mostrò di essere pugile con qualità ben più valide di quanto venisse accreditato.

Arrivò al mondiale dopo aver sofferto per la tragedia di Ernie Schaff, marinaio di origine tedesca, che gli morì davanti: sul ring. Non furono i suoi pugni ad ammazzarlo, piuttosto quelli di un match precedente. Difficile dimenticare, la madre di Schaaf lo perdonò. E si arrivò al 29 giugno. Carnera era diventato una buona macchina da dollari per la mafia pugilistica, in giro non c`erano boxeurs di grande appeal: i bookmakers davano l`italiano 10-11 rispetto al campione Jack Sharkey, marinaio di Boston che due anni prima lo aveva bastonato. Ed allora al Garden Bowl di Long Island (arena estiva del Madison Square Garden), Primo fece la sua storia con colpi veri: 26 anni contro i 31 del campione, incoronato nel 1932 battendo Max Schmeling. Il nostro, sbarcato tre anni prima negli Usa, pesava 118 kg, 28 in più di Sharkey, ed era alto 14 centimetri in più. Nelle gigantesche scarpe poteva riposare perfino un violino. Vennero contati 40mila spettatori (in Italia scrissero 60mila), emigrati, celebrità, Fiorello La Guardia sindaco di New York, incasso di 184 mila dollari. La borsa di Carnera era di 59mila dollari, ma in tasca gli rimasero 360 dollari: solo il manager si mangiava il 33%.

Primo si presentò sul ring in accappatoio verde, rispondendo agli applausi con saluto romano. Il mondo mussoliniano attendeva l`impresa del personaggio che interpretava il mito dell`uomo forte. Jack Sharkey mostrò invece la sua cintura, americano nato da genitori lituani, in realtà si chiamava Paul Zukauskas. Jack venne da Jack Dempsey, il suo idolo del ring. Sharkey aveva conosciuto mestieri e miserie, un tipo rude ma il soprannome "Sobbing sailor" (marinaio piangente) contrastava con l`immagine. Fuori del ring veniva preso da iperemotività e non tratteneva le lacrime.

Il mondiale durò meno di 18 minuti, 6 round: Carnera tirò fuori quel destro che spense le luci. Qualcuno lo contestò: «Era un pugno vero?». Altri si domandarono cosa avesse nei guantoni. L`ex campione ci scherzò: «Mi sono dimenticato di evitare il colpo». Ma da allora Primo entrò nella storia senza uscirne più. Il prodigio si era avverato: per andare oltre il mito. Il campione chiuse la notte in un ristorante italiano intonando una romanza di Puccini, suonando la fisarmonica per accompagnare "O sole mio". La Gazzetta dello Sport tirò copie fino alle 10 del mattino. Il Duce, il segretario Starace e il regime delle camicie nere vennero pubblicamente ringraziati dal nuovo eroe. E a lui si abbracciarono, salvo abbandonarlo appena perso il titolo. Carnera divenne un`attrazione per recital ed esibizioni. Tornò in Italia in modo rocambolesco: inseguendo con una barca a vapore il "Conte di Savoia", la nave salpata senza attendere il ritardatario.

Ne parliamo ancora, ne parleremo sempre: le leggende non muoiono mai.

Daniele Scardina.

Il pugile Scardina in coma, è grave. Diletta Leotta prega per lui: «Forza Dani». Marco Bonarrigo e Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera l’1 marzo 2023.

Il malore dopo l’allenamento alla palestra Crossfit di Buccinasco, immediati i soccorsi: portato in codice rosso all’Humanitas e operato d’urgenza è in condizioni stabili. Il manager Cherchi: «Non aveva preso colpi duri né è caduto. Si è sentito male prima di entrare in doccia»

La telefonata al 118 dalla sede della Crossfit di Buccinasco, alle porte di Milano, è arrivata poco prima delle 17: un cliente della palestra, tra le più grandi dell’hinterland, si era sentito male negli spogliatoi e aveva perso conoscenza. Un’ambulanza e un’automedica sono arrivate sul posto rapidamente: l’uomo a terra non era un cliente qualunque ma Daniele Scardina, 30 anni, ex campione intercontinentale Wbo dei supermedi, uno dei più popolari pugili italiani. Al medico sono bastati pochi attimi per capire la gravità della situazione, intubarlo e allertare la sala operatoria dell’Humanitas, dove l’atleta è arrivato in codice rosso in meno di dieci minuti.

Daniele Scardina resta ricoverato in condizioni stabili. È stato operato ieri intorno alle 18 , l’operazione alla testa — definita «complessa» ma «tempestivo e tecnicamente riuscita» — è durata oltre quattro ore e i medici al termine si sono detti moderatamente positivi anche se il paziente resta in coma e le sue condizioni sono giudicate gravi. Alessandro Cherchi, il manager del pugile, spiega che «Daniele aveva appena effettuato un allenamento normale, non specialmente impegnativo, uno di quelli che si fanno tutti i giorni. Non ha subito colpi duri o particolari, non è caduto né ha sbattuto la testa. Si è sentito male negli spogliatoi poco prima di entrare sotto la doccia ed è stato immediatamente soccorso dai presenti».

I carabinieri della compagnia di Corsico, arrivati poco dopo l’ambulanza, hanno raccolto le testimonianze di proprietari e clienti. Scardina si allenava solo occasionalmente nella struttura e aveva appena incrociato i guantoni con uno sparring partner in un match «leggero». Alla fine della seduta aveva lamentato forti dolori all’orecchio e alla gamba destra. Negli spogliatoi ha perso i sensi e anche dopo l’intervento dei sanitari non ha mai ripreso conoscenza. Impossibile ipotizzare se l’episodio sia legato all’allenamento di ieri o se sia conseguenza di una situazione pregressa.

Dopo un passato tra i dilettanti, Scardina, milanese, ha cominciato a combattere come professionista nel 2015 e fino al 2021 ha vinto tutti i 20 incontri disputati, sedici volte per ko. La prima e unica sconfitta è arrivata nel maggio del 2022 dal veterano romano Giovanni De Carolis, cui ha dovuto cedere il titolo Wbo dopo essere stato messo al tappeto, incapace di reagire, al quinto round di un match feroce che aveva esaltato il pubblico capitolino come non succedeva da anni.

Scardina aveva chiesto e ottenuto la rivincita, che però è stata rinviata per ben tre volte (con tanto di restituzione dei biglietti) dallo scorso autunno perché il boxeur milanese non è mai riuscito a rientrare nel peso limite (76 chili) previsto per la categoria. Poche settimane fa i suoi manager avevano annunciato il cambio di programma: passaggio tra i mediomassimi e combattimento il 24 marzo all’Allianz Cloud di Milano contro il coriaceo belga Cedric Spera. Un match per cui Daniele si stava allenando duramente e che non si svolgerà mai.

La popolarità di Scardina è sempre andata ben oltre le cronache sportive. A lungo fidanzato con la conduttrice tv Diletta Leotta («Forza Dani» ha postato ieri), popolarissimo sui social grazie ai suoi tatuaggi a sfondo religioso e alla sua esuberanza, concorrente di «Ballando con le stelle» in coppia con Anastasija Kuz’mina, amico di rapper come Guè Pequeno, Fedez e Marracash, «l’ex ragazzo di strada di Rozzano che ha combinato tanti casini» (definizione sua) ha vissuto a lungo negli Usa per allenarsi con i campioni e andare a caccia del titolo mondiale, a cui però non è mai riuscito ad avvicinarsi. Ora lo aspetta un combattimento molto più difficile.

Jake LaMotta.

Jake LaMotta, un toro scatenato a spasso per il Bronx. Figlio malvisto di immigrati, indomabile incassatore, alcolista per vizio, attore per caso: le mille anime di un pugile che non è mai andato al tappeto. Paolo Lazzari il 15 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Lo circondano in quattro, ma lui paura non ne ha. In quel vicolo fetido i tombini sbuffano e gli sguardi si abbassano. Ha il baricentro basso, quindi molleggia veloce in circolo, per tenerli tutti nella coda dell’occhio. Ma sono troppi, anche per uno come lui. Possiede la tracotante esuberanza dei giovani, è aggrappato al terreno da due cosce grosse come eliche e quando indovina il gancio giusto ti spedisce a fare conoscenza con il marciapiede. Oggi però le prende, di santa ragione. Ma al tappeto non ci va. Incassa, si piega, non cede. La gang che l’ha assalito sfila via soltanto parzialmente compiaciuta.

Giuseppe LaMotta, che poi sarebbe suo padre, è un messinese pratico. Immigrato qualche anno prima per trovare fortuna in America, è inciampato nella grande depressione. Il pericoloso Bronx è l’unica delle destinazioni possibili quando il portafoglio è scarico. Le infiltrazioni mafiose che dilagano in quel periodo, una costante accomodata nei suoi giorni. Quindi quando vede Jake tornare a casa barcollante, la faccia livida e le ossa incrinate, fa una cosa. Fruga tra i suoi attrezzi e, senza proferire parola, gli consegna uno spaccaghiaccio. Poi gli assesta una pacca benevola sulle spalle doloranti.

Da quel giorno Jake se lo porta sempre dietro. Le risse sono un condimento quotidiano quando oscilli in equilibro sopra una cricca malavitosa. Lui estrae l’arnese contundente e lo rinfodera una quantità infinita di volte, sempre affondando gioiosamente nella contesa. Più lo pesti, più si carica. Ci è abituato fin da piccolo, a menare le mani. Uno sguardo di traverso, del resto, è sufficiente a sobillare gli istinti più cruenti.

Poi un giorno se lo scorda, lo spaccaghiaccio. Si fissa le tasche, accerchiato, ancora una volta. L’unica arma pensabile diventano i pugni nodosi al termine delle sue braccia corte e gonfie. Inizia a scaricarli in sequenza, conquistando in fretta una reputazione da duro che diventa bardatura impalpabile. Il crimine inizia a girargli al largo, ma lui ci si rinfila dentro tuffandosi di petto. Facile cascarci, quando tutt’intorno sibilano pallottole, i cadaveri ribollono nel calcestruzzo e i controsoffitti ingurgitano fiumi di cash. Lo sbattono in riformatorio per rapina. Il carcere è quello di Upstate.

Potrebbe apparire l’epilogo precoce di una vita costellata di sventure. Invece è il click che stappa la sua carriera da pugile. Costretto per giorni interminabili a scontare i suoi peccati, sfoga la frustrazione accumulata sul sacco da boxe. Affina le sue rudimentali movenze. Assorbe pugni chiusi con quel mento da bisonte, sempre sorridendo. Ora conosce la vita che lo attende fuori da lì.

Quando non ha nemmeno vent’anni combatte il suo primo match da professionista. Pesi medi, l’avversario è il temibile Ray Robinson, ribattezzato “Sugar” dal suo manager George Gainford, perché il suo stile è dolcemente letale. Il pugile di zucchero è la sua naturale antitesi: regale nei movimenti, edonista nel portare i colpi, eppure tremendamente efficace. Jake è tutto l’opposto: arruffone, incline alla zuffa anche sul ring, imposta balletti tribali e scarica jab imbevuti di rabbia. Finisce male, ma la rivincita è faccenda rapida: nel febbraio del ’43, nella chiassosa Detroit, LaMotta diventa il primo pugile a sconfiggere Ray. Ora il nostro gongola, ma è solo una tacca assestata su un duello infinito.

Tra l’altro Robinson è probabilmente il pugile più completo della storia. Lo ammette lo stesso Jake. Lo conferma un certo Muhammad Ali. E c’è uno scontro che, forse meglio di qualunque altro, identifica lo spirito dei due rivali.

14 febbraio 1951. Chicago. LaMotta si presenta scarico. Robinson è esplosivo. Jake incassa una quantità immane di colpi fin dalla prima ripresa. Bascula penosamente sul ring mentre Sugar affonda i pugni dentro le sue carni, ma non crolla mai. Il suo manifesto non potrebbe essere più limpido: potrebbe mollare, ma va avanti per 13 lunghissimi round, prima di uscirne tumefatto e sconfitto. “Il massacro di San Valentino”, titolano i giornali. È il match che segna l’epilogo di una carriera surreale, fondata sulla resistenza estrema al dolore per sfinire l’avversario. “Fui in grado di convincere il mio corpo che nessuno poteva farmi male”, confesserà Jake in seguito.

La vita che si apre dopo il pugilato è un balletto incerto tra la gloria e lo sfacelo. LaMotta affonda nel vizio dell’alcolismo. L’inclinazione alla rissa riaffiora di quando in quando. La passione sfrenata per le donne gli causa più di un grattacapo con sua moglie e i mariti altrui. Ad un certo punto compra un bar a Miami, per tentare di rigare dritto. La carriera da imprenditore non gli dispiace, ma sente di avere qualcos’altro che ribolle dentro. La sera indossa abito e cravatta e si disimpegna nei locali facendo stand up comedy. Poi un giorno lo riconosce Martin Scorsese e Jake imbocca l’ennesima curva di un’esistenza frastagliata: allena De Niro per “Toro scatenato” e comparirà in molte altre pellicole.

È l’appagante coda di un saliscendi imperterrito. Una carezza racchiusa dentro una foresta di pugni incassati.

Riccardo Signori per “il Giornale” il 14 febbraio 2021. «Vi giuro che se non ero mai passato attraverso un inferno, quella fu la volta buona». Lo chiamarono il massacro di San Valentino, 14 febbraio 1951, 70 anni fa. Jake La Motta non lo scordò mai. Ray Sugar Robinson fu il suo inferno di pugni, ma provò anche altro. «Ore e ore di bagni di vapore, non ne potevo più. Dentro e fuori, dentro e fuori: due chili da smaltire la sera prima del peso. Avevo sete. Volevo acqua. Sennò, dissi, non sarei mai salito sul ring. Mi diedero da leccare un cubetto di ghiaccio». Un cubetto di ghiaccio per dissetarsi e lo stomaco vuoto per affrontare Ray Sugar Robinson: ci voleva coraggio. Jake La Motta ne aveva da vendere, ma non bastò. Il sesto, e ultimo, incontro fra Jake il Toro del Bronx, che si portava perfino a letto la cintura di campione mondiale dei medi, così raccontava Vikki, la seconda moglie, e Sugar l' artista, il diavolo nero campione del mondo dei welter, passò alla storia dello sport come un massacro. Lo paragonarono a quello di 22 anni prima, nel famoso garage sulla Clark street di Chicago: là vennero impallinati sette uomini. Qui, sulla West Madison Street, non molto lontana dal garage, un mercoledì notte, Robinson scaricò mitragliate di uppercut e ganci su quell' uomo. I cassieri contarono 14.802 spettatori per un incasso di 180.619 dollari: lo spettacolo valse il prezzo del biglietto. Decine di milioni di americani davanti alla tv. «Nessuno ha mai messo al tappeto Jake La Motta. Figlio di puttana, non sarai tu a farlo», si ripeteva il Toro chiedendo aiuto alle gambe esili, un testone nero e ricciuto che Rocky Graziano definiva testa di pietra, un naso deformato, una faccia rossa di sangue colante. Scrisse Al Buck, giornalista di fama del New York Post: «Sanguinante, livido e malridotto, il Toro del Bronx restò in piedi ma nessuno avrebbe mai più voluto vedere una tal macelleria». Del resto è boxe, allora come oggi. «Un rito manicheo dove regnano il bene e il male, il vincitore e il perdente» scrisse Albert Camus. Così questa vicenda. Sei puntate nelle quali Sugar vinse 5 volte e quest' ultima lo avrebbe incoronato come nessuno fino allora: possedere in contemporanea i mondiali dei welter e dei medi. Robinson era la tempesta calma, freddo, lucido, implacabile. L' unica sconfitta con il Toro avrebbe interrotto una imbattibilità di 40 incontri. Poi la serie riprese per altri 9 anni: in 123 match Ray perse una volta e inflisse 78 ko agli avversari. L'ultima sfida con La Motta gli procurò qualche problema. Frankie Carbo, mister Grey, la mano di velluto della mafia americana, avrebbe gradito un ultimo trittico vinci-perdi-vinci con La Motta. Sugar picchiò duro, chiuse il conto e lasciò gli States per qualche tempo, andando a cercare danaro e avversari in Europa. Da nove anni Jake e Ray si scambiavano cazzotti, cominciarono nel 1942: Robinson aveva 22 anni, La Motta 21. Ora ne avevano 9 in più. «Con Zucchero ho combattuto così tante volte, da meravigliarmi di non essere diventato diabetico». Jake aveva la battuta pronta. Così quando sconfisse Tiberio Mitri. «Eri un tal bel ragazzo, che non sapevo se con te dovevo boxare o ballare». Lo riempì di botte, ma gli accordi pre-match erano diversi. Sul ring del Chicago stadium, Robinson dimostrò quello che raccontava Dan Parker, giornalista del Mirror. «La più grande combinazione di cervello, bravura tecnica e muscoli che un pugile moderno abbia mai avuto». Soffrì nei primi round, tornò all' angolo con il naso sanguinante. Fu una battaglia di astuzia contro audacia, testa contro cuore, abilità contro coraggio. Dal 9° round Robinson cominciò un selvaggio martellamento, i guanti da 6 once facevano più male: sconciò la faccia e le forze dell' avversario. La Motta pagava il peso sbagliato, l' idea di bere del brandy prima del match per darsi coraggio. Gli ultimi 7 minuti furono una carneficina, Ray scagliò 56 colpi di fila, i fans urlarono di fermarsi. Guardò l' arbitro, ma quello non interveniva. Il Toro stava in piedi aggrappandosi ai calzoncini dell' avversario, un occhio chiuso, l' altro con un torrente di sangue. «Quando l' arbitro si intromise fra noi, stavo in piedi solo perché avevo il braccio attorcigliato attorno alle corde». L' immagine del groggy che Robert De Niro interpretò in Toro scatenato, il film che riportò al mondo il ricordo della notte di San Valentino. «No, Ray, avevo troppo cuore e coraggio per essere il tuo San Valentino». Il match fu interrotto a 2 minuti e 13 secondi del 13° round. Jake si lasciò cadere sullo sgabello: svenne. Al rientro nello spogliatoio gli diedero l' ossigeno. Robinson sorrise, calmo. Al 12° round il cartellino dell' arbitro Sikora diceva: 63-57. Quelli dei giudici: 65-55, 70-50. Il pubblico delirava per Sugar Ray. Ma quando Jake lasciò il ring intonò: «For he' s a jolly good fellow» («Perchè lui è un bravo ragazzo, perché lui è un bravo ragazzo...»). Un coro d' addio alla grande boxe. Robinson tirò avanti fino a 44 anni.

Boxe, LaMotta-Robinson: settanta anni fa il massacro di San Valentino. Luigi Panella su La Repubblica il 14 Febbraio 2021. Il 14 febbraio del 1951 il Toro del Bronx fu sconfitto, titolo mondiale dei medi in palio, da uno dei più grandi della storia del pugilato. Ne uscì un match brutale, che fu ribattezzato, visto il giorno e il luogo (Chicago), prendendo spunto dalla strage ordinata da Al Capone ai tempi del proibizionismo. Il massacro del giorno di San Valentino: 14 febbraio 1929. Chicago è infiammata dalla rivalità tra gangster italiani e, soprattutto, irlandesi: tutti arricchiti dalla legge che proibisce produzione e vendita di alcolici negli Stati Uniti. ‘’Milk’’, latte, c’è scritto su una marea di camion: dentro però tanto liquore. La richiesta è enorme e il giro di quattrini è proporzionale. Al Capone sta prevalendo nel controllo di questo giro illegale, ma vuole dare al rivale irlandese George ‘Bugs’ Moran (che tre anni prima ha cercato senza riuscirci di toglierlo di mezzo), il colpo di grazia. Nel giorno degli innamorati, il gangster italiano si trova a Miami per essere interrogato da un giudice federale: è il miglior alibi per organizzare l’agguato ai rivali. Un garage, dove è prevista la consegna di una partita di liquore e dove finti poliziotti disarmano la banda di Moran, viene trasformato in un mattatoio. Si salva solo Moran: tra gli ammazzati uno gli somiglia tantissimo e lui, arrivato tardi per una violenta nevicata, ha tempo per sparire. Morirà 28 anni dopo, sopravvivendo di 10 proprio a Capone, finito in galera dopo essere stato incastrato dal fisco. Quando Jake LaMotta e Ray Robinson, nel 1951, firmano il contratto per il loro sesto incontro, forse neanche ci fanno caso che saliranno sul ring proprio a Chicago, e proprio il 14 febbraio. E soprattutto non sanno che la loro sfida ruberà i titoli dei giornali proprio a quel giorno da gangster. Il loro primo match nell’ottobre del 1942 al Madison Square Garden di New York: vince Robinson, che però l’anno dopo, a Detroit, deve subire proprio da Jake la prima sconfitta da professionista. Poi altre tre volte, e sono sempre verdetti ai punti per Robinson, a volte contrastati. Jake LaMotta si sveglia la mattina del giorno di San Valentino da campione del mondo dei pesi medi. E’ un personaggio popolare ed eccessivo. Sposato con Vicky Beverly Thailer, la seconda delle sei mogli, ma anche nel giorno della festa degli innamorati il romanticismo fa posto ad una gelosia morbosa. Vicky è una modella splendida, lo sarà ancora per molti anni, se è vero che, passati i 50, poserà senza veli per Playboy. Ma quello della gelosia è solo uno dei tanti demoni di LaMotta. Questione di Dna: lotta sempre contro tutti e tutto sin da ragazzino, quando su ‘consiglio’ del padre, emigrato nel Bronx dalla Sicilia, gira con un punteruolo per rompere il ghiaccio da usare come arma di difesa contro chi vuole sopraffarlo. E’ esagerato in tutto, anche nello svelare se stesso. Lo farà come show man nei locali sui quali investe parte dei suoi quattrini, lo farà raccontandosi nella sua biografia, Toro scatenato: è lo stesso titolo del film con cui Martin Scorsese e Robert De Niro (che lo interpreta) ne fanno un personaggio planetario. Il filo conduttore ovviamente è il ring: il ‘Toro scatenato’ avanza, sempre. Non è un modello di stile, ma l’aggressività che sfocia spesso nella ferocia lo porta al titolo mondiale. Non riesce a sfilarglielo il pur grandissimo Tiberio Mitri, fallisce la missione anche Laurent Dauthuille: il francese è praticamente certo della vittoria ai punti prima di essere scaraventato fuori dal ring a 13 secondi dalla fine. E poi non va mai giù, non ci è andato neanche nei 5 precedenti contro il suo eterno rivale. Anche Walter Smith Jr. ha un talento naturale per lo spettacolo. Usa meno le parole, molto più quel gioco di gambe che farà la sua fortuna sul ring: praticamente la totalità degli esperti di boxe lo mette nel podio dei migliori di sempre, spesso anche sul gradino più alto. Nasce a Detroit, poi si forma a New York, ad Harlem, dove si trasferisce con la madre dopo il divorzio dei genitori. E mentre nel Bronx, l’altro fa a pugni con la vita, Smith la cavalca facendo di tutto e di più. Balla il tip tap sui marciapiedi di Broadway per racimolare qualche dollaro, ma vende anche la legna, fa il lustrascarpe, combina qualche guaio di troppo, finisce in risse fra bande rivali, si sposa a 16 anni. E soprattutto inizia a far vedere grande pugilato: lo sport glielo ha fatto entrare nel sangue il suo idolo, qualche anno più grande di lui, il campione del mondo dei pesi massimi Joe Louis. La sua boxe è elegantissima, dolce come lo zucchero. Ma prima ancora di diventare ‘sugar’ (alias che condividerà con un altro artista del ring come Ray Leonard), Walker Smith diventa Ray Robinson: è l’identità di un suo amico barista, perché 15 anni sono pochi per salire sul ring e gli servono generalità false ma adeguate. “Il ritmo, nel pugilato, è tutto. Qualsiasi movimento tu faccia, nasce dal cuore: o questo ha il ritmo giusto, o sei nei guai”, ama ripetere Robinson. Spesso una orchestrina jazz lo aiuta durante gli allenamenti, diventerà amico di Miles Davis. Ritmo, eleganza, ma nella notte di San Valentino anche tanta violenza. Il match è facilmente reperibile in rete e merita di essere visto. La prima parte vive più o meno sull’equilibrio, ma nella seconda c’è solo Robinson. Colpi veloci, precisi e potenti: LaMotta incassa tutto ma avanza, sempre. Sembra trovare quasi compiacimento in quella sofferenza. Al tredicesimo round, l’arbitro Frank Sikora, anche lui di Chicago, pone fine al martirio. Stravince Robinson, eppure l’orgoglio di LaMotta si gonfia a dismisura. Perché, come sussurra a Ray ,‘’non mi hai buttato giù…”. Dopo quel match, Robinson combatterà ancora tantissimo, fino al 1965. In tutto 174 incontri (ma in quel 14 febbraio il record, incredibile, è di 128 vinti, uno perso e due pareggiati), tanti pugni dati, ma anche tanti ricevuti. E quando gli viene diagnosticato l’Alzheimer in molti mettono in relazione le due cose. Muore nel 1989, a soli 68 anni, ma la brillantezza del ring aveva abbandonato il suo sguardo da tempo. Il LaMotta pugile, dopo il massacro di San Valentino non sarà più lo stesso. Si trascina fino al 1954 sul ring, poi si mette a fare altro, a raccontarsi, meglio di quanto faccia Robinson, che come show man non avrà lo stesso appeal. Di frasi celebri del ‘’Toro del Bronx’’ ce ne sono a bizzeffe, ne scegliamo una. “Ho salvato la mia testa. Ho perso i miei denti, ma ho salvato la mia testa”. Se ne è andato nel settembre del 2017: da 2 mesi aveva compito 95 anni.

Martin Bakole.

Da lastampa.it il 28 dicembre 2022.

Stanno facendo discutere in Francia le dichiarazioni a L'Équipe del pugile  – categoria pesi massimi – Martin Bakole, protagonista il 14 maggio 2022 di una clamorosa vittoria sul campione olimpico 2016, Tony Yoka. «Non volevo finirlo – ha raccontato –, ho visto i figli a bordo ring, una vittoria ai punti era sufficiente». 

Eccolo qui, il pugile che trattiene il pugno, abbastanza lucido da lasciare spazio alla pietà. Ma è davvero sportivo non fermare la propria azione? Forse sì, se si tratta di uno sport violento come la boxe, dove talvolta può capitare che gli esisti siano più violenti delle azioni. Sconfiggere l’avversario, ma non annientarlo «vigliaccamente», dice nell’intervista.

Un colpo ben assestato indirizza subito il match. Giù in ginocchio già al primo round, Yoka ha la faccia insanguinata, troppa la forza di Bakole, che prosegue nella sopraffazione dell’avversario per nove round. 

In questo modo il congolese torna dopo 7 mesi al match disputato all’Accora Arena e che è stato un colpo durissimo per il pugile francese trentenne la cui sconfitta ai punti non ha fatto meno male di un ko. La prima sconfitta in 12 incontri. Da allora non è più risalito su un ring, lo farà – secondo il quotidiano sportivo francese – a febbraio con un avversario ancora da definire.

Si rammarica Luis Mariano Gonzalez, il tecnico cubano che lo ha portato all’oro di Rio: «Non era pronto. L’ho letto nei suoi occhi, l’ho visto nei suoi movimenti. Niente era giusto. Nessun piano tattico». «Dovrà migliorare molto per raggiungere le vette – chiosa Bakole –. Sul ring, di fronte a me, era perso. Ciò che ha mostrato non aveva nulla a che fare con ciò che pensava di essere».

Irma Testa.

(ANSA il 25 marzo 2023) - Irma Testa è d'oro. L'azzurra ha battuto la kazaka Karina Ibragimova nella finale della categoria dei 57 kg dei Mondiali donne in corso a New Delhi. Il verdetto a favore di Testa è stato unanime.

 Nello scorso dicembre Testa aveva battuto la stessa rivale, Ibragimova, nel match del suo esordio al professionismo per il quale aveva ricevuto una borsa di 30mila dollari. Ora invece ne guadagnerà centomila come premio per questa medaglia d'oro.

Dominio assoluto sul ring a New Dheli. Irma Testa campionessa del Mondo in India: la meravigliosa e spudorata dittatura della pugile napoletana. Antonio Lamorte su Il Riformista il 25 Marzo 2023

Una meravigliosa e spudorata dittatura. Dominio puro e assoluto in India di Irma Testa, campionessa del mondo del peso piuma, limite dei 57 chili. Decisione unanime, nessuna chance per la kazaka Karina Ibragimova che in finale ha potuto soltanto a limitare i danni. È l’oro di Torre Annunziata, del rione Provolera, della palestra dell’iconico maestro Lucio Zurlo e del figlio Biagio Zurlo, di un movimento femminile che ha avvicinato alle palestre tantissime ragazze e tantissime donne negli ultimi anni. “Effetto Irma Testa” l’hanno chiamato. Perdonateci se non usiamo la formuletta retorica della favola. Questa storia è una solida realtà. Qualcosa che continua, che non passa.

A New Dheli la 25enne atleta delle Fiamme Oro, gruppo della polizia di Stato, era arrivata da portabandiera, da capitana di una nazionale di otto pugili sotto la guida di Emanuele Renzini. Un gruppo fortissimo, ancora in ascesa dopo che agli ultimi Giochi in Giappone neanche un uomo si era qualificato. 380 atlete in tutto, 74 nazioni, gli incontri dal 14 al 26 marzo. Sirine Charaabi, dopo la sua battaglia per la cittadinanza, tornerà in Italia con un bellissimo argento nella categoria 52 chili. Le conseguenze della guerra in Ucraina: 11 i Paesi – USA, Canada, Gran Bretagna, Polonia, Repubblica Ceca, Svezia, Irlanda, Olanda, Ucraina, Norvegia e Svizzera – che hanno boicottato la competizione in protesta alla scelta dell’International Boxing Association di far partecipare Russia e Bielorussia con nome del Paese e inno.

Il problema di Irma Testa, ci aveva raccontato in un’intervista, stava però proprio in Asia: non in questi undici Paesi. Bisogna scorrere fino alla quinta posizione il ranking IBA delle piuma per trovare un’atleta dei boicottatori. E poi fino alla 14esima. Lei è prima da tempo. Era sfumato in finale, l’anno scorso a Istanbul, il sogno Mondiale, con la scorbutica taiwanese Lin Yu-Ting. A questo giro non c’è stato niente da fare, una schiacciasassi Testa. Ai sedicesimi aveva regolato la pratica Reyes 4 a 1. Agli ottavi 5 a 0 Thi Thanh Hao. A i quarti 5 a 0 la brasiliana Romeu. In semifinale 5 a 0 la francese Zidani. Karina Ibragimova, terza nel ranking, l’aveva incrociata solo qualche mese fa alle Pro Series del Global Boxing Forum dell’International Boxing Association. Non c’era stato match, troppo più forte la “Buttefly” napoletana, come non c’è stato oggi.

Ibragimova ha provato a limitare i danni, jab destro costante ma impalpabile, l’arbitro l’ha invitata più volte a boxare. Irma Testa è stata spudorata, non si è fatta prendere mai o quasi, è andata a segno spesso con il gancio sinistro e il diretto destro: ha esultato e sottolineato alle sue combinazioni. Un dominio assoluto, decisione unanime. Il prefisso di Testa è 5-0. Oro e 100mila dollari di borsa. Soltanto l’ultimo capitolo di una storia cominciata nel Rione Provolera a Torre Annunziata, in provincia di Napoli, nella palestra Boxe Vesuviana aperta all’inizio degli anni Sessanta che ha sfornato campioni italiani, europei e mondiali tra dilettanti e professionisti. Dove il maestro Zurlo ha accolto questa ragazzina terribile, arrabbiata, che il suo primo pugno lo aveva tirato a una suora in oratorio. Dove il maestro le ha insegnato a boxare ma anche parlare in italiano e a mangiare composta a tavola.

Mi sono emozionato, sarà la vecchiaia, non lo so – commenta a telefono poco dopo mentre a un ragazzino che si allena in palestra dice coprirsi meglio con la spalla – Ancora una volta la tecnica e la furbizia sono quelle che premiano nel pugilato. È l’ennesima soddisfazione che questa ragazza dà a Torre Annunziata e alla nostra palestra. Adesso la aspetto qui per il nostro rito: per tradizione quando torna ci scattiamo sempre una foto con il trofeo che ha vinto”. Emozione anche a Milano, dove Biagio Zurlo, ex campione d’Italia e oggi consigliere federale, teneva il corso di aggiornamento per tecnici e maestri della Federazione Pugilistica. Corso che è stato interrotto per seguire l’incontro: per esultanza. Campionessa del mondo juniores, due volte campionessa Europea Elite, prima pugile italiana alle Olimpiadi, prima medagliata con il bronzo ai Giochi di Tokyo. Irma Testa è un’icona: questo è il momento di celebrare ma viene spontaneo pensare che l’unica cosa che manca a questa storia formidabile è l’oro alle Olimpiadi. Parigi 2024.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Da ilnapolista.it il 28 dicembre 2022.

Sul Corriere della Sera bellissima intervista a Irma Testa protagonista del pugilato femminile, medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Tokyo. Una delle pochissime atlete a dichiarare la propria omosessualità. L’intervista è di Gaia Piccardi e Arianna Ravelli 

Le differenze di genere sono un prodotto sociale: lei dimostra che si può cambiare.

«Mi piace l’idea di aver gettato il seme del cambiamento. In molti Paesi la boxe femminile è più importante di quella maschile. In Italia siamo un po’ indietro ma ci arriviamo, con i nostri tempi. Da sei anni, le medaglie provengono solo da noi ragazze. Ci alleniamo più dei maschi, abbiamo una grinta pazzesca. Il pugilato in fondo è un gioco di testa: e chi può pensare meglio di una donna?».  

Il pugilato è stato il percorso di crescita che le ha cambiato la vita.

«Ho iniziato a 12 anni, a Torre Annunziata non ci sono tante possibilità per i giovani. O vieni da una famiglia perbene e benestante, che ti fa studiare, ma se hai i genitori assenti perché devono lavorare dalla mattina alla sera è difficile prendere strade che ti portino lontano. Io ho avuto il maestro Lucio Zurlo che ha sostituito i miei genitori. Sono entrata in palestra, mi sono subito divertita, è scattato l’amore per il pugilato. A 14 anni, in Nazionale, è arrivata la proposta: vuoi trasferirti ad Assisi? Ho detto sì».

Ha lasciato tutto.

«Quando non hai nulla, è più facile. Anche mia madre mi ha dato un calcio nel sedere: “vai, scappa, tu che puoi”».

Cos’è rimasto, oggi, di quella quattordicenne?

«Nulla, tranne una gran voglia di emergere. Ho la stessa cazzimma di quand’ero bambina, me la porterò dentro per tutta la vita. Ma ho cambiato totalmente il modo di vedere le cose. Nasci e vedi il mondo con gli occhi dei tuoi genitori, del posto dove vivi. È uno specchio. Andando via, impari a guardarlo in maniera diversa, per fortuna».

E quando torna? Che rapporto ha con le sue origini?

Irma Testa: «Amo la mia famiglia e la mia città: a Torre torno sempre con grande piacere. Però sto due o tre giorni e poi devo scappare: ormai mi sento io sbagliata, lì. A casa mia si pranza alle due e si cena alle nove e mezza, passano amici a ogni ora per chiacchierare e prendere il caffè. Io no. Pranzo alle 12.30, ceno alle 19.30, alle 20 sono in stanza tranquilla. Amo il mio tran tran. A Torre, dopo un po’, sclero».

Il suo rifugio è Assisi.

Irma Testa. «Per nove anni ho vissuto in hotel poi, l’anno scorso, ho preso casa da sola. Avevo bisogno dei miei spazi. Assisi è tranquillissima, dopo cena è tutto chiuso: l’ideale». 

Pensava che la sua scelta di fare coming out avrebbe spinto più atlete a seguirla?

«Nel mondo dello sport è una scelta rara. Sono stata la prima donna pugile italiana a andare alle Olimpiadi, la prima medaglia olimpica: aveva senso fossi la prima pugile a fare coming out. Pensavo di portarmi dietro altre ragazze, così non è stato. E poi ci fu la del ddl Zan, l’applauso dei senatori quando non passò in Parlamento… Osservavo chi combatteva questa battaglia per aiutare i più deboli, ho voluto espormi. Mi sarei sentita una codarda, se non l’avessi fatto». 

Da bambina aveva miti?

«Mah, ho cominciato a tirare di boxe prestissimo, non ero una studentessa modello, pochissime donne continuano gli studi a Torre Annunziata: molte si fermano alle medie, quando hanno già un fidanzatino che poi sposeranno e con cui faranno subito figli, sperando che lui non finisca arrestato. Sembra un film, invece è tutto vero». 

E nel futuro cosa vede?

«Vorrei dei figli, una famiglia non lo so, ma per me famiglia è anche una madre e un figlio».

Dagospia il 31 marzo 2023. Da “Un Giorno da Pecora” – Rai Radio1

Un giorno vorrei sposarmi, sono favorevole al matrimonio omosessuale e vorrei avere tanti figli. E sono favorevole anche all'utero in affitto”. A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Irma Testa, fresca vincitrice del campionato mondiale di pugilato, che oggi è stata intervistata da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari.

 Secondo i detrattori l'utero in affitto rischia di diventare una sorta di sfruttamento per la donna. “Ma no, secondo me no”. Secondo lei questo governo difende i diritti LGBT? “C'è molto lavoro da fare, è difficile ma io sono fiduciosa”. Qualche tempo fa lei ha scelto di fare coming out.  “Ho fatto coming out perché nel mondo dello sport si parla poco di questo argomento, e questo non è giusto. Si può essere idoli anche se omosessuali mentre per gli sportivi pare non sia così”.

In questo momento ha una compagna? “No, sono single, non sono fidanzata”. Lei ha detto che potrebbe anche innamorarsi di un uomo. “Vero. Mi piacciono le donne ma possono piacermi anche gli uomini, cosa che però accade pochissime volte”. Quale uomo potrebbe stuzzicarla? "Ho trovato affascinante per due anni Giuseppe Conte - ha raccontato a Rai Radio1 la pugile - per l'aspetto estetico ero una delle 'bimbe di Conte'. Trovavo affascinante il suo modo di fare”.

 Ci andrebbe a cena e potrebbe essere un uomo di cui innamorarsi? “Si, certo”. E invece qual è una donna che le piace particolarmente? “Angelina Jolie”. Sui social ora che è più famosa le è arrivata qualche 'proposta'? “Mi scrivono più donne che uomini. Di solito mi dicono: fidanziamoci o facciamo sparring insieme. E poi mi chiedono pure le foto dei piedi...”

Irma Testa: «Volevo l’oro Mondiale a tutti i costi. Il coming out? Sarei stata codarda a non farlo, ma una fidanzata ora non c’è». Gaia Piccardi Da corriere.it il 27 marzo 2023.

Irma Testa ha vinto l’oro ai Mondiali di pugilato: «La boxe è un lavoro su se stessi: al sacco non picchi solo l’oggetto, stai prendendo a cazzotti tutti i tuoi problemi. Un amore non c’è, ma se arriva non me ne priverò»

Irma, ha dormito? «Non solo ho dormito, ho fatto sogni bellissimi».

Nuova Delhi fuori, con le sue assordanti contraddizioni («L’India è un posto assurdo, per certi versi meraviglioso e per altri tremendo: ho visto per strada una bambina vestita di stracci, con una neonata in braccio da accudire. Ho pensato all’Italia, a quanto sono fortunata di esserci nata: non va dato per scontato»), la pace interiore dentro.

A 25 anni l’oro al Mondiale di pugilato, conquistato nella categoria 57 kg battendo 5-0 la kazaka Ibragimova, per Irma Testa è la pietra miliare di un percorso iniziato dodicenne a Torre Annunziata: «Da noi non ci sono tante possibilità per i giovani. O vieni da una famiglia perbene e benestante, che ti fa studiare, ma se hai i genitori assenti perché devono lavorare dalla mattina alla sera è difficile prendere strade che ti portino lontano. Io ho avuto il maestro Lucio Zurlo, che ha sostituito i miei. Sono entrata in palestra, mi sono subito divertita, non ne sono più uscita. A 14 anni, in Nazionale, è arrivata la proposta: vuoi trasferirti ad Assisi? Quando non hai nulla, è tutto più facile. Anche mamma mi ha dato un calcio nel sedere: vai, scappa, tu che puoi».

Con le mani bendate sotto i guantoni, Irma Testa ha scolpito a pugni innanzitutto se stessa («Da adolescente non mi piacevo: all’inizio non volevo fare la doccia assieme alle altre. Ma lo sport educa: allenando il corpo, cominci a parlarci»), seguendo la luce dei fari Pellegrini e Vezzali («Sono cresciuta osservando Federica e Valentina, due totem»), e poi la storia della sua disciplina.

È stata la prima pugile italiana alle Olimpiadi (Rio 2016, a 18 anni), la prima sul podio olimpico (bronzo a Tokyo 2020), la prima a segno in tutte le rassegne (terza a vincere l’oro iridato dopo Alessia Mesiano e Simona Galassi), la prima a fare coming out: a mamma Anna l’ha detto quando aveva 15 anni («Non avevo mai parlato di queste cose con lei, ma ha aperto i suoi pensieri e ha capito: ci si può innamorare di chiunque»), a noialtri appena tornata dal Giappone con il bronzo al collo («Una medaglia olimpica ti mette al riparo da tutto: pensavo che il mio coming out si portasse dietro altre ragazze, così non è stato. Poi ci fu la questione del ddl Zan, l’applauso dei senatori quando non passò in Parlamento... Guardavo con ammirazione chi combatteva questa battaglia per aiutare i più deboli: ho voluto espormi. Mi sarei sentita una codarda, non l’avessi fatto»). Il mondo di Irma tosta, insomma, è ben più ampio del perimetro di un ring.

Cosa c’è dietro l’oro di Nuova Delhi?

«C’è l’emozione più bella che potessi vivere. Al titolo mondiale ero già andata vicina l’anno scorso a Istanbul, quando fui sconfitta in finale. Mi era rimasto l’amaro in bocca. Questa medaglia la volevo a tutti i costi ma avevo paura: ricordavo quella brutta sensazione di non farcela».

Come ha cambiato i suoi pensieri, quindi?

«L’anno scorso ero insicura e intimorita, più attenta a non fare errori che a portare i colpi. Sul ring contro la kazaka mi sono sentita sola però anche concentrata e determinata come mai prima. Irma, mi sono detta, stai tranquilla e divertiti. Gli errori insegnano: mentalmente, questa volta, ho avuto un approccio diverso».

Il ruolo di pioniera le piace?

«Mi piace l’idea di aver gettato il seme del cambiamento, ma c’è ancora molta strada da fare: in Italia il pugilato femminile vince di più di quello maschile, che a Tokyo non c’era, eppure parliamo di una disciplina ancora considerata per uomini. Non è più così. Quanto a me, sono la donna immagine del movimento ma non sono la sola. Conquistare un oro fa bene allo sport femminile in generale».

Perché le mamme dovrebbero portare in palestra le figlie anziché a volley o scherma?

«Intanto dovrebbero sempre essere i figli a chiedere di essere portati, magari dopo aver provato varie discipline. Il pugilato è uno sport completo: forma il corpo e la mente. Io ero ribelle e irrequieta, non stavo mai ferma: quando uscivo dalla palestra ero una bambina diversa. Il pugilato è un lavoro su se stessi: al sacco non picchi solo l’oggetto, in realtà stai prendendo a cazzotti tutti i tuoi problemi, le tue fragilità e insicurezze. È un esercizio catartico. È una disciplina».

Ancora zavorrata da stereotipi e preconcetti, però.

«Come il calcio femminile: fa venire le gambe grosse, fa diventare omosessuale... Ma quando mai? Il mio sogno è vedere le palestre piene di bambine: prima dei 12 anni non tiri pugni, però entri in un mondo pieno di regole e valori. Ed è falso anche che tirando di boxe ti rompi il naso o gli zigomi: in un incontro ci sono molti meno infortuni che in altri sport considerati non violenti. Il pugilato ti fa crescere».

Mentre lei vinceva l’oro, la sua collega Sirine Chaarabi, 23enne di Caserta di origine marocchina, conquistava l’argento nei 52 kg. Sirine è nata in Tunisia, vive in Italia da quando aveva 18 mesi, ha dovuto scrivere una lettera al presidente Mattarella e aspettare i 21 anni per ottenere cittadinanza e passaporto mentre per Mateo Retegui, argentino con il nonno di Canicattì, debuttante della Nazionale di Mancini, la burocrazia ha bruciato i tempi.

«Non voglio parlare per Sirine, che finalmente ha la cittadinanza italiana a differenza delle sue due sorelle, una maggiore e l’altra gemella. Mi sembra una sciocchezza che l’abbia avuta per meriti sportivi quando avrebbe potuto indossare la maglia azzurra a 14 anni: è un gran talento, la conosco da sempre, parla il dialetto meglio di me. Faceva i ritiri insieme a noi ma poi non poteva gareggiare: l’ho vista soffrire per anni. Abbiamo negato il passaporto a un’italiana perdendoci tanti successi e medaglie. Trovo molto ingiusto che Sirine non abbia potuto avere il mio stesso percorso».

Percorso in salita: «Dieci anni di sacrifici», ha detto.

«Rifarei tutto. Sono andata via di casa a 14 anni, ne ho 25. Ad Assisi mi sono abituata a tutto: ritmi, orari, dieta, allenamenti. Sono un’atleta: le mie esigenze sono poche. Infatti mi trovo benissimo. Ma la lontananza è stata dura da digerire: sono cresciuta a centinaia di chilometri da una mamma che oggi è felicissima per me. Hai trovato la tua strada, sei diventata una donna migliore, mi ripete. Ecco, per me questo è l’amore di una madre: saper capire cosa vogliono i figli e cosa è giusto per loro, senza interferire. Il senso del mio percorso, in fondo, è questo».

Il titolo iridato vale anche come pass olimpico per i Giochi di Parigi 2024?

«La Federazione mondiale del pugilato e il Comitato olimpico internazionale sono in conflitto: al Cio non piace la gestione dell’Iba e le ha tolto l’autorità di decidere il programma olimpico della boxe, affidandolo a una commissione esterna. Morale: in teoria l’oro mondiale dovrebbe valere come qualificazione all’Olimpiade ma in assenza di certezze a giugno dovrò fare i Giochi europei».

Per i tempi dello sport, sono dietro l’angolo.

«Infatti spazio per le vacanze non ce n’è. Torno dall’India, vado ad Assisi a recuperare il mio cagnolino, poi scendo a Napoli dove, a furia di pranzi e cene da mamma e nonna, rischio ogni volta di prendere 4-5 chili. Poi di nuovo sotto con gli allenamenti».

Da bambina, a Torre Annunziata, si ricorda che sogni aveva?

«Non avevo né sogni né grandi ambizioni e nemmeno poster di idoli appesi in cameretta. Sono entrata in palestra a 12 anni: da quel momento l’obiettivo è stato diventare una pugile professionista e mantenermi con il mio sport. Non ero una studentessa modello, pochissime femmine continuano gli studi a Torre Annunziata: molte si fermano alle medie, quando hanno già un fidanzatino che poi sposeranno e con cui faranno subito figli, sperando che lui non finisca arrestato. Sembra un film, invece è tutto vero».

Un punto di riferimento, da grande, è diventata Frida Kahlo.

«Una donna che ammiro incondizionatamente: Frida ebbe un incidente, soffrì pene indicibili ma non ha mai smesso di dipingere. Una donna pittrice, in Messico, all’inizio del secolo scorso: se non si è arresa lei, perché dovrei mollare io? La penso spesso prima di un incontro».

Cosa farà con i 100 mila euro del premio, Irma? Conferma che comprerà casa ai suoi?

«Ma io non l’ho mai detto! Magari compro casa per me, ad Assisi, dove sono in affitto e dove mi vedo ancora molti anni. E mo’ a mamma chi lo dice...?».

Senza che la domanda suoni pruriginosa: c’è un amore?

«No, un amore non c’è. Non c’è nemmeno un’esigenza: se arriva, arriva. Non me ne priverei. Certo bisognerebbe trovare l’equilibrio tra preparazione olimpica, di cui dopo due edizioni dei Giochi conosco a memoria le dinamiche, e relazione. L’amore è imprevedibile: tocca il cuore come nessun allenamento, per quanto estenuante, può fare. L’amore vero non è morboso né tossico: deve aggiungere, non togliere».

Questo oro è dedicato a lei, quindi.

«A me e a Emanuele Renzini, direttore tecnico della Nazionale di pugilato, che in dieci anni di lavoro ad Assisi ha saputo trasformare una bambina in una donna».

E il primo maestro Zurlo, 85 anni ben portati, l’ha sentito?

«Non ci parliamo spesso ma sappiamo che ci siamo sempre l’uno per l’altra. Ho provato a chiamarlo da Nuova Delhi, non ha risposto. Ho scritto al figlio: papà non sente il telefono, ma ha pianto per te davanti alla tv».

I Ricordi.

Il ranking Atp.

Jannik Sinner.

Matteo Berrettini.

Sara Ventura.

Wimbledon.

Roland Garros.

Roger Federer.

Corrado Barazzutti.

Adriano Panatta.

Novak Djokovic.

Yannick Noah.

René Lacoste.

Nicola Pietrangeli.

Lea Pericoli.

Fred Perry.

Martina Navratilova.

Camila Giorgi.

Boris Becker.

I Ricordi.

Ugo Magri per “la Stampa” - Estratti martedì 28 novembre 2023.

Dare buca al presidente della Repubblica non è il massimo dell'etichetta, qualunque ne sia la motivazione. 

Può insinuare il dubbio che si snobbi l'appuntamento perché, come nel caso dei nostri tennisti, sono stati già prenotati i voli per le vacanze. Di sicuro, con un briciolo di attenzione in più, il disguido col Quirinale poteva essere evitato. Però va detto che sul Colle nessuno l'ha preso come uno sgarbo, tantomeno se l'è legata al dito. Per Sergio Mattarella, assicurano i più stretti collaboratori, una data o l'altra fa pochissima differenza; non era stato lui a proporre il 21 dicembre prossimo; l'iniziativa a quanto pare era partita dal Coni evidentemente senza aver svolto le necessarie verifiche sugli impegni di Jannik Sinner e degli altri atleti. Il presidente si era limitato a dare la propria disponibilità.

Nell'ottica di Mattarella, insomma, se non sarà possibile vedersi nel giorno che gli avevano inizialmente indicato andrà comunque bene gennaio, subito dopo gli Australian Open come suggerisce il presidente della Federtennis, Angelo Binaghi. Al capo dello Stato interessa fare le proprie congratulazioni ai vincitori della Coppa Davis, esprimere loro la gratitudine dell'intero Paese ed è la ragione per cui aveva espresso il desiderio di incontrarli. Li accoglierà a braccia aperte «in qualunque giorno» Sinner e compagni saranno disponibili, «a partire da oggi» chiarisce una nota ufficiale molto signorile nei toni.

Nell'ottica di Mattarella l'incidente è chiuso, anzi non è mai nato. Del resto l'agenda presidenziale è già piuttosto fitta di appuntamenti con il mondo sportivo. Domani mattina verrà ricevuta al Quirinale la Nazionale di Atletica leggera, fresca vincitrice della Coppa Europa, e quella di Pentathlon moderno, che ha trionfato nel Mondiale a squadre.  

(…)

Da ilnapolista.it il 26 giugno 2023.

Nei suoi 14 anni di carriera come giudice di sedia Andrew Jarrett ha arbitrato in tutti i grandi tornei di tennis, Wimbledon incluso. Nel suo libro “Championship Points” offre uno sguardo divertente dietro le quinte del Tour. Il Telegraph ne ha pubblicato un estratto, nel quale racconta anche un episodio singolare accaduto a Pechino al collega Cedric Mourier, in un march tra Fabio Fognini e Viktor Troicki. 

“Era una partita ad alto rischio perché Troicki era incline a occasionali problemi disciplinari. Ma nulla avrebbe potuto preparare Cedric a quando Fognini si lamenta letteralmente di un… “campo di merda”. Quando ha guardato dall’altra parte c’erano dei cumuli sospetti nell’angolo e il giocatore aveva notato l’odore. Cedric ha chiamato i servizi per fare un po’ di pulizia. 

Quando sono arrivati lì, però, il nostro proattivo arbitro Atp aveva preso un asciugamano, fatto un po’ di pulizia e risolto lui stesso il problema del pezzo di cacca. Il supervisor dell’Atp Thomas Karlberg aveva pensato che fosse cacca di uccello ma no: è emerso che un raccattapalle non si era sentito bene con mal di pancia, e l’aveva fatta sul campo“. 

Jarrett ragiona sulle infinite perdite di tempo del tennis. Scrive: “John McEnroe sembrava avere problemi ad allacciarsi i lacci delle scarpe, dal momento che si slacciavano ogni volta che aveva bisogno di rallentare le cose. Novak Djokovic faceva rimbalzre la palla un numero sorprendente di volte. Rafa Nadal giocava e si agitava. E qualsiasi giocatore si asciugherebbe anche dopo aver centrato un ace! Una volta Wimbledon iniziava alle 14 ogni giorno, si giocavano quattro partite su ogni campo e finivano. Per anni abbiamo iniziato alle 11:30 e alla fine sono diventate le 11 dopo un decennio di pressioni da parte mia e di altri. Anche con questo inizio anticipato, non sempre si completano prima che cali l’oscurità. In passato, i giocatori non si sedevano nemmeno al cambio di campo, ma si fermavano solo brevemente per un rapido passaggio di asciugamano o un sorso di bevanda. Ora ogni scusa è buona per rallentare le cose“. 

“Se potessi fare a modo mio, non avremmo affatto i time-out medici. Se un giocatore non è in grado di giocare, dovrebbe stringere la mano, ritirarsi e andarsene. Forse come concessione potrei dire che se un allenatore o il fisio entra in campo, dovrebbe comportare una qualche forma di penalità di punteggio: forse un punto o un game. Lo stesso dovrebbe valere per le pause bagno. Ciò consentirebbe le emergenze ma spegnerebbe le pantomime”. 

Un altro argomento di discussione sono i “grugniti” dei giocatori quando colpiscono. “Non puoi aspettarti silenzio in campo quando uno si spacca le viscere per colpire una pallina da tennis a tutta forza. Quindi quando diventa un problema? Risposta: quando è fatto deliberatamente per scoraggiare l’avversario. Questo deve stare nel giudizio dell’arbitro di sedia.

Abbiamo avuto tabloid che chiedevano “gruntometers” solo perché una Sharapova o un’Azarenka sono rumorose. Il problema è che anche Nadal è rumoroso ma ha un tono più basso e quindi è meno evidente. Se usi la tecnologia per misurare il rumore, finisci come un vigile urbano che penalizza le persone che vanno a 33 miglia all’ora in una zona di 30 miglia all’ora. Immagina che al match point in una finale del Grande Slam!”

Poi Jarrett parla dei singoli. Di Roger Federer che “giocava probabilmente il tennis più bello da guardare di tutti i tempi. Poi è andava alle conferenze stampa, sembrava immacolato e parlava in tre lingue diverse. Apparentemente, era anche il modello per il padre moderno, compreso il cambio dei pannolini. Spero che abbia schiacciato una mosca almeno una volta nella vita perché altrimenti sarebbe perfetto!”. 

O di Camila Giorgi, “l’italiana che ha un padre con i capelli selvaggi che lo fanno sembrare un professore uscito da un laboratorio di scienze. Fanno una combinazione colorata insieme e mi è sempre piaciuto avere a che fare con loro. Si agita a lato del campo e non può impedirsi di allenare un po’, non necessariamente con la sua approvazione. A Birmingham un giorno le ha offerto consigli sul lancio della palla a metà partita. Camila si è arrabbiata con lui, ha fatto un doppio fallo apposta e poi ha ricambiato lo sguardo”.

Ovviamente Nick Kygrios: “Era stato curato lontano da occhi indiscreti durante un timeout medico fuori dal campo agli US Open, quando si è rivolto al supervisor e ha chiesto: “Qual è il punteggio, amico?”, “Sei un set sopra e in vantaggio per 4-3 nel secondo”. “È con un break o no?“, ha chiesto ancora. “Scusa amico, non sono molto interessato a questa partita…”. 

Ultimo aneddoto dell’estratto, sull’abbigliamento bianco di Wimbledon: “Una volta un giocatore, un maschio, è entrato in ufficio per chiedere della biancheria intima bianca per rispettare le regole. Nessuno ha trovato niente della sua taglia, quindi gli è stato dato un paio di mutande enormi da donna tipo Bridget Jones. È andato via per provarle ed è tornato dicendo: “Sì, stanno bene”. Il giorno successivo era in programma al Centre Court. Ha giocato sul campo Centrale di Wimbledon indossando biancheria intima da donna e non se ne è reso conto“. 

Il ranking Atp.

Tennis, come funziona il ranking Atp: ecco le regole per stilare la classifica. La classifica viene stilata sui risultati ottenuti nelle ultime 52 settimane: i punti ottenuti in un torneo hanno validità per quel determinato lasso di tempo. Ecco come si calcola il saldo. Antonio Prisco il 4 Ottobre 2023 su Il Giornale. 

Tabella dei contenuti

 L'evoluzione negli anni

 Le nuove regole

 Come si calcola il ranking

 Cos'è l'Atp Race

Diventare numero uno del ranking Atp è il sogno di ogni tennista professionista. Con l'impresa a Pechino Jannik Sinner è entrato nella storia del tennis italiano, diventando l'unico azzurro insieme ad Adriano Panatta a raggiungere la posizione numero 4 dall'Era Open. Ma come viene stilata la classifica torneo dopo torneo? Quanti punti assegna ogni vittoria? Proviamo a scoprire tutto, andando con ordine. D'altronde chi è che non dà uno sguardo alla classifica ogni lunedì della settimana?

L'evoluzione negli anni

La prima classifica fu pubblicata dall'Atp, il 23 agosto 1973 e riguardava esclusivamente il singolare. I criteri per l'assegnazione dei punti si basavano sulla media dei risultati del tennista. Si calcolava dividendo i punti totali accumulati nelle 52 settimane per il numero di tornei giocati, abbassando il divisore per favorire chi giocava il maggior numero di tornei. Furono quindi introdotti dei punti supplementari per le vittorie ottenute contro giocatori con una classifica migliore. Dal 1990 furono presi in considerazione i risultati di 14 tornei, nel 2000 i tornei in esame diventarono 18, mentre nel 2021 diventarono 19, ai quali per il singolare furono aggiunte le Atp Finals, il sistema attualmente in vigore.

Le nuove regole

Dal 2009 c’è stata una nuova classificazione dei tornei. Ci sono le quattro prove del Grande Slam, i 4 tornei principali (Australian Open, Roland Garros, Wimbledon, Us Open), a seguire i 9 Master 1000, 11 gli Atp 500, 40 gli Atp 250, e infine i Challenger e i Futures che possiedono una sotto-distinzione a seconda del montepremi offerto.

Come è possibile vedere dalla tabella ogni torneo attribuisce diversi punti in base al risultato ottenuto. Ora il ranking Atp viene stilato sui risultati ottenuti nelle ultime 52 settimane: i punti ottenuti in un torneo hanno validità per quel determinato lasso di tempo, al termine del quale vengono scartati ed eventualmente sostituiti dai nuovi punti guadagnati. 

Ora i punti sono calcolati su 18 tornei (19 per chi raggiunge le Atp finals). I punti delle Atp Finals vengono tolti prima dell’evento di fine anno della stagione successiva. Il ranking è aggiornato circa 45 volte a stagione; ogni lunedì dell’anno. Siccome gli Slam e i Masters 1000 di Indian Wells e Miami durano invece 14 giorni, in alcuni momenti il calcolo slitta di due settimane.

Come si calcola il ranking

I punti guadagnati da un giocatore rimangono in carica fino a quando si gioca lo stesso torneo nella stagione successiva. Per dirla in termini più chiari: il risultato che viene raggiunto a Wimbledon nel 2023 non si esaurisce con la fine dell’anno solare ma rimarrà in vigore fino a Wimbledon 2024. A quel punto, i punti guadagnati possono essere riconfermati nella stessa quantità oppure sottratti.

Se si proviene da una vittoria in finale, il defending champion, a meno di non vincere di nuovo, non potrà che perdere punti rispetto al tesoretto conquistato. Il saldo tra le due stagioni può quindi essere negativo o positivo. Un giocatore può anche trarre vantaggio dal fatto che durante un torneo dell’anno precedente si è fermato alla semifinale (meno punti) e in quello successivo invece riesce a conquistare la finale (più punti).

Un esempio: un giocatore che nel 2023 ha vinto gli Australian Open ha conquistato 2000 punti. Questi vengono tolti al giocatore l’anno dopo. Ora se riesce a ripetersi il saldo sarà 0 e quindi manterrà tutti i punti che aveva in precedenza, se non va oltre le semifinali conquisterà 720 punti e il suo saldo sarà negativo di 1280 punti.

I top 30 della classifica hanno degli obblighi. La composizione dei 18 tornei dovrà essere la seguente: 4 tornei del Grand Slam, 8 tornei Masters 1000, 4 tornei Atp 500 e 2 tornei Atp 250. Il torneo di Montecarlo, che è l’unico 1000 a non essere obbligatorio, può prendere il posto di un torneo 500. Un top 30 che salta uno Slam o un Masters 1000 non può rimpiazzare il punteggio con un 500 o un 250.

Cos'è l'Atp Race

Introdotta dal 1° gennaio 2000. Si tratta della classifica per stabilire gli otto tennisti che si prenderanno parte alle Atp Finals alla fine della stagione, evento che si disputerà a Torino. Tutti i tennisti partono con 0 punti ogni anno, e alla fine della stagione gli atleti con i punteggi migliori hanno accesso alle torneo. I punti vengono assegnati esattamente con lo stesso criterio del ranking, con la differenza che, essendo una classifica azzerata ogni stagione, non vi sono punti da difendere.

Il giocatore che chiude la stagione regolare dopo la Masters Cup con più punti nella Race viene premiato ufficialmente durante il Masters di fine anno con il trofeo di Atp Race Champion. Il vincitore della Atp Champions Race è il campione del mondo della stagione tennistica Atp, poiché chiude in prima posizione la corsa al numero uno mondiale Atp dunque numero 1 del mondo a fine stagione. Dal 2021 la sede delle Finals è Torino e la classifica che porta a questo torneo viene chiamata Atp Race to Turin.

Jannik Sinner.

Jannik Sinner, il tesoro: quanti milioni ha incassato solo nel 2023. Libero Quotidiano l'01 dicembre 2023

Nel 2023 Jannik Sinner ha incassato 7,3 milioni di euro solo grazie ai premi delle vittorie in stagione. È questo il budget dell’altoatesino dopo aver raggiunto il quarto posto della classifica Atp e aver giocato 7 finali: l’ultima contro contro Djokovic nelle Atp Finals. Ma il 22enne di Sesto ha battuto anche diversi record nazionali, tra cui quello del maggior numero di vittorie (64) nel Tour Atp. E si è preso con la Nazionale la vittoria in Coppa Davis, rompendo un digiuno azzurro che durava da 47 anni, ovvero dal 1976 quando in campo c’erano Adriano Panatta e Paolo Bertolucci, con Nicola Pietrangeli capitano.

Sinner, momento d’oro: il budget complessivo arriva fino a 150 milioni di euro

Insomma, per Sinner è un momento d’oro. La visita a San Siro martedì per guardare il suo Milan (caduto 3-1 contro il Dortmund), l’amore della fidanzata — la modella Maria Braccini — e i grandi guadagni. Il sogno ora è quello di vincere nel 2024 il primo Slam della carriera. Intanto Sinner si gode un po’ di riposo e il portafogli. I guadagni nel 2023 sono infatti arrivati a 30 milioni di euro, se si considerano tutti gli incassi derivati anche dagli sponsor. Non solo: grazie all'accordo che Sinner ha con la Nike per i prossimi 10 anni, l'azzurro in previsione riceverà 150 milioni di euro. Cifre pazzesche per un ragazzo che ha soltanto 22 anni e che sta facendo innamorare tutti (anche i meno amanti del tennis) a suon di colpi.

Coppa Davis, Sinner è il campione che aspettavamo. Quante volte ci siamo illusi in questi 47 anni. Marco Imarisio su Il Corriere della Sera domenica 26 novembre 2023.

Praga 1980, Forum di Assago 1998: abbiano sofferto la serie B e la serie C, tutti alzavano l'insalatiera tranne noi: poi è arrivato Sinner, che ha creato un movimento. Ed è scattato il nostro momento

Come fosse ieri. Nei ricordi di bambino, i ghigni cattivi di Tomas Smid e Ivan Lendl che rendevano vano l’ultimo ballo della Squadra, Adriano, Paolo, Corrado e Tonino, erano l’immagine del Male che vince. Praga, 1980. Quante lacrime, quella sera, per un furto quasi legalizzato, con papà che scuoteva la testa, arrabbiato nero con quei giudici di linea che sembravano burocrati del furto. Arrivederci ragazzi, anche se era chiaro a tutti che il vostro era un addio. Ma per chi ama lo sport ci deve essere per forza sempre un domani capace di lenire il dolore di una sconfitta che sconfinava nell’ingiustizia. Ancora non sapevamo che per noi malati di tennis, sarebbe stata una lunga traversata nel deserto. L’abbiamo percorsa con dignità, tifando per Francesco Cancellotti, per Omar Camporese, per Cristiano Caratti, per chiunque potesse riportare il nome del nostro Paese agli onori dello sport che tanto amiamo. Abbiamo avuto momenti di sconforto, chi si ricorda dei crampi che aggredirono Stefano Pescosolido nell’ostile Maceio, che fu la nostra Corea, correva l’anno 1992?

Eravamo sugli spalti del Forum di Assago nel dicembre del 1998, quando Andrea Gaudenzi sacrificò la sua carriera dilaniandosi il tendine della spalla al culmine di una improbabile e sfortunata rimonta contro la Svezia di Magnus Norman . Ma anche quella finale non fu una rinascita, quanto piuttosto un miracolo, raggiunto da un’altra Squadra, meno talentuosa e più sfortunata, che aveva dato l’anima per arrivare fino all’ultimo atto. Non siamo mai andati via. Abbiamo sofferto la serie B e la serie C della Coppa Davis, abbiamo vissuto con ammirazione l’era di Pete Sampras, poi l’epoca incerta che sembrava appartenesse a chiunque, argentini, australiani, tutti tranne uno dei nostri. Ci siamo divisi e ancora lo facciamo su chi fosse il più grande dell’età dell’oro, Federer, Nadal o Djokovic, il dibattito rimarrà aperto per sempre. Sei anni fa abbiamo alzato il sopracciglio quando qualcuno ci disse che c’era un ragazzo altoatesino che giocava «veramente» bene, calma ragazzi, quante volte ci siamo illusi per poi svegliarci alla casella di partenza. Per fare un movimento, ci vuole un campione capace di trascinare tutti gli altri. Non solo un ottimo giocatore, come lo sono stati Andreas Seppi e Fabio Fognini, tutti pionieri che oggi vale la pena di citare, di ringraziare.

L’orda svedese degli anni Ottanta, la mareggiata spagnola del nuovo secolo, sono sempre state guidate da un capobranco. Infine, è arrivato. Oggi, mentre quell’ex ragazzo rosso di capelli demoliva Alex De Minaur, uno che costeggia i primi dieci del mondo, mica il primo che passa, ulteriore prova del raggiungimento di una dimensione alla quale appartengono oggi al massimo altri due giocatori, il succitato Djokovic e Carlos Alcaraz, ci è venuta in mente quella scena di Breaking Bad nella quale l’ormai onnipotente protagonista intima al capo della banda rivale di riconoscerlo, pronunciando il suo nome a voce alta. «Say my name». Senza di lui, non ci sarebbe il tenace Matteo Arnaldi, che dal suo esempio contro Djokovic ha imparato come vincere una partita che sembrava persa, non ci sarà Lorenzo Musetti quando deciderà di avere una testa adeguata al suo talento, e non ci potrebbe essere neppure il ritorno di Matteo Berrettini, che tanto auspichiamo.

Abbiamo il Campione, quello che incute timore agli altri, ne è ultima testimonianza lo sguardo perso di De Minaur, che sulla combattività ci ha costruito una carriera. Nel momento in cui il tennis diventa finalmente lo sport di tutti, è giusto ricordare chi ci ha fatto compagnia durante questo viaggio faticoso durato 47 anni, tanto è il tempo che ci separa dall’ultima vittoria in Coppa Davis. Ma è sacrosanto aggiungere che nulla sarebbe possibile senza di lui. Non chiamatelo predestinato, perché gli fate un torto. È titolare senz’altro di alcune doti innate, quel tempo sulla palla frutto di una coordinazione occhio-corpo-mano non si insegna. Ma è anche il prototipo di un italiano diverso, che parla poco e lavora tanto, che crede in quello che fa ogni giorno. Ora sta raccogliendo i frutti della sua fatica. E noi con lui, finalmente, dopo tutti questi anni. Jannik Sinner. Questo è il suo nome.

Adriano Panatta, Coppa Davis: «Felice per Sinner, è vicino a Djokovic». Gaia Piccardi, inviata a Malaga su Il Corriere della Sera il 27 novembre 2023.

L’uomo de 1976: «Questa non è la mia Davis, io la chiamo Coppa Lucilla, la formula è sbagliata. Mai potrei provare invidia per Jannik»

L’uomo del ‘76 tira un altro sospiro di sollievo. Dopo Jannik Sinner n.4 del ranking, eguagliando la sua classifica del 24 agosto di 47 anni fa, crolla anche il baluardo della Davis. Rimane la primogenitura, sfuma l’unicità. Sono due, ora, le Coppe della nostra storia, caro Panatta.

Adriano, la vita va avanti.

«Per fortuna! Adesso mancano Roma e Parigi e poi siamo a posto. A me fa solo piacere, non conosco la parola invidia. Mi odierei da solo se avessi un sentimento di gelosia nei confronti di questi ragazzi. Io ho fatto quello che dovevo fare quasi cinquant’anni fa, adesso tocca ai giovani, come è giusto che sia. Ma ti pare che non dovrei essere contento? Sono felice».

Non è più la Davis del ‘76, però, va detto.

«Beh certo, noi siamo andati in Corea, in India, sull’erba di Wimbledon, in Cile. Ovunque. E non sempre su superfici gradite, come il veloce indoor, né in sede neutra, come Malaga. Purtroppo abbiamo giocato quattro finali all’estero: in casa ne avremmo vinte due, forse tre».

Però, avanti così, Sinner le toglierà tutti i primati.

«Ma ben venga! E non venitemi a dire, quando vincerà Roma e Parigi, che non ci è riuscito nello stesso anno... Ma dai, io sto morendo e lui sta nascendo: è bravissimo, educato, in campo sta in modo eccezionale, lotta su ogni palla, è un esempio. Ma che gli vuoi dire a Sinner?».

Insieme alla Coppa, abbiamo trovato un campione.

«Jannik ormai è arrivato a un millimetro da Djokovic, oggi giocano alla pari. Annullare tre match point è un’impresa nell’impresa, la prossima volta Jannik partirà con un vantaggio: il serbo lo teme. La prima palla match in semifinale l’ha sbagliata per mancanza di coraggio: lì devi entrare sulla seconda di Jannik, sei Djokovic! Invece è rimasto indietro ad aspettare l’errore. E mal gliene incolse. È molto significativo questo dettaglio».

Abbiamo risolto anche il problema del doppio?

«Il doppio è un gioco strano, lo puoi interpretare da singolarista, detto che Kecmanovic è un bravo geometra, senza un minimo di sensibilità per la specialità. Ma anche Djokovic in doppio sabato era un pesce fuor d’acqua».

Dall’Olanda alla Serbia, Jannik ha dimostrato di apprendere anche le dinamiche del doppio: gli incroci, la rete.

«Perché è intelligente. Ha usato le sue armi, servizio e dritto, tirando bordate terrificanti, ma ha anche sperimentato cose nuove a rete, specialità che frequenta poco».

Due Davis dell’Italia dal 1900 al 2023 non sono tante.

«Io quella di oggi non la chiamo Davis: nelle telefonate scherzose con Paolo Bertolucci, l’amico di una vita, la chiamo Coppa Lucilla. Passatemi la battuta: è troppo diversa dalla mia Davis, senza nulla togliere all’impresa di Malaga. Ho detto a Paolo che avrei preferito giocare il doppio insieme a Sinner anziché a Bombolo, e si è offeso...».

Sappiamo che non ha tenuto cimeli: nemmeno la replica della Davis del ‘76?

«Ma non ci diedero nulla, forse una cosetta piccola piccola, alta sì e no 10 centimetri... No, non credo di averla più: negli anni si è persa in qualche trasloco».

Nell’era dei social e dei media, il trionfo di Malaga ha il risalto che voi, rientrati dal Cile nell’indifferenza generale, non aveste.

«È vero, però è cambiato tutto. Il contesto sociale nel quale partimmo per il Cile di Pinochet, scortati dalla polizia, era molto particolare. Era tutto diverso: la politica, la società, il sistema di comunicazione. La Rai non venne a Santiago, i match non furono trasmessi in diretta, c’era solo Mario Giobbe che faceva la radio: i brandelli di video finiti dentro Una Squadra, il docu-film di Procacci, li realizzò un amatore. Mi aveva regalato una pizza del girato, chissà dove l’ho messa...».

Sinner è la rivoluzione del tennis italiano?

«Sì, certo, è la svolta. Con Jannik stiamo a posto per dieci anni. E non credo che riescano nemmeno a rovinarlo: l’ho conosciuto alle Atp Finals e mi è parso così posato, quadrato, maturo. Mi ha dato subito del tu e mi ha fatto piacere: forse vuol dire che non mi vede così vecchio...».

Jannik Sinner: la famiglia, il gossip sulla nuova fidanzata Laura Margesin e gli sci a tre anni. Silvia M. C. Senette su Il Corriere della Sera venerdì 17 novembre 2023.

Il papà cuoco, la mamma premurosa e il fratello portafortuna. Gli affetti di Sinner che avrebbe una nuova fidanzata: la modella Laura Margesin

Con un palmarès che fa tremare i primati di Adriano Panatta - un Masters 1000, tre ATP 500 e sei ATP 250 - Jannik Sinner è entrato di diritto nell'Olimpo del tennis italiano e le sue ultime performance in campo stanno facendo sognare i tifosi dell'intero pianeta, che assistono increduli al crollo del mito indiscusso di Re Djokovic. Ma chi è il ragazzino di cui tutto il mondo parla?

Gli anni a San Candido e lo sci

Nato a San Candido, paesino di 1.900 abitanti dell'Alta Val Pusteria, il 16 agosto 2001, Jannik Sinner mostra fin dalla primissima infanzia il suo indiscusso talento per lo sport. Per qualsiasi sport. Calzati i primi sci a tre anni, a sette vince il Gran Premio Giovanissimi nello slalom. A tre anni e mezzo imbraccia la sua prima racchetta da tennis. «Portamelo fuori casa perché me la sta distruggendo», chiede mamma Siglinde all'amico di famiglia Andreas Schönegger, per Sinner semplicemente "Ando": «Giocava con la racchetta del papà facendo rimbalzare la pallina su specchi, porte, finestre», racconta ora l'istruttore di sci e tennis a San Candido, primo vero maestro del campione altoatesino. Ha inizio la cavalcata dell' "scricciolo" destinato a scalare il ranking dei big mondiali. 

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Gli inizi e i successi

A 13 anni lascia l'Alto Adige per inseguire il sogno del tennis a Bordighera; nel 2015, a soli 14 anni, Jannik fa il suo debutto nel circuito professionistico juniores, nel gennaio 2018 debutta in pro e l'anno successivo è già in 93° posizione: è il più giovane italiano a entrare fra i migliori cento tennisti del globo. Sarà anche il più giovane italiano a raggiungere i quarti al Roland Garros e, nel 2023, a incidere su pietra il suo nome nella storia del tennis: dalla semifinale a Wimbledon, al primo Master lo scorso agosto, primo all'Atp500 di Vienna sotto gli occhi di mamma e papà e, nelle Finals di Torino  la vittoria Novak Djokovic in tre set al cardiopalma.

La famiglia e gli sponsor

Il segreto di Jannik - acclamato dai suoi affezionatissimi "carota boys" - è la caparbietà e il sangue freddo. Doti di famiglia, nonché tratti tipicamente pusteresi. Se papà Hanspeter, cuoco ora in pensione e allenatore del Sexten calcio, lo segue come un'ombra fin dai primi palleggi, mamma Siglinde, che conduce la pensione di famiglia a Sesto Pusteria, preferisce tenersi a debita distanza dai campi da tennis: «Quando gioca non riesco a guardare, sto male - ammette -. Soffro. Preferisco uscire, fare i miei giri». Ma il suo angelo custode e portafortuna è il fratello Mark:  «Quando sono in difficoltà mi rivolgo a lui, mi conosce e ha sempre la parola giusta». Pacato e riservato, Jannik è un perfezionista: «Mi chiedo sempre se ho lavorato abbastanza».

A seguirlo, oggi, sono i due coach Simone Vagnozzi e Darren Cahill, un preparatore atletico e un fisioterapista. Da qualche tempo, anche il mental coach Riccardo Ceccarelli che in passato ha seguito Ayrton Senna, Verstappen e Leclerc. Il mito di Sinner non poteva non attirare i brand del lusso di cui oggi è testimonial: Gucci, Rolex, Nike, Lavazza e Intesa San Paolo, un giro d'affari stimato in oltre 20 milioni. Jannik, però, resta con i piedi ben piantati a terra anche ora che a Palm Springs si allena nel club di Bill Gates. Orientato al baso profilo - «Quando viveva a Bordighera iniziava a guadagnare bene ma non prendeva mai il Frecciarossa: "Costa troppo", diceva», racconta il primo maestro Schönegger - come unico sfizio si è concesso una Audi RS6 modificata ABT di cui esistono solo 200 pezzi.

La vita sentimentale

Tra match, allenamenti, viaggi, interviste e shooting per i suoi sponsor c'è poco spazio per le distrazioni. Se un paio di anni fa si era vociferato di una relazione con l'influencer Maria Braccini (pare scaricata per un post di troppo), negli ultimi giorni serpeggia l'ultimo gossip che lo vuole legato alla modella altoatesina Laura Margesin. Gli scatti - sorridenti e imbarazzati - pubblicati da un noto settimanale italiano rivelerebbero una frequentazione più che casuale con la splendida coetanea e conterranea di lingua tedesca, talmente discreta da concedere poco o nulla della sua vita persino ai social. Mora, un diploma all'istituto tecnico economico "Franz Kafka" di Merano e indossatrice sulle passerelle di mezzo mondo, quando può segue Jannik senza farsi notare, come è accaduto al Foro Italico per gli Internazionali di tennis.

Il romanzo di Jannik Sinner, il tennis scelto perché dura ore e quella lezione sul sorriso. Claudia Fusani su Il Riformista il 16 Novembre 2023

Se le partite di tennis avessero la parola, quelle di Jannik Sinner sarebbero romanzi di formazione. Il ragazzo dai capelli rossi sudtirolese della Val Pusteria la cui mamma si chiama Siglinde, il babbo Hanspeter e il fratello Mark (adottivo ma, come dice Jannik “per me è più di un fratello”) ama ragionare e spiegare cercando le parole giuste. Forse anche questo avrà a che fare con la sua confessata passione per il controllo. O forse avrà a che fare con il fatto che i grandi tennisti, da Rene Lacoste a Susanne Lenglen fino ai campioni di oggi, hanno spesso scelto di mettere su un foglio in bella copia pensieri, segreti, emozioni.

Quello che conta, senza dubbio, è come Jannik abbia imparato a variare il suo gioco, non solo da fondo campo – dove diventava prevedibile e quindi battibile – ma anche sotto rete, come stia costruendo un servizio killer (l’altra sera contro Djiokovic ha messo 15 ace e ha ottenuto il 79% di punti con la prima di servizio), come sappia leggere il match pagina dopo pagina, cioè situazione dopo situazione visto che una partita racconta tante storie diverse. A cui corrispondono giochi diversi.

Qui e oggi, però, dopo l’ubriacatura agonistica di martedì sera vogliamo provare a darvi un saggio di quel “romanzo” privato che Jannik sta scrivendo match dopo match. Quella che segue è una miscellanea del Jannik-pensiero distillato in varie conferenze stampa e interviste di questi suoi primi anni da top player.

“Una manche è troppo breve”

Il ragazzo si fa vedere al grande pubblico – gli appassionati già gli avevano messo gli occhi addosso – nel novembre 2019 alla Allianz Cloud Arena di Milano dove la federazione gli dà una wild card. Vince in finale battendo in tre mini-set Alex de Minaur, anche lui nella new age del tennis. Di quell’esordio restarono alcuni gesti: “Non riesco a capire dove va la sua testa, cosa vuol fare, non riesco a leggere le sue mosse” s’arrabbiava con coach Piatti collegato via cuffie nei cambi di campo. E alcune parole: “Da piccolo sciavo, ero forte (soprattuto in gigante, ndr) ma una manche sugli sci dura troppo poco. Ho scelto il tennis perché una partita dura ore. E a me piace capire cosa succede nella mia testa e in quella dell’avversario”. Aveva 18 anni appena compiuti.

Il ragazzo cresce in fretta, con alti e bassi come dice lui, “ma sempre cercando la parte miglior di me”. Martedì notte, dopo tre ore e 10 minuti di match contro il Dio Nole, 7 volte Maestro in questo torneo, 24 slam vinti, numero 1 del mondo per l’ottavo anno (non consecutivi) sorride al pubblico ancora sudato: “Il tennis è uno sport strano: stasera potevo perdere in due set, ho vinto in tre. A luglio a Wimbledon ho perso in tre set eppure mi sono sentito più vicino alla vittoria dell’anno prima quando su quello stesso campo ho perso in cinque set. Stasera sono stato fino in fondo consapevole che avrei potuto farcela”.

Campioni si diventa a piccoli passi perché essere predestinati aiuta ma non basta. “Costruzione” e “percorso” sono due tra le parole preferite di Jannik (che ha una curiosa proprietà di linguaggio per un madre lingua tedesco). “Quando perdo imparo e so che la settimana dopo ci posso riprovare. Noi tennisti siamo fortunati”. Essere a Torino tra gli otto Maestri, “fa parte di un processo e di un percorso. Quest’anno mi sono allenato anche durante i tornei. Ne ho saltati un paio per allenarmi mentalmente e fisicamente”. Quando gli fanno una domanda, prende tempo, cerca le parole con gli occhi e le mette insieme piano. Pensieri calmi. Come il suo gioco: preciso, controllato – che non vuol dire scontato – logico e lucido, in cerca di colpi di genio ma senza esagerare. Per ora almeno.

Imparare a sorridere

Dibattito aperto sulla timidezza o meno di Sinner. Ha a che fare anche con i sorrisi. Sempre troppo pochi quelli di Jannik. In un’intervista per il magazine “7” racconta che il suo coach, l’australiano Darren Cahill gli ha spiegato che “presto mi sarei reso di aver piacere nel giocare anche per il pubblico e i tifosi. Mi ha suggerito di portare qualche sorriso in più sul campo, quando faccio un bel colpo. Insomma mi devo godere anche un po’ gli obiettivi raggiunti”. Torino e le Finals erano un obiettivo all’inizio del 2023. “Quindi ora sono qui, felice, pronto a fare sempre meglio e a sorridere un po’”. Quanto ha sorriso Sinner martedì sera dopo quella maratona sul filo dei nervi conto il GOAT (greatest of all time). “Per me è un privilegio – ha detto – giocare qui con voi. Perché stasera abbiamo vinto insieme”. Poi magari è anche furbo e sa che il pubblico può essere il terzo giocatore in campo.

Sinner è un tattico. E gli piace. Non scappa e anzi sguazza in quella ragnatela di pensieri buoni e cattivi che può essere una partita di tennis. Sentite cosa ha detto ancora in campo, con la vittoria su Djokovic: “Nole mi ha fatto i complimenti per aver giocato bene i punti chiave. C’è stata un po’ di tensione quando ho perso il secondo set… ho servito cercando la velocità anzichè il piazzamento e ho sbagliato. Però stavolta dopo questo lungo su e giù, sono uscito meglio io di Nole”.

Sempre sulla tattica. Domenica 12 novembre, dopo la vittoria sul greco Tsitsipas: “Oggi in campo ho trovato il giusto equilibrio con il pubblico perché mi spingeva anche quando perdevo il punto e non solo quando lo vincevo. Occorre saper maneggiare situazioni come queste”. Saperle governare, senza farsi condizionare nel bene e nel male. Quanti pensieri da gestire in quel rettangolo che è un campo da tennis dove il giocatore sembra solo ma non lo è mai.

Tutto questo ha a che fare con il concetto di pressione e quindi responsabilità. Che Sinner ha molto chiaro. In una intervista esclusiva con Sky Sport dal titolo “Jannik, oltre il tennis” ha spiegato come adori giocare con la pressione. “Mi piace saper gestire la pressione. E però la mia pressione è nulla in confronto a quella di un chirurgo che deve operare o di un padre di famiglia che deve mantenere una famiglia. La pressione vera è non sapere se tra 4-5 ore ti entra un razzo in casa”. Prendere appunti. Grandi e piccoli.

Nella stessa intervista ringrazia la famiglia “semplice e normale” che gli ha insegnato fin da piccolo cosa è il rispetto. “Io rispetto tutti, sempre, e tutte le situazioni”. Sarà per questo che aspetta il match decisivo per arrivare in semifinale questa sera contro il ragazzino terribile Holger Rune con freddezza e curiosità. “Non ho mai vinto contro Holger. L’anno scorso a Sofia mi sono molto arrabbiato perché mi sono fatto fare il break nel terzo set. Quant’anno a Montecarlo, ha giocato un grande tennis. Quindi non vedo l’ora di poterci giocare di nuovo. Anche Medveded e Alcaraz non riuscivo a batterli. Spero in un bel match che è la cosa più importante”. Non un accenno al fatto che a Montecarlo Rune lo provocò come solo lui sa fare facendoli perdere lucidità. Sarebbe un pensiero negativo. Quindi, via, cancellato.

Umile ed educato

Il ragazzo è educato e umile ma rifiuta i paragoni col passato. “Gioco per me, perché mi piace e non per superare chi mi ha preceduto”. Sempre sul magazine del Corsera ha chiarito con eleganza (e sincerità) un altro punto delicatissimo: la pressione dei soldi e dei contratti. “Respingo il concetto di essere un’azienda. Il mio obiettivo non è fare soldi o il fatturato. A me piace alimentarmi bene, dormire le ore giuste, mangiare a casa ogni volta che posso, farmi trovare in campo la mattina pronto per migliorare. Il mio obiettivo è diventare la migliore versione possibile di me stesso. Faccio tutte le cose che mi permettono di avere più energie in campo. Credo che prima o poi questo atteggiamento qualcosa restituisca”. Ed è semplice: “Stare intorno ad un tavolo con gli amici a sparare cavolate. Dedizione al lavoro, programmazione, conoscenza di sé. E a Natale, “meglio una sciatina sulle nevi di casa che le Maldive”.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Strepitosa impresa di Sinner: batte Djokovic al tie-break. Lorenzo Grossi il 15 Novembre 2023 su Il Giornale.

Il secondo incontro del gruppo A del torneo tra i migliori otto del mondo finisce con un successo meraviglioso dell'azzurro: 7-5, 6(5)-7, 7-6(2) e prima imposizione dell'altoatesino contro il campionissimo

Uno straordinario Jannik Sinner ottiene per la prima volta nella sua carriera una vittoria contro il gigante Novak Djokovic. Loa fa al Pala Alpitour di Torino in occasione della seconda partita del gruppo A delle Atp Finals 2023 termina 7-5, 6(5)-7, 7-6(2) per il tennista italiano, che si avvicina così sensibilmente alla qualificazione per le semifinali del torneo tra i migliori otto del ranking. Arriva quindi il bis (a dir poco meraviglioso) dopo il successo al debutto contro Stefanos Tsitsipas - che si è ritirato anzitempo -, e giovedì potrà chiudere la pratica del girone contro il danese Holger Rune. Una nottata piemontese che dimostra nuovamente come il nostro connazionale possa competere oramai ampiamente alla pari (se non di più) anche contro il mostro sacro del tennis.

Il festival dell'ace caratterizza i primi tre game, che finiscono tutti a zero (2-1 per Djokovic). Il tennis vero comincia a vedersi nel quarto gioco: l'altoatesino concede due punti all'avversario in risposta, ma tiene il servizio. Lo stesso fa il numero 1 del mondo - a 15 - mentre l'azzurro deve sudarsi ai vantaggi il punto del 3 pari. Il nativo di San Candido ottiene la prima palla break, costringendo l'avversario a tornare indietro e mandare il dritto a metà rete, ma la spreca grazie alla prima al centro vincente del serbo, che poi si ripete con la volèe fintata di rovescio. I game proseguono abbastanza agevolmente per entrambi, almeno fino all'undicesimo: da 40-0, Djokovic si fa rimontare da un Sinner che cambia marcia spostandosi sul dritto, scaglia l'inside out e chiude con lo schiaffo al volo dall'altra parte. Poi, doppio fallo del pluricampione e rovescio incrociato a tutto braccio sulla riga dell'italiano, che strappa la battuta. Jannik serve alla grandissima per il match: game a zero, con il nastro che respinge il dritto in controbalzo di Nole, e primo set vinto.

L'avvio del secondo set è pressoché identico all'inizio del primo parziale. Sul 2-1, come spesso accade, Djokovic abbandona il campo per usufruire del toilet break. Sinner soffre il suo secondo servizio e va sotto 0-30, ma risolve tutto con un gran recupero che chiude il 2-2 con il dritto inside out e smash non banale siglato dal sudtirolese. Si vola abbastanza rapidamente sul 5-4, tra una classica sceneggiata e un'altra del tennista serbo che chiede sarcasticamente al pubblico di Torino di contestarlo dopo avere richiesto (inutilmente) un challenge. Sinner, con autorità l'azzurro tiene agevolmente la battuta; Novak questa volta non si fa fregare nell'undicesimo gioco e, anzi, crea parecchi grattacapi alle porte del tie-break. Qua il mini-break strappato dall'azzurro in apertura viene subito annullato dal serbo. Lo stesso copione si ripete poco dopo: sulla parità assoluta Jannik perde il controllo del dritto incrociato e regala il sorpasso avversario: al secondo set point, Djokovic non sbaglia e pareggia il conto dei parziali.

Si passa così all'atto conclusivo decisivo. I quattro game iniziali del terzo set scorrono via piuttosto rapidamente; poi, nel quinto, c'è tutto l'immenso Sinner con il suo repertorio: risposta di dritto sul serve and volley dell'avversario, grandissima risposta con il rovescio in allungo, risposta vincente di dritto stellare. È break. Peccato solo che nel gioco successivo arrivi l'immediato controbreak ai vantaggi al termine di scambio vissuto sulla diagonale di rovescio. Il numero 4 del mondo non si demoralizza e, anche dopo due ore e mezzo abbondanti di gioco, il livello resta altissimo: l'equilibrio totale regna sovrano. Si vola sul 5 pari dove, con un po' di sofferenza, Sinner tiene il servizio. Il tie-break, giustissimo epilogo di questo incontro, è assicurato e arriva puntualmente dopo il dodicesimo game vinto a zero da Djokovic. L'avvio azzurro è superlativo: doppio mini-break e 3-0. Il 5-0 arriva da lì a breve. Cinque match point sono sul piatto per lui: il primo scappa, ma il secondo termina alle spalle di Nole che, almeno per una notte, vede spodestarsi un regno che pareva inespugnabile. Il tabù Djokovic è infranto. Tifosi in visibilio a Torino: uno stratosferico futuro personale (e italiano) è tutto nelle mani di un 22enne chiamato Jannik Sinner.

Jannik Sinner: «Si cresce solo con la palestra. I calciatori scommettono per noia? Io non so cosa sia». Gaia Piccardi su Il Corriere della sera il 10 novembre 2023

Il nuovo potenziale numero uno del tennis mondiale: «Perché incontrare Djokovic agli ATP di Torino sarà diverso? Perché ti ritrovi davanti uno che ha vinto 24 Slam, tre su quattro solo quest’anno. A livello di risultati, il migliore che questo sport abbia mai avuto. Spero accada prima possibile: o vinco o imparo»

Bianco come il latte, rosso come il sangue, Jannik Sinner è la palla di neve rotolata giù dalle montagne e diventata valanga, il primo vero potenziale numero uno italiano del tennis mondiale (a 22 anni è salito fino al n.4) dai tempi di Adriano Panatta. I paragoni gli fanno storcere il naso («gioco per me, non per superare chi mi ha preceduto»), la storia della Davis ‘76 conquistata nel Cile di Pinochet con le magliette rosse l’ha orecchiata però essendo nato il 16 agosto 2001, leone, figlio della piccola borghesia altoatesina, Millennials moderno e pragmatico, guarda avanti, mai indietro: nello zaino solido talento, fredda ironia («ho l’abbronzatura del muratore...» sorride spogliandosi per le foto), lucidità assoluta. Nella distribuzione delle anime gli Dei del tennis ci hanno assegnato Sinner: è andata bene. Quell’angolino d’Italia di confine fin qui aveva prodotto atleti a proprio agio sottozero (più un controverso marciatore); lui ci è andato vicino, poi ha deviato verso un pendio meno scontato. La rivoluzione è cominciata in quel momento, rifiutandosi di accondiscendere a un destino che sembrava scritto per prenderne a pallate uno tutto suo.

Dopo i successi a Pechino e Vienna le Atp Finals l’aspettano come un messia, Jannik.

«Il sogno di chiunque. I migliori otto dell’anno, a Torino. Era il mio obiettivo di inizio stagione, l’ho centrato in anticipo. Sono contento: è la conferma di un lavoro che funziona e di una stagione stabilmente ad alto livello. Bisogna anche considerare con quanti tornei ci si qualifica per le Finals, con quali risultati...».

«NON SONO SOLO, LA STORIA DEL TENNIS ITALIANO LA STIAMO FACENDO DA ANNI: FOGNINI, POI È ARRIVATO BERRETTINI, POI IO»

Biglietti sold out da settimane. Perché piace tanto?

«Secondo me ci sono due cose da considerare. Io non sono solo, la storia del tennis italiano la stiamo facendo da anni: Fognini, poi è arrivato Berrettini, poi io; in questo modo quasi ogni settimana un italiano arriva in fondo a un torneo. I tifosi, abituati al calcio, hanno detto: okay, c’è anche il tennis, e sta crescendo! Di un secondo aspetto parlavo recentemente con il mio coach australiano, Darren Cahill: tu sei ancora giovane, mi diceva, però a un certo punto ti renderai conto di non giocare solo per te stesso ma anche per i tifosi».

Quasi un concetto di squadra, come in Davis.

«È una motivazione in più. La vita da globe-trotter non è semplice tra fusi orari, superfici, continenti. Giocare a Torino per me vuol dire tanto anche perché vivrò l’esperienza con il pubblico di casa. È una mentalità nuova, nella quale comincio a entrare. Mi piace quando la gente sale sul mio carro. Anche per questo ci tengo a far bene alle Finals».

«CERCO LA FORZA DOVE POSSO TROVARLA: SE QUEL GIORNO NON SENTO IL ROVESCIO, DEVO PESCARE ALTRE RISORSE. SERVIZIO, SLICE, DRITTO... UNA SPECIE DI CACCIA AL TESORO»

A Torino la sfida, sconfitti più volte Alcaraz e Medvedev, sarà battere Novak Djokovic. Perché il serbo è diverso?

«Perché ti ritrovi davanti uno che ha vinto 24 Slam, tre su quattro solo quest’anno. A livello di risultati, il migliore che questo sport abbia mai avuto. Io spero di incontrarlo prima possibile, già nel girone, sono le partite importanti per la crescita, quelle per cui dico: vinco o imparo. Djokovic mi dirà dove sono. Io mi ci sono sentito più vicino quest’anno in semifinale a Wimbledon, pur perdendo in tre set, che l’anno scorso nei quarti, quando avevamo lottato per cinque. Non vedo l’ora. Sono le partite per cui mi alleno tutti i giorni, quelle che mi caricano di pressione».

E la pressione non le pesa sulle spalle?

«Al contrario: adoro giocare sotto pressione».

È davvero un privilegio, come dice Billie Jean King?

«Sì, perché non è da tutti: è bello far parte del piccolo gruppo di giocatori che deve gestirla».

«MI MANCA FEDERER, MAGARI CI INCONTREREMO IN ESIBIZIONE. APPARTENGO A UN’ALTRA GENERAZIONE, PIÙ LIBERA PER STILI E CARATTERI IN CAMPO»

Il mitologico Roger Federer ormai ritirato: è un rimpianto non averlo mai sfidato?

«Ho avuto fortuna nella vita, però Federer mi manca. Lo accetto, fa parte del gioco. Le partite ufficiali non sono più possibili, magari nel futuro ci affronteremo in esibizione. Però non farei cambio: sono contento di essere un tennista di questo tempo, la nuova generazione offre stili, caratteri, personalità diverse».

Il suo primo sogno, da bambino in Alto Adige, è stato lo sci: l’idolo era Bode Miller, hippie americano anni luce lontano da lei.

«Quando sei giovane, la pensi in modo diverso. Non ero maturo: ero affascinato da questo tipo folle, lui estroverso e io timido (anche se quando conosco le persone, mi apro). Bode era diverso: stravinceva o si schiantava. E io sulla neve gli somigliavo: salivo sul podio o non arrivavo al traguardo. A 12-13 anni ho dovuto scegliere: ero vicecampione italiano di gigante (nello slalom ero negato), lo sci mi ha dato tante cose belle, a cominciare dalla capacità di gestire un vantaggio. Là secondi, nel tennis un break. A me questa sfida di amministrarmi da solo, decidere per me, esalta. Sono avanti un break? Okay, uso tutte le mie armi per tenermelo, e magari farne un altro. Quando sono stanco chiedo aiuto all’adrenalina, quando sono indietro nel punteggio c’è il tifo che mi spinge. Cerco la forza dove posso trovarla: se quel giorno non sento il rovescio, devo pescare altre risorse. Servizio, slice, dritto... Una specie di caccia al tesoro».

«IL TENNIS È PRIVILEGIO, LA PRESSIONE MI ESALTA. MA LA VERA PRESSIONE È MANTENERE UNA FAMIGLIA O NON SAPERE SE TI ENTRERÀ UN RAZZO IN CASA»

Ci conduce nella sua sfera di affetti?

«Ho una famiglia normale, nel senso che ognuno fa il suo lavoro. Il babbo si svegliava alle 7 di mattina, non si sapeva mai a che ora sarebbe tornato, faceva lo chef nel rifugio: il ristorante non ha orari. La mamma aiutava i nonni a pulire gli appartamenti, poi faceva la cameriera. Quando io tornavo da scuola, il miei non c’erano. Andavo dai nonni, Josef e Maria, a pranzo e a fare i compiti. Mark, mio fratello, è la persona più onesta e vera che io conosca. Quando sono in difficoltà, mi rivolgo a lui. E non ha importanza se non lo sento da giorni, magari parlo più con gli amici che con Mark, però lui mi conosce, e ha sempre la parola giusta. Abbiamo diviso la cameretta, siamo cresciuti insieme. Gli amici più cari sono quelli della scuola, non quelli che si avvicinano ora che sono un top player. A loro se vinco o perdo non gliene frega niente. Mi telefonano e la prima domanda è: come stai? È una cosa che mi tiene ancorato, che mi dà forza. Quando chiamo i miei, nemmeno rispondono se sono presi. Sto parlando di vita vera: la mia pressione è niente in confronto a quella di un chirurgo, di un capofamiglia che deve mettere in tavola la cena. Questa è pressione: non sapere si ti entra un razzo in casa tra cinque ore o cinque giorni. Giocare a tennis è una cosa di cui sentirsi onorati. Mi rende felice ma è giusto avere dubbi».

«HO PIANTO, DA SOLO, QUANDO È MORTO MIO NONNO. MI CHIEDO SEMPRE SE HO LAVORATO ABBASTANZA»

Che tipo di dubbi?

«Dopo l’allenamento mi chiedo: ho fatto abbastanza? Potevo sforzarmi di più? È il mio lavoro, ci tengo. C’è chi pensa di lavorare troppo, io penso sempre di non aver lavorato a sufficienza. La mia mentalità è questa. Anche quando arrivo a sera schiantato dalla stanchezza, mi interrogo».

Chiede tanto a se stesso, Jannik, ma sa perdonarsi?

«Ho i miei tempi, dipende. Con Alcaraz a New York, quando ho sprecato il match point, sono andato avanti a pensarci un po’. Ma non sono uno che si porta dietro le cose per giorni. Con Shelton a Shangai ho perso alle dieci di sera, c’era un volo per l’Europa all’una e mezza, ho detto: prendiamolo. In aereo già scherzavo con il team: pensa te, ho sbagliato il rovescio sul 4-3, era palla break... E ci siamo messi a ridere. Voglio capire, non voglio vivere di rimpianti».

«SPERO DI RIMANERE BAMBINO IL PIÙ A LUNGO POSSIBILE. LA FELICITÀ? LA SALUTE DEI MIEI. MIO FRATELLO MARK È IL MIO MIGLIOR AMICO»

Cosa la fa ridere?

«Il momento ideale è con i miei amici, intorno a un tavolo, sparando cavolate. Parliamo, parliamo, parliamo. E ridiamo. Sai quando a scuola tiravi le palline di carta con la cartuccia della biro? Facciamo queste cose qui, da bambini di cinque anni. A Sesto ci troviamo a casa di un amico per giocare a Activity. Mi piacciono le cose semplici. Sto bene così. Poi mi diverto anche con i go-kart, ma fare niente con gli amici è il mio passatempo preferito».

Cosa la fa piangere?

«Quando è mancato il nonno, a gennaio, ero in volo di ritorno dall’Australia. Sono atterrato a Milano alle 6, il nonno era morto alle 4. Ho trovato il mio babbo in aeroporto: è stato zitto ma ho visto subito che c’era qualcosa che non andava. Me l’ha detto per strada, e mi sono trattenuto. Questo non lo sanno nemmeno i miei genitori: poi, da solo, in cameretta, qualche lacrima è scesa. È normale».

«PER IL TENNIS SONO ANDATO VIA DI CASA A 13 ANNI. MI DÀ EMOZIONI POSITIVE E NEGATIVE, GIOIE E DOLORI. MI DÀ TUTTO. RESPINGO IL CONCETTO DI ESSERE UN’AZIENDA... IL MIO OBIETTIVO NON È FARE SOLDI: È DIVENTARE LA MIGLIORE VERSIONE DI ME POSSIBILE. NUMERO UNO DEL MONDO? BOH, VEDREMO»

Più che normale. Però tutto, anche il lutto, è subordinato al tennis.

«Per il tennis sono andato via di casa a 13 anni. Mi dà emozioni positive e negative, gioie e dolori. Mi dà tutto. Respingo il concetto di essere un’azienda: il mio pensiero non è il fatturato, non sono mai i soldi. Se lo fossero giocherei sempre, accetterei le esibizioni, non prenderei pause. A me al contrario interessa alimentarmi bene, dormire le ore giuste, mangiare a casa ogni volta che posso, farmi trovare in campo pronto la mattina dopo. Pronto a migliorare. Se non gioco il Master 1000 di Madrid o il girone di Davis, e capisco che i tifosi magari ci rimangono male, è perché sono a Montecarlo che mi spacco di lavoro. Il mio obiettivo non è fare soldi: è diventare la migliore versione di me possibile. Numero uno del mondo? Boh, vedremo. Magari n.4 è il mio limite. Desidero scoprirlo. E per farlo devo dire di no a qualcosa, sennò la stagione diventa interminabile. Quest’anno chiuderò con 22 tornei giocati: meno gare, più blocchi di lavoro. Dicono: Jannik è diventato più muscoloso. Eh, certo... Anziché andare in giro mi sono chiuso in palestra. Solo così si cresce, secondo me».

Montecarlo, ecco.

«È una scelta professionale, null’altro. A Montecarlo giochi all’aperto tutto l’anno, ci sono tutti i top player, i campi sono sempre a disposizione: sembra un Master 1000. Con chi giocherei in Italia? E io devo pensare ad allenarmi nel modo migliore, sennò non progredisco».

Essersi reso disponibile per giocare le finali di Davis a Malaga rabbonirà quella quota di tifosi delusi?

«Spero di sì. Però sia chiaro: se vedrò difetti nel mio tennis, farò sempre la scelta di migliorare me stesso. Se non sei al top, se scendi di rendimento del 3%, gli altri ti sbranano. Non mi piace commettere lo stesso errore due volte».

«LO SCANDALO SCOMMESSE NEL CALCIO? AMBIENTI DIVERSI. IO NEPPURE SO COSA SIA LA NOIA. E SE PROPRIO MI ANNOIO, MI COSTRINGO A PRENDERE IN MANO UN LIBRO»

In Italia è divampato lo scandalo delle scommesse nel calcio, da Fagioli a Tonali coinvolge giovani della sua età. L’abbiamo fatto per noia, dicono.

«Sono ambienti diversi, io quello del calcio non lo conosco. Ma nemmeno la noia so cosa sia. Questa è la vita che sognavo da bambino, la proteggo. E se proprio mi annoio, mi costringo a prendere in mano un libro: non voglio stare troppo sul cellulare. Ho in valigia La cena , un thriller: due coppie si ritrovano il 31 dicembre, e succede un casino. Vediamo se arrivo in fondo...».

Natale alle Maldive, come le celebrities ?

«Ma no. Sono sempre via, la regola base è: Natale con la famiglia, tra le montagne. Con sciatina già programmata la mattina del 25 dicembre».

A 22 anni, qual è il suo sogno di felicità, Jannik?

«La salute dei miei. E continuare a vivere la vita che piace a me, anche dopo lo sport. Ci penso: chissà cosa farò, poi? Di certo desidero occuparmi delle cose che posso controllare: la dedizione al lavoro, la programmazione, la mia testa, che mi sto impegnando a conoscere. Il resto, che vada come deve andare. Ma spero di rimanere bambino il più a lungo possibile perché solo i bambini, facendo cose semplici, sanno godersi il momento».

CHI È JANNIK SINNER

LA VITA - Nato a San Candido il 16 agosto 2001 e cresciuto a Sesto Pusteria, Jannik Sinner proviene da una famiglia di madrelingua tedesca: i genitori Siglinde e Hanspeter hanno lavorato presso un rifugio alpino in Val Fiscalina. Ha un fratello maggiore adottivo, nato in Russia, Mark

LA CARRIERA - A 4 anni comincia a praticare lo sci, ottenendo ottimi risultati a livello nazionale in slalom gigante. A 13 anni opta per il tennis (nella foto, Jannik bambino)

I TITOLI - È numero 4 della classifica ATP. A pari merito con Panatta, è l’italiano più titolato di sempre in singolare, con 10 titoli ATP vinti su tredici finali disputate, tra cui un Master 1000 e tre ATP 500

Stefano Semeraro per “la Stampa” - Estratti lunedì 30 ottobre 2023.

Dalla Cina all'Austria, da Pechino a Vienna, cambia la geografia ma la storia è la stessa: questo è un Sinner magistrale. Un campione assoluto, tosto, affidabile, quasi scientifico nella capacità di ripetersi. Tre settimane fa in Oriente aveva messo in fila Alcaraz e Medvedev, ieri si è ripetuto contro il russo, il numero tre del mondo, la sua ex bestia nera, e lo ha fatto alla fine di un match scorticante, giocato a ritmi folli, tre set (7-6 4-6 6-3) e oltre tre ore di gioco. 

Si è preso il quarto titolo dell'anno, il decimo in carriera - pareggiato il record azzurro nell'era Open di Panatta - confermando che vale il quarto posto al mondo, anzi, qualcosa di più. Il tutto a soli 22 anni. Per la gioia di mamma e papà che a Vienna hanno passato con lui tutta la settimana.

Jannik, che cosa le ha fatto cambiare marcia dopo gli Us Open?

«Mi sento sempre meglio, e paradossalmente anche quella sconfitta mi ha aiutato a crescere. A Pechino ho giocato meglio che un mese prima, e oggi meglio di un mese fa. Ma un mese è troppo poco per cambiare così tanto: questo è il frutto del lavoro che stiamo facendo da un anno e mezzo». 

(...) 

Il corpo e l'anima: quanto l'aiuta il lavoro fatto con Formula Medicine studiando in parallelo parametri mentali e fisiologici?

«Quello che fai fuori del campo conta, certo, sia mentalmente sia fisicamente. Sto ancora cercando di capire come funziona il mio cervello, credo di saperlo sempre meglio, ma qualche errore ancora lo faccio: del resto a 22 anni sarebbe strano il contrario, no? Ma se poi in campo non hai il coraggio di fare certe cose, conta poco. È lì che bisogna dimostrare di essere forti».

Intanto Medvedev, che era la sua bestia nera, ora la teme. La finale di ieri dove la mette nella classifica delle sue migliori? In fondo è stata quella della conferma ad altissimi livelli.

«Non so fare una classifica, ma è stata importante. A Pechino ho dimostrato che potevo batterlo (dopo 6 sconfitte, ndr) qui è stata una partita diversa. Lui si aspettava che facessi certe cose, io me ne sono accorto, e ho cambiato strategia durante la partita. Un anno fa non ci sarei riuscito». 

A Vienna è stato bello avere accanto anche sua madre, oltre che suo padre che ultimamente l'accompagna spesso?

«È stato importante, certo, ad esempio perché abbiamo fatto colazione insieme tutta la settimana. Di solito capita solo quando sono a casa, ma per uno, due giorni al massimo, quando vado a trovare i nonni che sono anziani, qui è stato diverso». 

Vincere davanti alla propria famiglia è sempre speciale.

«È vero, ma per loro, come credo per tutti i genitori, è molto più importante sapere che sono felice. E per me sapere che lo sono anche loro, che stanno bene. Quando succede, abbiamo già vinto tutti. Se poi va bene anche in campo, è il top». 

(...)

Tutto il contrario che sul campo da tennis. Il prossimo miglioramento quale sarà?

«Ci sono tante cose da migliorare, perché anche se ho avuto una bella stagione non mi dimentico che in tre Slam su quattro non ho fatto bene. La cosa più importante, in vista della prossima stagione, sarà la preparazione fisica. Devo diventare un atleta ancora migliore».

Da qui a fine anno ci sono ancora traguardi importanti. Il Masters 1000 di Parigi-Bercy, l'ultimo della stagione, la Coppa Davis a Malaga. E soprattutto le Atp Finals di Torino. Sente di poterle vincere?

«A Torino le condizioni di gioco saranno ancora diverse rispetto a Pechino e a Vienna, favoriranno qualcuno, sfavoriranno qualcun altro. Ma lì in campo ci saranno gli otto migliori giocatori del mondo, quindi ognuno di noi può vincere».

Impresa storica. Sinner batte Alcaraz e raggiunge la finale: nuovo numero 4 al mondo e record di Panatta eguagliato. Il tennista italiano raggiunge la finale dell’Atp a Pechino ed eguaglia la posizione di Adriano Panatta che durava dal 1976. Redazione su Il Riformista il 3 Ottobre 2023. 

Un’impresa da record. Jannik Sinner ha battuto Carlos Alcaraz in semifinale, raggiungendo la finale dell’Atp cinese a Pechino e diventando il 4° al mondo. L’altoatesino eguaglia così il record italiano di Adriano Panatta che durava dal 1976. Da allora, infatti, nessun italiano era mai riuscito a salire fino a quella posizione nel ranking.

Dopo un inizio negativo, Sinner ha recuperato e alla fine il tennista altoatesino si è imposto sullo spagnolo (numero 1 al mondo) 7-6(4) 6-1 e ora dovrà giocarsi la finale contro Daniil Medvedev. Domani proverà a conquistare il secondo titolo da 500 della sua carriera dopo quello di Washington. Sei i precedenti tra Sinner e Medvedev, attuale numero 3 mondiale, in cui l’italiano è sempre stato sconfitto.

Estratto da gazzetta.it il 3 ottobre 2023.  

(...)

E proprio Panatta spende parole d'elogio per l'altoatesino dai social: "Sinner ha battuto, anzi ha preso proprio a 'pallate' Alcaraz a Pechino ed è in finale, ma soprattutto ha raggiunto il n.4 della classifica mondiale, come feci io tanti anni fa, e mi ha eguagliato. Non ci crederete ma sono molto contento, per lui perché è un bravissimo tennista e mi dicono che è anche un bravissimo ragazzo". Ma Panatta avverte, il quarto posto sta stretto a Yannick. Ed è certo che in futuro riuscirà a salire ancora più in alto: "Adesso, quando lui mi supererà, perché lo farà sicuramente, dico già adesso che sarò ancora più contento, per cui tanti auguri a Sinner e tanti auguri al tennis italiano".

Da corrieredellosport.it il 3 ottobre 2023.  

"Jannik non va solo guardato, ma sentito. Tira delle botte più forti degli altri e questo è il tennis di oggi, è come se nel pugilato ci fossero solo pesi massimi". Nicola Pietrangeli, ex tennista, celebra l'incredibile risultato ottenuto da Sinner, uscito vincitore dal confronto con Alcaraz e capace di raggiungere la finale dell'Atp di Pechino, un traguardo che gli permette di entrare nella storia del tennis: ha eguagliato il best ranking fatto registrare da Panatta 1976, diventando n.4 del mondo.

La stoccata di Pietrangeli a Sinner

Pietrangeli, che nella sua carriera è stato numero 3 del mondo in singolare, ha però anche aggiunto: "I record sono fatti per essere battuti. Dopodiché, può anche diventare numero uno al mondo ma riparliamone quando avrà ottenuto i miei risultati...".

Jannik da sogno. Jannik Sinner come Panatta, vince contro Alcaraz e vola in finale a Pechino: è quarto nella classifica mondiale. Carmine Di Niro su L'Unità il 3 Ottobre 2023

Jannik Sinner nella storia del tennis italiano. Il tennista altoatesino, 47 anni dopo Adriano Panatta, diventa il numero quattro al mondo del ranking Atp. Un risultato conquistato nel pomeriggio di oggi nel China Open di Pechino, torno Atp 500 in corso nella capitale cinese, vincendo la semifinale contro il numero due al mondo Carlos Alcaraz.

Un match vinto 7-6 6-1 dal 22enne di San Candido, dominando da fondo gli scambi contro il suo giovane e già grande rivale iberico, già capace di portarsi a casa due titoli dello Slam. Una sfida, quella con Alcaraz, che è già un classico: quello odierno sul “Diamond Court” di Pechino era il settimo confronto tra i due nel circuito maggiore e prima della vittoria di Jannik i due erano in una situazione di tre pari (i due hanno due vittorie a testa al meglio dei tre set, e sono uno pari a livello Slam).

Sinner è ora atteso domani alla finale contro il russo Daniil Medvedev, numero tre al mondo nel ranking Atp, che nella sua semifinale ha superato in due set il tedesco Alexander Zverev. Per Sinner è la quinta finale Atp in stagione, anche se arriva contro la sua autentica bestia nera: ha affrontato il 27enne russo Medvedev sei volte senza mai riuscire a vincere un match, perdendo contro di lui in tre occasioni proprio in finale.

La partita di oggi è stata disputata in maniera quasi perfetta da Jannik: un ace al servizio, nessun doppio fallo ed il 59% di prime messe in campo da Sinner, che ne ha convertito in punti il 66% chiudendo il match in un’ora e 54 minuti. Eppure il match era iniziato col piede sbagliato per il tennista allenato da coach Simone Vagnozzi e Darren Cahill: l’altoatesino ha rischiato di finire sotto di due break a inizio primo set, poi il recupero e l’inizio di una vera e propria “guerra” di colpi da fondo campo, all’insegna di sassate e atletismo fuori scala, fino al tie-break vinto 7 punti a quattro. Nel secondo set invece, forte di una condizioni psicofisica debordante, Jannik sale subito sopra di un break e non si lascia sfuggire l’occasione di dare una “lezione” allo spagnolo, chiudendo con un perentorio 6-1.

Finale che arriva al termine di un percorso nel China Open costellato di grane fisiche: l’azzurro è arrivato al match di oggi dopo problemi di crampi nel primo turno contro l’inglese Daniel Evans, mentre ai quarti contro il bulgaro Grigor Dimitrov aveva dovuto superare un malessere allo stomaco che lo aveva costretto a vomitare a bordo campo.

Jannik con la vittoria odierna e la qualificazione in finale eguaglia lo storico quarto posto nella classifica mondiale raggiunto da Adriano Panatta 47 anni fa: il tennista romano, 73 anni, è stato l’ultimo italiano a conquistare un trofeo dello Slam, il Roland Garros di Parigi, nel lontano 1976. Carmine Di Niro 3 Ottobre 2023

Sinner mai così in alto: trionfa nel Masters 1000 di Toronto e diventa n° 6 al mondo. Redazione su Il Riformista il 13 Agosto 2023 

Per Jannik Sinner arriva il titolo più importante in carriera. Finalmente un Master 1000, dopo aver perso l’occasione di conquistarlo nel 2021 a Miami contro il polacco Hubert Hurkacz e nel 2023 contro il russo Daniil Medvedev.

L’azzurro si è imposto nell’atto conclusivo del torneo di  Toronto sull’australiano De Minaur con il punteggio di 6-4, 6-1, in un’ora e 26 minuti di gioco.

L’altoatesino, che mercoledì compirà 22 anni, diventa così il secondo italiano a vincere un 1000 dopo Fabio Fognini nel 2019 a Montecarlo, e sale nella sesta posizione del ranking ATP, il suo punto più alto, eguagliando il risultato raggiunto da Matteo Berrettini nel 2021 dopo la finale di Wimbledon persa contro Djokovic, solo Adriano Panatta (4° il 24 agosto 1976) è riuscito a far meglio. È il suo ottavo titolo, ed è al terzo posto tra gli italiani più vincenti dopo Fognini (9) e lo stesso Panatta (10).

Matteo Berrettini.

Estratto dell’articolo di Walter Veltroni per il Corriere della Sera domenica 6 agosto 2023. 

Com’era la stanza di Matteo Berrettini, da bambino?

«A quindici anni, quando ne avevo una tutta per me, la riempivo di poster di Pulp Fiction , Mad Max , Fight Club , della trilogia di Batman girata da Nolan. Da bambino ero in una camera condivisa con mio fratello. Io la affollavo di giocattoli, lui di cose sportive. Ci vogliamo molto bene ma siamo, per fortuna, molto diversi. Lui a otto anni sapeva la formazione della Ternana degli anni novanta, io giocavo con il Lego.

(...) 

Quando hai incontrato il tennis?

«I miei genitori, che erano e sono soci in un circolo del tennis, hanno depositato una racchetta tra le mie mani, con annesse palline di gomma, quando avevo tre anni. Ma non mi piaceva, volevo fare judo, arti marziali. Poi fu mio fratello a convincermi che il tennis era più divertimento che pura fatica. A otto anni ho ripreso la racchetta e non l’ho mai più posata. Mio nonno, a ottant’anni, gioca ancora, è proprio una malattia di famiglia». 

Quale è, nel tennis, il rapporto tra fatica e divertimento?

«Cinquanta e cinquanta, ma alla fine sono sempre riuscito a divertirmi, nella fatica.  

(...)

Il tennis è una filosofia, un modo di vedere la vita.

«Da ragazzo amavo gli sport di squadra ma mi sono reso conto presto che quello che mi piaceva era prendere responsabilità, essere ragione del destino di una gara, caricarmi sulle spalle interamente il peso di una vittoria o di una sconfitta. Questo mi serviva soprattutto a conoscere me stesso.  

(...) 

Che cosa è la sconfitta per te?

«Il tennis ti insegna a perdere. Anche i migliori, anche nelle migliori stagioni, devono bere il calice della sconfitta. Io odio perdere, ma ho sempre usato la sconfitta per migliorarmi. Per me è un motore più grande della vittoria. Non sentirmi più in quel modo, non provare quella rabbia o quella frustrazione, talvolta umiliazione, mi spinge a cercare il modo per rimuovere quell’errore, quel difetto che mi ha fatto perdere una partita o un torneo. Come diceva Nelson Mandela: “Io non perdo mai, o vinco o imparo”. Per esempio Wimbledon, l’anno della finale. Ho fatto un percorso incredibile e può starci, di perdere con Djokovic. Ma ero così vicino al titolo che ancora rivedo il film di quel match per capire dove potevo fare meglio. Ho perduto una partita, quella finale, ma sono stato fiero di aver condiviso con il mio Paese qualcosa di cui gli italiani sono stati orgogliosi». 

Si educano il carattere e la testa?

«Quando ero più piccolo tendevo sempre a reagire istintivamente, qualsiasi energia mi assalisse, io la assecondavo. Ero selvaggio, nel bene e nel male seguivo la mia natura. Ora seziono ogni pulsione, cerco di correggere le reazioni e di dominarle. L’esperienza mi ha insegnato a capire la natura dei momenti che vivo e a cercare l’atteggiamento mentale più giusto. L’educazione, anche quella che viene dalle discipline, ti aiuta. Ma sei tu, con le ferite delle porte in faccia ricevute e delle amarezze, che ti sai correggere, che sai governare il tuo cervello e orientare le tue reazioni emotive». 

Come si fa, quando si sta perdendo anche cinque a zero in un set, a non mollare, a pensare che, a dispetto di tutto, si potrà vincere una partita?

«È in primo luogo una forma di rispetto verso sé stessi. Penso sempre: “Ho lavorato troppo, ho faticato giornate intere e non ho il diritto di regalare un punto o di arrendermi. Se vuole vincere, il mio avversario se la deve sudare, fino all’ultimo.”. La rinuncia a combattere, l’inerzia negativa è l’unica sconfitta che non sopporto, non riesco a perdonarmi. Io non voglio mollare mai».

Cosa è successo al tuo fisico?

«Sto cercando di capirlo, è difficile fare un’analisi oggettiva di quello che succede nel corpo, fatto di muscoli e psiche, di ognuno di noi. Nell’ultimo anno ho vissuto troppi strappi mentali e fisici. Ci sono stati dei momenti in cui la mia testa e il mio corpo non erano allineati, chiedevo troppo all’uno o all’altro. Clinicamente è stato uno strappo dell’obliquo interno. Credo di aver chiesto troppo al mio corpo. La mia indole combattiva non mi fa accettare quei fisiologici momenti di down che esistono per tutti. Io se sono in difficoltà tendo ad accelerare e non sempre è giusto. Se le cose non vanno io metto giù la testa e spingo. Ma è un errore. Se la testa si illude di stare bene e il corpo sta male, si paga il prezzo che ho pagato». 

Lo strappo fisico ti ha fatto precipitare in un periodo di buio psicologico.

«Sì, molto legato al fatto di non poter competere. Perché in fondo, anche quando mi sento esausto, è questa una delle cose che mi rendono vivo. Non poterlo fare, in appuntamenti importanti, mi ha fatto conoscere il buio. E il buio sembra non avere fine, sembra ti inghiotta perché invece di stare fermo e rifiatare, ti scavi da solo un abisso. Sono stati momenti brutti, che non mi sono piaciuti. Ma sono stati fondamentali per farmi ritrovare le ragioni della gioia di fare quello che ho iniziato da bambino e che ha occupato tutta la mia vita. Ho ripensato alle origini per ritrovarmi. Il buio mi ha dato lo spazio per farlo».

Sei uscito da questa fase nera ritrovando la bellezza del gioco?

«Esatto, recuperando la purezza, l’allegria, l’incanto di una scelta che non ho compiuto, da ragazzo, pensando a Wimbledon, ma con la coscienza che era quello che volevo fare per sentirmi bene. Invece la mia vita era diventata una sequenza di “Devo”. Dovevo giocare certi tornei, dovevo vincere, dovevo essere in un certo modo. So che il dovere esiste, ma si deve coniugare con il piacere, con la gioia di fare, con leggerezza, quello che hai scelto di fare.

Ti sei sentito solo in quei giorni? Tutti ti idolatravano dopo Wimbledon e poi è cominciato a scorrere, sui social in particolare, un po’ di veleno.

«Solo mai, sono pieno di persone che mi vogliono bene, per fortuna. Che si rapportano a me non solo per la qualità dei miei risultati sportivi ma per l’esistenza o meno di un sorriso. Però in quei giorni mi sono sentito spaesato, a disagio. Mi sembrava ingiusto che, per qualcosa che atteneva al mio fisico, dovessi ingurgitare tanta cattiveria. Che tutti quelli che avevano tifato sparissero o si tramutassero improvvisamente in giudici o odiatori. In fondo sono stato bloccato dal mio corpo dolente e ho tentato di reagire con tutte le mie forze. Ho pagato io il prezzo più alto. Ecco, questa elementare solidarietà mi è mancata. Mi ha ferito non trovare questa sensibilità». 

Quanto hanno pesato i social in tutto questo?

«Ho sempre avuto con la società digitale un rapporto analogo a quello della mia generazione. Ci sono stato dentro. Estraniarsi o allontanarsi perché qualcuno parlava male di te mi sembrava un atto di debolezza, una rinuncia incompatibile con il mio carattere. Non volevo cedere, non volevo scappare. Ma ora mi rendo conto che stavo facendo come Don Chisciotte con i mulini a vento e quindi ho rallentato molto, quasi spento del tutto. Mi sono accorto che il mio stato d’animo cambiava in relazione al tono di cento persone che scrivevano i loro legittimi, ma spesso ingiusti, commenti che arrivavano direttamente nelle mie mani. Mi sono accorto che il mio umore aveva il dovere di dipendere da ben altro».

Ora come stai?

«Toccando ferro dico bene. Il problema di questo sport è che tutto il sistema muscolare e la mente sono sottoposti a mutamenti costanti: la superfice del campo da gioco, la conseguente velocità, i viaggi con cambiamenti repentini di fuso e di clima. C’è poi una norma di comportamento che sembra il famoso comma 22 dell’esercito americano: la condizione la trovi solo giocando, ma se giochi troppo rischi. Oggi mi sento bene dentro e ho il sorriso, quando scendo in campo». 

Quando eri ragazzo chi era il tuo tennista preferito?

«Federer, senza alcun dubbio. Il primo match contro di lui non ho capito neanche dove stavo, tanto ero emozionato. E stavo a Wimbledon. Mi ha ammazzato, ma è stato meraviglioso. Lui non è solo un grande tennista, è una persona fantastica. Sa essere semplice, inclusivo, è naturalmente, non artificiosamente, aperto, cordiale. Quando passa senti un’energia speciale. Ha il carisma del talento e della gentilezza».

(…)

Durante questo tempo cupo hai mai avuto voglia di dire basta?

«Tante volte, credimi. Nel 2020 ho avuto un’annata complicata e ricordo di aver fatto il pensiero, che mi aiutava a dormire, di prendere il passaporto, non dire nulla ad anima viva e fuggire dove nessuno avrebbe potuto trovarmi. Mi è capitato di pensarci, nei giorni bui. Pensavo ma perché devo subire tutta questa pressione, il senso di colpa per il mio corpo ferito... La vita è una, non ha repliche. Ma poi il tempo, il confronto con gli altri mi hanno fatto capire che io sono felice solo se scendo in campo e respiro quell’atmosfera. E sono infelice se non lo faccio. é una magnifica condanna, che mi sono scelto. E che ancora oggi, di nuovo oggi, mi regala gioia immensa». 

(...)

Cosa è la paura per un tennista?

«Il motore fondamentale. Se non ho paura, c’è qualcosa che non va. Quando mi sono svegliato sereno, prima di una partita, l’ho sempre giocata male. La paura controllata è fondamentale. All’inizio è stata la paura di non farcela, di non convincere i miei genitori a farmi continuare, di non essere all’altezza delle attese. Quella paura è un motore». 

Se a nove anni ti avessero detto che avresti giocato la finale di Wimbledon?

«Forse a nove anni ci avrei creduto più che a venti. Il sogno di un bambino non conosce confini. È buffo, però, è come se mi fossi sempre preparato a quello, senza saperlo. Io sapevo che il tennis sarebbe stata la mia vita. Mio padre mi disse un giorno che se avessi davvero imboccato questa strada avrei passato tutta la mia esistenza in tuta. Io gli risposi che a me non piaceva la giacca. Ho realizzato quel sogno con tanta fatica, tanto lavoro». 

Hai un amico nel circuito?

«Sì, Lorenzo Sonego, è l’unico con cui abbia un rapporto che supera il campo. Siamo coetanei, abbiamo fatto lo stesso percorso e ci stimiamo. Quando mi ha battuto seccamente a Stoccarda, il giorno in cui tornavo a giocare, alla fine non ha esultato. Io ero completamente fuori di me e lui mi ha detto “Mi dispiace”. Significava “Mi dispiace vederti così”. Quando poi ho vinto io, a Wimbledon, lui a fine partita mi ha abbracciato, mi voleva dire che con me desiderava sempre giocare così, da pari a pari. Quel tipo di sensibilità non è diffusa. Nel tennis. Ma non solo». 

Quali sono ora i tuoi obiettivi?

«Al livello sportivo nel mio cuore c’è Wimbledon. E anche gli internazionali di Roma. Ma oggi che, per la prima volta, ho conosciuto il malessere, l’obiettivo è quello di non frequentarlo più, di tenerlo lontano. E di vivere il tennis per quello che è: gioia e sfida per migliorare sé stessi».

Sara Ventura.

Estratto da corrieredellosport.it il 9 giugno 2023.

Per la prima volta Sara Ventura, ex tennista, ha parlato degli abusi e molestie che hanno segnato la sua carriera. A 12 anni ha perso la madre e subito dopo ha accettato una proposta per vivere in un collegio fuori Roma e allenarsi con le migliori tenniste italiane, lasciando Cologno al Serio dove è nata per non tornarci più. È così cominciata una carriera da professionista che l'ha portata a vincere 15 titoli italiani, ma in cui abusi e molestie da parte degli allenatori sono stati all’ordine del giorno. 

Sara Ventura e le molestie degli allenatori

"A volte, in trasferta, dividevo la camera con l’allenatore. Lo facevo per risparmiare, ma dovevo stare attenta che, di notte, andasse tutto bene - ha confidato Sara Ventura a Vanity Fair - Ho subito abusi di ogni tipo". A luci spente il coach andava nel suo letto? "Sì, ma io lo cacciavo. Avevo 13 anni. Ne parlavo con le altre tenniste, ragazze un po’ più grandi. Mi dicevano: eh sì, funziona così, ci siamo passate anche noi. Ho imparato a dormire con la racchetta vicino". E poi ancora: "Diciamo che, se non eri accondiscendente, te la facevano pagare: potevano non convocarti in Nazionale, farti allenare sul cemento anche se stavi per gareggiare su terra, potevano anche non iscriverti ad alcuni tornei".

Perché Sara Ventura non ha parlato prima

"Mio padre era un uomo freddo, introverso, non avevamo grandi rapporti, e mia madre è mancata che avevo 12 anni: poco dopo mi hanno chiamato, insieme alle tenniste più promettenti d’Italia, per vivere, studiare e allenarmi in un collegio vicino a Roma. Ho accettato subito e sono andata via di casa. Ero sola. E non avevo neanche i mezzi economici per ribellarmi a quel sistema di ingiustizie e abusi", ha precisato Sara Ventura per poi aggiungere: "Se parlavi, se uscivi dalla federazione, la tua carriera era finita. Tutti sapevano, nessuno diceva una parola. Le ragazze più fortunate, quelle  con una famiglia alle spalle, a volte venivano prese e portate via. Io potevo contare solo su me stessa".

(...)

Wimbledon.

Wimbledon 1973, quell'incredibile maxi boicottaggio. Tutto nasce dalla squalifica di Nikola Pilić: ottanta tennisti si ribellano e sabotano il tempio sacro dell'All England Lawn Tennis and Croquet Club a due settimane dal via. Paolo Lazzari il 16 Luglio 2023 su Il Giornale.

Quando i capoccia dell'ILFT, la Federazione Internazionale Tennis, si passano quella carta di mano in mano, stentano a crederci. Porta la sigla dei tre fondatori dell'ATP, Cliff Drysdale, Donald Dell e Jack Kramer. Il testo, scorso ad un paio di settimane dall'inizio di Wimbledon, lascia atterriti: "Spiacenti, non veniamo più. Non abbiamo altra scelta". Ottanta tennisti diserteranno il tempio sacro dell'All England Lawn Tennis and Croquet Club. Ma com'è diamine è successo?

Per capirlo serve stringere l'inquadratura su un alquanto dimenticabile tennista nato a Spalato, che di nome fa Nikola Pilić. Dimenticabile, si diceva, almeno fino al 1973. Nikki non brilla, viene spesso soverchiato, la nazionale la vede col binocolo. Però poi scatta qualcosa. D'un tratto il suo tennis inizia prodigiosamente ad evolversi. E lo chiamano a disputare un match di Coppa Davis: Jugoslavia vs Nuova Zelanda. Di norma uno correrebbe a rappresentare i propri colori. Più difficile se in mezzo si infila l'allettante proposta di un doppio da disputarsi in Canada nello stesso periodo. Là il premio partita è molto più alto. La scelta è indirizzata: Pilić declina l'invito della sua federazione e va in nord America, dove il gruzzolo è cospicuo. "Grazie, ma non avete bisogno di me", scrive ai suoi connazionali. Che la prendono malissimo. Come anche l'ILFT: squalificato per 9 mesi. Eccolo servito, il casus belli.

Adesso si balla. Perché da questa scintilla sorge un match all'ultimo sangue tra ATP e Federazione internazionale. Dritti e rovesci come se piovesse. Venerdì 22 giugno Drysdale convoca un'assemblea urgente: l'obiettivo è fare blocco contro le prepotenze dell'ILFT. "Riponiamo massima fiducia nella nostra causa. Siamo profondamente dispiaciuti che tutto questo sia avvenuto nelle due settimane di Wimbledon, ma non avevamo altra scelta". Tradotto: 80 tennisti professionisti rinunciano a giocare il torneo per solidarietà verso il loro collega punito. Perché oggi è toccato a lui, ma in futuro chissà. E la libertà di autoderminazione non è in vendita. Sbam.

Ed eccoli qua, i dinosauri della Federazione, alle prese con una vicenda che gli è appena deflagrata tra le mani. Però a Londra, e in Inghilterra in generale, non è che tradizionalmente ci si perda d'animo. Nemmeno di fronte ad uno tsunami del genere. I nostri recuperano in fretta e furia tutti quelli che non sono riusciti a qualificarsi per il torneo, ma ancora non basta. Ci infilano dentro, per fare numero, anche giocatori che lambiscono soltanto il professionismo.

Gli unici del circuito ATP a partecipare sono Ilie Năstase, che racconta essere stato invitato direttamente dal dittatore Ceaușescu a partecipare, e il tennista di casa Roger Taylor, che vive un rapporto troppo osmotico con il pubblico locale per pensare di deluderlo. Ne scaturisce un Wimbledon di livello clamorosamente infimo. Ma nell'orrida ammucchiata spiccano anche due giovani che sembrano destinati ad un futuro radioso. Uno viene dall'Illinois, ha vent'anni appena e si chiama Jimmy Connors. L'altro è ancora più giovane. Diciassette primavere. Faccino suadente e caschetto biondo. Viene dalla Svezia. Si chiama Björn Borg.

Il tennis discutibile giocato in quel torneo, paradossalmente, attira gli spettatori. Wimbledon registra addirittura il record di pubblico, perché la gente è incuriosita da quel tabellone inedito e dalle polemiche. Vuole vedere dal vivo come andrà a finire. Roba che fa sfilare in secondo piano anche il titolo vinto dal ceco Jan Kodeš. Game, set, match per l'ILFT sussurra qualcuno. Altri sono persuasi che a spuntarla sia stata l'ATP.

Quel che di oggettivo resta è un sabotaggio surreale come la storia futura di Pilić. Diventerà il primo tecnico a vincere con due nazioni diverse (Germania e Croazia) quella Coppa Davis che aveva disertato, innescando tutto. Sceneggiatura impensabile eppure reale come un odierno diagonale di Alcaraz.

Roland Garros

Lo show va avanti. E ce n’è per tutti i gusti. Le storie del Roland Garros: discese, risalite, sconfitte e vittorie con il pubblico che “ci ama o ci odia”. Claudia Fusani su Il Riformista l'1 Giugno 2023 

Se un rovescio e una volèe sono parole e una partita di tennis un racconto, i quattro tornei annuali dello Slam sono la Divina commedia, i Promessi sposi, Guerra e Pace e Moby Dick della biblioteca del tennis. Roland Garros, ad esempio: periferia sud-est di Parigi, nel bosco di Boulogne, un quartiere una volta operaio e ora residenziale ma senza sfarzi. Ogni giorno tra le 35 e la 40mila persone si mettono educatamente in fila dalle 10 del mattino fino anche all’una di notte per entrare e vedere.

Partecipare, piangere, ridere, appassionarsi, crederci anche sognare. Quei 40mila sono sicuramente praticanti del tennis in cerca del colpo dell’anno, un passante, una volèe, un fraseggio di smorzate come cannonate da fondo campo, gesti atletici per cui esaltarsi. Ma cercano anche il pathos, la passione e il dettaglio con cui uscire dalle proprie vite e vivere un po’ quella degli altri. Arthur Ashe, il primo tennista di colore a vincere Wimbledon nel 1975 contro Jimmy Connors, una partita passata alla storia, disse una volta che in fondo “un campo da tennis è il palcoscenico di un grande teatro dove ciascuno di noi giocatori mette in scena e a nudo se stesso in quel momento della vita. Il pubblico partecipa così tanto che alla fine ci ama o ci odia”.

Tre giorni al Roland Garros ne sono la conferma. Martedì notte, quasi all’una del mattino, il Philippe Chatrier, il centrale, ha ancora le luci accese e gli spalti pieni perché sta succedendo un miracolo: l’amato e odiato francese Gael Monfils, 36 anni, ex numero 6 del mondo, assente dai campi da circa dieci mesi, precipitato al 394esimo posto in classifica, ha vinto contro l’argentino Sebastian Baez al quinto set dopo essere stato sotto 0-4 nel quinto. In campo erano due contro uno: il giocatore francese, il suo pubblico e di là un argentino tosto ma impotente di fronte a quello spettacolo.

La sera della domenica, dagli spalti del campo numero 14 ad un certo punto si è alzata la Marsigliese – non ne hanno memoria qui al Roland Garros – per la vittoria di un campione e di un uomo recuperato, Louis Pouille che è stato numero 10 del mondo, oggi ha 29 anni, a ottobre stava per buttare vie le racchette, era precipitato alla 675esima posizione e in una depressione durissima. È partito dalle qualificazioni e ieri sera ha giocato il secondo turno dello slam. Archivi e statistiche non hanno memoria di un giocatore con classifica così basse che conquista il secondo turno del tabellone. La stampa francese ha titolato sulla “rinascita” e sulla “seconda vita” di questo giocatore.

Lacrime, sorrisi, sudore, fatica. Quelle di Sara Errani, anche lei 36 anni, ex numero 5 del mondo, semifinalista qui a Parigi nel 2012, poi inciampata in una strana storia di doping, squalificata, precipitata in classifica. Si è sempre dichiarata innocente, non ha mollato, oggi è tornata con grande fatica e tra qualche acciacco al numero 73 della classifica e lunedì ha passato il primo turno battendo in tre set la svizzera Jill Teichman. Sono vette conquistate dopo inarrivabili salite. Ieri sera Sara ha perso (contro la Begu) ma con la vittoria dell’altro giorno ha regolato i conti con la sua storia e la sua eredità sportiva.

Quelle di altri quattro azzurri, due arrivati dalle qualificazioni, scesi in campo a Parigi come veri underdog e già al secondo turno. Giulio Zeppieri (21 anni di Latina), numero 130 al mondo, che ha battuto in un quinto epico set il russo- kazako Alexander Bublik, top 50, uno che può battere dal basso, servire a 210Km/h e tirare vincenti da ogni angolo del campo. Andrea Vavassori di anni ne ha 28, in classifica è al 127 posto e anche lui ha raggiunto il secondo turno dopo cinque ore in campo contro Kecmanovic. Era sotto di due set: “Non ci ho pensato, ho solo giocato come so”.

Alla fine si è buttato a terra per trattenere il più possibile quel frammento di gioia infinita dopo anni e anni di tentativi. Le lacrime, anche, di Jasmine Paolini ed Elisabetta Cocciaretto, n.44 del mondo, che sul campo più bello per una giocatrice – quello dedicato a Suzanne Lenglen – con i suoi 166 centimetri di altezza si è sbarazzata in due set della top ten Petra Kvitova e dei suoi 186 centimetri. “Ma sa che non ci posso credere neppure io!!!!”ha detto all’intervistatrice a fine match. Tutto il pubblico era per la Kvitova, due volte regina di Wimbledon. La “petite Coccia” se li è comprati tutti alla fine con “merci beaucoup”.

Lo sport, specie se individuale, non mente quasi mai. Il tennis meno di altri perché una partita può durare ore e ore e in campo si è soli contro l’avversario. Non ci sono alibi né scuse. Ecco perché racconta così bene delle vite e dei caratteri di questi ragazzi e ragazze che una volta in campo devono accendere il loro talento ma soprattutto il carattere e la determinazione. Ci sono i predestinati come Jannik Sinner, Lorenzo Musetti e Fabio Fognini. I primi due devono giocare il secondo turno entro oggi. Fognini è già al terzo: uno dei più talentuosi della storia del tennis italiano sembra aver fatto pace con la rabbia che gli ha fatto buttare via tante partite e vincere molto meno di quello che avrebbe meritato.

Ha 36 anni, tre figli, è un ottimo padre (parola di Flavia) e sembra aver finalmente trovato il gusto dello stare in campo. Infortunato, è sceso oltre la 130esima posizione, è arrivato a Parigi come ripescato ed è al terzo turno dopo aver battuto (sempre in tre set) il top ten Auger Aliassime e Jason Kubler. Il tutto senza mai imprecare una volta con un arbitro o con un giudice di linea. E ne avrebbe avuto occasione.

Ci sono gli ostinati, come Lorenzo Sonego, anche lui al terzo turno. Ci sono le divinità. Erano tre, Federer, Nadal, Djokovic. Lo svizzero si è ritirato e su questa terra non ha mai fatto bene. Lo spagnolo è assente per la prima volta dal 2005 e dopo averlo vinto quattordici volte. Djokovic l’altra sera ha scritto sulla telecamera che “il Kosovo è il cuore della Serbia”.

La Federazione francese, proprietaria del torneo, ha chiesto sanzioni disciplinari: “La regole degli Slam è fuori la politica dai campi da tennis”. Già è difficile quando giocano contro russi e ucraini. Nole ha rivendicato quello che ha scritto. E lo ha ripetuto. È fatto così. Erano anni che non si vedeva così tanto azzurro al Roland Garros. Il tennis, a cominciare da quello italiano, è in ottima forma. Con le sue tante storie di discese, risalite, sconfitte e vittorie. Lo show va avanti. E ce n’è per tutti i gusti.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Roger Federer.

Estratto dell’articolo di Franco Zantonelli per “la Repubblica” l'8 maggio 2023.

Appena centomila dollari guadagnati lavorando, e 95,1 milioni guadagnati invece sia mettendo a frutto le capacità di testimonial di marchi prestigiosi, maturate in 22 anni di splendida carriera, sia inventandosi imprenditore di successo. 

È il caso straordinario di Roger Federer, ritenuto il più grande tennista di tutti i tempi. Nel 2022 si è esibito una sola volta, partecipando a Wimbledon alla Rod Laver Cup il 23 settembre, in un doppio con Rafael Nadal, durante il torneo intitolato al mitico australiano ormai 84enne. Ebbene, in quell’occasione Federer incassò i 100mila dollari di cui si è detto, ovvero lo 0,105% di tutti i suoi guadagni di quell’anno.

Stando a Forbes, nella top ten degli sportivi più ricchi – dopo averla guidata per anni – figura al settimo posto, preceduto però da sportivi ancora in attività. In testa c’è Cristiano Ronaldo, seguono Leo Messi e Kylian Mbappé. 

Ma è tutta gente che deve faticare per guadagnarsi l’attenzione di Forbes , mentre il “divo” Federer sembra ormai più una star del cinema o comunque qualcuno entrato di diritto nell’esclusiva cerchia dei ricchi e famosi. […] 

Da anni è testimonial per sponsor di lusso con cui ha costruito diverse partnership professionali, contando sulle sue numerose e diverse abilità. L’ex campione svizzero ha siglato un accordo con Essilor-Luxottica per disegnare occhiali con il marchio RF. Per promuoverlo si è presentato, in abito di Dior, al Met Gala di New York. Una partnership che si aggiunge a quella con il gigante di articoli sportivi giapponese Uniqlo, con il quale, nel 2018, ha siglato un contratto da 300 milioni di dollari.

Ma non ci sono solo le sponsorizzazioni da capogiro, tipo quella con Barilla. Federer ci mette anche del suo. Quattro anni fa è diventato il principale azionista di On, una startup di sneakers di Zurigo. L’ha quotata a Wall Street e, lo scorso anno, ha visto la sua cifra d’affari salire a 1,22 miliardi di franchi, con un aumento del 70% rispetto al 2021.

Insomma, da vincitore di 20 slam a Re Mida, sempre con la medesima elegante disinvoltura. Eppure lo stesso Federer nel 2003 fondò, con la moglie Mirka, RF Cosmetics. Ma il mercato dei cosmetici era già saturo e, nel 2009, RF Cosmetics finì in liquidazione. […]

Corrado Barazzutti.

Barazzutti, Jimmy Connors e il furto di Forest Hills. Nel 1977 un lanciatissimo Corrado Barazzutti fu vittima di una clamorosa ingiustizia: il gesto antisportivo di Jimbo resta ancora senza senso. Paolo Lazzari il 9 Aprile 2023 su Il Giornale.

Chioma ancora fluente. Muscoli guizzanti, anche se si intravedono soltanto sotto a quel fisico asciutto. Completino ellesse impeccabile e aderente. Racchetta di legno Slazenger a far da corredo e propaggine a quelle braccia sinuose. È dinoccolato Corrado Barazzutti. Arriva a raccogliere colpi avversi dove meno te lo aspetti. E poi a ventiquattro anni le gambe sono dinamite.

Non gioca un tennis intriso di vezzi e pomposità. Non gliene frega molto di questioncelle come stile, eleganza e ammenicoli vari. Gli basta risultare efficace. Mettere a reddito quella sua irruenta capacità di dominare le pieghe più fisiche di ogni match. Perché Corrado questo sa fare meglio. Respingere – fisicamente e mentalmente – ogni velleità dell’opponente. Fino a prenderlo per sfinimento.

Così quando corre l’anno di grazia 1977 si presenta agli Us Open con il sorriso largo di chi si sente un convitato con le carte in regola per scrutare in prima fila il tramonto del torneo. Sulla superficie americana i colpi guizzano a meraviglia. Fa fuori Bill Scanlon, uno che sapeva far soffrire da matti John McEnroe. Si presenta al cospetto di Ilie Nastase, inequivocabile signore della racchetta, e lo sforacchia. Incede travolgendo Mark Edmonson e Butch Walts. Nei quarti sbriga anche la pratica Brian Gottfried: 6-2, 6-1, 6-2 senza appello.

Viaggia spedito, “Barazza”, verso la finale. Tra lui e l’ambito traguardo si frappone soltanto un ingombrante ostacolo: è americano, è un idolo da queste parti, è un tennista superbo. Tradotto: Jimmy Connors. Però Corrado non si disunisce all’idea di affrontarlo. Anzi, arrivato fino a quel punto è persuaso che ogni cosa sia possibile. Si gioca sul centrale, Forest Hills.

Sospinto dal pubblico di casa, una grancassa costante come una litania laica, Connors strappa un primo set estremamente combattuto: 7-5. Poi, animato dall’entusiasmo circostante, decide di premere ulteriormente sull’acceleratore per indicare al più presto la scaletta dell’aereo di ritorno all’italiano. Comincia quindi, “Jimbo”, a sfoderare un tennis quasi tribale. Un autentico assalto. Colpi a manovella. A mitraglia. Barazza però non ci sta. Si sporge, si inclina, si allunga. Respinge ogni singola pallina con quella racchetta che, a guardarla oggi, pare così piccola.

Ora Connors, sfibrato da quell’inusitata resistenza, sembra cedere alla distanza. Cresce invece Corrado, come sempre munito di un surplus di energie quando quegli altri iniziano a mostrare qualche crepa. L’inerzia della contesa adesso è cambiata. Connors tentenna. Barazzutti avanza pretese sempre più autorevoli verso quel posto in finale.

Terzo set. Corrado avanti 5-3. Replica rabbioso, Connors, rifiutandosi di cedere davanti al suo pubblico. Lascia partire due rovesci anomali e violentissimi, ad uscire. Barazza quasi si inginocchia, ma respinge. Il secondo colpo dell’asso americano finisce nettamente fuori. Non per il giudice però, che lo chiama buono.

Corrado non ci crede, ma è sereno. Sulla terra giace impresso il marchio di quella pallina troppo larga. Chiama il giudice a scendere dal trespolo, per valutarlo lui stesso. Quello però traccheggia, non scende. Poi è questione di una manciata di istanti. L’italiano è voltato di spalle, Connors incede nella sua parte di campo, cancella le prove trascinandoci sopra un piede e scappa via sibilando: "Ora il segno non c’è più".

Barazzutti è attonito. Non può essere successo davvero. È un gesto, quello di Jimbo, di un’antisportività assurda. Corrado protesta accesamente con il giudice. Sarebbe roba da squalifica immediata. Invece quello, sempre appollaiato in alto, si limita ad un richiamo verbale: "Signor Connors, lei non ha alcun diritto di fare, nemmeno per scherzo, una cosa del genere". Tutto qua. Una piccola parte del pubblico rumoreggia. I commentatori e lo stesso Corrado, ovviamente, sono trasecolati.

Il match riprende e Connors vince, favorito da quello snodo che poteva riscrivere le traiettorie dell’incontro. Più tardi, anche John McEnroe si dichiarerà sconvolto: "Corrado, mai vista una cosa del genere, è stata pura fantascienza". Probabilmente Jimmy avrebbe vinto lo stesso, ma quel gesto così insopportabile riga perennemente il successo conseguito.

Barazzutti esce sconcertato, con la sola parziale consolazione di essere vendicato in finale dall’argentino Guillermo Vilas. Quella surreale ingiustizia resterà per sempre – anche in futuro i due non si chiariranno - il punto di confine tra quel che poteva essere e invece mai più sarà.

Adriano Panatta.

Claudio Panatta: «Mai stato invidioso di Adriano. In Coppa Davis da fratelli ritrovammo il nostro rapporto». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 9 dicembre 2023.

Claudio Panatta si racconta: «Con Adriano dieci anni di differenza, ancora oggi ci confondono. I suoi consigli da capitano illuminanti». Poi su Sinner: «Fortissimo, ma nessuno è come mio fratello»

Giocava a tennis come un angelo, Claudio Panatta, però non era Adriano. «Ho vinto un torneo su quattro finali, sono salito al n.46 del mondo nel giugno dell’84. Potevo fare di più? Certo, ma anche di meno. Lendl, McEnroe, Connors, l’ultimo Borg: gli anni 80 sono stati il decennio più denso di talenti della storia. In quella élite estremamente prestigiosa, c’ero anch’io. Sono felicissimo, nessun rimpianto».

A 63 anni, ancora bello come un divo (ma umile), Claudio Panatta conserva l’eleganza di un tempo. Dal gennaio 2020 è direttore del Tc Parioli, a Roma («Pronti, via: la pandemia. Ma ne siamo usciti bene: 1.200 soci, più 350 allievi della scuola»), il circolo attorno a cui ruota la storia della sua famiglia: «Il Parioli nasce a Viale Tiziano, dove comincia la leggenda di mio fratello Adriano, detto Ascenzietto dal nome di mio padre, Ascenzio, custode dei campi. Nonno Pasquale era custode del campo della Rondinella, l’attuale Flaminio. Io non ero nato. Ma se lassù a papà fosse arrivata la notizia che oggi dirigo il club che ha visto crescere, beh io credo che sarebbe contento e orgoglioso».

Claudio lei viene al mondo il 2 febbraio ’60, quando Adriano ha già dieci anni.

«Era già grandino, e forte. È partito per il centro tecnico di Formia che io ero ancora bambino. A casa c’era pochissimo, ho frequentato di più mia sorella Laura, che dopo una frattura alla clavicola ha smesso di giocare a tennis. Ma quando tornava Adriano, era una festa. Eravamo un terzetto affiatato e complice, siamo venuti su sereni in una famiglia normale, molto unita. Poi il tennis ha portato via anche me, e Laura è rimasta quasi una figlia unica».

Il ruolo di mamma Liliana?

«Fondamentale: una presenza costante con il pensiero rivolto all’educazione dei figli, ci teneva moltissimo. Vivevamo all’interno di un impianto sportivo, frequentato da tanta gente: che fossimo educati con tutti per lei era importante. Qualità che ci siamo portati dietro per tutta la vita».

Scusi Claudio, ma da fratello minore di Adriano Panatta se c’era una carriera da evitare non era proprio il tennis?

«Al contrario: non ho mai patito il fatto che lui fosse più forte, non conosco l’invidia. Ho fatto il tennista perché era la mia più grande passione e Adriano mi ha sostenuto. Non ho mai fatto paragoni: sarei impazzito. L’ho preso come esempio da imitare, sin da piccolo. Adriano era il mio modello. Nulla di ciò che è stato Adriano Panatta ha suscitato la mia gelosia. Mai».

Non i successi, non l’anno d’oro 1976, non le conquiste femminili, non la popolarità.

«Nulla di nulla. Ho sempre e solo avuto ammirazione per la sua schiettezza, oltre che per il suo sconfinato talento. Nessuno vede il tennis come Adriano. Ha un carattere forte, carisma, personalità. È molto deciso nelle sue idee. Non c’è una volta in cui io sia in disaccordo».

Anche la vostra somiglianza è impressionante.

«Mi è successo di essere scambiato per Adriano, certo: a lui dà fastidio quando lo chiamano Claudio, a me non è mai importato nulla. Anche mia figlia, quando guarda le vecchie foto, si confonde! Trovo che invecchiando la somiglianza sia sfumata, però».

Nel ’76, anno del triplete (Roma, Parigi, Davis) lei aveva 16 anni. Cosa ricorda?

«Poco. L’anno prima ero stato convocato a Formia: ero sempre in giro per tornei o con le varie Nazionali giovanili. Quando l’Italia vinse la Davis in Cile, io giocavo l’Orange Bowl a Miami. Non ero mai con lui e non esistevano i social, che oggi in un attimo fanno fare il giro del mondo alle notizie: guardavo i titoli dei Tg e leggevo i giornali».

Bei tempi, Claudio. Qual è la sua gioia più grande?

«È una sconfitta, curiosamente: terra verde di Forrest Hills, quarto di finale con John McEnroe sul centrale, tre set tiratissimi. Perdo 7-6 al terzo ma l’applauso del pubblico mi impedisce di lasciare il campo: avevano apprezzato lo spettacolo. Mi sono commosso. Anni dopo ho battuto Agassi a Firenze ma nulla mi ha più dato il brivido di quella standing ovation».

Venti presenze in Davis, dall’83 all’87, sempre con Adriano come capitano. Tranne l’esordio. Che fu traumatico.

«Bitti Bergamo, che aveva sostituto Pietrangeli, era morto in un incidente d’auto vicino a Prato. In panchina c’è Vittorio Crotta e io prendo il posto di Zugarelli. Ero preoccupato: avevo tolto il posto a una pietra miliare dello sport, ma servivano rimpiazzi. Non solo: Crotta mi fa debuttare estromettendo Adriano dal singolare. Siamo a Reggio Calabria contro l’Irlanda del Nord. Venivo da un infortunio alla caviglia, non mi aspettavo di giocare, ero molto giovane: non sapevo come gestire la situazione. Morale: ho perso tutti e due i match».

Con suo fratello in panchina andrà meglio.

«Un c.t. eccezionale: dava sempre il consiglio giusto. A Palermo, contro il Paraguay di Victor Pecci, che aveva un doppio imbattibile, entra in spogliatoio e mi dice: a Cla, oggi contro Pecci fai serve and volley tutta la partita! Beh, ha funzionato. La verità è che la visione di Adriano è unica».

Insieme, in Davis, ne avete approfittato per recuperare il tempo perduto?

«Lui ha smesso a fine ’82, io avevo appena iniziato: non ci eravamo mai frequentati tanto come in azzurro. Vivendo insieme abbiamo riconquistato l’intimità perduta».

Traspare un grande amore dalle sue parole, Claudio.

«Ci siamo sempre voluti molto bene. Oggi, poi, siamo unitissimi. È un rapporto meraviglioso, anche con Laura, i genitori non ci sono più e allora ci si conforta a vicenda. E siamo entrambi nonni».

Di Adriano sappiamo quasi tutto, ma la sua famiglia?

«Ho avuto due figli da un primo matrimonio, Cristiana e Francesco, che sono grandi; poi Diletta, 25 anni, da un’altra relazione. Dal 2001 sono sposato con Serena, abbiamo Swamida che è un misto tra Swami (amore in Indi) e Ida (la nonna di mia moglie). Tre nipoti, in totale. Una super famiglia. Al matrimonio di Adriano con Anna, a Venezia, eravamo metà di mille!».

L’ha mai battuto?

«Una volta, a Sanremo nell’82, davanti ai miei: giornata memorabile. Poi persi la finale con Barazzutti ma insieme vincemmo il doppio. Adriano giocava un tennis bello e difficile, inimitabile. Sinner è fortissimo ma Panatta ha reso il tennis popolare in Italia. Come lui, non c’è nessuno».

Panatta: “Alla politica italiana servirebbe un Sinner. Nel tennis di oggi nessuno mi somiglia. Roma? Non ci vivo più, sono completamente disincantato”. Con la sua ‘squadra’ conquistò la Davis del ’76: “Quello di oggi è un momento d’oro per gli italiani. Berrettini? Ha 27 anni, è nel pieno della sua forza”. E sulla sua città: “C’è quel cinismo meraviglioso alla Alberto Sordi, per cui si incazzano e poi alla fine non gliene frega niente. Un disincanto splendido”. Roberto Giachetti su Il Riformista il 2 Dicembre 2023

Adriano non posso non iniziare dalla vittoria dell’Italia in Coppa Davis. Che momento è per il tennis italiano, cosa rappresenta questa vittoria, si può ancora migliorare?

Dopo 47 anni finalmente l’abbiamo riportata in Italia. È una svolta storica. Probabilmente questa vittoria sarà un volano per il movimento del tennis, come è avvenuto negli anni ‘70 con la nostra in Cile e con le vittorie individuali. È un movimento che già gode di ottima salute ma, sicuramente, Sinner e compagni saranno un ulteriore stimolo per far praticare il tennis a ai nostri giovani. Sono tanti anni che il nostro tennis non stava così bene, negli ultimi periodi abbiamo avuto grandi risultati dai giocatori. A parte Sinner, abbiamo avuto Berrettini in finale a Wimbledon che ha giocato nei primi dieci, prima avevamo Fognini che era molto forte e che come talento puro forse era il migliore, ma anche Musetti, Sonego, Arnaldi… credo davvero che sia un momento d’oro per il tennis italiano. Poi con queste performance di Sinner c’è stato un momento di grande attenzione per il tennis in Italia, prendi la finale delle Atp, ad esempio, che ha fatto quasi 7 milioni di audience in tv, non succedeva da decenni. Per cui da migliorare c’è poco, siamo già l’eccellenza.

Sinner ha ricevuto i complimenti di un campione indiscusso come Alberto Tomba. In qualche modo mi sembra una sorta di investitura nel club degli sportivi più amati dagli italiani, come Valentino Rossi, Pantani, la Pellegrini… dove può arrivare secondo te?

Intanto è già arrivato molto avanti, è nei primi quattro del mondo per cui può solamente migliorare. Io penso che lui abbia tutte le qualità per diventare numero uno, poi se ci arriva l’anno prossimo o fra due, tre anni ormai è lì, è tra i papabili diciamo. Poi in questo momento Djokovic è come se fosse Highlander, ma dovrà smettere anche lui. Credo che nei prossimi anni Sinner se la giocherà con Alcaraz, Rune e Shelton, quest’americano emergente che secondo me è molto forte, sono quattro giovani di grande talento che penso avranno il predominio dei tornei internazionali, sicuramente.

Se di Sinner possiamo dire che oggi abbia fatto un salto di qualità con ampi margini di miglioramento, la situazione di Matteo Berrettini è un po’ diversa. Ha avuto diversi infortuni e attraversa da un po’ uno stato di crisi dovuto ad una forma fisica non ottimale. Ho letto battutine ridicole sulla coincidenza tra il momento no e la sua relazione sentimentale con la Satta. Siccome tu Adriano nella tua carriera ti sei sempre vissuto la vita come meglio credevi, se potessi dargli un consiglio nella gestione del gossip cosa gli diresti?

Secondo me lui non fa niente di particolare, che torto è quello di avere una bella e conosciuta ragazza? Non credo ci sia niente di male. Per quale motivo bisogna pensare – non certamente te, ti conosco – che una bella ragazza famosa possa far male e invece la classica studentessa sia meno pericolosa? Intanto le donne non hanno mai fatto male a nessuno.

Anzi diciamo che di questi tempi in troppi fanno male alle donne.

Bè sì, quella tragedia lì, ogni giorno c’è una tragedia… Credo che lui debba fare la sua vita, non devo dargli nessun consiglio, so che stanno molto bene insieme per cui vivono questa loro storia in maniera tranquilla, è normale che siano un po’ sotto i riflettori ma questo viene da sé. Lui i problemi non ce li ha certamente per il suo rapporto sentimentale con la Satta, purtroppo ha avuto vari tipi di infortuni perché ha un gioco che si presta, gioca in una maniera molto strappata, molto violenta. Probabilmente ha qualche parte del corpo più fragile, tipo le caviglie o gli addominali. Quando inizi a farti male più di una volta sullo stesso punto poi è difficile recuperare. Lui comunque ha 27 anni, è nel pieno della forza, non so se tu te lo ricordi quando avevi 27 anni, io ormai ho ricordi sfuocati… forse è il momento migliore di maturità psicofisica.

Adesso faccio la domanda dello stupido

A te riesce difficile esserlo…

No no te la faccio: esiste un tennista in attività o del passato, più o meno recente, che ti assomiglia o a cui tu avresti voluto invece assomigliare?

È talmente cambiato il tennis che non credo ci sia nessuno che possa assomigliarmi o tantomeno a cui possa assomigliare, perché giocano in maniera talmente diversa, il modo di colpire la palla…

Forse ai tempi tuoi non c’era nemmeno il rovescio a due mani o forse sì.

Beh sì, c’era Connors, c’era Borg, gente molto forte che giocava il rovescio a due mani. Ma non è tanto questo, sono cambiate le racchette, le metodologie di allenamento, l’alimentazione, la cura del proprio fisico, è il professionismo ormai portato all’estremo. Oggi i giocatori più forti girano con un team di persone, dal preparatore atletico al fisioterapista, dal nutrizionista al mental coach, cose per noi abbastanza sconosciute. Quando andavo a giocare a Parigi o in Australia andavo da solo, mi compravo il biglietto aereo.

Noi ci conosciamo dai tempi di Rutelli sindaco, quando ero capo di gabinetto del comune e tu consigliere comunale. Sono passati tanti anni, la politica è molto cambiata. In questo momento qual è il tuo approccio, il tuo sentimento generale verso Roma? Sei ancora coinvolto, interessato, c’è qualcosa che non ti piace più o ti piace meno, ci sono figure pubbliche che apprezzi particolarmente?

Forse non lo sai, o forse sì, ma io non vivo più a Roma, ci vado più o meno una volta al mese per un paio di giorni. Roma è sempre la solita, che vuoi che cambi? Roma è eterna, ha i suoi difetti e i suoi pregi. È probabilmente la città più bella del mondo e forse, tu lo sai perché hai avuto ruoli importanti, è una delle città più difficili da amministrare. Intanto poca gente sa quant’è grande. Io sono stato anche assessore alla provincia di Roma, una provincia che ha cento comuni ed è la più grande d’Europa, per dire la provincia di Parigi e più piccola. Quando feci la campagna elettorale non ho fatto in tempo a visitare tutto, e poi è complicata. È un bel casino. Ad esempio Francesco secondo me ha fatto bene, anche Walter. Avevano entrambi molta esperienza, mentre Marino, Alemanno, la Raggi non avevano tanta dimestichezza con la parte amministrativa. Poi la politica è un po’ una scuola, è cambiata. Adesso l’ultimo arrivato diventa senatore, deputato, se non ministro…

Un po’ di formazione non farebbe male anche in politica.

Ma come in tutte le cose. Non è che uno arriva in ospedale e fa subito il primario. Oggi sento tante persone improvvisate, sai a me non interessa più, sono completamente disincantato, ho perso anche quella voglia di incazzarmi. Non mi incazzo nemmeno più.

Possiamo sperare che anche per la politica arrivi il momento d’oro come sta avvenendo per il tennis?

Ci vorrebbe un Sinner, tu lo vedi in giro? Non mi riferisco a Roma, dico anche per l’Italia…

Sono troppo di parte, io l’ho visto.

Ma lo so, ti ho fatto una provocazione! Però tornando a Roma la gente non capisce quanto è tutto complicato, dalla burocrazia, da un certo tipo di lassismo.

E un po’ sono anche i romani a contribuire.

Sai i romani li conosciamo. Quel cinismo meraviglioso alla Alberto Sordi, per cui si incazzano e poi alla fine non gliene frega niente. C’è questo disincanto splendido, già solo le facce dei romani fanno ridere.

Roberto Giachetti

«Il segreto di Adriano Panatta? Aver sfidato il mondo con la sua Bellezza». Sandro Veronesi su Il Corriere della Sera domenica 22 ottobre 2023.

Sandro Veronesi racconta il campione di tennis: «Solo Federer è riuscito a fare come lui». Ragazzo molto intelligente, Adriano ha accettato se stesso fino in fondo, come pochissimi campioni dello sport hanno saputo fare.

«Gli aerei stanno al cielo come le navi al mare»: é l’attacco di una canzone di Francesco De Gregori, Renoir, contenuta nell’album che s’intitola semplicemente De Gregori, pubblicato nel 1978, al culmine di un quinquennio di strepitosa ispirazione che aveva prodotto gioielli come Alice (1973), Niente da capire (1974), Rimmel (1975), Atlantide (1976), nonché gli album in cui erano contenuti, uno più bello dell’altro. Vale per De Gregori ma vale anche per tutta l’Italia, anzi per tutto l’Occidente: quegli anni, dal 1973 al 1978, sono stati i più ispirati della civiltà di cui facciamo parte — perché per la prima volta si può parlare di un’ispirazione finalmente e veramente collettiva, della quale alcuni musicisti, scrittori, attori, registi, architetti, artisti e perfino qualche politico si facevano interpreti ma che riguardava tutti, e a tutti arrivava grazie a quell’utopia industriale chiamata società di massa.

I versi di De Gregori

Ora è andato tutto a catafascio, e si fatica a crederci, se si è giovani, o a ricordarlo, se si è più grandi, ma c’è stato un momento, cinquant’anni fa — proprio durante quegli anni lì — in cui pareva che grazie alla nuova cultura popolare, e in groppa alla tecnologia galoppante che per la prima volta la distribuiva dappertutto, saremmo davvero approdati a un mondo migliore. Il futuro c’era, in quegli anni, questo voglio dire, ed era meglio del presente, enormemente meglio, perché era definito dalla proiezione nel tempo e nello spazio di quella straordinaria ispirazione collettiva. Bisogna tenere presente questo, e non come sono andate davvero le cose, per inquadrare il personaggio di cui sto per parlare.

Ma torniamo a quei versi di De Gregori, «gli aerei stanno al cielo come le navi al mare». «Come il sole all’orizzonte la sera», continua il testo, perché è una canzone parecchio poetica, ma qui invece noi la continuiamo così: «Come Gustavo allo sci, come Adriano al tennis». Di Gustavo Thoeni abbiamo già parlato, è stato il testimonial dell’ultima vera bellezza italiana della storia poiché se la portava addosso nella danza che si era inventato tra i paletti, rivoluzionando lo sci alpino.

Creava bellezza

Lui, non bello, la bellezza la creava col suo movimento vincente e la indossava con tutti gli accessori che l’industria manifatturiera italiana gli metteva a disposizione. Ma Adriano no. Adriano Panatta era bello, anzi, la bellezza del suo tennis la incarnava e se la portava appresso dovunque andasse. E per quanto fosse una bellezza assolutamente romana, tuttavia non era più soltanto una bellezza italiana, come quella di Gustavo: diventava direttamente una bellezza globale, internazionale, come quella dell’architettura moderna, delle automobili fuoriserie, degli assolo di chitarra di Jimmy Page o delle poltrone di prima classe sugli aerei di quel tempo. Era una bellezza inestinguibile, che resisteva intatta anche fuori dal campo: «Non ha eguali quando suona l’istrumento e non c’è nessuno che gli stia a paro quando non lo suona».

Il bacio del successo

Se n’è parlato troppo poco, della bellezza di Adriano Panatta. Sempre a fare paragoni con Nicola Pietrangeli, sempre a rammentare i suoi successi, sempre a ripetere che forse 10 vittorie in tornei del circuito maggiore sono poche in rapporto al suo talento, ma della bellezza che per un decennio, tramite quel talento, vincendo e perdendo, giocando e non giocando, ha regalato al mondo, di quello non si è parlato abbastanza. Si tratta di una bellezza che dormiva in lui in attesa del bacio che la risvegliasse — e quel bacio è stato il successo. Nelle foto che lo ritraggono da bambino non è nemmeno immaginabile, e anche quando il suo tennis cominciò a farsi dominante, con le due vittorie agli Assoluti in finale contro Pietrangeli, nel 1970 a Bologna e nel 1971 a Firenze, anche allora la bellezza di Panatta non era ancora matura.

Ha accettato se stesso fino in fondo

Perché maturasse occorreva che maturasse quella che, aridamente, molti hanno definito la sua immaturità; doveva cominciare a misurarsi con quella delle ragazze più belle del suo tempo, doveva intridersi della strafottenza e dell’indolenza che gli sono state rimproverate ma che erano parte integrante della sua irresistibile simpatia. Doveva, quella bellezza, nutrirsi dell’indisciplina che allungò proverbialmente i suoi capelli e che lo portava a farsi vedere il più possibile da Belardinelli, suo adorato padre tennistico, ma fascista, con l’Unità o con Paese sera tra le mani. Doveva, quella bellezza, farsi levigare dalle polemiche, dalle sconfitte sorprendenti, dai flirt, dalle notti brave, dai night club e dal jet set (sto usando i luoghi comuni di allora) per diventare veramente unica quando Adriano, ragazzo molto intelligente (anche della sua intelligenza si è sempre parlato poco), ha accettato se stesso fino in fondo, come pochissimi campioni dello sport hanno saputo fare. Accettando se stesso fino in fondo — le proprie contraddizioni, i propri limiti e il proprio destino — Panatta ha reso splendente la propria bellezza come solo Federer, trent’anni dopo, ha saputo fare: Federer ancora più bello come tennista, ma meno bello come uomo — sebbene i lineamenti tamugni di quando era giovane si siano via via sciolti in un’estetica sempre più gradevole. E Federer è un altro dei pochissimi campioni risolti, che di sé hanno accettato tutto.

Giorni di gloria

L’anno di Panatta, indubbiamente, è stato il 1976. È stato in quell’anno che il suo tennis sempre così bello si è dimostrato anche insuperabile. Internazionali d’Italia, Roland Garros e Coppa Davis vinti a modo suo, alternando prestazioni strepitose ad altre sconcertanti. A Roma, al primo turno, rimontando da 2-5 al terzo con Warwick e annullandogli undici match point; a Parigi, sempre al primo turno, annullandone uno a Hutka, poi battuto 12-10 al quinto. Poi, appena diventato numero 4 al mondo, perdendo malamente al secondo turno degli US Open con Bill Scanlon, ma poi, tra semifinale a Roma contro l’Australia e finale a Santiago contro il Cile, trascinando la squadra italiana alla conquista della prima Coppa Davis della sua storia — tuttora l’unica. Un anno così vale tutta una carriera — e quella di Panatta di anni belli ne ha conosciuti molti altri; ma il fatto che questo anno-super sia stato il 1976 è molto significativo, per quello che dicevamo all’inizio.

Il ciuffo vincente

Il 1976, infatti, è forse l’anno in cui l’ispirazione collettiva e la creatività dell’Occidente hanno toccato il proprio apice — il punto più alto di quell’utopia che nel giro di un decennio si è poi trasformata in decadenza. Dall’alto di quell’onda il futuro migliore sembrava proprio di poterlo toccare — e adesso potrei stilare un elenco lunghissimo di opere e imprese che avvalorerebbe questa mia affermazione, dalla fondazione di Apple e Microsoft, in primavera, a distanza di un mese l’una dall’altra, all’elezione di Jimmy Carter alle presidenziali americane di novembre, ma mi trattengo e non lo faccio. Mi limito a citare la cinquina dei film che quell’anno si sono contesi il premio Oscar: Quel Pomeriggio di un Giorno da Cani, Barry Lyndon, Lo Squalo, Nashville e Qualcuno volò sul nido del cuculo. Secondo me, è proprio questa cinquina la dimostrazione che il 1976 è stato davvero l’Anno della Bellezza nella storia dell’Occidente. E lassù, nella gloria struggente del 1976, nella spuma di quell’onda che di lì a poco si romperà producendo una risacca disastrosa, c’è anche Adriano Panatta, che serve con la testa leggermente inclinata verso sinistra e dopo avere fatto il punto si sistema il ciuffo con la mano.

Davanti allo specchio

Vorrei finire con l’immagine pubblicata qui accanto, la foto ufficiale di Panatta e Solomon scattata all’inizio della finale di Parigi. Guardatela e immaginatevi questa scena — una scena che è Panatta stesso a raccontare, scuotendo il capo per disapprovarsi, e chiosandola dicendo «Nun se fa»: nello spogliatoio del Roland Garros, Panatta si sta sistemando il ciuffo davanti allo specchio prima di scendere in campo. Poco più in là Solomon sta finendo di allacciarsi le scarpe. Panatta lo chiama: «Harold, come right here, please». Solomon lo raggiunge: ora sono entrambi ritratti nello specchio, affiancati, una quindicina di centimetri di statura di differenza, più o meno come li vediamo nella foto. Ma sono nello spogliatoio, e sono soli, prima di affrontarsi nella finale di uno Slam che rimarrà l’unica nella carriera di entrambi. Panatta indica lo specchio a Solomon con un cenno del mento: «Look», gli dice, e con tempismo perfetto, prima che Solomon distolga lo sguardo — via, via, lontano da quell’immagine! — affonda il colpo: «Who do you think is gonna win?».

Dagospia lunedì 25 settembre 2023. Audio raiplaysound.it/programmi/touche

"Eravamo una coppia di fatto, vivevamo insieme, io cucinavo e lui lavava i piatti". Paolo Bertolucci, ospite su Rai Radio2 nel corso del programma 'Touché', è stato salutato così da Adriano Panatta.  Tra i due tanti aneddoti e scambi pieni di ironia: "Se abbiamo mai litigato?", ha raccontato Bertolucci, "Certo, in campo. Poi siamo stati giorni insieme in albergo condividendo colazione, pranzo e cena senza rivolgerci la parola". "Bertolucci ha sempre rimorchiato", ha tuonato Panatta. "Uscivamo insieme, lui era sempre pronto come un falchetto".  

'Touché', condotto da Paola Perego e Adriano Panatta, con Nicoletta Simeone, è la novità della domenica pomeriggio di Rai Radio2.  In onda dalle 18.00 alle 19.30, un salotto radiofonico in cui si sorride e ci si racconta, dove non mancano i grandi ospiti. Durante la prima puntata si è parlato di tradimento e dei suoi segnali: "Se l'uomo che tradisce inizia ad andare in palestra e a dimagrire, allora vuol dire che le nostre compagne possono stare tranquille", ha scherzato Bertolucci.

Sul tema tradimento, pungente Paola Perego, che in diretta ha sferzato Panatta: "Si è parlato sui giornali della tua storia con Mita Medici. Raccontaci qualcosa". L'asso del tennis nostrano si è un po' rabbuiato, poi ha affermato: "Di questa cosa ancora me ne vergogno. Stavo con Patrizia (Mita Medici). Stavamo insieme da un po', eravamo giovani. Lei stava facendo un tour, una sera dopo teatro eravamo a cena e arrivò Loredana (Bertè). Io quella sera ho perso la testa. Sono stato proprio un mascalzone, mi sono sempre pentito di questa cosa. Patrizia è una ragazza stupenda. Non si fanno queste cose. Lo dico a tutti quelli che ci ascoltano. Sono serio. Non bisogna farlo, mai". 

Dalla domanda sferzante di Paola Perego una riflessione a cuore aperto che è probabilmente destinata a far discutere. La prima di molte. Perché 'Touché', su Rai Radio2 la domenica dalle 18.00 alle 19.30, ha tutte le carte in regola per diventare un appuntamento irrinunciabile. 

Stefano Semeraro per “la Stampa” - Estratti venerdì 15 settembre 2023. 

Santiago del Cile, 1976: la finale di Coppa Davis che l'Italia non avrebbe dovuto giocare, perché «non si giocano volée/contro il boia Pinochet». Ma che poi vinse, come ha raccontato la bella serie di Domenico Procacci, Una Squadra. Jaime Fillol allora era il numero 1 del Cile, oggi è un bellissimo signore di 77 anni, dai capelli candidi e lo sguardo azzurro che lavora all'Università Catolica de Chile. In questi giorni è a Bologna al seguito della sua vecchia squadra che oggi affronta l'Italia, e della quale suo nipote Nicolás Jarry è il nuovo numero 1. 

Fillol, che cosa ricorda di quella finale?

«In ballo c'era qualcosa di più del tennis, eravamo immersi in una situazione politica e sociale particolare. Il Cile voleva mostrare un volto umano al mondo, la squadra italiana sentiva la pressione di doversi esibire in un luogo tragico (l'Estadio Nacional dove gli oppositori del regime venivano torturati, ndr) e tutto questo aumentava le aspettative» 

Che esperienza fu per lei, vista «dall'altra parte»?

«Chi fa il tennista si abitua fin da giovane ad affrontare situazioni difficili: stress, viaggi, competizione. E quasi sempre da solo. A me dispiace soprattutto non aver vinto…». 

Pinochet fece personalmente delle pressioni?

«Ho incontrato il generale Pinochet un paio di volte, ma sempre in riunioni collettive in cui si parlava di sport. Avevamo rapporti con una sorta di direzione generale dello sport, ma non ricevemmo pressioni durante la finale» 

Con che animo scese in campo in quello stadio?

«Avevamo già giocato lì nel 1974 e nel 1975, ma questa volta si trattava della finale, e non contro un paese qualunque, ma contro l'Italia che era avversa al governo cileno. Il potenziale comunicativo era importante. La mia intenzione era di trasmettere i valori dello sport, anche se sapevo che non era possibile fino in fondo: nel 1975 ero stato minacciato di morte se mi fossi recato in Svezia a giocare la semifinale».

La squadra cilena era cosciente della situazione?

«Io ero cosciente che a volte per quanto uno tenti di mantenersi distante da certe cose, rischia comunque essere strumentalizzato Cercavo di ragionare da sportivo, guardando avanti. Il passato va ricordato e studiato per evitare che si ripeta, ma bisogna concentrarsi sul futuro. Noi della squadra pensavamo di poter dare un respiro diverso al nostro paese». 

(...)

Adriano Panatta sostiene che la maglietta rossa indossata nella finale fu una presa di posizione politica.

«Noi tennisti sapevamo che c'erano state pressioni sulla federazione italiana per impedire la trasferta. Ma i cileni non lo sapevano. Quella maglietta rossa per il pubblico non significò niente». 

L'11 settembre del 1973 il generale Pinochet instaurava la dittatura: in 50 anni come è cambiato il Cile?

«Il Cile oggi è un paese in crisi, ma non c'è tensione sociale. C'è stanchezza, disincanto verso la politica. Il paese è quasi fermo, non c'è sviluppo. Nella ricorrenza della presa del potere da parte di Pinochet è stata resa pubblica una dichiarazione, firmata da alcuni ex presidenti, in cui ci si impegna a far sì che il passato non ritorni. Vedremo se noi cileni vogliamo cambiare davvero, o se si tratta dei soliti maneggi della politica». 

Dal tono lei sembra scettico.

«È un processo in evoluzione. Si sta scrivendo una nuova costituzione al posto di quella che era in vigore dai tempi della dittatura, in dicembre la voteremo. Sarà un momento chiave per capire se un cambiamento può davvero avvenire». 

I giovani, come suo nipote Nicolás, che cosa sanno del passato?

«I giovani cileni non provano interesse nella storia del proprio paese. È una realtà con cui ci dobbiamo confrontare».

È un pericolo?

«Sì, ma un pericolo che esige una autocritica: se i giovani non sono interessati a questi temi, la colpa è nostra. O comunque abbiamo qualche responsabilità».

Oggi il Cile affronta di nuovo l'Italia in Coppa Davis: la considera una rivincita?

«No, è passato troppo tempo. Di quella finale mi sta a cuore di più il rapporto di amicizia che si è creato con l'Italia. Perché il tennis italiano è un insieme di sport, arte, cultura che continua a fare scuola nel mondo». 

Estratto dell’articolo di Gaia Piccardi per il Corriere della Sera il 3 settembre 2023.  

«Aridagli...». Pare di vederlo, Adriano Panatta, a bordo piscina dell’omonimo Tennis club a Treviso con l’intervista di Aldo Cazzullo a Nicola Pietrangeli sul Corriere in grembo, e gli occhi al cielo. 

Adriano, alla soglia dei 90 anni Nick Pietrangeli ha due chiodi fissi: Licia Colò e lei.

È che quando diventi molto anziano, perdi la memoria. La verità è stata raccontata nella docu-serie Una Squadra di Procacci, che Nicola svilisce. Ma lui svilisce tutto e tutti, è una vita che lo fa». 

La trasferta in Cile, la maglietta rossa contro Pinochet, la Davis conquistata nel ‘76: i temi di un’esistenza.

«Io capisco che possa confondere, in quel contesto storico, un gesto politico per una sceneggiata: lo conosco. La maglia rossa non la capì nessuno, incluso Pietrangeli. Mimmo Calopresti ne fece un bel film. Capisco che possa inciampare nell’obbrobrio di mettere sullo stesso piano Allende e Pinochet: lo conosco. Dice che ho le gambette come Berrettini, vabbé. Avendo avuto 1400 donne sarà stanco però ha ancora la voglia di far sapere a tutti che è stato il più forte e il più bello. È arrivato il momento di dire a Nicola, con simpatia e senza giri di parole, che ha rotto i coglioni». 

Come un fiume carsico sotterraneo scorre affetto, però.

«Massì, a Nicola gli si vuole bene, spero campi altri 90 anni però ha scocciato con questo modo di porsi. Il suo, più che affetto, sembra rancore. Non è mai stato tenero né con me né con i miei compagni di Davis: a me questo non piace. Io non ho mai messo in piazza le mie storie e i miei successi, parlo bene di tutti, soprattutto delle donne: è la mia legge. Ma come regalo per i 90 anni glielo dico: Nicola caro, sei stato il più figo però a un certo punto bisogna rendersi conto che verremo dimenticati». 

L’ha invitata alla cena di gala, l’11 settembre al Circolo Canottieri Roma?

«Sì ma non andrò: non posso. Faremo una cosa insieme a Bologna con la squadra del ‘76, durante la Davis». 

Rivendica di avervi portati in Cile, contro tutto e tutti.

«È vero, si battè tantissimo, gliel’abbiamo riconosciuto mille volte, è stato detto e ridetto. Lui ha sempre questo atteggiamento e non ci fa bella figura: vuole il merito di tutto ma quella Davis, a Santiago, la vinsero i giocatori in campo. Io ho 73 anni, dirigo un circolo, non posso stare dietro alle paturnie di Nicola né far polemica ogni volta...». 

Pietrangeli dice che non l’ha invitato alla festa per i 70 anni.

«Ma non era una festa, era una cena! Io, mia moglie Anna, i miei figli riuniti a Forte dei Marmi. Non c’era neanche Paolo Bertolucci!». 

Dice che lei, Adriano, per lui figlio unico era un fratello.

«Io un fratello e una sorella ce li ho. Mio fratello di tennis è Paolo: siamo cresciuti insieme. Ma Nicola l’ho frequentato da adulto. Anche la nostra rivalità è un film nella sua testa: sarà durata un anno, ne abbiamo 17 di differenza! Lo sconfissi agli Assoluti del ‘70, è finita lì. Poi l’ho ritrovato in Davis come capitano». 

Dice che si sente tradito.

«Aridagli. Io non avevo il potere di esonerare nessuno, la verità è che Nicola c.t. dopo la Davis non lo voleva più nessuno, dal presidente Galgani ai giocatori. Era diventato insopportabile e indifendibile. Bitti Bergamo è arrivato dopo. Ma che sta a dì?». 

Sembra che non riesca ad accettare di essere stato destituito dai suoi ragazzi.

«Nicola ha un ego spropositato. È uno che ha detto a Rivera: sei fortunato che io non abbia giocato a pallone... Però non riesco a volergli male».

Dice che una sera, a Cortina, lei pianse sulla sua spalla.

«Forse gli ho detto che mi era dispiaciuto, di certo non ho mai pianto sulla spalla di nessuno. Né mi sono scusato: scusarmi di che, poi?». 

(…) 

Ma è così bello arrovellarsi nell’impossibilità di arrivare a una risposta che accontenti tutti.

«Spero di eguagliare il suo record di longevità, però basta. Le grandi imprese dello sport non danno l’immortalità. Tutto finisce e passa. Ed è giusto che sia così».

I primi auguri arrivano dal “fratello acquisito” Bertolucci. Auguri Adriano Panatta, bello e talentuoso: l’anti divo del tennis. A chi gli dice che sarebbe potuto essere qualcosa di più del numero 4 al mondo Panatta risponde: “Sarei stato più felice? Non credo”. Giacomo Guerrini su Il Riformista l'8 Luglio 2023 

“Gli auguro di rimanere com’è e com’è stato. Il ciuffo resterà sempre quello. Gli voglio tutto il bene del mondo, perché se lo merita anche se è un grandissimo rompicoglioni”. La prima cartolina per Adriano Panatta arriva da Wimbledon e porta la firma del suo fratello “acquisito” Paolo Bertolucci. Il settantatreesimo compleanno di quello che è stato il talento più cristallino del tennis italiano sarà domani, ma Bertolucci ha da tempo iniziato un conto alla rovescia dedicato all’amico, che ogni giorno trova spazio su Twitter e dà l’accordo per battute e prese in giro.

Panatta fu protagonista di quella stagione irripetibile che vide l’Italia conquistare la Coppa Davis nel 1976 e sfiorarla in almeno altre due occasioni. Il 1976 è stato decisamente il suo anno: oltre alla Davis, Panatta vinse Roland Garros e Internazionali di Roma (unico italiano a riuscire nell’impresa), raggiungendo la quarta posizione nel ranking mondiale. Il tennista romano ha conquistato dieci tornei del circuito maggiore in singolare e diciotto titoli in doppio. È stato l’unico giocatore al mondo in grado di sconfiggere al Roland Garros il sei volte campione del torneo Björn Borg.E poi l’accoppiata con l’altro grande sportivo: Paolo Bertolucci, appunto, detto “Braccio d’oro”, unico giocatore italiano ad aver vinto tre tornei sulla terra rossa nella stessa stagione.

Bertolucci e Panatta, Panatta e Bertolucci: un binomio incardinato sul talento che si è formato quando i due erano adolescenti e prosegue ancora oggi, resistendo alle diverse condizioni, al tempo e alla racchetta che ormai è stata appesa al chiodo.

“Abbiamo vissuto insieme da ragazzini e in giovane età fino al matrimonio – ricorda Bertolucci – e anche se adesso ci sentiamo poco siamo ancora molto legati. Durante il lockdown Adriano mi chiamò dopo mesi di silenzio per comunicarmi che si stava rompendo le palle. Decidemmo allora di cucinare un piatto di spaghetti. Lui a Treviso e io a Verona. Magari passano sei mesi tra una chiamata e la successiva ma il nostro rapporto è ormai indissolubile”. Ai fornelli i due si sono misurati più volte: “Una a Seul, dove in una cucina enorme ci siamo cimentati in un’amatriciana, piatto del quale Adriano si reputa campione assoluto – rivela Bertolucci –; in mezzo a pentole enormi e fuochi professionali abbiamo dato il massimo. Ma a parte l’amatriciana, Panatta non è bravo a cucinare altro”.

Bertolucci non usa il fioretto per parlare del suo fratello acquisito: “In realtà il nostro rapporto ricordava più quello coniugale, e infatti l’esperienza mi è stata utilissima per gestire i matrimoni – scherza Bertolucci -: in campo, ma anche fuori Adriano sapeva essere insopportabile e così, grazie a lui, ho maturato il talento di far entrare da un orecchio e uscire dall’altro tutte le cazzate che mi diceva. Però diamo a Cesare quel che è di Cesare: bello come il sole, talento incredibile, simpatico e intelligente, Panatta non ha mai avuto atteggiamenti da divo e così, anche lontani dal jet set, ci siamo divertiti come matti”. C’è un episodio però che ancora fa sorridere Bertolucci e che Panatta non gli ha perdonato: “Durante un match di Davis in Spagna Adriano decise di scatenare una rissa gettandosi in mezzo al pubblico inferocito. Io rimasi in tribuna a difendere le signore: che altro avrei dovuto fare? Lui rientrò negli spogliatoi non esattamente un fiorellino. Ancora oggi me lo rinfaccia”.

Insomma una storia che poco e niente ha a che fare con quei racconti di sport fatti solo di sangue e sudore, sacrifici e zero sorrisi: “Effettivamente eravamo uniti dalla stessa filosofia di vita: nessuno di noi voleva privarsi di una qualunque esperienza che potesse darci gioia – ammette Bertolucci -. Magari avremo perso qualche torneo, ma non abbiamo rimpianti”. Sicuramente non ce ne sono per quanto riguarda le conquiste femminili: “Al 90% ero io ad andare a rimorchio. Ma va bene così anche le numero due del ranking non erano male!”, ride, ricordando le clamorose, innumerevoli conquiste del bell’Adriano.

Per chi si diverte 365 giorni all’anno, i compleanni rientrano nella norma: “C’è un anno di differenza tra noi due (Paolo è nato il 3 agosto del 1951, ndr), ma non abbiamo mai fatto nulla di particolare – ammette Bertolucci – del resto avevamo impegni da mantenere in giro per il mondo e comunque ci siamo divertiti molto”. Lo si deduce anche guardando “La squadra”, la docu-serie realizzata da Domenico Procacci, distribuita al cinema e su piattaforme televisive, che lo scorso anno ha riscosso un successo clamoroso e ha fatto scoppiare la “Davis mania” anche tra chi in quegli anni non era ancora nato, tanto che in molti li vorrebbero di nuovo insieme per spiegare agli ex campioni alle prese con la crisi dell’addio all’attività come farlo al meglio: “Tutti devono capire che è bene ascoltare se stessi – spiega Bertolucci -. Con Adriano lo abbiamo fatto”.

Per il compleanno del “fratello” Bertolucci non ha dubbi: “Gli cucinerei pasta e fagioli, il mio piatto forte. Utilizzerei ovviamente i maltagliati perché sono indicatissimi per questa ricetta. Mi ricordo che mi veniva concesso di mangiarne un piatto dopo le vittorie più importanti. Era il mio premio partita!”. Adesso non c’è che aspettare domani per la festa di Adriano e restare su Twitter per vedere come i due si prenderanno in giro ancora una volta: dritto di Bertolucci e risposta di Adriano, e viceversa. Uno spasso. E a chi gli fa notare che, vivendo diversamente, sarebbe potuto essere qualcosa di più del numero quattro al mondo Panatta risponde: “Sarei stato più felice? Non credo”. Gioco, partita, incontro. Giacomo Guerrini

Estratto dell’articolo di Gaia Piccardi per corriere.it il 12 giugno 2023.

Adriano Panatta, Bjorn Borg e John McEnroe da Le Fouquet’s, 99 avenue des Champs-Elysées, a Parigi. Le foto impazzano sui social, il video di quei tre fenomeni che ridono come ragazzini è diventato virale. Ma che vi raccontavate, Adriano? «Ma niente, è il nostro modo di divertirci anche dopo tanti anni. Io e John ci alleiamo, mettiamo in mezzo Bjorn e lo prendiamo in giro. Certo che eri proprio negato a giocare a tennis, in confronto a noi, lo sfottiamo. E lui, serissimo: però mi sono impegnato molto, e ho vinto più Slam di voi! Quindi alla fine è lui, Bjorn, che ci restituisce lo sfottò».

A cena durante il Roland Garros, l’altra sera, 19 titoli Major seduti allo stesso tavolo. Gli 11 dell’orso svedese, 67 anni (6 a Parigi), i 7 dell’eterno superbrat, 64 anni (dolorosissima finale sulla rive gauche nell’84, sconfitto da Lendl: un kappaò che ancora non fa chiudere occhio a Mac), uno dell’indimenticato Panatta, 72 anni portati con l’agilità di un tempo, in quell’anno di grazia (1976) in cui si mise in tasca anche Roma e la Coppa Davis, stagione che segna una pietra miliare per lo sport italiano. 

A riuscire nell’impresa di riunire i tre grandi ex, Mansour Bahrami, l’ex tennista iraniano sfuggito alla rivoluzione islamica in Francia, giocoliere e grande cerimoniere del circuito, organizzatore per il Roland Garros del torneo delle leggende. Cena collettiva, con le mogli (Adriano è a Parigi con Anna), mangiando e bevendo bene: «Diciamo che eravamo… allegri! Nel video io ho davanti una Coca Cola — ride Panatta —. Ci tengo a precisare: io ho il vizio del fumo, non sono un grande bevitore ma posso giurare sulla bibbia che la Coca Cola non la bevo».

(...) 

E come è proseguita la serata Adriano? «A un certo punto Mac si è messo a suonare la chitarra. Purtroppo. Allora lì sono cominciate le danze». E l’uomo non balla (teoria espressa da Panatta in un’intervista per il Corriere a due voci con la moglie). Hai derogato alla regola? «Mai». Interviene Anna: «Una mossetta l’ha fatta, in realtà. Zanzan col bacino. Ce l’ho su un video ma se lo metto sui social mi sgrida…». Secretato, come è giusto che sia. Un’ultima curiosità: perché Borg e McEnroe sono canuti e tu no, Adriano? «Giuro che non mi tingo! Loro sono bianchi perché sono vecchi». E giù altre, sacrosante, risate.

Estratto dell'articolo di Paolo Graldi per “il Messaggero” il 7 aprile 2023.

Panatta, lei è opinionista in diversi programmi tv. A che gioco gioca?

«Il mio gioco».

In che cosa consiste?

«Essere me stesso, come lo sono tutti i giorni».

 (...)

Nadal fa una doccia prima di ogni partita. Lei che cosa faceva prima di entrare in campo?

«Io facevo pipì. Inevitabilmente».

 Il piacere della battuta pronta la caratterizza. È come una partita, con le parole al posto delle racchette?

«Sì, è l'improvvisazione. Perché il tennis è improvvisazione, nel senso che ogni palla è diversa dall'altra. E così deve essere anche su un botta e risposta».

 Come gestisce lei il rapporto con il tempo che passa?

«Bene, anche se mi girano gli zebedei».

 Perché?

«Perché divento vecchio. Inevitabilmente».

 (...)

Qual è nel gioco del tennis la più grande prodezza?

«La prodezza consiste nel riuscire a fare una cosa che non si può fare. E che pochissimi riescono a fare».

 Le è capitato qualche volta?

«La famosa Veronica era un colpo che nessuno faceva e che io mi sono inventato così, all'improvviso. Però non era per niente intenzionale: io facevo questa cosa, la palla andava lì, e io facevo il punto».

 Nel tennis, lo studio della psicologia dell'avversario che importanza ha?

«Tantissima. Con il linguaggio del corpo io capivo il momento in cui l'avversario aveva qualche défaillance o piuttosto che era in esaltazione».

 (...)

Qual è la più bella parola che le viene in mente?

«Amore».

 Un esempio?

«Sono innamorato di mia moglie (Anna Bonamigo, ndr). Mi ha ridato la voglia di fare, di impegnarmi, di scommettere. Una rivoluzione. Le devo tutto. Felicità compresa».

 C'è stato un maestro, un punto di riferimento che l'ha guidata negli atti più importanti, non solo in quelli sportivi?

«Mario Belardinelli, che è stato il mio maestro che mi ha insegnato, oltre che come si diventa un giocatore, anche come si diventa un uomo».

 (…)

 Il ruolo delle donne nella sua vita: è disposto a parlarne?

«Non mi sembra un argomento tabù».

Ce ne sono state molte e diverse tra loro. Che tipo di avventure sono state?

«Una diversa dall'altra».

Sono capitate o le ha cercate?

«Il 90% mi sono capitate».

 Bello e impossibile?

«Bello, sarebbe presuntuoso dirlo. Diciamo che ero "caruccio", come si dice a Roma. Però non sono mai stato uno impossibile. Non ho mai messo una barriera tra me e una donna, anzi ci sono state delle donne molto meno belle di altre che mi hanno incuriosito molto di più».

Le donne l'hanno aiutata o distratta nella sua vita di campione?

«Né distratto né aiutato. Quando giocavo mi ha aiutato più avere dei figli: io ho avuto figli molto giovane, nati durante la mia carriera, e proprio i figli mi hanno dato un senso di responsabilità maggiore».

 La gelosia è un male necessario o un inutile fardello?

«Non ci credo mai agli uomini o alle donne che dicono di non essere gelosi».

(...)

Che cos'è che la fa ridere di più?

«Il cinismo romano, ad esempio Alberto Sordi. Mi piace l'ironia di Totò, la cattiveria di Eduardo o di Paolo Villaggio, di cui ero fraterno amico. Mi piacciono molto gli adulti che fanno cose comiche un po' infantili, li invidio molto».

Lei si considera un vincente nella vita?

«Io mi considero fortunato, non completamente vincente, perché sarebbe arrogante e presuntuoso dirlo. Forse più vincente che perdente».

Sinner a Miami è esploso, anche se ha perso la finale. Abbiamo trovato un nuovo Panatta?

«Non so se abbiamo trovato un nuovo Panatta perché sono passati 50 anni, ma sicuramente abbiamo trovato un nuovo campione. Sinner è un giocatore completo, fra i giovani emergenti. Avrà un grande futuro. È un campione, questo è sicuro».

 In cinque parole chi è davvero Adriano Panatta?

«Sono una persona lunatica, imprevedibile, malinconica, coraggiosa. E poi mi piace molto la discrezione». 

Dagospia il 5 aprile 2023. Da “Un Giorno da Pecora” – Rai Radio1

Adriano Panatta, Paolo Bertolucci e quel 'Concorde' preso dal Sud America a Parigi per incontrare due ragazze. Lo ha raccontato Panatta a Un Giorno da Pecora, la trasmissione di Rai Radio1 condotta da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari, oggi in diretta dal Vinitaly di Verona, dove il tennista è stato ospite. “Avevamo fatto un'esibizione in Argentina, in un luogo remoto, quasi in Patagonia. P

Per andare a Parigi io e Paolo spendemmo praticamente tutto quello che avevamo guadagnato con l'esibizione, qualche migliaio di dollari”. Dall'Argentina avreste dovuto volare su Roma, ma lei volle fare una tappa nella capitale francese per vedere due sue amiche... “Si, e per quello prendemmo un 'Concorde'. Barazzutti, che aveva fatto l'esibizione con noi, invece era più oculato e non ci fece compagnia”. Volaste direttamente a Parigi dall' Argentina?

"No, ci fermammo a Rio de Janeiro, dovevamo prendere un po' di sole ed abbronzarci. E per partire dovetti corrompere il responsabile dell'aeroporto, altrimenti non ce l'avrei fatta. Ma alla fine riuscimmo ad arrivare a Parigi e ci godemmo la serata..."

 Recentemente, sempre ai nostri microfoni, Serena Grandi ha detto che lei è più affascinante e prestante di Matteo Berrettini. "Non credo che Berrettini lo abbia provato però...Serena è rimasta legata agli Ottanta". E' vero quindi che avete avuto un flirt. "Ma no - ha detto Panatta a Un Giorno da Pecora - si è trattato solo di una birichinata..."

 Stefano Semeraro per “la Stampa” il 29 Marzo 2023

Era il 1976, c'era Adriano Panatta in campo al Foro Italico a Roma per la finale degli Internazionali d'Italia contro Guillermo Vilas. E poi c'era quel signore con i baffi e il microfono in mano, la faccia buona e intelligente, capace di avvicinarsi con la leggerezza di un Comanche, quasi gattonando sulla terra rossa del centrale di allora, per chiedere a Panatta, in diretta tv durante un cambio di campo: «Adriano come ti senti?». Un signore educatissimo e ubiquo, di nome Gianni Minà.

 «Oggi una cosa del genere sarebbe impossibile», sorride Panatta. «Per un giornalista è diventato quasi impossibile fare un'intervista normale a un giocatore, figuriamoci entrare in campo durante la partita. Ci sono come degli sceriffi: se ti avvicini ti arrestano. Gianni era così, riusciva a fare quello che gli altri non pensavano nemmeno». Ma che sapeva di potersi permettere: per abilità e per conoscenza del mondo. «A quei tempi eravamo già amici, cenavamo spesso insieme, quindi in realtà vedermelo spuntare vicino non mi diede neanche fastidio, anche se in quel momento stavo perdendo. Magari ad un altro avrei dato una racchettata in testa… Ci provò poi una seconda volta, e allora lo fermarono. Quindi credo che rimanga un episodio unico, nella storia del tennis e forse dello sport. E irripetibile».

Formidabili, quei decenni.

Fatti di frequentazioni continue, assidue, di amicizia vera; di cene e incontri fra il casalingo e il surreale. Minà era l'amico geniale e gentile a cui nessuno sapeva dire di no. «A Gianni, del resto, che volevi dirgli? Era amico di tutti. A quei tempi ci trovavamo spesso insieme, a casa sua, con noi c'erano Gianni Boncompagni, Franco Bracardi, Mario Marenco, Renzo Arbore, erano serate molto divertenti».

 (...)

«Gianni era, soprattutto, una brava persona. Mai malizioso, come i giornalisti, anche per mestiere, a volte devono essere. Mai sopra le righe.

(...)

«Una volta, ai tempi della motonautica, andai a Cuba per una gara del mondiale. A quei tempi lavoravo per Tele Monte Carlo, la 7 di oggi. Facevo i servizi per il telegiornale e alla gara d'esordio si presentò Fidel Castro. Ci salutò tutti, poi stava per montare sullo starter, la barca che dà l'avvio alle gare. Mi feci coraggio e da lontano gli dissi: "Comandante, sono un amico di Gianni Minà…". Castro si fermò, mi guardò e mi sorrise: "Gianni Minà, certo. Allora vieni, vieni con me…". E ottenni l'intervista».

Panatta: «Serena Grandi? Fu una birichinata. Mi vergogno ancora della prima sera in cui vidi Loredana Bertè». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 30 Marzo 2023

L’ex campione di tennis e la fama di playboy: qualche signora mi ferma ancora

Adriano Panatta, ha sentito che ha detto Serena Grandi in radio, a Un giorno da pecora? «Magari si seccherà, ma nel mio cuore è rimasto Panatta».

«Chiama per questo? Io sono una persona riservata».

A 72 anni, non ha nostalgia dei tempi ruggenti in cui collezionava vittorie sui campi da tennis ed era pure considerato un playboy?

«Ho nostalgia dell’età di allora, quello sì. E meglio che parlino bene e non male».

Quello con Serena sarebbe un primato notevole, dato che la diva ha raccontato di aver avuto cento uomini. Ne è lusingato o imbarazzato?

«Ma sono passati 40 anni... A me viene da ridere».

Serena ha detto: «Aveva trent’anni, era un figo pazzesco». Lei come si vedeva?

«Questa è una follia! Ero caruccio come tanti altri. So da qualche signora attempata che ancora mi ferma — pochissime signore — che qualcuna teneva il mio poster in cameretta. Io rispondo: speriamo che l’ha tolto».

Si sposò a 25 anni. Eva Express titolò: fan in lacrime lo assaltano e lo baciano.

«Già ai tempi ne scrivevano di baggianate…».

Se con Serena aveva 30 anni, era sposato o sbaglio?

«Fu una birichinata».

Durata due anni, secondo l’attrice.

«Onestamente, non ricordo, ma mi sembra impossibile. So che mia moglie lo scoprì parecchio tempo dopo».

Prima delle nozze, risultano sue ex Loredana Bertè, Mita Medici, la sorella di Lea Pericoli, Laura, e l’indossatrice Michela Cavaliere.

«Più o meno. Ma di Michela chi gliel’ha detto?».

Mi sono documentata.

«Esiste documentazione su queste cose?».

Banalmente gli archivi dei giornali. Il suo fascicolo, alla voce Bertè, narra«un rapimento simil siciliano: mentre lei si esibiva quasi in topless al Roof Garden di Alassio, lui le dava un secco aut aut: o me o il ballo».

«Ma che storia fasulla micidiale! L’ho conosciuta che era giovanissima e faceva la ballerina. Era il ’72 o ’73, ero fidanzato con Mita Medici: bellissima, attrice di grande talento, di lei ho ricordi stupendi. Ma, una sera, al ristorante, con Mita, arrivò Loredana, facevano teatro insieme. La vidi entrare nella sua pelliccia di scimmia e mi colpì subito».

Vestiva già con l’eccentricità che conosciamo?

«Ammazza… Pensavo che, sotto, fosse nuda. Invece, erano hot pants. Mi comportai molto male con Mita: corteggiai Loredana la sera stessa. Me ne vergogno ancora».

Tornando al rapimento?

«Loredana si esibiva vestita non si può immaginare come. Era pieno di mosconi che facevano commenti spinti. Ogni sera, mi toccava discutere. Al che, le dissi: basta, fai un altro lavoro. Cedette per stanchezza: non l’ho rapita. Invece, fui io a portarla al primo provino da cantante: lei non voleva. Lo racconta ancora: siamo molto amici».

La sorella Mia Martini raccontò: è un Otello e vieta a Loredana mini e shorts.

«Ma non è vero. Qualche volta le avrò detto: mettiti dei pantaloni lunghi ogni tanto».

Tra i flirt presunti: la nuotatrice Novella Calligaris.

«Ma quando mai».

Un altro: Clarissa Burt.

«L’ho conosciuta sì...Era molto simpatica».

Davvero a 18 anni voleva sposare Laura Pericoli?

«Così giovane che capivo?».

Che effetto le faceva il gossip che la riguardava?

«Viaggiavo tanto, non è che sapevo ogni cosa che usciva».

Mi dica se questa l’ha letta: un ricco spasimante di Loredana entra nel caffè di via Veneto dove facevate colazione, prende una brioche e l’inzuppa nel cappuccino di Loredana. Lei, da vero signore, fa finta di niente.

«Se fosse successo, da vero signore, gli davo due pizze, sicuro. Due schiaffi in faccia».

Nel 1989, Loredana sposerà Björn Borg e l’ha raccontata così: «Al Roland Garros, Adriano mi disse “do du’ pallate a ‘sto svedese e andiamo a cena”. Quel nordico era bello come il sole e mi volle subito conoscere».

«Impossibile: non c’era a quel Roland Garros. E le sembra che una di 23 anni guardava uno di 16?».

Perché finì fra voi due?

«Conobbi la mia prima moglie. Una studentessa: 40 anni insieme, tre figli».

Il matrimonio le fece bene: ebbe un 1976 magico, vinse Internazionali, Roland Garros, Coppa Davis.

«Male non mi fece».

Ora, è sposato dal 2020 con Anna Bonamigo, avvocatessa. Che dice sua moglie dei trascorsi da playboy?

«Mi fa le domande che mi fa lei e io rispondo: lascia perdere. Per amore suo, sono andato a vivere a Treviso, dove ho aperto un club di tennis. E sono molto felice per la mia situazione sentimentale».

Come nasce il «ciuffo alla Panatta» che fu tanto imitato dai suoi coetanei?

«Mi sono sempre pettinato così, anche oggi».

E come ha retto il ciuffo? Lo tinge?

«Ma si figuri se mi tingo... Ho tutti i miei capelli: solo quelli sono rimasti uguali».

Novak Djokovic.

Giampiero Mughini per Dagospia sabato 15 luglio 2023.

Caro Dago, come molti italiani per niente al mondo avrei rinunciato a vedere ieri pomeriggio lo scontro generazionale a Wimbledon tra il nostro Jannick Sinner e quel Novak Djokovic che sulle sue scarpe porta inciso il numero 23, il numero di slam da lui vinti come da nessun altro tennista al mondo prima di lui. 

Purtroppo non è stato un vero scontro, dato che al momento la scalata del "muro" Djokovic non è alla portata del nostro bravissimo tennista metà tedesco e metà italiano. E ho detto "muro" perché esattamente di questo si tratta: di un uomo che le ribatte tutte, che te le rimanda indietro tutte, che è quasi impossibile mettere in difficoltà, dargli ansia.

Di un uomo che un mio caro e intelligente amico, l'avvocato padovano Saverio Salvan, mi ha scritto che è "antipatico", e io non sono affatto d'accordo con lui. Mi è piaciuto moltissimo il "numero" che Djokovic ha fatto a un certo punto del terzo set, il più combattuto. 

C'era che la buona parte del pubblico - m'è sembrato - stesse dalla parte di Sinner e che qualcuno deve aver pronunziato qualcosa di ostile a Djokovic, al che lui ha subito reagito com'era nel suo pieno diritto. E siccome i punti necessari a vincere il game lui se li è conquistati subito dopo, ci ha messo di suo qualcosa in più. Ha atteggiato la sua faccia come quella di uno che stesse piangendo e che si asciugava le lacrime. Voleva così sfottere quelli che stavano dalla parte di Sinner. Antipatico? No, per niente. Semmai uno che non fa nulla per essere simpatico, uno che non fa mai "il piacione".

Lo dico con mio personale dolore. Ai tempi delle sue memorabili sfide con il mio Roger Federer, i nove decimi del pubblico stavano dalla parte di Federer. D'altra parte in tutti i campi da tennis del mondo i nove decimi del pubblico stava con quell'artista il più rifinito di tutti, quello che maneggiava la racchetta al modo di un violino. Il che purtroppo non gli bastava quando aveva di fronte Djokovic, il quale ribatteva tutto. Non sta né in cielo né in terra dire che Djokovic è stato un tennista maggiore di Rod Laver o di Roger, sta che lui le ribatte tutte e lo fa con intelligenza e sensibilità tennistica altissime.

Per me la storia del tennis è cambiata quel giorno di luglio del 2019 quando Roger era a due punti dal vincere il suo nono Wimbledon. Due punti, e lui che aveva il servizio e il servizio di Roger non era uno scherzo. Roger perse tutti e due quei punti, Djokovic vinse dopo un interminabile tie-break al quinto set. Ricordo perfettamente uno di quei due punti. 

Roger batte, un gran bel servizio epperò non tale da annichilire Djokovic, il quale lo controbatte con una formidabile sparata di dritto che fora Roger sulla sua destra. Un colpo geniale e coraggiosissimo, il colpo che ha chiuso la carriera di Roger. 

Da quel giorno per molti di noi "federiani" il tennis ha tutt'altra storia. Non per questo io mi abbasso fino al giudicare "antipatico" Djokovic il vincente. Mi inchino al suo talento, al suo modo di essere "serbo" ossia duro come la roccia e forse qualcosa di più. Uno che per una questione di principio ai tempi del Covid ha dovuto rinunziare al punteggio di non ricordo quanti slam che non ha potuto giocare. Cappello.

Novak Djokovic, i segreti: dal miele manuka e la cena con Sharapova alla partita da ubriaco. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 15 Maggio 2023.

Il campione serbo ama la filosofia orientale, pratica yoga, mangia con attenzione (è vegano) e si traveste da Babbo Natale per i figli

Numero uno

Ha sfiorato il grande slam, mancandolo, è passato attraverso l’era di Roger Federer e Rafa Nadal quasi da terzo incomodo arrivando a quota 22 Slam (in 33 finali, un record assoluto). A Novak Djokovic manca soltanto di chiudere almeno una volta il cerchio dell’anno perfetto per la completa realizzazione. Ma come ha fatto il serbo a diventare il più forte, o quasi? Alimentazione, yoga, e qualche altro segreto.

La moglie Jelena e Babbo Natale

Jelena Ristic, oggi Jelena Djokovic, è la prima chiave del successo del campione serbo. Si sono conosciuti da giovanissimi, perché frequentavano lo stesso liceo, anche se lei è di un anno più grande. Jelena ha studiato in Italia, si è laureata alla Bocconi nel 2008, poi ha iniziato a seguire Nole e alcune delle sue attività (è Ceo della sua fondazione). Insomma, è diventata la sua spalla. Si sono sposati nel 2014 e hanno due figli, Stefan e Tara, per i quali Novak si traveste anche da Babbo Natale.

Cibo vegano e dieta gluten free

Novak è diventato Djokovic quando ha cambiato il modo di mangiare. La dieta gluten free — adottata dopo aver scoperto di essere intollerante al glutine —, gli ha permesso di portare il suo corpo al massimo. È vegano: «Mangiare vegano mi rende più consapevole del mio corpo in campo — ha raccontato —. Ho tolto le tossine e con loro sono passate tutte le interferenze con i miei livelli di energia. Quando giochi per tre, quattro o cinque ore di fila, c’è bisogno del carburante giusto, e per me il carburante giusto è a base vegetale». Con alcuni particolari, ad esempio l’acqua: deve essere rigorosamente a temperatura ambiente perché «quella fredda rallenta la digestione».

Il miele manuka della Nuova Zelanda

Parliamo sempre di cibo, sempre particolare. Nole adora il miele della Nuova Zelanda, che proviene da api che si nutrono da alberi di manuka. Due cucchiai al mattino, qualche assaggino anche durante le partite. E poi ancora frullati a base di concentrato di proteine di piselli, tanto avocado, limoni, niente latticini e caffeina, pochi zuccheri, burro di anacardi e thé alla liquirizia.

Yoga e filosofia orientale

Il serbo è appassionato di yoga (la pratica abitualmente) e tai-chi, legge libri di filosofia orientale e medita. A Tokyo si è allenato con Nina Derwael, campionessa belga europea e mondiale di ginnastica, in cui ha dimostrato una volta di più la sua flessibilità. Un uomo di gomma, come sanno bene i suoi avversari.

Camera ipobarica

Come recupera dalle fatiche di una partita il tennista numero uno al mondo? Dormendo, cerca infatti di non scendere mai sotto le sette-otto ore a notte di sonno. E con una speciale camera ipobarica, un macchinario simile a un ovetto al cui interno la pressione è più bassa di quella atmosferica. Poi lunghe passeggiate (quando possibile) a contatto con la natura.

La cena con la Sharapova

Anni fa ha sfidato Maria Sharapova: se ti batto (in una esibizione di doppio misto) vieni a cena con me. Un aneddoto che l’ex tennista russa ha ricordato così in una diretta Instagram con Nole: «Tu eri ancora molto giovane, non so se avessi ancora vinto un torneo o meno. Giocavamo l’uno contro l’altra e mi avevi detto che se avessi perso sarei dovuta venire a cena con te. E così è successo. Siamo andati a un ristorante giapponese, hai estratto una macchina fotografica compatta e hai chiesto al cameriere di farci una foto ricordo».

Il modello Kobe Bryant

Era amico di Kobe Bryant, lo ricorda spesso sui social e lo considera un modello da imitare. Tanto da citarlo anche prima della finale dello Us Open contro Medvedev: «Un anno, non ricordo esattamente quale fosse, prima che Kobe Bryant e i Lakers vinsero il titolo, erano sopra 3-1 nelle Finals. E Kobe disse una frase ancora oggi famosa: “Perché dovrei essere felice in questo momento? Il mio lavoro non è finito”. Questo è un po’ il mio credo».

La partita giocata «da ubriaco»

Djokovic ha giocato anche una partita da ubriaco. «Una volta ho giocato da ubriaco— ha raccontato in una diretta su Instagram con Maria Sharapova—. Eravamo in Svezia per la Coppa Davis, appena dopo aver vinto il mio primo Wimbledon (nel 2011, ndr). Non dovevo giocare quel weekend, dopo il venerdì eravamo avanti 2-0, quindi la sera prima ho festeggiato. Il sabato mi sono però ritrovato in campo. Mettiamola così, la mia visione della palla non è stata ottimale in quel match».

Djokovic: «Io, solitario come il lupo che mi spaventò a 10 anni. Mai stato no vax. Federer e Nadal? Impossibile essere amici». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 15 Maggio 2023.

Intervista a Novak Djokovic: «Non sono mai stato no vax ma serviva un bersaglio e il sistema ha colpito me. In Australia ero in cella con un siriano lì da 9 anni: ora è in Usa, lo ritroverò. Condanno la guerra in Ucraina. Fiorello? Troppo simpatico»

Novak Djokovic, ma lei quante lingue parla?

«Inglese, francese, italiano, spagnolo. Da ragazzo anche tedesco, ma è un po’ che non lo pratico».

E in campo in quale lingua pensa?

«In serbo. In campo mi arrabbio in serbo, gioisco in serbo, mi vergogno in serbo. Anche se con lo staff, quando non voglio farmi capire dagli altri, parlo in italiano. Del resto sono quasi tutti italiani: Edoardo ed Elena i manager, Claudio il fisioterapista, Marco il preparatore atletico…».

Mi risulta che lei se la cavi anche con il portoghese, il cinese, l’arabo.

«Qualche frase. È una questione di rispetto per il Paese. Quando vedono che ti sforzi, apprezzano. Più lingue sai, più valore hai. Non dico come uomo; intendo il valore delle relazioni, la ricchezza dell’amicizia».

Qual è il suo primo ricordo?

«La montagna. Kopaonik, nel Sud della Serbia. Mio padre mi portava con sé a sciare, avvolto in una sciarpa, quando avevo sette mesi: questo ovviamente me l’ha detto lui, non sarebbe un ricordo ma un trauma…Un giorno ero solo nella foresta, avrò avuto dieci anni, e ho incontrato un lupo».

Un lupo?

«Un lupo. Provai una paura profonda. Mi avevano detto che in questi casi bisogna indietreggiare lentamente, senza perderlo di vista. Ci siamo guardati per dieci secondi, i più lunghi della mia vita; poi lui ha piegato a sinistra e se n’è andato. Provai una sensazione fortissima che non mi ha mai abbandonato: una connessione d’anima, di spirito. Non ho mai creduto alle coincidenze, e pure quel lupo non lo era. Era previsto. È stato un incontro breve, ma molto importante».

Perché?

«Perché il lupo simboleggia il mio carattere. Sono molto legato alla mia famiglia, e cerco di essere disponibile con tutti; ma a volte devo stare da solo. Spesso nella vita mi sono ritrovato solo. Solo con la mia missione, con i miei obiettivi da raggiungere. Sono rimasto connesso con quel lupo. Anche perché il lupo per noi serbi è sacro. È il nostro animale totemico. È il simbolo di una tradizione nazionale, di una fede ancestrale che precede il cristianesimo. Una religione prima della religione».

Suo padre è nato in Kosovo, lei è stato in visita a Mitrovica.

«E ora in Kosovo voglio tornare, con mia moglie Jelena, per battezzare là i nostri figli, Stefan di otto anni e Tara di cinque. So che l’argomento è molto sensibile. Che il conflitto c’è ancora, non con le armi in questo momento, ma la tensione si sente. Io non voglio fare politica, ma per ogni serbo il Kosovo è il cuore, è il centro della nostra cultura, della nostra identità, della nostra tradizione, della nostra religione».

Com’è stata la sua infanzia?

«Libertà totale. Senza telefoni: quando calava il sole era il segnale che dovevo tornare a casa. La foresta, la natura sono state fondamentali per la mia formazione, vorrei che pure i miei figli stessero il più possibile all’aria aperta. A quattro anni mi regalarono la prima racchetta; ma nessuno di noi aveva mai giocato a tennis, nessuno sapeva cosa fosse. Eravamo una famiglia di sciatori, il nostro idolo era Tomba la bomba».

Poi sulla montagna arrivò Jelena Gencic, l’ex tennista che la scoprì.

«I miei gestivano una pizzeria, si chiamava Red Bull. Proprio di fronte costruirono i campi da tennis. Avevo sei anni. Non so se era scritto nel destino che dovessi diventare un campione, le ho detto che non credo alle coincidenze, nulla avviene per caso e tutto ha una ragione; ma credo alla fortuna. E fu una fortuna che arrivasse Jelena. Non c’era posto per me nel corso, e io da dietro il reticolato guardavo gli altri bambini giocare. Poi accesi la tv alla ricerca di una partita di tennis, e c’era la finale di Wimbledon: Sampras batté Courier. Il mattino dopo Jelena si avvicinò e mi chiese: buongiorno piccolo ragazzo, sai cos’è il tennis? Io risposi: sì, ieri ho visto la finale di Wimbledon! E lei: vuoi provare?».

Provò.

«E Jelena vide qualcosa dentro di me. Da lei ho imparato tutto. Se sono così perfezionista, è perché lei lo era. Aveva scoperto Monica Seles, e mi faceva una testa così: vuoi una coca-cola? Monica Seles non beve coca-cola. Vuoi un hamburger? Monica Seles non mangia al fast-food… Mi ha fatto crescere anche come uomo, mi ha preparato alla vita. Il mio approccio olistico (Djokovic dice proprio approccio olistico, in italiano), l’attenzione a quel che mangio, a come dormo, a come recupero, a come accolgo i pensieri, l’ho trovato in lei. Mi portava a casa sua e mi faceva ascoltare la musica classica…».

Quale?

«Mozart, Bach, Vivaldi. Mi leggeva le poesie di Pushkin. E mi faceva vedere i video dei campioni: il rovescio di Agassi, il servizio di Sampras, la volée di Rafter e di Edberg, il dritto e i salti di Becker, quei salti che non ho mai imparato a fare».

Chi era il suo preferito?

«Guga Kuerten, il brasiliano. Il più carismatico, il più amato. Così, quando nel 2016 finalmente ho vinto il Roland Garros, gli ho chiesto il permesso di celebrare alla sua maniera: disegnare sulla terra battuta di Parigi un gigantesco cuore».

Lei ha conosciuto anche Emir Kusturica, il regista.

«Sì, ed è un’altra persona da cui ho imparato molto. Posso non essere d’accordo su alcune cose, ma è un uomo autentico, onesto. Uno che ha il coraggio delle proprie idee, e le difende dalle pressioni dei media. Ne so qualcosa anch’io, con le pressioni che ho dovuto sopportare in questi ultimi tre anni…».

Si riferisce al vaccino?

«Ho subìto tutto sulla mia pelle. Molte persone hanno apprezzato che io sia rimasto coerente. Il 95 per cento di quello che è stato scritto e detto in tv di me negli ultimi tre anni è totalmente falso».

La chiamavano Novax Djokocovid.

«Io non sono no vax e non ho mai detto in vita mia di esserlo. Non sono neppure pro vax. Sono pro choice: difendo la libertà di scelta. È un diritto fondamentale dell’uomo la libertà di decidere che cose inoculare nel proprio corpo e cosa no. L’ho spiegato una volta alla Bbc, al ritorno dall’Australia, ma hanno eliminato molte frasi, quelle che non facevano comodo. Così non ho mai più parlato di questa storia».

Com’era il posto in cui l’hanno trattenuta in Australia?

«Un carcere. Non potevo aprire la finestra. Io sono rimasto meno di una settimana, ma ho trovato ragazzi, profughi di guerra, che erano lì da moltissimo tempo. Il mio caso è servito a gettare luce su di loro, quasi tutti sono stati liberati, e questo mi consola. Un giovane siriano era lì da nove anni».

Nove anni?

«Ora è in America, quando tornerò quest’estate lo voglio ritrovare e invitare a vedermi agli Us Open; anche con lui mi sento connesso. Il giudice australiano ha accolto il mio ricorso; ma il ministro dell’Immigrazione, che ha il potere di deportare chi vuole senza ragioni, mi ha espulso. Io però non ho violato le regole. Sono entrato in Australia con i documenti necessari e corretti, come ha riconosciuto il magistrato del primo processo».

Ma non era vaccinato.

«Avevo avuto il Covid ed ero guarito. Ho rispettato tutte le norme e non ho messo in pericolo nessuno. Eppure una volta là sono diventato un caso politico, uno che metteva in pericolo il mondo. Il sistema, di cui i media sono parte, esigeva un bersaglio, che fosse opposto al mainstream; e lo sono diventato. Mi hanno messo l’etichetta di no vax, una cosa del tutto falsa, che ancora adesso mi fa venire il mal di stomaco. Poi si è scoperto che la situazione della pandemia era molto diversa da come veniva presentata. Ora l’Organizzazione mondiale della sanità ha scritto che il virus non è più così grave, che fa parte di tutti i virus che abbiamo…».

Ma questo è dovuto proprio al fatto che non c’è stata libertà di scelta e tutti o quasi si sono vaccinati, non crede?

«Però si è divisa la società. E io sono stato messo in mezzo, additato come persona non grata. Mi sono ritrovato solo; ma quella volta mi sono sentito la pecora, circondata da venti lupi. E un uomo solo contro i grandi media non ha chance. Io dimentico in fretta, sono concentrato sulle cose positive. Ho avuto il Covid una seconda volta. Ho sempre accettato le regole, non potevo andare in America e non sono andato, ho rinunciato a due Us Open per restare coerente con me stesso. Non ho parlato, perché ho visto che quel che dicevo veniva distorto. Sono tornato in Australia e ho vinto. Però sono rimasto deluso. Dai media e da molti colleghi».

Quali?

«Nomi non ne faccio. Ma quando mezza società è contro di te, allora vedi la vera faccia delle persone. E molte persone hanno girato la testa dall’altra parte. Molti giocatori e qualche organizzatore».

Torniamo agli allenamenti con Jelena. La notte del 24 marzo 1999 lei era a Belgrado.

«Non accadde la prima sera, ma la seconda o la terza. Mi svegliò l’esplosione, il fragore dei vetri rotti. Mia madre cadde, picchiò la testa contro il termosifone, svenne. Mio padre urlò: Nole, i tuoi fratelli! Io non avevo ancora dodici anni ma ero il più grande. Presi Marko e Djordje e uscimmo in strada, non c’era un rifugio nel nostro condominio, così scappammo verso il palazzo di mia zia, erano le tre del mattino, per strada c’era il fumo delle bombe. Caddi, mi graffiai le mani e le ginocchia, alzai lo sguardo e i miei non c’erano più, sentii un rombo venire verso di me, guardai il cielo e vidi passare due F-117. Spararono due razzi contro l’ospedale militare, che esplose a cinquecento metri da noi, la terra tremò, tremava tutto… Fu un trauma, ancora adesso ho paura dei rumori forti e improvvisi, anche solo l’allarme antiincendio mi fa sobbalzare».

È vero che continuò a giocare a tennis nei 78 giorni del bombardamento di Belgrado?

«È vero. Le scuole erano chiuse. Contro le bombe cosa puoi fare? Non molto, oltre a continuare la tua vita. Ci alzavamo all’alba, non bombardavano mai all’alba. Andavamo nelle zone dove non erano previste incursioni, oppure in quelle dove le incursioni c’erano appena state. Per me era come un gioco, ma per i miei genitori fu uno stress terribile: la paura, la coda per il pane, l’ora di elettricità al giorno in cui mia madre doveva cucinare il più possibile… Quella guerra fu una motivazione ulteriore. Mezzo mondo era contro di noi, il nostro Paese non aveva certo una buona immagine; e io volevo dimostrare al mondo che esistevano anche serbi buoni».

Cosa pensa della guerra in Ucraina?

«L’unica cosa che posso dire, da bambino di guerra, è questa: in guerra nessuno vince. La guerra è la cosa più brutta della vita, la peggiore invenzione dell’uomo, la peggiore idea della storia. Ho visto due guerre, quella civile in Jugoslavia e i bombardamenti Nato su Belgrado, ho visto la sofferenza della mia famiglia, la povertà del mio Paese. La guerra è una cosa molto più grande di noi, puoi solo pregare Dio che la faccia finire domani. Purtroppo la guerra in Ucraina è lenta, e ogni giorno si fa più devastante. Ci sono le città distrutte, le vite stroncate, ma ci sono anche danni che non si vedono, che dureranno nel tempo. Ho letto un articolo sugli effetti dei traumi bellici: influiscono sulla salute, in particolare sulla digestione. Io ho avuto problemi con il microbioma, la mia carriera è decollata solo quando ho scoperto l’intolleranza al glutine e ai latticini, e questo può essere legato alla guerra. Ma la cosa peggiore ovviamente è perdere una persona cara; e la guerra apre un vuoto in ogni famiglia. Per questo non posso sostenere nessuna guerra contro nessun Paese».

È vero che per consentirle di giocare a tennis suo padre si indebitò?

«Con la guerra avevamo perso tutto, anche la pizzeria. Mi fece vedere un biglietto da dieci marchi e disse: questo è tutto quanto ci resta. La retta della scuola che aveva aperto in Baviera Niki Pilic, l’ex campione cui ero stato segnalato da Jelena, ne costava cinquemila al mese. Mio padre lo fece per farmi capire che avevo una responsabilità. Andò dagli strozzini. Criminali. La Serbia al tempo dell’embargo era un posto pericoloso. Gli chiesero un interesse del 12,5 per cento. Poi aggiunsero: hai fretta? Sì? Allora facciamo il 15. Anche mia mamma ha lavorato tanto, ha sofferto tanto».

Lei sta da tutta la vita con la stessa donna, e anche lei si chiama Jelena. Come l’ha conosciuta?

«In un circolo di tennis di Belgrado. Io avevo 16 anni, lei 17, e stava con un altro tennista. Lui vinse un torneo, sollevò la maglietta e sulla canottiera aveva scritto: Jelena, ti amo. Lo prendemmo in giro, ma dentro di me pensai: chi sarà questa Jelena? Non gliel’ho portata via, si erano già lasciati. Lei è andata a studiare in Italia, alla Bocconi, io mi allenavo con Riccardo Piatti a Montecarlo, siamo rimasti a lungo lontani. Ogni tanto mi veniva a trovare in treno, andavo in macchina a prenderla a Ventimiglia, quanto tempo passato in quella stazione… Se poi avesse cominciato a lavorare ci saremmo perduti, con la vita che faccio; rinunciare era l’unico modo per stare insieme. Lavorò tre, quattro mesi; poi scelse me. Le sono molto grato per questo».

È vero che lei ha smesso di imitare i colleghi dopo che gliel’ha chiesto Federer? «Federer non me l’ha chiesto e io non ho smesso con le imitazioni, quest’anno al Montecarlo Players Show ho fatto Andy Murray, Medvedev e il rapper Snoop Dogg. Non ho mai imitato qualcuno per offenderlo ma per divertirmi; tipo “Scherzi a parte”. E poi me lo chiedevano, come Lea Pericoli a Roma nel 2009 davanti a Nadal: feci l’imitazione di Rafa perché aveva vinto lui; se avessi vinto io non l’avrei mai fatta, avrei pensato: se lo imito dopo che l’ho battuto, Rafa mi ammazza…” (Djokovic ride).

Com’è stato davvero il suo rapporto con Federer?

«Non siamo mai stati amici, tra rivali non è possibile; ma non siamo mai stati nemici. Ho sempre avuto rispetto per Federer, è stato uno dei più grandi di tutti i tempi. Ha avuto un impatto straordinario, ma non sono mai stato vicino a lui».

È vero che all’inizio eravate amici con Nadal, ed è finita quando lei ha cominciato a batterlo?

«No. Nadal ha solo un anno più di me, siamo tutti e due dei Gemelli, all’inizio siamo anche andati a cena insieme, due volte. Ma anche con lui l’amicizia è impossibile. L’ho sempre stimato e ammirato moltissimo. Grazie a lui e a Federer sono cresciuto e sono diventato quello che sono. Questo ci unirà per sempre; perciò provo gratitudine nei loro confronti. Nadal è una parte della mia vita, negli ultimi quindici anni ho visto più lui della mia mamma…».

E Fiorello?

«Troppo simpatico. Un fenomeno. Altri comici fuori dalla scena sono tristi; lui anche in privato non smette mai di scherzare, di fare show. Quando è caduto dalla moto l’ho cercato, per stargli vicino. Mi piace tutto quello che fa, in radio, in tv, l’edicola Fiore è un’invenzione geniale. Quando il tennis finirà, mi piacerebbe fare anch’io l’attore. A teatro però». 

Come mai è milanista?

«Per mio padre. E per Dejan Savicevic, il Genio».

Lei è noto per la sua forza mentale, per il talento di giocare i punti decisivi meglio di quelli normali. Prima ha detto: accogliere i pensieri. Cosa intende?

«I pensieri negativi non vanno respinti, ma accolti e lasciati passare».

In Italia la amano, altrove spesso le tifano contro. Il massimo fu la finale di Wimbledon 2019, dove al quinto set annullò a Federer due match-point sul suo servizio.

«E alla fine ho detto che il pubblico urlava Roger-Roger e dentro di me il grido diventava Novak-Novak. Quella finale è stata una delle due partite della vita».

Qual è stata l’altra?

«La finale del 2012 in Australia con Nadal: una battaglia fisica, durata quasi sei ore. Nella maggioranza dei tornei, quando giocavo contro Federer e contro Nadal, il pubblico era contro di me. Mi dicevo: devi sviluppare la forza dentro la tua testa, se no non vinci mai. Ma non è una cosa facile, trasformare il tifo contrario in energia. Non è che funziona sempre. Come diceva Michael Jordan: ho fallito, ho fallito, ho fallito; e ho vinto».

Stefano Semeraro per “la Stampa” il 30 gennaio 2023.

«Sogno» è una parola consumata dalle molte volte che la si tira in ballo, svuotata di significato perché troppo generica.

 Ci voleva Novak Djokovic per darle una lucidata e rimetterla in vetrina, di nuovo evocativa perché splendente di vita vissuta, di lacrime e amarezza, di sofferenza e rivincita.

 Un anno fa il Djoker rotolava fuori dall'Australia con il foglio di via, dopo una settimana di prigionie e processi. Non ha mai abiurato una causa discutibile - non vaccinarsi - ma ha pagato con dignità e coraggio la sua pena. E nonostante i due Slam saltati per il bando e i punti cancellati della vittoria a Wimbledon, sul campo si è ripreso quello che era suo: il numero 1 del mondo. Ha battuto Stefanos Tsitsipas in tre set (6-3 7-6 7-6) vincendo il suo decimo Australian Open (su dieci finali, impressionante) il 22° Slam che lo porta in parità con Nadal. Voleva continuare «a scrivere la storia del tennis», voleva una rivincita, e l'ha ottenuta mentre Melbourne Park si trasformava in una piazza di Belgrado.

«Io e Stefanos veniamo da Serbia e Grecia, due paesi non grandi, senza una grande tradizione tennistica a cui ispirarsi», ha detto dopo essersi ripreso dal pianto liberatorio («un collasso emotivo») che lo ha colto dopo due settimane di stress continuo, mentre abbracciava i suoi in tribuna. «Il messaggio per tutti i giovani è che ce la possono fare, non importa da dove vengono. Quindi vi dico coltivate i vostri sogni, innaffiateli come si fa con i fiori. Trovate chi è pronto a condividerli con voi, e non fateveli rubare da nessuno».

 Lo ha detto da ex bambino cresciuto sotto le bombe delle guerre balcaniche - e che da quattro anni, lui serbo, ha un coach croato - costretto ad emigrare a 13 anni da solo in Germania. Nel suo sogno ci sta tutta una vita. Carne, sangue, speranze. Errori, certo ma guai a giudicare solo quelli.

(…)

Da ilnapolista.it il 30 gennaio 2023.

Non ha solo vinto sul campo il suo ventiduesimo Slam. Lo ha vinto anche “fuori”. In faccia – scrive Oliver Brown sul Telegraph – ai “critici ipocriti che godevano delle sue sfortune”. La rivalsa totale di Djokovic è sportiva, sì. Ma anche politica, scrive l’editorialista.  Lo avevano demonizzato, li ha battuti tutti.

 “Può essere un tropo abusato, la vendetta – scrive – Ma nient’altro cattura del tutto il capovolgimento narrativo che Djokovic ha progettato a Melbourne. Un anno fa, era il paria dei paria, deriso come “Novax Djocovid” per aver osato rimanere impassibile, un uomo la cui eventuale deportazione è stata sfruttata dal governo australiano per cinici calcoli politici. Ora può riflettere con soddisfazione sull’avere l’ultima parola su tutti quegli opportunisti che hanno usato i loro cinque minuti di notorietà per esporlo al ridicolo globale”.

E’ un articolo questo che evidentemente anche il giornalista del Telegraph aveva in animo da un bel po’. Fa la lista dei “nemici”. Dice che il trionfo di Djokovic è “un colpo d’occhio per Karen Andrews, l’ex ministro degli interni, che qualche settimana fa dichiarava ancora pomposamente che il ripristino del suo visto sarebbe stato uno schiaffo in faccia a quelle persone in Australia chi ha fatto la cosa giusta. È un rimprovero a Scott Morrison, l’ex leader che lo ha reso il capro espiatorio per le dure politiche di confine della nazione, il tutto in un futile tentativo di rielezione. Ed è il colpo di grazia definitivo di Alex Hawke, l’allora ministro dell’immigrazione, che ha falsamente dipinto la sua presenza nel Paese come un parafulmine per gli anti-vax in un momento in cui venivano somministrati milioni di richiami del vaccino”.

Yannick Noah.

Estratto dell’articolo di Maurizio Crosetti per “il Venerdì di Repubblica” sabato 11 novembre 2023.

Yannick Noah si definisce «un cantante di tennis», ed è una delle numerose ragioni per cui vale la pena leggere 1983 (Fandango, con Antoine Benneteau, traduzione di Luca Bondioli), biografia di un anno memorabile e di una vita intera: l'anno è quello del trionfo al Roland Garros (dopo un quarantennio, Yannick resta l'ultimo francese a esserci riuscito), ma anche la spiegazione del perché Noah, che oggi ha 63 anni, sia stato più di un atleta, più di un artista, più di un simbolo sociale, e questa è appunto la sua vita intera.

Yannick, vorremmo cominciare da un padre che corre in campo ad abbracciare il figlio. 

«Accadde un istante dopo l'ultimo colpo della finale parigina dell'83, cioè l'errore di Mats Wilander. Papà si lanciò a razzo tra le mie braccia, e io ho avuto il privilegio di potergli dire "ti voglio bene" davanti a 15 mila persone. Per me l'emozione è il centro di tutto, il resto non m'interessa. La performance tecnica non mi riguarda, anzi mi annoia. Della mia carriera non ricordo nessun colpo speciale, ma le emozioni sì» […]

A proposito di Wilander, lo sconfitto. Che cosa rappresenta per lei?

«È il mio migliore amico. Gli amici sono la ricchezza che mi ha lasciato lo sport». 

Nel libro si narra la storia dell'artista contro le macchine. Il tennista rock contro i computer. Lei è ancora così?

«Beh, lo spero! Credo di essere stato un tennista inconsciamente artistico e ho cercato di trasmettere ottimismo, colore e sorrisi al di là dello sport. Mi auguro di avere portato un po' di questa luce. L'artista deve proporre un altro sguardo, una diversa soluzione alle cose. Dev'essere libero di spingersi oltre le regole, al di là del risultato e del pregiudizio» […]

Forse, lei è l'ultimo tennista ad avere vinto a Parigi con la volée.

«Ah, credo proprio di sì. Oggi non sono noiosi i giocatori, ma il gioco: io sono sempre stato un attaccante. Uno scambio che dura più di quaranta colpi è di una noia mortale. Negli ultimi quindici anni il tennis ha avuto Federer, Nadal e Djokovic, tutti gli altri sono stati invisibili. Qualcuno che non fosse uno dei tre poteva, al massimo, sperare in un quarto di finale o in una semifinale dello Slam. Lo trovo parecchio monotono».

Nel suo libro emerge con prepotenza la figura di Arthur Ashe, quasi un padre putativo. Cos'ha rappresentato per lei questo grande campione?

«Mi regalò la prima racchetta da tennis, quand'ero bambino e lui venne a esibirsi in Camerun dove ho vissuto fino ai sette anni, quasi nella savana. Prendevamo l'acqua al pozzo. Venne e mi vide, mi parlò, mi incoraggiò, mi portò in Francia a giocare e mi insegnò che tutto è possibile e nessun sogno è troppo grande. Mi ha anche mostrato quanto un campione sportivo possa essere importante per un bambino, quale luce rappresenti. Arthur Ashe lottò contro il razzismo e l'apartheid e mi ha indicato la strada. Era e resta il mio eroe del tutto umano. Al funerale ho portato la sua bara e penso a lui ogni giorno, anche adesso che ho più di sessant'anni».

Lei ha scritto: «A volte sono caffè, a volte sono latte, a volte sono caffelatte e a volte né l'uno né l'altro». Che cosa significa?

«Mio padre era nero, mia madre bianca. Io faccio parte della prima generazione meticcia, esprimo una cultura africana e una cultura europea. L'infanzia l'ho trascorsa in Africa, poi ho vissuto gran parte del mio tempo tra Europa e Stati Uniti. Dunque, sono nero e sono bianco. Ma accadono cose curiose. La maggior parte dei francesi mi giudica nero, però quando vincevo diventavo francese e basta. Invece, se perdevo o se commettevo qualche scemenza, ecco che d'improvviso ritornavo un nero. Invece in Africa mi percepiscono metà bianco e metà nero, qualunque cosa faccia». 

[…] 

Alla morte di suo padre, lei è diventato capo tribù a Etoudi, in Camerun, dove attualmente vive per la maggior parte del tempo. Perché?

«È la nostra tradizione e non ero pronto, ho dovuto imparare. Una grande avventura, una magnifica esperienza. Mi sono connesso alle mie profonde radici africane, che non conoscevo, anche con l'aiuto della lingua ewondo. Nel villaggio mi occupo della salute, dell'istruzione e dell'attività sportiva di cinquecento bambini, li facciamo giocare a basket e a tennis, praticano nuoto e arti marziali. Mi sento finalmente al centro di questa cultura che mi appartiene e che non conoscevo davvero. Adesso posso dire: questo sono io».

René Lacoste.

René Lacoste: diventare un coccodrillo. L’estroso francese fu molte cose insieme: tennista chirurgico, inventore mai sazio, imprenditore visionario. Tutto nel segno del rettile. Paolo Lazzari il 22 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Dal vetro lievemente appannato intravede ogni giorno la stessa immagine. Fuori è il solito traffico di anime che erompe in mattine ancora da stappare. Addensati contro la parete del negozio, infilato in uno dei quartieri più patinati di Boston, lo attendono impazienti i suoi tre compagni di squadra. René Lacoste però ne ha ancora per qualche minuto. Preme quel naso prominente contro la vetrina, ammaliato dalle fattezze esotiche di un elegante borsone in pelle di coccodrillo.

Esausto, il capitano della squadra francese di Coppa Davis, Pierre Gillou, picchietta sulle sue spalle. “Se ti piace così tanto te la compro io, a patto che tu vinca le prossime due partite”. René socchiude le palpebre, immaginando mentalmente di infilare le sue racchette di legno nel borsone. Poi sistema la scriminatura dei capelli impomatati sorprendendosi nel riflesso di fronte a sé e si avvia con il resto della comitiva. Non vince, ma l’aneddoto giunge all’orecchio di un cronista americano che, il giorno dopo la debacle, titola cubitale: “Sconfitta per l’alligatore francese”. In Francia la ribattono con eccessiva disinvoltura. Per un errore di traduzione, il rettile accostato a René diventa il coccodrillo. Non è la stessa cosa, ma ormai il giornale è stampato. Lacoste lo sfoglia qualche giorno più tardi in un consolatorio caffè parigino e se ne compiace.

Nastro progredito di botto. Riavvitando un po’ la cinepresa, il quadro si fa più nitido. Agli inizi del Novecento questo ragazzino dal fisico affusolato ed elegante sgrana spesso gli occhi, sedotto dallo sport praticato da sua sorella. Jean - Alida maneggia la racchetta da tennis in scioltezza, ma non è certo destinata ad abbagliare. René strattona la giacca del padre, un indaffarato e facoltoso produttore di automobili. Vuole tentare anche lui. Il genitore dapprima dissente, poi stringe un patto: se all’età di diciott’anni non sarà ancora diventato un campione, se ne dovrà andare a lavorare in azienda.

E Lacoste, sia chiaro, non è un talento naturale. Non è stato partorito in un flûte di buonasorte tennistica. Non è cresciuto all’ombra di qualche illuminato maestro. Le stimmate del campione di sicuro non ce le ha. Però possiede altre cose. Un piano. Tanti libri sul tennis. Un muro di cemento da crivellare di colpi. Si allena per mesi interi rispondendo a sé stesso. Si impone standard rigidissimi. Studia minuziosamente il gioco avversario, fino a indovinarne le fessure. In partita non è il migliore per talento, né per eleganza. La sua tattica però è sublime. Il suo approccio allo sport chirurgico.

Giocare contro di lui equivale presto a sedersi dal dentista. Lacoste diventa subito, per i suoi contendenti, quel muro contro il quale si è sfinito per interminabili ore. Non importa quanto gli altri siano più bravi di lui. René respinge al mittente ogni colpo. Ti costringe a giocare allo specchio. Ti sfinisce con una strategia cinica e accerchiante, per poi infliggerti la stoccata finale. Il suo tennis è il gioco sadico del rettile con la preda.

Dunque eccolo qui, a qualche anno di distanza da quella promessa sospesa, al fianco di quegli altri tre: Toto Brugnon, Henri Cochet e Jean Borotra. La squadra francese di Coppa Davis negli anni Venti. Un quartetto talmente formidabile, che nel 1927 in loro onore - dopo il successo colto negli Usa - viene eretto un nuovo tempio del tennis. Lo battezzano “Roland Garros”.

Quell’estate fa un gran caldo. René, che non ha mai rimosso quei titoli di giornale, fa tagliare le maniche lunghe alle maglie della squadra. D’un tratto diventano fresche polo. Sulla sua fa cucire un enorme coccodrillo verde, all’altezza del cuore. Al campo d’allenamento i compagni gliela invidiano. Allora chiama i suoi sarti e ne fa preparare altre tre. La scena inizia a ripetersi in giro per il mondo. La richiesta si moltiplica. Lacoste dapprima regala le sue creazioni, poi intuisce che la faccenda sta assumendo contorni giganteschi. Svolta così, improvvisamente, la vita di un tennista validissimo. Inizia, senza preavviso, la prodigiosa favola del Lacoste imprenditore.

Molla lo sport appena varcati i trent’anni, fiaccato da una debilitante forma di tubercolosi. Dal tennis però non si disintossica mai: inventore effervescente, propone uno dei primi prototipi di racchetta in metallo. Un’intuizione destinata ad archiviare il ricorso al legno. Le sue linee di abbigliamento nel frattempo esplodono. Lacoste diventa un fenomeno mondiale, un modo di essere, un’icona fuori dal tempo, un impero miliardario.

Chissà se René si sarebbe mai immaginato tutto questo, mentre premeva il naso contro quella vetrina di Boston. Ma i sogni, si sa, cominciano ad accadere quando li fai.

Nicola Pietrangeli.

Nicola Pietrangeli astioso e sprezzante nel docufilm «Una squadra». Aldo Grasso l'1 Dicembre 2023 su Il Corriere della Sera Giornale.

La docuserie ripercorre la magica stagione di Coppa Davis del ‘76 svelando il carattere dei quattro campioni (Barazzutti, Bertolucci, Panatta e Zugarelli) guidati dal capitano Nicola Pietrangeli

Ma quel monumento del tennis italiano che è stato Nicola Pietrangeli non ha un amico che lo aiuti a salvaguardare il monumento stesso? Rai2 sta riproponendo un vero gioiello, il docufilm in sei puntate «Una squadra» di Domenico Procacci, già in onda su Sky. Fra i tanti meriti della serie ce n’è uno molto particolare: la scoperta del carattere dei quattro campioni che vinsero la Coppa Davis in Cile nel 1976: Barazzutti, Bertolucci, Panatta e Zugarelli.

Panatta e Bertolucci sono dei fuoriclasse anche nel campo della comunicazione (dai commenti in tv ai podcast), ma anche gli altri due rivelano uno spessore umano ragguardevole. Chi ne esce malissimo, per colpa sua, è Pietrangeli: astioso, invido, sprezzante, «divisivo», come si dice ora: «Nessuno ha riconosciuto che la squadra l’ho costruita io. Panatta e Bertolucci da una parte, Barazzutti e Zugarelli dall’altra: mangiavano, si allenavano, correvano per proprio conto. Panatta diceva di Barazzutti cose tremende, lo chiamava la scimmia. La Davis l’hanno vinta loro; ma non mi riconoscono che sono potuti andare in Cile solo grazie a me». Invece tutti gli hanno riconosciuto il merito della trasferta. Le cose sono peggiorate con le vittorie di Jannik Sinner. Ogni volta, di fronte al giovane campione, sente il bisogno di rivendicare il suo medagliere: «Chi è più forte tra me e Sinner? È un paragone che non si può fare. Dico solo che Sinner ha vinto pochi titoli e io 48 tornei, anche se non tutti importantissimi».

Intanto il paragone l’ha fatto, a suo favore. Altro giudizio: «Sinner ha fatto qualcosa di eccezionale e ha solo 22 anni: quindi ha tutta la vita davanti. Ma per fare quello che ho fatto io forse ce ne vogliono due, di vite». Una basta e avanza. E poi ancora: «Non si può parlare di record perché io arrivai al numero 3 del mondo, quando ancora non esisteva il computer dell’Atp ma le classifiche già le stilavano… I record sono fatti per essere battuti. Dopodiché,( Sinner) può anche diventare numero uno al mondo ma riparliamone quando avrà ottenuto i miei risultati». L’unico amico che gli è rimasto è Panatta: «A Nicola gli si vuole bene, spero campi altri 90 anni però ha scocciato con questo modo di porsi. Il suo, più che affetto, sembra rancore».

Pietrangeli: «Panatta era un fratello, ho sofferto tanto quando mi ha tradito. Ho avuto quattro grandi amori». Aldo Cazzullo su Il Correre della Sera il 2 Settembre 2023.  

«In 90 anni ho avuto quattro grandi amori e ogni volta è stata lei a lasciarmi. A Dio credo solo quando serve»

Nicola Pietrangeli è in una casetta sulla spiaggia di Fregene. Ha appena ricevuto le bozze della sua autobiografia, Se piove rimandiamo, scritta con la firma del tennis di Repubblica Paolo Rossi. Tra una settimana compie novant’anni. Non ha perso un capello, né un ricordo.

Qual è il primo?

«La Buick Packard nera di mio padre Giulio: l’unica auto americana a Tunisi. Aveva anche un’Alfa Roadster rossa. Guidava veloce, arrivò terzo nella Tunisi-Bengasi».

Com’era suo padre?

«Forte. Giocò a calcio nella serie A tunisina. Amava il tennis. Ma il suo sport era la pallanuoto, in cui era cattivissimo: una volta si nascose una spilla nel costume, con cui punse il sedere a un avversario. Non litigava; menava. Un arabo diede una pacca a mia madre Anna per strada; lo massacrò».

Sua madre era russa.

«Figlia del colonnello zarista Alexis von Yourgens, in fuga dalla rivoluzione. A Odessa gli esuli si imbarcarono su due navi francesi. La prima andò a Marsiglia; la seconda a Tunisi. Loro erano sulla seconda. Parlavano solo russo e tedesco, non fu facile. Mia madre andò in sposa giovanissima a un altro fuoruscito, il conte Chirinsky. Finì presto, ma le rimase il titolo nobiliare, che per la legge russa va ai figli maschi. Solo vent’anni fa ho scoperto all’anagrafe di avere il doppio cognome: Pietrangeli conte Chirinsky. Ma agli amici del circolo non ho mai osato dirlo».

Perché?

«Mi risponderebbero con una pernacchia».

Come si incontrarono i suoi genitori?

«Mamma lavorava in un cinema, vendeva dolci nell’intervallo del film; papà li comprava tutti. Poi trovò lavoro in farmacia; papà comprava medicine ogni giorno. Lei si arrese: non voglio che diventi povero per me, ti sposo».

Suo padre era ricco.

«Nonno Michele, di origine abruzzese, era il Paperone di Tunisi. Costruttore. Ma perse tutto. Quando scoppiò la guerra e in Tunisia arrivarono italiani e tedeschi, non fecero nulla ai francesi. Ma quando i francesi si ripresero la Tunisia, sequestrarono i patrimoni degli italiani. Compresa l’Alfa rossa, che una volta vidi passare: alla guida c’era Joséphine Baker, spia e amante di un alto ufficiale. Mio padre finì in un campo di prigionia nel deserto».

E lei?

«Fui accolto a casa di mamma. Parlavo russo, mangiavo russo, pregavo in russo: sono di religione ortodossa».

Crede in Dio?

«Quando mi serve, come tutti i vigliacchi. Pregavo che l’avversario facesse doppio fallo: in russo, per non farmi capire. Adoro le messe ortodosse. Ogni sera prima di addormentarmi mi faccio il segno della croce. Spero, come tutti, di morire nel sonno. Ma finora mi sono sempre svegliato».

Quindi non ha paura della morte?

«A volte penso di buttarmi dal sesto piano; ma se mi faccio male? Poi penso che vorrei essere cremato; ma se mi brucio?».

Com’era il campo di prigionia di suo padre?

«Una caserma dove lui si era fatto un campo da tennis. Andai a trovarlo, mi mise in mano una racchetta e mi propose una partita di doppio. Fece tutto papà, e vincemmo. Il premio era un pettine ricavato dalla scheggia di una bomba. Per me è il più importante della mia carriera. Non l’ho mai ritrovato».

Nel libro racconta di aver rischiato di morire due volte.

«A Tunisi abitavamo alle porte della medina. Cadde una bomba, e ci trasferimmo in campagna. Ma una notte gli aerei che erano andati a bombardare Biserta si liberarono del carico proprio sopra la nostra casetta, che si afflosciò: fummo salvati dall’intercapedine che mio padre aveva fatto costruire. Un’altra volta papà e mamma, per restare soli, mi mandarono a fare una passeggiata. Mi inoltrai tra i resti di una battaglia, tra armi e munizioni. Non avevo letto la scritta: campo minato. Dio non lo so; ma l’angelo custode esiste di sicuro».

Nel 1946 suo padre fu espulso e rientrò in Italia.

«Non avevamo soldi per raggiungerlo. Così mia madre si fece espellere pure lei. La notte di Natale la passai nella stiva di un bastimento diretto a Marsiglia, con altri disgraziati come noi; per questo quando vedo i migranti mi si stringe il cuore. Papà ci aspettava a Ventimiglia, lui e mamma piangevano, io li guardavo e non sapevo cosa fare. Avevo 13 anni».

E vi trasferiste a Roma.

«Non parlavo una parola d’italiano, però avevo un pallone. I ragazzini mi chiamavano Er Francia: “Er Francia, vieni a gioca’!”. Il nostro campo era piazza di Spagna. Ho imparato l’italiano per strada; il problema era scriverlo. Anni dopo lasciai un biglietto a una tennista bellissima: “L’amore con te è una robba pazzesca”. Mi rispose: “Grazie, ma una sola b mi basta”. Che vergogna».

Le vengono attribuite 1.400 donne.

«Esagerati. Persino Califano si è fermato a mille... Mai tenuto contabilità: sarebbe stato orribile, e pure noioso. Ho avuto quattro grandi amori; e ogni volta è stata lei a lasciarmi».

Lei chi?

«Mia moglie Susanna, dopo tre figli, mi abbandonò per un altro. Lorenza perché non volevo sposarla. Paola, l’ultima, perché non volevo convivere».

E Licia Colò?

«Mai capito perché».

Come campavate nella Roma del 1947?

«Papà lavorava per l’ambasciata francese: capo becchino. Doveva recuperare i caduti nella campagna d’Italia. Lo accompagnai nei cimiteri di Venafro, in Molise, e di Pederobba, davvero con due b, in Veneto, che risaliva alla Grande Guerra. Divise lacerate, corpi straziati, mucchi di ossa: era un lavoro duro. Poi si mise a vendere le Lacoste».

Aprì un negozio di magliette?

«No no: andò proprio da René Lacoste, il Coccodrillo, uno dei quattro moschettieri che avevano portato il tennis francese a vincere tutto. Fu un boom pazzesco. Una maglietta costava 2.800 lire. Quando diventai campione, proposi a papà: io le sponsorizzo, e tu le vendi a cento lire in più. Disse no: il prezzo lo faceva René, non noi».

Come finì?

«Arrivò il figlio di Lacoste, che voleva solo magliette rosa o nere. Papà gli disse che in Italia non poteva funzionare: rosa era da checca, nera da fascio... Litigarono e mio padre ebbe il primo infarto. Poi gli tolse il marchio, ebbe il secondo infarto e morì. Lacoste junior ha fatto morire papà».

Lei giocava a calcio nella Lazio.

«Sono laziale da sempre. Ma quando volevano mandarmi alla Viterbese, o alla Ternana non ricordo bene, scelsi il tennis. Però ero amico di Maestrelli, che mi faceva allenare con la Lazio dello scudetto».

Una squadra di pazzi.

«Ci divertivamo. All’inizio mi chiamavano signor Pietrangeli e mi davano del lei. Dieci giorni dopo mi gridavano: “A Nicò, li mortacci, passa sta palla...”. Giorgione Chinaglia non voleva mai perdere, neanche nelle partitelle: si infuriava come un bisonte. Per tenerlo buono, Maestrelli all’ultimo minuto fischiava un rigore inesistente, lo faceva battere a Giorgione, lui segnava e si quietava».

Lei si allenava anche con la Juve, vero?

«Quando lavoravo a Torino alla Lancia andavo spesso a pranzo con Franco Causio. Così un giorno mi portò al campo. Feci due gol a Zoff: il primo casuale, il secondo con un bel pallonetto. Negli spogliatoi lo presero in giro: “Drago, ti sei fatto fare due gol da un vecchietto come Pietrangeli...”. La partita successiva prendo palla e lo stopper, Francesco Morini, mi falcia. Riprendo palla e mi rifalcia. Alla terza volta lo affronto: Francesco, cosa ti ho fatto? E lui: scusa Nicola, me l’ha chiesto Zoff...».

Prima di lei nel tennis italiano c’era Fausto Gardini.

«Gardini nel suo club milanese era imbattibile. Anche perché intimidiva gli arbitri, che non osavano chiamargli una palla fuori. Una volta sul match-point mi lasciai sfuggire: dai, che hanno già buttato la pasta. Gardini divenne una belva. Mi annullò otto match-point, portò la partita fino a notte, il giorno dopo mi batté. E sulla rete mi disse: ora puoi scolare la pasta».

E c’era Orlando Sirola.

«Mio compagno di doppio per dieci anni. Esule istriano, gran fisico temprato scaricando navi nel porto di Fiume. A me diceva che ero un arrampicatore sociale».

Era vero?

«Alla Capannina di Viareggio ero amico del barman, ed ero l’unico, con Agnelli e Marzotto, ad avere il conto aperto. Poter dire “metti sul mio conto” alla Capannina degli anni 60 era una cosa importante; anche perché non si può spiegare nell’Italia di oggi quale concentrato di intelligenza, arte e gioia di vivere fosse la Capannina degli anni 60».

Con Marzotto foste in competizione per una donna.

«Ero a Palermo per un torneo, era la prima volta che prendevo l’aereo in vita mia. Noto questa modella stupenda, Marta. Torniamo a Roma insieme e la invito a cena. Risponde: volentieri, il mio fidanzato non c’è. Entrai nel panico: non avevo una lira, non avevo neppure la macchina... Ma quando l’autobus da Fiumicino arrivò a Termini, c’era il fidanzato ad aspettarla: Marzotto, appunto. Mi risolse il problema».

Il riscatto a Parigi.

«Ero fidanzato con Candida, nome d’arte di Catherine Jajensky, polacca, la più bella artista del Crazy Horse. Il suo numero era il bagno di mezzanotte: arrivava sul palco e faceva il bagno in una vasca di cristallo. Girava su una Buick bianca decapottabile. Su cui entrai al Roland Garros, la domenica della finale del 1959, con lei a fianco».

E vinse.

«Uscii in tripudio, tenuto d’occhio dalla squadra Narcotici. La Buick era appartenuta all’ex di Candida, Jacques Angelvin, il Mike Bongiorno francese: arrestato perché teneva la droga nel paraurti».

Nel 1960 rivinse il Roland Garros e arrivò in semifinale a Wimbledon.

«Persi da Rod Laver, 6-4 al quinto set. Ma l’anno dopo lo sconfissi nella finale degli Internazionali d’Italia».

Laver era il più forte al mondo. Fu quella la partita della vita?

«No. Fu la semifinale del Roland Garros vinta con Roy Emerson nel 1964. L’arbitro mi richiamò dagli spogliatoi: avevo giocato talmente bene — venti pallonetti sulla riga — che il pubblico mi reclamava. Come a teatro».

Chi è il più grande tra Federer, Nadal, Djokovic?

«Lew Hoad. Mai visto uno tirare così forte. Nel 1956 vinse Parigi perdendo un solo set, nei quarti, contro di me: per la rabbia scagliò la pallina fuori dallo stadio».

Sì, ma tra Federer, Nadal, Djokovic?

«Non pronuncio mai il nome di Roger senza alzarmi in piedi. Rafa sulla terra è il più grande di sempre: ogni anno vengono festeggiati quelli che hanno vinto almeno tre volte il torneo di Montecarlo, ci siamo Borg, Nastase, io e Nadal; ma Nadal ne ha vinti undici. Novak dei tre è il più figlio di buona donna, è un lupo serbo; ma quando ha perso a Wimbledon contro Alcaraz io tifavo per lui. Alcaraz è straordinario, ma non è ancora a quel livello».

Gli italiani?

«Musetti non è il più forte ma è quello che gioca meglio. Sinner ha tutte le qualità per vincere a lungo. Berrettini tornerà, ma ha lo stesso problema di Panatta: gambette che non reggono un busto così forte». 

Panatta la sconfisse ai campionati italiani di Bologna nel 1970, 6-4 al quinto, e alla fine lei lo abbracciò.

«L’avevo visto nascere. Vuol sapere la verità? Ad Adriano io ho sempre voluto molto bene, e ancora gliene voglio».

L’autobiografia di Panatta, “Più dritti che rovesci ”, si apre con il padre Ascenzio, custode del tennis club Parioli, che annuncia la nascita del primogenito, e voi soci che gridate: e chi se ne frega!

«Non io. Io avevo 17 anni, e non mi sarei mai permesso. È vero che lo chiamavamo Ascenzietto, e questa cosa lui un po’ l’ha sofferta. Me lo ritrovai sul campo, giovanissimo, senza sapere chi fosse, e mi fece impazzire di smorzate, dovetti dirgli: “Regazzì, guarda che le palle corte le ho inventate io!”. Faticai solo il primo set. Alla fine venne a dirmi, con la sua faccia da impunito: “La saluta tanto mio padre”. Solo allora lo riconobbi: ma tu sei Ascenzietto!».

Chi è Panatta per lei? Un amico, un rivale?

«Per me, figlio unico, Adriano era il fratello più piccolo che non avevo mai avuto. Per questo nel 1978 ho sofferto così tanto per il suo tradimento».

Guardi che Panatta scrive di lei con grande affetto, ad esempio quando racconta una vostra trasferta americana.

«Eravamo due scemi. Esordio a Des Moines, Iowa. Tre metri di neve. Eravamo ospiti di famiglie americane, usavamo un’asse di legno come slittino, ci lanciavamo contro la rete di recinzione rischiando di farci male, e scoppiavamo a ridere: appunto, due scemi. Poi andammo a Los Angeles, io stavo a casa di Anthony Quinn, che giocava il doppio con me contro Tiriac e Nastase: perdevamo sempre, e lui si arrabbiava. Una volta chiesi a Tiriac, che mi doveva qualcosa, di fare un set pari. Ma fu peggio, perché Quinn si indignò: “Vedi che se ti impegni possiamo batterli?”».

Cosa le doveva Tiriac?

«Al torneo di Senigallia avevo incontrato questo ragazzo intelligentissimo, che parlava sette lingue, ma non aveva una lira. Così organizzai un giro di scommesse: il mio amico romeno mangerà un bicchiere!».

Ion Tiriac mangiava i bicchieri?

«No, ma li spezzava a morsi, e a quel punto io gridavo: basta così, Ion ha vinto la scommessa! Ora è il secondo uomo più ricco della Romania».

Perché accusa Panatta di tradimento?

«Nel 1975 in Davis erano usciti al primo turno. Con me capitano vinsero nel 1976, prima e unica volta nella storia, e arrivarono in finale nel 1977. Poi ci fu il processo staliniano».

Come andò?

«Mi convocano al Jolly Hotel di Firenze. Un plotone d’esecuzione: il presidente federale Galgani, Belardinelli, Panatta, Bertolucci, Barazzutti, Zugarelli. Tutti zitti. “Allora, che c’è?”. Comincia Bertolucci: Nicola, noi non proviamo più per te quello che provavamo prima...».

E lei?

«Mi alzo, dico “andate tutti affanculo”, e me ne vado».

Lei ha elencato i protagonisti di una serie tv di culto, “Una squadra” .

«Tecnicamente bellissima. Ma piena di bugie. Adriano in particolare poteva essere più sincero».

Quali bugie?

«Nessuno ha riconosciuto che la squadra l’ho costruita io. Panatta e Bertolucci da una parte, Barazzutti e Zugarelli dall’altra: mangiavano, si allenavano, correvano per proprio conto. Panatta diceva di Barazzutti cose tremende, lo chiamava la scimmia. La Davis l’hanno vinta loro; ma non mi riconoscono che sono potuti andare in Cile solo grazie a me».

Era il 1976, tre anni dopo il golpe.

«In quei mesi la sinistra italiana non doveva avere nulla da fare. Passavo il tempo a dibattere con i comunisti, in tv e alla radio. Il migliore era Pajetta, quasi lo convinsi: noi volevamo vincere la Coppa, non difendere Pinochet».

Modugno compose una canzone che divenne uno slogan: “Non si giocano volée con il boia Pinochet”.

«Lo conoscevo, lo affrontai: Mimmo, ma a te cosa importa? E lui: “Scusa Nicola, me l’hanno chiesto...”. Sui democristiani non si poteva contare. Il mio amico Franco Evangelisti mi avvertì: Andreotti non vi lascerà partire. Per fortuna c’era l’onorevole Pirastu».

Chi?

«Nuccio Pirastu, responsabile Sport del Pci. Diventammo amici. Ma passai brutti momenti, per due volte mi telefonarono a casa: brutto fascista, ti ammazziamo...».

Lei cosa votava?

«Mai votato in vita mia. Una volta mi chiamano: vuol venire alla radio a dibattere con un gruppo di esuli cileni? Erano gli Inti Illimani».

Pietrangeli contro gli Inti Illimani è un titolo.

«Mi dissero: “Sappiamo che lei è appassionato di calcio; lo sa che a Santiago non si gioca più perché lo stadio è pieno di prigionieri e ogni tanto ne ammazzano qualcuno?”. Ci rimasi malissimo. Poi a Santiago trovai lo stadio pieno, ma per lo spareggio della Coppa Libertadores, Universidad Católica-Colo Colo. E nel ’78 l’Italia andò a giocare il Mondiale in Argentina, dove c’era un regime molto peggiore, senza che nessuno si lamentasse».

Quali altre bugie ci sono in “Una squadra” ?

«Dicono che Belardinelli era finito in ospedale con un mezzo infarto per colpa di una mia sfuriata; ma no, era andato a sbattere contro un vetro... E poi la ridicola sceneggiata delle magliette rosse. Io non ne sapevo nulla, e mi sarei opposto: perché cogliere rischi inutili, in un’atmosfera già tesa? Siamo sicuri che Allende fosse un chierichetto?».

Non vorrà mica difendere Pinochet?

«Certo che no. Ma i camionisti che lo fecero cadere erano fascisti, o erano lavoratori impoveriti? Si è mai visto un golpe o una rivoluzione senza morti? E comunque di quella protesta nessuno si accorse. Dopo il riposo misero la maglietta blu. E quella rossa Panatta l’aveva già a Parigi...».

Vincemmo la Davis.

«E non c’era nessuno ad aspettarci. Fecero una festa al circolo Canottieri, si presentò pure Andreotti, mi raccontò che aveva difeso la nostra partecipazione... Tacqui per amor di patria».

E nel 1978 la cacciarono.

«Degli altri non mi importava nulla. Soffrii solo per Panatta, che voleva al mio posto il suo amico Bitti Bergamo. Per cinque anni con Adriano non ci siamo parlati. Poi una sera, a Cortina, un po’ bevuto, venne a scusarsi e a piangere sulla mia spalla. Anche se ora nega».

Lei si rifece in una corsa automobilistica.

«Una Celebrity Race dell’Alfa, nel 1988. Lo passai all’ultimo giro, e non riuscii a trattenere il gesto dell’ombrello. Gli diedi la rivincita in una gara di kart: tentò di gettarmi fuori e ruppe la sua, di macchina».

Nel libro lei racconta molti episodi della sua amicizia con i personaggi del dopoguerra, da Ranieri di Monaco ai grandi attori. Ma il migliore è quello con Mastroianni a Londra. Come andò?

«Arriva Marcello e mi chiede se organizzo una cena con due ragazze. Io qualche numero in agenda lo avevo, ma erano tutte impegnate. Ci troviamo a cena da soli, e ci ubriachiamo. Alla fine Marcello mi fa: “Ma ci siamo visti? Tu non sei male, io insomma sono Mastroianni, e siamo qui che sembriamo due froci...”. Poi però nel locale notiamo Jeanne Moreau con Rudolf Nureyev. Penso: che bello, andiamo a salutarli. E Marcello: “Tu sei matto! Quelli mi si vogliono fare tutti e due!”. Sia Jeanne Moreau sia Nureyev erano innamorati di Mastroianni. Lo lasciai al suo destino».

Al Foro Italico le hanno dedicato un campo da vivo.

«E ho una nipotina bellissima che si chiama come me: Nicola Pietrangeli. Avrà sempre uno stadio con il suo nome».

Estratto dell’articolo di Gaia Piccardi per il Corriere della Sera il 3 settembre 2023.  

«Aridagli...». Pare di vederlo, Adriano Panatta, a bordo piscina dell’omonimo Tennis club a Treviso con l’intervista di Aldo Cazzullo a Nicola Pietrangeli sul Corriere in grembo, e gli occhi al cielo. 

Adriano, alla soglia dei 90 anni Nick Pietrangeli ha due chiodi fissi: Licia Colò e lei.

È che quando diventi molto anziano, perdi la memoria. La verità è stata raccontata nella docu-serie Una Squadra di Procacci, che Nicola svilisce. Ma lui svilisce tutto e tutti, è una vita che lo fa». 

La trasferta in Cile, la maglietta rossa contro Pinochet, la Davis conquistata nel ‘76: i temi di un’esistenza.

«Io capisco che possa confondere, in quel contesto storico, un gesto politico per una sceneggiata: lo conosco. La maglia rossa non la capì nessuno, incluso Pietrangeli. Mimmo Calopresti ne fece un bel film. Capisco che possa inciampare nell’obbrobrio di mettere sullo stesso piano Allende e Pinochet: lo conosco. Dice che ho le gambette come Berrettini, vabbé. Avendo avuto 1400 donne sarà stanco però ha ancora la voglia di far sapere a tutti che è stato il più forte e il più bello. È arrivato il momento di dire a Nicola, con simpatia e senza giri di parole, che ha rotto i coglioni». 

Come un fiume carsico sotterraneo scorre affetto, però.

«Massì, a Nicola gli si vuole bene, spero campi altri 90 anni però ha scocciato con questo modo di porsi. Il suo, più che affetto, sembra rancore. Non è mai stato tenero né con me né con i miei compagni di Davis: a me questo non piace. Io non ho mai messo in piazza le mie storie e i miei successi, parlo bene di tutti, soprattutto delle donne: è la mia legge. Ma come regalo per i 90 anni glielo dico: Nicola caro, sei stato il più figo però a un certo punto bisogna rendersi conto che verremo dimenticati». 

L’ha invitata alla cena di gala, l’11 settembre al Circolo Canottieri Roma?

«Sì ma non andrò: non posso. Faremo una cosa insieme a Bologna con la squadra del ‘76, durante la Davis». 

Rivendica di avervi portati in Cile, contro tutto e tutti.

«È vero, si battè tantissimo, gliel’abbiamo riconosciuto mille volte, è stato detto e ridetto. Lui ha sempre questo atteggiamento e non ci fa bella figura: vuole il merito di tutto ma quella Davis, a Santiago, la vinsero i giocatori in campo. Io ho 73 anni, dirigo un circolo, non posso stare dietro alle paturnie di Nicola né far polemica ogni volta...». 

Pietrangeli dice che non l’ha invitato alla festa per i 70 anni.

«Ma non era una festa, era una cena! Io, mia moglie Anna, i miei figli riuniti a Forte dei Marmi. Non c’era neanche Paolo Bertolucci!». 

Dice che lei, Adriano, per lui figlio unico era un fratello.

«Io un fratello e una sorella ce li ho. Mio fratello di tennis è Paolo: siamo cresciuti insieme. Ma Nicola l’ho frequentato da adulto. Anche la nostra rivalità è un film nella sua testa: sarà durata un anno, ne abbiamo 17 di differenza! Lo sconfissi agli Assoluti del ‘70, è finita lì. Poi l’ho ritrovato in Davis come capitano». 

Dice che si sente tradito.

«Aridagli. Io non avevo il potere di esonerare nessuno, la verità è che Nicola c.t. dopo la Davis non lo voleva più nessuno, dal presidente Galgani ai giocatori. Era diventato insopportabile e indifendibile. Bitti Bergamo è arrivato dopo. Ma che sta a dì?». 

Sembra che non riesca ad accettare di essere stato destituito dai suoi ragazzi.

«Nicola ha un ego spropositato. È uno che ha detto a Rivera: sei fortunato che io non abbia giocato a pallone... Però non riesco a volergli male».

Dice che una sera, a Cortina, lei pianse sulla sua spalla.

«Forse gli ho detto che mi era dispiaciuto, di certo non ho mai pianto sulla spalla di nessuno. Né mi sono scusato: scusarmi di che, poi?». 

(…) 

Ma è così bello arrovellarsi nell’impossibilità di arrivare a una risposta che accontenti tutti.

«Spero di eguagliare il suo record di longevità, però basta. Le grandi imprese dello sport non danno l’immortalità. Tutto finisce e passa. Ed è giusto che sia così».

Estratto dell'articolo di Giacomo Rossetti per il Messaggero il 7 Settembre 2023 

[…] Novant'anni sulla carta d'identità, ma in realtà sono venticinque, per sempre. Nicola Pietrangeli ieri ci ha fatto visita al Messaggero, tre quarti d'ora a ruota libera tra racconti e segreti, svelati con ironia e brillantezza. […] 

Lei ha sempre risposto, a chi le diceva che con un allenamento migliore avrebbe potuto vincere di più, che si sarebbe divertito molto di meno.

«Se ci fossero stati i premi attuali, sarei andato a dormire alle 10 di sera. Ma io all'epoca "abitavo" al Crazy Horse (celebre locale di cabaret parigino, ndr). Ero diventato amico del proprietario, […]Mi fece conoscere la bellissima Candida, che sotto la pelliccia non indossava niente, e sempre lui una volta mi buttò in una stanza con otto ragazze nude! Ma non ero ancora sposato. Alla Capannina, invece, avevo un conto aperto al bar: privilegio riservato solo a me, all'avvocato Agnelli e all'industriale Marzotto. Vagliela a spiegare a Federer, una roba del genere!». 

Come ha vissuto l'essere protagonista delle cronache mondane dell'epoca?

«Mi dicevano che facevo la dolce vita, ma non è vero, io a via Veneto non sono mai stato, perché d'estate giocavo. […] Ho sempre preferito una donna bella che mi diceva di no a una brutta che mi diceva di sì. Ma le donne amano le uniformi: se sei presentabile, giochi bene a tennis, sei vestito di bianco su di un campo rosso, qualche vantaggio ce l'hai».

Che rapporto ha avuto con il grande cinema?

«Per tre anni ho frequentato Marcello Mastroianni. L'uomo più simpatico e meno divo del mondo. Ero a casa sua, e rispondevo al telefono quando lo chiamavano da Los Angeles per offrirgli ruoli in film in cui serviva parlare inglese. Lui rifiutava sempre, anche se il cachet era importante. Una volta gli offrirono 500mila dollari, una cifra spropositata all'epoca: Marcello rifiutò, "non me ne frega niente", disse. Il film era "Il Dottor Zivago", per cui Omar Sharif, di cui divenni amico, prese 200mila dollari». 

 Si è riaccesa la polemica con Adriano Panatta dopo le vostre interviste nei giorni scorsi.

«Io non l'ho mai insultato, mai. Lui invece in passato l'ha fatto, anche pesantemente. Adriano io l'ho visto nascere, insieme abbiamo vinto la coppa Davis del '76. […] Io non ho mai detto di essere più forte di lui, ma se gli va possiamo aprire un libro e leggere insieme i nostri risultati».

[…]

Cosa può dire della Coppa Davis in Cile e della maglia rossa?

«Che lì la nostra squadra giocò in rosso perché alcuni volevano far credere di fare così un dispetto a Pinochet, ma pochi sanno che in realtà Panatta aveva vinto a Parigi con una maglia rossa Tanto che nessuno si è mai chiesto perché chiudemmo il torneo in maglia blu!».

[…]

Perché il suo libro si chiama "Se piove, rimandiamo"?

«Parto col dire che il mio funerale, fra mille anni, si farà allo stadio Pietrangeli. Innanzitutto, perché c'è parcheggio, poi perché ci sono tremila posti seduti. Mi dispiace che non potrò assistere, per vedere chi viene e chi non viene. In caso piovesse, appunto, potremmo rimandare, mettendo la bara nel sottopassaggio. La musica la sto ancora decidendo, anche se "My way" all'uscita non sarebbe male».

Estratto da oggi.it giovedì 24 agosto 2023

Nicola Pietrangeli, il più titolato tennista azzurro, 90 anni il prossimo 11 settembre, in un’intervista al settimanale OGGI, in edicola da giovedì 24 agosto, ripercorre la sua carriera e la sua movimentata vita sentimentale. «Ho avuto quattro donne importanti, che mi hanno lasciato. Mi è rimasto il gatto Pupina 2», dice l’ex numero tre al mondo. 

«Mia moglie Susanna Artero, madre dei nostri tre figli, mi abbandonò perché sosteneva che la tradivo. In realtà non è vero, al limite le ho messo le corna, che è ben diverso. La seconda, Lorenza, se n’è andata via perché voleva il matrimonio, io no. L’ultima, Paola, mi ha mollato da pochi mesi. Desiderava convivere, io no. Nel mio appartamento non c’è spazio, dove li mettevo i suoi vestiti?». 

Ma c’è una storia alla cui fine Pietrangeli confessa di non essersi mai rassegnato, quella con Licia Colò. «Avevo perfino accettato di vivere con lei a Casal Palocco. La nostra storia è durata sette anni. E non ho mai capito perché sia finita. Di recente ci siamo riavvicinati. Adesso è single. Le ho mandato personalmente l’invito alla mia festa, su WhatsApp. Ha scritto subito “Sìììì”, con faccine e cuoricini. Una parte di me spera ancora che torneremo assieme. Non ho paura di rimanere da solo. È che ho voglia di Licia».

Estratto dell'articolo di Paolo Rossi per “la Repubblica – Motore” il 27 giugno 2023.

Gli diedero una Vespa, quando vinse nel 1958 il campionato italiano. Ma il suo primo trofeo fu un pettine ottenuto dagli scarti di una bomba, a Tunisi, dopo un torneo di doppio vinto con il suo papà nel campo di concentramento. 

Nicola Pietrangeli, classe 1933 (a settembre saranno novant'anni), è stato un re della racchetta ed è ancora il tennista italiano più titolato, con i suoi due trionfi Slam (due volte il Roland Garros, 1959 e 1960) e il record di presenze in Coppa Davis (164 partite). Ma la sua vita ha avuto molte diramazioni. essendo uomo curioso e intelligente. E il mondo dei motori non poteva certo mancare nel suo percorso di vita. 

Donne e motori, no? Ma per lei possiamo coniare uno slogan tipo "racchette e motori'.

«No, no. Va benissimo così: donne e motori, perchè dobbiamo cambiare i detti popolari?». 

Bene, il suo proverbiale senso dell'umorismo fortunatamente non viene mai meno.

«E se ci togliamo pure quello stiamo freschi... ....». 

E allora: cosa ci racconta del suo rapporto con i motori? È ancora in essere?

«Accidenti, certo che sì. Altrimenti come potrei muovermi per Roma? Già faccio fatica a camminare...». 

(...)

Mi scusi, ritorniamo alla Ferrari.

«Che è meglio. Beh, ne presi una. Mi pare fosse la 308, e mi giocò anche un brutto scherzo». 

In che senso?

«Io sono sempre stato naif, no? Quindi la prendo e comincio a farci un giro. Credo di aver preso l'Aurelia per andare in direzione Orbetello, o giù di lì. A un certo punto incappo in un camion e io, su una Ferrari, posso mai perdere tempo dietro un camion? Scalo marcia, e sorpasso. Ma, durante la manovra, la Rossa mi balbetta. Fortunatamente dall'altra parte non arriva nessuno e ho il tempo di completare il sorpasso più lento della storia automobilistica». 

Meno male. E poi?

«Telefono alla Samocar. E spiego la situazione: 'Ah, dottò, scusi. Qualche macchina, quando il livello del serbatoio della benzina è sotto la metà, potrebbe avere qualche problema.. L'avrei ammazzato, il meccanico». 

E che ne ha fatto della Ferrari?

«Ah, ci andai a Montecarlo, dove poi la vendetti». 

Comunque non era la prima volta che la vedevano, su una supercar.

«Di che parliamo?». 

A Parigi fece un certo scalpore...

«Ah, ho capito. Con la Buick. Siamo nel 1959, mi presentai alla finale del Roland Garros guidandola. Ma non era mia. Era della persona che sedeva accanto: Candida, la più famosa spogliarellista del Crazy Horse.Ma forse guardavano più lei che la macchina, mi sa. Era una bella lotta». 

(...)

Ma le è mai capitato di fare delle gare vere?

«Come no. una volta, mi pare fosse il1988: una Celebrity Race a Imola. Si guidavano delle Alfa Romeo 164. Indovina chi altri c'era?».

Un nome a caso?

«Adriano Panatta. Prima della gara mi diceva sempre: "Ti spiego io', "ti faccio io' "to dico io'. Tutto così. Facciamo le prove ed effettivamente lui fa tempi migliori dei miei. Poi le qualifiche, ed eccoci alla gara. C'erano tanti altri, anche piloti che avevano fatto la Formula 1 oltre che gli amatori della pista, ma in realtà la gara nella gara era tra me e Adriano. Dovevamo fare 12 giri della pista. 

Si parte, va tutto bene. Nessuno sbatte in partenza ma, al 3° o 4° giro, vedo una macchina davanti a me con dei problemi, e mi sembra proprio la sua macchina: rallento, lo affianco e, perdonatemi ma quando ci vuole ci vuole, gli faccio il gesto dell'ombrello». 

Ma come? Perché?

«Nella curva prima del rettilineo, nel giro precedente, voleva speronarmi. Dalle tribune mi facevano cenni. Ma lui, nella manovra, prese un cordolo e danneggiò la macchina. "Ti lascio l'offshore', ciao ciao».

Estratto dell'articolo di Alessandra Paolini per repubblica.it il 10 aprile 2023.

Se devo essere sincero, arrivato a quasi 90 anni, credo che un amore di quelli “Oddio! Se mi lascia, mi butto giù dal ponte” non l’ho mai provato. Non so se dipende dal mio temperamento, o dalle circostanze. D’altra parte, si sa, nel tennis, l’autocontrollo è tutto, e saper rovesciare le situazioni sfavorevoli quando ogni cosa sembra perduta, è spesso la chiave per vincere. Detto questo, ho amato tanto e in qualche caso – pochi – moltissimo. Ho avuto solo quattro donne davvero importanti: Susanna, Lorenza, Licia e Paola. E tutte e quattro mi hanno lasciato…”.

Nicola Pietrangeli, classe 1933, racconta senza imbarazzi i suoi settant’anni e più di vita amorosa. L’ intreccio di storie, storielle e divertissement di una sera che hanno segnato la sua vita. La vita di uno dei primi grandi sciupafemmine dello sport italiano e di un monumento del tennis mondiale. Anche se lui ci tiene a precisare che “l’abito del playboy me lo hanno cucito addosso gli altri, forzando un po’. Ma alle donne, si sa, piacciono le divise: e io nella mia uniforme bianca sullo sfondo rosso o verde, devo ammettere, partivo avvantaggiato”. […]

 Giù dal ponte no. Però quando si lasciò con Licia Colò, si disse che l’avesse presa proprio male.

E’ vero: ci sono rimasto male. Con Licia pensavo sarebbe stata la storia definitiva. Pensi che per lei mi ero trasferito a vivere a Casal Palocco: tanto carino, per carità, ma per uno come me abituato a Roma nord, è stata una grande prova d’amore. Mi dicevano tutti all’epoca ‘Ma dai che ci vuole? In 20 minuti sei a Palocco’. Sì, magari… alla fine ho comprato casa e mi sono trasferito a un passo dal mare, in mezzo al verde”.

E addio vita mondana?

Party, viaggi, premiazioni ci sono sempre stati. Ma Licia era diversa. Mi diceva scherzando: “Certo che ti faccio risparmiare un sacco di soldi. Non mi piacciono i gioielli e detesto pure le pellicce”. In compenso faceva degli spaghetti con i capperi di Pantelleria, di-vi-ni. Ma sa che l’ho rivista qualche settimana fa? Mi ha telefonato e siamo andati a pranzo insieme ad Ostia, al mare, con sua figlia e una sua parente”.

 E come è andata?

È stata una bellissima giornata: sole, chiacchiere. Sembrava quasi estate”.

Perché è finita con Licia?

Tra noi c’erano quasi 30 anni di differenza di età. Sarà stato questo. In realtà all’inizio ho pensato avesse un altro. Ma lei ha sempre negato. Chissà, non ci metterei la mano sul fuoco… Le corna invece, me le hanno messe eccome mia moglie Susanna e poi Lorenza. Paola invece, con cui ho rotto recentemente, non credo. Ma non voglio neanche saperlo. Non ci sentiamo più, troppo fresca la rottura. Non voglio stare male.”

E lei come ha reagito al tradimento? È un uomo geloso?

Come vuole che abbia reagito? Male. Susanna, dopo 15 anni di matrimonio e tre figli (Marco, Giorgio e Filippo), ha perso la testa per uno molto più giovane di lei. Susanna (Artero, ndr) era bellissima. A lei e alla sua migliore amica Paola Campiello, la bruna e la bionda, negli anni Cinquanta andava dietro tutta Roma. Mi innamorai della bruna.

 Ci siamo messi insieme da ragazzini: io 21, lei 18 anni. Quando mi disse che si era innamorata di un altro ho cercato di trattenerla, di farla ragionare. “Guarda che quello poi ti molla”. Ma non c’è stato niente da fare. E quello, poi, chiaramente l’ha mollata…”.

 Siete rimasti in buoni rapporti?

Certo, sono 40 anni che le pago gli alimenti. Che devo fare? Susanna non si è mai alzata prima di mezzogiorno”.

E con Lorenza perché non è andata?

Lei voleva sposarsi, io no. Alla fine, se ne è andata via con un imprenditore. Risultato, pure lei dopo un po’ è stata lasciata. Con Paola invece non ha funzionato, anche qua, perché non ho voluto mettere su casa insieme a lei. Non perché non volessi, era la persona giusta, ma perché era complicato logisticamente: ci siamo conosciuti sei, sette anni fa, per caso. […]”.

 Scusi ma lei invece è uno stinco di santo? Mai un tradimento?

Alle quattro donne della mia vita? No. Salvo una volta, a Montecarlo, ma neanche si può chiamare tradimento. Mi ritrovai in camera con una ex e a un certo punto mi sono pure addormentato.

Comunque, so che è una mentalità maschilista, molto all’antica, ma credo che l’uomo sia più… posso usare il temine “puttana”? Ecco, l’uomo  lo è. Può tradire anche senza farsi coinvolgere. Stai a Helsinki, ti piace una, e capita. La donna invece se tradisce lo fa perché si innamora. A meno che non ci sia di mezzo uno come Brad Pitt. In quel caso le chiacchiere stanno a zero”. (Ride) […]

 Ha mai usato il viagra?

Certo. È come per la chirurgia estetica: se fatta bene e con eleganza non ci vedo niente di male. Ma nel caso della pillolina blu però è meglio non dirlo alla partner, perché le donne si offendono. Pensano che tu non le trovi abbastanza attraenti, non capendo che non è quello il problema”.

 La notte più caliente della sua vita?

Una volta a Venezia. Durò un’infinità. Oggi lei ha 80 anni. E quando ci incontriamo, ci guardiamo negli occhi come a dire ‘Te la ricordi, sì, Venezia?’”. […]

Pensa mai alla morte?

Per forza! E ho paura. Mi piacerebbe un colpo secco. Sa la cosa più triste di arrivare alla mia età? È che non hai più intorno le persone con cui hai condiviso la gran parte della vita. sei rimasto solo, quasi tutti non ci sono più. Io ancora viaggio, seguo i tornei di tennis, ultimamente mi sono ritrovato a Parigi al Roland Garros e la sera non sapevo con chi uscire, a parte un carissimo amico brasiliano. […]

Gaia Piccardi per corriere.it il 16 febbraio 2023.

A Nicola Pietrangeli, da quando in un’epoca preistorica vinceva il Roland Garros per ben due volte (‘59, ‘60), i giri intorno alle cose non sono mai piaciuti. «Mi sembra che Berrettini si stia dedicando più alla pubblicità che al tennis» ha detto il grande Nick, leggenda vivente del tennis italiano, durante la cerimonia nella quale gli è stato conferito il premio sportivo alla carriera da parte della Stampa estera, a Roma.

 Elegantemente vestito dei suoi 89 anni portati con disinvoltura, Pietrangeli è sembrato riferirsi alla presenza pubblicitaria sui media dell’ex numero 6 del mondo, oggi sceso al numero 23, dietro Jannik Sinner (n.14) e Lorenzo Musetti (n.20). Nessun accenno alla nuova presunta fidanzata di Berrettini, la showgirl Melissa Satta, con cui il romano è già stato visto più volte a Milano: alla partita di basket in Eurolega dell’Olimpia, al Forum, a San Siro per il derby del 6 febbraio, al 37esimo compleanno di Melissa.

Ma Pietrangeli ne ha approfittato anche per punzecchiare Adriano Panatta, cui lo lega una lunga conoscenza che parte da un’antica rivalità e passa attraverso la Coppa Davis, l’unica conquistata dall’Italia in 123 anni di storia, nel 1976 nel Cile di Pinochet con Nicola capitano e Adriano singolarista di classe. «Berrettini? È un bravo ragazzo, ma è un po’ com’era Panatta...» l’analisi di Nick. Cioè? «Fantastico dalla vita in su, ma le gambe...».

Grandi complimenti, invece, per Jannik Sinner, stasera impegnato all’Atp 500 di Rotterdam contro Stefanos Tsitsipas nella rivincita degli ottavi di finale dlel’Australian Open. C’è un nuovo Nicola Pietrangeli, hanno chiesto all’ex fuoriclasse. La risposta: «Sinner è il miglior tennista italiano al momento; lui “canta” in un modo, io “cantavo” in un altro. Rispetto a me, lui ha un vantaggio: è tedesco». Ma le gioie più grandi per gli occhi di Pietrangeli arrivano dal terzo dei top player azzurri: «Quello che attualmente gioca meglio in Italia è Lorenzo Musetti, ma Sinner non si fermerà certo qui — ha aggiunto Pietrangeli —. Se vincerà uno Slam? Se lo sapessi andrei a scommetterci sopra...». Il migliore al mondo, però, «anche se non sta simpatico a tutti», per l’ex campione azzurro «è Novak Djokovic». «Nadal — è la chiosa — mi sembra un po’ logoro». Parola di Nick.

Dagospia il 27 gennaio 2023. Da Un Giorno da Pecora

Nicola Pietrangeli si racconta a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1. Ospite in studio di Giorgio Lauro e Geppi Cucciari, il campione di tennis, quasi novantenne, ha spiegato di esser in forma ma di aver avuto qualche problema di salute, per fortuna ormai alle spalle. Ha quasi 90 anni: se li sente tutti?

Me ne sento tanti, anche se di testa sto benissimo, mi ricordo tutto. Sono un uomo molto fortunato: pensate che anni fa ho avuto un brutto cancro al colon, sono stato operato da un mio amico medico il quale però mi rivelò solo dieci anni dopo l’intervento che avevo un male così grave”.

 Ha giocato a tennis fino a pochi anni fa: le è capitato di sfidare anche dei politici?

Certo, da La Malfa al presidente dell’Argentina Menem, con cui facevo il doppio. Ma ho giocato insieme a grandissimi attori…”

Ad esempio?

Antony Quinn e Charlton Heston. Entrambi avevano un servizio bomba”.

Si ricorda qualche match particolarmente interessante?

Per un periodo abitai a casa di Quinn a Los Angeles, e giocavamo in doppio contro due fenomeni, Tiriak e Nastase. Antony Quinn era convinto di vincere, e per farlo contento chiesi ai nostri avversari di farci vincere un set”.

E loro accettarono?

Si, però poi Anthony, vedendo che stavamo vincendo, se la prese con me dicendomi: vedi che possiamo batterli? Sei tu che sei scarso!”

Oggi lo può dire: chi è stato più forte tra lei e Panatta?

Leggiamo chi ha vinto di più”. Cosa vuol dire? “Lui ha vinto 14 tornei, io 47. Però abbiamo giocato contro 4 volte e lui ne ha vinte 3. Va detto che ha 17 anni meno di me... 

Non tutti sanno che lei è anche un asso in fatto di barzellette…

Ho una sfida aperta con Berlusconi, lo batterò a colpi di barzellette”.

Come mai?

Una volta, non ricordo bene quando, Berlusconi convocò alcuni membri della Federazione Tennis perché aveva piacere di conoscerci di persona. Dopo un po’, inizio a raccontare barzellette. Appena conclusa, mi guarda e mi fa: anche lei ama raccontarle? E io: certo, si…”

E poi?

Ne raccontammo tre a testa, e finimmo in ‘pareggio’: tre a tre”.

Fu una vera e propria sfida.

In parte – ha detto Pietrangeli a Un Giorno da Pecora -  perché mancava una giuria vera e propria. Tanto che Berlusconi in quell’occasione disse all'allora ministro dello Sport Rocco Crimi di organizzarla, aggiungendo “questa sfida la vinco io che so più 1.400 barzellette!”

L’invito alla sfida è ancora aperto?

Certo, facciamola. Lui mi disse però che quando si sarebbe tenuta ognuno si sarebbe portato il suo pubblico…”

Ha conosciuto altri ‘celebri’ barzellettieri?

Si, il principe Ranieri di Monaco. Mi faceva chiamare dalla segretaria e poi, quando rispondeva, attaccava a raccontarmene qualcuna. Un altro era Marcello Mastroianni”.

Il grande attore?

Si, una volta mi portò a Londra con lui, e mi chiese se avevo qualche amica da presentargli. Io avevo una agendina piena di numeri ma ci dissero tutte di no. Alla fine andammo al ristorante da soli e, usciti, incontrammo nientemeno che Jeanne Moreau e Rudolf Nureyev, il grande ballerino. Entrambi, secondo Marcello, volevano provarci con lui…”

Lea Pericoli.

Lea Pericoli, come ti emancipo le donne nel tennis. La "Divina" stravolse i canoni del tempo portando una zaffata di fashion sul campo: completini, coulotte e finanche mutandine nate per lanciare un messaggio di libertà. Paolo Lazzari il 2 Aprile 2023 su Il Giornale.

Si sporge dalla finestra affacciata sul brulicante centro di Nairobi e lancia l'ennesimo sospiro. Vivere in collegio con le suore della colonia inglese è una iattura per un'adolescente. Il Kenya, poi, mica è casa sua. L'infanzia, invece, se l'era sciroppata ad Addis Abeba. Succede quando tuo padre è uno sfrenato imprenditore. Se non altro inamida le sue giornate con l'unguento di costanti conversazioni internazionali. Ma quando siede sul letto, la testa pervasa da una punta d'insoddisfazione, fruga subito sotto al cuscino. Lì giace, intonsa, la sua racchetta di legno. Quello è il suo personalissimo cassetto dei sogni. Perché Lea Pericoli sarà anche una ragazzina, ma se lo sente: c'è il tennis iscritto nel suo destino.

Il ritorno in Italia, allo scoccare dei diciassette anni, consente di sfregare quel desiderio fino a farlo divenire lucido. Gradualmente quel sogno inizia a prosperare sui campi di argilla rossa, costruendo la sua tangibile verità. Anche perché Lea ci sa fare sul serio. Graziosa nelle movenze quanto nell'aspetto. Generosa nel distribuire morbidi colpi liftati. Coraggiosa nel presentarsi sovente sotto rete, per piazzare un serve and volley a tratti incantevole. Spicchi di talento genetico che frullati a dosi abbondanti di passione e dedizione fanno la differenza. Pericoli sì, ma per le avversarie. A partire dai primi anni Cinquanta, sospinta dal fulgore dei suoi vent'anni - era nata nel 1935 - inizia a macinare risultati sfavillanti, dapprima nelle categorie juniores, poi fra le adulte.

Il suo tennis limpido ed elegante la condurrà lontano, specie dentro il perimetro di casa. Si arrampica, Lea, fino a diventare la numero uno in Italia per quattordici lunghi anni. Solleverà 12 titoli nel singolare e 13 nel doppio, dove - al fianco di Silvana Lazzarino - saprà addentare soddisfazioni numerose. Arriverà spesso, grazie a quelle doti inconfutabili, ad un passo da sogni ancora più potenti: Wimbledon, il Roland Garros e molte altre contese che trascendono la normalità la vedono protagonista, anche se mai vittoriosa. Si toglie lo sfizio, ad ogni modo, di sconfiggere calibri come Billie Jean King, Shirley Bloomer o Karen Susman. Eppure non è il suo tennis, pur scintillante, il manifesto che la renderà più celebre.

Sull'erba immacolata di Wimbledon, nel 1955, la finezza dei suoi gesti non passa inosservata. Non la trascura, almeno, il chiacchierato stilista britannico Ted Tinling, eccentrico vestitore della ribelle americana del tennis Gussie Moran. Ted scende dalle tribunette e la avvicina per avanzare una proposta seducente: "Voglio preparare io la tua mise tennistica". Pericoli ci sta. La stretta di mano che ne consegue è destinata a ribaltare i consunti dogmi della società dell'epoca. Donne castigate e relegate al ruolo di angeli salvifici, anche nello sport? No. Non per Lea.

Inizia così a sfoderare, la Pericoli, dissacranti completi che rimpiazzano le morigerate fogge del passato. Profana il tempio inglese indossando una sottoveste rosa ed una coulotte nel match contro l'iberica Maria Josefa de Riba. Roba da far sciamare tutti verso il campo che le ospita, per contemplare dal vivo quello scandalo che è al contempo pastiglia effervescente per una società ingessata e boccone impossibile da deglutire. Grandinano le critiche dai media di mezzo mondo. Il padre, pressato dalla dilagante mattanza proveniente dall'opinione pubblica, la costringe addirittura a fermarsi per un anno. Lea incassa l'insostenibile ingiustizia, ma non demorde.

Tornerà in campo, più forte dei pregiudizi che incrostano la società che attraversa, e provocherà ancora. Sempre nel rispetto del regolamento, s'intende. Mutandine brillanti. Completi luccicanti. Pizzo e ricami. Musa ispiratrice di Tinling, certo, ma anche - e soprattutto - esempio d'emancipazione per tutte le sue sorelle. La moda applicata al tennis diventa il manifesto di una libertà d'espressione che crepa la coltre spessa eretta dai benpensanti. Giocherà fino ai quarant'anni, senza mai venir meno a questa sua missione. L'eleganza che disarma la rabbia resta probabilmente il suo colpo migliore.

Lea Pericoli: «Panatta non era il più bello. Pietrangeli ancora oggi mi chiede perché non abbiamo avuto una storia». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 13 Gennaio 2023.

L'ex campionessa di tennis: «Questo sport mi ha dato tutto, meno i soldi. Pietrangeli mi dice ancora che potevamo avere una storia»

Macché numeri (27 titoli italiani tra singolare, doppio e misto), che banalità. Lea Pericoli è, da sempre, una questione di stile. «Non ho vinto tanto, a tennis. Però ero tignosa. E certe cose nessun’altra ha avuto il coraggio di farle». Di indossarle, soprattutto: piume di struzzo, brillantini, taffetà e pizzo a Wimbledon, il tempio della tradizione, lampi di luce bionda quando il bianco era il colore dominante e Nicola Pietrangeli il maschio alfa. Natali a Milano ottanta e spiccioli anni fa (portati con classe infinita e raccontati con timbro ancora flautato), infanzia ad Addis Abeba dove il padre Filippo Pericoli, imprenditore, trasferisce la famiglia dopo la guerra d’Etiopia, adolescenza in Kenya. Sospira forte, la Lea: «Dal mal d’Africa non si guarisce mai...». Ecco, cominciamo da qui.

Un ricordo, su tutti.

«Uno solo? Impossibile. Ce li ho tutti conservati nel cuore. Era un’altra Africa, seconda metà degli anni 30, niente a che vedere con i safari e i torpedoni dei turisti. Avevo due anni. Papà è stato il primo civile a entrare a Addis Abeba: aprì una ditta di importazioni, diventammo ricchi ma scoppiò la guerra, arrivarono gli inglesi e lo fecero prigioniero. Doveva finire in India però ai tempi delle stragi di Graziani aveva salvato tante persone, tra cui il cameriere personale dell’Imperatore. E il Negus lo graziò».

Il tennis, in questa storia, come entra?

«Loreto Convent, a Nairobi: la più grande fortuna della mia vita. Dieci cattivissime suore irlandesi che tenevano a bada 300 bambine scatenate. Giurami che non ti metterai mai in mezzo alle correnti, mi fa promettere mamma alla partenza. La prima sera mi ritrovo in una camerata con quattro finestre spalancate, un vento da regata. Penso: stanotte muoio. Ma sono bravina a cavallo, con il tennis appreso in Etiopia me la cavo. Era uno sport molto diverso, non si guadagnava una lira! Anzi: prendere soldi era proprio vietato. Infatti a me il tennis ha dato tutto, tranne il denaro. Però vedo che sono rimasta nel pensiero di molti, e i miei vestitini sono esposti al Victoria & Albert museum».

Musa di Ted Tinling.

«Il sarto più in voga dell’epoca, che per me confezionò (con intelligenza) cose arditissime! Papà, che era un uomo coraggioso ma molto severo, s’incavolò di brutto: Lea, scostumata, adesso vai a lavorare! Il primo anno a Wimbledon, era il ‘55, venivano tutti in processione a vedere le mie mutande di pizzo. La Federazione italiana minacciò di squalificarmi!».

Tutto tranne che una vita banale, cara Lea.

«Amo la vita in modo assurdo, ne sono follemente innamorata, peccato che un giorno dovrò andarmene: quando morirò sarò molto infelice. Tutto quello che mi è successo di negativo me lo sono fatto scivolare addosso».

Incluso il tumore.

«Mi venne un cancro, stavo male, ero triste, perché tacere? Ti vedo palliduccia, mi dicevano incontrandomi. E io: beh certo, ho un tumore. E quelli stupefatti, a bocca aperta! Parlarne, a quei tempi, era uno choc. Al professor Veronesi, un luminare, non parve vero: tappezzammo l’Italia di manifesti sulla prevenzione. Il cancro in fondo è come una partita a tennis: per batterlo preferisci avere tutto il pubblico che tifa per te».

Che coraggio, però.

«Non fu coraggio, mi creda. Fu piuttosto una richiesta d’aiuto, uno sfogo. Se ti tieni tutto dentro, se passi il tempo a piangerti addosso, è peggio. E ti viene l’angoscia».

Cambiamo argomento: parliamo d’amore?

«Oh no, non mi piace rivangare gli amori finiti. Ho avuto molte storie belle, mi sono anche sposata, diciamo che sono stata brava a non lasciare che la gente parlasse male di me, inclusi i miei ex».

Perdoni l’indelicatezza: non avere avuto figli è stata una scelta?

«Non ho fatto in tempo, avevo troppe cose da fare. O forse non ci ho mai davvero pensato sul serio».

Come riuscì, 60 anni prima della generazione di Pennetta e Schiavone, a far uscire il tennis femminile dall’ombra di quello maschile?

«Era un altro mondo, in effetti: le donne erano molto, molto suddite degli uomini. Ma non ho mai apprezzato particolarmente le femministe, quelle che combattono a testa bassa i maschi. Agli uomini non va fatta la guerra: vogliono essere più forti, sentirsi più fighi, basta lasciarglielo credere. Io non ho mai voluto essere al pari degli uomini, ho voluto essere protetta semmai».

Con Nicola Pietrangeli vi conoscete da ragazzi: è difficile credere che tra voi non sia mai successo niente.

«Ha ragione, a volte ce lo chiediamo anche noi: non è che non ci abbiamo pensato, eh... Ma io avevo sempre al fianco un’altra persona, lui almeno due! In compenso è nata un’amicizia infinita, lunga un’esistenza intera. Ci siamo pianti sulla spalla tante volte. Nicola si arrovella ancora oggi che va per i novanta: Lea, perché io e te mai?».

Panatta è stato il più bello?

«No. Umberto Bitti Bergamo, prima tennista e poi imprenditore, era il più affascinante in assoluto. Ho avuto una storia importante con Bitti. Purtroppo se n’è andato troppo presto».

Indro Montanelli la volle al «Giornale», firma della moda e del tennis.

«Fu così tenero con me... Soffriva di grandi depressioni, la segretaria mi chiamava: Lea, vieni subito che il direttore è in crisi. Lo portavo fuori a pranzo, si chiacchierava. Indro, vorrei scrivere di moda. E che ne sai, Lea? Tu mettimi alla prova. Cominciò così. Per la televisione invece devo ringraziare la voce e l’inglese: ai tempi nessuna lo parlava».

Ha rimpianti?

«Nicola dice che solo gli imbecilli non ne hanno. Ha ragione ma che vuole che le dica? Sarò imbecille. Forse sono stata una donna molto fortunata, al netto dei dolori che non sono mancati. La vita sa essere cattiva, soprattutto quando si parla di malattie. Ma io vedo sempre il bicchiere mezzo pieno, mi sono riempita l’anima di positività. È un atteggiamento che mi porto dietro da bambina».

L’Africa è stata maestra anche in questo.

«Sarà che quando sopravvivi alla savana e al fanatismo delle suore cattoliche irlandesi di Nairobi, poi non hai più paura di niente».

Fred Perry.

Figlio di un sindacalista, nato nell’operosa Stockport, si fece strada da solo negli elitari circoli britannici riscrivendo le regole del gioco prima di diventare imprenditore. Paolo Lazzari l’8 gennaio 2023 su Il Giornale.

Fa rimbalzare ipnoticamente la pallina da una parte all’altra del tavolo di legno, senza nemmeno degnarla di uno sguardo. Sente dove va a finire e la rispedisce al mittente, caricando di veleno il colpo. E forse ripensa a tutte quelle volte che ha dovuto premere il naso contro la recinzione fredda di un campo da tennis o sopra i vetri appannati di un elitario circolo nobiliare. Però Fred Perry una cosa la sa: il tennis tavolo è una parentesi. Non la sua vita. Lui, in quei salotti patinati, ci entrerà buttando giù la porta.

Eppure il destino, che si diverte ad avvitare strette le esistenze, segnandole fin dal primo vagito, avrebbe in serbo piani differenti. Tanto per cominciare l’ha infilato a Stockport, undici chilometri da Manchester, operoso avamposto salito agli onori della cronaca per la tessitura della seta ed un’altra singolare faccenda, la produzione di cappelli di feltro. Non sembra proprio il posto dove possano svilupparsi progetti effervescenti. E poi papà è uno di quei sindacalisti convinti, oltre che un socialista irredento: detesta il tennis con ogni fibra del suo corpo. Non perché gli faccia pena lo sport in sé. Lui non sopporta i tronfi aristocratici che lo praticano assiduamente. Quindi di impugnare una racchetta non se ne parla.

A Brentham però, dove si trasferiscono quando la carriera politica paterna decolla, la passione si fortifica e dilaga. Freddy vive a due passi da Londra, muscolo pulsante che irrora tennis ad ogni angolo. Visto che le sue modeste origini lo sbattono fuori dal circuito, inizia dal parente più impalpabile: il ping pong. Nel tempo di un amen surclassa la marmaglia che gli si para davanti: possiede riflessi felini, occhi svelti e l’inventiva necessaria per sovvertire i piani di battaglia altrui.

Così ora eccolo qua, provvidenzialmente estratto da Ivan Montagu – il coach della nazionale inglese di tennis tavolo – da un dimenticabile torneino locale, mentre gioca da protagonista i mondiali del 1929. Li vince in scioltezza, poi emette una profezia che appare bizzarra: “Entro quattro anni conquisterò la coppa Davis”. La gente sghignazza, ma lui non si lascia intimidire.

Quello con il tennis è un sincretismo destinato a consumarsi. Ora il padre, scorto il suo talento, lo sostiene con convinzione. Nel tennis agile e ferale del figlio rinviene la trasposizione del suo successo politico. Vola a Parigi quando scocca il 1933, esattamente quattro anni dopo la fatidica profezia: Roland Garros, challenge round contro la Francia. Gli inglesi non vincono da vent’anni. Stavolta trionfano. Promessa mantenuta. Durante il soggiorno parigino succede anche un’altra cosa. Gli giunge all’orecchio l’idea di René Lacoste, collega francese che ha appena inaugurato la sua linea di abbigliamento. Perry la trova un’idea interessante: se la fissa in un angolo della mente, in attesa di elaborarla meglio.

I suoi connazionali, nel frattempo, lo accolgono tiepidamente. Quello del tennista popolare, che non è unto dal crisma della nobilità, è un affronto quasi impossibile da deglutire. Ci vuole qualcosa di più per persuadere il pubblico. Ci vuole Wimbledon. Nel santuario verde sfida l’amatissimo australiano Jack Crawford: per rendere l’idea, dalle composte tribune del Centre Court tifano più per l’ospite che per Freddy. Lui però gela tutti e si consacra: 6-3, 6-0, 7-5. Ora accettarlo è praticamente inevitabile.

Sembra surreale, ma la federazione britannica nicchia, faticando a riconoscerlo come un professionista. Perry, sfibrato e offeso, decide allora di valicare l’oceano per vivere il meritocratico sogno americano. Acquista un club di tennis a Beverly Hills, per mantenersi allenato. Ancora non lo sa, ma da lì a poco le cose svolteranno per sempre. Gli scampanella all’uscio un ex calciatore australiano, Tibby Wegner. Dice di avere un’idea molto simile a quella di Lacoste. Dentro di lui si riaccende quel ricordo parigino. Lo fa entrare e confabulano fitto.

Nasceranno così, nel 1952, le prime polo firmate Fred Perry. Sul petto, all’altezza del muscolo cardiaco, spunta una coroncina d’alloro, simbolo di vittoria. Lui ne fa preparare un bel mucchio e si mette a presentare la sua linea in giro per il mondo, Wimbledon compreso, compiendo un battage antesignano del moderno marketing.

Diverrà in fretta universalmente popolare più per le polo che per il suo tennis. Quell’alloro però non è caduto dall’alto. Freddy da Stockport se l’è sudato tutto.

Martina Navratilova.

Navratilova l’icona gay che attacca le transgender. Storia di Marco Bonarrigo  su Il Corriere della Sera mercoledì 9 agosto 2023.

Il tennis, quello giocato, resta la sua grande passione: nella mattinata di martedì Martina Navratilova, in vacanza da qualche giorno a Capri con la moglie Julia Lemigova, è scesa per un paio d’ore al Tennis Club isolano per incrociare la racchetta con Sara Aversa, giovane talento locale e darle qualche buon consiglio. La leggendaria giocatrice nata nella Repubblica Ceca, ma da tempo di nazionalità statunitense , 66 anni, ha da poche settimane annunciato di aver sconfitto la recidiva di cancro alla gola e al seno che le era stata diagnosticata all’inizio dell’anno. L’eco della presa di posizione della vincitrice di 18 titoli del Grande Slam contro la United States Tennis Association (Usta), accusata di aver fatto giocare e vincere un torneo master americano ad Alicia Rowley, tennista 55enne nata uomo, resta forte. «Cara Usta - aveva scritto domenica su Twitter la Navratilova - qualunque sia la loro età, il tennis femminile non è cosa per maschi falliti. Non è giusto e non è leale. Adesso li ammetterete anche agli Us Open? Basterà il documento di identità? Non credo proprio..». In risposta ai messaggi ricevuti, Navratilova aveva replicato: «È patriarcato che gli uomini biologici insistano sul diritto di competere nelle categorie femminili».

Quella di Navratilova sulle atlete trans non è una posizione nuova. Nel 2019 un suo articolo sullo stesso argomento pubblicato dal «Sunday Times» le costò la perdita del titolo di ambasciatrice di Athlete Ally, l’organizzazione statunitense che si batte per i diritti degli sportivi LGBT. «Un uomo - scrisse sul quotidiano britannico - può decidere di essere una donna, assumere ormoni se richiesto da qualunque organizzazione sportiva sia interessata, vincere tutto ciò che vuole e magari guadagnare una piccola fortuna e poi ribaltare la sua decisione e tornare a fare figli se lo desidera». Un commento definito «triste e transfobico» da molte esponenti del movimento trans.

Abituata ad esprimersi chiaramente su temi delicati e controversi, Navratilova ha sempre invece sostenuto i diritti alla competizione tra le donne delle atlete Dsd, ovvero con differenze dello sviluppo sessuale, come la mezzofondista sudafricana Caster Semenya. Quando la federazione internazionale di atletica mise la Semenya di fronte a un aut aut («O abbassi farmacologicamente la tua soglia di testosterone naturale o gareggi tra gli uomini») lei scrisse parole molto chiare sull’argomento: «Il verdetto contro Semenya è terribilmente ingiusto nei suoi confronti e sbagliato in linea di principio. Caster non ha fatto nulla di male ed è terribile che ora debba assumere farmaci per poter competere. Le regole generali non dovrebbero essere tratte da casi eccezionali e la questione degli atleti transgender rimane irrisolta». La «questione Semenya» è tutt’ora in sospeso (La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha bocciato il regolamento dell’atletica) e sui trans quella di Navratilova rimane una voce forte e autorevole.

Estratto dell'articolo di Maurizio De Sanctis per fanpage.it il 21 marzo 2023.

"Avevo paura di non arrivare nemmeno al prossimo Natale". Martina Navratilova ha gli occhi lucidi quando racconta che il tumore alla gola e al seno è sparito. [...] Era stata costretta anche a mettere da parte il desiderio di allevare un figlio assieme alla moglie, Julia Lemigova: tutte le pratiche avviate per l'adozione di un bambino finirono a carte e quarantotto.

[...] "I medici mi hanno detto che non c'è più, sono pulita". A gennaio scorso aveva annunciato al tabloid Times di aver scoperto la malattia: l'aveva aggredita alla gola e al seno. Tredici anni dopo aver superato un'altra forma di cancro – sempre al seno – era piombata di nuovo nello stesso incubo del 2010.

 Nell'intervista al giornalista Piers Morgan ha dato la notizia più bella e può ancora pensare al futuro guardando un po' più in là del singolo giorno, lasciando alle spalle quei brutti momenti vissuti quando scoprì di avere un linfonodo ingrossato al collo.

"Conosciuta la diagnosi, fui presa dal panico – ha aggiunto Navratilova, oggi 66enne e vincitrice per nove volte a Wimbledon -. Restai sconvolta, iniziai a buttare giù una lista di cose da fare perché pensavo di non avere più molto tempo a disposizione. Anche quelle più assurde come ‘che tipo di macchina incredibile posso guidare se non mi resta molto da vivere?' Temevo che all'anno nuovo non sarei arrivata". […]

Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera” il 3 Gennaio 2023.

La scelta delle parole, innanzitutto: «Una doppia sfiga, seria ma rimediabile». E il contesto dell'annuncio. Né una conferenza stampa a reti unificate né un'esclusiva riservata al giornalone amico, ma il sito della Wta, l'associazione delle tenniste professioniste che la pioniera Billie Jean King provvide a fondare (1973) e lei a nobilitare con 167 titoli in singolare, di cui 18 del Grande Slam. In una parola: casa sua.

 Ed eccola, la doppia sfiga: Martina Navratilova, 66 anni, ha due tumori, alla gola e al seno, quest' ultimo già diagnosticato e curato nel 2010, quando aveva 53 anni. «Ricordo che piansi per circa 15 secondi, poi guardai dritto negli occhi il mio medico: okay, doc, da dove cominciamo?».

Le cose semplici alla signora del tennis non sono mai piaciute. Nata Martina Subertova a Praga quando la cortina di ferro era un cappio dell'Unione Sovietica al collo, diventata Navratilova in seguito al secondo matrimonio della madre Jana con Miroslav Navratil, suo primo coach, cittadina americana dall'81 dopo aver defezionato dall'Open Usa '75 per chiedere asilo politico, lesbica dichiarata ai tempi in cui i grandi marchi ritiravano la sponsorizzazione se non eri etero, sposata da otto anni con Julia Lemigova, Miss Urss nel '90, madre di due ragazzi, la sua forza insieme a Chris Evert, l'amica di una vita.

 Operata al seno sinistro per asportare un carcinoma 12 anni fa («Primo pensiero: perché proprio a me? Poi ho affrontato il cancro come una partita a tennis, senza mai considerare l'ipotesi del fallimento»), completata la radioterapia («Ne uscii rafforzata nel corpo e nello spirito»), Martina aveva festeggiato la guarigione unendosi al gruppo di scalatori che aveva puntato alla vetta del Kilimanjaro (5.895 metri) per raccogliere fondi da devolvere in beneficenza: un edema polmonare scatenato dall'altitudine l'aveva costretta al ritiro, evento raro e indesiderato.

Questa ulteriore duplice sfida coglie Navratilova a un'età più avanzata, a stretto giro dal cancro alle ovaie affrontato l'anno scorso dalla Evert, compagna di 80 battaglie (la rivalità del tennis più longeva). Era pronta a fare le valigie per Melbourne, dove avrebbe commentato la prima prova stagionale dello Slam per Tennis Channel (promette qualche collegamento zoom, se la salute lo permetterà), quando è arrivato l'esito della biopsia del linfonodo ingrossato scoperto nel collo durante il Master femminile a Forth Worth, in Texas (la città in cui Martina nell'82 aveva conosciuto Judy Nelson, all'epoca sposata con due figli, compagna per quasi dieci anni in una relazione finita in tribunale): tumori allo stadio 1, indipendenti l'uno dall'altro, da HPV (papillomavirus) quello alla gola, presi per tempo e curabili.

 «Spero in un lieto fine di questa storia. Mi appesterà per un po', ma darò battaglia con tutte le forze che posseggo». I medici si dicono ottimisti, le cure cominceranno la prossima settimana a New York, dove Navratilova volerà dalla villa-fattoria di Miami in cui Lulu, l'adorata cagnetta, è la padrona di casa tra capre, galline e gatti che razzolano in giardino (l'amante degli animali è Julia: «Macché anelli di diamanti, per Natale a Martina ho chiesto una mucca!»).

 La comunità del tennis, di cui è uno dei totem indiscussi, le si stringe intorno dall'Australia. Ma Navratilova è popolarissima in ogni ambiente, dalla politica liberal (diede il suo endorsement a Hillary Clinton ed è sempre apertamente molto critica con Donald Trump) al mondo dei diritti Lgbt: i tifosi non le mancheranno. «Non esiste sfida nella vita che non possa essere vinta - è il suo mantra -, questa è la mia vera adrenalina. Ormai sono un'anziana signora che si tinge i capelli e si commuove davanti ai film e all'inno nazionale». Pronta a giocare, Martina. Servi tu.

Camila Giorgi.

Estratto dell’articolo di Alessandro Nizegorodcew per il Corriere dello Sport il 5 marzo 2023.

 (...)

La (vera) storia. Camila Giorgi nasce a Macerata, da papà Sergio e mamma Claudia (entrambi argentini), il 30 dicembre del 1991. A 6 anni vede i fratelli più grandi impugnare la racchetta e insiste per provare. Vuole diventare una tennista. «Sei sicura ‘flaca’? - chiede Sergio - perché se è così devi fare tutto quello che ti dico io». La risposta è immediata: «Si, papà». Sin da piccola Camila si allena duramente. «Mia moglie voleva uccidermi», spiega Sergio.

 L’idea è costruire una professionista d’alto livello. Gioca poco a livello giovanile, a 14 anni fa già l’esordio nel tennis dei grandi. Due anni dopo gioca le qualificazioni del Foro Italico, con il pubblico in visibilio. Camila cresce, vince, si ferma per problemi fisici e poi vince ancora. Così in loop, per anni. Il suo è un tennis ‘bum bum’. Cambierà però parecchio, a dispetto di quanto si dica, nel corso degli anni: dal servizio più regolare sino al dritto più solido e sicuro. Sempre provando ad attaccare, perché la mentalità non cambia. Quando ha voglia di vincere gioca in maniera più ‘giusta’ tatticamente, se si innervosisce la palla vola via. 

Il lutto. Un dramma sconvolge la vita dei Giorgi: nel 2011, quando Camila non ha ancora compiuto 20 anni, la sorella maggiore Antonela muore in un incidente a Parigi. Le mani di Sergio, da quel giorno, iniziano a tremare; Camila fa fatica a riprendersi, continua a giocare ma “con gli occhi spenti”, come racconta il papà. Negli anni arrivano 4 titoli WTA, tra cui la grande vittoria nel 1000 di Montreal, e alcuni ottimi risultati Slam, tra cui i quarti a Wimbledon nel 2018. Sono quasi 6 i milioni di dollari guadagnati in carriera. 

 Priorità e gioco. Ai giornalisti non parla, è timidissima, risponde a monosillabi. È Sergio a parlare e, a volte, straparlare; lo fa per difendere la figlia. «A me possono dire tutto, ma Camila non si tocca», ripete più volte. Si parla tanto di padre padrone e degli errori di Sergio, che ne commette diversi, ma durante i match basta stare accanto al box dei Giorgi per capire che Camila fa come le pare e non ascolta indicazioni. A volte si chiude la vena e le partite scappano via. La verità è che per Camila il tennis è un lavoro. Non sarà mai continua, anche all’interno della stessa partita. Può rifilare un 6-0 6-0 a una vincitrice Slam come Stephens, e poi perdere con una giocatrice inferiore. Camila non cambierà.

E papà Sergio, a cui ha dedicato il successo di Mèrida, sarà per sempre il suo allenatore. È stato lui a fare un passo indietro, proponendole altri coach. Ma lei disse no: «Solo con te, papà». Potrebbe giocare altri 5 anni, così come smettere domani ed entrare nel mondo della moda o scrivere libri per bambini. Camila è così, prendere o lasciare.

 Il carattere. Parlare di tennis con Camila Giorgi è quasi impossibile. Se invece le si chiede della passione per il pugilato, magari, può chiacchierare per 10 minuti sembrando un’altra. La persona, al di là del personaggio, è diversa, come hanno spiegato le compagne di BJK Cup: «Camila è stata una sorpresa, è davvero simpatica, non ce lo aspettavamo», spiegano le varie Paolini, Trevisan e Cocciaretto. Riservata, ma con un carattere forte e deciso, tornata al numero 46 WTA grazie alla vittoria in Yucatán, Giorgi non difende punti in classifica sino al Roland Garros. Se avrà voglia, un ritorno almeno in Top-30 è alla portata.

Da corriere.it il 26 Dicembre 2022.

C’è anche Camila Giorgi, la 30enne tennista azzurra numero 67 del ranking Wta, tra gli indagati per aver ottenuto un Green pass illegale grazie a un finto vaccino. Sui fatti sta indagando la Procura di Vicenza che ha messo sotto la lente d’ingrandimento un giro di false vaccinazioni contro il Covid che lo scorso febbraio aveva portato all’arresto della dottoressa Daniela Grillone Tecioiu, assieme al suo compagno Andrea Giacoppo ed il dottor Erich Volker Goepel. 

Il torneo di Montreal

È passato oltre un anno e mezzo dall’ultima importante vittoria (forse la più prestigiosa in carriera) di Camila Giorgi, colta nel giorno di Ferragosto 2021 al Wta 1000 di Montreal. In finale la 29enne marchigiana aveva battuto 6-3 7-5 la ceca Karolina Pliskova, che in Canada era testa di serie n° 4 ed al momento era numero 6 del mondo. Era la prima volta che Giorgi si aggiudicava un torneo Wta 1000, uno dei più importanti della stagione al di fuori dei 4 del Grande Slam.

Il «National Bank Open» di Montreal, che si è giocato sul cemento, aveva un montepremi di 1.835.490 dollari: con i punti ottenuti grazie a questo successo, la tennista azzurra aveva fatto un bel balzo avanti in classica Wta (34ª), guadagnando ben 37 posizioni e avvicinandosi di nuovo al numero 26, finora la sua migliore posizione in una carriera ricca di alti e bassi, e di storie da raccontare. 

Le origini di Camila, oggi 30enne, sono italo-argentine: mamma Claudia Fullone è argentina di padre tarantino, papà è argentino di padre perugino. Camila è nata il 30 dicembre 1991 a Macerata perché la mamma, insegnante di arte contemporanea, a quell’epoca lavorava nelle Marche.

Camila («Con una elle perché è più original», come disse in una intervista al Corriere) ha scelto di giocare per l’Italia, anche se in seguito i suoi rapporti con la Federtennis non sono mai stati idilliaci. «Quando mi ero avvicinato al tennis — raccontò un giorno Sergio Giorgi in un’intervista a Ubitennis — avevo una visione idealizzata di questo mondo. Non hai idea della delusione, a nessuno frega niente di nessuno, sono tutti attaccati ai soldi». 

Lo show del padre a Roma

Proprio il padre è la figura fondamentale in tutta la carriera di Camila Giorgi. Il 10 maggio 2021, fu protagonista di uno show che fece molto parlare dopo che Camila perse al primo turno degli Internazionali di Roma al termine di una battaglia durata quasi quattro ore contro la spagnola Sara Sorribes Tormo 7-6,6-7, 7-5.

Il padre intervenne protestando con veemenza dopo alcune decisioni della giudice di sedia (una «time violation» su servizio e poi una palla chiamata fuori discussa dal clan di Camila). A quel punto Sergio Giorgi chiese spiegazioni al giudice di sedia. Che prima lo zittì e poi, preoccupata per il suo atteggiamento, chiese aiuto ai suoi colleghi e agli organizzatori. 

La sua comunicazione, nel silenzio dell’impianto capitolino senza tifosi, fu chiarissima: «Se è possibile per qualcuno di voi stare qui, perché il padre della Giorgi è veramente matto, state qui vicino». Un episodio più unico che raro e che aggiunge un nuovo capitolo alla storia della tennista italiana, ricca di particolari sia in campo che fuori. E molti riguardano proprio il padre.

Un padre al centro delle critiche

Lo show di Sergio Giorgi rientra in pieno nel suo personaggio. Del resto, una volta disse: «Amo i pazzi se hanno qualcosa di brillante da offrire, non sopporto la banalità, i cliché e quelli che criticano per amore di critiche». E di critiche nel tempo gliene sono piovute addosso molte, con i detrattori che lo consideravano un «padre padrone», fin troppo presente nelle scelte di Camila. 

Lui ha spiegato la cosa anche così, come un meccanismo di protezione della figlia: «Mi piaceva il tennis, avrei voluto far parte di quell’ambiente. Evidentemente credevo potesse essere migliore. Ma è del tutto impossibile farsi qualche amico, pensano solo ai soldi. Tutti che cercano di spillarti soldi. Si avvicinano solo per quello e se mai dovessi trovarti ad aver bisogno di qualcosa non li troverai mai. Che non provino a toccare Camila».

«Come un marine»

Camila non inizia a fare sport col tennis ma con la ginnastica artistica. Molto brava, viene anche chiamata in nazionale, ma la famiglia avrebbe dovuto trasferirsi a Milano e quindi rifiuta. La prima volta su un campo da tennis è a 5 anni. Ad allenarla subito è il papà, che a tennis non gioca. Lo schema è: uno sparring partner e Sergio a bordo campo a dare indicazioni. La storia dice trattarsi già di sedute «da marines». 

Sempre al Corriere Sergio Giorgi ricorda: «Lei piangeva, mia moglie voleva ammazzarmi. Ma per fare la professionista ci vuole forza fisica e una mentalità di ferro». A soli nove anni viene notata da Nick Bollettieri (recentemente scomparso) che le offre un contratto, ma l’accordo non si fa. E resta ad allenarsi col padre. 

Il modello Bielsa

«Io ho studiato medicina — ha raccontato ancora Sergio Giorgi — non mi serve qualcuno che mi dica come allenare Camila. Che poi li ho provati alcuni di questi preparatori atletici, tecnici. Hanno delle idee stereotipate, non c’è verso di spiegargli che le loro nozioni vanno interpretate a seconda della giocatrice che si trovano ad allenare. Semplicemente non sono interessati. 

I metodi di allenamento di Camila arrivano da vari sport, dalla boxe soprattutto, ma mi piace molto anche Marcelo Bielsa. El «loco»? Non cadeteci. Bielsa dice che la fase difensiva serve solo per recuperare il pallone ma poi devi attaccare, è quello che è divertente. Io andavo pazzo per Oscar de la Hoya, che si difendeva per attaccare. Camila non si difende? Camila attacca. Anche fuori dal campo…». 

Il lutto

Camila ha due fratelli : Amadeus e Leandro. Aveva anche una sorella, Antonela, scomparsa in un’incidente nel 1997 a Parigi, dove la famiglia viveva all’epoca. «Uno choc che ci portiamo tutti dietro», confessò nell’intervista Sergio Giorgi. Che in un’altra occasione aggiunse: «La famiglia non è importante: è l’unica cosa che conti davvero. Mia moglie, i miei figli, a me non serve altro». 

La guerra alle Malvinas

Di se stesso Sergio Giorgi racconta: «Sono un apolitico. In Argentina sono cresciuto quando c’erano i desaparecidos ma secondo voi adesso in Sudamerica è tanto meglio? Avete idea di quanta gente sparisca senza che se ne sappia nulla? La guerra alle Malvinas l’ho fatta davvero, sono stato soltanto fortunato ad uscirne vivo». 

Numero 26 del mondo

Nel 2017 e nel 2020 Camila Giorgi è stata la tennista numero uno in Italia anche se per qualche tempo ha dovuto fermarsi a causa di un infortunio al polso. Camila è una delle cinque tenniste italiane ad aver giocato i quarti di finale di Wimbledon e ha battuto giocatrici importanti tra cui Flavia Pennetta e Francesca Schiavone. Giorgi è la sola tennista italiana ad avere vinto un torneo professionistico su quattro differenti superfici di gioco: erba, cemento, terra rossa e terra verde. Il suo anno migliore è stato il 2018, quando ha raggiunto il suo piazzamento più alto nel ranking mondiale, al numero 26. 

Tutto attacco

Camila Giorgi predilige le superfici molto rapide, ed è riconosciuta come una delle giocatrici più offensive del circuito. Particolarmente reattiva e veloce con i piedi, ricerca costantemente l’anticipo, caratteristica principale del suo gioco. Naturalmente dotata di un ottimo senso del timing e di una grande esplosività unita a una notevole rapidità di esecuzione, colpisce violentemente la palla sia con il dritto che con il rovescio bimane, suo colpo più efficace, per mantenere costantemente il comando dello scambio. Ricerca l’aggressività anche con la battuta, disponendo di una prima di servizio discretamente veloce, così come la seconda. Pur non adottando cambi di ritmo, scende abbastanza frequentemente a rete. 

Camila ha anche un marchio di moda. Si chiama Giomila, crasi di Giorgi Camila. È fatto, dice sul suo sito, «per le donne speciali». Sue le idee, a disegnare è mamma Claudia. Come testimoniato dai numerosi scatti Instagram, prevalgono il pizzo e gli abitini vezzosi — prevalentemente dai colori pastello — che esaltano il corpo perfetto di Camila. Che, non a caso, è tra le più apprezzate del circuito. 

Il matrimonio mancato

Camila è stata fidanzata per diverso tempo con Giacomo Miccini, anche lui giocatore di tennis, con cui avrebbe dovuto sposarsi nel 2017. Poi invece la storia è finita. «Io non vedo l’ora che si sposi, che faccia la sua vita — disse un giorno il padre —. Stiamo bene insieme, poi si vedrà, magari mi lascerà libero… Ogni tanto le dico di staccare ma lei quasi si arrabbia, meglio non contrariarla. Certo c’è il tennis, ma il tennis è un pezzettino di vita, la vita è di più, anche se a volte non sembra…».

Boris Becker.

Boris Becker fa 56 anni: le curiosità. Storia di Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 23 novembre 2023.

Boris Becker compie 56 anni Boris Becker ha compiuto mercoledì 56 anni. In carriera il tedesco ha vinto Wimbledon quando era appena 17enne (il più giovane nella storia del torneo) e in totale ha fatto suoi 6 Slam, oltre a 2 Coppe Davis e alla medaglia d’oro in doppio alle Olimpiadi di Barcellona. Inoltre è stato numero 1 al mondo, confermandosi al top anche da allenatore di Novak Djokovic fra il 2013 e il 2016. Oggi lo si può vedere all’angolo di Holger Rune, il classe 2003 danese fra i giovani prodigi del tennis insieme a Sinner e Alcaraz. La condanna e il carcere: «Ero solo un numero» Non solo trionfi, soldi e fama per Boris Becker, che ha dovuto fare i conti anche con tante cadute, compreso il carcere. Nel 2022 viene infatti condannato da un tribunale inglese a 30 mesi di reclusione, metà dei quali da trascorrere in carcere, per bancarotta fraudolenta. Becker fu detenuto in custodia nel carcere di Wandsworth a Londra, poi dopo qualche mese ecco l’estradizione in Germania. Nel pronunciare la sentenza il giudice, Deborah Taylor, aveva sottolineato come l’ex tennista «non abbia ammesso la sua colpa o provato rimorso. C’è stata da parte sua una totale mancanza di umiltà». Becker era stato ritenuto colpevole per quattro dei 24 reati fiscali per cui era finito sotto processo tra cui sequestro di proprietà (una regale villa a Maiorca), occultamento di debiti (non aveva mai restituito circa 3,6 milioni ricevuti in prestito dalla banca Arbuthnot Latham). Non solo: non aveva dichiarato una proprietà immobiliare in Germania e, per nascondere denaro ai creditori lo aveva trasferito su conti di altre persone, nella maggior parte dei casi familiari: «In prigione ero solo un numero, clima violento. Ho imparato una lezione», racconterà successivamente il tedesco L’attuale compagnaAll’udienza — aula numero uno del tribunale che guarda il London Bridge — Becker, 54 anni e sei titoli dello Slam (di cui tre vinti a Wimbledon), era arrivato mano nella mano con l’attuale compagna, Lilian de Carvalho Monteiro, a cui aveva appena comprato un mazzo di fiori.I quattro figliIn tribunale era stato accompagnato dal figlio maggiore Noah, avuto con la prima moglie Barbara. Becker ha altri tre figli: Elias Balthasar, Amadeus Benedict Edley Luis (avuto con la seconda moglie Sharlely «Lilly» Kerssenberg) e Anna (avuta dalla modella Angela Ermakova).La dieta in carcere, dove perse 8 chili Durissima anche per una leggenda come lui la vita dietro le sbarre. In otto mesi di detenzione ha perso altrettanti chili, lamentandosi dell’affollamento, del cibo scarso e di cattiva qualità, e della mancanza di igiene e pulizia. In cibo poteva spendere al massimo 10 sterline a settimana e le usava per comprare cioccolata, banane e biscottiRe a Wimbledon a 17 anniBecker arriva come un ciclone sul tennis. Vince a soli 17 anni Wimbledon, ne aggiungerà altri due in carriera battendo Lendl e Edberg. Ma proprio il Centre Court gli volta le spalle, con quattro finali perse (due ancora con Edberg, poi Stich e un giovane Sampras). In totale vanta 64 titoli, di cui 6 Slam (uno allo Us Open, due in Australia).Le idee di suicidioNel 1991, a 24 anni, confessa di aver pensato al suicidio: «Una volta ero in piedi sulla finestra, sarebbe bastato un passo per saltare di sotto. Ma l’ ho chiusa, mettendomi tutto dietro le spalle. Ho deciso in quel momento di cominciare una nuova vita.». Parole che fanno riferimento ai primi anni di carriera, in cui ha rischiato di essere schiacciato dalle aspettative. Solo nell’89 ha potuto liberarsi dell’ansia che lo attanagliava, con la vittoria agli Us Open.Allenatore di DjokovicTra il 2013 e il 2016 si è seduto nel box di Novak Djokovic, allenatore insieme al fido Marjan Vajda. Riflessivo e furbo, attento e complice, ha saputo far crescere il serbo nell’eterno duello con Federer e Nadal, portandolo a vincere sei slam. Di recente ha svolto anche il ruolo di consulente della federtennis tedesca.La prima moglieBecker è stato sposato due volte. Il primo matrimonio è del 1993, con la modella Barbara Feltus Pabst. I due si sono lasciati nel 1999, per un tradimento del tennista. Così lei si è trasferita in Florida con i due figli Noah e Elias quando ha scoperto che il marito aspettava un figlio da un’altra donna (Angela Ermakova). Nel 2001 il divorzio tra Becker e Barbara.La figlia fuori dal matrimonioCome detto Becker ha una figlia, Anna Ermakova, nata dalla storia di una notte con la modella tedesca Angela Ermakova: inizialmente non era stata riconosciuta dal padre. Becker poi venne smascherato dalle analisi del Dna nel 2001: nel 2007 il campione ne ottenne l’affido condiviso. La nuova paternità gli costò la fine del matrimonio con la prima moglie Barbara, da cui aveva avuto altri due figli, appunto Noah e Elias Balthasar.La seconda moglieNel 2005 inizia a far coppia con la modella olandese Lilly Kerssenberg, che sposa quattro anni più tardi. Hanno avuto un figlio, Amadeus Benedict Edley Luis, e si sono separati nel 2018.La precedente condannaNel 2002 viene condannato dal tribunale regionale di Monaco di Baviera a due anni di reclusione con sospensione della pena per evasione fiscale per 1,7 milioni di euro. Un precedente che nella sentenza di ieri ha avuto peso. «Non hai ascoltato l’avvertimento che ti è stato dato allora — le parole del giudice — e questa è un’aggravante significativa».La mega villa a MaiorcaNel 1995 Becker compra una mega villa a Maiorca, e la ribattezza «Son Coll». Nel 2007, già nei guai a livello finanziario, tenta di venderla per circa 15 milioni di euro. Nulla di fatto, finché viene disposta la messa all’asta della proprietà, per ripianare i debiti di Becker. I cimeli vendutiNel 2019 per tentare di ripagare i debiti è stato costretto a mettere all’asta molti dei cimeli accumulati in carriera. Già l’anno precedente il banditore Wyles Hardy & Co aveva organizzato una prima vendita di 82 lotti, ma il tre volte vincitore di Wimbledon l’aveva bloccata, appellandosi all’immunità diplomatica. Ha venduto oltre 70 cimeli, raccogliendo circa 750 mila euro, poco per arginare l’onda di debiti che lo aveva già travolto.VegetarianoBecker è vegetariano convinto. Nel suo periodo di collaborazione con Novak Djokovic i due si sono trovati, oltre che sul fronte tennistico, anche su questo aspetto (anche Nole è molto attento all’alimentazione).Poker e scacchiHa da sempre una forte passione per poker e scacchi. «Io sono un giocatore nato con la voglia di vincere e tutto ciò fa parte della mia indole. Che sia tennis o siano gli scacchi, io voglio giocare non solo per farlo, ma perché mi piace mettermi alla prova». Così ha sfidato anche il campione Garry Kasparov in una partita giocata via internet. Perdendo.

(ANSA domenica 12 novembre 2023) - «Non dimenticherò mai la mia prima notte in carcere. Quando sento i giocatori lamentarsi della pressione che subiscono durante una palla break mi viene da ridere". L'ex campione del tennis Boris Becker si racconta a l'Équipe Magazine tra il passato in prigione e il presente nel fatato mondo del tennis dove è tornato per allenare il danese Holger Rune. 

"Quando sento i giocatori lamentarsi della qualità del cibo nella lounge, rido. Quando sento i giocatori lamentarsi delle condizioni di allenamento in campo, rido. Non ti impressiona più niente, quando sei stato in prigione. La prima notte in prigione non dormi, non più di quanto dormi l'ultima notte".

Con Anne-Sophie Bourdet de L'Équipe Magazine Boris ha fatto una lunga chiacchierata in pantaloni neri da jogging, berretto in testa, pareva quasi in incognito. Non aveva troppa voglia di parlare dei mesi passati in prigione, dove si è messo a insegnare filosofia stoica agli altri detenuti. «Marco Aurelio - dice - fu uno dei suoi ultimi rappresentanti. Il principale consigliere dell'imperatore romano era uno schiavo disabile, Epitteto. Marco Aurelio gli diceva sempre di sentirsi depresso, arrabbiato, insoddisfatto. Eppure era il re del mondo. Epitteto, che non aveva nulla, sorrideva. Questo è il cuore dello stoicismo: possiamo controllare solo ciò che è nella nostra mente. E se ci riusciamo, otteniamo un potere inestimabile. Tutto il resto - l'amore, il lavoro, gli aerei, le partite - è impossibile da tenere a bada e può farti impazzire. Se capisci lo stoicismo, non diventerai mai pazzo. Rafforzi la tua mente e prendi il potere».

La televisione può aiutare. In carcere Boris aveva la BBC e poteva guardare Wimbledon, mentre Djokovic era «così gentile da regalare i biglietti alla mia fidanzata e ai miei figli, così ho potuto vedere anche loro in tv, sullo schermo, ai quarti di finale e in semifinale». 

L'ex detenuto A2923EV della prigione di Wandsworth vuole riprendersi il tempo perduto. Il Caso fa giri enormi e per la prima partita al Masters del suo nuovo giovane allievo gli mette di fronte il vecchio. «Con Novak siamo stati tre anni insieme, abbiamo vinto tutto, ripetutamente. Diciamo che separarsi era scritto da qualche parte. Penso che a un certo punto lui fosse stanco, si è preso una pausa e ne ho presa una anch'io. La storia d'amore perfetta stava per finire. Non è successo nient'altro. Sono diventato direttore tecnico del tennis in Germania. Ho passato molto tempo con il giovane Zverev, con la squadra di Coppa Davis».

Becker ha detto di sì a Rune perché «mi piacciono le personalità forti. Penso che il tennis abbia bisogno di giocatori con carattere, che esprimano le proprie emozioni. Se sanno coinvolgere il pubblico o l'arbitro è una cosa buona. Se Holger non rispetta le regole, pagherà una multa, come è successo a me".

Estratto dell’articolo di Maurizio De Santis per fanpage.it il 31 marzo 2023.

"Sono uscito da tre mesi e sono felice di essere vivo". Comincia da qui il viaggio a ritroso nel tempo di Boris Becker [..] per ricordare cosa siano stati per lui gli otto mesi trascorsi in cella. In cella c'è finito per un pasticciaccio brutto di soldi e affari andati a male fino alla condanna a 2 anni e mezzo di reclusione per aver fatto bancarotta fraudolenta. E una volta imprigionato il mondo gli è crollato addosso. […]

"Volevano uccidermi", ha confessato Becker […]. Dietro quell'atteggiamento provocatorio c'era dell'altro di molto più pericoloso: "Ha cercato di ammazzarmi". È successo anche questo durante il periodo di detenzione nella casa circondariale di Holcombe ma è solo uno degli episodi che ha vissuto sulla sua pelle.

[…] Becker temeva che da lì dentro non sarebbe più uscito tutto intero. "Stupratori, spacciatori… c'erano tutti i tipi di criminali", ha aggiunto lasciando intendere quanto sia stato difficile riuscire a trovare un dimensione al cospetto di chi dietro le sbarre era stato spedito per reati molto più gravi rispetto ai suoi.

 […] "Si apprezza la libertà solo dopo essere stato in carcere – le parole del tedesco -. È un altro mondo e sono felice di esserne uscito e soprattutto di averlo fatto da vivo. Il carcere è pericoloso e non credevo che potesse essere così spaventoso".

Bum bum Becker, fuori lo chiamavano così ricordando quanto fossero letali i suoi colpi. Ma in cella la sua fama ha rischiato di metterlo nei guai. "L'unica moneta di scambio che hai è la tua personalità, come riesci a cavartela – ha concluso -. È meglio farsi amici quelli più tosti perché serve protezione, qualcuno che ti guardi le spalle".

Dagospia il 27 febbraio 2023. Estratto della Traduzione dell’articolo del "Financial Times" di Henry Mance pubblicato da ubitennis.com

 […] io e Boris Becker ci ritroviamo in macchina a Monaco di Baviera. Un mese prima, la città era coperta di neve e lui era in galera. Ora sia lui sia la città sono quasi libere da ciò che prima li teneva prigionieri. […] Becker entra nello studio e si siede su un divano grigio. I suoi capelli sono molto corti e le gambe rilassatamente divaricate. Tutti sono concordi, è come se non se ne fosse mai andato. Almeno in quest’angolo della tv, Boris Becker è tornato.

Alcune volte dice che è stato via. Una volta scherza riguardo alla sua “vacanza”. Ma Becker è troppo vecchio per gli eufemismi. È finito dentro, in gattabuia, in prigione. Nell’aprile 2022, gli sono stati inflitti due anni e mezzo. Non era riuscito a pagare un debito di tre milioni e mezzo di euro. Un tribunale ha stabilito che aveva infranto per quattro volte le leggi, soprattutto nel non dichiarare che aveva la proprietà della casa dove la madre vive e nell’aver effettuato pagamenti personali per 427.000 euro da un business account.

[…] A fine 2022, con le prigioni inglesi piene fino all’esaurimento, Becker è stato liberato anticipatamente. È tornato in Germania sul jet privato di un amico. Ma il mistero rimane. Come ci si può infilare in un casino simile? Becker era un grande volto della BBC per Wimbledon: informato, gentile, educato. Era tutta una finzione?

 Ha acconsentito a parlare con il Financial Times, per la sua prima intervista inglese da quando è stato rilasciato. […] Inquadra il suo ritorno a Monaco come un avvertimento per il principe Harry: “Non dimenticare da dove vieni, perché un giorno potresti aver bisogno di tornarci. E i matrimoni non durano per sempre”.

 […] “Dicono che dopo un certo numero di anni il passato ti tormenta mentalmente. Ma sono stato dentro otto mesi e sei giorni, forse troppo poco”.[…] Scherziamo sulla dieta di Djokovic, il cui coach per tre anni è stato proprio Becker. “La seguiva davvero in modo estremo, tanto che a volte gli dicevo: devi mangiare qualcosa, non puoi vivere solo con l’aria”.

[…]Il giudice che ha inflitto la pena a Becker disse che lui non aveva manifestato segnali di rimorso per quello che aveva fatto. Ora Becker ha un tono differente. “Sono consapevole che mi è stata data una seconda chance”. […]

 Dentro, ha imparato ad accettare le cose: “Se ti guardi troppo indietro, ti butti giù, accusi la corte o il giudice o Dio o chissà chi, non avrai un grande sollievo. Nel tennis la cosa più difficile è dimenticare il doppio fallo che hai appena fatto o le opportunità perse, molti giocatori non ci riescono. Solo i più bravi riescono a cancellarli dalla testa e guardare avanti alla prossima opportunità. Questo è quello che sto facendo”.

Come ha imparato ad accettare quanto accaduto? “La HMP Wandsworth è una merda. Un posto pericoloso. Dopo la prima settimana ho realizzato che lì si pratica la sopravvivenza, e che se sprecavo energie a pensare al passato, era finita. Avevo bisogno di ogni singola energia mentale per riuscire a sopravvivere ogni singolo giorno. Così non sono impazzito. Il momento in cui arrivano con le chiavi tuttavia lo senti, è un momento che non scordi più”. Ma soprattutto, “Bisogna ammazzare il tempo. Nel mio caso, mentalmente sono abbastanza forte. Ho una buona immaginazione e una buona memoria. Davvero, abiti nella tua testa quando sei dentro”. Si è tenuto occupato pensando a cosa avrebbe fatto se non fosse lì.

[…] La sua condanna è stata “una stupidaggine. Si è trattato di ingenuità, di cattivi consigli. Non c’erano cattive intenzioni. Non ho nascosto soldi sotto al letto. Non ho nascosto soldi in conti esteri. Ma c’è una cosa che ho imparato: devi prenderti cura delle tue cose”.

 Becker è stato trattato bene in galera? Lui sospira. “Se il mio nome fosse Peter Smith, e non avessi vinto Wimbledon a 17 anni, l’accusa non mi avrebbe perseguito con 29 capi di accusa (è stato assolto dalla maggior parte di essi, compresi uno collegato all’aver nascosto i suoi trofei di Wimbledon). Ero uno dei loro casi più noti. Ma se non avessi fatto gli errori che ho fatto, loro non avrebbero avuto un obiettivo”.

 Secondo alcuni articoli Becker ha ricevuto un trattamento speciale in prigione, come la possibilità di bere il tè con le guardie. “Spazzatura totale”. Ha intrapreso azioni legali contro chi ha detto che se l’è cavata con poco. […]

A Wandsworth, ha trovato lavoro come insegnante di matematica e inglese. Questo lo ha autorizzato a uscire dalla cella per cinque ore al giorno, “che è quello che vuoi, perché dentro la cella si muore”. Dopo due settimane gli è stato detto che, in quanto straniero, sarebbe stato deportato all’estero. Quindici giorni dopo, gli è stato detto che lo avrebbero trasferito alla prigione di Huntercombe, in Oxfordshire, iniziando da zero.

Non avevo un lavoro dunque rimanevo in cella 22 ore al giorno. C’è un sacco di rumore fuori. La gente che urla, che sbatte le porte, musica. Ero circondato da assassini, spacciatori di droga, rapitori. Te li ritrovi nella stanza accanto. Non è che perché hai fatto reati economici, allora sei in un’altra sezione. All’inizio sei anche spaventato, perché magari trovi uno che ha ammazzato due persone con le sue mani e si deve fare 18 anni ancora. Immagina! Invece diventa il tuo socio. Ho sentito che nelle prigioni in Germania le cose vanno diversamente”.

 Per mesi, Becker non poteva chiamare i suoi figli in Germania. Alla fine, ha trovato un lavoro come insegnante di scienza e filosofia, in particolare sullo Stoicismo. Pensa, Becker, che la prigione riabiliti le persone? La risposta è secca: “No”. […]

Da ilnapolista.it il 20 dicembre 2022.

Boris Becker ha raccontato la sua esperienza in carcere all’emittente Sat 1. L’ex tennista è stato condannato a 2 anni e mezzo di prigione per bancarotta. Le prime settimane dopo la condanna le ha trascorse nella prigione di Wandsworth, a Londra, una delle peggiori carceri inglesi. Il Daily Mail, qualche tempo fa, dedicò un reportage alla prigione: topi, droga, criminali violenti. 

Becker racconta la sua permanenza a Wandsworth. 

In prigione non sei nessuno. Sei solo un numero. Il mio era A2923EV. Non mi chiamavo Boris, ero un numero. E a nessuno frega un caz… di chi sei. Credo di aver riscoperto l’umano in me, la persona che ero una volta”.

Becker ha raccontato che il cibo, tra l’altro fornito in porzioni insufficienti a togliergli la fame, era pessimo, che non si svolgeva alcun tipo di attività integrative e di aver vissuto in un clima di grande violenza.

Ho imparato una dura lezione, molto costosa e molto dolorosa. Ma l’intera faccenda mi ha insegnato qualcosa di molto importante e utile. E alcune cose accadono per una buona ragione”. 

Ha raccontato anche il momento in cui ha lasciato il carcere. 

Dalle sei di quella mattina mi sono seduto sul bordo del letto e ho sperato che la porta della cella si aprisse. Sono venuti a prendermi alle 7:30, hanno aperto la porta e mi hanno chiesto: ‘Sei pronto?’ Ho detto: ‘Andiamo!’ Avevo già preparato tutto in anticipo”.

Il 15 dicembre 2022, Becker è stato rilasciato e estradato in Germania. Ha scontato poco più di sei mesi di pena. In Germania può muoversi da uomo libero. Ciò è possibile grazie a un programma di sgravio delle carceri britanniche: i detenuti senza cittadinanza britannica vengono rilasciati in anticipo ed estradati in patria. Tuttavia, non possono più entrare in Gran Bretagna fino alla fine della pena (nel caso di Becker fino all’autunno 2024). Boris Becker è tornato in Germania dal 16 dicembre.

Boris Becker: «In prigione ero solo un numero, clima violento. Ho imparato una lezione». Storia di Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 20 dicembre 2022.

«In prigione non sei nessuno, solo un numero di matricola. Io ero A2923EV. A nessuno frega niente di chi sei». In cambio di 500 mila euro, Boris Becker racconta la sua esperienza dietro le sbarre all’emittente tedesca Sat1. «Ho imparato una dura lezione, molto dolorosa, molto costosa», ha detto il tre volte campione di Wimbledon, estradato (su un aereo privato) in Germania dopo aver scontato i primi otto mesi di una condanna a 2 anni e mezzo in Gran Bretagna per bancarotta fraudolenta.

, il paesino dove è nato, lì dove vive ancora mamma Elvira, 87 anni. L’ex tennista racconta: «Ero solo un numero. Non mi chiamavo Boris, ero un numero. E a nessuno frega nulla di chi sei. Credo di aver riscoperto l’umano in me, la persona che ero una volta». Il cibo, ha spiegato l'ex numero uno del mondo, era pessimo e fornito in porzioni insufficienti a togliergli la fame. Non c'erano altre attività integrative e il clima era di generale violenza: «Ho imparato una dura lezione, molto costosa e molto dolorosa. Ma l’intera faccenda mi ha insegnato qualcosa di molto importante e utile. E alcune cose accadono per una buona ragione».

Boris Becker: il carcere, la bancarotta, le mogli, poker e scacchi, la mega villa a Maiorca, Edberg, Djokovic

Becker ha raccontato , nell’Oxfordshire: «Dalle sei di quella mattina mi sono seduto sul bordo del letto e ho sperato che la porta della cella si aprisse. Sono venuti a prendermi alle 7.30, hanno aperto la porta e mi hanno chiesto: "Sei pronto?” Ho detto: “Andiamo!". Avevo già preparato tutto in anticipo». Sul campione caduto seguirà docu-film.

Uski Audino per “la Stampa” il 21 dicembre 2022.

«In prigione non sei nessuno. Sei solo un numero. Il mio era A2923EV. Non mi chiamavano Boris», racconta il campione di Wimbledon Boris Becker. Ha passato sette mesi nelle carceri inglesi, prima di essere rilasciato giovedì scorso. Un tribunale di Londra lo aveva condannato ad aprile a due anni e mezzo di reclusione per evasione fiscale e per aver occultato beni per circa 2,5 milioni di sterline nella procedura di fallimento. 

Uscito prima del tempo, ieri sera Becker è stato intervistato per la prima volta dal suo rilascio dall'emittente tedesca Sat.1, in un colloquio fiume in onda durato oltre un paio d'ore. Nello studio Becker è accompagnato dalla giovane compagna Lilian de Carvalho Monteiro e proprio ricordando davanti agli spettatori gli attimi di addio prima della sentenza del tribunale londinese ha un momento di commozione e tace. 

Dimagrito, scavato in viso, i capelli tornati biondo-rame come a all'inizio carriera e non più con punte biondo platino com' è di moda nel jet-set, la leggenda del tennis ha perso l'aria scanzonata di chi sfida il mondo e vince, di chi infila una conquista dopo l'altra e a cui tutto viene perdonato. Insieme a una giacca nera e una maglietta nera, Boris ha indosso un'aria penitenziale. «Credo di aver riscoperto la persona che ero prima. Ho imparato una dura lezione. Una lezione molto cara. Molto dolorosa.

Ma l'intera vicenda mi ha insegnato qualcosa di importante e di buono. E alcune cose accadono per un motivo», dice il 55enne cresciuto nella provincia del Baden-Wuerttemberg, rimasto nel cuore dei tedeschi "il diciassettenne di Leimen" che nel 1985 vinse Wimbledon. Sei diventato un'altra persona?, chiede il giornalista Steven Gätjen. «No, sono la stessa persona, forse più umile» la risposta di Becker. 

 «Ho perso peso, è vero. E in prigione per la prima volta nella mia vita ho sofferto la fame». E il suo nome non lo ha protetto: «Ero un numero. E non gliene fregava niente di chi ero, anche quando firmavo non potevo farlo con il mio nome ma scrivendo il mio numero».

«Dopo la condanna in tribunale mi hanno portato direttamente in prigione - racconta Boris - senza un attimo per poter dire addio alla mia vita di prima, nulla di più brutale. Sono stato gettato in una cella con tante persone e avevo paura: «Qualcuno era lì per omicidio, qualcun altro era li per traffico di droga. Io mi sono ritirato in me e ho abbassato lo sguardo a terra», dice il campione del tennis. «Insomma mi sono dovuto confrontare con tutta un'altra realtà rispetto alla mia».

Le prime settimane la leggenda del tennis le ha trascorse nel carcere duro di Wandsworth prima di essere trasferito a metà maggio nella struttura di Huntercombe, vicino a Nuffield, nell'Oxfordshire. «La prima prigione era estremamente pericolosa e altrettanto sporca, lì incontri chiunque e ogni giorno sei impegnato a sopravvivere» ricorda Boris. 

«Quando sono stato gettato in una cella con 25-30 persone avevo paura, per fortuna qualcuno mi ha riconosciuto. Questo fatto mi ha fatto sentire protetto». Andando in carcere, «avevo due paure: la cella doppia e le docce», racconta. La cella doppia perché «temevo che il mio compagno di cella potesse avere scatti d'ira o mi potesse minacciare. La doccia, perché ho visto tanti film «dove il bagno sembra il posto più temibile della prigione». Invece, contrariamente all'immaginario cinematografico, «c'erano delle docce a cabina e non ho visto altri uomini nudi», racconta Becker. 

«La cella invece l'ho avuta singola», probabilmente la direzione del penitenziario ha pensato che qualcuno avrebbe potuto minacciarmi. Dopo qualche settimana la stella del tennis tedesco è stato trasferito nel carcere di Huntercombe, vicino a Nuffield, nell'Oxfordshire. Un detenuto come gli altri sì, ma non del tutto. A Huntercombe, un carcere di bassa sicurezza utilizzato per criminali stranieri prima della loro espulsione, Becker si è allenato regolarmente nella palestra della prigione e ha lavorato come assistente dell'allenatore del carcere, aiutando i compagni a mantenersi in forma.

Sul processo, l'ex tennista fa poche concessioni: «Sono sincero e mi guardo volentieri allo specchio. Prima della sentenza sapevo che le probabilità di condanna erano cinquanta e cinquanta. Ho cercato di spiegare la mia innocenza durante le tre settimane di durata del processo, ma non ho mai ammesso la mia colpevolezza e non so se questo sia stato apprezzato» perchè «forse non ho mostrato abbastanza pentimento». Ma la colpa non è della giudice inglese, «lo voglio sottolineare» dice. Piuttosto è stata la giuria a condannarlo: «Metà dei giurati era sotto i trenta anni e non sapeva nemmeno chi fosse stato Boris Becker».

Carolina Kostner.

Arianna Fontana.

Carolina Kostner.

Carolina Kostner, il ritorno sul ghiaccio e il sogno: «Voglio un figlio». Schwazer? «Non sarà mai facile parlarne».  Gaia Piccardi su il Corriere della Sera il 23 Febbraio 2023

La campionessa di pattinaggio si esibisce sabato al PalVala di Torino: sarà la star più brillante di «Cinema on Ice». Le medaglie conquistate, l’affetto dei tifosi, i disegni dei bambini (li ha conservati tutti)

«Nell’ultimo periodo ho riflettuto su cosa significhi davvero il pattinaggio per me. Non sono solo i risultati e le medaglie a motivarmi. Lo sport è sempre stato un modo per esprimermi: sul ghiaccio avverto una pace interiore, mi sento a casa. In verità credo di aver cominciato prima a pattinare che a camminare...».

Cresciuta sulla patinoire, anche da grande Carolina Kostner non riesce a separarsene. A 36 anni compiuti da poco, dopo aver scolpito sul ghiaccio i ghirigori che in Italia nessuna — prima di lei — era riuscita a fare (un leggendario bronzo olimpico, un oro mondiale datato 2012 che brilla ancora fin qui, 5 ori europei, più tutto il resto), non ha mai detto basta, mi tolgo i pattini, smetto. Sta per tornare, anzi. Sabato, al PalaVela di Torino («Uno dei miei luoghi del cuore»), sarà la star più brillante di «Cinema on ice», lo show originale che unisce colonne sonore e performance sul ghiaccio.

Tutto cominciò proprio lì, nel 2006, ai Giochi italiani di cui fu portabandiera a 18 anni, Carolina.

«Quanti anni sono passati, ero una bambina emozionata e felice... A Torino pattinerò con un messaggio di speranza, di cui in questi tempi abbiamo tanto bisogno: che tutti trovino il coraggio di rialzarsi e andare avanti».

Carolina, una vita sui pattini (ma non solo)

E pensare che questa storia iniziò con gli sci da discesa libera, proprio come sua cugina Isolde.

«Ho sciato fino a 14 anni, quando una frana si abbattè sul palazzetto di Ortisei. Poi, dovendo andare a Bolzano o Merano per pattinare, non riuscivo più a conciliare tutto. Ma il pattinaggio mi piaceva di più, non c’era gara».

Qual è il suo programma più iconico?

«Oddio, sceglierne uno è tanto difficile... Alcuni mi piacciono per i movimenti, altri per le emozioni che mi hanno trasmesso. Se proprio devo, dico il Bolero della medaglia di bronzo all’Olimpiade di Sochi 2014. È stato un lungo percorso di evoluzione passato attraverso il concerto per piano n.23 di Mozart, che doveva farmi crescere per arrivare a interpretare l’Ave Maria di Schubert, il programma obbligatorio di quei Giochi».

E l’avversaria più forte?

«Ho ammirato tanto la coreana Kim Yu Na per la costanza e la giapponese Mao Asada per la forza mentale. L’atleta perfetto però non esiste, ciascuno porta sulle lame il suo carattere e la sua personalità. Difetti inclusi».

Dove tiene coppe, trofei e medaglie?

Carolina Kostner con il fidanzato, Fabrizio Vittorini

«Non sono una persona materiale: il valore più grande ce l’hanno le esperienze che ho avuto, le persone che ho incontrato, le sensazioni che ho vissuto. Certo gli oggetti sono legati a luoghi e situazioni, rispolverano ricordi. È tutto a casa dei miei genitori, a Ortisei: mamma ha catalogato ogni cosa. Una volta un tifoso mi mandò un gioiello, accompagnato da una bellissima lettera. Ricordo il valore di quel gesto. E ho tenuto tutti i disegni dei bambini: bellissimi, raccontano più di mille parole».

Carolina lei ha aperto una strada però non è nata una scuola: ai Giochi di Milano-Cortina 2026 mancano solo tre anni e non abbiamo ragazze italiane di talento che possano ambire al podio nell’Olimpiade di casa.

«Un campione non si costruisce in quattro anni. Le società lavorano con i mezzi che hanno, in silenzio. Spero, un giorno, di aprire una scuola mia. Sono una donna, ormai: c’è un’ambizione di famiglia da coltivare, che ha bisogno di essere conciliata con i progetti lavorativi. Sono sempre presente al Campionato italiano e le ragazze sanno che possono contare su di me quando vogliono».

A proposito di voglia di maternità: cosa ci fa una gardenese sul lago di Bracciano?

«Fabrizio, il mio compagno, osteopata, abita e lavora lì. Vivo in perenne attesa che il lago ghiacci, come piace a me sulle Dolomiti, ma non succede mai! Mi divido comoda tra la Val Gardena e Roma, sono via dalle mie montagne da dodici anni, ormai, oggi le vivo in modo diverso. Ortisei significa vacanza, tempo libero, famiglia, relax».

Su Netflix sta per uscire il docu-film sulla storia di Alex Schwazer, l’ex fidanzato marciatore per il quale mentì a un ispettore dell’antidoping. Quella bugia le costò una dolorosa squalifica. Come è stato tornare su quei fatti?

«Non facile. Non lo sarà mai».

Punto?

«Punto».

Si è accomiatata dalle gare in punta di piedi.

«Per colpa di un infortunio molto serio, poi è arrivato il Covid, poi il tempo è volato. Ma sogno di organizzare uno spettacolo per celebrare le tante persone con cui ho lavorato in questi anni: più che per dire addio, per dire loro grazie».

L’operazione all’anca è un regalo dei salti sui pattini?

«E chi lo sa...? Sono nata con un’anca con una displasia accentuata. Ho pattinato tanti anni, allenandomi moltissimo. Tornando indietro, rifarei tutto. Io credo che ci voglia coraggio per lasciarsi sorprendere dalla vita».

Non ha rimpianti, dice. Eppure il bronzo di Sochi valeva almeno argento, Carolina, ma i giudici vollero premiare l’atleta russa, Adelina Sotnikova.

«Sono sincera: per me quella medaglia vale oro. A casa delle russe ero pronta ad accettare un probabile quarto posto. Tutto ciò che è arrivato dopo, è stato un di più: da quel momento non ho più avuto bisogno di dimostrare a me stessa che so pattinare. Da lì in poi ho pensato solo a ispirare le persone, anche quelle che non facevano il tifo per me».

Come le piacerebbe rendersi utile per l’Olimpiade di Milano-Cortina?

«Ho già un ruolo di ambassador datomi dalla Fondazione ma mi piacerebbe lavorare con i giovani: lo sport è un veicolo potente per trovare la forza di volontà dentro se stessi. Lo dico per esperienza».

Rifarebbe proprio tutto?

«Non so come rispondere... Se torno indietro alla decisione di trasferirmi a Oberstdorf, in Germania, a 12 anni, sì: penso che in quel momento fosse giusto farlo. Le lezioni della vita le ho imparate tutte. Mi piace guardare sempre avanti, non indietro».

Avendo realizzato tutte le sue aspirazioni sul ghiaccio, adesso cosa sogna?

«Di avere dei figli e un impatto positivo sulle persone che mi stanno intorno».

Arianna Fontana.

Estratto dell’articolo di Gaia Piccardi per corriere.it mercoledì 6 dicembre 2023.

Arianna Fontana , l’atleta azzurra più medagliata all’Olimpiade (11 podi, di cui due ori), e i due compagni di squadra che ha accusato di averla fatta cadere in un allenamento misto a Courmayeur nel 2019, Tommaso Dotti e Andrea Cassinelli, nella stessa stanza per la prima volta. 

È successo ieri nell’udienza davanti al Tribunale federale (tre giudici donne) che dovrà decidere se prosciogliere o condannare i due atleti per violazione dell’art.1 del Regolamento di giustizia (pene dalla diffida alla radiazione), alla presenza del Procuratore nazionale del Coni Alessandra Flamminii Minuto (che assisterà a tutte le udienze) e del Procuratore della Federghiaccio (Fisg) Marco Cozzi. E la tensione nell’aula di via Piranesi era ben più spessa delle lame dello short track.

Vicenda delicata, archiviata dalla Procura Fisg dopo una prima indagine, riaperta prima dell’estate grazie alla prova regina presentata da Fontana: una registrazione audio del meeting di squadra del giorno dopo l’allenamento incriminato, in cui Dotti e Cassinelli, poi deferiti, avrebbero ammesso l’intenzionalità del gesto.

[…] la registrazione fatta a titolo difensivo è ammissibile benché presentata in un secondo tempo, la Procura federale non era al corrente dell’audio e quindi bene ha fatto a riaprire le indagini in presenza della «prova principe» […] Ma soprattutto, in questa prima udienza interlocutoria, Fontana segna un punto importate quando il Tribunale respinge l’eccezione sulla costituzione della fuoriclasse come parte del processo: l’atleta è a buon diritto presente nel procedimento anche se non potrà essere sentita come testimone. 

[…] l’interesse primario della campionessa olimpica è ottenere un risarcimento (perlomeno) morale in quella che lei definisce una «battaglia di giustizia contro un ambiente tossico», è corretto che vi prenda parte. Il diritto soggettivo, insomma, è riconosciuto. Ce n’è anche uno collettivo: il fatto, accaduto in un allenamento misto uomini/donne, potrebbe ripetersi (Dotti e Cassinelli, peraltro, sono attualmente infortunati). 

L’udienza è aggiornata al 16-17 gennaio per l’audizione dei testimoni (tra cui il segretario generale Sanfratello, il d.t. azzurro Gouadec e Cynthia Mascitto, atleta italo-canadese oggi non più tesserata Fisg che sulla qualità dell’ambiente in squadra ha portato una sua testimonianza). Dalla sentenza, a occhio in primavera, dipende il futuro in azzurro di Arianna Fontana.

Estratto dell'articolo di Maurizio De Santis per fanpage.it il 27 gennaio 2023.

 La campionessa olimpica Arianna Fontana fa condiviso sui social un post molto duro nei confronti della FISG[…]: la rottura con la FISG è totale, […] questioni di budget e aspetti finanziari che non collimano tra domanda e offerta messa a disposizione.

 Allo stato dei fatti non c'è margine né possibilità alcuna di ricomposizione del rapporto che s'è logorato nel tempo e la portò allo sfogo durissimo, un atto d'accusa nei confronti dei vertici e degli atleti maschi che – come più volte ribadito – l'avevano presa di mira[…]

[…] . "Questo non è mai stato un anno sabbatico – si legge nel testo -, non ho gareggiato perché non posso giustificare di gareggiare per una federazione che condona comportamenti e decisioni dannose nei miei confronti. Ho davanti a me decisioni importanti da prendere e tutte le carte sono sul tavolo, anche quelle che pensavo non avrei mai preso in considerazione".

 La replica della Federazione è stata altrettanto forte. In un lungo comunicato ha ribattuto, punto per punto, alle frasi espresse da Fontana definite "gravi esternazioni riportate senza che ne fosse dato avviso e il cui contenuto per nulla giova alla ricerca di una soluzione comune". […]

"Preso atto della volontà di Fontana di non aggregarsi alla Nazionale italiana seguendo il lavoro impostato e programmato dallo staff tecnico federale, la FISG si è nuovamente resa disponibile a prendersi carico dei costi di allenamento e preparazione dell’atleta, insieme allo staff da lei scelto, nel luogo che più avrebbe ritenuto adatto e consono alle proprie esigenze. Tutto ciò a condizione che Fontana prendesse parte alle competizioni internazionali con la Nazionale italiana, accompagnata a bordo ghiaccio dal proprio tecnico durante le gare individuali e dal tecnico federale nelle gare a squadra.

Non senza sforzi e d’intesa con il CONI, la FISG ha così comunicato ad Icelab, società di appartenenza dell’atleta, l’impegno a garantire la somma di 200mila euro a stagione a copertura di tutte le spese di preparazione e allenamento di Fontana. Una cifra, tuttavia, purtroppo neanche lontanamente vicina alla somma irraggiungibile richiesta da Fontana per il quadriennio in corso."

 Altro capitolo della vicenda non meno importante: le accuse di Fontana ai suoi compagni di squadra. La FISG chiarisce l'evoluzione della situazione e cosa è stato realmente fatto in seguito alla denuncia della campionessa.

"Quanto al nuovo riferimento nel testo alla vicenda già denunciata ai Giochi di Pechino con oggetto le accuse di Fontana ai suoi compagni di squadra, si vuole sottolineare la recente archiviazione da parte della Procura Federale e della Procura Generale del CONI[…] .Quel che è certo è che d’ora in avanti la FISG non tollererà ulteriori accuse, avvertimenti o intimidazioni da parte di Fontana[…]"

Da ilnapolista.it il 26 gennaio 2023.

 Arianna Fontana torna a parlare della vicenda che la lega alle accuse di sabotaggio e ostruzionismo da parte della federazione italiana. La campionessa olimpica di pattinaggio, che ha fatto da portabandiera ai giochi invernali di PyeongChang 2018, ha lanciato un nuova accusa, dopo quelle della scorsa primavera, tramite il suo profilo Instagram, scrivendo: “Lascio Salt Lake City dopo aver rimesso i pattini ed esplorato nuove opzioni.

 Ho deciso di aggregarmi al viaggio che Anthony aveva già in programma qui per vedere cosa hanno da offrire gli Stati Uniti e SLC nel caso dovessi continuare il mio viaggio olimpico. Vorrei ringraziare gli allenatori e i gruppi d’allenamento con cui ho pattinato mentre ero qui. Grazie per aver accolto me e il mio allenatore a braccia aperte ? È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che vi ho aggiornato sui problemi che ho dovuto e devo affrontare.

 Purtroppo non ci sono state comunicazioni costruttive sulla mia partecipazione ai Giochi Olimpici del ‘26 da parte della FISG (Federghiaccio, ndr) dopo che, dall’aprile scorso, ci sono state ammissioni, da parte del presidente della FISG, di errori commessi e fatto promesse che non sono mai state mantenute. Lo staff rimane, in parte, quello che ha permesso ad atleti di prendermi di mira durante gli allenamenti e questo non è accettabile.

 La strada davanti a me non è facile, ma so che non tollererò più che il personale tecnico e federale prenda decisioni per isolarmi senza assumersi la responsabilità di queste decisioni. Alla base della nostra società c’è il senso di responsabilità nei confronti delle proprie azioni e parole. Non vedo perché dovrebbe essere diverso nello sport. Negare e non affrontare i problemi ha solo creato più problemi e so che non posso avere quel tipo di persone o problemi intorno a me se decidessi di continuare.

 Questo non è mai stato un “anno sabbatico”, non ho gareggiato perché non posso giustificare di gareggiare per una federazione che condona comportamenti e decisioni dannose nei miei confronti. Finché quelle decisioni e azioni saranno approvate, non tornerò e se dovessi decidere di competere in futuro, il mio percorso sarà completamente separato da quello che il direttore tecnico e il suo staff hanno pianificato per il gruppo italiano. In quel caso, mi dispiacerà non allenarmi con il resto degli atleti italiani, ma la mia fiducia nello staff tecnico e federale è irrecuperabile. Ho davanti a me decisioni importanti da prendere e tutte le carte sono sul tavolo, anche quelle che pensavo non avrei mai preso in considerazione”.

Il Salto in lungo.

Il Salto in alto.

Il Mezzofondo.

La Maratona.

La Marcia.

La Corsa.

La Ginnastica.

La Ginnastica ritmica.

Il Salto in lungo.

Larissa Iapichino.

Estratto dell'articolo di Giulia Zonca per “La Stampa" Il 6 marzo 2023.

Un salto di 6 metri e 97 per raggiungere l'indipendenza. Larissa Iapichino supera le migliori al mondo, aggiusta il record italiano e si prende l'argento agli Europei indoor […] Per anni Larissa Iapichino è stata «la figlia di», così dotata da poter solo brillare, come se il fisico e persino certe espressioni ereditate dalla madre fossero un dono da tradurre in risultati senza sforzo. Ha toccato i 6 metri e 91 a 18 anni, ha staccato la misura di mammà poi il mondo ha iniziato a girare troppo in fretta […] e a Istanbul li ha sfoderati con una lucidità che non ammette dubbi. […]

Lei ha iniziato quando ha deciso, contro svariati consigli, di affidarsi alla guida tecnica del padre Gianni Iapichino, già mentore dell'ex moglie Fiona May. Se la giovane Iapichino avesse davvero avuto paura dei fantasmi non si sarebbe affidata a lui, sarebbe scappata dalle similitudini. Ha chiesto la strada opposta, si è tuffata negli incroci impossibili per emergere con la propria identità.

Ringrazia sia la famiglia che il padre allenatore e ricorda che mamma ha risposto «per favore no» quando lei ha espresso il desiderio di dedicarsi al salto in lungo, «le ho detto "ci saranno pressioni però imparerò a gestirle", lo sto facendo». Adesso vorrebbe abbinare a questo livello gli studi in giurisprudenza, così come fa il neo campione dei 60 metri Ceccarelli che sta nella stessa scuderia, «siamo due disperati». Il padre racconta che la svolta è arrivata alla fine della scorsa stagione «voleva fermarsi, diceva "babbo sono stanca" siamo andati avanti e ha preso confidenza nei meeting di settembre. Da lì siamo ripartiti, dopo un lavoro specifico sulla velocità (con la collaborazione dell'ex sprinter Checcucci). L'ho vista prima inattaccabile e poi emotiva quando ha dedicato l'argento al nonno. E mi piacciono entrambe le cose».

Il nonno Winston era il papà di Fiona May, «un personaggio d'uomo, ci ero tanto legata, ho fatto il mio piagnino, mi sono sentita protetta». Un continuo emanciparsi e riconnettersi alle radici. Non la imbarazzano più, non la legano, «questa strada è mia, lo dimostra il fatto di aver migliorato il primato italiano al coperto due volte nello stesso giorno, una prova superata in qualche modo anche se mia madre mi ha insegnato che i record sono fatti per essere battuti, meglio tenersi cara la medaglia, stretta stretta». […]«mi sento diversa, convinta e capace di divertirmi. Ho avuto momenti belli e brutti adesso io penso a saltare e basta. Della gara quasi non ho memoria». […]

Il Salto in alto.

Javier Sotomayor.

Sara Simeoni.

Dick Fosbury.

Gianmarco Tamberi.

Javier Sotomayor.

Estratto dell'articolo di Sergio Arcobelli per “il Messaggero” giovedì 27 luglio 2023.

Il volo eterno di Javier Sotomayor compie 30 anni. Il 27 luglio 1993, il gigante cubano realizzò a Salamanca, in Spagna, una delle imprese più straordinarie dell'atletica universale. Ovvero saltò 2,45 metri nel salto in alto stabilendo un record mondiale che resiste ancora oggi. «Sono pochi gli atleti che possono sentirsi orgogliosi di possedere un record mondiale per almeno trent'anni. E io sono uno dei pochi», racconta fiero Soto. 

Javier, come si sente ad essere ancora il primatista mondiale (lo è anche al coperto con 2,43) dopo così tanto tempo?

«Ovviamente sono molto felice. E se penso che il mio primo record risale al 1988, dico che sono già passati 35 anni!». 

(...) 

Come l'hanno accolta a Cuba al suo rientro?

«All'Avana sono sempre stato accolto bene, ma l'accoglienza migliore l'ho avuta a Limonar, nella provincia di Matanzas, dove sono nato e cresciuto». 

Come festeggerà il trentesimo anniversario?

«Abbiamo organizzato ben tre feste: una il 24 luglio a Limonar, una il 27 al mio bar 2.45 a L'Avana e poi una a Varadero». 

Ha mai pensato che quel 2.45 sarebbe rimasto imbattuto così a lungo?

«No, non lo avrei mai immaginato. Anche perché è stato minacciato più volte: nel 2013 e 2014 da Bondarenko e nel 2018 da Barshim. Ma non ce l'hanno fatta a battermi». 

A proposito del qatariota. Fosse stato in uno tra Barshim e Tamberi avrebbe diviso la medaglia d'oro olimpica come hanno fatto a Tokyo?

«Rispetto a quando saltavo io, loro hanno potuto decidere se continuare o meno con lo spareggio e hanno deciso di condividere l'oro. Alla fine, quello che conta è essere entrati nella storia dei Giochi Olimpici come campioni. Io l'avrei fatto, comunque».

Secondo lei Tamberi può ripetersi a Parigi?

«Lui è un grande saltatore. Eravamo seduti vicini nella gara olimpica di Rio quando era infortunato. Se mantiene il suo livello da qui a Parigi, come sta facendo, può ripetersi». 

E di Marcell Jacobs, alle prese con tanti infortuni, cosa dice?

«Capisco come si possa sentire. Tra il 1987 e il 1991 ho avuto in media due infortuni all'anno, che hanno richiesto diversi interventi chirurgici, tutti alla gamba sinistra, quella dello stacco. Lo stress fisico e mentale dell'alto livello può portare a questi problemi. Gli atleti giocano costantemente con il fuoco». 

In questo 2023 ci ha lasciati Dick Fosbury.

«Con il suo stile rivoluzionario ha cambiato lo sport e se non fosse stato per lui a quest'ora non avrei potuto essere un primatista mondiale. Sarebbe stato impossibile saltare 2,45 metri con lo stile ventrale».

Ha mai pensato di entrare in politica come per esempio Sebastian Coe, il presidente della federatletica mondiale?

«Non ci ho mai pensato. Se un domani mi chiedessero di farlo, forse accetterei. Ma non è il mio sogno più grande». 

Le manca Fidel Castro?

«Fidel è stata una persona che ha aiutato molto il nostro sport e i migliori risultati li abbiamo avuti in quel periodo. Non so esattamente quante medaglie olimpiche abbia vinto lo sport cubano, nel periodo in cui Fidel era presidente, ma era una persona che motivava molto gli atleti, li aiutava molto, e gli dobbiamo qualcosa per questo». 

E Maradona?

«Eravamo amici e ho pianto quando ho saputo che Diego era morto. Quando è venuto a curarsi a Cuba siamo diventati amici, tanto è vero che mi ha invitato alla sua festa di addio al calcio. Gli avevo anche regalato un paio di scarpe di uno dei miei cinque record del mondo». 

(...)

Suo figlio Jaxier qualche mese fa ha vinto il campionato spagnolo under 18 di salto in alto.

«Sì, è successo a marzo proprio a Salamanca, una città che porto nel cuore. A mio figlio la prima cosa che ho insegnato è la disciplina, che serve per allenarsi bene ed essere forte».

Ci sarà un altro Sotomayor alle Olimpiadi?

«È troppo presto per dirlo, ma lavoriamo per quello».

Sara Simeoni.

Estratto dell'articolo di Roberta Scorranese per il Corriere della Sera Dagospia il 13 giugno 2023. 

Da bambina le piaceva disegnare, scommettevano su di lei come futura artista?

«Di certo nessuno immaginava che un giorno sarei diventato un'atleta. Lo sport, per una donna nata nel 1953, al massimo poteva essere un passatempo. E da coltivare con moderazione». 

E però, la piccola Sara, nata a Rivoli Veronese, sulle rive dell'Adige, si divertiva a correre sul prato della casa-azienda agricola di famiglia.

«Tutto cominciò per caso, con una insegnante di educazione fisica che convinse i miei genitori a iscrivermi a una scuola di atletica leggera.  

(...)

«Capitana» senza volerlo.

«Il punto è che all'epoca non c'era tutta questa ricerca scientifica intorno allo sport.

Spesso saltavi e basta, correvi e basta. Oggi il mio mal di schiena perenne è dovuto anche al fatto che alcuni movimenti forse erano sbagliati ma non lo sapevi. Tutto era rudimentale, pensi che quando veniva il ciclo si faceva fatica anche a parlarne, lo chiamavano “il carattere delle donne”, era una specie di incidente increscioso mensile». 

Nella sua autobiografia (Rai Libri) «Una vita in alto», lei racconta che lo stile ventrale, con la pancia in sotto, era quello dominante. Ci si trovava bene?

«No, mi faceva paura, io preferivo lo stile a forbice. Gli allenatori poi vedevano le donne atlete come una perdita di tempo e allora ci caricavano di fatica fisica assurda, convinti che avremmo mollato dopo un po' per metterci a ricamare e a far da mangiare».

Lei, però, non mollò.

«No e, anzi, osai saltare nello stile Fosbury, in dorsale. Il problema è che non eravamo attrezzati: ad ogni caduta prendevamo botte terribili». 

(...)

Erminio Azzaro divenne il suo allenatore.

«Stiamo insieme da mezzo secolo, abbiamo un figlio, non abbiamo mai smesso di fidarci l'uno dell'altra. Erminio mi prendeva sul serio, cosa che pochi facevano con le atlete. Oggi è diverso, si allenano come macchine programmate per vincere. All'epoca era tutto più improvvisato e la fiducia faceva la differenza. I miei erano contrari al fatto che fosse lui ad allenarmi: si fidavano di Bragagnolo, come tutta la squadra. Io puntai i piedi: o lui o lascio l'atletica. Nessuno replica».

Eccola, la capitana.

«Javier Sotomayor, primatista del mondo con 2 metri e 45 centimetri, che dichiarò dimensioni di aver “studiato i salti della Simeoni”». 

Prima medaglia vera?

«Il bronzo a Roma nel 1974. Poi venne l'Olimpiade di Montreal del '76: argento, unica medaglia italiana nell'atletica in quella competizione. Ma le racconto un dettaglio: nonostante la mia carriera fosse in ascesa ei successi, anche se lentamente, si accumulavano, non mi sentivo sicura. Mi iscrissi all'Isef: non si sa mai, penso. Oggi le atlete sono molto più incoraggiate, vedono la competizione come una vera carriera professionale. Per noi, c'era sempre un orizzonte incerto. Sì, oggi vinco, ma poi, che succederà?».

Se le dico Brescia, 4 agosto 1978?

«Le rispondo con una parola magica: due-zero-uno, il nuovo record del mondo nel salto in alto femminile, quei due metri che cambiarono la mia vita. Cominciò anche la pressione mediatica: pensi che mi chiedevano di inventarmi qualche love story così, per farmi pubblicità. Io strabuzzavo gli occhi: e se poi nelle interviste sbaglio nome perché mi confondo?, dicevo. Follia.

Io non riuscivo a saltare senza la solida certezza della mia famiglia, di mio marito accanto a me. Non so come facciano certe atlete di oggi, piene di tormenti sentimentali. Quando saltavo, non saltavano solo le gambe e il dorso, ma saltava Sara, con la sua vita, i suoi affetti, le sue ansie. In quell'anno ho fatto il record del mondo per due volte. Le riprese della gara di Brescia mi arrivarono, pensi, trent'anni dopo, girate da un trentino sugli spalti». 

E il bello doveva ancora venire: Mosca, 1980.

«Quella Olimpiade per me voleva dire una cosa sola: oro. Ero determinato ma spaventata. Una strizza che non le dico, forse perché per la prima volta chiedevo tanto a me stessa. Quando arrivò l'oro pensai che da qualche parte ero arrivato e finalmente mi convinsi che tutti quei sacrifici erano valsi la pena. Però poi, ad Atene, mi feci male e imparai, con amarezza, che quando vinci ricevi grandi telegrammi e la volta che non porti la medaglia d'oro a momenti manco ti salutano».

(...)

Ma perché la Federazione o il Coni non le hanno assegnato incarichi più prestigiosi, secondo lei?

«Boh, forse perché non ho mai coltivato le amicizie giuste. Ma va bene così, da un po' è iniziata la mia terza vita». In televisione. 

I Mondiali commentati da lei sono stati uno spasso.

«Di calcio non capisco nulla, ma così riconoscere lo sport fatto bene. Il Circolo degli Anelli prima e il Circolo dei Mondiali dopo mi hanno dato una grande opportunità, quello di mostrarmi in una veste inedita, una capitana più spiritosa, diciamo. Mi sono divertita e ho imparato tanto. Ringrazio dunque la Rai. Non ho rimpianti. Ho un figlio meraviglioso e un marito che amo come il primo giorno. Quando mi chiedo come si fa a stare mezzo secolo assieme, rispondendo che bisogna pensarsi sempre come una squadra affiatata». 

(...)

Estratto dell’articolo di Piero Mei per il Messaggero il 19 aprile 2023.

Sara è una ragazza di 70 anni: oggi è questo compleanno tondo della Simeoni, la "donna del secolo" quale fu nominata nel Centenario del Coni da un sondaggio che coinvolse atleti, addetti ai lavori e popolo del web. E' stata d'oro olimpico a Mosca 80, tra due argenti (Montreal '76 e Los Angeles '84) e dopo due primati mondiali, il famoso 2,01 (Duezerouno fu anche un purosangue a lei dedicato, naturalmente saltatore) che sorvolò prima a Brescia, 4 agosto 1978, e meno d'un mese dopo a Praga, campionati europei.

«L'oro di Mosca è la cosa più bella, certo; le Olimpiadi sono il sogno. Quell'oro "doveva" essere mio: ero la primatista del mondo, la più forte. Fu strano: appena in pedana mi sentii tremare le gambe, il cuore batteva a mille, mi sembrava un tamburo e pensavo che lo sentisse tutto lo stadio; non sapevo perché fossi lì, né che fare. I salti di riscaldamento furono un disastro. Credo fosse una crisi di panico, anche se a quei tempi ancora non se ne sapeva nulla. E forse mi passò per questo O più ancora perché in tutto quel caos mi raggiunse chiara una voce, che sembrava l'urlo di Tarzan. "Che cavolo fai?", non proprio così letteralmente. Era Erminio». 

Erminio Azzaro, il fidanzato allenatore e poi marito, insieme da mezzo secolo.

«Quella voce mi fece passare tutto e vinsi». Quella voce ma anche i calzettoni di spugna con disegnato un rospo, un possibile principe. «Li ho sempre indossati dal record del mondo a Brescia in poi. Li avevo visti a uno di quei saloni dell'abbigliamento sportivo; c'era una bancarella piena di calzini strani e quel rospo mi colpì. Stanno con un cappello di paglia che mi regalò un ragazzo del Lesotho, che non sapevo nemmeno dov'era, a Monaco '72: è la bellezza delle Olimpiadi, tutto il mondo insieme».

(...)

«Saltavo con lo stile a forbice. Poi venne Fosbury; stavo imparando il ventrale, ma venne quel rivoluzionario, il numero uno nel mio Pantheon dell'atletica. Con il ventrale mi trovavo meno e presi subito l'altra strada. Le schienate che ho dato! Si atterrava sui sacconi pieni di gomma piuma che scappava da tutte le parti, si rimbalzava e si finiva sul duro; ancora ne ho le conseguenze con il mal di schiena».

Il ventrale lo faceva la sua rivale Ackermann. «Lei era un riferimento: la prima donna a saltare due metri. Con lei quella che considero la mia gara più bella, la gara europea di Praga. Avevo le mestruazioni, non stavo bene; Berruti mi vide, aveva con sé una bottiglia di bonarda; me ne fece bere un bicchiere, andò subito meglio». Oggi dopo imprese come le sue le chiederebbero di posare nuda «Me lo chiesero anche allora, per la verità: dissi di no, non era per me. E tutto era così diverso da oggi: agli Europei di Roma '74 le gare erano in quell'emozionante Stadio Olimpico e noi ragazze eravamo alloggiate dalle suore». A 33 anni l'ultima gara. «Cominciavo ad accusare doloretti, e volevo diventare mamma. E mi trovavo a gareggiare con ragazze di 10 o 15 anni più giovani».

Ora fa l'icona pop: che dice del personale successo tra i giovani e in tv con i vari "circoli"? «Mi sono divertita. Era bello andare al trucco e tra le costumiste; mi sembrava di essere Cenerentola con i topini intorno a fare le sartine; mi sentivo in un film di Walt Disney. I miei commenti sul calcio facevano incavolare? Più si incavolavano sui social e più ne facevo: mi sono perfino trattenuta». Per fortuna la ragazza di 70 anni mai si trattenne in pedana.

Estratto dell’articolo di Emanuela Audisio per “la Repubblica” il 17 aprile 2023.

Sara mercoledì ne fa 70. Simeoni e Mennea sono stati la Premiata Ditta dei record. E di medaglie. Una in pedana, l’altro in corsia. Big Italy con loro volò nel mondo. Iniziò Sara con il 2,01 nel salto in alto (nel ’78), continuò Pietro (nel ’79) nei 200 metri. Il record mondiale di Sara durò quattro anni (in Italia 29), ma per le donne significò scavalcare il confine. 

Sara, molti campioni oggi fanno i dirigenti.

«Io no, le altre sì. Federica Pellegrini come atleta siede al Cio, Silvia Salis, ex martellista, è vicepresidente Coni, Stefano Mei guida la federazione di atletica. Canottieri e schermidori hanno anche loro posti di rilievo. Ma a me fare la donna immagine non interessava, la proposta era quella, essere una figurina, non quella di entrare nella stanza dei bottoni. Quella opportunità non c’è mai stata. Anzi volessero farmi un regalo per i miei 70 anni chiederei loro: perché? Ma dubito della loro sincerità». 

(...)

Lei si piaceva?

«Ammiravo le Kessler, non mi sentivo Claudia Schiffer, ero più Pippi Calzelunghe. Molto a disagio con le mie gambe, che avrei volentieri cambiato. In famiglia tutti secchi e asciutti, con la stranezza di avere un padre veneto astemio. Sono cresciuta in campagna, a Rivoli Veronese, con due sorelle e un fratellino. Avrei proseguito con la danza, ma ero troppo alta. Forse oggi per il balletto moderno andrei bene. Non mi consideravo una bella gnocca. E il mio 41 di piede non aiutava, come il materiale di allora. Cercavamo tutte di farcelo star bene». 

(...) 

Ultimo tabù: le atlete chiedono studi sul ciclo mestruale.

«Ma va, lo studiavano anche ai miei tempi. Come prevenirlo e bloccarlo. Io non ho mai voluto, lo sapevano, e mi hanno rispettata. Però se le gare duravano molto, le difficoltà c’erano, e anche qualche imbarazzo, il materiale non era studiato per le donne, così io scappavo spesso in bagno». 

Ma lei fece il record del mondo in quei giorni.

«Sì, avevo la pressione bassa, non mi tenevo in piedi e non mi allenavo da tre giorni. Arriva Livio Berruti e mi vede un po’ giù: dai Sara facciamoci un bicchiere, ho portato un’ottima Bonarda piemontese. Ma Livio, devo saltare. Insistette: una bevuta, che sarà mai? Aveva ragione, mai fatta una curva in gara così rilassata. Attorno allo stadio di Brescia non c’erano edifici alti, era il 4 agosto, il sole stava per tramontare, guardavo l’orizzonte, tutto era libero, non potevo fare confronti con l’asticella. Il 2,01 venne alla seconda prova, molto pulito. Nove salti in tutto, tre sbagliati, due record italiani, il primo a 1,98. Poteva bastare. La Rai non c’era, era dagli uomini. A quei tempi era così: prima loro, poi se restava qualcosa era per noi. Per fortuna si sono recuperate le immagini da Brescia Telenord».

(...) 

L’atletica di oggi?

«Bravi, ma molti personaggi sono costruiti. Spesso c’è la loro narrazione, ma non il contenuto. Noi facevamo risultati, eravamo persone, nessuno ci raccontava, parlavano le misure». 

Settant’anni felici, sembra.

«Sì, senza sembra. Con Erminio Azzaro, mio marito, anche lui ex saltatore, mio allenatore, che ha lasciato cicche ovunque negli stadi, quando ancora si poteva fumare, e con Roberto, nostro figlio, abbiamo costruito una famiglia. Non fu facile dire ai miei che andavo con Erminio a Formia ad allenarmi. Con Pietro Mennea dividevamo le ore al campo, poi ognuno per conto suo. Mi è dispiaciuto, una pizza in più non avrebbe guastato ma lui era fatto così». 

Almeno ha vissuto l’atletica.

«Sì, con molte avventure in America, Giamaica, Senegal. Non ho mai pensato che l’atletica fosse una cosa e la vita un’altra. Le ho mescolate, convinta che non avrei avuto rimpianti. A 33 anni ho detto basta. Senza avvisare nessuno. Le cose si fanno, non si annunciano».

Dick Fosbury.

Da repubblica.it il 13 marzo 2023.

Pochi atleti come Dick Fosbury, morto all'età di 76 anni, hanno caratterizzato il proprio sport. Lui ha praticamente inventato uno stile nell'atletica leggera. A lui si deve l'innovazione del "Fosbury Flop", lo stile di salto con il quale vinse la medaglia d'oro a Città del Messico nel 1968.

Fino ad allora o saltatori in alto praticavano lo stile ventrale, Fosbury lo ribaltò nel vero senso della parola, scavalcando l'asticella con il corpo all'indietro e ricadendo sulla schiena

Estratto da dagospia.com il 14 marzo 2023.

(…) Baricco. “Uno strappo culturale. Fosbury con il suo salto in alto illogico e pericoloso a Città del Messico nel '68 rivoluziona l'atletica leggera. Un cambiamento d'epoca. Come accade nell'estate del '90 con Kate Moss…”

Estratto dell’articolo di Emanuela Audisio per la Repubblica

 Anche lui nel ’68 aveva fatto la rivoluzione. Scherzava dicendo che ai Giochi di Città del Messico saltando all’indietro aveva fatto fare un grande passo avanti all’umanità. Verso il futuro. Lo stesso che l’America avrebbe fatto l’anno dopo andando sulla luna.

 Se il mondo è andato in alto lo si deve a lui, all’americano Dick Fosbury, un tipo umile, e al suo salto del gambero (traduzione non corretta). Già il Fosbury Flop, come scrisse un giornalista locale sostenendo che il suo stile era flopping , come quello di un pesce preso all’amo.

(...)

«Ero solo stanco di perdere, con il ventrale al liceo a Portland ero un atleta mediocre, a 16 anni arrivavo a 1,62, così come un bambino che gioca ho cercato di trovarmi uno stile più adatto, dorsale, e sono salito a 1,77. Continuavo a perdere, nessuno aveva da ridire, tutti però esclamavano oh, e mi sono ritrovato la foto sul giornale con il titolo “il saltatore fannullone”. Sembrava che dormissi sull’asticella, ero quasi sdraiato, in orizzontale, me lo potevo permettere perché in Oregon stavano sostituendo la sabbia con dei materassi più morbidi altrimenti mi sarei rotto la schiena».

 Fosbury, figlio di immigrati inglesi, studente allampanato di Medford, non sembrava portato per lo sport, aveva abbandonato il baseball e il basket, e si definiva «uno dei peggiori saltatori in alto dello stato», ma dando le spalle all’asticella migliora e da not so good diventa competitivo. A quel punto tutti gli allenatori che gli dicevano «divertente, ma non andrai lontano» vanno a controllare il regolamento, ci sarà pure un modo per dire che quel salto contravviene alle regole? Non c’è. E Dick all’università perfeziona il suo stile, passa da un’inclinazione di 45 a 80 gradi, inizia a vincere. Quando parte per le Olimpiadi di Città del Messico ha 21 anni, nessuno lo conosce, tranne il russo Gavrilov (sarà medaglia di bronzo) che è andato ad allenarsi in Oregon. Tutti sono scettici, Fosbury si allena sotto il sole, è la sua prima trasferta, è scampato per un soffio alla guerra del Vietnam (congedato per una malformazione alla colonna vertebrale), non è mai uscito dall’America, a spiarlo c’è solo un incuriosito atleta italiano, l’ostacolista Eddy Ottoz. Per farla breve: Dick sale a 2,24, vince l’oro olimpico, mentre nello stadio si sta concludendo la maratona e il suo compagno Kenny Moore all’arrivo lo guarda e si mette a fare un balletto.

(...)

 Alla faccia di chi sosteneva che quella tecnica funzionava solo per lui. Sara Simeoni con il Fosbury decolla e il cubano Sotomayor nel ’93 è salito a 2,45, attuale record del mondo. Era fiero di aver trovato un modo da bambino per risolvere il problema del suo salto e di aver indicato al mondo che per salire non servono equazioni complicate. Sapeva di far parte di una generazione di campioni in cerca di libertà e di diritti, capace di volare e di far succedere un sessantotto. L’anno dopo al cinema uscì Easy Rider . Dick lo aveva anticipato con il suo easy jump . «Non volevo cambiare il mondo, ma solo arrampicarmi nel cielo a modo mio».

È morto Dick Fosbury, rivoluzionò il salto in alto con lo stile «dorsale». Storia di Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 13 marzo 2023.

Fosbury nel 2008 in GazzettaCon Dick Fosbury, morto nel sonno domenica a Portland a 76 anni in seguito alla breve recidiva di un linfoma, se ne va uno dei grandissimi dell’atletica ma la rivoluzione che l’americano seppe imprimere al salto in alto alla fine degli anni 60 gli sopravvive. Con il Fosbury Flop, infatti, la tecnica dorsale per scavalcare l’asticella che lo studente dell’Università dell’Oregon elaborò in quanto in grande difficoltà con lo stile ventrale («Sapevo di dover cambiare la posizione del corpo: servirono due anni di sperimentazione per trovare il nuovo metodo»), da quasi sessant’anni saltano tutti con risultati straordinari, dal cubano Javier Sotomayor detentore dei record mondiali all’aperto (2,45) e indoor (2,43) della specialità a Gimbo Tamberi, campione olimpico in carica in comproprietà con il collega Barshim.

Nessuno ha mai cambiato il suo sport come fece Fosbury, che nel ‘68 s’impose all’attenzione dell’atletica vincendo prima il campionato Ncaa e poi i trials di qualificazione a un’Olimpiade che sarebbe stata sovversiva e destabilizzante come la sua novità: a Città del Messico, il 20 ottobre 1968, quattro giorni dopo il pugno guantato di Smith e Carlos oro e bronzo nei 200, con la misura di 2,24 al terzo tentativo lo studente di Portland con le scarpe di colore differente (gli assicuravano spinta diversa) conquista l’oro con il record olimpico mettendo a tacere le perplessità degli scettici. È fatta. Ai Giochi di Monaco ‘72 28 dei 40 atleti dell’alto useranno il Fosbury (ma l’oro va all’estone Tarmak che salta ancora ventrale), a Mosca ‘80 13 su 16.

Video correlato: Addio a Dick Fosbury, così rivoluzionò il salto in alto (Corriere Tv)

La tecnica dorsale, che prevede una rincorsa curvilinea contro la traiettoria lineare degli stili precedenti e una rotazione sul piede di stacco per decollare spalle all’asticella, convince tutti in fretta: frutto di un certosino lavoro di ricerche e studi di biomeccanica applicata, rappresenta il lascito del suo creatore ai posteri. L’innovazione riguarda anche i materiali per l’atterraggio: dai trucioli alla schiuma sintetica. «Il salto è uno sport della mente» diceva. Firmato, per sempre, Dick Fosbury.

Gianmarco Tamberi.

Gianmarco Tamberi: «Quando salto sono un'altra persona. Ma spesso mi sono chiesto se il gioco valesse la candela». Le medaglie, l’amicizia con il rivale, le scaramanzie, la compagna, il recupero difficile dopo l’infortunio, i sacrifici per raggiungere la vetta. Gimbo, il saltatore più forte del mondo, si racconta a L'Espresso. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 9 Novembre 2023

Oro olimpico, oro europeo, oro mondiale. Marchigiano, 31 enne, è senza dubbio il miglior saltatore in alto al momento in circolazione. «Ha vinto tutto, t-u-t-t-o», hanno gridato i cronisti, titolato i giornali, urlato il pubblico euforico dagli spalti, lo scorso 22 agosto quando, a Budapest, Gianmarco Tamberi è diventato anche campione del mondo. 

«Adesso, Gimbo», sembra dirsi pochi secondi prima del salto di 2,36 metri con cui ha battuto lo statunitense JuVaughn Harrison, medaglia d’argento, e il qatarino Mutaz Essa Barshim, l’atleta con cui a agosto 2021 Tamberi ha diviso l’oro olimpico di Tokyo 2020. 

«È un amico che stimo sia dal punto di vista umano, sia professionale. Per me è il saltatore più forte di tutti i tempi. Quando mi trovo in pedana a gareggiare contro di lui è una sfida immensa, immaginati che sensazione pazzesca ho provato quando ho vinto: una felicità totale che si è impossessata di me». Che, come un’onda energetica, ha coinvolto, travolto tutto quello che ha incontrato. Non solo al Centro nazionale di atletica leggera ungherese ma per centinaia di chilometri, grazie ai social e alle tv. 

«Prima di ogni gara importante penso sempre al finale migliore. Ma niente di quello che immagino è paragonabile a quanto provo nella realtà. E niente sarà mai forte come la gioia che ho sentito a Tokyo. È stata la mia sfida più grande e l’ho superata. Un evento che mi ha cambiato completamente come atleta e come persona». 

Per Gimbo le Olimpiadi del 2020 erano diventate un'ossessione. Con l’infortunio alla caviglia sinistra che gli ha impedito di partecipare ai giochi di Rio del 2016, a un mese dall’apertura, «sono iniziati cinque anni difficilissimi. Ho dovuto stringere tanto i denti e passare su mostri enormi per uscire da un periodo nero. Chi mi conosce davvero sa quanto è stato difficile: una cicatrice che mi farà male per sempre. Ma che mi ha dato anche la forza di fare qualcosa di impossibile, vincerle nel 2021. A un certo punto ero rimasto il solo a crederci», racconta senza indugiare troppo nei ricordi. Con un tono, però, molto più fermo di quello leggero e arguto del resto della chiacchierata. «Anche se è stato un periodo in cui ho ricevuto tantissimo affetto. Molte persone si sono immedesimate in me che ho visto sparire all’improvviso il mio sogno a pochi passi dal raggiungerlo. E mi hanno sostenuto». 

Più di tutte Chiara Bontempi, la moglie, con cui condivide la vita da 14 anni. Che ha imparato a capirlo tanto da «trasformare i miei obiettivi nei nostri». A conoscere «anche la persona completamente diversa che divento prima di una gara importante. Dormo tantissimo, ho bisogno di riposare perché uso il sistema nervoso al cento per cento negli allenamenti. Mi sveglio con calma, ovviamente sono a dieta, mangio quello che mi viene consentito, cioè pochissimo. E infatti arrivo a essere molto magro. Con poca energia da dedicare alle attività al di fuori del salto in alto. Durante l’ultimo allenamento, nell’aria si sente la tensione altissima. Questo secondo me è un limite, perché il vero banco di prova dovrebbe essere la gara. Invece, più si avvicina il giorno x e più cerco conferme in campo durante gli allenamenti, testo le mie capacità. Faccio molto spesso yoga, meditazione, sto con me stesso. Passo poco tempo con gli altri. È un po’ come se il mio carattere cambiasse pian piano fino ad arrivare alla gara che sono un’altra persona. Mi sento più forte, pieno di adrenalina, ricco di una potenza enorme, quasi incontrollabile, che devo mettere in campo. Sono molto diverso dai giorni normali e per questo preferisco stare solo. Anche a Budapest, solo dopo la vittoria ho visto gli amici che sono venuti a fare il tifo per me». 

Presenze fondamentali della vita di Tamberi (e viceversa). A cui l’atleta delle Fiamme Oro vorrebbe aver modo di dedicare molto più tempo. «Siamo persone privilegiate in quanto atleti perché facciamo un lavoro che ci piace. Che ci chiede tantissimo ma che ci dà anche tantissimo. Non è sempre facile tenere duro, però. Perché i sacrifici sono molti, le occasioni importanti perse, come compleanni, cene e feste con famiglia e amici anche. Ti dispiace, ma c’è la consapevolezza che sono proprio queste scelte a segnare il cammino verso la meta. Se vuoi provare a essere il numero uno, devi puntare dritto all’obiettivo. Più volte mi sono chiesto se il gioco valesse la candela. Non ho una risposta perché avrei dovuto vivere una vita parallela per sapere come sarebbe stato altrimenti. Ma non posso lamentarmi della mia, delle splendide amicizie che ho, del rapporto con Chiara». 

A oggi Gimbo si dice fortunato e soddisfatto. Non gli piace guardarsi indietro perché le sfide che vuole sostenere sono ancora tante, gli obiettivi da raggiungere, le gare da affrontare. Come le Olimpiadi di Parigi del prossimo anno. A tutti quelli che chiedono a quando un figlio risponde:  «Presto. Ma non è ancora arrivato il momento. Vorrei vincere la seconda medaglia d’oro nel salto in alto maschile, cosa che non ha mai fatto nessuno prima. Se io o Barshim vincessimo saremmo i primi al mondo. Non sono a fine carriera, non mi piace guardarmi indietro anche perché la mia paura più grande è sedermi. Perché quando lotti così tanto per raggiungere un obiettivo a cui tieni e poi ci arrivi, come è successo a Tokyo, hai meno fame, meno voglia di arrivare. Così trovo l’energia nelle sfide diverse». 

A Tamberi non piace crogiolarsi nei ricordi. Ma neppure guardare troppo in là, avanti nel futuro: «Sono concentrato su quello che sto facendo adesso. Vedremo quanto sarà, le occasioni che si presenteranno. Crescendo si cambia e quello che, ad esempio, dieci anni fa pensavo sarebbe stato il mio futuro oggi neanche mi piace. Non voglio fissarmi su qualcosa che si trasformerà. Probabilmente non mi vedo nell’atletica leggera per sempre perché mi dà tantissimo, ma non è mai stato il mio sogno. Ho cominciato per le mie qualità: prima giocavo a pallacanestro e sono ancora appassionatissimo». 

Gimbo ha iniziato con il salto in alto nel 2009, da diverse gare studentesche erano emerse inequivocabilmente le sue capacità: «Tutti mi ripetevano che ero bravo. Mi dicevano “chi ha il pane non ha i denti”, “se non lo fai ti mangerai i gomiti”. Così, alla fine ho deciso di provare. Mi è dispiaciuto molto lasciare il basket ma è stata una scelta che ho preso consapevolmente, di cui sono contento. Avevo molto talento, i primi tempi sono stati fin troppo facili: come se davvero il mondo dell’atletica mi stesse aspettando. Sono migliorato da subito. In tre anni ho saltato prima 2,07 metri, poi 2,24, poi 2,25, poi 2,31 e mi sono qualificato per le Olimpiadi. Con pochissime difficoltà, mi godevo la vita da ragazzo». 

Dopo sono arrivati i momenti duri, i problemi fisici, gli obiettivi enormi da raggiungere. E così l’atleta azzurro ha conosciuto la realtà del sacrificio e la costanza necessaria per portare a compimento le decisioni prese. Che, però, ha sempre saputo accompagnare con l’entusiasmo, la voglia di rompere schemi e convenzioni, il desiderio di stupire. Quel «pizzico di follia» che lo caratterizza fin da quando era bambino, in pedana e fuori. 

«Nell’allenamento, nella dieta, nelle terapie sono uno scienziato, quasi un matematico. Ho una parte razionale molto disciplinata che si combina con il mio animo irrazionale che, invece, mi spinge ad andare oltre i limiti. Mi aiuta a sfogarmi e liberarmi. Mi permette di lasciar fuoriuscire le emozioni. Sono spontaneo: questo mi avvicina anche molto al pubblico, abituato a immaginare gli atleti, invece, come delle “macchine perfette”. Io voglio raccontargli chi sono, glielo devo visto l’enorme supporto che ho sempre ricevuto». 

E così fa. Rompe le righe ogni volta che può: tenta salti impossibili, si lancia in acqua, si tuffa in braccio agli avversari, tra il pubblico, bacia la moglie, abbraccia gli amici quando esulta per una vittoria. Suona la batteria. Chiama gli spettatori, li fa sobbalzare, li invita a gioire, li travolge con il suo entusiasmo. Tutte le volte che Tamberi si esibisce in pedana c’è poco di scontato. Durante le gare indossa calzini e scarpe di colori diversi, si tinge i capelli, si è tagliato la barba a metà talmente tante volte da essere conosciuto in tutto il mondo come “halfshave”. «Un modo per stimolare me stesso nei momenti di difficoltà, per dirmi: “Non puoi fare una figuraccia visto che ti guardano tutti”. Ho iniziato a farlo parecchi anni fa. Per me era diventato un rito scaramantico dopo che in una gara saltai molto di più di quanto avevo pensato. Ma oggi non è più una prassi, mi rado così quando me lo sento». 

«Gimbo, hai mai contato il tempo che hai passato in aria?», chiedo confidando nel suo estro, pensando alle migliaia di salti che ha fatto nella sua vita: «Eh no, il calcolo delle ore di volo ancora mi manca», ride. «Anche la premier Giorgia Meloni ti ha definito “orgoglio italiano” dopo Budapest. Che ne pensi?». «Sono orgogliosissimo di essere italiano. Una delle cose che mi rende più fiero è fare le migliori prestazioni quando ho la maglia dell’Italia. Mi dà una carica fortissima. Metto sempre il tricolore sulla spalla, per simboleggiare che sto portando il mio Paese in alto con me».

Estratto dell'articolo di Giulia Zonca per “La Stampa” giovedì 24 agosto 2023.

(...)

È di Sotomayor, 2, 45 metri. Lui l'ha indicata come uno dei due che può batterlo, l'altro è Barshim.

«Mancano parecchi passi. Avrei provato in maniera seria il primato italiano a 2, 40 qui, ma avevo festeggiato troppo. Ora lavorerò per il secondo titolo olimpico consecutivo, nell'alto non è mai riuscito e a Tokyo c'era lo stadio vuoto, non vedo l'ora di stare davanti al pubblico di Parigi. Fermatemi».

(...) 

Nella telefonata ricevuta in pista durante il giro d'onore, il presidente del Coni Malagò le ha già chiesto di fare il portabandiera?

«Sarebbe un riconoscimento unico, ma non sarò io a chiederlo». 

(…)

Ha detto che ha battuto gli extraterrestri, perché lei è umano?

«Se domani organizziamo un test in laboratorio con me, Barshim, l'argento Harrison e ci chiedono di fare qualsiasi esercizio di forza, biometria o velocità, mi scartano dopo due minuti. Il bello è allenarmi per battere gente che parte un passo avanti». 

(...)

Suo padre no?

«Non è la stessa cosa, ma come ho già dichiarato c'è un pezzo di oro che devo a lui. Cambiare è stato un rischio ponderato. Al mio attuale team ho sempre chiesto "accompagnatemi", lo hanno fatto e sono parte della vittoria. Avevo la tecnica, mi serviva tirarla fuori». 

Dopo queste parole pensa che lei e suo padre tornerete ad avere un dialogo?

«Purtroppo non ho risposta. Siamo stati troppo a lungo allenatore e figlio e troppo poco padre e figlio». 

(...)

Barshim ha portato il figlio in pista. Lei ha voglia di diventare padre?

«Non adesso, non fino a che gareggio. Guardo Chiara e so che l'amore per lei mi travolge. Se ci fosse una piccola Chiara diventerebbe il centro di ogni mia attenzione e fino a che resto nell'atletica non può succedere».

(…)

Estratto da ilnapolista.it giovedì 24 agosto 2023.

Tamberi il giorno dopo l’oro mondiale. Le sue parole, alcune delle sue parole, raccolte dal Corriere della Sera: «Mi manca il 2,40, era il mio obiettivo qui a Budapest ma non l’ho detto a nessuno. Il record del mondo di Sotomayor, quel 2,45 vecchio trent’anni, non penso sia impossibile, la mia carriera mi insegna che nulla lo è. L’anno olimpico si presta a varie riflessioni, nel frattempo sospenderei i paragoni con i grandissimi dell’atletica italiana, Consolini, Simeoni, Mennea, Cova: loro hanno vinto medaglie e fatto primati mondiali, io no. E anche i miei avversari, Barshim e Harrison, mi sembrano supereroi, rispetto a me. Mutaz, poi, lo vedevo imbattibile: mi sbagliavo. Io verrei scartato a qualsiasi test di laboratorio. La mia forza è proprio questa: partendo un passo indietro, ogni mattina mi sveglio con in testa l’idea fissa di recuperare qualcosa».

«La tecnologia non aiuta il salto come la corsa, le super scarpe con la soletta in carbonio sono pericolose per una disciplina così traumatica: i top 10 di un decennio fa si sono tutti spaccati e operati, c’è stato un crollo clamoroso di risultati prima che riemergessimo io e Barshim, gli unici».

Estratto da open.online 

(…) Con mio padre non ci sentiamo da tempo, proprio non ci parliamo, con lui ho avuto sempre difficoltà, sin da piccolo». Ed è per questo che sugli spalti a Budapest c’erano la moglie Chiara e la madre Sabrina, che però al momento del salto decisivo non è riuscita a guardare. «Mi emoziono. Sono scappata in bagno e mi sono tappata le orecchie, ma ho sentito lo stesso il boato, allora sono tornata felice in tribuna», racconta la donna. A proposito del rapporto tra suo figlio e suo marito, aggiunge: «Mi ha sorpreso quando ha dichiarato che l’oro è anche merito del padre. Un gesto da vero uomo. I figli devono volare da soli, i genitori devono solo fornire le ali».

Ora che ha portato a casa un’altra medaglia d’oro, Tamberi ha già la testa al futuro. A chi in questi giorni fa paragoni con Simeoni e Mennea, il campione di salto in alto risponde così: «Loro hanno una cosa più di me, un record del mondo, quindi stiamo calmi. Se lo voglio anch’io? Certo, e ci proverò. Ma ci sono tanti gradini prima di arrivare lassù». 

A commentare le chance del 31enne italiano di battere il record del mondo – 2,45 metri – è proprio chi quel record lo detiene, ossia Javier Sotomayor: «Tamberi ce la può fare – sostiene l’atleta cubano -. A 31 anni non è troppo vecchio». E nel futuro di Gianmarco Tamberi non c’è spazio solo per lo sport. Anche se l’ipotesi di fare un figlio sembra rimandata a dopo le Olimpiadi: «Io e mia moglie Chiara abbiamo parlato più volte della possibilità di fare un figlio, anche perché sono 14 anni che stiamo assieme. Ma al momento lo metterei da parte perché quando ci sarà la piccola, la priorità sarebbe lei e non lo sport. E io mi voglio dedicare a Chiara e a Parigi 2024».

Salto in alto. Gianmarco Gimbo Tamberi ha vinto tutto: è oro ai Mondiali di atletica a Budapest. È un triplete epocale: Olimpiadi, Mondiali, Europeo. Gimbo è il secondo italiano a riuscirci. Primo oro per l'Italia, terza medaglia complessiva in Ungheria. Antonio Lamorte su L'Unità il 23 Agosto 2023

A Gianmarco Tamberi pareva di stare in Italia e invece era in Ungheria, gli sembrava di essere in uno stadio di calcio e invece erano in corso i Mondiali di atletica leggera. A Budapest l’atleta azzurro ha vinto la medaglia d’oro nel salto in alto. Ha superato la misura di 2,36 metri al primo tentativo. Era l’unica vittoria che gli mancava dopo aver vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Tokyo e agli Europei e l’oro ai Mondiali indoor. Un triplete epocale. Per lui era la quarta finale iridata su cinque partecipazioni.

Lo statunitense JuVaughn Harrison ha raggiunto la stessa altezza al secondo tentativo. Di tre centimetri sotto l’atleta qatariota Mutaz Barshim con cui Tamberi aveva condiviso la medaglia d’oro ai Giochi olimpici in Giappone. L’azzurro si era qualificato alla finale con grande difficoltà e all’ultimo salto a sua disposizione nelle semifinali. Gimbo allo stadio National Athletics Centre è tornato “halfshave”, si è presentato con la barba rasata a metà come aveva già fatto in passato. Era capitano della squadra azzurra di atletica leggera.

Tamberi ha 31 anni. Lo scorso primo giugno ha vinto l’oro ai Giochi Europei in Polonia contribuendo alla vittoria dell’Italia nell’Europeo a squadre. L’anno scorso a Monaco, in Germania, si era laureato per la seconda volta in carriera campione europeo, la terza considerando anche la vittoria agli Europei indoor. Il miglior risultato conseguito ai Mondiali finora era stato il quarto posto dell’anno scorso a Eugene negli Stati Uniti. L’oro indoor era invece arrivato nel 2016 sempre negli USA.

Sembra impossibile, sembra un sogno che si realizza. Quando ci hanno presentato mi sono reso conto di quanti italiani c’erano e di quanto erano carichi. Loro ci credevano tantissimo e mi sono detto: non puoi deluderli”, ha detto al Gr1. Gimbo ha vinto tutto, tutto quello che si poteva vincere, il secondo italiano dopo Alberto Cova ad aver completato la tripletta: Olimpiadi, Mondiali, Europeo. Il suo salto è stato accompagnato dal battito di mani del pubblico, dopo è corso verso il pubblico, la gioia sotto la curva degli appassionati, il bacio con la moglie Chiara.

La medaglia di Tamberi è il primo oro in questa edizione dei Mondiali e la terza complessiva dopo l’argento di Leonardo Fabbri nel getto del peso e il bronzo di Antonella Palmisano nella 20 chilometri di marcia.

Antonio Lamorte 23 Agosto 2023

Tamberi vola sul mondo con il triplete dell'alto. E questo oro è tutto suo. Gimbo dopo Europei e Giochi conquista l'unica medaglia che ancora gli mancava. Sergio Arcobelli il 24 Agosto 2023 su Il Giornale.

Budapest Lasciatemi volare, anche se a fine gara ad accompagnare il suo trionfo è Notti Magiche. Perché una notte così, la ricorderà tutta la vita. Gianmarco Tamberi è campione del mondo di salto in alto. Favolosa gara del 31enne marchigiano, che completa l'opera portandosi a casa l'oro nella rassegna iridata, l'unico che mancava alla sua bacheca ricchissima, dopo aver vinto tutto dappertutto. Oro ai Giochi Olimpici, oro al mondiale indoor, oro europeo all'aperto e in sala. Dall'America al Giappone, all'Europa. Cose dell'altro mondo, insomma E adesso che l'en-plein è completato, Gimbo è su una nuvola, lassù dove ha osato solo lui. Se invece si guarda al triplete Olimpiadi, Mondiali ed Europei, prima di lui nell'atletica italiana quest'impresa l'aveva ottenuta solo Alberto Cova nei 10.000 metri: oro ad Atene, titolo iridato a Helsinki nel 1983 e oro a cinque cerchi a Los Angeles. Gianmarco Tamberi è sempre più nella storia dello sport italiano. E forse, questa vittoria vale anche una seria candidatura al ruolo di portabandiera di Parigi 2024.

La gara di ieri sera è stata un susseguirsi di emozioni e di brividi. Perché con Gimbo, che non è mai stato fermo da quando è arrivato sul campo gara, non puoi non divertirti. Prima del via ha persino suonato la batteria di una band di contorno sul campo. Poi, al primo salto, ecco che Gimbo apre la gara con un errore piuttosto netto a 2,25. Così come il qatarino. Poi si riscatta. Ed è un crescendo rossiniano: l'asticella sale a 2,29 e Tamberi va a segno alla prima prova. Applaude a se stesso, non è soddisfatto. Ma riceve un'ovazione di applausi. La sfida entra nel vivo: Tamberi riesce a centrare subito il bersaglio anche a 2,33 e la curva azzurra impazzisce. Gimbo che fa segno: stiamo calmi. Ma intanto è secondo. Per le medaglie, diventa decisiva la misura di 2,36: sbaglia Barshim, sbagliano tutti gli altri al primo tentativo, non Tamberi, mentre lo statunitense JuVaughn Harrison risponde e supera la quota al secondo tentativo per prendersi l'argento alle spalle di Gimbo. Il bronzo invece con 2,33 va a Barshim, che aveva condiviso il titolo olimpico con l'azzurro. Ma Tamberi sperava in cuor suo: «Gli auguro il meglio, magari il secondo posto». E adesso l'oro è tutto suo. Da pelle d'oca. In chiusura altro show, con il tuffo nella vasca dei 3000 siepi.

Ma in un giorno così c'è spazio anche per Ayo. La Folorunso ha infatti conquistato la finale dei 400 metri ostacoli con il primato nazionale di 5389 (migliorato di 33 centesimi!). Splendida la cavalcata della ragazza di origini nigeriane, prima azzurra a scendere sotto i 54 secondi, che al traguardo quasi non si capacita del crono realizzato. «Sono successe cose miracolose. Mia mamma mi ha spronata, mi ha detto in dialetto che quelle che erano venute qui non stavano a vendere arachidi», scherza Ayomide. La finale è in programma domani sera alle 21:50. Capitan Gimbo è già pronto a spronarla.

Estratto dell’articolo di Emanuela Audisio per “la Repubblica” il 2 marzo 2023.

Per volare bisogna essere leggeri.

Liberarsi dalle tensioni, dai lacci di essere figli, anche perché ora si è mariti. «Papà coach fatti più in là», lo sapevamo. Anche le ditte di famiglia divorziano. «Vi dico chi sostituisce papà», è notizia attesa.

 Il campione olimpico Gianmarco Tamberi, via Zoom, alla vigilia degli Europei indoor di atletica (oggi s’inizia con 16 azzurri), svela il nome del suo nuovo coach: Giulio Ciotti, 46 anni, ex saltatore in alto, gemello di Nicola che arrivò quinto ai Mondiali di Helsinki 2005 (2.29). Tamberi agli Europei non c’è e nel suo futuro sportivo non ci sarà più, come tecnico, il padre.

«Nella mia vita sono sempre stato istintivo e irrazionale, ma a 30 anni non me lo posso più permettere, devo ragionare. Negli ultimi anni ho chiesto molto al mio fisico, ora ho bisogno di tempo per risettare il mio corpo. A Zurigo a settembre nel 2.36 sono scivolato in gara e mi è venuto un problema al ginocchio che sembrava avesse bisogno di operazione, poi scongiurata a dicembre. Già ai Mondiali di Eugene ho saltato con antinfiammatori e con dolori importanti ovunque. Dal 2016 al 2021 non mi sono mai dato una tregua, ora dovevo fermarmi».

Tamberi è il capitano della Nazionale, convocare una conferenza virtuale a poche ore dall’esordio degli azzurri non è una tempistica sbagliata? «Non era mia intenzione oscurare nessuno, ho pensato di mandare ai miei compagni anche un video di incoraggiamento, ma poi ho desistito perché non volevo essere protagonista. La maglia azzurra mi accende sempre e sono contento che l’Italia a Istanbul sia numerosa. Se mi sono fatto avanti con la stampa è perché volevo essere io a dare la notizia del nuovo coach, visto che ormai i mormorii c’erano e preferivo che nessuno venisse a saperlo prima di altri. Se volete, mettetevi d’accordo e pubblicate la notizia lunedì, a Europei finiti, per me è uguale».

 (…)

Ma chi non reggeva più l’altro tra padre e figlio? «Tutti e due. Abbiamo sempre avuto difficoltà che negli anni si sono amplificate. Ci siamo messi a testa bassa per Tokyo e con l’oro al collo e il lieto fine ci abbiamo riprovato, ma nel 2022 le relazioni si sono di nuovo complicate. E quando manca serenità in campo anche il fatto tecnico ne risente. Ora voglio godermi questi due anni pieni di grandi possibilità. Ad agosto, a Budapest, ho i Mondiali che non ho mai vinto e poi nel 2024 gli Europei a Roma, dove - per la prima volta - gareggio in casa, e i Giochi di Parigi. Tre appuntamenti per fare qualcosa di pazzesco». Con un Tamberi solo.

Il Mezzofondo.

La sentenza. Il caso di Caster Semenya accolto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: discriminata sul sesso dalla Svizzera. Alla 32enne, affetta da iperandroginia, erano stati imposti trattamenti ormonali per gareggiare. Redazione su Il Riformista il 11 Luglio 2023

Voleva solo difendere all’Olimpiade di Tokyo l’oro ai Giochi di Londra 2012 e quello di Rio del 2016 negli 800 metri – la sua distanza – ma le nuove regole introdotte dal world athletics glielo avevano sostanzialmente impedito, costringendola ad assumere medicinali per poter competere nelle gare femminili delle sue distanze di specialità.

Per Caster Semenya, donna affetta da iperandroginia, nata con testicoli interni, le nuove direttive del testosterone introdotte dalla federazione internazionale di atletica leggera sono state un macigno insormontabile: “Pensavano non fossi una donna. Per fare atletica, ho dovuto assumere farmaci per diversi anni, con le conseguenti ripercussioni. Mi hanno fatto ammalare, mi hanno fatto ingrassare, avevo attacchi di panico”. Il dibattito, durato anni, sulla giustizia del trattamento ha avuto oggi la sua conclusione.

La 32enne, da sempre contraria ai medicinali, aveva presentato una denuncia contro la Svizzera, i cui tribunali avevano confermato l’obbligo di doversi sottoporre ai trattamento ormonale per poter gareggiare nella sua distanza preferita. Dopo i ricorsi infruttuosi presso la Corte Arbitrale dello Sport (TAS) e la Corte Suprema Federale Svizzera, si è rivolta alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che in mattinata ha accolto il ricorso della campionessa olimpica sudafricana.

Con una maggioranza di quattro giudici contro tre, Strasburgo ha stabilito che l’atleta è stata discriminata, sollevando ”seri dubbi” sulla validità delle regole in vigore nella Federazione mondiale di atletica. Non c’è ancora certezza sulla sua presenza ai Giochi olimpici di Parigi 2024, ma la decisione della Corte potrebbe presto aprire nuovi scenari nei regolamenti degli atleti professionisti.

Antonio Giangrande: A proposito delle corse podistiche amatoriali, mi chiedo: Perché la Fidal continua ad impedire ai suoi atleti a parteciparvi e molti di loro, nonostante siano dilettanti o non siano campioni conclamati, continuano ad assecondarla, rinunciando ad una sgambata tra amici?

Perché molti podisti hanno l’insano vizio di non partecipare alle corse organizzate nei loro stessi paesi, rendendo vano il sacrificio degli organizzatori, loro compaesani, di promuovere in loco uno sport completo e sociale?

Perché i podisti non obbligano i loro amministratori locali a definire una pista pedo-ciclabile per praticare lo sport in modo sicuro?

Antonio Giangrande: L’ITALIA DEGLI ABILITATI. ESAME DI ABILITAZIONE ANCHE PER CORRERE

Non solo gli avvocati, o gli altri professionisti, possono svolgere la professione unicamente se abilitati, ma anche i podisti non possono correre se non abilitati FIDAL.

«Mens sana in corpore sano, dice un vecchio adagio. Che il corpo troppo sano dia alla testa? Se non sei tesserato (abilitato) FIDAL non puoi correre nelle manifestazioni da loro organizzate. Se, invece, sei un tesserato FIDAL non puoi correre nei raduni organizzati da altri.»

Questo denuncia il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” ed autore del libro “Sportopoli.”

Nell'atletica leggera, la corsa su strada comprende gare su strade comuni, generalmente in asfalto o di campagna, e su distanze che vanno dai 5 ai 100 km.

Queste corse possono essere competitive e non competitive.

Corse competitive. Le specialità più celebri tra le corse su strada sono la maratona, che si corre su una distanza di 42.195 m, e la mezza maratona, che si corre su una distanza di 21.097 m.

Sempre più diffuse sono le gare di ultramaratona, specialità che identifica gare di corsa che hanno una distanza superiore a 42,195 km (distanza ufficiale della maratona). L'ultramaratona su strada più conosciuta è la 100 km, ratificata dalla IAAF. In tutto il mondo vengono anche organizzate svariate competizioni, su distanze comprese dai 5 ai 30 km. La IAAF riconosce ufficialmente le gare su distanze di 10, 15, 20, 25 e 30 km, ratificando per ognuna di queste specialità i propri record mondiali e continentali. Data la varietà di competizioni, le gare più brevi rappresentano anche un utile e realistico allenamento per atleti normalmente impegnati su distanze maggiori, che le includono a volte nei loro programmi di allenamento. In ambito italiano, la FIDAL organizza attività su strada a livello nazionale, regionale e provinciale. Esistono anche manifestazioni agonistiche organizzate dagli enti di promozioni sportiva come UISP, CSI, LIBERTAS, AICS, ecc.

Corse non competitive. In ogni parte d'Italia si organizzano corse non competitive denominate anche marce o camminate per il fatto che sono a passo libero, cioè vi partecipano sia podisti che camminatori. Queste manifestazioni non sono riconosciute dalla FIDAL (la federazione sovrintende solo l'attività agonistica) e vengono organizzate sotto il patrocinio degli enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI o da organizzazioni non riconosciute come ad esempio la FIASP. Molti gruppi o comitati amatoriali organizzano corse per puro divertimento per fare sport e passare un momento di relax in compagnia ed all’aria aperta. Queste gare vedono spesso la presenza anche di atleti tesserati che le affrontano per allenamento. Esse rappresentano comunque un modo per avvicinarsi al mondo dell'atletica.

Come si è spiegato la differenza tra le corse sta nel riconoscimento degli eventuali record, nell’individuazione di eventuali futuri campioni e nell’antagonismo delle squadre iscritte. Nelle corse competitive ci sono i direttori di gara. Per entrambe le corse si paga un ticket di partecipazione.

La differenza tra Agonisti o non agonisti sta principalmente nel fatto che, per essere considerati agonisti e per partecipare all'attività competitiva (organizzata sia dalla FIDAL che da altri enti), è necessario avere l'idoneità alla pratica agonistica. L'idoneità viene rilasciata dopo un'approfondita visita medica, dalla sanità nazionale o da centri autorizzati. Nella maggior parte delle manifestazioni, comunque, oltre alla gara competitiva, viene proposta una prova non competitiva sulla stessa distanza e/o su distanza ridotta, per incentivare la partecipazione e permettere anche alle persone prive di un'adeguata preparazione atletica di vivere un momento di sport e socializzazione.

Quando questo succede, nelle manifestazioni simultanee, spesso ai non agonisti non viene riconosciuto un premio per la vittoria di categoria. Non è raro che qualcuno di questi, però, sia più forte degli agonisti. Chi partecipa alle corse lo sa.

Qualcuno dirà: Cosa si denuncia con questo articolo? Dove è l’inghippo?

Con questo articolo si da voce a tutti coloro, comitati od associazioni, che organizzano unicamente le corse non competitive e che sono destinatarie degli strali della FIDAL. Spesso e volentieri la FIDAL cerca di impedire, con diffide legali inviate agli organizzatori di corse non competitive ed alle autorità locali, lo svolgimento delle manifestazioni da questi organizzati.

Non ci si ferma qui. Nelle pagine facebook di gruppi di podisti agonisti e non agonisti vi sono intimidazioni da parte degli iscritti alla FIDAL nei confronti dei loro colleghi, avvisandoli che nel partecipare a corse non competitive comporta per loro l’adozione di sanzioni.

A riprova di ciò basta cercare “minacce FIDAL” o “polemica FIDAL” su un motore di ricerca web e si troverà tutto quello che finora non si è cercato. E cioè provare che il monopolio delle corse è in mano alla FIDAL, perché sono impedite le gare non competitive, non foss’altro, anche, inibendo la partecipazione a queste manifestazioni ai suoi tesserati. Tesserati che a loro volta, ignavi, si fanno intimorire.

La corsa podistica non è cosa loro, della FIDAL e simili.

Un abominio, non fosse altro che ognuno di noi, anche i tesserati di un organismo sportivo, siamo soggetti agli articoli 16 e 17 della Costituzione italiana e quindi liberi di muoverci in compagnia….anche di corsa.

Dr Antonio Giangrande

Estratto dell'articolo di Giampiero Valenza per il Messaggero l'1 giugno 2023.

Il cuore non ha retto proprio mentre correva. Un destino crudele per una ragazza di 24 anni ex promessa dell'atletica che proprio nel 2020 si è ritirata dalle piste per seri problemi al cuore che l'hanno portata in ospedale per un delicato intervento chirurgico. 

La storia di Flavia Ferrari, di Tor Tre Teste, ha gettato nello sconforto il mondo dell'atletica. Ha perso la vita mentre faceva jogging al parco di via Viscogliosi, nel suo quartiere. Diversi testimoni, intorno alle 7 di ieri mattina, l'hanno vista accasciarsi. Immediati i tentativi di soccorrerla. 

Nonostante una rianimazione inizialmente riuscita, per la giovane non c'è stato nulla da fare. La salma è stata portata al policlinico di Tor Vergata per l'esame esterno sul corpo, dopo il quale sarà affidata ai familiari. Sul suo caso i carabinieri hanno aperto un'indagine per ricostruire le cause della morte. 

Giusto l'altro ieri aveva postato sui social la foto di un ennesimo capitolo della sua storia, fatta di medici, di cure, di interventi. «Quelli appena trascorsi sono stati due mesi molto duri», scrive parlando del periodo trascorso in una clinica specialistica per il recupero psichiatrico sull'Aurelia, con un percorso terapeutico che aveva appena superato ottenendo le dimissioni dopo il lungo ricovero. Aver dovuto abbandonare lo sport professionistico le pesò molto. 

«UN TALENTO» Ma non era la tipa che mollava. Altra vittoria che aveva raggiunto, nel 2021, era stata quella della laurea in scienze biologiche. In lutto papà Sergio e mamma Valentina ma anche la Fidal, la Federazione italiana di atletica leggera, con il cordoglio del presidente nazionale Stefano Mei e di quello della sezione regionale Fabio Martelli. Prima della scelta obbligata di smettere di correre sui campi d'atletica era nella squadra della Studentesca Milardi di Rieti. «Flavia era un vero talento - racconta Alberto Milardi, direttore tecnico della società sportiva - Quando arrivò la diagnosi del problema al cuore le cadde il mondo addosso. Sarebbe potuta diventare davvero una grandissima atleta».

(…)

Roma, l'ex mezzofondista Flavia Ferrari si accascia e muore mentre fa jogging nel parco di Tor Tre Teste. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 31 Maggio 2023

Tragedia alle 7 del mattino. La Fidal: «Solo poche ore fa festeggiava sui social le sue dimissioni da una struttura sanitaria». L'ultimo post: «Mesi molto duri» 

L’hanno vista accasciarsi sull’erba del parco di Tor Tre Teste mentre stava facendo jogging in uno dei vialetti dell’area verde. A dare l’allarme stamattina alle 7 sono stati alcuni frequentatori del giardino all’Alessandrino, vicino all’ingresso di via Vispiglioso: Flavia Ferrari, 24 anni compiuti lo scorso 12 febbraio, è morta stroncata da un malore nonostante i soccorsi da parte di un medico di un’ambulanza dell’Ares 118. 

Il passato da atleta, i problemi di salute

La giovane era stata una mezzofondista della nazionale azzurra under 20 che aveva partecipato ad alcune maratone nel 2017. Due anni più tardi la drammatica scoperta di gravi problemi cardiaci che le hanno impedito di proseguire la carriera sportiva. Sulla morte della venticinquenne indagano ora i carabinieri della compagnia Casilina intervenuti con altri soccorritori dopo la richiesta d’aiuto arrivata da alcuni testimoni. Nel momento in cui si è sentita male la ragazza era da sola, in tenuta sportiva. Non è chiaro se si stesse allenando con il consenso dei medici oppure per un’iniziativa personale, o ancora in vista di un eventuale ritorno alle competizioni. Si tratta di aspetti sui quali i militari dell’Arma che stanno svolgendo accertamenti, sentendo non soltanto le persone che hanno chiamato il 112 ma anche i familiari e gli allenatori della giovane. Sarà l’autopsia, disposta dalla magistratura, e in programma nei prossimi giorni al policlinico di Tor Vergata presso l’Istituto di medicina legale, a fare luce sulle cause del decesso della ragazza. 

Il ritiro per potersi curare

La Fidal la ricorda: «La 24enne si era ritirata tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 dall’atletica a livello agonistico (che praticava con addosso la maglia della Studentesca Rieti), per poter curare alcuni seri problemi di salute che non le avevano permesso di continuare l’attività sportiva come l’aveva sempre fatta. In un lungo post sui social aveva spiegato tutto, annunciando a tutto il mondo sportivo che tanto amava sin da bambina, la sua decisione obbligata di lasciare l’atletica».

«Appena dimessa da una struttura sanitaria»

«La corsa, lo sport e l’atletica le erano rimaste dentro anche se non più praticabili a livello agonistico - continuano dalla Fidal -. Flavia solo poche ore fa festeggiava sui social le sue dimissioni da una struttura sanitaria, una delle numerose che l’hanno accolta in questi anni per curarla e supportarla; un percorso che lei documentava con foto e post, senza perdere il suo sorriso. Specialista di 800 e 1500, la mezzofondista romana era stata allenata da Daniele Troisi (presidente del CP Roma Sud) e il suo ultimo tesseramento è quello con la Studentesca che, dopo l’esplosione con la Libertas Castelgandolfo Albano, l’aveva accolta tra le sue file, festeggiando anche convocazioni in nazionale giovanile sia per il doppio giro di pista che per i 1500».

L'ultimo post su Instagram

Su Instagram, solo un giorno prima, l'atleta scriveva: «Dimessa!!! Quelli appena trascorsi sono stati due mesi molto duri. Sono consapevole che il mio percorso non finisce qui, che la strada da fare è ancora lunga e che potranno presentarsi delle difficoltà, ma mi piace pensare che il peggio sia alle spalle. Volevo dire grazie a tutte le persone che in questi due mesi mi hanno chiamato o scritto per tirarmi su di morale o per una semplice parola di conforto, sono grata per tutto l’affetto ricevuto».

La Maratona.

Shizo Kanakuri, il maratoneta che si addormentò in gara. La surreale storia del podista giapponese che alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912 si fermò in un giardino per bere e finì la gara più di mezzo secolo dopo. Paolo Lazzari il 10 Settembre 2023 su Il Giornale.

In Giappone è praticamente un idolo. Anche perché si tratta del nuovo recordman mondiale nella lunghezza dei 40km di maratona: ci mette 2 ore, 32 minuti, 45 secondi. Abbastanza per convincere l'impero del Sol Levante a spedirlo alle Olimpiadi che si tengono a Stoccolma, nel 1912. Tra l'altro è la prima volta che un atleta di questi luoghi partecipa ai Giochi. Il viaggetto lo sovvenziona l'università di Tokyo. Salendo sulla scaletta dell'aereo, Shizo Kanakuri sorride a trentadue denti.

La gara è fissata per il 14 di luglio, ma chi si aspettava che il clima svedese elargisse fresche folate, deve subito ravvedersi. Trentadue gradi. Pare di essere sul bagnasciuga in Sicilia. Gli sportivi che non si aspettavano quel contesto torrido faticano già durante la ricognizione del giorno prima, quando si trotterella per immaginarsi la gara. Shizo no. Si è allenato ad ogni temperatura e scrolla solennemente le spalle. Per lui non fa alcuna differenza. Unico accorgimento: vuole evitare di sudare troppo per non disperdere liquidi e forze. Quindi si impone di evitare di bere lungo il tragitto. Strategia kamikaze, come appurerà da lì a poco.

Torme di incitatori a bordo strada. Lo sparo a salve che scuote l'aria. Si comincia. Shizo sa di essere un mattatore e parte spregiudicato, più forte degli altri. Tiene il suo ritmo soltanto il sudafricano McArthur, che gli rimane incollato. Il sole però bussa forte. La calura, mista allo sforzo, si fa sentire. Giunto al trentesimo chilomentro Kanakuri è stremato per la sete. Mentre altri sono riusciti ad abbeverarsi in qualche modo - anche se l'organizzazione osteggiava i punti ristoro - lui no. Disidratato, sfibrato, sul punto di collassare. D'un tratto però, inattesa oasi salvifica, compare alla sua destra il giardino di una casa dove stanno tenendo una festicciola. Ballano e sorseggiano succhi di frutta. Troppo allettante per non concedersi una piccola deviazione.

Shizo entra nel giardino e subito gli offrono un succo, che tracanna avidamente. Poi un altro. Poi il padrone di casa fa anche di più. Siccome lo vede stanco, gli dice di sedersi due minuti su quel divanetto comodo che ha lì in giardino. Tanto sono giusto pochi istanti, poi può lanciarsi al recupero. Stordito, Shizo accetta. Da seduto inizia a piegarsi. La palpebra cala per lo sforzo ed il calore ammorbante. Si assopisce irrimediabilmente. E nessuno lo sveglia, pensando che sia troppo stanco.

La gara intanto prosegue e finisce. McArthur trionfa. Gli organizzatori si accorgono che il giapponese è disperso. Partono le prime ricerche, prive di esito. Viene chiamata anche la polizia, per un controllo a tappeto. Shizo si desta quando ormai è sera. Dapprima stranito, ci mette poco a realizzare quello che è successo. E per la vergogna lancinante fugge prendendo un treno a Sollentuna, la cittadina in cui si era fermato, per tornare in Giappone. Di lui si perdono le tracce.

Ricompare soltanto dopo la prima guerra mondiale, quando partecipa a due gare - nel 1920 e nel 1924 - senza sortire risultati importanti. L'onta e il disonore si sono attenuati, ma per la Svezia resta comunque una persona scomparsa. E così rimarrà fino al 1962 quando, in occasione dei cinquant'anni da quelle Olimpiadi, un giornalista svedese viene incaricato di provare a rintracciarlo. L'impresa, clamorosamente, riesce. Shizo vive in Giappone, è ultra settantenne, padre di 6 figli e nonno di 10 nipoti. Durante la chiamata la verità sul suo conto viene finalmente a galla.

E quando, nel 1967, lo invitano in Svezia per celebrare il 55° anniversario di quelle fatidiche Olimpiadi, lui accetta. Torna a Sollentuna. Rivede il giardino della casa in cui si era fermato per refrigerarsi ed aveva finito per poltrire. Parla con il figlio della persona che lo ospitò. Poi mette un paio di scarpe comode e chiude quella finestra con il passato. A settantasei anni suonati, oltre mezzo secolo dopo, finisce quella corsa rimasta mozzicata. Il conto aperto più lungo di sempre. "Meglio tardi che mai" potrebbero averlo inventato quel giorno.

La Marcia.

Alex Schwazer non parteciperà alle Olimpiadi: il verdetto della Wada al Grande Fratello. Guendalina Galdi su Il Corriere della Sera giovedì 16 novembre 2023

L’agenzia mondiale antidoping non riduce la squalifica del 39enne. Schwazer ha comunicato il verdetto agli altri concorrenti nella casa del Grande Fratello

Alex Schwazer dovrà rinunciare all’Olimpiade 2024 di Parigi. È arrivata la sentenza della Wada, l’agenzia mondiale antidoping, che ha detto no alla riduzione di pena sulla sua squalifica. Il marciatore altoatesino, che compirà 39 anni a dicembre, attendeva da due anni questo responso che a caldo ha subito definito «ingiusto e profondamente sbagliato. Non è stata una decisione neutra — ha aggiunto —. Credo di pagare per il fatto di non aver mai accettato un verdetto della giustizia sportiva e di aver lottato per anni per la mia innocenza» ha aggiunto, in riferimento alla controversa vicenda della sua seconda positività.

Schwazer ha ricevuto — e commentato — questa sentenza nella Casa del Grande Fratello, in cui si è chiuso negli ultimi due mesi scanditi da allenamenti sul tapis roulant e sull’ellittica. Davanti alle telecamere del reality ha lavorato sugli attrezzi messi a disposizione «come un indemoniato, con grandissimo spirito di sacrificio, da solo contro tutti e contro le ingiustizie», riprendendo i commenti dei coinquilini che dopo la sentenza hanno espresso tutta la loro vicinanza al marciatore. In questo periodo Schwazer ha continuato a cullare il sogno olimpico che si è infranto in serata quando ha saputo che la squalifica di otto anni per doping recidivo, inflitta per la positività al testosterone riscontrata in un controllo domiciliare il 1° gennaio 2016, non avrà una riduzione.

La sanzione scadrà l’8 luglio 2024 ma l’atleta non avrà modo di partecipare alle qualificazioni dei Giochi che animeranno Parigi dal 26 luglio all’11 agosto. «Andrò avanti con gli allenamenti e non mi va di perdere altro tempo. Sono entrato qui (nella Casa del Grande Fratello, ndr) con l’obiettivo di allenarmi bene. Nei prossimi giorni penserò anche tanto a cosa fare - ha spiegato Schwazer -. Io amo lo sport e non starò più male per delle decisioni che riguardano lo sport. Sono ancora qua e mi alleno ogni giorno nonostante quello che è successo. Il tempo è a mio sfavore, vista la mia età, e fare appello ora diventa molto difficile. Valuterò nei prossimi giorni, in relazione alla mia squalifica e alla mia permanenza nella Casa. Non ho rimpianti e vi chiedo di non far drammi. La vita è bella, siamo qui per fare una bella esperienza: andiamo avanti così».

Il «Caso Schwazer» è uno dei più controversi dello sport italiano ed è diventato anche una serie tv Netflix nell’aprile 2023. Una storia fatta di vittorie (l’oro olimpico a Pechino 2008) e cadute, sfociata in una vicenda intricata che si è consumata nei tribunali. Sette anni dopo quel gennaio 2016 era arrivata l’archiviazione dell’inchiesta sugli autori del presunto complotto ai danni del marciatore: nessun colpevole, secondo il Tribunale che aveva archiviato la posizione di Schwazer ritenendo che l’atleta non si fosse dopato. Ai tempi, l’unica certezza rimase la squalifica del marciatore che fino all’ultimo ha sperato in una riduzione di pena e nella partecipazione a Parigi 2024, un desiderio diventato delusione profonda dopo questo definitivo «no» della Wada.

Perchè Alex Schwazer non ha avuto lo sconto di pena, la Wada cambia le sue regole. Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera sabato 18 novembre 2023.

Il verdetto è arrivato mentre Schwazer era nella casa del Grande Fratello. L’Agenzia Antidoping gli avrebbe chiesto contro ogni regola una sorta di confessione sui fatti di doping di cui è accusato

Il Codice Antidoping (art. 4.6.1) è chiaro: «Se un atleta sotto squalifica fornisce una collaborazione fattiva per scoprire o accertare la violazione di una norma antidoping da parte di altra persona» la sua pena «può essere ridotta fino a un terzo» se ci sono «il consenso dell’Agenzia Mondiale Antidoping (Wada) e quello della federazione internazionale competente». A metà del 2021 i legali di Alex Schwazer hanno consegnato all’Athletics Integrity Unit (Aiu, che gestisce la giustizia per World Athletics) un fascicolo con dettagliate informazioni su un allenatore squalificato dell’Europa dell’Est (intercettato dall’ex marciatore sul web) che continuava a seguire gli atleti anche alle gare. Il nome del coach non è stato reso noto, ma poco tempo dopo la segnalazione l’Aiu sulla base del dossier ha aumentato la pena al coach.

Giovedì sera dalla casa del Grande Fratello dove risiede e si allena, Schwazer ha raccontato che la Wada aveva appena espresso parere negativo allo sconto che gli avrebbe consentito di provare a qualificarsi per i Giochi di Parigi dato che la sua sanzione (che termina il 7 luglio 2024) scade troppo tardi per ogni tentativo. Una possibilità teorica (la 50 km è stata abolita, resta la 20 km) ma che l’atleta avrebbe potuto esplorare. La Aiu ha trasmesso la richiesta di parere alla Wada solo lo scorso aprile ma l’Agenzia Antidoping avrebbe chiesto a Schwazer ulteriori chiarimenti e, contro ogni regola, una confessione dei fatti di doping del 2016 che avrebbe contraddetto tutta la battaglia portata avanti dall’altoatesino per dimostrare la sua innocenza. Il no allo sconto, in virtù di un regolamento niente affatto garantista, non deve nemmeno essere motivato nei dettagli. La Wada: «Il no è motivato dalla gravità del caso e dalla doppia positività. L’atleta può comunque fare appello». Una spiegazione che non convince.

«Questa gente per me è come se non esistesse — ha dichiarato Sandro Donati, mentore di Schwazer — e io attendo le decisioni della giustizia ordinaria e non della giustizia fatta in casa e autoreferenziale». Schwazer ora penserà «a cosa fare: amo lo sport e non starò più male per decisioni di questo genere». Sul piano teorico, l’olimpionico di Pechino 2008 attende ancora una decisione riguardo al suo ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la cui sentenza avrà però solo valore orientativo.

Giampiero Mughini per Dagospia sabato 18 novembre 2023.

Caro Dago, mi mancheranno molto gli uomini e le donne con i quali per un mese e passa ho convissuto nella dannatissima "Casa del Grande Fratello" che sorge, assieme straripante e impervia, sulla collinetta di Cinecittà. E siccome i miei compagni di avventura rimanevano a confabulare sino a tarda notte, laddove io mi attenevo alla ormai remota abitudine di chiudere la giornata entro alla mezzanotte, alla mattina non mi svegliavo mai dopo le otto. Quando ancora la gran parte della nostra congrega stava dormendo il sonno dei giusti. 

E pur tuttavia nell'aprire la porta della mia stanzuccia che dava su un giardinetto sempre di trovavo di fronte il (quasi trentanovenne) Alex Schwazer che si ci stava dando sotto, nel suo quotidiano e mostruoso allenamento al tapis roulant. Mostruoso intendo per intensità, non dico una marcia ma piuttosto una galoppata che lui protraeva talvolta per oltre tre ore al giorno _ alla velocità di oltre 18 chilometri al giorno _ sino a compiere i 50 chilometri che lui percorse in tre ore 37 minuti e spicci il giorno della sua fatidica medaglia d'oro alle Olimpiadi di Pechino del 2008.

Quel trionfo che ho ancora innanzi agli occhi come fosse stato ieri, lui che entra da solo nella pista dello stadio, che attacca la prima curva della pista e che è ancora solo. Ancora solo mentre abborda la seconda e ultima curva, nessun altro ancora mentre è a pochi metri dal traguardo, nessuno mentre lui lo taglia vittorioso. Lo ascoltavo a bocca a parta mentre Alex me la raccontava quella gara. Lui che al venticinquesimo chilometro avverte un forte dolore alle gambe e ci pensa su eccome se è il caso di abbandonare la gara.

Resiste, continua, ce la fa. Sono ancora tre o quattro atleti in testa al quarantesimo chilometro, e Alex sta pensando che non è ancora il momento di sferrare l'attacco decisivo. Solo che al quarantaduesimo chilometro si accorge che non ha più l'ombra degli avversari che gli stavano accanto. Spinge, spinge mentre è rimasto solo, ma non è ancora il momento di sferrare l'attacco vero e proprio. Continua a spingere, al quarantottesimo chilometro è sempre solo.

A questo punto manca niente al traguardo. A questo punto vola. Medaglia d'oro, trionfo italiano dopo quelli dei grandissimi Dordoni e Pamich. Alex mi ha anche raccontato quello che venne dopo, che la sua testa non ce la faceva più a reggere la caratura atletica e agonistica che era la sua, che cominciò a prendere pillole che non doveva, e che con tutto questo andava più lentamente di prima. Lo trovano positivo, squalifica. Esaurita la pena Alex torna in pista. Vince, anzi stravince. 

Fino alla nuova squalifica, che si estinguerà solo a metà luglio del 2024 quando per lui sarà ormai impossibile qualificarsi alle Olimpiadi dell'anno prossimo. Alex proclama dappertutto la sua innocenza, avallata nientemeno che da Sandro Donati, il tecnico italiano che alla lotta contro il doping ha affidato il suo destino professionale. La proclama nel corso di un documentario che abbiamo visto in tanti e innanzi al quale ci siamo commossi in tanti. Chiede una riduzione della pena, un niente. Non gliela danno.

Vederlo allenarsi ogni mattina era per me che amo lo sport alla pazzia uno spettacolo indimenticabile. Alto 1,87 Alex è un uomo del tutto verticale. Dalla cintola in su è magrissimo, tutt'ossa. Dalla cintola in giù le sue gambe sono come segnate da un unico e lunghissimo muscolo che è come se le rendesse bollenti di agonismo. La sua falcata è ai confini con l'opera d'arte, le gambe è come se poggiassero sul terreno e rimbalzassero e attraversassero l'aria nello stesso tempo. Una falcata dopo l'altra, a un tempo che Alex cronometrava e che era superiore di niente a quello dei suoi trionfi di quindici anni fa. Di prima della pena che gli ha inflitto la Wada. Ti abbraccio, Alex.

Laura Tedesco per corrieredeltrentino.corriere.it - Estratti mercoledì 8 novembre 2023.

«Perseguitato dal sistema, devastato dalla seconda squalifica per doping del tutto ingiusta, visto che Alex era assolutamente pulito». Scagionato dalla giustizia penale e da oltre un anno in attesa del via libera al rientro per i Giochi parigini del 2024, Alex Schwazer sta cullando il suo sogno olimpico allenandosi sotto le telecamere del Grande Fratello che lo monitorano 24 ore su 24. 

«Giunto ormai alla soglia dei 40 anni, con i tempi che sta facendo in tv è in grado di ottenere un buon piazzamento. Nessuno — secondo il suo allenatore Sandro Donati, simbolo indiscusso dell’antidoping e dello sport pulito — lo risarcirà mai per averlo indebitamente tenuto fuori dai Giochi di Rio e Tokio, ma lui vorrebbe comunque uscire dalla scena sportiva sulle piste, non relegato all’angolo senza ragione e senza poter partecipare».

Questo il parere del Maestro dello Sport: Donati, che è intervenuto a Verona al convegno «Giustizia sportiva e penale, a partire dal caso Alex Schwazer», parla da tecnico ma soprattutto da uomo e profondo conoscitore del marciatore di Vipiteno, a cui il conduttore Alfonso Signorini ha annunciato in diretta su Canale 5 che «tra pochi giorni, arriverà la sentenza che aspetti da diverso tempo». Ad Alex sono brillati gli occhi, «perché non sapere — ha reagito — non avere risposta, è certamente la cosa più terribile». 

E mentre lui continua a marciare infaticabilmente sul tapis, gli altri concorrenti stanno ipotizzando uno sciopero della fame in segno di solidarietà. Per Donati, «i tempi di Alex al Grande Fratello sono buoni, sono già una bella premessa, ho solo timore che per lui, per il suo carattere riservato, stare in quell’ambiente sia troppo duro. Non poter divagare, non poter mai staccare...Sempre sotto i riflettori, ormai da due mesi, la mia paura è che per Alex alla lunga la tensione, lo stress si facciano sentire... Io lo conosco troppo bene, capisco però che ha bisogno di guadagnare un po’ di soldi perché lo hanno dissanguato nei tribunali, avvocati, perizie...Si è svenato per difendersi».

(...) «Ma proprio per questo, per l’indubbia qualità dei suoi risultati, temo che — paventa Donati — possa aumentare ancora l’ostilità (della Wada, Agenzia mondiale antidoping, ndr) nei suoi confronti. Lui ha una testa fenomenale, è un ragazzo tenace, però vedo incerta la possibilità che lo facciano partecipare alle Olimpiadi del 2024».

Per Donati, la seconda squalifica del campione è stato «un atto ignominioso, Alex comunque ha collaborato e ha pieno diritto a partecipare alle gare di Parigi invece stanno facendo di tutto per tenerlo ancora indebitamente fuori dalle competizioni. Hanno uno strapotere, se la cantano e se la suonano...». E se «per miracolo» potesse partecipare? «Con il cuore dico che, visti i tempi che sta facendo in tv, Alex si piazzerebbe bene, ma — auspica Donati — non va gravato di responsabilità, e neppure di false speranze». Non ancora, almeno…

 Da ilnapolista.it venerdì 15 settembre 2023. 

Il Fatto Quotidiano intervista Alessandro Donati, l’ultimo allenatore di Alex Schwazer, sempre al suo fianco nella difesa dalle accuse di doping. Donati combatte da sempre contro l’uso di sostanze dopanti nello sport. Gli viene chiesto se un professionista come Pogba può essere così sprovveduto da prendere un integratore consigliato da un amico medico, contenente testosterone, come ha raccontato alla Juventus. Donati risponde: 

«Oggi è impossibile, forse dieci anni fa poteva succedere di non sapere. Nel 2023 c’è una vasta informazione a disposizione degli atleti. Pogba è un calciatore francese, ovvero di un Paese che vent’anni fa fu all’avanguardia nella lotta al doping.

La Francia aveva un’ottima struttura, ma è stata smantellata in parte dalla Wada, l’agenzia mondiale antidoping. La stessa cosa è accaduta in Italia, dove oltre al laboratorio di Roma, c’erano quelli di Modena, Orbassano, Firenze e Padova. Sono stati chiusi. La Wada ha centralizzato l’attività, preoccupandosi solo dello sport d’élite. Sul piano culturale è un errore gravissimo». 

Con Pogba la Juventus è di nuovo coinvolta in una vicenda di doping. Donati:

«Dopo tutto quello che è accaduto oltre vent’anni fa, mi sarei aspettato che professionisti super pagati fossero sottoposti ad analisi interne, anche per evitare errori involontari. Mi sembra incredibile che invece queste misure non siano prese in considerazione da un club come la Juventus». 

Il sistema non poteva sopportare l’idea della coppia Schwazer-Donati sul podio di Rio 2016?

«Il sistema non poteva sopportare l’idea di un atleta che, voltando le spalle al doping, era riuscito ugualmente a vincere. Allo stesso modo, non poteva essere accettato che si imponesse un allenatore estraneo alla marcia». 

Chi non le ha mai voltato le spalle in questi decenni? Donati:

«Tre-quattro giornalisti. Alcuni componenti del sistema sportivo. Stendiamo un velo pietoso sui dirigenti, con due eccezioni: il presidente del Coni Giovanni Malagò e l’attuale segretario generale del Coni Carlo Mornati. Malagò ha cercato di stimolare una revisione».

Utopia pensare a Schwazer a Parigi?

«Il sistema non lo vuole. Lo dimostra già il fatto che ha segnalato di aver diritto a uno sconto di pena ed è subito iniziato il rimpallo delle responsabilità per non farlo partecipare».

Da ilnapolista.it il 14 luglio 2023. 

Giovanni Malagò è intervenuto sul caso Schwazer e lo ha fatto sulle colonne della Gazzetta dello Sport. Il presidente del Coni, il Comitato Olimpico Nazionale Italiano, si è espresso sulla dubbia squalifica per doping che ha investito il marciatore italiano, oro olimpico a Pechino 2008.

«Io non sono nessuno per giudicare, in questo ruolo non mi ci sono mai messo nella mia vita, neanche con le mie figlie. Però sempre, nella mia esistenza, ho pensato di avere il diritto di esprimere un’opinione. Questo è un tratto del mio carattere, della mia personalità. Insomma, so essere molto diplomatico ma anche estremamente diretto.  La maggioranza delle persone fanno fatica a dire di Schwazer: è sicuramente innocente o è sicuramente colpevole. Questo la stragrandissima maggioranza».

Una duplicità di approccio gli permette, secondo Malagò, di valutare con più attenzione gli elementi: «La premessa è che c’è una sentenza di colpevolezza. Dopodiché ci sono alcuni aspetti oggettivi che onestamente fanno molto riflettere. Il primo è la stranezza, la atipicità, la curiosa coincidenza, del fatto che subito dopo una certa presa di posizione di Alex si è deciso di fare un’azione che sarebbe avvenuta ben due settimane dopo».

Il riferimento è alla decisione di Alex di testimoniare a Bolzano nel processo contro due dirigenti medici dell’atletica. Oltre al controllo antidoping del primo gennaio, un’altra stranezza colpisce il presidente del Coni: 

«Uno sta in una domanda che mi faccio: perché non si prevede una terza provetta a garanzia dell’atleta che si custodisce in un luogo dove non c’è neanche il minimo rischio di un conflitto di interesse? Depositandola presso un laboratorio che non fa parte del nostro mondo ma che presenta le massime tutele per chi controlla e per chi è controllato».

E ancora:

«Per quale motivo ti riduci a giudicarlo a poche ore da quella che era la sua competizione, e lo porti come se fosse un reietto a Rio de Janeiro? Tu trova il modo di farlo almeno la settimana prima, così eviti questa umiliazione e questa mortificazione, non solo all’atleta ma alla dignità della persona. Questi elementi mi fanno pensare che a prescindere dalla sua colpevolezza, lui sia entrato nel raggio di azione di qualcuno». 

Malagò ci tiene a chiarire un aspetto:

«Io di Sandro Donati mi fido ciecamente. È vero che nella mia vita ho messo le mani per alcune persone per le quali me le sarei bruciate. Mi fido di Schwazer? Dico di no, lui ha peccato facendo una cosa che nello sport per me è inaccettabile. Ma mi fido al 100% di Donati che aveva accettato quella sfida con tutti i presupposti di credibilità e di pulizia».

Da ilnapolista.it il 24 luglio 2023. 

Sulla Gazzetta dello sport un’intervista a Walter Pelino, il Gip di Bolzano che ha prosciolto Alex Schwazer dall’accusa di doping del 2016, con l’ormai celebre ordinanza di 80 pagine nella quale apertamente allude ad una macchinazione ai danni dell’atleta. 

«Avevo scritto tutto quanto nell’ordinanza. Parlo ora proprio perché mi sembra che questa storia rivesta un’eccezionalità tale da farmi intervenire. Non aver ottemperato all’ordinanza da parte delle istituzioni sportive mi pare una gravissima violazione delle regole». 

Quando le è stato assegnato il caso Schwazer aveva già un’idea o è un mondo che ha conosciuto a mano a mano

«È stata una scoperta graduale. All’inizio non nutrivo nessun pregiudizio positivo nei confronti di Schwazer. Al contrario, era già stato dopato. Non godeva di un’immagine pulita». 

Poi, i primi dubbi:

«Quando sono cominciate a venir fuori le difficoltà ad entrare in possesso dei campioni di urina. Tante obiezioni mi sembravano strumentali. Il sospetto era che si volesse bloccare la nostra perizia. Eppure, ricordo che alla prima udienza era pervenuta una lettera della Wada che si impegnava alla massima collaborazione, soprattutto sul tema della catena di custodia dei campioni. Ma poi, quando sono emerse delle falle proprio su quel versante, nessuno se n’è dato per inteso».

Si è fatto un’idea dei meccanismi della giustizia sportiva lungo il percorso? Pelino:

«Sono allibito. Mi aspettavo ben altro. Le istituzioni sportive internazionali si sono limitate a buttare tutto sotto il tappeto. Ma la mancata osservanza dell’ordinanza si traduce in scarsa considerazione del nostro Paese e del nostro ordinamento giuridico». 

Torniamo alla sua indagine e al momento cruciale della richiesta dei campioni da periziare. Pelino racconta:

«Abbiamo dovuto superare una raffica di tentativi di ostacolarci. Ricordo, per esempio, quello della presunta scarsità di materia prima per le analisi. Oppure l’indicazione fasulla della quantità contenuta nel campione B: 6 millilitri. In realtà erano il triplo. E i nostri esperti ci hanno assicurato che un errore di quella portata non sarebbe stato commesso da nessun tecnico, tanto meno da uno del laboratorio antidoping con la migliore reputazione del mondo. Poi hanno messo in atto passi giuridici per negarci i campioni, sostenendo fra l’altro che dovevano restare in loro possesso per eventuali cause civili future. E altro ancora». 

A quel punto sono saltate fuori le mail hackerate che si erano scambiate il laboratorio di Colonia, la Wada e la Federatletica mondiale.

«E sono state molto utili per le indagini. La loro veridicità era fuori discussione: gli stessi interessati avevano infatti dichiarato di aver subito l’hackeraggio. Lì dentro abbiamo trovato molti indizi sui tentativi reiterati di non consegnarci i campioni. Al di là della sostanza delle cose, si notava come i tre organismi, che sono personalità separate, agissero in realtà di comune accordo. Uno dei segnali che il sistema non funziona». 

Pelino torna alla sofferta consegna dei flaconi.

«Con l’aiuto della corte di Colonia, finalmente otteniamo il flacone A. Ma non ci vogliono consegnare il B (quello che rimane sigillato per le controanalisi, ndr). E siamo costretti ad una seconda rogatoria internazionale. A quel punto è venuto fuori l’altro enorme pasticcio. Il colonnello Lago, dei Ris, è andato in Germania per ritirare i contenitori, ma si è trovato a ricevere un flacone anonimo, non sigillato, già scongelato, che i tecnici sostenevano essere stato prelevato dal flacone B.

Una violazione gigantesca della catena di custodia. Lago mi ha immediatamente telefonato per dirmi che non avrebbe potuto accettare quel referto. A quel punto ho parlato personalmente col direttore del laboratorio, al quale ho fatto presente che avrei denunciato la cosa alla magistratura tedesca. E solo allora abbiamo avuto il vero flacone B». 

Pelino parla del ruolo cruciale del colonnello Giampietro Lago, genetista di fama, che ha contribuito a risolvere fra l’altro i casi di Yara Gambirasio ed Elisa Claps.

«Certo. Si tratta di una persona eccezionalmente preparata dal punto di vista professionale e di tante qualità umane. Con lui si è instaurata una collaborazione perfetta. È al suo lavoro che dobbiamo la constatazione che nei due campioni, A e B, era presente una quantità di Dna clamorosamente fuori norma, dalle 20 alle 50 volte superiori alla media. Un’anomalia spropositata, a maggior ragione perché la quantità di Dna in un campione congelato decade rapidamente col passare del tempo. Tutto ciò portava alla conclusione che quei campioni erano stati trattati in qualche modo, come comprovato da nostri studi comparativi su centinaia di casi».

Si sostiene che un eventuale complotto ai danni di Schwazer sia troppo complesso per essere stato messo in piedi per un solo personaggio, o al massimo due, comprendendo Donati.

«In realtà Alex, pochi giorni prima che il suo controllo a sorpresa venisse deciso, nel dicembre del 2015, aveva deposto a Bolzano in un altro processo contro i medici Fischetto e Fiorella, e aveva mosso accuse pesantissime: erano l’intero sistema dell’antidoping e il suo funzionamento a essere investiti da gravi rischi. C’era in ballo molto di più che le sole figure di Schwazer e Donati. Non so chi siano, ma mi sono convinto, proprio per quella sequenza temporale, che i mandanti di questa brutta storia siano italiani».

C’è qualcosa che l’opinione pubblica non ha ben percepito dall’intera vicenda?

«Il vulnus giuridico, soprattutto. Wada e federatletica internazionale si erano costituiti parti civili nel procedimento. E questo ha una grande rilevanza nel sistema giudiziario: significa che le parti accetteranno l’esito del processo, qualunque esso sia. E invece, dopo l’ordinanza è cominciata una campagna di delegittimazione. 

Mi ricorda la storia del bambino che, persa la partitella, se ne va infuriato portando via il pallone. Non si è nemmeno aperta un’indagine interna in quelle organizzazioni. Ma le nostre istituzioni hanno il dovere di difendere sé stesse e il loro lavoro. E devono pretendere il dovuto rispetto».

"La vittoria di Schwazer: nel docufilm il mondo ha scoperto la verità". L'allenatore paladino dello sport pulito: "La gente ha capito quanto siano corrotte le istituzioni sportive". Pier Augusto Stagi il 16 Luglio 2023 su Il Giornale. 

Non è assolutamente sorpreso del successo della docuserie di Netflix su «Il caso Alex Schwazer». Ne era quasi certo, che l'opinione pubblica l'avrebbe accolto con interesse. «È un racconto leale: senza menzogne», ci dice Sandro Donati, 76 anni, romano, una vita da allenatore e al servizio dello sport pulito, che non ha mai creduto nella seconda positività al testosterone del fuoriclasse bolzanino e si è sempre schierato dalla sua parte senza mai abbandonarlo.

Da questo docufilm ci sembra che venga fuori prorompente l'ingiustizia nei confronti di un atleta rimasto invischiato in qualcosa di più grande di lui.

«È così. Con questo documentario ci si è rivolti ad un pubblico più vasto, privo di condizionamenti che si è reso conto della verità. È un docufilm nel quale si può capire compiutamente quanto le istituzioni sportive siano corrotte».

Quindi?

«È giunto il momento di alzare il velo dell'ipocrisia, di provare a fermare questo sistema, altrimenti sono dolori. È da tempo che siamo in possesso di tutti gli elementi necessari per poter dire che queste istituzioni internazionali, comprese le Federazioni mondiali, non son altro che centri di potere che servono a loro stessi. Poi posso aggiungere una cosa? ...».

Sono qui per questo.

«Oggi è ancora più chiaro di come il ciclismo sia servito da strumento per additare qualcuno ad esempio negativo, allo scopo di evidenziare per riflesso se stessi come esempio positivo. Esaminando il database che ho trovato nei file sequestrati ad un medico coinvolto nell'indagine di Bolzano, mi sono reso conto di quello che ha fatto la Federazione Internazionale di atletica leggera per undici/dodici anni: rilevava anomalie, le annotava su questo database e lì rimanevano. Fino a quando, ad un certo punto, tutto questo materiale finiva in una valigetta e alcuni dirigenti andavano in giro per il mondo a ricattare gli atleti. Io penso una cosa».

Cosa?

«Questo antidoping che, nelle sue enunciazioni è severo ed inflessibile e sembra gestito dal Padre Eterno, nella realtà è manifestamente una pura ipocrisia. Guardo le statistiche e noto senza timori di smentita che nessuno è in grado di mettere in moto un incisivo controllo antidoping in un mondo di professionisti dall'elevato valore economico dal grande tennista al grande calciatore -: evidentemente chi gestisce quel business, attua processi di protezione molto convincenti».

Un sistema di immagine ricattatorio.

«Dobbiamo tornare all'idea originaria, più modesta e umana della prevenzione del rischio per la salute. Questo è il punto. Non è più pensabile agire sull'emoglobina o i valori dell'ematocrito in maniera generalizzata, ma si deve arrivare a valutazioni e limiti individuali: tu puoi arrivare fin qui».

E poi le squalifiche...

«Pesantissime. A me non piacciono neanche un po'. Lo strumento dell'antidoping deve essere usato per combattere la diffusione del fenomeno, non per gioire di una squalifica a fronte di numerosi atleti dopati che non vengono colti. A mio parere bisogna lavorare sugli indici di prevenzione dei rischi per la salute. Sei in una situazione anomala? Ti fermi fin quando quel parametro non viene normalizzato, senza scomuniche e gogne mediatiche. Basta con questi atteggiamenti ipocriti per cui un atleta squalificato non può mettere piede in un campo sportivo ma chi ci dà il diritto? Ma se siamo pieni di dopati e diversi di loro entrano tranquillamente ogni giorno in quello stesso campo. Non lo dico io, l'ha detto il vice-direttore della Wada Rob Kohler, dopo diciotto anni di onorato servizio. Ha indicato i dopati nel 30% circa del totale degli atleti di alto livello, altro che il loro 0,5% per sciacquarsi le coscienze».

È fiducioso in merito a questi cambiamenti?

«Assolutamente no. I Governi hanno altri problemi, così hanno delegato al sistema sportivo di seguire questa pratica costosa e scomoda dei controlli antidoping. In partenza hanno dato vita a un mostro che fa da controllore ma è anche controllato e ora non sanno più come uscirne. In una relazione che feci anni fa per l'Università di Aarhus, in Danimarca, dissi che il codice mondiale della Wada mancava di un elemento essenziale: la fattispecie corrispondente all'associazione per delinquere. Tu colpisci un singolo atleta o il singolo allenatore e poi non prevedi la colpa per doping di intere federazioni nazionali o internazionali? Un classico: forti con i deboli e inesistenti con i forti».

Sta lavorando a qualche altro libro?

«No, spero di non doverne scrivere più. L'ultimo (I Signori del doping, Rizzoli, 18 ), le garantisco, è stato di una grande sofferenza, ma spinto da mia moglie ho cercato di raccontare l'orribile storia che i signori del doping ci hanno costretto a vivere».

È utopia pensare che Alex Schwazer possa tornare a gareggiare?

«Guardi la data del termine della squalifica: fine luglio 2024. Perché? La presunta urina dopata è stata trovata il 1° di gennaio 2016 ma non si tiene conto di quella data perché era ancora in corso la prima squalifica. Dopo di che, la seconda data è quella del 13 di maggio quando il laboratorio di Colonia ha mandato il responso alla Wada. Perché non si fa decorrere la squalifica da quella data? Dopo quaranta giorni di imboscamento del report, il 21 giugno i signori della Wada lo rendono noto ma per il decorso della squalifica ignorano anche questa data e decidono fine luglio. Tutto costruito a tavolino per impedirgli di essere presente a Parigi. Tre Olimpiadi negate».

È possibile che tutto questo sia stato ordito per colpire solo una persona?

«L'ordine è stato emanato un'ora e mezza dopo che Alex aveva finito la sua deposizione a Bolzano contro due medici: questo è il punto di partenza. È una consecutio temporum chiara. L'obiettivo era quello di mettere in cattiva luce Alex davanti agli occhi del giudice. Poi in corso d'opera la vicenda è stata condotta ad un livello superiore. Io ho in mente tutti i passaggi di questa azione ignobile, però per dimostrarli devo essere aiutato da persone di buona volontà. Spero che la storia emerga tutta».

Estratto dell'articolo di Valerio Piccioni per gazzetta.it il 12 luglio 2023.

La forza della verità. Due parole con cui Sandro Donati spiega il successo della docuserie di Netflix che racconta Il caso Alex Schwazer. "È stato un racconto trasparente, reale, umano, senza bugie. Probabilmente questo è stato colto dalle persone". 

Donati, una vita vissuta a tutta contro il doping, l’allenatore che ha guidato la nuova carriera di Alex Schwazer e che non l’ha abbandonato dopo la contrastata e sempre negata positività al testosterone, non ha smesso di combattere contro quella che ritiene una gigantesca ingiustizia. 

Donati, che cosa insegna questa storia?

"Fa capire quanto alcune istituzioni sportive siano deviate. Era già chiaro quando due persone di alto profilo abbandonarono la Wada. Jack Robertson era capo ispettore e protagonista dell’inchiesta sulla Russia, mentre il ruolo di Rob Kohler era di vicedirettore generale. Uno dei problemi sollevati era stato la mancanza di protezione degli atleti che denunciavano. 

E su questo punto sono successe cose inquietanti: ci sono voluti alcuni anni e oltre 200 mail perché i coniugi Stepanov (i pentiti più noti dello scandalo del doping di Stato) avessero una risposta. E che dire della discobola Darya Pishchalnikova che raccontò tutto il sistema doping a Iaaf e Wada con una mail che i responsabili di queste due istituzioni girarono ai dirigenti russi? Un atto di grande servilismo e vigliaccheria". 

Però in questi anni la lotta al doping ha fatto comunque grandi passi in avanti: ricerca, nuovi metodi, analisi, tecnologia. Tutto questo dove va a sbattere?

“Molto è sceneggiata. Non c’è mai un incremento del numero dei positivi. Anzi, si sta assistendo a una crescita preoccupante di certe prestazioni. Penso ai lanci nell’atletica. Una volta solo con gli anabolizzanti facevano certe misure ed ora come si fanno?". 

(...) 

Ma in fondo non c’è già con il passaporto biologico?

"E come viene usato? C’è un’assoluta opacità delle statistiche. Ti dicono i numeri dei controlli, ma a quali categorie di atleti sono diretti i controlli? Per esempio quelli a sorpresa come incidono sugli atleti di alto livello? E se fai due missed test, scatta subito un altro controllo o oppure il terzo non arriva mai? E le esenzioni terapeutiche? Sono verificate con ponderazione? E poi la domanda fondamentale: può una federazione internazionale controllare se stessa?". 

Però da una parte lei denuncia l’assenza di garanzie per Schwazer e gli atleti, dall’altra dice che il sistema preferisce non colpire.

"Siamo di fronte a un sistema del tutto autoreferenziale e caratterizzato dall’autotutela. Se un atleta ha il coraggio di sfidare questi poteri va incontro a organi di giustizia che le stesse istituzioni sportive hanno nominato: ad esempio gli arbitri del Tas vengono nominati dal Cio e dalle federazioni internazionali. Non c’è terzietà. E sapete quanto costa ricorrere al Tas o alla Corte Federale Svizzera?" 

Abbiamo letto di una cifra vicina a 50mila euro.

"Almeno. Così molti atleti rinunciano perché non possono, sistema spietato. Quando hai a che fare con una federazione internazionale, le carte ce l’hanno tutte loro. Ricordate a luglio di sette anni fa cosa successe? Il Tas fissò l’udienza, ma la Iaaf disse che aveva bisogno di studiare i documenti.

(...) 

Molte persone dicono di fronte al caso Schwazer “qualcosa non quadra”, anzi molto non quadra. Ma ci si chiede anche: possibile che si sia organizzato tutto questo per colpire un solo atleta?

"È un’obiezione di chi non ha approfondito i fatti. Io penso che le istituzioni coinvolte si siano incastrate con la scelta del negare tutto. Per spezzare questo cerchio ci voleva una persona responsabile che dicesse basta, anche solo in base alla falsità dei verbali della catena di custodia. Si poteva annullare per vizio di forma e formare una commissione d’inchiesta".

La Wada, però, all’inizio è stata una svolta.

"Soltanto all’inizio, poi questo organismo non ha più funzionato. Ho chiesto più volte di quei finanziamenti della Russia alla Wada dal 2013 al 2015". 

È stato mai smentito?

"Ma se sono scritti nei bilanci. Attenzione: finanziamenti straordinari. Straordinari per cosa?". 

Donati, dopo quasi sette anni di questa lunga storia, che cosa spera?

"Spero che un organismo esterno al sistema sportivo, per esempio costituito nell’ambito dell’Unione Europea, possa avviare un’inchiesta indipendente, ma so che è un’utopia, anche perché la politica è ormai diventata poca cosa".

Corse, emozioni e giustizia: il caso Alex Schwazer come un thriller. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 17 Aprile 2023  

La storia dell’azzurro medaglia d’oro alle Olimpiadi di Pechino 2008 nella 50 chilometri di marcia, coinvolto in due diversi casi di doping che gli sono costati la squalifica dalle gare fino al 2024 

«Il caso Alex Schwazer» è una miniserie, scritta e diretta da Massimo Cappello e prodotta da Indigo Stories, che racconta le vicende umane, sportive e giudiziarie dell’azzurro medaglia d’oro alle Olimpiadi di Pechino 2008 nella 50 chilometri di marcia, coinvolto in due diversi casi di doping che gli sono costati la squalifica dalle gare fino al 2024. L’incontro tra l’atleta olimpico in cerca di redenzione, Alex Schwazer, e un allenatore simbolo dello sport pulito, Sandro Donati, innesca un intrigo internazionale che sconvolge le loro vite e mette in crisi il sistema dell’antidoping. È il 16 dicembre quando Schwazer si presenta in aula a Bolzano e testimonia contro il gigante dell’atletica Russia e due medici della Iaaf (Fischetto e Fiorella, condannati in primo grado e assolti in appello: in un’intercettazione telefonica del 2016 Fischetto dirà, a proposito di Schwazer: «Sto crucco deve mori’ ammazzato»).

Immediatamente dopo la conclusione dell’udienza parte l’ordine della Iaaf di controllare Schwazer il giorno di Capodanno. E questo accade con metodi che suscitano sospetti, tanto da far pensare a una vendetta. In passato non siamo mai stati teneri con Schwazer. Nell’estate 2012, a pochi giorni dall’Olimpiade di Londra, aveva ammesso l’assunzione di Epo in una drammatica conferenza stampa. Poi aveva iniziato una seconda vita: al rientro dopo la squalifica di 3 anni e 9 mesi, si era meritato a maggio 2016 il biglietto per le Olimpiadi di Rio. Ma già allora era forte il timore che il vero bersaglio non fosse Alex ma il suo allenatore Sandro Donati. Lo scontro fra Donati, la Wada (l’agenzia mondiale antidoping) e la Iaaf (Federazione internazionale di atletica) non nasceva con la nuova positività di Alex. Veniva da lontano.

Il tecnico italiano ha sempre puntato l’indice contro la mancanza di credibilità della Iaaf. Era lui il bersaglio grosso? È molto probabile. Le quattro puntate mescolano con sapienza agonismo, vita privata e giustizia sportiva: la tecnica del documentario si lega a quella del thriller. Ci sono anche le testimonianze delle persone a lui più vicine in quel periodo: l’ex fidanzata Carolina Kostner , la moglie Kathrin Freund e i suoi genitori.

Il caso Alex Schwazer su Netflix: «Sono e resto un atleta». Storia di Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera il 12 aprile 2023.

«Sono e resto un atleta, la giustizia sarebbe stata continuare a gareggiare». Lo dice misurando le parole Alex Schwazer alla presentazione romana della docuserie in arrivo dal 13 aprile su Netflix, che ricostruisce in quattro puntate le tappe della vicenda sconvolgente, dal punto di vista sportivo, umano e giudiziario, del campione che vinse a 23 anni l’oro olimpico a Pechino nella 50 chilometri, salvo trovarsi catapultato negli inferi dopo la squalifica di tre anni e sei mesi ai giochi di Londra 2012 per positività all’eritropoietina, quindi ancora in pista dopo l’incontro con l’allenatore Sandro Donati in direzione di a Rio 2016, dove arrivò il secondo stop per doping con la squalifica fino al 2024, nonostante la sentenza del tribunale di Bolzano del 18 febbraio 2022: archiviazione per non aver commesso il fatto. Misura le parole ma il significato è preciso: Il caso Alex Schwazer, serie ideata e diretta da Massimo Cappello e scritta da Marzia Maniscalco, non è nelle intenzioni del protagonista una forma di risarcimento. Continua a considerarsi vittima di un’ingiustizia, un alteta interrotto ma pur sempre un atleta che ha colto al volo l’opportunità di spiegare la sua verità. «Volevo mettere un punto, raccontare come sono andate davvero le cose. Non è stato troppo doloroso farlo, perché sono fatti con i quali ho chiuso. È il mio carattere, non sono uno che si ferma, né a godermi le cose belle né a farmi bloccare da quelle brutte. Ho accettato la serie perché in quattro puntate c’è il tempo necessario per spiegare bene ogni cosa nei dettagli. Ci tenevo molto». Non è stata una passeggiata neanche per uno abituato a macinare i chilometri. «Mi sono commosso vedendo immagini inedite molto belle e altre dure». Come quelle dei giorni di Rio. «Abbiamo tirato dritto fino all’ultimo giorno, pensando che potessi gareggiare. Ci ho riprovato per Tokio e non è stato possibile». La squalifica scadrebbe in tempo per Parigi 2024 ma ormai, dice, è troppo tardi. «La preparazione non è uno scherzo. E è troppo doloroso illudersi. Farò qualche garetta, magari di paese. L’ho detto, resto un atleta».

È il suo allenatore e amico Sandro Donati a trovare parole più dirette per dirlo. La storia di Schwazer, sostiene, è una sintesi tragica e straordinaria del corto circuito che domina lo sport. E ruota intorno al doping. «Tutta la storia del doping è una storia di complicità del comitato olimpico internazionale, delle federazioni internazionali con il placet dei governi che si affidano a un potere extraterritoriale che nessuno controlla». Gli atleti, dice, non hanno voce in capitolo. «Dovrebbero poter conservare, per esempio, anche loro una provetta dell’urina controlli». Il suo legame con Schwazer, com’è noto, iniziò da una denuncia. «Alex fu trovato positivo perché io avevo segnalato quelle che mi sembravano anomalie del suo rendimento». Ricorda i momenti della carriera dell’atleta di Vipiteno. «Dopo il successo a Pechino Alex si ritrovò solo, cadde in depressione. È stato a quel punto che si è dopato. È stato abbandonato come capita spesso ai campioni: li si usa e li si getta via. La sua è la storia di un grande imbroglio, uno schifoso imbroglio. Questa docu-serie è un tributo alla verità». Oltre alle versioni di Schwazer e Donati se ne sentono altre: i genitori dell’atleta (la madre ricorda uno dei momenti più duri, quando Alex gli confessò di essere stato sul punto di farla finita), Caroline Kostner, all’epoca sua fidanzata che ripete quello che ha sempre sostenuto, di aver mentito perché lui le chiese di farlo, il presidente del Coni Giovani Malagò, l’avvocato di Schwazer Gerhard Brandstätter, il gip di Bolzano Walter Pelino. In difesa delle ragioni della Wada, l’Agenzia mondiale antidoping, parla Oliver Niggli. Mentre i capi della Iaaf, la federazione internazionale di atletica, non hanno accettato l’invito. In quanto a Alex, lo sport, dice, resta la sua vita. A 38 anni fa il coach di atleti amatoriali. E azzarda un bilancio. «In tempi difficili ho incontrato una donna super (Kathrin Freund, ndr), ho due figli, a livello umano sono contento, sono un uomo migliore e completo oggi. Ma come tutti ho qualcosa che mi rimane dentro».

Alex Schwazer. Caso Schwazer, ecco perché non c’è nessun colpevole. Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 25 marzo 2023.

Per la giustizia penale italiana tutto si conclude con l’archiviazione — chiesta e ottenuta dalla Procura di Bolzano — dell’inchiesta sugli autori del presunto complotto ai danni del marciatore di Racines

A sette anni dai fatti, quel «caso Schwazer» che ha monopolizzato per mesi e mesi l’attenzione dell’opinione pubblica italiana (e non solo) è definitivamente chiuso. Con un finale a sorpresa: l’archiviazione — chiesta e ottenuta dalla Procura di Bolzano — dell’inchiesta sugli autori del presunto complotto ai danni del marciatore di Racines, coloro che avrebbero provocato in modo fraudolento la sua positività al testosterone in un controllo domiciliare il 1° gennaio 2016. Lo stesso tribunale che aveva archiviato la posizione di Schwazer ritenendo che l’atleta non si fosse dopato ha prosciolto da ogni accusa gli ignoti che l’avrebbero raggirato.

Non ci sono colpevoli, l’unica certezza resta la squalifica di otto anni per doping recidivo che scadrà nel 2024. Nelle 84 pagine dell’atto di archiviazione del procedimento a carico del campione olimpico della 50 chilometri del 2008, il Gip Walter Pelino aveva «restituito gli atti al pubblico ministero perché valutasse» i reati di falso ideologico, frode processuale e diffamazione nei confronti poiché sussistevano «forti evidenze del fatto che nel tentativo di accertare il reato siano stati commessi una serie di reati». Il supplemento di indagini non ha evidenziato nessun elemento a favore di questa tesi.

Alex Schwazer non è stato processato perché il Gip, con atto del 18 febbraio 2021, ritenne «accertato con altro grado di credibilità razionale che i campioni di urina nel 2016 furono alterati per far risultare l’atleta positivo e di ottenere la squalifica e il discredito dell’atleta come pure del suo allenatore Sandro Donati». Due anni e mezzo dopo, la stessa Procura non ha trovato nessun elemento a carico dell’ipotesi accusatoria. Per la giustizia penale Alex Schwazer è risultato positivo grazie a un complotto ma degli autori di quel presunto complotto e del complotto stesso non vi è alcuna evidenza. Tra pochi giorni Netflix rilascerà in tutto il mondo le quattro puntate della serie investigativa «Il Caso Alex Schwazer».

Alex Schwazer: «Con Carolina Kostner vorrei parlare, ci sono cose che lei non sa. Io non sono il male assoluto». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 14 Aprile 2023

Un oro a Pechino nel 2008, poi due positività al doping, nel 2012 e nel 2016. Storia di ascesa, caduta e ricaduta del marciatore Alex Schwazer, ora raccontata in una serie Netflix. Lui: «Non ho mai smesso di allenarmi, sono andato oltre la rabbia»

Un ritratto di Alex Schwazer, 38 anni. La docu-serie in quattro episodi Il caso Alex Schwazer, prodotta da Indigo Stories, ideata e diretta da Massimo Cappello, è disponibile da ieri su Netflix (foto Netflix)

L’uomo che visse (almeno) tre volte, è pronto per la quarta. Dopo un oro bellissimo nella 50 km di marcia ai Giochi di Pechino 2008, una positività al doping da reo confesso (2012, tre anni e nove mesi di squalifica) e una con la certezza di essere stato incastrato (2016, otto anni di stop in quanto recidivo per la giustizia sportiva; quella penale - in Italia il doping è reato - ha archiviato la sua posizione «per non aver commesso il fatto»), Alex Schwazer da Racines, alta Valle Isarco, 4500 anime tutte meno tormentate della sua, non ha smesso di sognare. La strada per Parigi 2024 passa attraverso la cruna di un ago, la riduzione della pena che scadrà il 7 luglio 2024, cioè a ridosso dell’Olimpiade. Intanto Alex si racconta in una docuserie in quattro episodi, Il caso Alex Schwazer , prodotta da Indigo Stories, in streaming su Netflix dal 13 aprile.

Una storia di ascesa, caduta e ricaduta, con più di uno sgambetto per strada (Alex ne è certo), alla ricerca di una redenzione che Schwazer ripone nel suo enorme talento atletico, il patrimonio più prezioso insieme alla famiglia. Del ragazzo d’oro di Pechino rimangono le gambe formidabili, i polmoni sconfinati, le anche prodigiose. Ma il suo mondo interiore, riflesso di quello esteriore, è rivoluzionato.

Rivedersi marciare che sensazioni ha rispolverato?

«Miste. Non mi è mai piaciuto riguardarmi: la gara di Pechino, per dire, non l’ho mai rivista. Ho riscoperto immagini che non ricordavo, eventi intimi e antichi, anche poco piacevoli, come la positività del 2016. Con quel periodo ho chiuso. È una mia caratteristica: volto pagina e guardo avanti, a costo di non godermi le cose belle».

La docuserie comincia con un suo primo piano: i casi doping non sono mai uguali, dice in camera.

«Il primo, nel 2012, fu la conseguenza di un forte malessere: mentalmente, ero arrivato. Non ho avuto vantaggi da quel doping né ho truffato nessuno: ci ho rimesso la carriera. Ho sbagliato, e pagato. Prima di puntare il dito su un dopato, prima di generalizzare, però, chiediamoci cosa c’è dietro: una persona. Forse davo l’impressione di essere una macchina programmata per vincere, ma non ho avuto l’aiuto che chiedevo. Ero depresso, incapace di esprimermi. Avevo 24 anni e molta difficoltà a parlare delle mie debolezze. Poi, sai, la testa da crucco non aiuta. Nei miei diari ci sono i tempi degli allenamenti e le frequenze cardiache. Punto. Il ragazzo era sovrastato dall’atleta, che voleva solo migliorarsi».

L’atleta Schwazer ha vinto molto e perso tutto. Crede nel destino, Alex?

«Una volta credevo alla fatalità, poi ho cambiato idea. Oggi credo nell’impegno, che viene sempre ripagato. Se credessi solo al destino mi sembrerebbe di delegare: è contro la mia natura. Io nella vita mi sono sempre impegnato, fin troppo».

Dopo il doping del 2016, quello del presunto complotto, si sono allontanati tutti tranne la sua storica manager, Giulia Mancini, il suo avvocato, Gerhard Brandstätter, e il professor Sandro Donati, un’esistenza dedicata a combattere il doping, suo coach nel tentativo di rientro alle gare. Sono tutti presenti nel docufilm. Chi è oggi Donati per lei?

«Un amico che sento regolarmente. Gli devo molto. Ha creduto in me, contro tutto e tutti: non lo scorderò mai. Abbiamo caratteri diversi. Per lui ogni cosa è una battaglia; io non sono così. Per il prof la mia positività al testosterone è una guerra che non finirà mai».

Un fermo immagine dalla serie «Il caso Alex Schwazer», con la partecipazione di Carolina Kostner, che al tempo della prima squalifica era fidanzata dell’atleta

Si è stupito che Carolina Kostner, l’ex fidanzata che per lei mentì all’ispettore antidoping («Alex non è qui») rimediando una dolorosissima squalifica, abbia accettato di partecipare?

«Sì. L’ho chiamata per essere certo che avesse capito bene: Netflix raccontava la mia storia di alti e bassi, non la sua di pattinatrice vincente».

Vi sentite ancora?

«No. Capisco che Carolina su certe cose non voglia più tornare. Io ai suoi occhi sono passato per il male assoluto, ma non è proprio così. Tante cose ancora non le sa e vorrei raccontargliele di persona. Le ho proposto: vediamoci che ti spiego il mio punto di vista. Ma ha una sua visione dei fatti e tanto le basta. Per carità, io ho solo colpe per il controllo che evitai a casa sua. Però non incarno tutti i mali del mondo».

È sposato con Kathrin, la donna che l’ha salvata. Ha due figli: Ida e Noah. Come l’hanno cambiata gli affetti?

«La Kathi l’ho conosciuta negli intervalli in cui tornavo a Racines da Roma, dove mi allenavo con Donati. Autunno 2015. Non pensavo potesse nascere qualcosa di serio: avevo poche speranze di essere capito come atleta, rientravo da una squalifica per doping, invece è sbocciato un amore importante. Quando è arrivata la seconda positività, la Kathi era incinta di Ida. Non mi ha mai rimproverato nulla, le assenze, la mia testa 24 ore al giorno sul caso delle provette. Sempre sorridente, solare. Potevamo esplodere, invece siamo andati avanti a costruire il nostro futuro».

Lo scenario del complotto, ecco. A carico dell’ipotesi accusatoria di alterazione dei suoi campioni di urina non è stato trovato nessun elemento. Nessun colpevole per la giustizia penale, però rimane la squalifica di otto anni.

«La giustizia sportiva e quella penale non si parlano: anche in presenza di un colpevole dell’alterazione delle mie provette, la squalifica resterebbe». Donati si dice stupito: «Alex non ha mai mostrato acredine nei confronti dei suoi aguzzini».

Perché?

«La verità è che nei momenti più bui avevo dentro una rabbia feroce».

Come ha potuto impedire che si accumulasse?

«Trattenendola, poi passa. Ho pensato alla rabbia che avevo provocato io con il mio primo caso doping, eppure ho ottenuto una seconda possibilità. Siamo andati oltre quella rabbia. E ho smesso di cercare la giustizia in ogni cosa: non posso vivere di rimpianti».

Schwazer ai Giochi Olimpici di Pechino 2008, dove vinse il titolo nella 50 chilometri stabilendo anche il nuovo record olimpico della specialità in 3h 37’ 09’’

I suoi figli l’aiutano a fare pace con sé stesso?

«Se oggi sono un uomo, lo devo a loro. Da atleta ero egoista, viziato, al centro del mondo. Per la prima volta, con Ida e Noah ho cominciato a fare le cose per gli altri. Ricordo una frase di Josefa Idem a Pechino: quando hai figli, non perdi più tempo. Aveva ragione. Certe menate le molli. Mi spiace dirlo ma Ida e Noah, biondissimi, mi somigliano. Ida è una testona come suo papà, s’incaponisce, non chiede aiuto. Noah è la Kathi: socializza con tutti, zero preoccupazioni. Io vorrei altri figli, lei tentenna. Se succede, succede».

Come racconterà la sua vicenda ai bimbi?

«Spiegherò tutto, nessun problema. Ida ha sei anni, le cose stanno già emergendo. Mi vede uscire per allenarmi. Papà quando fai la gara? Quando potrò, rispondo».

E quando potrà, Alex? Parigi 2024 è utopia: a squalifica scaduta non ci saranno i tempi tecnici.

«Non dirò mai più che voglio fare un’Olimpiade senza avere la certezza di poter gareggiare. Mi hanno escluso da Rio, mi ero illuso per Tokyo. Non ho mai smesso di allenarmi: è parte di me, mi piace, mi fa stare meglio. Oggi al ritorno alle gare non dico né no né sì. Nel 2024 avrò 39 anni: ci sono anche le prove Master...».

Cosa rimane del meraviglioso marciatore di Pechino, il ragazzo altoatesino con la testa piena di sogni?

«L’oro in banca a Vipiteno che, a questo punto, per la causa giusta donerei. La persona, che spero emerga dal lavoro di Netflix. Tutto ciò che mi è successo è stato utile: non mi sento una vittima, oggi sono migliore. Senza togliermi colpe, l’Alex del doping non era l’Alex odierno. Solo io mi posso capire».

CARTA D’IDENTITA’

LA VITA E LE PRIME MEDAGLIE - Nato a Vipiteno il 26 dicembre 1984, Alex Schwrzer inizia a praticare l’atletica leggera a 15 anni, gareggiando nel mezzofondo. Nel 2005 vince i campionati italiani nella gara dei 50 chilometri

L’ORO DI PECHINO - Il suo capolavoro Schwazer lo realizza ai Giochi Olimpici di Pechino nel 2008, dove vince il titolo nella 50 chilometri (foto) stabilendo anche il nuovo record olimpico della specialità in 3h37’09’’

LE DUE POSITIVITA’- Il 16 agosto 2012, durante un controllo a sorpresa, viene rilevata una sua positività al doping: riceve una squalifica di 3 anni e 6 mesi (a cui si aggiungeranno poi altri 3 mesi). Nel 2016 la seconda positività, che il campione olimipico ha sempre contestato, e che gli costa 8 anni di squalifica, che scadranno a luglio 2024

LA FAMIGLIA - Il 7 settembre 2019 ha sposato Kathrin Freund. Hanno due figli: Ida e Noah

La Corsa.

Nasra Abubakar Ali.

Jim Hines.

Beatrice Alfinito.

Usain Bolt.

Pietro Mennea. 

Filippo Tortu.

Samuele Ceccarelli.

Marcell Jacobs.

Nasra Abubakar Ali.

Estratto dell’articolo di Gianluca Cordella per “Il Messaggero” venerdì 4 agosto 2023.

Si può perdere con dignità, nello sport. Ma si può anche gareggiare senza averne. Sul perché la somala Nasra Abubakar Ali fosse ai blocchi di partenza delle Universiadi di Chengdu nessuno ha ancora le idee chiare. Non è un velocista, non è un atleta, non è nemmeno una sportiva nel senso più ampio del termine. E l'aver scelto di competere nei 100 metri, la gara regina, certo non ha aiutato a mascherare la magagna. Imbarazzante la performance che è diventata inevitabilmente virale.

[…] per vederla al traguardo bisogna aspettare l'eternità di 21 secondi e 81 centesimi. La vincitrice, la brasiliana Silva Mourao, ha corso in 11"58. […] Il verdetto è penoso: si tratta del crono più lento di tutti i tempi in una gara internazionale. E il governo somalo si infuria. 

DOCUMENTI FALSI Intendiamoci: non è che a Mogadiscio manchi la sportività, anzi. Il ministro dello Sport Mohamed Barre Mohamud tuona non per l'ultimo posto e, nemmeno, se vogliamo, per il tempo in senso stretto. […] il ministro, dopo aver chiesto scusa al suo Paese per la figuraccia («è una vergogna, per lei e per tutta la Somalia»), ha aperto un'inchiesta che, intanto, ha portato alla sospensione della presidente della Federatletica Khadija Aden Dahir.

L'accusa è di nepotismo, letterale: Nasra è sua nipote e non lo aveva nascosto quando aveva postato sui social una foto della ragazza «selezionata per le Universiadi».

Ma all'inchiesta sportiva ne seguirà anche una vera e propria perché l'associazione delle università somale ha chiarito di non aver selezionato proprio nessuno per le gare di atletica. E dunque dietro alla partecipazione della "velocista" c'è stata anche una falsificazione di documenti.

[…]

Jim Hines.

Addio a Jim Hines, il primo a scendere sotto i 10 secondi nei 100 metri. Ci riuscì sia nelle qualificazioni che nei Giochi Olimpici di Città del Messico 1968, dove mandò in tilt il contatore elettronico: "Nessuno poteva credere che un essere umano fosse così veloce". Paolo Lazzari il 6 Giugno 2023 su Il Giornale.

Nei verdeggianti cortili della McClymonds High School di Oakland non si parla d'altro. Quel diciottenne gioca a baseball, ma non pare essere quella la sua dote migliore. Perché gli sprint che Jim Hines compie da una base all'altra sono roba da pizzicarsi le braccia. Alza quantitativi industriali di polvere. Corre con una scioltezza imbarazzante. Così - l'anno di grazia è il 1964 - un allenatore lo avvicina vaticinando il suo futuro: "Guarda che sei un centometrista". Soltanto quattro anni dopo, ai Giochi Olimpici di Città del Messico, Hines infrangerà ogni record fino a quel punto conosciuto: viaggia sotto il muro dei dieci secondi e afferra l'oro. Come un allunaggio per la specie umana. Ieri ci ha lasciato all'età di 76 anni. E il ricordo di quella prima volta è tornato subito a bussare vivido.

Era nato in Arkansas, Hines, ma si era trasferito presto con la famiglia in California. Era lì che avevano iniziato ad apprezzarne le doti. Dinoccolato eppure compatto al contempo. Un alieno sulla pista. Apriva il turbo e molti saluti a tutti gli altri. Il primo pezzo della sua impresa si materializzò ai campionati nazionali di Sacramento, nel 1968. Corse con il tempo di 9''9, scendendo sotto la granitica barriera dei 10 secondi, a dire il vero assieme ai colleghi Charles Greene e Ronnie Ray Smith. Cronometraggio manuale. Il tempo miracoloso, soltanto suo, sarebbe stato questione di pochi mesi.

A Città del Messico strappò la medaglia d'oro mandando in tilt il contatore elettronico. Era il 14 di ottobre. Sfilò davanti al connazionale Greene e al giamaicano Lennox Miller affastellando una cadenza di passi dirompente. Dapprima il tabellone luminoso dello stadio lo certificò campione con il tempo di 9''99, lo stesso delle qualificazioni. Poi scese a 9''89. Quindi al tempo definitivo di 9''95. "Se hanno corretto il mio tempo è perché nessuno poteva credere che un uomo corresse così veloce", dichiarò in seguito. Fu, quella, l'Olimpiade della clamorosa denuncia extrasportiva. Del pugno serrato e guantato di nero sollevato contro il cielo da Tommie Smith e John Carlos. Hines conquistò anche l'oro nella staffetta 4x100 americana, ma restò decisamente al di fuori di ogni questione di natura politica e sociale.

Quel primato resse, inscalfibile, per quindici anni di fila. Servì l'impresa di Calvin Smith a Colorado Springs - era il 1983 - per scendere ancora sotto di qualche decimo: 9''93. Dopo, a dire il vero abbastanza clamorosamente, decise che era già arrivato il tempo per cimentarsi con qualcos'altro. Football americano, segnatamente. Non si rivelò una gran trovata. Jim venne ingaggiato da Miami Dolphins e poi dai Kansas City, ma non riuscì mai ad incidere. Fortissimo negli sprint non significa asso negli sport di contatto.

Pazienza. Il suo marchio comunque l'aveva già lasciato così impresso da provocare un sussulto sessant'anni dopo. La lunga corsa della vita è terminata. Il ricordo è destinato a restare in pista ancora a lungo.

Beatrice Alfinito.

Beatrice Alfinito morta a 34 anni campionessa di atletica dello sprint. Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 10 Maggio 2023.

È scomparsa dopo una terribile malattia la velocista umbra Beatrice Alfinito, che nel 2006 aveva gareggiato ai Mondiali juniores. A Natale l’ultimo post: «Se siete felici fateci caso». 

Una triste notizia per l’atletica italiana. È morta dopo aver combattuto a lungo contro una terribile malattia al midollo osseo la velocista umbra Beatrice Alfinito, azzurra specialista dello sprint a livello giovanile. Originaria di Città di Castello, Beatrice abitava nel comune di Sangiustino, nella frazione di Lama, e avrebbe compiuto 35 anni il 24 luglio.

Il suo ultimo post su Facebook risale a Natale: «Questi convulsi giorni di festa, in realtà per molti, moltissimi, sono giorni più difficili di altri. Sono giorni in cui pesano di più le mancanze (...). Io auguro a tutti, ma proprio tutti, che quel tanto o quel poco che in questo momento hanno possa stemperare il peso delle nostalgie, degli sconforti o dei dolori. E a quelli che invece, ‘forse come me’, hanno in questo preciso istante il culo di essere felici o per lo meno sereni di farci semplicemente caso». La felicità di Beatrice, però, è durata poco.

Nel 2006 fu convocata per gareggiare ai Mondiali juniores di Pechino, dove fu protagonista sia nei 200 metri sia nella staffetta 4x100 correndo in prima frazione. A livello giovanile, in forza alla Libertas Città di Castello, fu costantemente fra le migliori velociste italiane, con record personali di 12’’01 nei 100 e 24’’35 sui 200 metri, ma a livello assoluto la sua carriera era stata poi frenata da problemi fisici. Negli ultimi anni, poi, il sopraggiungere della malattia con la quale ha combattuto anche restando in pista. Il suo ex preparatore Gabriele Brachelente l’ha ricordata sui social con parole commoventi: «Meraviglia la chiamavo, per le sue grandi e bellissime capacità motorie ma non solo, scompare una velocista importante strozzata da questo cancro».

«Alla famiglia vanno le condoglianze del presidente della Fidal Stefano Mei, del Consiglio federale e di tutta l’atletica italiana», è il cordoglio della Fidal in una nota e profondamente toccato è stato il presidente della Fidal umbra Carlo Moscatelli che l’aveva vista crescere e migliorarsi in pista.

Usain Bolt.

Public Enemy. Il razzismo sistemico non risparmia neanche Usain Bolt. Michael Holding su L'Inkiesta il 27 Settembre 2023

Nel libro “In ginocchio ci ribelliamo”, Michael Holding, ex giocatore di cricket giamaicano, racconta come le discriminazioni verso i neri siano universali e condizionino anche la vita dei più grandi atleti del mondo

Usain Bolt, ancora un velocista in erba, ha circa vent’anni e si trova a Londra per un raduno di atletica. Ha un po’ di tempo libero, così decide di andare a fare shopping. Entra in un centro commerciale. Dopo un po’, si accorge che un addetto alla security lo sta seguendo. Strano, pensa, ma magari è solo una coincidenza. Poi entra in una gioielleria perché interessato all’acquisto di un orologio. «Ho detto alla donna dietro al bancone: “Mi piace questo qui… Quanto viene?”, e lei mi ha risposto: “Sicuro di poterselo permettere?”. Allora ho pensato tra me: Perché sta insinuando che non possa permettermi quest’orologio?».

«Oggi non mi succederebbe». Poco ma sicuro, direi.

Avevo all’incirca vent’anni anche io quando mi è capitata la stessa cosa. Chiesi di poter vedere un orologio in vetrina e, prima di tirarlo fuori, la commessa mi comunicò il prezzo con un tono che lasciava intendere che l’articolo non faceva per le mie tasche. Magari voleva risparmiarsi la fatica. Intercettai subito quell’atteggiamento e dissi subito: «Lo prendo», prima ancora che me lo mostrasse e solo per darle uno schiaffo morale. L’orologio costava più di quanto avessi intenzione di spendere, ma non le avrei mai e poi mai dato la soddisfazione di pensare: Eh, lo sapevo.

Coincidenze? Io non credo.      

Nel caso di Usain, si tratta di una storia ridicola e oltraggiosa dato che parliamo di una delle persone più celebri al mondo. Probabilmente il nero più famoso al mondo. La gente lo riconosce ovunque. L’uomo più veloce della storia. Qualcuno azzarderà anche che è uno degli esemplari fisici migliori di sempre. Eppure, all’epoca, c’è chi è riuscito nell’impresa di farlo sentire una nullità.

«Ricordo solo di aver pensato: Perché non mi fa vedere l’orologio e basta? Non capivo» dice. «In quel momento non ho capito subito che si trattava di razzismo, perché per me era la prima volta. Ma il ricordo del razzismo vissuto, in un certo senso, è un’esperienza di formazione e apprendimento. Magari ascoltando la tua storia qualcun altro ti risponderà che gli è capitato lo stesso. Come esperienza sarà stata spiacevole, ma condividerla può tornare utile. Ma quella prima volta lontano dalla Giamaica fu uno shock».

Usain quell’episodio se lo ricorda, come io ricordo il mio, per come ci hanno fatto sentire. Per come ci fanno sentire ancora adesso. Perché entrambi siamo stati trattati come subumani. Disumanizzati. […]

Ho avuto l’opportunità di rivolgere alcune domande a Usain subito dopo la sua guarigione dal Covid. Un bel tipo, tranquillo, proprio come lo descrivono. Il modo di porsi però stride con le sue parole, perché mi ha raccontato del dolore e della sofferenza per quello che i neri sono costretti a sopportare. Ci tenevo a mettere a confronto le nostre impressioni sull’infanzia trascorsa in Giamaica. Che tipo di educazione ha ricevuto? All’epoca, che idea si era fatto del razzismo? Cosa gli hanno insegnato a scuola? Ma soprattutto, ho percepito da parte sua un forte desiderio di pronunciarsi sulla questione della razza, tema su cui viene interpellato di rado.

«Fa male vederle, certe cose. Mi sanguina il cuore di fronte alle atrocità che ancora si consumano. Com’è possibile al giorno d’oggi? Siamo tutti sofferenti sul piano emotivo e psicologico».

Come sappiamo, Usain (otto ori olimpici) è tra i più grandi atleti di tutti i tempi e il velocista più forte mai esistito. Si distingue per la sua fama, le sue doti atletiche e il suo carattere. Va fiero della sua nerezza. E i neri vanno fieri di lui. Da uomo dalla natura quasi sovrumana incarna tutti gli obiettivi a cui i neri potrebbero ambire, se solo ne avessero la possibilità. Ma è proprio quella condizione semidivina a «proteggerlo» dal razzismo sistemico che i suoi fratelli invece devono sopportare tutti i giorni. A lui la parola «protezione» non piace.

«Non credo sia la definizione più adeguata. Ok, gli addetti alla sicurezza non mi tallonano più nei negozi. Magari non mi ritrovo in situazioni in cui rischio di essere aggredito personalmente o in cui un agente potrebbe inginocchiarmisi addosso e soffocarmi. Ma osservo ciò che accade intorno a me e, da nero, stento a credere che siamo ancora a questo punto. A livello mentale, ti condiziona come nient’altro. Con le cose che si vedono oggigiorno nessuno penserebbe “vabbè, tanto io sono protetto”».

Abbiamo goduto di un altro tipo di protezione, però. Per due giovani giamaicani episodi come quello dell’orologio sono state le primissime esperienze col razzismo. Forse potrà sfuggirvi il senso di quello che ci è capitato. Ma siamo cresciuti in un Paese dove, alla nostra nascita, il razzismo era pressocché inesistente. […]

Sia io che Usain abbiamo descritto il turbamento e l’inquietudine generati da quell’improvviso scontro con la realtà della vita. Non è sbagliato dire che, fino a quel momento, eravamo cresciuti in un ambiente tutelato. […]

«Siamo cresciuti in una zona rurale, il razzismo non sapevamo neanche cosa fosse» ammette. «Non ne avevamo mai sentito parlare. Il nostro era un ambiente centrato sulla comunità, sull’affetto, sul senso di unione. A quell’età non eravamo consapevoli di cos’era il razzismo. Eravamo solo dei ragazzini che si divertivano, giocavano a cricket, a football. In quel contesto di una comunità rurale, non avremmo mai potuto farne esperienza diretta».

Idem! Io e Usain abbiamo ricevuto la stessa educazione, nonostante ci sia una generazione a separarci. Eravamo di quei ragazzini che stanno tutto il giorno fuori a giocare, a tirare calci a un pallone, a far rotolare biglie, sempre in sella alle bici o impegnati a fabbricarci palle con scotch e fili, per giocare a Catchy Shubby – una variante del cricket piuttosto caotica, tanto che sembrava che a partecipare fossimo in venti o trenta. I nostri stumps erano vecchi bidoni, mentre Usain ne incideva tre nella corteccia di un albero. Le partite andavano avanti per ore. Al calare del sole le mamme ci gridavano di rientrare che la cena era in tavola.

I nostri compagni di giochi? Bambini quasi tutti uguali a noi, e se qualcuno non lo era neanche ci facevi caso. Eravamo solo dei bambini che giocavano. […]

Non pensavo mica: “Ah, non devono mescolarsi a noi perché il colore della loro pelle è diverso dal nostro”. […]

A scuola non ci hanno mai insegnato nulla sul razzismo, se escludiamo gli eventi relativi alla tratta degli schiavi. «La Giamaica è un’ex colonia» dice Usain. «Quindi la didattica risentiva dell’influenza coloniale. Del razzismo non ci hanno mai parlato, però».

Se volevi saperne di più, potevi sempre informarti da solo. E quando viaggi per il mondo ti viene voglia di approfondire certe cose. Osservi come funzionano le altre culture e ti scatta una curiosità innata. È successo anche a me, alla fine, per quanto abbia rimandato quella singolare rieducazione per troppo tempo. 

“In ginocchio ci ribelliamo”, di Michael Holding, 66thand2nd, 336 pagine, 17,10 euro.

Da ilnapolista.it il 21 aprile 2023. 

L’Equipe intervista Usain Bolt. Parla della frode bancaria di cui è stato vittima: un conto da 12 milioni di dollari svuotato da una società di investimento giamaicana ora sotto inchiesta da parte del governo e dell’Fbi e di altri temi. 

Chi è Usain Bolt oggi?

«Essenzialmente un padre. Ho ancora molti contratti pubblicitari, ma mi sto concentrando principalmente sui miei figli, cercando di essere il più presente possibile per loro». 

Qual è la tua routine quotidiana ora? Bolt:

«La mia routine è alzarmi quando i bambini si alzano. Mia figlia ha iniziato ad andare a scuola, si sveglia alle 7 e ce la porto io. Ma a volte andiamo anche in palestra insieme. Altrimenti, io e il mio compagno ci prendiamo cura dei bambini a casa. Ma abbiamo del personale che ci aiuta, quindi non è un’impresa insormontabile. Siamo molto casalinghi, è bello giocare con i bambini. Almeno quando si comportano bene (ride), perché uno dei miei ragazzi urla molto. Diciamo che mi insegnano la pazienza. In passato ho detto che non potrei mai essere un allenatore perché non ho la pazienza necessaria. Quattro o cinque anni fa ero piuttosto instabile e sono cambiato molto grazie a questo». 

Ti manca la corsa?

«Solo l’eccitazione della folla, in realtà. L’adrenalina delle grandi competizioni. Quando guardo le corse capisco perfettamente cosa sta succedendo, come ci si sente quando si viene chiamati, quando si entra in pista, quando si viene annunciati, quando ti metti nel tuo corridoio… Devi averlo vissuto per saperlo». 

Bolt spera ancora che i suoi record restino imbattuti ma riconosce che l’atletica è cambiata molto con la tecnologia.

«Di sicuro, con la nuova tecnologia, non è più la stessa. Vediamo che tutti i corridori hanno battuto i loro record di recente. Il livello dei velocisti è diventato davvero eccellente. Per molto tempo ho pensato che fosse impossibile vederli un giorno battere il record del mondo. Ma ora sto iniziando a dirmi che si sta avvicinando seriamente il momento!». 

A Bolt viene chiesto se considera Marcell Jacobs come suo successore. Risponde:

«Ha dimostrato di essere un “combattente”. L’ho incontrato ad un Gran Premio di Formula 1, a Milano o ad Abu Dhabi, non ricordo. Abbiamo parlato e ho visto quanto è determinato. Vuole lavorare sodo, è bello vedere persone così». 

Che sport pratichi?

«Solo calcio. Una volta alla settimana, con gli amici, solo per divertimento. E poi ci vantiamo per tutta la settimana. Ma ora ho davvero bisogno di tornare in forma per il Socceraid a Manchester, a giugno. Ho un piano per questo: andare in palestra regolarmente, giocare a calcio una volta alla settimana, andare in pista due volte alla settimana, fare giri per recuperare la capacità polmonare e sperare di durare 90 minuti. Perché lì, un quarto d’ora massimo e sono morto».

Sogni o a volte vivi nelle tue imprese passate? Bolt:

«Sognare, mai, ma ci torno attraverso le foto. Ne vedo molte online, pubblicate da persone che non conosco e ripenso alle circostanze: è particolarmente inquietante quando si tratta di foto di me giovane». 

Ai figli, però, non le fa vedere, dice. Sono ancora troppo piccoli. Di fatto ancora non sanno chi è stato il loro padre. gli viene chiesto se correrebbe i 100 metri oggi. Risponde:

«Sarebbe orribile. Morirei negli ultimi 30 o 40 metri».

Bolt continua a vivere in Giamaica e lì ha concentrato i suoi principali investimenti. Ammette che proprio per questo si è sentito tradito nel perdere 12 milioni. Spiega cosa è successo.

«Quello che è successo è che abbiamo investito in una banca, un’organizzazione finanziaria, e questa organizzazione ci informava regolarmente che tutto stava andando bene, che aveva investito in questo e quello, che stava diventando più grande. Ma alla fine mi hanno rubato i soldi. Boom, all’improvviso, annunciano che tutto è scomparso. “Mi scusi? Cosa intendi con “tutto è andato”? “I soldi sono spariti…”». 

Pensi ancora di poterli riavere?

«Vedremo. Siamo andati in tribunale…». 

Per fortuna, aggiunge:

«Siamo stati abbastanza intelligenti da diversificare i nostri investimenti».  

Quali eventi della tua carriera rimangono i più sorprendenti per te?

«Lo rimarrà sempre la mia stagione 2015. È stata un’estate orribile, stavo davvero lottando e molte persone ne erano felici. Ho dovuto affrontare la pressione che il mondo dell’atletica stava mettendo su di me per battere Justin Gatlin (campione olimpico 2008 nei 100 m, l’americano era tornato in cima dopo quattro anni di sospensione per doping), che correva così veloce allora. Passarlo sul filo dei Mondiali di Pechino è stato il mio più grande successo, il più difficile, pochi ci hanno creduto. Rimane ciò di cui sono più orgoglioso perché dimostra la mia forza mentale, la passione che mi ha animato. È la prova che vincere tutti questi anni non è stato così facile, ma che ho sempre saputo essere presente quando contava davvero».

E il tuo peggior ricordo? Bolt:

«Il mio ricordo peggiore sarà sempre la mia falsa partenza a Daegu (nella finale dei 100 m dei Mondiali nel 2011). Ma è stata anche una lezione essenziale. Poi, se parliamo di rimpianto, ho quello di non essere sceso sotto i 19″ oltre i 200 m. Potevo permettermelo. Ma avrei dovuto investire il mio corpo e la mia anima nell’atletica e non sono mai stato in grado di farlo. Non riuscivo a pensare a nient’altro che a quello tutto l’anno, atletica, atletica, atletica… Sarei impazzito. L’allenatore lo ha capito, mi ha sempre lasciato solo nelle sequenze in modo che potessi fare altre cose. Uscire, bere…». 

Hai ancora contatti nell’atletica?

«Non ne ho davvero così tanti. Continuo ad avere scambi con Wallace Spearmon (velocista americano specializzato nei 200 m, a cui era vicino), con Asafa Powell (suo rivale e amico giamaicano), con Wayde Van Niekerk (detentore del record mondiale sudafricano nei 400 m). Per quanto riguarda i giovani, ho cercato di parlare con loro, soprattutto con quelli dei Corridori (il club di coach Glen Mills, a cui apparteneva), su richiesta del coach, ma non ha funzionato. Hanno scelto di seguire il loro percorso così ho mantenuto una forma di distanza. Ma sono sempre stato chiaro che se volevano un consiglio, la mia porta era aperta per loro».

Sei deluso dai risultati degli attuali velocisti giamaicani? Bolt:

«Ovviamente! Quando vedo il talento che abbiamo, non capisco, è pazzesco. Temo che a volte siano un po’ pigri. E ne siamo responsabili. Quando ho iniziato, avevamo contratti così piccoli che dovevamo lavorare per vincere e ottenere offerte migliori. In questa nuova generazione, appena arrivata, gli atleti hanno già grandi contratti. Nella loro testa, sono già lì, non c’è bisogno di fare di più, non ascoltano più». 

Sei più eccitato dalla prospettiva dei Giochi Olimpici di Parigi il prossimo anno o dall’idea che il Manchester United possa riconquistare la Premier League?

«Voglio venire a Parigi per le Olimpiadi, con tutta la mia famiglia. I bambini saranno abbastanza grandi da accompagnarci. Voglio solo vederlo come spettatore, dagli spalti. Non ce l’ho fatta da quando sono andato in pensione, con il Covid. Voglio sentire l’eccitazione tra il pubblico, le vibrazioni dall’altra parte della barriera, essere un fan. Ma a dire il vero, sarei più entusiasta di vedere “Man U” vincere il titolo. Ne abbiamo bisogno». 

Prenderesti Kylian Mbappé? Bolt:

«Immediatamente! Ci permetterebbe di passare al 4-3-3, che penso sia auspicabile. Ten Hag sta facendo un ottimo lavoro penso. La squadra è tornata in pista, si sta costruendo qualcosa, ma avremmo bisogno di un marcatore molto regolare, questo è ciò che ci manca di più. Dopo di che, Mbappé non è Erling Haaland, il cui gioco è stato in grado di adattarsi rapidamente alla Premier League. Potrebbe aver bisogno di più tempo. Sarebbe molto atteso e molto stretto dai difensori, avrebbe meno spazio. Ma è un tale giocatore!».

Quindi sarebbe la tua prima scelta?

«Non lo so. Forse dovremmo avere più di un centravanti puro. Forse Harry Kane. È incredibilmente coerente. Mi dico che è ancora pazzesco segnare più di 20 gol a stagione pur sapendo che non vincerà mai il titolo se rimarrà al Tottenham».

Pietro Mennea. 

Nasce a Roma il museo intitolato all’indimenticato campione Pietro Mennea. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Marzo 2023

Una domenica a Tokyo alle fine della stagione 1980, mentre suoi colleghi e compagni di squadra andavano per sushi, chi per gadget tecnologici non ancora arrivati in Italia, Pietro Mennea trascurò tutto e si fece aprire lo stadio per allenarsi anche quel giorno poichè il giorno dopo doveva affrontare la gara dei 200. La vinse in 20.03, a fine stagione, a livello del mare: ha avuto ragione lui. L'uomo e l'atleta che solo con il "sacrificio" è diventato il Mennea che è stato, che è, e che sarà.

Sarà anche un museo, e proprio in quello Stadio dei Marmi, che è uno dei luoghi più suggestivi di Roma, nel parco del Foro Italico, che è idem come sopra, lo stadio che porta il suo nome. I lavori per il museo partiranno a breve e usufruiranno di parte del finanziamento di 80 milioni di euro versati dal governo a Sport e Salute nell’ambito del Pnrr. Il suo nome Mennea è diventato nel tempo un modo di dire: “E che sei, Mennea?”. Manuela, la moglie di Pietro Mennea, del quale ieri si è celebrato il decennale della sua scomparsa, ha raccontato di come suo marito lo immaginasse ed ha portato con sé due dei tanti tesori della “Freccia del Sud” come lo chiamavano nell’ambiente, ma una volta il campione pugliese, che sapeva essere ironico oltre che spigoloso, raccontò a una Coppa Europa che s’era sentito “la Freccia del Nord” in quanto gli unici italiani presenti erano più meridionali di lui, Ileana Ongar nata ad Alessandria d’Egitto e Marcello Fiasconaro che veniva addirittura dal sud che più sud non ce n’è, dal Sudafrica.

Nello stadio dei Marmi ieri mattina, in occasione del decennale della sua scomparsa, lo sport italiano e la città di Roma hanno ricordato (in una commemorazione intitolata ‘10.01. Mennea, l’uomo e il campione) il grande velocista azzurro, a cui verrà dedicato un museo all’interno di quell’impianto che già porta il suo nome.

Alla cerimonia, molto commossa e felice, era presente la moglie del campione azzurro di atletica – scomparso il 21 marzo del 2013 – Manuela Olivieri: “Sarebbe felice di vedere quanta gente è venuta oggi. Ha seminato amore durante la sua vita e ora le persone ancora lo ricordano dopo 10 anni. Pietro sarebbe orgoglioso di me, del lavoro che sto facendo per lui e per realizzare il suo progetto di un museo“. “Poi è andata così, lui non c’è più ma io mi sono sentita in dovere di portare avanti questa sua volontà. Quando stava male mi diceva di non mandare in malora tutto quello che avevamo costruito e allora ho tenuto duro. Fino a quando Sport e Salute non ha proposto questo stadio per il museo: ora abbiamo di nuovo questo sogno e sarà come lo vogliamo, rivolto ai giovani per renderli uomini valorosi come Pietro”.

Quei tesori d’oro erano la medaglia olimpica di Mosca ’80, che doveva essere la sola prescelta, e quella Europea di Roma ’74, che proprio ieri mattina ha raccontato le è sembrato da un qualche scaffale la guardasse e le dicesse “porta anche me“. Ed è stato giusto farlo: l’anno prossimo, dopo 50 anni, ritornano gli Europei di atletica a Roma, ma ecco anche il Museo Mennea, la cui inaugurazione è prevista in primavera.

C’erano anche altri ricordi che Manuela Mennea aveva con sé, insieme con i ricordi di una vita con suo marito Pietro, che profumavano di tenerezza. Partendo da un appunto, tra i mille ritrovati, perché Pietro ne prendeva sempre, un appunto che era una personale rivisitazione della poesia “If” (cioè “Se“), quella di Kipling nella quale invita il figlio a trattare tutto nello stesso modo; anche Mennea invitava a farlo, con la vittoria e la sconfitta, la felicità e il dolore, la speranza e il rimpianto. Per esempio un vecchio filmato (anno 2008) che riproponeva un incontro fra Pietro e Tommie Jet Smith, l’uomo cui Mennea sottrasse con la vittoria il suo precedente titolo mondiale.

A tutti avrei voluto toglierlo, meno che a lui” disse Pietro Mennea che ricordava la corsa da record di Tommie Jet Smith ai Giochi olimpici di Messico ’68 e quel suo annientare il razzismo, col pugno destro chiuso e guantato di nero, una vittoria aveva fatto penetrare ancora di più il virus dell’atletica nel sedicenne Mennea quel giorno impegnato in una gara di ragazzi a Termoli. Bella anche la frase di Pietro Mennea dopo il 10.01: “Peccato, potevo andare sotto i 10″. Lo stavano ad ascoltare gli studenti dello Iusm, Davide, Luca, Gerwin e gli altri, che magari non conoscevano i particolari ma conoscevano la leggenda. del ‘”E chi sei, Mennea?” che ha ricordato il presidente del CONI Giovanni Malagò ; e nel ricordo fatto da Franco Carraro che ha raccontato di quando “diceva di andare a casa dalla famiglia e invece andava a discutere la tesi di laurea” . Pietro Mennea ne prese ben quattro.

Anche il presidente Giuliano Amato ha sottolineato di come l’eccellenza dell’eccellenza l’Italia la si possa trovare sì nei suoi cervelli in fuga, ma soprattutto nei campioni dello sport che stanno e crescono qui, il ministro dello sport Andrea Abodi che ha parlato del coraggio, della testardaggine, dell’insegnamento di Pietro Mennea da portare nelle scuole parlando dell’iniziativa “all’insegna della tecnologia, oltre che dei cimeli” e sarà “un museo veloce e non stanco, che riaffermerà e difenderà i valori di Pietro. Mi piacerebbe che il suo esempio fosse una spinta per la nazione“. Il presidente di Sport & Salute Vito Cozzoli, pugliese anche lui, che conserva l’autografo che Pietro fece alla di lui mamma, professoressa d’inglese, sul biglietto di Roma ’74, un’altra chicca da museo, Un altro ricordo è un cimelio, un biglietto di invito alla cerimonia inaugurale degli Europei del 1974 con la firma di Pietro Mennea. “Lui è stato il campione del popolo. Le persone lo amavano, era per loro un modello e un esempio di riscatto sociale. La sua non è stata solo un’impresa sportiva“. il presidente della Fidal Stefano Mei ha ricordato che gli sembrava “una roba assurda” essere compagno d’azzurro di Mennea aggiungendo “Non riesco ancora a pensare all’atletica senza Pietro” , e Stefano Tilli ha rivelato che Pietro spegneva la luce sempre tardi per tener dietro ai libri.

Una domenica a Tokyo alle fine della stagione 1980, mentre suoi colleghi e compagni di squadra andavano per sushi, chi per gadget tecnologici non ancora arrivati in Italia, Pietro Mennea trascurò tutto e si fece aprire lo stadio per allenarsi anche quel giorno poichè il giorno dopo doveva affrontare la gara dei 200. La vinse in 20.03, a fine stagione, a livello del mare: ha avuto ragione lui. L’uomo e l’atleta che solo con il “sacrificio” è diventato il Mennea che è stato, che è, e che sarà. Nel suo museo e nel ricordo sportivo di tutti gli italiani che amano lo sport e chi indossa la maglia azzurra. Redazione CdG 1947

Quattro lauree, la politica e i 200 metri sotto i 20”: il Sud sfrecciava con Pietro Mennea. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 19 marzo 2023

Oro olimpico a Mosca 1980, quando morì, dieci anni fa, le Ferrovie gli dedicarono il primo «Frecciarossa 1000»

Diciannove e settantadue, un tempo entrato nella storia a Città del Messico nel 1979 quando un ragazzo bianco, italiano del Sud, corse i 200 metri scendendo sotto i 20 secondi. Un primato durato 17 anni e che ancor oggi resiste in campo europeo. Pietro Mennea, il ragazzo che non aveva piste a disposizione nella sua Barletta ma aveva lo stesso scelto di correre, e veloce, sfidando in strada le motorette sui 50 metri, entrava non solo nel Pantheon degli atleti, ma nella leggenda. Diventando un simbolo di riscatto con quei secondi guadagnati centimetro dopo centimetro con muscoli nervosi e volontà di ferro. “Freccia del Sud” fu subito soprannominato con titolo finito dritto in una fiction interpretata da Michele Riondino, mentre le Ferrovie gli avrebbero intitolato il primo esemplare di Frecciarossa 1000, con cerimonia davanti all’allora presidente Napolitano, il giorno della sua scomparsa, 21 marzo 2013.

Per trovare una pista su cui allenarsi, il giovane Pietro, futuro campione olimpico (a Mosca 1980, partenza lenta, rimonta finale in zona portento), ha dovuto trasferirsi a Formia e là, nella fabbrica dei campioni, impara «a farsi lanciare in avanti da un gigantesco elastico teso all’altezza dei reni» come ha scritto Gaia Piccardi sul Corriere nel 40° anniversario del record di Città del Messico. In quell’occasione Piccardi racconta di avere chiesto un ricordo al veneto Gianfranco Lazzer, velocista anche lui e amico: insieme in quella Universiade messicana conquistarono l’oro nella staffetta 4x100. «Schivo, allegro in compagnia, buono come il pane. Non è vera la leggenda del monaco sempre in astinenza: sapeva trasgredire, e lo faceva solo con me, bevendo birra. I bambini dovrebbero studiarlo a scuola», per la sua storia e la sua determinazione.

«Venti giorni prima di morire mi ha telefonato e non mi ha detto niente. Della malattia, delle cure, niente di niente. Era così. Come se dise? Riservato fino alla fine». Riservato ma anche inquieto: «Praticava la velocità come un lavoro», ha detto a Famiglia Cristiana Livio Berruti, il rivale di specialità che l’ha preceduto nel trionfo Olimpico del 1960 a Roma: « Era pragmatico, mentre io sono un idealista. Il nostro fu uno scontro come tra filosofi greci». Mennea era dotato di energia infinita: una laurea in Scienze politiche a Bari, su consiglio di Aldo Moro; poi in sequenza altre 3: Giurisprudenza, Scienze motorie e Sportive, Lettere. La politica, seconda grande passione, lo portò a candidarsi, oltre che in Europa, alle Politiche 2001, guadagnandosi la citazione nella canzone di Samuele Bersani Che vita!, che molto spiega dell’Italia di allora: «Mennea e Sara Simeoni/son rivali alle elezioni» (pure Sara, anche lei oro a Mosca 1980 nel salto in alto, flirtava con la politica). Ma il rovello numero uno per lui restava la corsa, grande artefice del suo riscatto. Si ritira e torna in campo, gareggia fino a 35 anni quando, in una chilometrica intervista a Gianni Minà, Finalmente corro per me, si chiedeva: È patetico seguire la propria passione oltre l’età? «Pensa che bello: questa volta non ho l’ obbligo di arrivare primo, ma solo il piacere di una sfida in teoria impossibile. Che gusto!».

Estratto dell'articolo di Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera” il 20 marzo 2023.

Domani sono dieci anni dalla morte di Pietro Mennea (21 marzo 2013). Manuela come verrà ricordato a Roma suo marito?

«Con un tributo voluto dal ministro Abodi. Iniziamo alle 10,01, il tempo di Pietro sui 100, allo Stadio dei Marmi. Ci sarà anche un video inedito, uscito dall’archivio di Gianni Minà: l’incontro tra Mennea e Tommie Smith alla Casa del Cinema, credo fosse il 2008. Aspetto gli amici e le persone comuni, che dieci anni dopo la sua morte ricordano ancora Pietro con affetto».

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 Dietro la maschera di serietà, sapeva scherzare.

«La leggerezza l’aveva dentro, ma non la mostrava per paura che fosse scambiata per debolezza. Con me se la permetteva. La cosa che mi manca di più è la condivisione.

Leggeva cinque quotidiani al giorno, più tutto il resto, incluso Cicerone. Stava su di notte, con la luce accesa, tenendomi sveglia. E quando si addormentava, al buio, cominciava il tonfo di libri e giornali che, girandosi, cadevano dal letto».

L’ossessione per la conoscenza: si è mai placata?

«Mai, era curioso di tutto. Aveva due passioni: l’attualità e la storia latina e greca. La quarta laurea, l’ultima, la prese in lettere a 50 anni. Perché Pietro, gli chiesi. Perché amo la materia, rispose. Era pazzo di mio cugino, che insegna storia greca alla Sapienza».

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 È vero che, quando vi conosceste tramite amici comuni avvocati, lei non sapeva chi fosse Mennea?

«A malapena. Mio fratello, che era un suo tifoso, mi mise una certa agitazione: vedrai che viene a prenderti con un macchinone... Arrivò con una Panda bianca, guadagnando subito punti! All’inizio ero refrattaria: lo vedevo così lontano da me. Siamo stati insieme sette anni, senza convivere. Poi ci sposammo in un mese, il giorno del suo compleanno.

Tempo dopo disse: se avessi saputo che sarebbe stato così bello, l’avrei fatto prima».

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 Jacobs, Tortu, la staffetta 4x100 oro ai Giochi di Tokyo. Sarebbe piaciuta a Mennea questa straordinaria generazione di velocisti che ha riscritto la storia del suo sport?

«Con Filippo siamo amici di famiglia, Pietro lo incontrò bambino in Sardegna; Jacobs lo avrebbe bersagliato di domande: come ti alleni? Quante volte? In che modo? Nulla si improvvisa nell’atletica. Quelli dell’Italia a Tokyo sono ori che arrivano da lontano. Pietro vinse la prima medaglia alla terza Olimpiade: dietro c’era l’impressionante mole di lavoro con Vittori, resta tutto scritto nelle sue agende. Avessi avuto io le leve lunghe di Bolt, scherzava, altro che 19”72 avrei fatto nei 200!».

Crede nel destino Manuela? È casuale che il record di Mennea sui 100 (10”01) sia stato battuto la prima volta proprio da Tortu (9”99)?

«Pietro lo stimava e apprezzava. Tutto ha un senso».

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 Le dispiace che Mennea non avesse un incarico nell’atletica italiana?

«Appena eletto presidente della Fidal, Alfio Giomi chiamò Pietro. Non puoi restare fuori, gli disse. Ma mio marito era già malato, impegnato nelle cure. Poi Giomi mi disse che avrebbe voluto dargli in mano il settore legale della Federatletica. Troppo tardi, purtroppo: Pietro avrebbe accettato. Poter offrire le sue competenze legali e in materia di sport lo emozionava. Quando assunse l’incarico di dg della Salernitana, per l’agitazione non dormì la notte».

 Sfatiamo qualche leggenda. È vero che rifiutò molti soldi per partecipare a un reality televisivo?

«La Fattoria gli offriva quanto non aveva guadagnato in vent’anni di atletica. Si divertì a rilanciare, contrattò per qualche giorno, ben sapendo che non avrebbe mai detto sì. Poi chiamò il responsabile della trasmissione: la ringrazio ma domani ho un convegno di avvocati europei in Cassazione, non mi sembra il caso. La dignità non ha prezzo».

 È vero che faceva una vita da asceta?

«Non beveva alcol né acqua gassata né bevande fredde ma mangiava come un lupo. Pasta al forno prima di un record italiano allievi: me lo raccontò ridendo».

 Per strada, se riconosciuto, si scherniva: non sono Pietro Mennea, sono solo uno che gli somiglia.

«Le gag erano varie. Lei si chiama come il campione? E Pietro: beato lui, che pensava a correre e basta».

Un figlio: ci avete mai pensato?

«Pietro si sarebbe sciolto: adorava i bambini. Di certo non avrebbe fatto il velocista: troppo peso addosso, con quel cognome. Ma una laurea, come minimo una, avrebbe dovuto prenderla».

Dieci anni senza Pietro Mennea, il signore dei duecento metri. Paolo Lazzari il 21 Marzo 2023 su Il Giornale.

Il 21 marzo del 2013 ci lasciava il più prodigioso tra i corridori italiani: l’oro olimpico, i record e la vita oltre la pista di un atleta entrato si scatto alla voce “mito” nel vocabolario del Paese

Tabella dei contenuti

 Dieci anni come ieri

 I primi successi, il flirt con i duecento metri

 Il record mondiale

 La preparazione maniacale e il trionfo più grande

 Oltre la pista, un uomo appassionato

Strada assolata. Nastro d’asfalto sobbollente. Il tramestio scomposto di quelle marmitte che producono una fuliggine tossica, armate da motori ruggenti. In mezzo lui: canotta d’ordinanza, fisico sottile, slanciato ma nemmeno troppo. Qualcuno fa partire un segnale. Sgasa la Porsche alla sua sinistra. Scatta l’Alfa Romeo alla sua destra. Lui però le brucia entrambe sul tempo. Poi corre in avanti, per cinquanta metri, divorandosi quel vialone conficcato nella pancia di Barletta. Arriva incredibilmente prima delle belve metalliche. Ora è piegato sulle ginocchia, il torace che si gonfia e si comprime ritmicamente. Pietro Mennea solleva lo sguardo, divertito. Scommessa vinta. Cinquecento lire in tasca. Andrà al cinema, portandoci di corsa i suoi svelti quindici anni.

Dieci anni come ieri

La notizia rimbalzò rapida come uno dei suoi sprint. Morire il primo giorno di primavera è un inaccettabile ossimoro. Una stagione riparte, mentre la tua volge ai titoli di coda decisamente troppo presto. Dieci anni fa come oggi Pietro Mennea correva altrove. Era il 21 marzo 2013 e gli articoli sulla sua scomparsa giunsero con tempismo tellurico, propagandosi da Roma in poi. Una malattia tenuta all’oscuro di tutti. Nove mesi di lotta prima di deporre le armi. Molti cassetti rimasti aperti a metà, colmi della vita straripante che c’era stata fino ad un attimo prima. Tutta quella gente abituata a ripetere mantricamente quelle quattro parole – Ma chi sei, Mennea? – quando vedeva qualcuno sfrecciare, improvvisamente disorientata. Perché nel sentore collettivo gli eroi mica possono morire mai.

I primi successi, il flirt con i duecento metri

Aveva iniziato nel 1968: fototessera per l’Avis Barletta e via a mulinare le gambe. Si era inizialmente cimentato con i cento metri, ma era emerso quasi subito nitidamente un sentimento ricambiato per i duecento. Era la misura che metteva più a reddito il fervore atletico di Pietro, capace di partire esplosivo e di tenere quella cadenza per tutto il tempo. Non a caso quattro anni dopo, ai giochi olimpici di Monaco di Baviera, piazzava un sorprendente terzo posto. Nel ’74, invece, quella distanza lo aveva promulgato oro ai campionati europei disputati a Roma, città che sapeva sedurre Mennea, amante abile a frequentarla nelle sue pieghe più sincere. Erano, quei primi traguardi tagliati con tutti quei fiati alle spalle, l’anticamera di qualcosa di meglio.

Il record mondiale

L’orizzonte di Mennea era troppo esteso perché duecento metri bastassero a contenerlo tutto. Conteneva moltitudini, Pietro, e correva da un interesse all’altro tentando di conciliarli tutti. Non aveva mai rinunciato a studiare. Anzi, alla fine del suo percorso avrebbe conseguito quattro lauree, districandosi tra mille impegni con la stessa intensità che lo aiutava a primeggiare in gara. Nel ’79 frequentava scienze politiche e correva. Allora l’avevano iscritto alle Universiadi. Un volo a Città del Messico, i pensieri tutt’altro che appannati dalla calura, saldamente connessi alla forza motrice che animava quelle gambe come eliche di aliscafi. Fluttuava letteralmente, Mennea, sulla pista centroamericana. E iniziava parzialmente a sorprendersi di quell’ardore belluino. Nuovo record mondiale: duecento metri in 19’’72. Ci sarebbe voluto Michael Johnson, molti anni dopo, per superarlo di un’incollatura. Iniziarono a chiamarlo “La freccia del sud”. Non era però un tiro scoccato per caso.

La preparazione maniacale e il trionfo più grande

Non erano il frutto di un qualche miracoloso allineamento celeste, quei risultati. Pietro lo confessava a chi gli stava vicino: era un campione che non si bastava mai. La costante percezione di non sentirsi all’altezza lo portava ad optare per allenamenti estenuanti. Si racconta che un giorno un tecnico, osservando la sua tabella di carico, sgranò gli occhi esclamando: “Ma è ancora vivo questo?”. Eppure, quella straordinaria forza motrice interiore, mista ad una fragorosa inclinazione naturale, lo condussero a fare incetta di trofei. Il più luccicante resta senz’altro l’oro olimpico afferrato a Mosca, nel 1980. Molto del suo universo interiore è racchiuso nello spazio angusto dei duecento metri di quella corsa. Allan Wells che lo sorpassa subito e pare avviarsi verso una vittoria certa. Pietro che non lo accetta, non molla e lo recupera, vincendo l’oro. Il manifesto di una tenacia che lo ha sempre sospinto.

Oltre la pista, un uomo appassionato

Smessi gli abiti da atleta, fuori dal perimetro sportivo della sua vita, Mennea era percorso da passioni carsiche: magari non trasparivano sempre, ma scorrevano incessanti. Tra le più potenti c’era senz’altro un vigoroso appetito per la conoscenza. Si laureò in scienze politiche, facoltà alla quale si era iscritto su consiglio di Aldo Moro, ma progressivamente ottenne anche i rispettivi titoli in giurisprudenza, scienze motorie e lettere. Divenne, in seguito, docente di alcune di quelle materie che aveva così ardentemente coltivato. Con la moglie Manuela Olivieri, sposata nel 1996, si occupò anche di condurre una class action per difendere un gruppo di risparmiatori precipitati nel crack della Lehman Brothers. Fu dunque avvocato, ma anche curatore fallimentare, eurodeputato e commercialista. Creò una fondazione benefica. Promosse una lotta senza quartiere al doping. Dietro l’atleta c’era un uomo animato da un giacimento interiore inesauribile.

Entrambi, lo sportivo e la persona, hanno saputo irrorare il cuore di chi è gravitato intorno. E forse, in fondo, è stata questa la sua impresa più grande: dieci anni come se fossero meno di dieci secondi.

Filippo Tortu.

Filippo Tortu, a "Stasera c'è Cattelan" sfida la metropolitana, ma è lui il più veloce. Impresa del velocista campione olimpico Filippo Tortu, che ha "sfidato" la metropolitana di Milano. L'incredibile risultato mandato in onda nel programma "Stasera c'è Cattelan su Raidue". Roberta Damiata il 10 Marzo 2023 su Il Giornale.

"Uomo contro macchina... e ha vinto l'uomo", commenta con queste parole il presentatore Alessandro Cattelan, l'incredibile impresa del campione olimpionico Filippo Tortu, il primo velocista italiano a scendere sotto i 10 secondi nei 100 metri piani, che partecipando alla sua trasmissione: Stasera c'è Cattelan su Raidue, ha addirittura sfidato la metropolitana di Milano. Un'impresa che ha un fortissimo valore simbolico, che, come sottolineato da Cattelan, mette in competizione l'uomo con la macchina, e mostra come nonostante sempre più spesso si parli di automazione in qualsiasi ambito, l'uomo rimane comunque insostituibile.

Nel suo programma: Stasera c’è Cattelan su Raidue, il presentatore invita ogni settimana personaggi del mondo della televisione, della musica o, appunto, dello sport, e durante l'intervista lo mette alla prova in una competizione che risulta estremamente divertente. Un modo goliardico e informale, proprio come ci si trovasse con gli amici al bar, per sfidarsi nelle maniere più disparate. Dal peperoncino più piccante del mondo fatto mangiare a Fedez, fino agli scherzi telefonici fatti fare all'attore Pierfrancesco Favino. Ma l'impresa portata a termine dal campione olimpionico Tortu, che insieme a Lorenzo Patta, Fausto Desalu e Marcell Jacobs ha vinto la medaglia d’oro nella staffetta 4x100 delle ultime Olimpiadi di Tokyo 2020, ha veramente avuto qualcosa dell'incredibile, emozionando non solo il conduttore e il pubblico presente, ma anche gli spettatori che hanno inondato i social con messaggi entusiastici.

Durante la puntata, Alessandro Cattelan lo ha invitato a sfidare la metropolitana di Milano: sceso alla fermata, è corso fino a quella seguente ed è arrivato in tempo per riprendere la metro dove lo aspettava il presentatore, tra gli applausi dei passeggeri. Il tutto in un minuto e 19 secondi. "Quando corro mi sento vivo, amo la competizione. L’atletica mi tiene sveglio la notte, è per me un sogno ad occhi aperti" aveva dichiarato il campione qualche tempo fa, e a parte il "simbolico" record fatto nel programma di Catelan, il 2023 sarà per lui un anno fondamentale, per cui l'atleta si sta allenando molto intensamente: "Penso a fine aprile oppure verso i primi di maggio correrò un 100 come test ma potrei anche fare un 200 se le sensazioni dovessero essere buone" ha preannunciato l'orgoglio italiano.

Samuele Ceccarelli.

Estratto dell'articolo di Marco Beltrami per fanpage.it il 7 marzo 2023.

 Samuele Ceccarelli non ci crede ancora, e quasi non riesce a parlare. Dopo aver trionfato agli Assoluti, il classe 2000 di Massa ha concesso il bis andando a vincere la gara dei 60 metri gli Europei Indoor, lasciando il secondo posto al connazionale e campione olimpico Marcel Jacobs. […]

Al contrario di "Cecca", Jacobs era sicuro che il suo giovane compagno sarebbe andato bene. Certo la sua speranza, senza ipocrisie, era che almeno non prendesse la medaglia d'oro: "Medaglia di Samuele? Su questo ne ero sicuro dopo la semifinale per quello che ha corso, si sapeva che era al top della condizione della forma. Ovviamente speravo che andasse a medaglia, ma non quella d'oro, lo devo ammettere. Almeno la medaglia è rimasta in casa e per altri anni avremo l'Italia come campione europeo, è stato bravo. Io ho dato tutto quello che avevo e ho fatto il possibile. Ma mi è arrivato davanti e sono contento per lui, un po' scontento per me".

Cosa dire dunque agli italiani davanti allo schermo? Bisogna essere orgogliosi di questa doppietta, con il futuro che sembra roseo anche se a livello personale bisognerà mettersi alle spalle i problemi fisici: "Agli italiani dico che mi ha battuto il campione europeo, tanto di cappello. Infortunio? Dolore che avevo già durante la semifinale, non ci ho pensato, […]".

Estratto da gazzetta.it il 4 marzo 2023.

Una finale dei 60 da sogno, un risultato storico: Samuele Ceccarelli è il nuovo campione europeo indoor in 6"48, Marcell Jacobs è d'argento in 6"50. L'Italia domina la finale veloce come mai prima d'ora.

 è senza parola Ceccarelli: "Prima volta che faccio l'Europeo, vincere addirittura... Quando mi hanno dato il pettorale blu di leader europeo mi sono un attimo irrigidito, ma ho continuato a correre contro me stesso. Il livello è altissimo, sono io il nuovo arrivato. I capelli da matricola? Mi hanno portato fortuna, ora però basta. Grazie a tutti". "Ceccarelli era al top della forma, speravo andasse a medaglia ma non d'oro. Almeno è rimasta in casa. Io ho dato tutto quello che avevo, ho fatto tutto il possibile. Mi ha battuto il campione italiano e campione europeo con il miglior crono continentale dell'anno. Ho dato il 110%, ora mi concentro sulla stagione outdoor e faremo grandi cose. Anche con la staffetta con questa new entry"

Paolo Camossi. Da gazzetta.it il 19 febbraio 2023.

Clamoroso ad Ancona: il nuovo campione italiano dei 60 si chiama Samuele Ceccarelli, ha 23 anni e arriva da Firenze. Nella finale dei campionati assoluti ha sconfitto il pluricampione Marcell Jacobs, 6"54 contro 6"55. Per il campione olimpico, allievo di Paolo Camossi, si tratta della seconda sconfitta di fila dopo quella di Lievin, nonostante il miglior crono stagionale e un'azione contratta negli ultimi metri.

Estratto dell'articolo di Cosimo Cito per “la Repubblica” il 20 febbraio 2023.

Sei secondi e 54 centesimi dopo aver ascoltato lo sparo, dopo aver visto Marcell Jacobs partirgli accanto, dopo aver morso la pista di Ancona a frequenze mai state sue prima, Samuele Ceccarelli […] È incredibilmente […], e non Jacobs, il nuovo campione italiano dei 60 metri indoor. […] . «Cosa mi ha detto Marcell dopo l’arrivo? Io lo ringraziavo — racconta Ceccarelli — e lui, scherzando: “Prima mi fai il culo e poi mi ringrazi?”. Realizzerò dopo una bella dormita. Ora non capisco più nulla».

Samuele Ceccarelli, 23 anni, di Massa, tesserato per la Firenze Marathon. […] Il nonno materno, Gastone Giacinti, portiere del Foggia in Serie A negli anni Settanta. Un passato nel karate, poi solo atletica dai 16 anni in poi. Un personale sui 60, prima del 2023, di 6”72, datato addirittura 2019.

 «[…] Jacobs ha vinto l’oro olimpico a Tokyo […] ha dato a tutti noi velocisti un orizzonte, un modello a cui ispirarci. Ero a casa, ricordo quella gara come una scossa elettrica, una folgorazione. Essergli accanto in pista è impressionante. Batterlo è oltre quello che avrei mai potuto sperare».

Ora è il terzo in Europa dell’anno e dal 15 gennaio ha ritoccato per sette volte il personale, migliorandolo di 18 centesimi. […] In meno di una settimana, dopo due anni da imbattuto e 20 vittorie consecutive, Jacobs ha perso due volte, prima a Lievin dal kenyano Omanyala, e ora agli Assoluti, pur con il personale stagionale (6”55). Una smorfia alla fine e un cerotto tirato via dalla coscia sinistra.

 «Fossero stati i 100, mi sarei fermato, ero in una condizione di corsa che ha evidenziato un problema da qualche parte» spiega il campione mondiale in carica della gara più breve dell’atletica, «brucia, non perdevo un titolo tricolore da una vita, ma non smetterò di mettermi in gioco». […]

«Con questo tempo, al momento, sarei a medaglia, ma quante cose devono succedere fino a Istanbul» aggiunge Ceccarelli. «In primavera poi voglio buttarmi nei 100. Ho un personale alto, 10”45. Voglio limare qualcosa. Attaccare i 10”? No no, è presto, […] Sembra facile, e invece è tutto un altro mondo».

Re dei 60 metri, adesso punta ai 100: "Marcell mi ha fatto i complimenti". Chi è Samuele Ceccarelli, lo sprinter italiano che ha battuto Jacobs: “Rinato dopo gli infortuni, mai mollare”. Redazione su Il Riformista il 5 Marzo 2023

Ha 23 anni, studia giurisprudenza e da ieri è il nuovo campione europeo dei 60 metri. Agli Euroindoor di Istanbul Samuele Ceccarelli ha bissato il trionfo ai campioni italiani di Ancona, precedendo Marcell Jacobs, campione in carica e oro alle olimpiadi di Tokyo nei 100 metri.

Un successo inaspettato perché avvenuto al debutto ai campionati europei. Dopo aver dominato le semifinali con il miglior tempo europeo dell’anno nonché quinta prestazione di sempre nel Vecchio Continente (6″47), Ceccarelli in finale si è imposto con il tempo di 6″48 davanti al compagno di squadra e campione uscente che non va oltre il crono di 6″50.

Nato a Massa Carrara, il 23enne sprinter italiano, che studia per diventare avvocato (come il padre) o giudice e a 16 anni è passato all’atletica dal karate, è sorpreso dopo l’oro europeo. “Non so cosa dire, sembra monotono ma non me l’aspettavo ma è la verità. In campo siamo tutti rivali. Una bella soddisfazione, è la prima volta che prendevo parte ad una competizione europea e ho vinto. Forse tra un mese avrò realizzato tutto questo”, ha dichiarato subito dopo la gara.

Gli avversari erano tutti grandi campioni, sono io il nuovo arrivato”, ha spiegato. “Da stamattina alle 9, fino a stasera alle 21, sono state dodici ore di gare e di attesa. È stato difficile ma ho cercato di raccogliere tutte le energie possibili e di dare il meglio. I tempi di 6.47 e 6.48? Sono prestazioni che arrivano da mesi di lavoro senza intoppi. Negli ultimi anni, purtroppo, sono stato frenato dagli infortuni che mi hanno tenuto fermo a più riprese, per cui non sono mai riuscito a completare un vero e proprio ciclo di allenamento. Invece quest’anno sono riuscito a preparare bene le indoor e il risultato è arrivato. Spero si possa continuare su questo livello di preparazione”.

Chi è Samuele? Sempre il solito: un ragazzo tranquillo, con i piedi per terra, a cui piace chiacchierare. Al debutto in Nazionale è incredibile vedere intorno a me tutti questi visi conosciuti ma sconosciuti: tutti i miei compagni li ho sempre visti gareggiare ma non ne conoscevo molti di persona”.

Ceccarelli ringrazia soprattutto l’allenatore Marco Del Medico: ”Ha la pazienza di starmi dietro giornalmente a Pietrasanta. Lui sa bene che sono un po’ duro a volte e che per farmi entrare le cose in testa ci vuole un po’. Ma spero di seguire ancora a lungo i suoi consigli”. E adesso? ”Voglio continuare a migliorarmi, soprattutto nei 100 metri. Per i 200 invece c’è ancora tempo. Ed è molto più divertente quando si vince. Credo sia importante ricordare a tutti, e a me stesso, che quando si crede in qualcosa non bisogna mollare. Negli ultimi anni non è stato facile, però crederci sempre ha fatto la differenza”.

Dov’eri il 1° agosto 2021?’, chiede il cronista. ”Ero a casa, con i miei, a guardare la televisione, incredulo come oggi – risponde Ceccarelli – L’oro di Jacobs mi ha dato una bella botta di energia, il suo risultato è qualcosa di storico. Non solo a me, ma a tutta Italia: ha dato una propulsione all’atletica e si vede anche dalla risonanza mediatica che sta avendo il nostro sport, esempio ne sia che le gare di oggi sono state trasmesse su Rai 2, quindi un canale generalista e non dedicato allo sport. Marcell oggi mi ha fatto i complimenti, era contento per me. Ovviamente durante quei sei secondi ognuno corre per sé e siamo tutti avversari, ma il capitano mi concederà l’espressione di ‘fratellone’. Non si è risparmiato, tra chiacchiere e consigli. Ha fatto la differenza. Un atleta della sua esperienza non può che giovare a tutti”.

I complimenti arrivano anche dal campione olimpico Marcell Jacobs, deluso dalla propria prestazione: “Ero sicuro che era al top della condizione, ovviamente speravo andasse a medaglia ma che non fosse quella d’oro. Ma almeno l’oro è rimasto in casa. Io ho dato tutto quello che potevo, purtroppo lui mi è arrivato davanti, sono po’ scontento per me ma sono contento per lui. Tanto di cappello”, ha aggiunto ma “avevo un piccolo dolore, non ci ho pensato e mi sono buttato sulla finale anche con il rischio di non arrivare in fondo. Se non ci fosse stato lui avrei vinto di nuovo, ma ha vinto e va bene così”, ha detto ancora Jacobs. “Ora pensiamo alla stagione all’aperto con i Mondiali, abbiamo una staffetta in cui possiamo fare grandi cose. Sono contento per la squadra, è un onore essere il capitano”, ha concluso l’azzurro.

Marcell Jacobs.

Estratto dell'articolo di Marco Bonarrigo per il Corriere dello Sport mercoledì 27 settembre 2023.

«Sono l’unico a trovare assurdo che Jacobs vada negli Stati Uniti? A considerarlo un enorme smacco per lo sport italiano, equivalente all’affidare la Nazionale di calcio a un ct straniero? Nessun atleta azzurro emigrato negli Usa ha mai combinato nulla, tanti di quelli che sono venuti da noi dall’estero (da Fiona May ad Andy Diaz) sono invece diventati fuoriclasse grazie a una scuola tecnica di eccellenza assoluta. E poi, scusate, ma prima di autorizzare qualcuno a scegliere un determinato allenatore non bisognerebbe magari dare un’occhiata al suo profilo su Google per vedere se ci sono problemi?».

Il disagio degli allenatori dell’atletica italiana contro la decisione di Jacobs di scegliere Rana Reider (avallata e finanziata da Fidal e Fiamme Oro) ha la voce senza censure di Stefano Tilli, guru dello sprint italiano. Gli altri la esprimono dietro un rigoroso anonimato. […] 

Riassumendo, Jacobs ha lasciato dopo 9 anni Paolo Camossi scegliendo, su indicazione dello sponsor Puma, un coach che negli Usa sta scontando «un periodo di messa in prova per una relazione impropria con una giovane atleta», a cui World Athletics inibisce il pass per i Mondiali e che vanta nel curriculum un’atleta (Blessing Okagbare) coinvolta in un caso di doping pesante. […]

[…]Tilli riporta la questione sul piano tecnico. «Se Marcell cercava una gruppo di sparring partner di alto livello — spiega l’ex sprinter — poteva trovarsi con gli altri azzurri a Formia per dieci giorni al mese, come facevamo io, Mennea e Pavoni. Non c’è uno degli atleti rimasti con Reider che sia reduce da una stagione positiva. E poi c’è il discorso dei servizi che offre l’Italia: Marcell che ha bisogno costante di esami diagnostici al Giulio Onesti li faceva dopo poche ore. Negli Usa, e lo dico per esperienza, per un’ecografia ti devi mettere in fila anche se ti chiami Carl Lewis» .

Marcell Jacobs, la moglie, la ex e la madre. La famiglia e gli amori del «Mamma’s boy» che sogna di battere Bolt. Elvira Serra su Il Corriere della Sera l'1 Maggio 2023 

La lite domenica tra Renata Erika Szabo e Nicole Daza, sotto gli occhi di Viviana Masini, la mamma che ha parlato di «cordone ombelicale tagliato a 18 anni» (ma lo sente almeno tre volte al giorno). E oggi Jeremy, il primogenito, è un campioncino: ha debuttato il 2 aprile

Non è difficile immaginare la «resa dei conti» tra Renata Erika Szabo, ex compagna di Marcell Jacobs e madre del suo primogenito Jeremy di 8 anni, e la moglie del campione, Nicole Daza, mamma dei suoi figli più piccoli, Anthony, quasi 4, e Meghan, due e mezzo. Tutto sotto gli occhi della mamma del campione, Viviana Masini. Ammesso e non concesso che le cose siano come le ha raccontate Szabo su Instagram — («Sono stata aggredita dalla mia ex suocera con parole che non starò ad elencare qui»; «La moglie di lui (Jacobs, ndr) da dietro mi ha aggredita tirandomi i capelli davanti a mio figlio») — poiché di questo si sta occupando il Commissariato di Desenzano dove domenica lei avrebbe sporto denuncia per aggressione, può valere la pena chiarire pesi e ruoli nel gineceo del Re di Olimpia, a partire da quello innegabile che ha avuto e continua ad avere sua madre, la donna che lo partorì a El Paso alle 6.30 del mattino con 4 spinte all’età di 22 anni — era il 26 settembre del 1994 — accanto a papà Lamont, assenza fissa nella vita del doppio oro di Tokyo che adesso punta a superare i 9.58 di Bolt.

«Mamma’s boy»

Mamma’s boy, come lo soprannominarono i parenti paterni nel 2008 a Orlando, quando Marcell andò a trovarli per stare un po’ anche con il padre di cui però non riusciva a capire le domande («Mamma, cosa ha detto?»), ha sempre avuto come unico punto di riferimento Viviana. È con lei che ha lasciato l’America a poco più di un mese perché il padre doveva partire per una missione. È lei che ha avuto al fianco a nove mesi, quando gli diagnosticarono un sospetto tumore cerebrale (ma era solo un’infezione del fegato causata dalla puntura di una spina di rosa). Lei che ha diretto la sua vita, scegliendo sempre il meglio possibile, date le circostanze, quindi l’Italia, la prima sistemazione vicino ai nonni materni, a Castiglione delle Stiviere, dove Marcell bambino si allenava alla velocità come una «motoretta umana» (copyright nonno Osvaldo), mentre correva come un pazzo fingendo di avere le ruote ai piedi.

Il matrimonio sul Garda

È stata Viviana a spronarlo, a spingerlo, a pungolarlo. A far arrivare nonna Claudia dall’America per il suo decimo compleanno, poiché si era messo in testa di essere stato adottato (quei giorni Marcell trascorse tutto il tempo attaccato alla sua gonna). È stata lei ad accettare che il figlio si trasferisse a Gorizia per allenarsi con Paolo Camossi: «Aveva 18 anni ed è cominciato il taglio del cordone ombelicale», raccontò al Corriere. Ammettendo anche di sentirlo sempre almeno tre volte al giorno. E se parte di questa storia è stato il velocista a ricordarla nella sua autobiografia Flash (Piemme), il resto è cronaca. Come quella del matrimonio di Marcell con Nicole Daza. Celebrato il 17 settembre 2022 nella Torre di San Marco a Gardone Riviera, ha avuto Viviana Masini come grande cerimoniera, artefice della riunione di famiglia del mattino che aveva messo insieme nel giardino di Villa Athena a Desenzano i parenti della sposa, arrivati dall’Ecuador, e quelli dello sposo, venuti dall’America. Quando la cronista che scrive si infilò, non invitata, alla festa, fu proprio la madre dello sposo ad accompagnarla metaforicamente per l’orecchio (ma poco ci mancava) fino al cancello, prontamente chiuso dopo l’intrusione.

Viviana e Nicole

Viviana ha sempre saputo che quel figlio pigro avrebbe fatto qualcosa di grande. Oggi lo assiste sul piano manageriale, mentre uno dei due figli avuti dopo Marcell, Nicolò (l’altro è Jacopo), ne cura i social. Della moglie di Marcell pensa solo bene: «Nicole è una donna intelligente e capace ed è molto di polso, l’ammiro tanto. Ha quell’energia che dà una spinta in più a Marcell che, a parte in pista, è davvero l’uomo piu lento di questa terra. Sono molto contenta di questo matrimonio perché Nicole completa Marcell. Riconosco in lei quella vena di pazzia che avevo anch’io da giovane».

Il colpo di fulmine

E qui bisogna parlare di Nicole, «matta» abbastanza da lasciare la sua famiglia e il lavoro a Novi Ligure per seguire Marcell fino a Roma. Non proprio un salto nel vuoto, ma un colpo di fulmine per certo. Si conobbero in una discoteca a Milano durante le vacanze di Natale del 2017. Come ti chiami? Nicole. Un selfie, lo scambio dei numeri e un anno e mezzo dopo, il 6 giugno 2019, nasceva già Anthony, il loro primo figlio insieme. Meghan sarà concepita poco dopo, a Capodanno, e nascerà a settembre del 2020. Il coronamento di tutto questo amore arriva il giorno delle nozze, in un bianco spettacolare di pizzo, con Anthony che consegna le fedi (poco convinto) al padre perché raggiunga l’anulare della madre. Assente ingiustificato Jeremy, non pervenuto tra gli invitati. Si sussurrava perché Nicole non ne gradisse la presenza, ma nessuna fonte ufficiale ha mai confermato questa versione.

Il primogenito

Di Jeremy sappiamo quello che ha detto il padre e quello che pubblica sui social la madre. È nato il 14 dicembre del 2014, quando Marcell aveva 19 anni, ancora un ciuffo di capelli in testa e frequentava l’ultimo anno delle superiori. In Flash ha scritto: «Jeremy mi somiglia, corre e salta come un matto. La sua nascita mi ha aiutato a trovare la mia strada, mi ha reso più responsabile, mi ha spinto a prendere la decisione giusta, a capire che volevo essere un’atleta, a dare una regola alla mia vita». Purtroppo con la madre i rapporti si sono incrinati pochi mesi dopo. Tempo fa lei si lamentò del fatto che cotanto padre non pagasse gli alimenti al figlio (lui smentì le accuse). Oggi Jeremy è un campioncino in pista (ha fatto la sua p rima a gara di lancio della palla, il giavellotto dei bambini, lo scorso 2 aprile al campo sportivo Tre Pini di Chiari con la maglia dell’Atletica Desenzanese) . Domenica pomeriggio, durante il meeting di atletica «Gardastars», dopo aver presentato la Jacobs Academy Sport, il velocista avrebbe voluto avere anche il primogenito vicino alla premiazione. Renata Erika, però, non era stata invitata. Dopo la lite con l’ex suocera e con la moglie di Jacobs, ha scritto su Instagram: «Jeremy ha iniziato a urlare, voleva andare via da lì, era terrorizzato. Una vergogna!». Per tutti, effettivamente.

Estratto dell'articolo di Luca Bertelli per corriere.it il 2 maggio 2023.

Una a Roma, Nicole Daza: lei è la moglie di Marcell Jacobs e la madre di Antony e Megan. Una a Desenzano, Renata Erika Szabo: lei è la compagna, ora modella, da cui il campione olimpico […] ebbe (giovanissimo) il primogenito Jeremy, che ora ha quasi nove anni. Ne avevano entrambi circa 19, all'epoca: qualche anno dopo, Jacobs si è allontanato da lei e dalla provincia di Brescia per maturare come atleta[…]. 

Renata Erika e Nicole, due rette parallele sino alla lite di domenica

Lei e Renata Erika, prima dell'alterco conclusosi domenica con una denuncia per aggressione, sporta da quest'ultima nei confronti di Nicole, erano due rette parallele che non si erano mai realmente incontrate. […] Lo scorso weekend, l'evento era importante per tutta la galassia Jacobs, spostatasi al gran completo da Roma a Desenzano: l'atleta e mamma Viviana si sono impegnati in prima persona per ridare al paese una nuova pista d'atletica che consentisse ai bambini del paese di poter inseguire il proprio sogno, come avvenuto per l'uomo più veloce del mondo che ha creato una Academy in cui lo sport si unisce al sociale. […]

La prima delle due giornate di gare era scivolata in un clima di apparente tranquillità, ma un post social di Renata Erika nella notte tra sabato e domenica aveva riacceso dissapori mai sopiti. «Fino ad oggi […] mi sono chiesta perché a 20 anni mi sono ritrovata a crescere un figlio da sola e non sono riuscita a dargli un padre presente, che lo ami alla follia come meriterebbe. Ho sempre sperato che un domani potesse svegliarsi da questo sogno o incubo. Oggi è stata una giornata che mi ha fatto capire molto cose e mi è servita tanto: ho capito quanto siamo in realtà fortunati io e il mio bambino a vivere una vita vera e felice: quel mondo finto non ci appartiene, fino ad oggi speravo in qualcosa che in realtà non esiste ma ho capito quanto in realtà stiamo meglio senza».

Domenica, nella seconda e ultima giornata di gare (e del soggiorno gardesano dei Jacobs, rientrati il Primo maggio a Roma con il proprio staff per riprendere gli allenamenti), il casus belli. La madre fuori dalla pista, senza permesso per entrare: il figlio Jeremy dentro, vicino al padre per le premiazioni, ripreso anche dalle telecamere «pur avendo avvisato tramite avvocati - queste le parole di Renata Erika - e di persona quanto fossi contraria a questo». 

 Poi, lo screzio tra la donna (nel frattempo entrata in pista) e i Jacobs, che nelle ultime ore - l'unica dichiarazione ufficiale resa sin qui - hanno tuttavia tenuto a specificare al Corriere che i Carabinieri di Desenzano non sono dovuti intervenire sul posto per sedare il litigio: l'ex compagna di Marcell sostiene che il figlio volesse solo passare del tempo con il padre e sia stato invece inserito all'interno di un cerimoniale, per questo avrebbe deciso di portarlo fuori.

 Un gesto che avrebbe però innescato la reazione di Viviana, madre del campione, e dello stesso atleta: tuttavia, quando la nonna stessa di Jeremy stava riportando tutti alla calma, cercando di spostarsi con il figlio e la sua ex compagna in un luogo privato affinché si potesse discutere con maggiore lucidità e compostezza, sarebbe arrivata - sempre secondo la versione di Renata Erika - la lite con Nicole, rea di aver prima apostrofato l'ex compagna del marito e poi di averle tirato i capelli davanti a Jeremy, che avrebbe chiesto così alla madre di portarlo via.

Poco dopo, nel pomeriggio, la denuncia verso la signora Jacobs ai Carabinieri di Desenzano: «Un comportamento del genere - la sua dichiarazione via social nella serata di domenica - era inaccettabile e vergognoso: si è trattato di violenza gratuita». Ieri, sempre su Instagram, Szabo ha poi rincarato la dose dopo aver ringraziato chi le è stata vicino: «La cosa più grave - ha affermato - è che tutto è accaduto davanti agli occhi di un bambino rimasto terrorizzato. E gravi sono soprattutto le minacce del padre: procederò tramite vie legali». La querelle continua. Le divergenze, e le versioni contrapposte, anche. 

Estratto dell'articolo di Luca Bertelli e Valerio Morabito per corriere.it l'1 maggio 2023.

[…] c’è stato un diverbio particolarmente acceso tra la ex compagna del velocista, Renata Erika Szabo, e la moglie Nicole Daza . Un litigio che ha spinto Szabo (madre di Jeremy, 9 anni, il primogenito di Marcell Jacobs) a presentare una denuncia per aggressione nei confronti di Nicole Daza.

Il diverbio

Come riportato sul proprio profilo Instagram, Szabo ha raccontato che prima «non mi hanno fatta «entrare dal cancello, non avendo un permesso» e in seguito «mentre stavo parlando con mio figlio (che era insieme al padre per le premiazioni, ndr) sono stata aggredita dalla mia ex suocera». Poi, per risolvere la situazione in privato, Erika, Marcell e la madre del campione si sarebbero spostati in un ufficio.

Ma a questo punto, secondo Szabo, ci sarebbe stato il faccia a faccia tra le due donne. «Ha cercato di attaccarmi verbalmente – dice l’ex compagna di Jacobs, riferendosi a Nicole Daza – e poi mi ha aggredita tirandomi i capelli». Sul posto è arrivata anche una pattuglia del Commissariato di Desenzano: proprio al Commissariato, Szabo ha presentato poi una denuncia per aggressione nei confronti di Daza.

Da "Chi" il 4 gennaio 2023.

«Jeremy ha sette anni e patisce l'assenza di suo padre»: il padre in questione è Marcell Jacobs, medaglia d'oro olimpica nei 100 metri e nella staffetta 4x100, l'uomo che ha fatto sognare l'Italia la scorsa estate alle Olimpiadi di Tokyo e che resta un eroe anche per il figlio Jeremy, 7 anni, avuto dalla ex compagna Renata Erika Szabo. 

Un eroe, e un padre, che però è assente dalla vita del figlio. Lo denuncia l'ex compagna in una lunga intervista al settimanale Chi, la prima mai concessa alla stampa. «Jeremy ha compiuto 7 anni lo scorso 14 dicembre», racconta Renata a Chi, «ma non abbiamo ricevuto la telefonata del papà. Poteva mandare un vocale o un messaggio scritto perché Jeremy è capace di leggere. Invece, niente.

Solo a Natale abbiamo ricevuto la telefonata della nonna paterna, che poi gli ha passato il papà che gli ha fatto gli auguri. Nostro figlio vede il suo cuginetto che aspetta il suo papà alla finestra e quando Jeremy sa che il papà deve arrivare, fa la stessa cosa. Peccato che poi Marcell, invece, non arrivi mai». 

L’assenza dell’oro nei cento metri a Tokyo si è fatta sentire proprio il giorno in cui è rientrato dalle Olimpiadi: «In teoria Jeremy doveva andare a prenderlo in aeroporto a Roma con tutti i familiari», rivela l'ex compagna.

«Peccato, però, che il giorno prima che lui atterrasse, la nonna mi abbia mandato un messaggio per dirmi che Jeremy non poteva andare perché per lui non c'era posto in macchina. Questo non è giusto. Quando ci si lascia con la compagna, non si dovrebbe lasciare anche il figlio.

Jeremy non c'entra niente: Marcell resterà sempre suo padre e lui ha bisogno del papà. Marcell all'inizio veniva anche un po’ a trovarlo, poi hanno iniziato a passare le settimane e poi i mesi. Non c'era l'ombra di una regolarità. E ha smesso anche di pagare il mantenimento per il figlio, per un anno non ha pagato niente e parliamo di 300 euro». 

Marcell Jacobs: «Voglio essere ricordato nei libri di storia. Il record di Bolt? Non mi pongo limiti». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 17 Aprile 2023.

Il campione olimpico di Tokyo si racconta, dalla sconfitta con Ceccarelli ai programmi futuri: «Il record di Bolt? Non mi pongo limiti, sono scaramantico ma sulla sveglia, al mattino, vedo sempre 9.56, non è un caso»

Marcell Jacobs, doppio oro olimpico a Tokyo, quando debutterà all’aperto?

«Non abbiamo ancora messo in calendario la prima gara, ma non sarà prima della fine di maggio o primi di giugno».

Cosa le ha detto che già non sapesse la sconfitta con Ceccarelli all’Europeo indoor?

«Tutte le cose che succedono, positive o negative, sono un insegnamento. Colgo questa sconfitta, una sconfitta tra virgolette perché è pur sempre un argento per l’Italia, come uno sprone: ci sono sempre cose che non vanno come vorresti. Stiamo lavorando sodo per arrivare pronti all’obiettivo: il Mondiale».

Come si gestiscono le fragilità di uno sprinter?

«Noi sprinter non ci reputiamo atleti fragili, lavoriamo ogni giorno in palestra e in pista portando il corpo al limite. È normale che si crei qualche complicanza, è lo sport».

Correrà la staffetta?

«Certo. Sicuramente in Coppa Europa e ai Mondiali. A fine mese avremo un secondo raduno, poi spetterà al tecnico della Nazionale, in base alla programmazione che faremo con lui, decidere dove sarà più opportuno gareggiare. A Parigi correrei volentieri la 4x100 se lo consentissero i tempi, visto che dovrei anche correre i 100. Vogliamo tutti la stessa cosa: vincere ancora per l’Italia».

La stagione indoor le ha dato sensazioni miste.

«Venivo da tanti mesi senza gare, dovevo sciogliere le tensioni emotive. Iniziare vincendo, a Lodz, fa sempre bene. Se corro come so, sui 60 dovrei stare sotto i 6”50 fisso. Però in allenamento tante cose si vedono, altre no: emergono in gara. Nei test erano usciti tempi che nemmeno prima dell’oro Mondiale indoor di Belgrado avevo fatto. Ma la preparazione è finalizzata sui 100 di Budapest».

172 giorni senza gare, in effetti, sono tanti. Troppi?

«Mi è mancata l’adrenalina, il mettermi in gioco. La gara è la verifica del lavoro. A me piace tutto il pacchetto: riunire il team, il viaggio, entrare nel mood. Quest’anno voglio scatenarmi in Diamond League. Ballano Rabat e il Golden Gala: se debutto in Marocco, faccio tutte e due».

È stato innovatore anche nel raduno autofinanziato, a Dubai, ospite del principe .

«Mi ha invitato nel suo centro sportivo, mi ha detto: questa è casa tua. Ci siamo trovati bene, avevamo tutto. Siamo sempre stati attenti a non pesare troppo sulle spese della Federazione: quest’anno abbiamo cercato di non pesare per niente».

Obiezione: non è stato troppo solo per un mese? Non le è mancato il confronto, che poi si è riflesso nelle indoor?

«Mah, anche a Tenerife mi allenavo prevalentemente da solo. Venivo da un momento in cui volevo allontanarmi da tutto: attenzioni, stress, selfie. A Dubai sono entrato in una bolla, ho pensato solo ad allenarmi. È arrivato Faggin, campione junior dello sprint, e ho sfidato Alberto, il mio fisio, che prova a starmi dietro».

Tra indoor e outdoor, è ripartito il mondo. E le provocazioni degli americani.

«Ci vedremo in pista. Lyles sui 60 mi ha impressionato: si vede quanto ha lavorato. E occhio a Micah Williams, un classe 2001».

Lyles sui 100 è una buona notizia?

«Anche l’anno di Tokyo voleva doppiare, poi non ci è riuscito. Sui 200 è a un livello per cui non ha tanti rivali ma sui 100 cambia tutto: c’è molta più competizione. La sua idea di arrivare doppiando ai Trials, che per lui sono come un’Olimpiade, è molto impegnativa. Idem ai Mondiali. Tre turni sui 100, tre sui 200: li regge? Vuole provare a prendere due medaglie o una, ma d’oro? Non è proprio una passeggiata di salute...».

Intanto Lyles è arbitro elegantiarum: a Boston è arrivato vestito Prada.

«L’ho visto, non mi sfugge niente! Quella era un’idea che avrei voluto lanciare io: presentarmi firmato, anziché in tuta, alla gara. Come in Nba, quando scendono dal pullman per andare negli spogliatoi: sono tutti stilosi, con anelli, orecchini, marchi in vista. Entrare nello stadio sfilando come fosse un evento di moda è una cosa che mi piacerebbe tantissimo».

È stato preceduto, però.

«Bisogna creare la struttura: alla Diamond arrivi direttamente al campo di riscaldamento, non c’è un tunnel in cui passare. Mettere insieme atletica e moda, creare un po’ di hype intorno all’evento, mi farebbe impazzire».

Gli americani studiano tutti i suoi video, Marcell.

«Infatti non ho più pubblicato su Instagram le partenze buone! Non voglio che vivisezionino i miei appoggi! Posto solo video delle partenze peggiori, a costo di sentirmi dire: Marcell, una volta uscivi meglio dai blocchi… Ma essere social mi piace, i tifosi vogliono partecipare, il messaggio che mi faccio il mazzo e che bisogna inseguire i propri sogni deve passare».

Il team ormai è a gestione famigliare.

«A un certo punto dovevo prendere delle decisioni, ho riflettuto: chi meglio di mia madre che mi vuole bene disinteressatamente può aiutarmi? Mio fratello Niccolò, 20 anni, segue i miei social insieme al nostro amico Simone, cresciuto con noi a Desenzano. Mi sento a mio agio, so che lavorano per il mio bene».

Il 2022 è stato complicato. Cosa c’è da non ripetere?

«Tutta la mia carriera è costellata di infortuni e problematiche. Le lezioni le ho sempre imparate, ma contro l’imprevisto non si può niente. Il 2022 è stato perfetto fino all’oro iridato indoor con record europeo. Stavo da Dio: ero arrivato a fare un personale sui 120 di quasi mezzo secondo. Poi il virus in Kenya mi ha rallentato. Ho avuto troppa fretta di tornare, con un Mondiale e un Europeo, dove ho vinto l’oro, a ruota. Ho imparato a non avere fretta, ecco».

Il cambio scarpe: lo scopo è limare millesimi?

«L’adattamento non è stato immediato: il cambiamento del materiale tecnico non è mai facile. Il progetto di Puma è lavorare su un nuovo Bolt. Ho creato un’Academy a Desenzano, che inaugurerò la settimana prossima: vorrei provare ad aiutare i giovani».

L’eredità di Bolt, però, è un macigno schiacciante.

«Magari qualcuno si può sentire intimidito, io mi esalto. La vedo come un’opportunità: provare a collegare la mia storia personale con la leggenda di uno sprinter che per me è un idolo assoluto. Pari suo sarà difficile: vinceva tre ori a Olimpiade! Io i 200 ai Giochi non li farò mai».

Quel 9”58 che paralizza gli altri, quindi, non è una montagna impossibile da scalare?

«È un tempo fuori dal mondo però se penso che nel 2020 correvo in 10”11 e l’anno dopo ho vinto l’oro olimpico con 9”80 mi dico: perché pormi limiti? Aggiungendo 3 cm a passo e mantenendo le stesse frequenze per tot passi, arriverei al traguardo 90 cm prima. Stiamo parlando di 3 cm, non di un’eternità. E poi a me 9”56 mi perseguita…».

Cioè?

«Non sono scaramantico ma sulla sveglia, al mattino, vedo sempre 9.56. Vesto i bambini, che Nicole porta a scuola. Poi magari mi rimetto a letto, chiudo gli occhi, li riapro: 9.56. Giuro. Anche stamattina. Non è casuale!».

Nulla lo è. Come vorrebbe essere ricordato tra 100 anni?

«Come uno di quegli sportivi che ha riscritto la storia e viene raccontato nei libri. Hai presente LeBron James?».

Estratto dell'articolo di Giulia Zonca per “la Stampa” il 18 gennaio 2023.

La gabbia cala sul circuito dell'ippodromo più grande al mondo e Marcell Jacobs guarda i cavalli entrare negli stalli dalla terrazza del Meydan Hotel, a Dubai, dove il campione olimpico si allena da fine dicembre[…]. Il primo start dell'anno è previsto il 4 febbraio, a Lodz, Polonia, per i 60 metri che aprono la stagione indoor. Prima tappa di un 2023 con vista Mondiale, in agosto, a Budapest.

[…] Dalla sua canzone più ascoltata Dubai: «Ho vari figli, ho vari sosia, ho vari cloni, ma non ho competitori», da «$ Freestyle» di Sfera Ebbasta.

«Io ho vari figli che adoro, ho vari cloni che possono tentare di imitare me e il mio modo di correre e ho vari cloni che vogliono comportarsi come me per sentirsi fighi, ma non ho competitori. Non parlo dei rivali, ognuno è unico, con le proprie esperienze».

[…] Ha avuto tante fregature?

«Il giusto. Le batoste servono, nella vita le mazzate sono necessarie, sempre, a più riprese. Quando tutto sembra facile non ti godi nulla e nel momento in cui cadi ti fai male, se prendi botte eviti di rifare lo stesso errore».

 Le mazzate sono sempre necessarie?

«Sì, ti trovi in situazioni inedite e impari. Dopo le Olimpiadi ho dovuto faticare per recuperare gli stimoli importanti che avevo prima. […] La carriera non mai è scontata, neanche dopo due ori olimpici».

Ha vinto un Mondiale indoor e un titolo europeo. Dove sta la bastonata?

«Dopo la stagione al coperto ho avuto la sensazione che sarebbe stato tutto in discesa e l'ho presa sotto gamba».

 Ha recuperato le motivazioni?

«Non solo, ho ritrovato la voglia, l'attenzione. Oggi so che quando raggiungi livelli altissimi, per migliorare anche di poco serve il doppio del lavoro».

[…] Lei, Kerley, attuale campione del mondo e gli altri sprinter vi punzecchiate parecchio.

«Sono rivalità sane. Non ci si manca di rispetto, ci si stima, sfotterci ci dà stimoli e porta attenzione all'atletica che è seguita troppo poco».

 Quando il record di Bolt, 9"58, è diventato un tempo reale e non marziano?

«Dopo le Olimpiadi ho smesso di pormi i limiti. Se lo fai ti fermi. Ho rinunciato a ipotizzare cronometri, mi dedico ai movimenti, ai gesti, immagino di farli nel modo più veloce possibile. Corro».

 […] In pochi anni ha cambiato diversi manager, perché è così difficile rappresentarla?

«Non pensavo lo fosse. Nel 2018 mi sono affidato alla società di Fedez, mi aspettavo che stare vicino a lui desse visibilità ma lì non hanno mai sviluppato un progetto. Me li aspettavo pronti al risultato invece ho vinto a Tokyo e mi hanno scritto 24 ore dopo. Erano al mare e non gliene fregava niente. Per contrasto, quando mi sono trovato davanti a persone che promettevano soldi e numeri mi sono affidato. In qualche mese ho realizzato che mi raccontavano come non sono. C'era poca trasparenza».

[…] Ha appena conosciuto Valentino Rossi, altro italiano che va veloce.

«Bello scoprire che dietro i campioni ci sono essere esseri umani disponibili e gentili, interessati a ciò che fai. Mi ha scritto subito un bel messaggio, rimarremo in contatto. Lui ha riscritto lo sport, non solo la MotoGp».

 Rossi è stato la faccia dell'Italia. Vive lo stesso ruolo?

 «Ancora non come lui, ha vinto l'impossibile. Mi piacerebbe essere conosciuto all'estero quanto Vale».

Lei non lo è abbastanza?

«Non mi sembra. In pista ho fatto il massimo, sono andato più veloce che potevo, ma intorno a me qualcuno ha sbagliato qualcosa. Prima mi hanno detto "bisogna essere globali", poi "il simbolo dell'italianità". Tutti sanno che Valentino è italiano però porta l'Italia nel mondo, persino a Bali ci sono maglie gialle con il 46».

[…]

La Ginnastica.

Estratto dell'articolo di Arianna Ravelli per corriere.it il 3 ottobre 2023.

«Spero che le persone si rendano conto che questa potrebbe essere l’unica volta nella loro vita che vedono un salto come questo eseguito da una ginnasta donna». L’allenatore di Simone Biles, Laurent Landi, che la aspettava sul materassino all’atterraggio dello Yurchenko doppio carpiato (e per questo il salto che ha cambiato la ginnastica ha preso mezzo punto in meno dalle giurie) può stare tranquillo: più o meno tutti hanno capito che Simone ha spostato i limiti del suo sport.

Quanto al fatto che si tratti di un unicum irripetibile, invece, nessuno ci scommette. Parigi è a un passo e anche se è evidente come nessuno voglia almeno pubblicamente forzare Biles a fare alcunché dopo il drammatico ritiro di Tokyo, è altrettanto chiaro che a questo punto tutti si aspettano che lei partecipi. Portando lo Yurchenko nel borsone.

[…]

Vediamolo, dunque. Si chiama Yurchenko con doppio saltato carpiato indietro. Dopo la rincorsa di 25 metri si parte «con una rondata fatta in pedana»: è quella «ruota» che serve a lanciarsi. 

Una volta «rimbalzati» sulla pedana «Biles esegue un flick flack per andare dalla pedana alla tavola». Il movimento flick flack è costituito da ribaltamento indietro sul piano sagittale composto da due fasi di ribaltamento l’una prima della posa delle mani (dalla stazione eretta alla verticale) e l’altra prima dell’arrivo dei piedi.

E infine c’è la parte mirabolante: «Biles esce dalla tavola e compie una doppia rotazione indietro sull’asse trasversale in posizione carpiata, un movimento che si è visto eseguire solo dagli uomini». Lo rivedremo già nella finale di specialità? Anche se così non fosse, a 26 anni, Simone ha già fatto abbastanza.

La ginnastica ritmica.

 Abusi nella ginnastica, perché Maccarani è stata assolta: le motivazioni. Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera giovedì 12 ottobre 2023.

L’ex c.t. Emanuela Maccarani e la vice Olga Tishina solo ammonite nel processo: «Non c’è prova che frasi e insulti abbiano provocato i disturbi alimentari delle atlete»

Rivolgere espressioni come «maialino» o «prosciutto alzati da terra» o «sei cicciona con quella faccia da c. che ti ritrovi» a una giovane ginnasta non è sanzionabile dal punto di vista sportivo (se non con un buffetto disciplinare) perché non si può dimostrare «se la frase possa o meno aver determinato l’insorgenza dei disturbi alimentari di cui l’atleta ha sofferto». Pubblicate giovedì, le motivazioni di quel «processo Maccarani» che ha sconvolto la ginnastica ritmica italiana rischiano di alzare un polverone più alto di quello della frase «ha peccato per eccesso di affetto» pronunciata dal procuratore Rossetti durante l’arringa conclusiva.

Diciannove pagine (di cui sei di considerazioni preliminari) è lo spazio che il Tribunale della Federginnastica (composto da tre avvocati: Leoni, Corengia, Cicconi) ha dedicato a motivare l’ammonizione di Emanuela Maccarani, direttrice tecnica della Ritmica italiana e dell’Accademia di Desio, e la sua assistente Olga Tishina accusate, in un procedimento sportivo di clamorosa risonanza mediatica partito nel novembre 2022, di aver adottato «metodi formativi e di allenamento non conformi ai doveri di correttezza e professionalità, in particolare esercitando in maniera impropria e ossessiva la gestione del peso delle ginnaste, operando un controllo quotidiano e, a fronte di variazioni di peso di modesta entità, ponendo in essere pressioni psicologiche, in particolare commentando con frasi offensive del tipo «guarda che sedere ti ritrovi», «dimagrisci ancora un po’ e il culo forse passa dentro il cerchio», «prosciutto alzati da terra», «sei cicciona con quella faccia da c...o che ti ritrovi» (Maccarani), «sembri un maialino», «la pancia cresce», «come fai a guardarti allo specchio», «ma cosa hai mangiato guarda cosa ti ritrovi dietro» (Tishina) e simili, alla presenza di tutte le atlete; proseguendo nella predetta condotta anche nel corso degli allenamenti nei confronti delle atlete giudicate fuori forma, provocando così in alcune di queste ultime l’insorgere di disturbi alimentari e psicologici. In Desio dall’estate 2019, quantomeno fino all’agosto del 2020».

Accuse pesanti, portate avanti in prima persona e con grande fatica da due atlete, ma smentite dallo stesso procuratore sportivo che ha condotto l’indagine, l’avvocato barese Michele Rossetti, che ha giustificato il comportamento di Maccarani come, appunto, «eccesso di affetto» provocando reazioni forti nell’opinione pubblica, in psicologi e psichiatri, nel ministro dello sport Abodi ma anche nello stesso presidente federale Tecchi pur ottenendo dalla Corte esattamente il giudizio, blandissimo, richiesto.

Nelle motivazioni (piene di omissis per rispettare gli atti della Procura di Brescia che sta per concludere l’inchiesta penale), dell’«eccesso di affetto» non c’è alcuna traccia. La chiave di lettura della decisione dei giudici federali — accertato il fatto che Emanuela Maccarani ha pronunciato le frasi che le sono state addebitate («Non vi è ragione alcuna di dubitare che la sig.ra Maccarani abbia in più occasioni superato i limiti di correttezza e rispetto imposti dalla normativa federale») — va letta in questo passaggio dell’atto: «Resta da valutare se l’illecito disciplinare commesso dalla sig.ra Emanuela Maccarani, ovvero le frasi inadeguate ed inopportune proferite durante gli allenamenti, possano o meno aver determinato l’insorgenza dei disturbi alimentari di cui hanno sofferto alcune atlete, tra le quali la sig.ra Anna Basta».

Per la corte non sono un problema le parole usate : di certo molto pesanti — ma il fatto che abbiano provocato o meno i disturbi alimentari. E su questo punto i giudici sportivi sono chiari e in qualche modo sdoganano (se non applicando la pena minima dell’ammonizione) il linguaggio usato: «Evidentemente nello sport praticato a livello di eccellenza — scrivono — l’eventualità che insorgano problemi di gestione del peso e disturbi alimentari è tutt’altro che remota. Tuttavia, non vi è alcun elemento che dimostri l’esistenza di un nesso eziologico tra le espressioni utilizzate dalla sig.ra Maccarani ed i malesseri subiti da alcune atlete». Una frase che nega l’ampia letteratura scientifica che collega i disturbi alimentari agli atteggiamenti verbali nei confronti delle persone che ne soffrono o sono a rischio di soffrirne, con la giustificazione del «livello di eccellenza» dello sport praticato.

In attesa delle decisioni della procura di Brescia, espressioni come «prosciutto alzati da terra» e «sei cicciona con quella faccia da c...o che ti ritrovi» nella Ginnastica Italiana meritano solo ammonizione perché «si deve ritenere che — ancorché offensive — non siano state mosse dall’intenzione di arrecare danno, ma al fine di incitare le atlete ed ottenere un maggior impegno negli esercizi». Una sorta di liberi tutti dal punto di vista verbale.

Estratto dell'articolo di Nadia Ferrigo per “La Stampa” il 17 luglio 2023.  

I calcoli folli su come perdere tre etti, magari sudando dentro a una felpona sotto al sole, saltando la cena o con i lassativi. Così tante umiliazioni e insulti da non riuscire nemmeno a metterli in fila e la diagnosi di un disturbo post-traumatico da stress. Sempre meravigliose, sia in pubblico che sulla pedana, addestrate a mascherare la realtà dietro a un sorriso. 

Ecco la Nazionale italiana di ginnastica ritmica raccontata nel libro "Sorridendo sempre, ero una farfalla e mi hanno strappato le ali" di Nina Corradini, dove si racconta la spirale di crudeltà e umiliazioni subita dalle Farfalle e la storia di un'immagine vincente e di successo travolta negli scorsi mesi dalla denunce per abusi e maltrattamenti. 

La voce di Nina Corradini è prima quella di una bambina entusiasta e innamorata dello sport, poi diventata quella di un'adolescente che prova a scappare dal suo stesso sogno. Nel libro scritto con Valeria Abate e pubblicato da Rizzoli si raccontano due mondi, due "stili" di lavoro ma anche di vita.

Prima c'è la palestra di Fabriano, con la plurimedagliata allenatrice Julieta Cantaluppi, chiamata con affetto Julie. Poi arriva la convocazione nelle Farfalle, nell'Accademia internazionale di Desio con le allenatrici Emanuela Maccarani e Olga Tishina. Non ci sono i loro nomi e cognomi, perché c'è un procedimento legale ancora in corsa, così le due sono sempre chiamate con un soprannome: Dama Lunatica e Ombra perenne. Sono due piccoli mondi, tutti e due esclusivi e vincenti: da una parte le medaglie olimpiche della direttrice tecnica della Nazionale Maccarani e dall'altra le vittorie internazionali senza precedenti ottenute con Sofia Raffaeli e Milena Baldassarri, le atlete allenate nelle Marche da Cantaluppi, a sua volta ex azzurra di successo e figlia di una leggenda della ritmica mondiale come Christina Gyurov.

Tra questi due mondi, che hanno gli stessi obiettivi e solcano le stesse pedane internazionali, c'è solo una cosa in comune: le ore di lavoro, duro, le infinite ripetizioni, i lunghi viaggi, la mancanza della famiglia e i sacrifici. Per tutto il resto nel libro di Corradini c'è una contrapposizione tra una pedana che si fa casa, famiglia, dove l'allenatrice Julie decora con le sue mani le magliette per gli allenamenti e scrive il nome delle "sue" ragazze con i brillantini, e un'altra dove al contrario si vive nel terrore del peso e dello sbaglio, del rimprovero e dell'urlo. 

«A Desio tutte eravamo interscambiabili», scrive Corradini. «Un indizio fra tanti, forse il meno significativo, ma sotto gli occhi di tutti: quando una ginnasta andava via, quella che le subentrava entrava in possesso di tutto ciò che le era appartenuto. Parlo della fornitura in dotazione, e non solo della borsa con lo stemma tricolore. Le magliette, i top, le canotte, le tute: tutto. Indumenti indossati prima da un'altra, che non aveva alcun senso toglierle se non per comunicare una cosa sola: quando esci da questa struttura, ti spoglio di tutto quello che ti ho dato, e te ne vai nuda così come sei entrata. E avanti un'altra».

Il libro pare quasi un manuale di istruzioni per le giovani ginnaste e i loro genitori, una serie di indicazioni utili a riconoscere che cosa è sacrificio e che cosa no, è solo prevaricazione. Nei ricordi di Corradini, ancor prima di Desio, ci sono anche gli allenamenti in una palestra più piccola, meno prestigiosa. «Mi stupisco ancora oggi di come mi sembrassero normali i vari "stupida", "idiota", i "non sai fare nulla" urla ti tutti i giorni in faccia a piccole di otto, dieci anni, così come a adolescenti di sedici. Quelle che adesso finalmente riesco a riconoscere come offese hanno costituito il battesimo della mia vita da ginnasta». E ancora: «Quei maledetti pollici infilati nelle scapole e conficcato nel coccige lo scarpone».

(...) Per ginnaste e allenatrici in pedana l'obiettivo sono le Olimpiadi, per Corradini la storia è diventata un'altra e la sta scrivendo da sola, con la sua voce finalmente libera dalla paura. «Io penso che la ginnastica ritmica sia lo sport più bello del mondo e spero che quello che ho detto possa cambiare anche solo un po' il modo in cui viene insegnata – commenta l'ex Farfalla che ha lasciato la Nazionale nel 2021 -. Spero che mai nessuno si dovrà trovare di nuovo nella situazione in cui mi sono trovata io».

 Fiamma Tinelli per Oggi – oggi.it venerdì 8 dicembre 2023. 

Lo sport è una cosa sana, bella. Se ti fa stare male c’è qualcosa di sbagliato — Sofia Raffaeli

Il giorno in cui Sofia Raffaeli ha vinto i Mondiali di ginnastica ritmica, un anno fa, i telecronisti della Rai manca poco piangevano. Lei, all’annuncio del punteggio (un 133.250 da infarto strappato alla tedesca Darja Varfolomeev all’ultimo giro di palla), ha fatto un sorriso luminoso quasi quanto il suo body di paillettes. Un bel momento, sì. Ma i campioni mica nascono in tv, tra i lustrini. Il palazzetto di Fabriano, centro d’eccellenza della ginnastica ritmica italiana, è una cupola di cemento scrostato, in periferia. Sulla ringhiera della tribuna pende sbilenca una bandiera dell’Italia. 

(...) Sofia Raffaeli, individualista della Nazionale italiana di ritmica, Fiamma oro della Polizia di Stato, è una ragazza non comune: non beve, non fuma, il sabato sera non va a ballare e dei social non sa che farsene («Mi annoiano»).

19 anni che a vederla sembrano 15, è l’individualista che ha ottenuto il punteggio più alto di sempre in una competizione internazionale, la prima e unica azzurra ad aver vinto un oro nel concorso generale della Coppa del mondo. Seduta su un gradone della palestra, i capelli che le scappano dallo chignon improvvisato con l’elastico, le gambe che non stanno ferme mai, dice che le gare si fanno per vincere, certo, ma in fondo sono una parentesi: cinque giorni a settimana, otto ore al giorno, la sua vita è qui. 

«E se vado in vacanza, mi manca la pedana». A fare ritmica ha cominciato da piccola e non ha più smesso. Fino a due anni fa viveva a Chiaravalle con la sua famiglia, a Fabriano l’accompagnava tutti i giorni nonno Nello. 60 chilometri ad andare, 60 a tornare, col sole, con la pioggia, «anche con la febbre, se nessuno se ne accorgeva». Un’ossessione? «Forse. Ma un’ossessione bella». 

Si diverte ancora oggi?

«Sempre. Anche se a me piace di più provare che gareggiare». 

Perché?

«Perché all’inizio un esercizio nuovo non ti viene, 10 volte dopo nemmeno e poi all’improvviso sì. È lì che cresci». 

Gareggiare in squadra non la interessa?

«No. Se le cose non vanno come voglio io, sbrocco». 

Ha un attrezzo preferito?

«Mi piacciono tutti. Soprattutto adoro i rischi: nella ritmica è quando lanci un attrezzo, fai due rotazioni e lo recuperi». 

Le piace anche nella vita, il rischio?

«Mica tanto. Non amo molto i cambiamenti». 

Che cosa fa dopo gli allenamenti?

«Mangio, dormo».

Va bene e poi?

«Poi basta. Torno in palestra». 

(...) 

Ha un ragazzo?

«Nooo». 

Viaggia?

«Per le gare, sì. Ma alla fine vedo solo i palazzetti». 

Quanto guadagna?

«1.500 euro al mese. Lo stipendio della Polizia» 

Non si sente mai sola?

«No. In palestra siamo tante, stiamo insieme». 

Non c’è competizione tra di voi?

«La competizione è in gara». 

(...)

A cosa a rinunciato per arrivare così in alto?

«Alla scuola, un po’. Alle superiori avevo lezione dalle 18.30 alle 20.30, è poco. Però ho fatto la maturità, liceo delle Scienze Umane, e ora sono iscritta a Psicologia. Seguo le lezioni on line». 

Perché Psicologia?

«Perché la nostra è una carriera breve, a 28 anni sei fuori. Magari un giorno farò l’allenatrice e le bambine vanno capite, accompagnate». 

Un anno fa nella ritmica c’è stato un terremoto. Emanuela Maccarani, allenatrice delle Farfalle, la squadra della Nazionale di ritmica che si allena a Desio, è stata accusata di maltrattamenti. Ex ginnaste hanno raccontato che venivano pesate pubblicamente e insultate se solo avevano preso un etto. Molte di loro hanno sofferto di disturbi alimentari. Lei ha mai vissuto questa pressione?

«Mai. Non so bene neanche quanto peso, credo 43-44 chili. La bilancia qui a Fabriano l’hanno tolta anni fa». 

Come l’ha fatta sentire questa vicenda?

«Male. Io non lo so cos’è successo a Desio, ma da ginnasta mi sono subito sentita vicina a chi denunciava. Due di quelle ragazze le conoscevo bene». 

Quanto conta il peso nella ritmica?

«Conta. È uno sport elegante, devi essere sottile. Basta sapersi regolare: qui da noi non abbiamo un nutrizionista, ma nessuna esagera con le diete. Io ogni tanto mi concedo anche la pizza». 

Lei accetterebbe un allenatore che passa il segno?

«Oggi no. Da bambina però non lo so».

Simone Biles, la più grande ginnasta del mondo, ha dichiarato di aver sofferto di attacchi di panico. Per curarsi ha lasciato le gare per due anni.

«È stata coraggiosissima a raccontarsi, un esempio immenso per tutti i ragazzi e le ragazze che fanno fatica a tenere il passo. La fragilità esiste». 

Il mondo vi immagina incrollabili.

«Già. E invece la nostra è una vita che lascia un segno. Viviamo in una bolla, la differenza la fa chi ti guida». 

L’aspettano le Olimpiadi. Lì sì che la pressione sarà micidiale.

«La pressione si impara a gestire giorno per giorno, ora per ora. Su quella pedana lì». 

Nonno Nello verrà a vederla?

«Se regge... Ai Mondiali è andato via prima perché era troppo agitato».

Un sogno di vita nascosto, solo suo, ce l’ha?

«Vorrei che mettessero il riscaldamento».

 Prego?

«In questo palazzetto si muore di freddo...».

Estratto dell'articolo di Riccardo Caponetti per la Repubblica Dagospia il 13 giugno 2023. 

Quattro atleti su 10 hanno confessato di aver subito una forma di violenza durante l'attività sportiva quando erano minorenni. Con conseguenze gravi, come problemi di salute, nel 20% dei casi. È questo ciò che emerge dalla dettagliata ricerca sugli abusi nel mondo dello sport in Italia, commissariata da ChangeTheGame a Nielsen […] Il 38,6% (558 sportivi) ha confessato di aver subito maltrattamenti o vessazioni prima dei 18 anni. La forma più diffusa di violenza è quella psicologica (30,4%), ovvero umiliazioni, insulti o critiche per il proprio aspetto fisico.

Poi c'è la violenza fisica (18,6%), come le aggressioni, le punizioni con esercizi o l'obbligo a gareggiare nonostante gli infortuni; a seguire si parla di negligenza (14,5%), che va dal mancato supporto al poco controllo; di violenza sessuale senza contatto fisico (10,3%), con commenti erotici e osceni; e infine c'è la violenza sessuale con contatto fisico (9,6%). Il 19.4 % del campione ha riferito di aver subito una violenza multipla: azioni iniziate nella maggior parte dei casi prima dei 14 anni.

La percentuale di casi riportati in cui gli allenatori e le allenatrici sono coinvolti è del 31,1%, ma in particolare nelle donne il coinvolgimento raggiunge il 35% rispetto al 27% indicato dagli uomini. In aggiunta, si fa riferimento anche ad altri operatori sportivi (14,7%), adulti conosciuti (8,1%) e non conosciuti (8,4%). Per gli uomini i principali autori di vessazioni sono soprattutto i compagni di squadra: 36,8%.

Stupisce anche che il 55,9% delle vittime non abbia chiesto né ricevuto aiuto (il 62,3% tra le donne). I motivi? Il 46,5% (il 51,8% tra le donne) pensava che quanto stava avvenendo fosse accettabile, proprio come raccontarono a Repubblica alcune ex ginnaste della Nazionale. Secondo motivo: la paura di essere considerati deboli (30,1%) e poi, per certi aspetti il più gravi, il non sapere a chi rivolgersi (25,3%).

Pesanti le conseguenze sulle vittime: il 32,4% ha abbandonato il mondo dello sport, il 12,9% lamenta di aver sofferto di problemi di salute temporanei mentre per il 6,5% i problemi di salute sono diventati cronici. Lo sport dove si registra una quota più elevata di segnalazioni è la ginnastica, sia ritmica che artistica (circa il 10% in più rispetto alla media), mentre quello in cui ci sono meno segnalazioni è il nuoto. La violenza sessuale, oltre che nelle due discipline della ginnastica (+15%), è più diffusa nel tennis (+15%).

(ANSA il 24 gennaio 2023) - Svolta nell'inchiesta della Procura di Brescia sui presunti maltrattamenti fisici e psicologici nei confronti di giovani atlete di ginnastica ritmica. Su richiesta del pm Alessio Bernardi, il gip Francesca Grassani ha disposto per l'allenatrice bresciana Stefania Fogliata la misura cautelare interdittiva del divieto di allenare su tutto il territorio nazionale. Questa mattina gli uomini della Squadra Mobile della Questura hanno notificato il provvedimento all'allenatrice, 30 anni, che lavora in una palestra di Calcinato. L'indagine era nata dalla denuncia nell'agosto scorso di due atlete.

 (ANSA il 24 gennaio 2023) - L'istruttrice federale di ginnastica ritmica Stefania Fogliata è accusata di maltrattamenti aggravati dalla giovane età delle persone offese, con condotte che sarebbero andate avanti dal 2017 ad oggi. Otto le presunte vittime. Nel settembre dello scorso anno personale della Squadra Mobile della Questura di Brescia aveva raccolto le confidenze di una madre in merito a presunte condotte illecite dell'allenatrice di un'Accademia per atlete di ginnastica ritmica, affiliata alla "Federazione Ginnastica d'Italia", con sede a Calcinato in provincia di Brescia.

Sarebbe accaduto durante gli allenamenti, nei confronti delle figlie e di altre giovani ginnaste di età compresa tra i 10 e i 14 anni. Le presunte vittime sono state ascoltate in audizioni protette videoregistrate e assistite da una psicologa dell'ASST - Brescia. Sono state poi sentite oltre 25 persone tra vittime, testimoni, genitori delle ginnaste, colleghi dell'istruttrice psicologi cui si erano rivolte alcune atlete, nonché gli stessi vertici della Federazione nazionale.

Dai cellulari sono state recuperate tracce delle chat di messaggistica pregresse e di riprese video di alcuni episodi, talora effettuate dalla stessa indagata. Secondo la valutazione espressa nell'ordinanza interdittiva, gli elementi raccolti avrebbero confermato il quadro indiziario e spiegato la ragione per la quale le giovani ginnaste avrebbero abbandonato l'Accademia anche a fronte di prospettive di grande successo sportivo, persino in campo internazionale.

 (ANSA il 24 gennaio 2023) - Sono in corso perquisizioni da parte della Polizia di Stato nella palestra di Calcinato, nel Bresciano, dove lavora come istruttrice di ginnastica ritmica Stefania Fogliata, raggiunta questa mattina dalla misura cautelare interdittiva del divieto di allenare sul territorio nazionale. Gli agenti hanno prelevato pc e cellulari della donna e in palestra stanno cercando di verificare quanto raccontato nelle denunce. Sono otto le presunte vittime. Nella sua ordinanza il gip del tribunale di Brescia Francesca Grassani parla di "quotidiano stillicidio di improperi e umiliazioni ai quali si sono sommate le percosse".

Estratto da open.online il 25 Gennaio 2023.

«Quando secondo lei non mi ero impegnata abbastanza, l’allenatrice minacciava di portarmi nello stanzino degli attrezzi dove sapevo che mi avrebbe preso a sberle». C’è anche la testimonianza di un’ex atleta nell’indagine su Stefania Fogliata, sospesa ieri dall’allenamento per ordine del Gip di Brescia. Ad accusarla ci sono 25 diverse testimonianze tra presunte vittime, colleghi, genitori e testimoni. […] Fogliata, secondo l’accusa, le costringeva «ad allenarsi all’aperto sotto il sole cocente». E le insultava, le malmenava, le puniva. […]

La testimonianza, raccolta oggi dal Corriere della Sera, prosegue: «Le sberle ho cominciato a prenderle a 9 anni, quand’ero debole e impotente. Da lei ricevevo pressioni continue sul peso con domande e messaggi su quanto e cosa avessi mangiato. Un giorno mi vide in palestra con uno yogurt e disse alle mie compagne: “Tu mangi queste schifezze. Vedete, questa è la m… che avete dentro: adesso devi leccarla dal pavimento così capisci”». […]

L‘allenatrice avrebbe chiamato “maiale” e “Goblin” le ragazzine che riteneva fuori forma. «Aveva l’ossessione del peso», hanno raccontato dalla palestra di Calcinato nel Bresciano. «Adottava un regime di alimentazione rigido. Soprattutto dando indicazioni alla segretaria e collaboratrice di dare meno cibo ai pranzi. E tempestando le ragazzine con continui messaggi al fine di indurle a mangiare sempre meno. E di inviare fotografie per verificare la loro linea fisica», scrive il gip. […]

[…] La direttrice tecnica federale Emanuela Maccarani invece ha confermato di aver incontrato la famiglia. Che però non le ha mai parlato dei presunti maltrattamenti. «Se non il riferimento a una sberla data e da lei non accettata». Il presidente di Federginnastica Gherardo Tecchi invece sostiene di aver chiesto a Maccarani i motivi del ritiro. «Lei mi spiegò che si trattava di problemi familiari insormontabili. A novembre la procura mi ha informato sui fatti chiedendomi il silenzio per non interferire con le indagini. Sono comportamenti intollerabili. La federazione è vicina alla ragazza e pronta in qualunque modo ad aiutarla a tornare in pedana», ha fatto sapere Tecchi.

«L’allenatrice non è a contratto con la Federazione e pertanto non è tecnico federale», tiene a precisare la Fgi. La Federginnastica, nella nota, sottolinea che Fogliata «è soltanto in possesso di un attestato come tecnico societario dal 2020. La sua società è un soggetto privato autonomo e non sotto il controllo diretto della Federazione. […] In attesa di avere un quadro completo delle indagini, sarà valutata pure la posizione della società sia a titolo di responsabilità oggettiva che diretta per omessa vigilanza su quanto compiuto all’allenatrice».

Da tg24.sky.it il 12 gennaio 2023. 

Emanuela Maccarani non è più la direttrice tecnica dell'Accademia di Desio ma continuerà a svolgere il suo ruolo di allenatrice della nazionale italiana di ginnastica ritmica in attesa che la giustizia faccia il suo corso. Questa la decisione presa dalla Federginnastica al termine del Consiglio federale riunitosi oggi, giovedì 12 gennaio, al Coni. All'ordine del giorno la decisione sulla coach delle azzurre, deferita negli scorsi giorni dalla Procura federale insieme con l'assistente Tishina per presunti maltrattamenti e abusi dopo le denunce di alcune ex ginnaste.

 Accuse per le quali le due sono indagate anche dalla giustizia ordinaria, nello specifico dalla Procura di Monza. L'annuncio è stato dato ai cronisti dal presidente federale Gherardo Tecchi: "La direzione tecnica alla Maccarani non è stata confermata, la prendo io ad interim - le sue parole -. È una scelta mia dopo aver sentito anche Malagò. Lei continuerà solo ad allenare la squadra nazionale".

Ancora Tecchi: "Se la Maccarani accetterà? Io non devo sentire nessuno - ha aggiunto -. Si tratta di un ridimensionamento. Ora lei penserà e deciderà: il suo compito adesso è portare le ragazze alle Olimpiadi. Se vuole bene alle sue ragazze e all'Italia la Maccarani accetterà di restare allenatrice ma non dt".

Da open.online il 4 gennaio 2023.

Dalla giustizia sportiva arriva il primo forte segnale nei confronti della direttrice tecnica dell’Accademia internazionale di ginnastica ritmica di Desio Emanuela Maccarani, rinviata a giudizio dalla procura federale insieme alla sua assistente Olga Tishina. In anticipo rispetto alla giustizia ordinaria, ancora in fase di indagini preliminari, la procura della Federginnastica ha deferito le due tecniche, entrambe iscritte nel registro degli indagati lo scorso 29 dicembre per i presunti comportamenti vessatori e abusi psicologici nei confronti di atlete minorenni.

 «In qualità di Direttrice Tecnica della Nazionale di ginnastica ritmica, adottava metodi di allenamento non conformi ai doveri di correttezza e professionalità», si legge nell’atto federale rivolto a Maccarani e Tishina di cui Open è entrato in possesso, «in particolare esercitando in maniera impropria la gestione del peso anche di modesta entità, ponendo in essere pressioni psicologiche, in particolare commentando con frasi offensive del tipo “sembri un maialino“, “la pancia ti cresce“, “come fai a guardarti allo specchio” e simili, alla presenza di tutte le atlete».

Frasi contenute anche in molte delle testimonianze diffuse dalle ex atlete e che ora anche la procura federale attribuisce alle due tecniche, accusandole di aver pronunciato le offese «omettendo di dotarsi di un adeguato supporto scientifico, provocando così in alcune ginnaste l’insorgere di disturbi alimentari e psicologici». Fatti, secondo il documento, riferiti «quantomeno fino all’estate 2020» e presso l’Accademia di Desio.

La decisione del Tribunale con il rischio radiazione

Ora sarà lo stesso Tribunale a decidere l’assoluzione o la condanna per la direttrice Maccarani e l’assistente Tishina. In caso di condanna i provvedimenti potranno prevedere dall’ammonizione all’ammenda, passando alla sospensione di quindici giorni fino alla radiazione per due anni. L’appuntamento per il Consiglio federale è fissato per il prossimo 12 gennaio. Nel frattempo il presidente del Coni Giovanni Malagò, insieme al procuratore di Milano Marcello Viola e al procuratore generale dello Sport Ugo Taucer, hanno trovato un accordo per un protocollo di intesa: la firma che metteranno il prossimo 11 gennaio servirà per ufficializzare il documento mirato a coordinare «le rispettive attività nei procedimenti e scambiarsi le informazioni utili sui casi di violenza contro la persona commessi da tesserati nell’ambito sportivo, come, ad esempio, nelle ormai note vicende di presunti maltrattamenti sulle ginnaste». Il protocollo servirà quindi a regolare la collaborazione tra procedimenti di natura diversa: «Penale e disciplinare sportivo», come spiega la nota della Procura di Milano. «Una diversità che pone infatti l’esigenza di definire procedure standardizzate di condivisione delle informazioni nella cornice normativa, nazionale e internazionale, sulla protezione dei soggetti vulnerabili rimasti vittime di reato».

Da la Stampa il 12 gennaio 2023.

Oggi la Federazione Ginnastica deve decidere. La direttrice tecnica Emanuela Maccarani, dopo le testimonianze delle sue ex ginnaste, il deferimento della procura sportiva e l'indagine della procura di Monza, resterà oppure no alla guida delle Farfalle? Il suo contratto, scaduto a dicembre, sarà rinnovato oppure no?

 Alla vigilia della decisione, si sono ben delineati due schieramenti in attesa del verdetto. Chi sta dalla parte delle ragazze che hanno raccontato la pesa quotidiana, le privazioni e gli insulti, si aspetta il classico "segnale forte", che sarebbe l'addio di Maccarani alla maglia azzurra. Chi invece sostiene che senza di lei non ci sarà più ritmica, manifesta il suo sostegno. Con la petizione delle tecniche lombarde su Change.org, arrivata a quasi mille firme, striscioni e ieri pure flash mob davanti all'Accademia Internazionale di Desio.

 L'invito era di portare bimbe e attrezzi di colore rosso, ma a partecipare sono state una decina di persone o poco più. E sempre di ieri è la fotografia scattata durante le feste natalizie. La poco edificante immagine ritrae le atlete della nazionale di ginnastica ritmica e alcuni loro amici e parenti riuniti attorno a un tavolo. Tutti guardano all'obiettivo, tutti con il dito medio alzato.

La fotografia è stata pubblicata - e poi rimossa - sulla pagina Facebook di Change the Game, l'associazione che ha aiutato le ragazze a denunciare e ha raccolto un dossier con oltre 200 testimonianze di abusi. Circolata molto in fretta sulle chat delle tecniche lombarde. E in fretta è arrivata anche alle ragazze che hanno deciso di raccontare la loro storia. «Le ragazze si sono sentite offese, sono addolorate. È normale che si sentano le destinatarie di questo messaggio.

Abbiamo pubblicato, ma poco dopo l'abbiamo rimossa - spiega Daniela Simonetti, la presidente di Change the Game -. Troppi messaggi d'odio». Due sono le procure al lavoro dopo le denuce di Change the Game, Monza e Brescia, e una terza indagine sarebbe in arrivo. Intanto la procura di Milano, con l'associazione guidata da Simonetti e il Coni, sottoscrive un protocollo d'intesa per i reati di violenza in ambito sportivo. «Un altro passo per la tutela dei minori e chi è abusato nello sport - conclude Simonetti -. La nostra missione è sempre la stessa: non lasciarli soli». Nad.Fer.

Giulia Zonca per la Stampa il 12 gennaio 2023.

Ora che un dito medio ha definitivamente scassato le ali da farfalla, il nomignolo che già non reggeva si è definitivamente dissolto. Almeno di questo sono tutti soddisfatti: chi accusa, chi deve essere giudicato e chi è rimasto in mezzo. Quando lo sport perde la grazia sa essere davvero brutale.

 Sono anni che le ragazze della ritmica si definiscono guerriere e quel paragone con un volo fragile le aveva infastidite prima di essere associato alle denunce per abuso psicologico, solo che era il soprannome della squadra più vincente di Italia e si era fatto marchio. Se lo tenevano addosso per quanto stretto fosse, era comunque l’etichetta del successo.

 Ora l’hanno strappata via, rimossa con un gesto antipatico e arrogante e odioso e probabilmente liberatorio: sbagliato eppure percepito come necessario. Comunque vada a finire la vicenda giudiziaria, il timbro farfalle non esiste più, cancellato per dare uno strappo netto e prima ancora per concedersi uno sfogo dopo tanto rigore, una mossa a effetto contro chi mette in discussione un intero mondo. La foto è deprimente e le atlete, allenate al sorriso perfetto portato sopra un sacrificio estremo, infatti erano depresse. Non deve essere facile sentire il proprio mondo che scricchiola ed essere costrette a mettere in discussione la fatica scelta come quotidianità.

Un dito medio, collettivo, ostentazione da bulle, gestaccio che ha lo stesso effetto di una parolaccia detta da un bambino: non te la aspetti, così come non ci si immagina un gruppo di elegantissime ginnaste impegnate in un flash mob della maleducazione, eppure è successo, succede: lo sport stravolge di continuo il copione della sorellanza o fratellanza in nome di urgenze più o meno legittime. C’è di tutto: la rivalità che si nutre di sgarbi e provocazioni, l’isolamento per malafede, l’agguato, il tradimento. Gli sportivi funzionano naturalmente per eccellere e quando serve una molla la fanno saltare, la misura del corto circuito stabilisce il punto di rottura. Si può eccedere senza sconnettere il sistema o mandare una carriera in tilt.

A volte è solo una parola, come «chicken», sibilata da Donovan Bailey al traguardo degli anomali 150 metri corsi e vinti contro Michael Johnson per stabilire chi fosse il più veloce del mondo dopo i Giochi di Atlanta 1996. Il campione dei 200 e dei 400 metri si ferma in pista e l’avversario non crede all’infortunio. Piccolo screzio diventato voragine. Ali stuzzicava per vocazione e più di una volta ha portato il livello dello scontro oltre il limite del ring. A Foreman prima del Rumble in the Jungle: «Rappresenta tutto il peggio: la cristianità, l’America e la sua bandiera, le costine di maiale», sculacciava gli Usa che lo avevano arruolato e non volevano capire il rifiuto. Uscire dagli schemi significa attirare attenzioni, scatenare risposte dure. Si rischia il ghetto.

Quando Simeoni si è autodenunciato per sostenere le accuse contro il dottor Ferrari, pure al rientro della squalifica, non è riuscito a pedalare. Lui, gregario di uomini importanti, si è ritrovato solo e irriso da Lance Armstrong che ancora era il leader di un movimento. Lo stesso che ha quasi affossato con il doping sfrontato, allora però non pensava che il castello di frottole sarebbe cascato e poteva permettersi di scatenare i ciclisti alla rincorsa appena Simeoni osava aumentare i giri e cantargli «stupido stupido» nel mentre. Ci sono voluti anni per rimettere le tessere del puzzle al posto giusto e i contorni ormai erano tutti mangiucchiati.

Difficile capire se le ginnaste che hanno denunciato i maltrattamenti si sentissero escluse o torturate, la questione è delicata, il confine sottile, i comportamenti possono essere sbagliati a prescindere dalle intenzioni. Ci vorrà tempo e cura per sbrogliare i fili dei torti e delle frustrazioni, ma ridicolizzare chi si sente vittima è profondamente triste. Sarebbe meglio ancorarsi al rispetto. Qui non si parla di doping o di frustate o di una colpa certa, piuttosto di abitudini che potrebbero essere diventate pessime perché cresciute dietro risultati sublimi. Oppure di atteggiamenti superati dagli anni: per essere una ginnasta non puoi superare un certo peso, per mantenerlo non è più accettabile il trattamento Full Metal Jacket. Ci sono inchieste e giudici che stabiliranno come è andata. Da questa distanza è impossibile capire, anche se è facile interpretare quel dito medio.

Come Shaq O’Neal che rappa cattiverie in faccia a Kobe Bryant, come i giocatori di football americano destabilizzati da Kaepernick in ginocchio. Molle che schizzano via senza ritegno. Per necessità o per protesta, per paura o per panico. Stavolta per stanchezza. Non vale come scusa, come motivo sì. Colpevoli con attenuanti. Pur di fermarsi qui, a un dito dall’abisso.

Nadia Ferrigo per la Stampa il 12 gennaio 2023.

«Le mie ex compagne di squadra si sentono aggredite. Non vogliono nemmeno più essere chiamate Farfalle, ma non ne capisco il motivo. Io non ho mai detto nulla contro di loro, ho raccontato la mia storia. Che conoscono bene». Nina Corradini, 19 anni, studia a Roma, Scienze della Comunicazione. Sei stata la prima a incrinare l'immagine perfetta delle Farfalle, ritrovandoti poi bersaglio di chi le sostiene.

 Sui social, ma non solo. Come stai?

«Parlare mi ha liberato. Studio, sono tranquilla. Leggo messaggi, commenti e interviste con distacco. So di aver detto solo la verità. E se la difesa è la pedicure...».

 In un'intervista al Corriere della Sera, la direttrice tecnica Maccarani ha detto di essere sempre a disposizione delle sue ragazze, sia per prenotare una pedicure che per dare un abbraccio. Non ti suona?

«Entrando in Nazionale pensavo sarei arrivata nella classica bolla di cristallo, seguita in tutto . Ma nessuno sa che cosa accade dentro l'Accademia. A Fabriano, nella mia società, mi trovavo bene sia dal punto di vista sportivo sia umano. A Desio non c'era nessun rapporto umano, in più c'erano gli insulti. Vorrei che Maccarani capisse che l'abbraccio mancato non è il problema».

 Cosa ti ha fatto più male?

«Dalle ragazze della squadra con cui ero più legata mi aspettavo almeno un messaggio. Non in pubblico, perché capisco che non possono, ma in privato. Ci speravo».

 Abbiamo visto la foto di gruppo delle Farfalle con il dito medio rivolto all'obbiettivo. Come hai reagito?

«Mi ha fatto male. Anche se ho sempre pensato che a Desio le ragazze fanno quello che gli viene detto. Abbiamo parlato delle allenatrici, non di loro. Dimostrano di essere molto immature. Tante sapevano quello che stava succedendo a me e Anna Basta.

Hanno visto la nostra sofferenza».

 Sui social hai ricevuto anche messaggi di sostegno?

«Sul mio profilo Instagram moltissimi. Chi mi segue, mi ha appoggiato. Questo mi ha stupito e in positivo».

 E i cosiddetti «leoni di tastiera»?

«Se mi sposto su Twitter o sui profili delle ragazze della Nazionale, di alcuni genitori, allora gli insulti per me e per le altre ci sono».

 Ti fanno restare male?

«Non ci rimugino sopra. O sono persone esterne a questo mondo, che non sanno come funziona, o non vogliono capire e pensano che per stare in Nazionale bisogna essere pronte a tutto».

 L'accusa implicita è di essere «debole».

«Anche solo per arrivare in Nazionale bisogna aver lavorato una vita. I sacrifici li ho sempre fatti. Andare via di casa a 12 anni e allenarmi otto ore al giorno non è mai stato un problema. Chi mi insulta o non arriva a capirlo o parla senza pensare. Le parole di queste persone non mi interessano».

 A chi ti accusa di aver parlato solo perché non hai fatto le Olimpiadi, che cosa rispondi?

«Il mio sogno era entrare nelle Farfalle. Me ne sono andata per mia scelta, ero la più piccola. Se fossi rimasta, probabilmente quattro anni dopo sarebbe toccato a me. Nessuna invidia».

 Primissimo bilancio, parlarne è stato utile?

«Dopo le nostre testimonianze e tutto quel che è successo, credo che il mondo della ginnastica ritmica sia almeno un pochino migliorato. Meno insulti, meno schiaffi. Nelle pedane credo che ora ci sia molta più gentilezza. Che poi non sia un cambiamento temporaneo, ma duraturo, non dipende da noi, ma dalle scelte che farà chi ha la responsabilità di questo sport».

 Da corriere.it il 10 gennaio 2023.

Una farfalla con un’ala spezzata. Una foto che significa la fine di un’era. «L’attuale e futura squadra nazionale italiana di ginnastica ritmica non si riconoscerà MAI PIU’ con il soprannome FARFALLE». È il post di Alessia Maurelli, l’attuale capitana delle Farfalle che, sotto la guida di Emanuela Maccarani, l'allenatrice adesso al centro di un'indagine federale e penale, ha conquistato il bronzo alle Olimpiadi di Tokyo, oltre a decine di medaglie agli Europei e ai Mondiali.

 Non è una presa di distanza, anzi lo spirito è molto lontano. È solo la presa di coscienza che nulla sarà più come prima. Perché lo scandalo degli abusi e dei maltrattamenti ha segnato uno spartiacque: con ogni probabilità il 12 gennaio il consiglio federale rimuoverà l’allenatrice Maccarani, in attesa di vedere come andranno le indagini in corso.

«L’era delle “Farfalle” NATA giornalisticamente ad Agosto del 2004, MUORE dopo 18 anni sempre giornalisticamente a Novembre 2022. La rottura è dolorosa ed irreversibile, dato sopratutto il peso insostenibile di un collegamento diretto e ormai mediaticamente inevitabile a violenze e abusi che non rispecchia il nostro stesso ideale di libertà. L’attuale e futura Squadra Nazionale Italiana di Ginnastica Ritmica non si riconoscerà MAI PIÙ con il soprannome FARFALLE», il post di Maurelli su Instagram.

 E a chi sui social commenta chiedendo «siete sicure che sia tutta colpa dei giornali?», arriva la replica di un’altra compagna di squadra, Martina Centofanti: «Noi parliamo sempre solo ed esclusivamente del nostro vissuto, dei valori e gli insegnamenti di vita ricevuti all’interno della NAZIONALE. Su altro non abbiamo potere e non ci permettiamo di giudicare o dare sentenze, a differenza di altri, su cose non vissute sulla nostra pelle».

Il senso è abbastanza chiaro, ed è poi quello ribadito da Emanuela Maccarani nell'intervista al Corriere e che si può riassumere, più o meno, così: a Desio, all'Accademia della Nazionale, non è mai successo niente di grave, sulle violenze nelle palestre del resto d'Italia non possiamo pronunciarci. Le farfalle, pardon, le ex farfalle sembrano unite.

Maccarani e gli abusi nella ginnastica: «Lo sport è per tutti, l’alto livello no. Mi manderanno via, ma non ho mai vessato nessuno». Marco Bonarrigo e Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 10 gennaio 2023.

La direttrice tecnica delle Farfalle è indagata assieme all’assistente Tishina: «L’opinione pubblica mi vede come la cattiva della storia. Ma chi mi conosce sa chi sono. Le accuse solo da atlete che non sono arrivate all’Olimpiade»

«L’opinione pubblica mi vede come la cattiva della storia: come può la Federginnastica, a questo punto, non mandarmi via? Ma chi mi conosce, sa chi sono». Due mesi fa scoppiava il caso delle Farfalle maltrattate all’accademia di Desio: questa è la verità di Emanuela Maccarani, 56 anni, allenatrice e d.t. della ritmica, il tecnico più vincente dello sport italiano.

Come ha reagito alle accuse di Nina Corradini, Anna Basta e Giulia Galtarossa?

«Non trovo un senso ma capisco che c’è una nuova sensibilità verso body shaming, bullismo, abusi, violenza verbale. E c’è chi ha ritenuto di farci un investimento. Con i social, poi, viaggia tutto velocissimo».

A cosa allude?

«Ho letto frasi identiche nello scandalo della ginnastica in Svizzera e negli Usa: maialino, sei grassa... Frasi che io non ho mai pronunciato. Vedo una regia mediatica, ora tocca alla ritmica. Ed è giustissimo occuparsene, lo stavo già facendo sotto la mia direzione tecnica».

Non pensa di aver potuto riprodurre inconsciamente con le allieve atteggiamenti vessatori vissuti da atleta?

«Da ginnasta io non sono stata vessata in alcun modo. Il mio motto è: fai il contrario di ciò che hai visto fare male. Alla Nazionale si arriva con un percorso e rispettando dei canoni: lo sport è per tutti, l’alto livello no. Io preparo il giardino, le Farfalle arrivano e si posano: 11 mesi all’anno all’accademia, io sono lì per loro. Sono coach, non mamma, ma se qualcuna mi chiede un abbraccio non mi tiro indietro. E prenoto anche la pedicure».

E il malessere diffuso raccontato in queste settimane?

«Se i risultati li otteniamo e si ripetono nel tempo con ginnaste diverse, c’è un benessere. Poi ci può stare che una non arriva alle Olimpiadi».

È successo ad Anna Basta.

«Anna se n’è andata a maggio 2020, nessuno si era accorto del suo disagio. Il problema non erano i chili, era la tecnica. Le Olimpiadi si fanno in 5 e lei era la sesta. Le ho detto: vai a casa, centrati, ci risentiamo. È sparita. Ma non è il fallimento di nessuno. Anna non voleva più la ginnastica e si è portata dietro il conflitto in famiglia. Le serviva un alibi: non essere stata capita».

A Desio avete l’ossessione del peso?

«C’è un sistema, nessuna ossessione. Il peso è una metodica come in tanti altri sport. Dal 2019, poi, con l’arrivo del dietista, molto è cambiato: la pesa non si fa quasi più, le ragazze mangiano da sole: lavorano 7-8 ore al giorno, se non mangiassero sarebbe un problema».

Però fino a poco tempo fa le pesavate, in pubblico e con commenti pesanti, dicono le atlete.

«Non è mai esistito un rito collettivo, lo facevano le mie assistenti tutte le mattine, certo non io. Le ragazze si cambiavano in spogliatoio e si pesavano prima di indossare la divisa. Se fosse successo qualcosa di sbagliato, sarei venuta a saperlo: nel 2011 ho allontanato un’allenatrice che stava troppo addosso alle ginnaste. Se con Olga Tishina (assistente indagata insieme a Maccarani dalla giustizia penale e sportiva , ndr) ci fosse un malessere, lo saprei. Non c’è».

Lei, Maccarani, ha mai usato modi duri o parole troppo dirette negli allenamenti?

«Dipende dal momento e dal contesto ma solo con riguardo agli aspetti tecnici. Certamente in quasi trent’anni qualche errore l’avrò commesso. Se mi fossi comportata male, i genitori me l’avrebbero detto. E invece mi chiedono tutti di restare».

Angelica Savrayuk, bronzo a Londra 2012, in un libro ha scritto: «Emanuela mi riprende, mi svilisce, vivo ogni allenamento come un’agonia».

«Un libro in cui non parla mai di sé. È arrivata dall’Ucraina con il ferro a zero: uscivo apposta per comprarle la carne di cavallo. Una sera a cena le ho salvato la vita con la manovra di Heimlich. È una di quelle a cui non è mai stato detto nulla».

Ma insomma, se non ha niente da rimproverarsi, come si spiega le accuse?

«Arrivano tutte da ginnaste che non hanno fatto le Olimpiadi, guarda caso. Galtarossa, quella dell’ “abbiamo un maialino in squadra”, nel 2013 è diventata mia assistente: la pesa fino a Rio la faceva lei. Certo che può essere successo che duecento bambine in tutto il Paese abbiano avuto la percezione di essere state maltrattate, ma l’accademia di Desio cosa c’entra? Non posso rispondere per tutta Italia».

A proposito di regia occulta: aver accentrato i ruoli ed essere una donna che rappresenta tutti i tecnici italiani al Coni, può averle attirato invidie?

«Certamente».

Cosa si aspetta che succeda, avendo appena incontrato all’accademia il presidente federale Tecchi?

«Spero che non mi usino come capro espiatorio perché, come tutti, vorrei rispondere solo delle mie azioni. Dopo Tokyo volevo lasciare, ma la Federazione non ha trovato una sostituta: con i risultati, con la vita che faccio e gli stipendi che ci sono, non è un ruolo da tutti... L’opinione pubblica ora mi vede come la cattiva: come può la Federazione non mandarmi via?».

Crede che la manderanno via, pur in assenza di rinvio a giudizio e condanna?

«È possibile».

E se le lasciassero la guida della Nazionale e le togliessero la direzione tecnica?

«Però mi devono spiegare perché: cosa ho fatto? E a chi? A quel punto sentiranno la mia risposta. C’è una scuola, c’è un metodo, vinciamo da vent’anni. Non è per niente banale. Se le emozioni le tiri fuori, le provi. Io non ho mai maltrattato nessuno. La ritmica è uno stato d’animo. Le ginnaste azzurre sono belle, leggiadre, armoniose. Impossibile fingere»

Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” il 3 Gennaio 2023.

Il pubblico ministero non le ha creduto: quello schiaffo inflitto a una ginnasta di 8 anni «in virtù dell'affetto che provavo per lei, per attirarne l'attenzione ed evitare che si infortunasse cadendo di nuovo dalla trave» non era a «fin di bene». Lo schiaffo è costato a Moira Ferrari, direttrice della Gymnasium di Treviso e coach di livello nazionale, un rinvio a giudizio per abuso dei mezzi di correzione, il primo da quando la ginnastica ritmica italiana è travolta dalle denunce di maltrattamenti di atlete ed ex atlete.

 Dopo l'iscrizione nel registro degli indagati a Monza di Emanuela Maccarani, direttrice dell'Accademia di Desio, la casa delle Farfalle azzurre, e della sua assistente Olga Tishina, comincia altro procedimento per accertare i fatti in sede penale. L'episodio in Veneto risale al 2017, il processo comincerà il 16 ottobre con i genitori (che avevano raccontato la vicenda al Corriere , portando la testimonianza di altre ragazze) che si costituiranno parte civile.

Ferrari, direttrice tecnica di una società tra le più vincenti in Italia, che si definisce «personal coach del benessere» sui suoi profili social, ha spiegato ai magistrati che i genitori della bimba «con cui mi ero scusata formalmente sono venuti meno alla loro parola e anziché ricomporre la questione» l'hanno denunciata alla giustizia sportiva e penale.

 La procura sportiva - ricevuto il dossier che il padre aveva raccolto - aveva invece concesso alla coach di patteggiare un solo mese di squalifica, senza neppure ascoltare i testimoni. Eppure i vertici federali erano stati informati di quello che succedeva: prima di dimettersi per protesta un socio della Gymnasium aveva infatti riferito per iscritto al presidente Gherardo Tecchi «comportamenti in contrasto con il codice etico messi in atto dalla allenatrice Moira Ferrari nei confronti di piccole atlete e in particolare di violenze fisiche e psicologiche».

Tecchi non rispose mai alla lettera e i fatti, sul piano sportivo, sono ormai prescritti. La Gymnasium era stata oggetto di un'indagine giudiziaria nel 2012 dopo che tre ex allieve avevano denunciato comportamenti violenti da parte degli allenatori.

 C'è attesa, intanto, per le decisioni della Procura della Federginnastica che domani, dopo due mesi di audizioni, notificherà i provvedimenti adottati nei confronti delle allenatrici di Desio. Il loro deferimento potrebbe costringere la federazione (già nel Consiglio del 12 gennaio) a rivoluzionare i ruoli tecnici che scadrebbero dopo i Giochi di Parigi 2024 mentre alcuni consiglieri sarebbero pronti a chiedere le dimissioni al presidente Tecchi (in carica dal 2016) o il commissariamento da parte del Coni.

Da rainews.it il 29 Dicembre 2022.

A fine ottobre le denunce di alcune ex atlete. Il 14 novembre scorso due ex ginnaste dell'Accademia di ritmica di Desio vengono sentite dalla Procura di Monza e confermano quanto già uscito sui media a proposito delle presunte vessazioni subite durante la permanenza nella scuola di ginnastica.  

La vicenda oggi presenta importanti novità di carattere giudiziario perché due tecnici dell'Accademia sono stati iscritti nel registro degli indagati per presunti comportamenti vessatori ed abusi psicologici nei confronti di alcune giovani atlete, tutte minorenni all'epoca dei fatti. Lo ha fatto sapere il Procuratore della Repubblica di Monza, Claudio Gittardi.

Le due persone in questione - a quanto si apprende - sono Emanuela Maccarani, direttrice tecnica del polo lombardo, e Olga Tishina, assistente di Maccarani. Quest'ultima, sospesa dalla Federazione, quando la notizia delle prime denunce trapelò sulla stampa, inviò ai colleghi un messaggio whatsapp per difendere la sua posizione.

Le indagini sono volte ad accertare imposizioni e divieti relativi a consumo di cibi e bevande, a continui controlli del peso corporeo e presunte umiliazioni subite dalle atlete per comportamenti ritenuti non adeguati. 

Le ragazze avrebbero raccontato nel dettaglio il contesto nel quale gli abusi si sarebbero verificati, in particolare in relazione al loro aspetto fisico e al controllo esasperato del peso, indicando i presunti responsabili, la durata e la ripetizione nel tempo degli abusi.

Da ilnapolista.it il 30 dicembre 2022.

La direttrice tecnica dell’Accademia internazionale di ginnastica ritmica di desio, Emanuela Maccarani, e la sua assistente Olga Tishina, sono indagate nell’ambito dello scandalo Farfalle. La Procura di Monza le accusa di maltrattamenti alle giovani allieve. La notizia è di ieri. Repubblica ne scrive. Nell’ambito dell’inchiesta sono stati sequestrati sei cellulari a tre ginnaste della Nazionale e ai loro tecnici: le chat fanno tremare i vertici dello sport italiano, a partire dal Coni. 

Repubblica scrive:

Sei cellulari fanno tremare i vertici dello sport italiano. Sono quelli che sono stati sequestrati a tre ginnaste della Nazionale di ritmica e ai loro tecnici dalla Procura di Monza nell’inchiesta, per abusi e vessazioni, sull’Accademia di Desio, commissariata dal 3 novembre. Il contenuto dei telefoni – chat, video e audio – è una parte centrale delle indagini che hanno portato all’iscrizione di Emanuela Maccarani, la direttrice tecnica della Nazionale, e di Olga Tishina, la sua assistente, nel registro degli indagati. L’inchiesta guidata dal procuratore capo Claudio Gittardi rischia di scuotere l’intero sport azzurro”.

Ieri sono stati sequestrati anche i cellulari di Maccarani e Tishina, provvedimento impugnato da entrambe davanti al tribunale del Riesame, scrive La Stampa. 

La Maccarani, intanto, non commenta l’iscrizione nel registro degli indagati.

«Aspetto la chiusura delle indagini e mi attengo al silenzio come fatto fin d’ora. Più avanti sarò lieta di dire la mia, sperando che le indagini siano rapide nell’interesse mio e soprattutto delle ginnaste». 

Repubblica scrive:

Il 4 gennaio arriverà il verdetto dell’indagine della procura federale, che ieri ha depositato, sulla piattaforma Coni, l’atto con la decisione relativa all’indagine sportiva condotta sullo scandalo nella ginnastica. L’inchiesta della Procura di Monza è parallela a quella della Procura di Brescia: lì i pm Alessio Bernardi e Francesco Prete stanno approfondendo le denunce, risalenti ad agosto scorso, delle mamme di due giovani promesse della ritmica italiana, non della Nazionale, vittime di abusi fisici e psicologici”.

Maltrattamenti alle ginnaste, indagata la ct Emanuela Maccarani. Sotto inchiesta l'Accademia Internazionale di Ginnastica Ritmica di Desio (Monza). Due ct iscritti nel registro degli indagati. Federico Garau il 29 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Si aggiunge un nuovo capitolo allo scandalo che vede al centro l'Accademia Internazionale di Ginnastica Ritmica di Desio (Monza). La vicenda, ormai dibattuta livello nazionale, è ormai divenuta un caso, scatenando il caos nel mondo dello sport.

Arriva oggi la notizia dell'iscrizione nel registro degli indagati dalla Procura di Monza di due tecnici dell'accademia. Da prime indiscrezioni, pare siano la direttrice tecnica Emanuela Maccarani e Olga Tishina, sua assistente. L'accusa, nei loro confronti, è quella di presunti comportamenti vessatori e abusi psicologici commessi nei confronti delle atlete.

Bufera nella ginnastica artistica

È la fine di ottobre quando l'intera vicenda balza agli onori della cronaca. Alcune ex atlete decidono di parlare e, al contempo, due giovani promesse della ritmica, di 13 e 15 anni, si ritirano improvvisamente dagli allenamenti e le loro famiglie presentano un esposto presso la procura di Brescia per presunti maltrattamenti.

"Maltrattate per il peso...": caos nel mondo dello sport

Le ragazze si allenavano in una palestra a Brescia e, malgrado i loro risultati, venivano costantemente vessate, con allenamenti serrati e pressanti pretese di mantenersi in forma perfetta, anche a costo di rinunciare al cibo. Lo stato di fragilità psicologica delle due adolescenti aveva spinto le madri di entrambe a intervenire, denunciando la situazione. Pressioni, diete rigidissime, umiliazioni. Ormai era troppo.

Alle prime storie se ne aggiungono altre. Lo scorso 2 novembre il caso è finito addirittura sul tavolo del ministero dello Sport. Il tema è stato dibattuto dal ministro Andrea Abodi con il presidente del Coni Giovanni Malagò e il presidente della Federazione Ginnastica d'Italia Gherardo Tecchi.

In breve la vicenda è divenuta nazionale, e tante altre atlete si sono fatte avanti, raccontando storie tutte molto simili. Sconcertante la testimonianza a Verissimo delle ex ginnaste Nina Corradini e Anna Basta: “Venivamo pesate ogni giorno, tutte insieme, in fila una per una. Non mangiavamo perché avevamo paura”.

Il peso delle farfalle finisce sul tavolo del governo

Dopo aver inizialmente aperto un fascicolo senza ipotesi di reato né indagati, adesso si muove la procura della Repubblica di Monza. Due tecnici dell'Accademia Internazionale di Ginnastica Ritmica di Desio sono stati iscritti nel registro degli indagati. Si parla di comportamenti vessatori, e abusi psicologici nei confronti di ginnaste giovanissime, tutte minorenni all'epoca dei fatti.

Come spiegato dal procuratore Claudio Gittardi, gli inquirenti intendono verificare quanto denunciato dalle ragazze, che hanno riferito di imposizioni, divieti relativi al consumo di cibo, controlli di peso serrati e umiliazioni.

Accusati di maltrattamenti, i due ct, responsabili della struttura e della preparazione delle atlete, dovranno rispondere all'autorità giudiziaria. A quanto pare si tratta di Emanuela Maccarani, direttrice tecnica dell'Accademia internazionale, sospesa dalla Federazione, e Olga Tishina, assistente di Maccarani.

Abusi nella ginnastica ritmica, indagata la ct della Nazionale. La procura di Monza contesta alla Ct Maccarani e alla sua assistente Tishina il reato di maltrattamenti. Lucia Galli il 30 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Dalla pedana della palestra al bancone del tribunale. Dalla gloria delle medaglie all'accusa di maltrattamenti. Emanuela Maccarani, commissario tecnico della Ritmica azzurra, membro della giunta Coni e la sua assistente Olga Tishina sono indagate dalla Procura di Monza per maltrattamenti su due ragazze della Nazionale italiana di stanza all'accademia di Desio, in Brianza. Non è bastato il commissariamento della scuola, disposto il 3 novembre scorso; l'inchiesta condotta dal tribunale federale sportivo in tempi record «non aveva riscontrato illeciti». La giustizia ordinaria, però, è andata avanti, dopo aver ascoltato alcune atlete che hanno formalizzato la loro versione dei fatti, inizialmente diffusa solo a mezzo stampa. I nomi delle due coach azzurre sono stati confermati ieri, dopo alcune ore di indiscrezioni, dall'ufficio giudiziario di Claudio Gittardi.

Ora una parabola dalla traiettoria più imprevedibile di un nastro o una clavetta affidate al cielo sembra avvolgere il destino della Ritmica italiana. Nina Corradini, Anna Basta ed in seguito anche Giulia Galtarossa sono tutte Farfalle dalle ali spuntate: le loro storie di dolore si assomigliano. Sacrifici, rinunce finalizzate al grande sogno mondiale o olimpico e poi sofferenza, privazioni ed abusi psicologici con pesanti strascichi sul fisico e sulla psiche. Le baby atlete in Brianza vivono in raduno permanente, lontano dalle famiglie affidate al team federale, che, invero, negli anni si è sempre identificato nella dt Maccarani e nel suo mini entourage, spesso composto da ex atlete chiamate, appena dopo il ritiro a collaborare, senza formazione specifica all'insegnamento. Il j'accuse delle due Farfalle nazionali ha scatenato, in 60 giorni, da nord a sud Italia, un vero «me too». L'epicentro del dubbio resta l'accademia di Desio, ma lo tsunami si è allargato anche a società giovanili e perfino a sodalizi non agonistici. Bimbe, adolescenti: vessate su questioni di peso e paradigmi di alimentari. Le testimonianze - fra singhiozzi, mail anonime o resoconti finalmente consegnati, quasi in modo liberatorio, a chi li volesse ascoltare - dipingono un quadro sconcertante: quale sia la misura della disciplina di uno sport che si fonda per sua natura su dieta e autocontrollo e quando, invece, quella tacita accettazione di un rigore «necessario» si trasformi in maltrattamento? Ieri è arrivata la doccia fredda per quello che negli ultimi 20 anni è stato uno dei punti di onore dello sport azzurro. Con oltre cento medaglie, Maccarani è la allenatrice più vincente della storia sportiva azzurra ed è indubbiamente «mamma» e anima delle Farfalle, da quando è stata istituita la prova a squadre, oltre due decenni fa. Determinata, rigorosa, contesissima anche dalle nazionali estere alle cui lusinghe non ha mai ceduto, si è sempre detta pronta a chiarire. Un suo audio ad un gruppo di colleghi whatsapp, all'inizio di questa vicenda, auspicava di poter chiarire tutto e nel contempo sconsigliava vivamente a tutti di parlare con la stampa. Questa fu l'unica inclinazione al nervosismo, già ieri rientrato nei ranghi di chi ha sempre preteso molto dagli altri, ma in primis da se stessa: «Spero che le indagini siano rapide nell'interesse mio e soprattutto delle ginnaste». Le Olimpiadi sono fra un anno e mezzo e per la prima volta le farfalle non sono ancora qualificate. E sicuramente inchiodate a terra dalla realtà.

M.B. per il “Corriere della Sera” il 20 dicembre 2022.

Non si tratta più di fatti limitati alla sola «Casa delle Farfalle» di Desio, la fucina di medaglie della ginnastica ritmica italiana, di frasi violente, discriminazioni, bullismo, dei noti comportamenti molesti operati da un numero ridotto di allenatrici nei confronti di poche atlete di vertice alloggiate nei centri federali. 

Verificati uno per uno da un pool di avvocati e psicologi, raccolti da genitori e figli impauriti e traumatizzati, i 197 casi catalogati in un dossier dall'associazione Change the Game che verranno presentati oggi all'Associazione della Stampa Estera di Roma, illustrano episodi gravi o gravissimi accaduti in decine di palestre piccole e grandi di 15 regioni italiane su bambine e ragazze di età compresa tra 8 e 22 anni, affidate sia a coach di chiara fama sia ad altre sconosciute ai più.

C'è body shaming, ci sono privazioni alimentari, discriminazioni, percosse verso chi mangia un biscotto di troppo o sbaglia un esercizio, allenamenti di sei ore per ginnaste piccolissime, isolate dalle coetanee e dal sistema scolastico e indirizzate spesso verso «istruzione parentale» di dubbia qualità, nelle ore serali, per non sottrarre tempo a volteggi e rotazioni. Ci sono allenatrici che consapevolmente o meno riversano sulle allieve le frustrazioni subite dalle piccole, ma anche genitori che perdono il controllo della situazione sognando per le figlie un futuro olimpico a qualunque costo. 

Madri e padri che non denunciano per non giocarsi l'opportunità di vederle su un podio, altri che pagano (spesso in nero) migliaia di euro gli «svincoli» per il passaggio da una società a un'altra che dovrebbero invece essere a carico del gruppo sportivo. Emerge nella Ritmica ma anche nell'Artistica, secondo gli esperti di Change the Game, una cultura da caserma, diffusa e difficile da sradicare. 

Emerge una Federginnastica che a mesi dalle prime denunce e dopo decine di audizioni condotte da procuratori sportivi che hanno spesso minimizzato i fatti, continua ad ingaggiare esperti ma non è ancora riuscita ad emanare un solo processo restrittivo, un solo rinvio a giudizio sportivo. «A gennaio ci faremo sentire» dicono i federali che ieri sera, tenendo però lontana la stampa, hanno riunito a convegno via Zoom una novantina di tecnici per provare a voltare pagina, ammesso che restino pagine da voltare.

Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” il 20 dicembre 2022.

«Ammetto di aver capito poco o niente. Ammetto che quando mia figlia, a 13 anni, mi ha telefonato per dirmi "Papà, vieni a prendermi perché sto male" mi è crollato il mondo addosso. Al sogno di Giada di diventare Farfalla, io e mia moglie abbiamo dedicato nove anni della nostra vita ed enormi sacrifici. E no, non avevamo capito quanto stava soffrendo. Ancora oggi mi chiedo cosa abbiamo sbagliato». 

Quattro anni fa Sergio Marchetti e sua moglie Francesca, romani, sono stati i primi a denunciare la ginnastica ritmica italiana, senza ottenere giustizia. Giada oggi ha 17 anni, ha superato con fatica il trauma e ora è ballerina e studentessa modello. Di casi come il suo ne sono poi emersi tantissimi. 

Perché non vi siete accorti della gravità della situazione, Sergio?

«Giada ha cominciato a 4 anni e fino a 8 era una favola: lo sport come gioco, il corpo flessibile e armonioso, lei che si diverte lontana da videogiochi e divano. Pareva un sogno». 

Poi?

«Poi quella che solo adesso ci sembra follia: l'agonismo a 8 anni, le selezioni, i campionati, le quattro ore in palestra tutti i giorni. Ho sempre cercato di essere razionale: mai visto un allenamento, mai chiesto notizie sulle qualità di mia figlia alle coach come tanti altri genitori. Mi fidavo». 

Segnali sottovalutati?

«Alcuni sì. Le sofferenze, la stanchezza. Tende e materassi che sbarravano le palestre, qualche insegnante brava tecnicamente ma parecchio squilibrata, gli insulti in caso di errori. Sarà il metodo, ci dicevamo, incoraggiando Giada a non piangere e a non dar troppo peso a quelle parole».

A 9 anni sua figlia comincia a girare di società in società, di città in città. Perché?

«Perché cerchi la struttura più qualificata, l'insegnante più brava. E se serve vai lontano, noi prima nel Lazio, poi a Fabriano e poi a Novara. Affitti case, paghi trasferte, ti crei un alibi chiedendole se "se la sente" e Giada se la sentiva sempre. Delle sue sofferenze ci ha raccontato alla fine, in lacrime: "Non volevo deludervi"». 

Ma era isolata da voi, dalle amiche e anche dalla scuola.

«Seguiva un sogno che a noi pareva grande. Quando si è trasferita a Castelletto Ticino, a 12 anni, si allenava praticamente tutto il giorno. Negli alberghi non accettano minori non accompagnati e così le palestre fanno convenzioni con case-famiglia, spesso di genitori di altre allieve. Le ragazze vivono lì assieme, mangiano pane e ginnastica». 

E la scuola?

«Scuola parentale: lezioni dopo le 18, insegnanti improvvisati, spesso reclutati tra papà e mamme. Cotte dopo ore di esercizi, le bambine si addormentavano a italiano o matematica. Giada era bravissima e questo forse ci ha illuso che tutto andasse bene». 

Quando è scoppiata?

«Il 5 maggio 2018 dopo aver visto una compagna percossa dalla coach con le clavette.

Non era il primo episodio: ho guidato sette ore per abbracciarla e davanti a una pizza mi ha raccontato quello che aveva subìto: gli sgambetti sistematici per farla cadere che le hanno procurato seri problemi alla schiena, le frasi brutali, il cibo negato. Il sogno si è sbriciolato: c'è voluta una psicologa per valutare e riparare il disastro».

Lei ha denunciato l'insegnante, ex farfalla titolatissima.

«La federazione ha raccolto la mia denuncia e quella di altri genitori, documentate con audio e testimonianze, ma non mi ha mai dato notizie e non ha mai sentito Giada: nel processo sportivo la vittima non può costituirsi parte civile, l'affare resta tra Procura e incolpato. Alla coach solo tre mesi di squalifica, durante i quali ha continuato ad allenare ed è stata anche convocata in ruoli federali. La Procura in compenso ha indagato su di me per capire se ero testimone attendibile o genitore fanatico e rancoroso. Ho presentato ricorsi e controricorsi al Coni: un muro di gomma. In compenso...». 

In compenso?

«Due avvocati legati alla Federginnastica, di cui uno membro di un organo di giustizia interna, mi hanno proposto di seguirmi in un procedimento civile contro la coach, spiegandomi che se ne sarebbe interessato un collega perché loro non potevano esporsi. Ho versato un anticipo ma dopo poche settimane mi hanno comunicato che non era il caso di proseguire».

Perché?

«Credo abbiano capito che l'insegnante era ben tutelata: il sistema si protegge da solo. Ma io non cercavo vendette, volevo solo che nessuno subisse più quello che ha subito mia figlia, volevo che la Ritmica continuasse ad essere lo sport meraviglioso che Giada praticava da bambina».

Ginnastica, coach confessa gli abusi: «Aggredivo le atlete perché alla fine della mia carriera avevo l’autostima sotto i piedi». Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 21 Dicembre 2022.

Ex azzurra, Irene Castelli è la prima a fare autocritica: «Ho sbagliato perché alla fine della mia carriera di atleta avevo l’autostima sotto i piedi ed ero traumatizzata nel corpo e nella mente. Alle colleghe dico: accettatelo e cercate aiuto»

«Ho sbagliato sapendo di sbagliare. Ho sbagliato perché alla fine della mia carriera di atleta avevo l’autostima sotto i piedi ed ero traumatizzata nel corpo e nella mente. Così, quando ho iniziato ad allenare, aggredivo sistematicamente le mie allieve: se non ho fatto loro del male è solo perché ho realizzato la situazione e ho trovato una psicologa che mi ha guarito. Alle colleghe dico: cercate aiuto all’esterno, accettatelo perché il rischio di provocare traumi e dolore nelle vostre bambine è forte».

Bergamasca, 39 anni, Irene Castelli, azzurra dell’artistica ai Giochi di Sidney 2000, è la prima coach ad analizzare criticamente (e su se stessa) gli errori delle allenatrici della ginnastica dopo settimane in cui l’ambiente è stato devastato dalle denunce di giovanissime vittime di aggressioni, violenze e insulti. Castelli si è aperta, tra emozione e lacrime, all’incontro in cui ieri a Roma l’associazione «Change The Game», coordinata da Daniela Simonetti, ha presentato le 197 denunce finora ricevute dagli psicologi e dai legali del team. «Mandata in pedana sotto antidolorifici anche quando stavo male — ha raccontato Castelli —, per non sottrarre tempo agli allenamenti dovevo scegliere se pranzare o andare dal fisioterapista. Le Olimpiadi non sono state un traguardo ma un incubo». Irene si è aperta ed è guarita, un secondo coach di cui ieri è stata trasmessa la testimonianza si sta pentendo solo ora: «Una mia atleta promettente ma esuberante veniva umiliata davanti a tutti dal capo allenatore che la costringeva a decine di trazioni punitive alla fune — ha detto —. Un giorno lei, per la vergogna e lo sfinimento, si fece la pipì addosso: lui si trattenne dal darle uno schiaffo dicendo che le faceva schifo». Un orrore di cui lui, il coach, ammette di aver realizzato la portata solo da poco.

E poi Alexa, ancora giovanissima, apparsa coraggiosamente in video per spiegare il suo passaggio da una «felice dipendenza dalla ginnastica, l’unico sport in cui puoi davvero volare» all’incubo di una nuova coach che — a 12 anni — cominciò sistematicamente a molestarla per via del peso. «Mi faceva sentire grossa, grassa, brutta — ha spiegato — e io misuravo il polso con quello delle compagne per provare a sentirmi normale. Ho iniziato a rifiutare il cibo, prima gettandolo nel water e poi vomitandolo, ma lei continuava ad umiliarmi, sostenendo che il mio corpo sbagliato penalizzava la squadra e le compagne. Devo la vita a una conversazione con mia madre che mi ha salvato fidandosi di me, perché le altre mi isolavano. Dopo mesi la società ha allontanato la coach, però nessuno mi ha mai chiesto scusa».

Altre giovani atlete e altre coach hanno decodificato lo standard delle violenze. L’allieva a disagio che diventa elemento destabilizzante, i genitori che vengono convocati per spiegare loro quanto sia capricciosa e pigra e per farla sentire in colpa, i pugni sullo stomaco e gli schiaffi sulle gambe giustificati (anche quando lasciano ematomi) per «verificare il corretto stato di tensione dei muscoli» e impedire «che rilassandosi troppo la bimba cada e si faccia male».

Il mondo della ginnastica attende ancora le risposte di una Federazione immobile sul piano disciplinare: il fossato tra governo dello sport e atlete è profondo anche se ieri il presidente Tecchi ha proposto per la prima volta un incontro con l’associazione. Se la giustizia sportiva è inerte (il reato si prescrive dopo 4 anni, le pene sono mitissime), Patrizia Pancanti, avvocato, ha spiegato che «sul fronte penale sono accertati fatti trasversali a livello nazionale su cui stanno lavorando molte procure». Le ipotesi di reato sono quelle dell’articolo 572 del Codice Penale, i «maltrattamenti nei confronti di persona di famiglia in affido per ragioni di educazione, istruzione, cura o esercizio di una professione o di un’arte». Perché quella della ginnastica sarà anche una grande famiglia, come ripetono spesso i federali, ma al momento è soprattutto una famiglia malata.

Motociclismo.

Automobilismo.

Motociclismo.

Pecco Bagnaia.

Marc Marquez.

Valentino Rossi.

Pecco Bagnaia.

Bagnaia, il re ha concesso il bis. Gran premio e Mondiale, Pecco si prende tutto: "Era il mio sogno". Solo in tre nell'era MotoGp avevano vinto il titolo due volte di fila: Rossi, suo maestro, e Marquez. Maria Guidotti il 27 Novembre 2023 su Il Giornale.

Valencia - Go free 1. Vola libero Pecco. Il Motomondiale ha un nuovo eroe, perché se è difficile vincere, lo è ancora di più ripetersi, così Valencia si è tinta di rosso fuoco per Pecco Bagnaia e la Ducati festeggiando il bis con le tradizionali trajas. Prima di lui, nell`era moderna della MotoGP, ci erano riusciti solo Valentino Rossi e Marc Marquez.

Pilota italiano su moto italiana, sul podio Bagnaia intona l`Inno di Mameli e con lui tutto il team e la famiglia a partire dalla fidanzata e futura sposa Domizia, la sorella Carola, il papà Pietro e la mamma Stefania.

Bagnaia alza la coppa al cielo, sul più alto gradino, tra Fabio Di Giannantonio (poi retrocesso 4°) e Johann Zarco. Con loro Gigi Dall`Igna, artefice della rinascita della Rossa, «sono felice» dice il direttore generale di Ducati Corse, «felice ma lavoriamo per essere come la Red Bull...». Vorrebbe dire vincere 19 gare su 22, i rivali sono avvisati. Bagnaia festeggia con un enorme numero uno color oro e tre anelli come i suoi eroi della Nba - in onore dei tre titoli iridati (uno in Moto2, due consecutivi nella classe regina). Tecnico e riflessivo, ma anche estremante determinato, quest`anno il piemontese aveva avuto il coraggio di mettere il numero 1 sulla carena della sua Gp23, tornando alla tradizione dei piloti che il suo mentore e idolo Valentino Rossi aveva interrotto, mantenendo il leggendario 46.

Timido e introverso, il bravo ragazzo di Chivasso è diventato uomo, capace di dare la zampata decisiva in un finale al cardiopalma. «Avevo sempre sognato di conquistare il campionato vincendo la gara». E così è stato, complice anche il gravissimo errore di Jorge Martin che nella frenesia di recuperare posizioni, ha esagerato finendo nella ghiaia e portando con sé anche Marc Marquez che puntava a chiudere in bellezza l`avventura con la Honda prima del debutto con Ducati nei test di domani.

«Con il numero uno sulla moto, un secondo posto sarebbe stato un fallimento anche perché sono stato quasi sempre primo in campionato» confessa Bagnaia, «ce lo meritavamo e ce l`abbiamo fatta». Nel parc fermé Pecco è stato poi raggiunto da Jorge Martin, venuto a congratularsi con il grande rivale. «Pecco ha vinto contro una persona che non ha mollato mai. Ho pianto tutte le lacrime nel box e poi sono uscito a testa alta come un guerriero, perché questo sono. Peccato per la caduta, non ci voleva», confesserà Martinator.

«La nostra lotta ci ha reso ancora più forti». Intanto si canta e si balla nel garage Ducati con meccanici e ingegneri con la parrucca rossa e pure la nonna Luciana che finalmente tira un sospiro di sollievo: «Quanto abbiamo sofferto durante la gara! Pecco da bambino? Sembrava calmo e tranquillo, ma ne combinava sempre una», sorride, «e io lo proteggevo». La stabilità dell`affetto dei familiari è la forza di Pecco che ha saputo rialzarsi dopo la bruttissima caduta di Barcellona, quando venne travolto in pista. «Mi ha segnato molto, più di quello che ho mostrato in tv», ma adesso è il momento di festeggiare e martedì si torna in pista e sarà già 2024.

Riccardo Galli per La Nazione - Estratti venerdì 8 dicembre 2023. 

Pecco Bagnaia è davvero il bravo ragazzo della porta accanto. 

(...)

«Ho un figlio modello e che insegue i suoi sogni», ecco come lo inquadra, vede e accarezza babbo Pietro. Ed è la verità. Bagnaia in quello sguardo, in quel look mai eccentrico, nasconde la forza di un campione senza tempo. Un campione di oggi, ma anche (e soprattutto) un modello per gli altri. Per i ragazzi che anziché annegare nei social e nascondersi in uno smartphone hanno voglia di vivere, di emozionarsi, di fare come lui, Pecco, quel ragazzo campione e gentile che sta mettendosi con sano orgoglio sulle spalle eredità uniche e leggendarie realizzate solo da numeri uno come Valentino Rossi, Marc Márquez e Giacomo Agostini. 

«Che cosa provo nel sentir accostare il nome di mio figlio a quello di Vale o Marc? – quasi si giustifica babbo Pietro –. Ma che ne so… mica è facile metabolizzare una cosa di questo genere…». Pacato e freddo, è questa l’altra doppia foto che Bagnaia si porta dietro. Vera, verissima, la prima definizione, da rivedere la seconda. Pecco infatti può sembrare glaciale, calcolatore spietato, ragazzo e uomo che non si fa coinvolgere dalle emozioni, ma non è così. Anche in questo Bagnaia è oltre e sa bene che riflettere, puntare sulla concentrazione, non ‘sballare’ mai sul piano della tensione nervosa, non significa non avere ansie, paure, brividi.

Di nuovo papà Pietro: «La caduta di Barcellona l’ha sentita veramente forte. E non solo perché ha rischiato tanto, perché è stato male fisicamente. L’ha sentita a livello psicologico, nell’anima». Ha sofferto e chissà quanti dubbi gli saranno venuti pensando a quello che sarebbe potuto essere il resto del suo 2023. Ma le paure, i suoi timori Pecco le ha metabolizzate, vissute e annullate in famiglia. Con i genitori, con la sorella Carola, con la fidanzata Domizia. Fuori all’esterno poteva sembrare sicuro, impassibile, appunto freddo. Dentro, in casa, era quel ragazzo per bene che per un attimo vedeva il mondo crollargli addosso.

La famiglia anziché i social come compagni di viaggio e di vita, anche se Pecco, come i ragazzi della sua generazione, sui social ce lo trovi, perché si può essere al centro di tutto anche senza voler apparire chissà in che veste. Anche se poi, nella realtà, sei campione del Mondo, vivi a 300 all’ora e metti ogni avversario alle tue spalle. «È tosta quando tuo figlio fa questo mestiere», aggiunge babbo Pietro. Che insieme alla moglie Stefania e alla figlia Carola, che accompagna Pecco da sempre, in ogni gara, in ogni Gp, in ogni pezzo di mondo, vivrà nel 2024 le nozze di Francesco e Domizia. Un giorno speciale, un matrimonio che Pecco sta organizzando da tempo nei minimi dettagli. Come il bravo ragazzo della porta accanto. 

Quel ragazzo campione del Mondo della MotoGp. 

Il bravo ragazzo risalito sul tetto del motomondo. Pecco è l'opposto di Vale, ma l'ha stregato. E i fan iniziano a seguirlo. Maria Guidotti il 27 Novembre 2023 su Il Giornale.

Pecco Bagnaia, il bravo ragazzo che non ti aspetti. Preciso, pignolo e generoso come uomo, velocissimo, strategico e tecnico come pilota. Come si fa infatti ad essere un bravo ragazzo intelligente, pacato e riflessivo, quello cioè che le mamme vorrebbero come marito delle proprie figlie, ed andare a 300 all'ora, e vincere il secondo titolo MotoGp di fila? Le due cose non si sposano bene, ma in un certo senso Bagnaia ha saputo unirle. Pupillo di Valentino Rossi e pilota della VR46 Academy, il piemontese non somiglia per niente al Doctor. Come il sole e la luna, hanno caratteri completamente diversi, eppure a suon di vittorie e duelli spettacolari, il pilota della Ducati sta conquistando tutti. Lo si vede nei circuiti, con il giallo fluo del numero 46 che man mano lascia spazio al rosso fuoco Ducati. Protagonista di una doppia impresa: riportare nel 2022 il titolo a Borgo Panigale dopo 15 anni dal fatidico 2007 con Casey Stoner, alla ben più ardua sfida di ripetersi l'anno successivo. Un risultato riuscito a soli 2 piloti in MotoGP, proprio Valentino Rossi e Marc Marquez.

EREDE «Il momento più bello della mia carriera?», Pecco non esita a rispondere, «vincere proprio qui nel 2021 la stessa domenica in cui Valentino, il mio riferimento di sempre, correva per l'ultima volta nella classe regina». Provò la velata sensazione di un passaggio di consegne che fino a poco tempo prima pareva impossibile, perché come si fa a sostituire il Doc? Invece eccoci pian piano ad amare un nuovo campione.

ANTIPODI «Sportivamente devo tantissimo a Valentino. Ho imparato tanto, ma non ho mai commesso l'errore di provare a copiarlo», si racconta ancora Pecco. Forse il segreto sta proprio qui. Nella capacità di rimanere se stesso, nonostante la pressione astronomica della Casa, degli sponsor e della stampa. Pecco è il campione in pista e il bravo ragazzo della porta accanto che ti sorprende con un piatto alla carbonara semplicemente perfetto. È lui in casa a cucinare per la fidanzata Domizia che diventerà sua sposa. Ai fornelli come ai box, è semplicemente perfetto. Studia i piatti e MasterChef come le tabelle dei tempi e i grafici della telemetria. In questo forse sono diversi, così come nel carattere: estroverso Rossi, introverso il piemontese. Una cosa però hanno in comune: tecnico e perfezionista, Pecco passa molto tempo nel box con il capo tecnico e il telemetrista. Ama capire la meccanica, condividere le strategie per avere - il più possibile - tutto sotto controllo.

PREDESTINATO Classe 1997, nato il 14 gennaio, nella sua carta del cielo era già scritto: chi nasce in questo particolare giorno è una persona molto audace, capace di unire insieme vita privata e professionale per fare diventare tutto una sola cosa. Una interessante caratteristica di queste persone è che amano il pericolo e hanno grande forza di volontà.

DETERMINAZIONE Sotto contratto con Ducati all'inizio dell'anno che lo laureò campione del mondo Moto2 nel 2018, Bagnaia guadagnò la fiducia di Borgo Panigale proprio per la sua determinazione e capacità di dare il meglio di sé con il mezzo a disposizione senza lamentarsi o trovare scuse. Grande lavoratore e attento osservatore, tutto questo lo hanno portato ad essere semplicemente Pecco Bagnaia: il bravo ragazzo sul tetto del mondo.

Marc Marquez.

Marquez accerchiato e quelle parole di Vale. Lo spagnolo criticato. Il Dottore diceva già nel 2018: "Punta la gamba..." Stefano Saragoni il 28 Marzo 2023 su Il Giornale.

Voleva essere più forte di ogni altrui perplessità, ma non c'è riuscito. Oggi Marc Marquez, uno dei piloti più vincenti della storia del Motomondiale, è un uomo alla sbarra, che ha tutti contro o quasi. Perché se è vero che raccogli quello che semini, lui oggi raccoglie tempesta.

Nessuno è disposto a perdonargli l'errore di Portimao, quella frenata senza freni con cui ha abbattuto il malcapitato Oliveira e rovinato la gara di Martin. Quella in Portogallo è stata l'ultima di tante forzature fatte con leggerezza, senza dar troppo peso alle possibili conseguenze per chi si trovava sulla sua strada. E oggi nessuno gli crede più, perché sono troppe le volte in cui si è fatto largo a gomitate per prendere davvero in considerazione l'ipotesi del problema tecnico.

Gli avversari gli riconoscono lo straordinario talento, l'avere interpretato la MotoGP in un modo nuovo e rivoluzionario che gli ha permesso di vincere il titolo all'esordio e poi altre cinque volte in sei stagioni, ma pochi si fidano di lui.

Nella serie televisiva che lo racconta, Marquez dice di sé: «Come pilota, in pista, sono un bastardo». Ecco, tanti si sono convinti che sia proprio il caso di stargli alla larga...

Anche il pubblico non sembra gradire e in questi giorni di ebollizione social è diventato virale un vecchio video del 2018 in cui Valentino Rossi stigmatizzando il comportamento di Marc nel GP d'Argentina, diceva: «Qualcuno deve fare qualcosa, perché sennò c'è da farsi male». Si può dire che, dopo i fatti del 2015, il suo giudizio non era sereno, ma oggi sono in tanti a giudicare il doppio long lap da scontare nella prossima gara una sanzione ridicola per l'incidente provocato in Portogallo. Marquez, sostengono i più severi, andava fermato almeno per un turno.

Valentino Rossi: "Marquez si è rovinato l'immagine pur di farmi perdere il Mondiale". La Repubblica il 28 Marzo 2023.

Il duello tra Marc Marquez e Valentino Rossi 

L'ex campione della MotoGp è tornato ad attaccare il suo ex rivale, accusandolo di avergli fatto perdere volontariamente il titolo nel 2015: "In Malesia Marquez mi ha dato fastidio per tutta la gara, ha cercato di buttarmi giù. A quel punto io l'ho stretto e ci siamo toccati. Lui dice che gli ho dato un calcio ma non è vero. Per me è una ferita ancora aperta"

Subito dopo lo scontro con Miguel Oliveira, all'inizio del Gp del Portogallo, sui social network ha ripreso a girare un vecchio video in cui Valentino Rossi denunciava la pericolosità in pista di Marc Marquez. "Ti punta la gamba ed entra, non gliene importa niente". Il Dottore è tornato a parlare del suo ex rivale in pista nel podcast "BSMT" di Gianluca Gazzoli. Valentino si è soffermato in particolar modo sul Gp di Sepang del 2015, "una ferita profonda a cui penso anche troppo". Riaperta negli ultimi mesi dallo spagnolo, che ha ribadito di essere stato intimidito dal campione italiano prima in conferenza stampa, con l'accusa di aiutare Jorge Lorenzo nella volata iridata, e poi in pista.

Valentino: "Marquez cercò di buttarmi giù dalla moto"

Una versione che Rossi ha immediatamente respinto: "In Malesia Marquez mi ha dato fastidio per tutta la gara, ha cercato di buttarmi giù. A quel punto io l'ho stretto e ci siamo toccati. Lui dice che gli ho dato un calcio ma non è vero". Valentino ricorda anche il complicato post gara, a partire da una conversazione con lo stesso Marquez: "Gli dissi: 'Ti rendi conto di quello che stai facendo? Ti stai rovinando l'immagine. Lo sai che ti ricorderanno solo per questo? Vale la pena rovinarti per farmi perdere il Mondiale?' Ma lui mi ha guardato distrattamente". Poi la doccia gelata per la scelta della direzione gara: "Pensavo che i commissari facessero partire Marc ultimo a Valencia, invece punirono me". Rossi perse il Mondiale per cinque punti.

Rossi: "Per Marquez ero il mito da distruggere"

Rossi diventa un fiume in piena quando si parla di quella stagione. "Marquez ha deciso di farmi perdere il Mondiale, favorendo un altro pilota che però non era neanche il suo compagno di squadra e inventando varie scuse. Non si è mai visto un campione comportarsi così. In realtà io per lui ero il mito da distruggere in modo che lui potesse diventare ciò che ero io. Non mi ha dato l'opportunità di giocarmi il titolo con Lorenzo fino in fondo. Mi ha impedito di mettere la ciliegina sulla torta alla mia carriera. Per me resta una grande ingiustizia? Se avessi vinto mi sarei ritirato? No".

Valentino Rossi.

Estratto dell’articolo di Matteo Aglio per “La Stampa” il 23 aprile 2023.

Le t-shirt con il numero 46, il giallo dei cappellini e al centro Valentino Rossi. Il paddock di Monza per il GT World Challenge Europe ricorda quello della MotoGp degli ultimi 25 anni. Una follia collettiva nel nome del Dottore, alla sua seconda vita in auto. Un ritorno alle origini. «Avevo iniziato con i kart, a 6 anni, una gara in un circuito cittadino, in un piazzale in mezzo alle balle di paglia – ricorda con un sorriso -. Era il 1985 ed ero arrivato 5° o 6°». 

È allora vicino a festeggiare i 40 anni di carriera, dove trova la voglia di continuare a correre?

«È la cosa che mi piace di più, quella dove mi trovo meglio, in cui sono più bravo. Mi capita di avere una giornata no: vado ad allenarmi e sto subito meglio. Per farlo, però, devi avere un obiettivo perché rende tutto più bello. Mi dà gusto guidare».

Il suo prossimo obiettivo è la 24 Ore di Le Mans. Sarà la sua ultima sfida sportiva?

«Non mi piace definirla così, spero di no (ride). Ho sempre avuto in mente di correre in macchina dopo le moto, ora bisogna capire dove potrò arrivare, quello che mi frega è che sono vecchio (ride)». 

[…] 

Anche qui a Monza la gente fa quasi a pugni per un autografo o una foto con lei. A Tavullia hanno realizzato un murale con lei nei panni di David Bowie. Che effetto fa essere un mito?

«È una grande soddisfazione, vuol dire che ho fatto qualcosa di speciale e che va oltre a essere un pilota. Ancora oggi la gente mi chiede quando tornerò a correre in moto e ci rimangono male se dico loro che ho quasi 50 anni, allora rispondo che lo farò il prossimo anno (ride). È un bell'impegno da gestire, ma ho capito che non cambierà mai, nemmeno quando smetterò di correre».

Jacobs ci aveva detto che lei è il suo riferimento per la popolarità che ha raggiunto e per come l'ha gestita.

«Ci sono anche tanti vantaggi, in Italia sono portato su un palmo di mano e la gente mi vuole bene. Ho sempre cercato di rimanere una persona normale, quello che sono. Serve organizzazione, modificare delle scelte di vita, a volte è pesante, ma non è qualcosa che puoi scegliere. Non lo puoi cambiare, a meno di fare come Battisti o Mina e chiudersi in casa». 

Si sente una sorta di "ultimo dei Mohicani"? Uno sportivo nato senza computer e arrivato nell'era dei social, anche se con le sue gag aveva comunque un'eco mondiale.

«La mia è stata una delle ultime generazioni che si ritrovava al bar, andava in giro con i motorini truccati, faceva le macchinate per andare al cinema, c'erano le compagnie. Dopo cena, uscivi di casa e andavi al punto di ritrovo, senza chiamare nessuno. È una grande perdita, è cambiato tutto e mi ritengo fortunato». 

Lei non è sempre stato politicamente corretto, con i social cosa le sarebbe successo?

«Ora qualsiasi cosa dici rimbalza su 300 siti e ti porti dietro le conseguenze per almeno due settimane. Fai un'intervista di mezz'ora e poi si cerca il titolone per fare click, questo dà fastidio. Cosa succede? C'è un finto politically correct tra gli sportivi, sono tutti amici, si abbracciano. È bello? A me piaceva di più prima, quando si diceva quello che si pensava. È umano che ti stia sulle scatole chi fa la tua stessa cosa come o meglio di te, non importa se sei un dottore, un pizzaiolo, un pilota. Dovere nasconderlo sempre fa diventare tutto più finto». 

[…]

Ha corso in moto, in auto e ora dietro a sua figlia Giulietta. In quale "disciplina" bisogna essere più veloci?

«Mi aspettavo che fare il babbo sarebbe stato più difficile, ma è ancora piccola e so che quando crescerà diventerà più impegnativo. Correre in auto e in moto è più difficile, a volte la pressione e la tensione ti fanno stare male, invece con Giulietta è tutto bello».

Si parla tanto del calo delle nascite, perché secondo lei la gente non fa più figli?

«Io ho aspettato di essere veramente molto grande. Hanno tutti molta paura, soprattutto da giovani. I nostri genitori facevano i figli a 25 anni o meno, io a quell'età sarei stato disperato, non avrei saputo cosa fare! Si è un po' più egoisti, almeno io lo sono stato, pensi che avere un bambino sia un peso e gli amici non ti aiutano, ti ricordano che non potrai più svegliarti a mezzogiorno (ride). Forse la gente è un po' più pigra, vedono un figlio come una perdita di tempo, ma è un peccato perché è un'esperienza che consiglio a tutti». 

[…] 

Che cosa darebbe per avere vent'anni in meno e correre contro di loro?

«Mi piacerebbe molto, ma i risultati ottenuti nella mia carriera mi aiutano a non sentire la malinconia. A volte, mentre guardo i gp in tv, vorrei essere lì, ma poi penso che il mio l'ho fatto. Ora tocca a loro»

Valentino Rossi su Marc Marquez: «Voleva distruggere il mio mito». Daniele Sparisci, inviato a Portimao su Il Corriere della Sera il 24 marzo 2023.

Valentino Rossi, nove volte campione del mondo nel Motomondiale, è tornato a parlare di quanto successe nel 2015 con Marc Marquez: «Una macchia che non andrà mai via»

Valentino Rossi e Marc Marquez, un rapporto che forse non si ricomporrà mai, neanche fra 20-30 anni. Il Dottore ne ha parlato al podcast BSMT curato dal conduttore radiofonico Gianluca Gazzoli, parole uscite nel weekend in cui parte la MotoGp a Portimao. Vale ripercorre lo scontro del 2015: «Con Marquez è stato tutto diverso rispetto alle mie rivalità precedenti. Non era più nemmeno una rivalità in pista. Ha deciso di farmi perdere un Mondiale per farlo vincere a uno che non era neanche suo compagno di squadra , era il mio compagno. Ha inventato delle scuse dicendo che gli avevo fatto qualcosa. In realtà voleva soltanto distruggere il mio mito per creare il suo. Non si è mai visto che un campione corra per far vincere un altro, in nessuno sport. È stato un momento bruttissimo, mi ha privato della possibilità di giocarmi il mio decimo titolo in un anno per me stellare. Magari lo avrei anche perso contro Jorge, ma così è stata soltanto un’ingiustizia. Se penso alle ultime tre gare del 2015 provo ancora la stessa sensazione di quando ho tagliato il traguardo allora. Sono passati otto anni e non è cambiato nulla. È una ferita profonda, ci penso anche troppo, una cosa brutta».

«Parlai a Marquez, lui mi guardava assente»

Marquez in una recente intervista al Corriere aveva detto che con Valentino «magari tornerà a parlarsi fra 20-30 anni». Rossi rivive quel finale infuocato di stagione: «La sua è stata una cosa annunciata, ma l’organizzazione non è riuscita a controllarlo. Avrebbero potuto fare molto meglio. Lo dissi a lui e ai commissari sportivi, prima di Sepang e di Valencia. “Farà di tutto per farmi perdere”. Mi prendevano per matto quando… e invece lo ha fatto davvero. Presi Marc da parte e gli dissi: “Ti rendi conto che figura di m… stai facendo? Sarai ricordato per sempre per questo…”. Lui non rispondeva, mi guardava assente». Quanto ad altri avversari: «Le rivalità che mi hanno stimolato di più sono state quelle con Jorge Lorenzo, Stoner e Biaggi. Quella con Max è stata tosta dall’inizio. Non ci siamo mai stati simpatici. E poi io sono arrivato giovane e ho cominciato subito a rompergli le palle, lui era già un vincente. È stata una rivalità all’ultimo sangue».

Poi il nove volte campione del mondo ricorda altri momenti più felici. «È stata dura smettere. Ma nell’estate del 2021 ho preso la decisione ed è andato tutto bene, anche l’ultima gara che pensavo fosse un incubo e invece è stata una bella festa. Oggi non mi manca la MotoGp, non ho rimpianti». Poi Rossi svela un retroscena sulla figlia: «Quell’anno avrei preso una decisione dopo Assen, prima della pausa estiva del Motomondiale. Prima di partire per l’Olanda sono andato a pranzo con la Franci (la fidanzata Francesca Sofia Novello ndr) e mi fa: “Non mi va il caffè, è strano vero? A me è sempre piaciuto… magari faccio un test di gravidanza nei prossimi giorni”. Io sono partito per Assen e ho lasciato la cosa in sospeso, sono caduto e nella ghiaia ho pensato: “Se serviva un segnale che devi smettere, eccolo”. Così sono tornato a casa e le dico: “Andiamo a cena”. E lei: “Ti porto io a cena”. Ho scoperto di diventare papà il giorno in cui avevo deciso di ritirarmi».

«Che paura in Austria. F1? Rimasta la curiosità»

Poi i momenti tristi, a partire da uno tristissimo, la scomparsa di Simoncelli «Devastante. Per qualche mese non sapevo che cosa fare. Mi è mancato un amico ma non la voglia di correre. La paura? L’ho vissuta davvero in Austria nel 2020 quando c’è stato un incidente fra Zarco e Morbidelli. Le loro moto si sono toccate e quella di Franco è passata a 20 cm dalla mia ruota davanti. Lì dici: “C… anche sei stai attento puoi trovarti nel posto sbagliato nel momento sbagliato”». L’avventura sfiorata in F1: «Nel 2004 dopo aver vinto con la Yamaha Stefano Domenicali mi ha chiamato per farmi provare la Ferrari F1 a Fiorano. Sono stato veloce, ho girato sotto il minuto, i meccanici avevano scommesso che non ce l’avrei fatta con quel tempo. Poi gli altri test al Mugello e a Valencia. Ero di fronte a una scelta: avrei dovuto iniziare a correre con un team B e poi se fossi stato abbastanza veloce sarei passato sulla Ferrari. Ma avevo 27 anni e non mi sentivo pronto a lasciare le moto. È rimasta la curiosità su ciò che avrei potuto raggiungere».

Automobilismo.

Toto Wolff.

Max Verstappen.

François Cevert.

Mariella Mengozzi.

Giancarlo Fisichella.

Gilles Villeneuve.

Mario Andretti.

Craig Breen.

Gianfranco Palazzoli.

Edi Orioli.

Arturo Merzario.

Lewis Hamilton.

Jean Todt.

Michael Schumacher.

Riccardo Patrese.

Graham Hill.

Toto Wolff.

Daniele Sparisci e Giorgio Terruzzi per il “Corriere della Sera” - Estratti venerdì 8 dicembre 2023.

Il campionato è finito da un pezzo, nelle fabbriche si completano le monoposto 2024, ma c’è tensione e imbarazzo ai massimi livelli della Formula 1. È l’ultima goccia di una guerra di potere dalle conseguenze imprevedibili, con l’ipotesi sullo sfondo di un Mondiale alternativo.

 Nasce dall’indagine aperta dalla Federazione, l’ente incaricato di scrivere e far rispettare le regole, sulla coppia più famosa dell’alta velocità. Toto Wolff, capo e azionista della scuderia Mercedes; la moglie Susie, ex pilota e attuale direttrice della Academy, la serie femminile rilanciata da Liberty Media attraverso la Fom, la società che gestisce i diritti commerciali della F1. 

L’accusa: lei, conoscendo i piani degli organizzatori, avrebbe passato al marito informazioni riservate. Entrambi negano, Susie parla di «attacchi misogini».

Il comitato etico della Fia è stato incaricato di far luce, ma se le accuse si rivelassero false sarebbe gravissimo averle fatte circolare senza verificarle prima. Perché la Fia ha reso pubblica (alla stampa ancora prima dei diretti interessati) una procedura avviata sull’articolo di una rivista specializzata, Business F1 , che citava dichiarazioni anonime di presunti team principal rivali? L’irritazione della F1, guidata da Stefano Domenicali, ha raggiunto l’apice dopo una stagione segnata da troppi intoppi sul fronte della gestione sportiva: polemiche sulle infrazioni dei limiti di pista, sulla supervisione dei circuiti (il tombino che sfascia la Ferrari di Sainz a Las Vegas, i cordoli del Qatar), dubbi sui controlli ai budget dopo il caso Red Bull del 2022.

L’ultimo «sgarbo» istituzionale di Mohammed Ben Sulayem, presidente della Fia da fine 2021 si sta rivelando un autogol. Ieri tutti e dieci i team hanno diffuso comunicati per affermare la loro estraneità ai fatti e hanno manifestato appoggio alla Academy della signora Wolff. 

Un’unità totale, segno di una regia comune, con le squadre schierate con Liberty, alla quale riconoscono il merito di aver fatto crescere la F1 economicamente. Ben Sulayem, l’ex pilota di rally dai modi autoritari proveniente da una delle famiglie più ricche di Dubai (il fratello governa il porto dell’Emirato), da tempo è andato allo scontro criticando apertamente le iniziative di Domenicali. Un confronto a tutti livelli, compresa la commessa di una maxi-hospitality delle stesse dimensioni di quella del suo omologo in F1. Ma con quest’ultima mossa si ritrova in un vicolo cieco, al punto che alti dirigenti di Place de la Concorde (si vocifera di Steve Nielsen, Nick Tombazis e Tim Goss) starebbero pensando di cambiare aria. 

Tutto mentre sono in corso le trattative per il rinnovo del Patto della Concordia in scadenza nel 2025, l’accordo che regola la distribuzione dei soldi. La Fia riceve dalla F1 circa 90 milioni di dollari l’anno (più 10 dalle squadre), pari all’80% del budget utilizzato per tutte le altre attività motoristiche; i team prendono il 50% dei ricavi dei Gp (nel 2022 1,158 miliardi) e di qui deriva anche la loro ambiguità, essendo costretti a giocare su due tavoli, anche se stavolta hanno scelto di sedersi in quello di Liberty.

(...)

«Poi per il bere anche lì qualcosa di non eccessivo per quanto riguarda l’alcol. Perché poi rischia il mal di testa forte, poverina». E quando qualcuno, sempre con riferimento alla caricatura, pensa che la si potrebbe mostrare con un accendino in mano, lui interviene brusco. «Qualcuno aveva detto di farle tenere in mano l’accendino mentre l’accendeva. Non mi sembra una roba così speciale o caratteristica, anzi non lo metterei questo dettaglio... secondo me un’idea è farle tenere con un braccio Djungelskog e l’altro braccio farlo stare senza niente in mano».

Max Verstappen.

F1, Verstappen campione del mondo. Il campione del mondo si conferma ancora prima della bandiera a scacchi della sprint race, visto l'incidente di Perez. Prima vittoria in carriera per il giovane australiano della McLaren mentre le Ferrari chiudono in affanno, scivolando al 6° e 7° posto negli ultimi giri. Luca Bocci il 7 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Shootout, sorpresa Piastri

 Russell e le Ferrari partono bene

 Verstappen campione del mondo

Max Verstappen non ha dovuto nemmeno aspettare la fine della sprint race per festeggiare il terzo mondiale consecutivo. L’incidente che ha coinvolto il compagno di squadra Sergio Perez ha reso il vantaggio dell’olandese incolmabile già a qualche giro dalla fine. In una sprint race movimentata da diversi incidenti e lunghe fasi in regime di safety car, a festeggiare oltre a Verstappen è anche la McLaren, con il rookie Oscar Piastri che vince per la prima volta una gara di Formula 1. Finale scoppiettante con una serie di sorpassi che vedono Verstappen e Norris risalire fino al podio e le due Mercedes che scavalcano le Ferrari, in netta crisi nel finale di gara. Domenica a partire dalle 19 si tornerà in pista per il Gran Premio vero e proprio ma in casa Red Bull si festeggerà sicuramente già a partire da stasera.

Shootout, sorpresa Piastri

Il sabato del weekend in Qatar che potrebbe consegnare a Max Verstappen il terzo titolo mondiale consecutivo inizia con un colpo a sorpresa. La prima fila per la sprint race che prenderà il via alle 19.30 viene occupata dalla due McLaren, con Oscar Piastri che regola in extremis il compagno Lando Norris e diventa il primo debuttante a partire dalla pole in una sprint race. A consegnare il primo posto al pilota australiano un problema già visto diverse volte questo fine settimana: il giro veloce del campione del mondo è infatti stato cancellato dalla direzione gara per aver superato i limiti del tracciato alla curva 5. Il problema è stato aggravato dalla modifica introdotta ai limiti per motivi di sicurezza e dal forte vento che sferzava il tracciato di Losail. La Mercedes di Russell occupa la quarta posizione mentre Carlos Sainz risale al quinto posto dopo che il tempo di Fernando Alonso è stato cancellato.

La terza fila viene completata da Charles Leclerc, che ha approfittato degli errori altrui, specialmente dell’ex campione del mondo Lewis Hamilton. L’inglese, infatti, ha visto il suo giro veloce cancellato per aver superato i limiti del tracciato alla curva 5 e non ha nemmeno partecipato alla SQ3, partendo dalla 12a piazza sulla griglia. Molti piloti si sono lamentati dei nuovi limiti in certe curve, cosa che potrebbe dare origine a parecchie penalizzazioni durante la sprint race ma soprattutto nella gara di domenica, con i relativi sconvolgimenti alla classifica finale.

Russell e le Ferrari partono bene

I 19 giri del lungo tracciato di Losail potrebbero portare i tre punti necessari a Max Verstappen per portare a casa il terzo mondiale consecutivo e le condizioni meteo sembrano quasi ideali, a parte il caldo afoso e il vento sostenuto che porta parecchia sabbia sul tracciato. Nonostante a partire in prima fila ci siano le due McLaren, il fatto che basterebbe un sesto posto all’olandese per portare a casa il titolo toglie parecchia pressione alle Red Bull. Nonostante si correrà solo per 103 chilometri, le varie scuderie hanno scelto soluzioni diverse per le vetture, dalle medie usate alle soft nuove, forse per testare soluzioni buone per la gara di domani. Avvio di gara molto agitato con Piastri che parte benissimo, Russell e le due Ferrari molto aggressive: Verstappen e Norris scivolano al quinto e sesto posto.

Nelle retrovie c’è qualche contatto ma Lawson esce di pista per un errore del tutto evitabile: vista la posizione pericolosa della sua AlphaTauri la direzione prima sventola la bandiera gialla poi fa entrare la safety car. Posizioni e distacchi cristallizzati fino a quando non si riuscirà a togliere la monoposto bloccata nella ghiaia in piena via di fuga. Dopo un giro e mezzo si riparte e Alonso prova subito ad attaccare la sesta posizione di Norris. In testa, invece, la ripartenza vede un Piastri nervoso che commette un errore e viene infilato dalla Mercedes di George Russell. Neanche il tempo di festeggiare che un’altra vettura è tradita dall’asfalto scivoloso e finisce fuori pista: stavolta è la Williams di Logan Sargeant, incidente che fa tornare subito in pista la safety car.

Verstappen campione del mondo

Dopo cinque giri dove si è visto di tutto, la nuova safety car consente a tutti di tirare il fiato. A questo punto le scelte delle gomme potrebbero fare la differenza nel finale. Le Ferrari sono sembrate finora competitive e alla ripartenza, se Russell guadagna un paio di secondi sugli altri, Sainz si porta sugli scarichi di Piastri, lo supera ma è scavalcato poco dopo dal coriaceo rookie australiano. A conferma della competitività della McLaren, nonostante le medie usate, Piastri fa segnare il giro veloce. Più indietro, invece, Verstappen approfitta della scia per scavalcare la Ferrari di un Leclerc non particolarmente pimpante. Mentre continua a combattere con la McLaren per il secondo posto, Sainz deve iniziare a guardarsi alle spalle, visto che Verstappen sta accelerando il ritmo, rosicchiandogli decimo dopo decimo. 

Da metà gara, la scelta di montare gomme medie inizia a pagare, con Norris che si fa sotto a Leclerc per la quinta posizione mentre più avanti Piastri è decisamente più competitivo nei confronti di Russell. Approfittando del Drs, l’australiano supera in scioltezza la Mercedes e si riporta in testa. La notizia vera, però, arriva poco dopo, quando Sergio Perez finisce in mezzo alla lotta tra Ocon e Hulkenberg e si ritrova nella ghiaia della curva 2. La Red Bull è danneggiata e non riesce a riprendere la corsa: se riuscirà ad arrivare al traguardo, Max Verstappen si confermerà campione del mondo. Per rimuovere le due vetture serve fare entrare ancora la safety car, ma il campione olandese ha il tempo di superare Sainz, imitato poco dopo da Norris, che infila Leclerc. 

Gli ultimi quattro giri prima della passerella finale del campione del mondo si riescono a correre in maniera regolare, animati dal nuovo sorpasso di Leclerc nei confronti di Norris e dalla rincorsa di Verstappen nei confronti dei primi due. Il cannibale della Formula 1, infatti, non ci sta a chiudere terzo e, in pochi giri, è già negli scarichi della McLaren. Alle spalle, invece, Norris è scatenato ed approfitta del vantaggio delle medie per impallinare in rapida successione entrambe le Ferrari, lanciandosi all’inseguimento di Russell. Finale pirotecnico con la rimonta di Hamilton, Norris che recupera anche la Mercedes e una serie di sorpassi spettacolari. Oscar Piastri vede il vantaggio nei confronti di Verstappen scendere in maniera preoccupante ma il campione del mondo ha la pancia piena. Vince quindi Piastri per la gioia del muretto della scuderia di Woking, con Norris che completa il podio. Finale amaro per le Ferrari, superate nel finale da Hamilton: Sainz chiude solo 6° mentre Leclerc resiste alla rimonta di Ocon, finendo 7°.

François Cevert.

Cevert, 50 anni fa l'addio al bel cavaliere di una F1 che non c'è più. Talentuoso, occhi azzurri che stregarono anche Brigitte Bardot. Stewart lo aveva scelto come erede ma poi...Benny Casadei Lucchi il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.

C'era una volta François. Fiaba romantica, finale tragico, misto di poesia e chanson de geste, chissà cosa sarebbe stata la sua fiaba se il dio dei motori gli avesse regalato qualche anno in più. Il tempo di François finì oggi cinquant'anni fa, dilaniato in qualifica contro un guard rail poco prima di mezzogiorno, lungo una esse di Watkins Glen, America, circuito bello e maledetto come all'epoca era normale che fossero le piste e adesso non è più. «Oggi i piloti sono impiegati del rischio, noi cavalieri» era solito ripetere Niki Lauda che di quel rischio si era nutrito fino al punto di pagarlo con i segni sul corpo. E cavaliere, François, lo era e sarà per sempre. Cavaliere nell'animo, cavaliere in quegli occhi azzurri del cielo riflesso nel mar della Côte, cavaliere per i ricchi natali parigini, cavaliere nella bellezza da Croisette, cavaliere negli amori e nell'indipendenza dall'amore. Fra lui e Brigitte Bardot fu tutto a prima vista, un lampo persino il distacco, caratteri troppo forti per convivere a lungo.

La breve vita di François Cevert è il commovente manifesto di uno sport che non esiste più; potremmo dire: per fortuna. Aveva ragione Niki, i piloti adesso sono impiegati del rischio, le auto scudi meravigliosi come le indistruttibili monoposto della playstation, però le storie che scrivono a trecento all'ora sembrano storie di plastica. Resistono il tempo di una stagione.

François e quelli come lui erano eterni nel trionfo e nel dramma, erano cuore e sangue, vita rubata e adrenalina e gioia e brividi. Con gli occhi grandi Cevert arrivò in F1 che non era un fuoriclasse, buon pilota dicevano, approdò alla Tyrrell che all'epoca era una Red Bull, a volerlo fu Jackie Stewart che no, per favore no, era molto di più, nessuno provi ad accostarlo a Verstappen. Era il pluricampione del mondo in carica, l'uomo che per primo iniziò la battaglia per la sicurezza, battaglia che porta avanti ancor oggi, a 84 anni. Stewart convinse quel boscaiolo di Ken Tyrrell a ingaggiare François e lo prese sotto braccio, dandogli consigli, regalando esperienza, facendolo crescere e aprendogli le porte della propria famiglia. Immaginateli i piloti impiegati di oggi a far la stessa cosa, immaginate Verstappen o Hamilton o Leclerc. Stewart aveva scelto Cevert come erede, a fine stagione si sarebbe ritirato. Ne avevano parlato pochi giorni prima di quel tragico sabato, in vacanza alle Bermuda, lui, sua moglie Helen e François, «una delle più belle vacanze della nostra vita». Il sogno finì a mezzogiorno, quando Jackie rallentò e sfilò fra i rottami della Tyrrell gemella. Capì tutto, scese dall'auto e non ci salì mai più. Per sempre fermo a 99 Gran premi. Il numero 100 mai corso fu l'omaggio all'amico. Il suo mazzo di fiori.

Mariella Mengozzi.

Morta Mariella Mengozzi, la «signora dei motori» direttrice del Museo dell'auto di Torino. Christian Benna su Il Corriere della Sera il 31 Maggio 2023

La signora dei motori, prima donna alla guida del Museo nazionale dell'automobile. 

Quando è arrivata lei, romagnola di Forlì, battuta pronta e il vento di 11 anni da manager in Ferrari nei capelli biondi, il Museo dell’Auto di Torino era ancora in grisaglia, quasi un club per soli uomini. Rodolfo Gaffino Rossi aveva governato per 18 anni il tempio delle quattro ruote, la memoria storica della «one company town»: un luogo di motori, ruote e lamiere percorso in lungo e in largo da appassionati di vetture e scolaresche intimorite di fronte alla storia raccontata a bordo di 200 vetture in esposizione. Poi nel 2018 è arrivata lei, Mariella Mengozzi, e con lei gli eventi per famiglie, gli aperitivi, i simulatori. 

«La donna giusta al momento giusto. Una feticista dell’auto a cui affidare i contatti pubblici e privati, e le collaborazioni con gli altri musei. Una fucina di idee – ricorda Benedetto Camerana presidente del Mauto dal 2012 - «Una fonte inesauribile di energie. Era malata da tempo ma fino all’ultimo si è informata su come andavano le cose. È una grave perdita, professionale e umana». 

Mariella Mengozzi si è spenta a Torino a 60 anni. La signora dei motori, prima donna alla guida del Museo nazionale dell'automobile di Torino, era nata a Forlì nel 1962. Ha ricoperto incarichi importanti come quello di Retail Director per la Walt Disney Company e poi per la Ferrari, dove si è occupata di Marketing e Pianificazione Strategica. È stata direttrice della Business Unit Maranello Experience che comprende il Museo Ferrari di Maranello. 

Al New York Times aveva detto: «Il nostro lavoro è fare del Mauto un luogo di cultura, attraente per un pubblico vasto, non solo degli appassionati di motori». Mariella Mengozzi era una manager orgogliosamente di campagna, che amava dire, quasi a voler stupire gli interlocutori, che la sua vera vocazione era quella di chef. La ricetta giusta però è arrivata ai fornelli del Mauto di Torino. Con lei alla guida, affiancata da Benedetto Camerana, il Mauto è arrivato a 240 mila visitatori, battendo il record del 2011 (221 mila) anno della riapertura. «L’abbiamo scelta per la competenza, la professionalità. Ci mancherà tantissimo», conclude Camerana.

Giancarlo Fisichella.

Estratto dell’articolo di Flavio Vanetti per il “Corriere della Sera” lunedì 14 agosto 2023

A 50 anni, compiuti a gennaio, non ha per nulla intenzione di mollare le corse e di andare in pensione. Al contrario, Giancarlo Fisichella «mena» ancora e vince. Lo ha appena fatto a Pergusa, sotto un diluvio memorabile, e conta di ripetersi: «Vivere il mondo dell’endurance con la Ferrari è bellissimo. La verità è che non ho smesso di divertirmi. E so ancora dire la mia». […]

Guarda mai alla sua storia?

«Lo faccio spesso e mi sento contento. Però non tornerei indietro: bisogna badare al futuro. Mi manca il titolo della F1? Sì, però me ne sono fatta una ragione: 14 stagioni, 231 Gp, 3 vittorie, 19 podi, 4 pole position; qualcosa ho combinato. Inoltre ho contribuito ai due Mondiali costruttori della Renault: mi onoro di essere stato un uomo-squadra». 

[…]

Lei è l’ultimo italiano che ha vinto un Gp.

«Eh, lo so. Temo che passeranno ancora tanti anni prima di vederne un altro sul podio più alto. Dobbiamo sperare nei ragazzi delle formule minori. Nel 2021 ho lanciato il progetto “Top Gun by Pro Racing” assieme a Marco Cioci per aiutare i giovani piloti a migliorare». 

Campionato 2009: la Force India cresce, ma dopo il Gp del Belgio, dove lei parte dalla pole e arriva secondo dietro a Kimi Raikkonen, la lascia perché la Ferrari la chiama per sostituire Felipe Massa, ferito a Budapest: lo rifarebbe, visto che la F60 non era granché competitiva?

«Lo rifarei cento volte: avevo 37 anni e la Ferrari era il sogno nel cassetto. Sapevo che non sarebbe stato agevole e che avrei trovato una monoposto difficile pure per Kimi, anche se a Spa — ancora non so come — diede l’unico successo al Cavallino. Da quel giorno, comunque, sono diventato ferrarista e lo sono ancora». 

[…]

Il Fisichella extra F1 ha vinto parecchio.

«La duttilità mi ha aiutato. Nel 2010 ho conosciuto l’endurance: uno choc, all’inizio, ma mi sono ambientato alla svelta». 

Che cosa c’è della Sicilia di suo padre?

«Le radici sono a Catania e mi sento molto siciliano. Amo questa terra e i suoi valori». 

C’era qualcuno che non sopportava in F1?

«Non c’è stato un buon rapporto con Ralf Schumacher, nel 1997 alla Jordan. Era “fighettino”, si sentiva superiore nonostante lo bastonassi. In Argentina ero secondo e lui terzo. Mi toccò e dopo il Gp fece una battuta del cavolo: “Vabbè, gli offrirò una pizza”. Da lì in poi con lui fu tutto in salita». 

Con Michael, suo fratello, è andata meglio?

«Persona, oltre che pilota, di ben diversa caratura. Avevo un ottimo rapporto con Schumi: abbiamo la passione del calcio e almeno 2-3 partite della nazionale piloti le disputava sempre. Abbiamo condiviso pista, calcio, cene, karaoke: peccato che abbia fatto la fine che sappiamo, il destino è a volte crudele e penso anche a quanto capitato ad Alessandro Zanardi”. 

Flavio Briatore: grande manager o grande demonio?

«Entrambe le cose. Ha sempre ottenuto risultati in tutto quello che ha fatto. Però non perdonava nessuno: un errore ed eri fuori».

È vero che preferiva Alonso?

«Era ed è il manager di Fernando… Però mi voleva bene. Ci sono sempre un pilota “numero uno” e un “numero due”, però alla Renault era accettabile e con Alonso sono sempre andato d’accordo: due ore prima dei Gp giocavamo a scopone assieme a Briatore». 

Ci stila la classifica dei «mostri» che ha affrontato?

«Michael Schumacher e Fernando Alonso sono una spanna sopra tutti. Fernando a quasi 42 anni vive una seconda giovinezza con l’Aston Martin: l’auto va benissimo, lui ci mette testa e voglia». 

Ricorda qualche cosa poco chiara che le hanno fatto?

«No, anche se qua e là ho avuto dei dubbi. Per dire, primo Gp con la Renault a Melbourne: parto dalla pole e stravinco. Ma nella gara dopo ecco una serie di problemi… Gli inconvenienti si sono ripetuti in tutte e due le stagioni».

Perché personaggi come Eddie Jordan, uno dei suoi patron, sono «border line»?

«Perché la F1 è un mondo di squali e anche Eddie… se la cava. È stato importante per me, ma non si è comportato bene. Firmai per lui, ma poi mi disse che aveva problemi di sponsor: il contratto fu cambiato però e per avere i soldi dovetti fargli causa». 

Nel suo team ideale prende come leader Verstappen o Hamilton?

«Verstappen. È l’evoluzione della specie, Max ha qualcosa in più e dà l’impressione di guidare con una mano sola». 

Tema: Bernie Ecclestone...

«Ho un discreto rapporto con lui, anche senza un grande feeling: può darsi che mi abbia aiutato, ma… senza saperlo. La sua dote migliore? Saper agire nell’ombra». 

[…]

Fisichella in autostrada a quanto va?

«A 130 orari” (segue risata) . Non ho preso multe con l’autovelox. A 18-19 anni, però, ero stato beccato dalla Polizia». 

È vero che i piloti prendono la residenza a Montecarlo per pagare poche tasse?

«Io dal 2003 sono tornato a Roma: non volevo restare separato dalla famiglia. Così ho evitato pure le maldicenze». 

Fisichella avrebbe potuto fare il calciatore?

«Da bambino giocavo sempre a pallone ma avevo la suggestione dei motori. Quando vidi una gara di go-kart a Roma feci la mia scelta». 

Il suo cuore batte per la Roma.

«La Maggica fa soffrire, è sempre così». 

[…]

Si discute se Mourinho sia l’allenatore giusto: lei che cosa pensa?

«A me piace. La Roma nel 2022 ha conquistato la Conference League: sarà una coppetta, ma da 50 anni non vinceva in Europa. In campionato speravamo di fare meglio, ma ci sono stati troppi infortuni». 

Perché Francesco Totti è l’idolo assoluto di voi romanisti?

«Perché il Pupone è il capitano. Lo è a vita, intendo. Dai 16 anni fino a fine carriera è rimasto alla Roma, rinunciando perfino al Real Madrid: forse ha sbagliato a non andarsene, ma ha fatto una scelta di cuore e noi lo amiamo». 

Sta con lui o con Ilary, nella vicenda della separazione?

«Non giudico. Certo, “sta storia” ci ha un po’ rotto le scatole, ma sono fatti loro. Dico solo che né lui né lei ne escono bene». 

Papà di mestiere faceva il carrozziere: ha mai pensato di seguirlo?

«Certo che sì. Gli davo una mano nei lavoretti semplici: se non avessi corso sarei stato un carrozziere o un meccanico». 

Guidava la macchinina a pedali, il triciclo o la bici con le rotelle?

«Ho sperimentato auto a pedali, triciclo, bici. In bici mi divertivo ad andare su una ruota. A 6-7 anni mio padre mi metteva sulle sue gambe e provavo a guidare in strade private o isolate». 

Ha fatto, per la Rai, anche l’inviato ai box.

«Esperienza carina, ma con troppi momenti morti: io ho bisogno di maggiore vivacità». 

Riti e scaramanzie da dichiarare?

«Il giorno della gara indosso mutande rosse. Ora è un’abitudine, come mettere prima il guanto destro e l’auricolare sinistro. La paura? Mai avvistata: diversamente, meglio smettere». 

 Ha due figlie e un figlio. Lui farà il pilota?

«No: ha provato con il calcio, ma ha scelto l’università. Studia sport e scienze motorie, penso di coinvolgerlo nella Pro Racing».

[…] Ed è stato pure ballerino…

«Solo una volta, come ospite in “Ballando con le stelle”. A ballare me la cavo bene: la mia agenzia riceve richieste, ma sono ancora un pilota in attività e non ho tempo da dedicare ad altro». 

Cosa farebbe per cambiare l’Italia?

«Ci sono tanti aspetti da migliorare ma ci lamentiamo troppo di tutto e di tutti. Quindi, meno parole e più fatti: e qui divento… tedesco».

Gilles Villeneuve.

Gilles Villeneuve la morte 41 anni fa: il mito, l’incidente, Enzo Ferrari. Storia di Giorgio Terruzzi su Il Corriere della Sera l'8 Maggio 2023

«Arrivò e disse: ho venduto la casa per comprare una macchina». «So bene che un giorno o l’altro finirò per avere un tremendo incidente».

La prima frase è di Joann Villeneuve. La seconda è di suo marito, Gilles. Poche parole per comporre un quadro esauriente: inizio e fine di un’esistenza romantica, intensa e tragica. Vita e morte di un uomo mosso da una scelleratezza infantile, talmente manifesta da generare una forma particolare di affezione. Un bambino, un figlio scapestrato che raddrizzare non puoi. Rimproveri inutili, preoccupazioni permanenti e, alla fine, una resa da impotenza al cospetto di una natura incorreggibile. Per questo siamo qui a ricordare Gilles Villeneuve, morto a Zolder, in Belgio, quarantuno anni fa, 8 maggio 1982, in un incidente pirotecnico al pari di molti altri. Sradicato dall’abitacolo della sua Ferrari mentre tentava vanamente un ennesimo exploit velocistico. Non poteva, non avrebbe dovuto. Sì, ma non c’era verso: Gilles correva intrappolato nel proprio destino deliberatamente eroico.

I capitoli di questa storia sono parte di una memoria collettiva costellata di immagini toccanti, sempre replicabili. Gilles appariva fragile nel fisico. Un ragazzo sconosciuto ed esuberante, perfetto per essere . Tradito da un figlio di tutt’altra pasta, cresciuto al punto da tenergli testa, Niki Lauda; indispettito al punto da mettere in pista un capriccio dei suoi, camuffato da favola candida. Quel piccolo canadese campione da motoslitta, toccato dalla bacchetta magica del Cavallino, trasformato in un principe in abito rosso. C’è del romanticismo anche qui. C’è proprio tutto per tenerci stretta questa avventura che appartiene a un mondo estinto, niente a che vedere con questa F1, con questi piloti automatizzati sin dall’infanzia da computer e simulatori, guidati da una rete di interessi raffinatissima. Villeneuve, un pezzo unico. Che a fare Gilles iniziò all’istante: una collisione con Ronnie Peterson, il suo mito; un volo sulla folla, due morti, lui che torna a piedi verso i box «come se niente fosse». Seconda corsa con la Ferrari.

Voleva essere il più veloce. Sul chilometro, sul giro, in autostrada. Per riuscirci, forzava, esagerava, distruggeva. Roba che oggi produrrebbe ritiro della licenza. Ruote trascinate, alettoni divelti, reti e muri. Più osava, più piaceva. Sei vittorie, rocambolesche come ogni sconfitta, la lealtà tipica del bimbo per accompagnare Jody Scheckter verso il titolo 1979. Un uomo, a differenza sua, da rispettare. E poi motoscafi ed elicotteri pilotati senza giudizio, i record da casello a casello, gomme fumanti. Peripezie di un discolo incapace di risparmiare, trattate come atti strabilianti di generosità. Amato dunque come Ettore, destinato a cadere. Enzo Ferrari andava in bestia osservando i cocci. Tenne il punto, la sua scommessa, ingoiando rabbia e critiche. «È stato un campione di combattività... gli volevo bene». Lo disse dopo la morte di Villeneuve.

È un epitaffio che cela più di un’amarezza e toglie di mezzo il sospetto che il tempo di Gilles a Maranello, in quel 1982, fosse scaduto. Didier Pironi promosso a beniamino, misteriosamente autorizzato a disobbedire tenendo dietro Villeneuve a Imola, dove Gilles cominciò a morire in una foga furibonda, esternata in quel giro fatale a Zolder, 13 giorni dopo. Votato com’era a una fine precoce, come da pronostico e presentimento e per questo immortale. Dolore e amore per una favola compiuta da rileggere all’infinito. Mondata da ogni ombra, per il gusto agrodolce del rimpianto.

Mario Andretti.

Mario Andretti e la maledizione di Indy. Figlio di un esiliato istriano, nonostante una carriera memorabile (ha vinto più di tutti in America) non è riuscito mai a ripetere il trionfo ad Indianapolis del 1969. La maledizione è passata anche ai figli e ai nipoti, che da allora non hanno che delusioni sull'ovale più famoso al mondo. Luca Bocci il 3 Maggio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Inseguendo il mito Ascari

 L'impatto con Indianapolis

 Dalla tragedia alla gloria

 La maledizione di Indianapolis

 La maledizione continua

 Meglio dal muretto

 Un amore senza fine

L’America è la terra delle opportunità, il posto mitico nel quale tutti i sogni possono diventare realtà, basta lavorare duro e crederci fino in fondo. Sebbene il cosiddetto American Dream sia uno dei miti più famosi al mondo, le storie di chi è riuscito a "trovare l’America" dall’altra parte dell’oceano sono, a volte, davvero incredibili. Se fosse scritta su un copione, immaginare che un esiliato, costretto dalla guerra a lasciare tutto alle spalle, passare anni in un campo profughi, la cui famiglia decise di ripartire da zero quando aveva 15 anni in un paesino della Pennsylvania diventi il più grande pilota a stelle e strisce sembra davvero inverosimile.

Eppure, questo è quanto è successo al figlio di un fattore di Montona, Istria, l’unico nella storia a conseguire la tripla corona del motorismo americano, trionfando ad Indianapolis, a Daytona e nel mondiale di Formula 1. Sebbene abbia vinto come pochi altri, questo italo-americano cresciuto col mito di Ascari ha provato per decenni a ripetersi sull’ovale più famoso al mondo, senza mai riuscirci. Questa maledizione è passata poi ai suoi eredi, che continuano a fallire anno dopo anno. Ecco perché questa settimana "Solo in America" vi porta nell’Indiana per raccontarvi la storia di come Mario Andretti non sia mai riuscito a ripetere la storica impresa del 30 maggio 1969, dando il via ad una maledizione che coinvolge la sua numerosa famiglia.

Inseguendo il mito Ascari

La storia del più famoso pilota a ruote scoperte del motorismo americano era iniziata dall’altra parte dell’oceano, in un paesino che ora si chiama Motovun e si trova in Croazia. Allora Alvise Andretti era un fattore e gestiva le proprietà di una ricca famiglia italiana in Istria, mentre la mamma Rina si occupava della famiglia. Quando Mario ed il gemello Aldo avevano solo otto anni, il trattato di Parigi consegnò questa terra irredenta alla Yugoslavia, dando il via all’esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia. La famiglia Andretti perse tutto e si ritrovò in un campo rifugiati vicino a Lucca, costretta a ripartire da zero. Mario racconta questa ordalia come se fosse la cosa più normale al mondo: "Mio padre lasciò tutta la sua vita, abbandonammo la nostra casa, portandoci dietro solo quel che riuscivamo a trasportare. Ci ritrovammo da qualche parte in Toscana. La situazione era difficile ma mio padre fece quel che aveva sempre fatto: trovò il modo di mantenerci. Non abbiamo mai avuto freddo o fame, siamo andati a scuola come sempre, non ci mancava niente".

A sentire la madre Rina, la vera passione dei gemelli erano le corse, tanto che quando avevano due anni prendevano i coperchi delle pentole e correvano in cucina, anche se non avevano mai visto un auto dal vero. A cinque anni si erano costruiti delle auto di legno e correvano come pazzi giù per le stradine dell’Istria. L’impatto con le auto vere sarebbe arrivato più avanti, quando furono assunti da un garage come parcheggiatori: "La prima volta che guidai una macchina, sentii il motore animarsi e il volante prendere vita. Non riesco a descrivere questa sensazione ma la rivivo ogni volta che entro in una macchina da corsa".

Si narra che Mario guidò la sua prima monoposto ad Ancona, quando aveva 13 anni, nella cosiddetta Formula Junior. Qualche anno dopo, fu proprio Andretti ad ammettere che si erano inventati la storia quando arrivarono in Pennsylvania per riuscire a gareggiare nelle gare di stock cars. Marco De Cesari e Danilo Piccinini, i proprietari del garage, portarono i fratelli Andretti all’Abetone nel 1954 per vedere le auto della Mille Miglia che passavano. Mario ed Aldo erano grandi tifosi di Alberto Ascari ed ebbero occasione di vedere lui ed il grande Juan Manuel Fangio battagliare a Monza prima di trasferirsi in America. Mario non dimenticò mai quella sensazione: "Ero in trance, travolto dai suoni, dalla velocità. Non avevamo un posto in tribuna ma sulla montagnola alla sinistra della Parabolica. Meglio così, si vedeva meglio".

L'impatto con Indianapolis

Per raccontare la storia di come il figlio di un rifugiato di guerra diventò uno dei più grandi piloti della storia ci vorrebbe un libro, ma furono molti ad accorgersi che, dietro ad un volante, Mario Andretti era capace quasi di tutto. Dopo aver vinto diversi titoli a ruote scoperte era arrivato anche il trionfo nell’universo parallelo delle stock cars, la vittoria nella gara più prestigiosa della stagione NASCAR, la 500 miglia di Daytona. Il suo sogno, però, era un altro; ripetere le imprese delle Ferrari e battere tutti sull’ovale più famoso del mondo, quello di Indianapolis. L’impatto non fu dei più semplici ma la fortuna sembrò sorridergli in un anno molto speciale, il 1969. Ne successero davvero di tutti i colori, tanto che nessuno avrebbe scommesso un solo centesimo sul trionfo del pilota istriano. Andretti era veloce ed esperto ma parecchi nutrivano parecchi dubbi sulla sua vettura, la Lotus 64, strana monoposto a quattro ruote motrici figlia del genio di Colin Chapman che avrebbe dovuto rivoluzionare per sempre il mondo della IndyCar. La Lotus era velocissima ma i due meccanici di Andretti la detestavano: "L’avevamo provata ad Hanford e in Inghilterra ma dovettero fare 200 modifiche. Aveva un’enormità di problemi, scaldava troppo e non aveva mai corso una gara. Sapevamo che era veloce ma non poteva arrivare alla fine. Non si vince ad Indianapolis con una vettura totalmente nuova".

I dubbi dei meccanici si rivelarono corretti durante le prove, due giorni prima dell’inizio della settimana delle qualifiche: la monoposto numero 2 di Andretti si schiantò nel muretto della curva 4, prendendo fuoco. "Avevamo dubbi sulla trasmissione, sui giunti. Colin Chapman, per risparmiare tempo e soldi, aveva usato materiali derivati dalla Formula 1. Quando gli chiedemmo se sarebbero stati in grado di reggere i carichi aerodinamici di un ovale, ci disse di stare tranquilli. Chiaramente, a rompersi furono proprio quei giunti".

Esaminando il rottame, ci si rese conto che la Lotus non avrebbe mai potuto finire una corsa massacrante come la 500 miglia. Chapman fu costretto a ritirare la vettura, lasciando a piedi Andretti, il campione del mondo inglese Graham Hill ed il veloce austriaco Jochen Rindt. I meccanici americani, però, rimasero sorpresi da come la Lotus prese il durissimo impatto con il muretto: "Aveva parecchie parti piccole, quindi resistette meglio all’impatto. La macchina si disintegrò, ma quando succede questo rende il colpo meno duro per il pilota". Mario Andretti uscì dall’incidente solo con qualche bruciatura sul volto, costretto a ripartire da zero con un’altra vettura, che si era portato dietro giusto in caso. Nonostante avesse solo un giorno e mezzo per trovare l’assetto, l’istriano riuscì a qualificarsi al secondo posto, tra due giganti della IndyCar come A.J. Foyt e Bobby Unser.

Dalla tragedia alla gloria

Andretti ha più tardi ammesso che il team aveva iscritto la Hawk alla Indy500 solo per avere più spazio nella pit-lane ma non avevano intenzione di usarla davvero. Un mese prima aveva vinto una gara locale ma sull’ovale di Phoenix, poche settimane prima, si era dovuto ritirare dopo solo 38 giri per problemi meccanici. "Certo non un inizio positivo per questo telaio, ed ora dovevamo farci 500 miglia. Non avevamo scelta; siamo in ballo e ci tocca ballare, anche se la musica non ci piace". Nonostante la prima fila, il team di Andretti sapeva che la vettura aveva problemi di raffreddamento, tanto da costringere i meccanici ad installare un radiatore esterno. I rivali protestarono vivamente, dicendo che non era permesso modificare le vetture dalla qualifica alla corsa.

Il team fu quindi costretto a mettere il radiatore dietro al sedile del pilota. "Non fu semplice, ci toccò smontare la macchina ed avevamo solo due giorni prima della gara. Rinchiudemmo due meccanici nel box la sera prima della gara, così da finire i lavori. Riuscimmo a finire alle 4 del mattino. Non riuscimmo nemmeno a provarla, cercammo di far girare il motore e vedere se c’erano delle perdite ma non avevamo la minima idea se avrebbe retto per tutta la gara".

Fin dal primo giro, la situazione sembrò mettersi subito per il peggio. Partito a razzo, Andretti si accorse che le temperature erano già al limite, tanto da costringerlo a rallentare. Masticando amaro, il pilota istriano fu superato da McCluskey e Foyt, ma la Dea Bendata iniziò a giocare a suo favore. Entrambi i piloti furono costretti a ritirarsi, seguiti al giro 105 da Lloyd Ruby in seguito a problemi al box. Nonostante tutto, Andretti era convinto che sarebbe riuscito comunque a vincere: "Gli avversari mi potevano passare solo quando stavo rallentando per far raffreddare il motore. Quando potevo spingere per un paio di giri, li riprendevo sempre. Ero in controllo". Una volta usciti i suoi rivali più pericolosi, Mario sapeva di dover solo gestire le cose, tanto da distrarsi un po’ troppo. Proprio mentre stava annusando il barbecue dei tifosi, per poco non perse il controllo della vettura nella curva 2, finendo quasi sul muretto.

L’unico problema? La macchina era un forno. "Visto che avevo il radiatore dietro al sedile, la schiena si riempì di pustole. Mentre stavo correndo non me ne rendevo conto, ma dopo fu un inferno". La gara si concluse con un nuovo record del circuito in 3 ore 11 minuti 14 secondi, con due minuti di vantaggio sul secondo. Eppure ci vollero pochi minuti per rendersi conto di quanto si fosse arrivati vicini al disastro. Il capo meccanico si accorse che il cambio era completamente a secco di olio e che i cuscinetti a sfera stavano per saltare. Andretti ammise più tardi che "non credo avrei potuto completare un altro giro con quella macchina. Arrivammo proprio al limite. Quel giorno ero destinato a vincere".

La maledizione di Indianapolis

Da quel momento in avanti, la carriera di Mario Andretti andò di bene in meglio, tanto da essere riconosciuto dal circuito di Indianapolis come il "pilota del secolo". Arrivarono parecchie altre vittorie, incluso il titolo di campione del mondo di Formula 1 proprio con quella Lotus che per poco non gli era costata la vita. L’ultimo pilota con licenza statunitense a trionfare nel campionato del mondo si ritirò ad età avanzatissima, lasciando il posto al figlio Michael e ad una serie di nipoti più o meno competitivi, tanto da dare origine ad una vera e propria dinastia motoristica. Eppure, da quel momento, il circuito che aveva visto il suo trionfo più grande divenne una specie di tabù.

Mario Andretti ha accumulato una serie di record davvero incredibili, dal maggior numero di gare, alle pole position, ai giri passati in testa, ma non si è mai riuscito a ripetere sul circuito più iconico d’America. Il rapporto con Indianapolis è sempre stato complicato: prima della vittoria del 1969 non era mai riuscito ad arrivare a metà gara, riuscendo a ritirarsi ben due volte nel 1968, riuscendo a rompere sia la sua monoposto che quella del compagno di scuderia. Si è visto di tutto: incidenti disastrosi, rotture di motori, problemi all’acceleratore, guasti del tutto inspiegabili, tanto da far parlare apertamente di una vera e propria maledizione. 

Anche se gli Andretti fanno finta di non crederci, le storie sull’origine della curse si sprecano: c’è chi dice che a portare rogna sarebbe stato Andy Granatelli, magnate italo-americano proprietario della vettura vincente del 1969, che volle celebrare il suo connazionale con un bacio nel winner’s circle, l’area riservata ai piloti vincitori. Le capricciose divinità del motore non gli avrebbero perdonato questo sgarbo. C’è invece chi dà la colpa a Tom Carnegie, famoso telecronista del circuito di Indianapolis. Quando Mario Andretti iniziò a subire una serie di incidenti e problemi tecnici, Carnegie iniziò a dire una frase che divenne celebre: "Mario is slowing down!”" ovvero "Mario sta rallentando".

Inevitabilmente, nel giro di pochi giri, il pilota istriano si ritirava. La gara che avrebbe consolidato il mito della maledizione fu una delle prime dopo il trionfo in Formula 1, nella stagione 1981. Una delle Indy 500 più controverse di sempre, dai problemi in partenza, al caos sulle regole, agli strascichi legali, si sarebbe decisa non sul famoso ovale ma addirittura in tribunale. Gli spettatori videro la vettura di Bobby Unser arrivare per prima, pochi secondi davanti alla monoposto di Andretti ma sedici ore dopo, un comunicato assegnò la vittoria all’istriano, in seguito ad una penalizzazione per il pilota americano. Ci vollero ben cinque mesi di aspre lotte in tribunale prima che la vittoria fosse assegnata di nuovo ad Unser, ma la questione è ancora vivissima. Entrambi i piloti hanno ricevuto gli anelli del vincitore e Mario Andretti continua a dire di essere il vero vincitore. I due amici per la pelle non si sono parlati per anni, rovinando una grande amicizia. A questo punto, forse non è solo una questione di fortuna.

La maledizione continua

Dopo trent’anni passati a trionfare in tutto il mondo, Mario Andretti appese il volante al chiodo nel 1994 ma non smise di sfidare la sua bestia nera. Nove anni dopo, mentre stava provando la monoposto di un altro pilota, mettendo giri veloci su giri veloci, la macchina davanti a quella di Mario ebbe un incidente, spargendo rottami su tutta la pista. Ad oltre 320 km/h, la monoposto di Andretti prese il volo, girando un paio di volte in aria per atterrare sulle quattro ruote. Incredibilmente il pilota istriano ne uscì del tutto indenne. Il pubblico ebbe la conferma che stava aspettando: la maledizione non si era fermata con il ritiro di Mario, ma ora coinvolgeva la sua intera famiglia. A conferma il fatto che Michael e Marco, figlio e nipote, nonostante carriere del tutto rispettabili, non sono mai riusciti a vincere ad Indianapolis. Michael è stato in testa alla Indy 500 per oltre 400 giri ma non è mai riuscito a trionfare. Ogni volta che Marco è sceso in pista sull’ovale dell’Indiana si sono visti solo incidenti e guasti. Jeff, l’altro figlio di Mario, ha fatto ancora peggio: le tre volte che ha provato la 500 miglia sono finite con due incidenti ed un 15° posto. Il nipote di Mario, John, ha avuto vita altrettanto difficile.

Due volte le cose sembravano essersi messe davvero bene per gli Andretti, a partire dalla gara del 1992. Quell’anno in pista c’erano addirittura quattro Andretti, Mario, Michael, Jeff e John. Nonostante un raduno di famiglia mai visto prima nella storia dei motori, la gara si rivelò un disastro su tutta la linea. Mario e Jeff finirono sul muro, trasportati all’ospedale a scanso di equivoci mentre la monoposto di Michael semplicemente si spense, senza nessuna spiegazione, lasciandolo a piedi. Nel 2006 furono Michael e Marco a provare a rompere la maledizione e, a pochi giri dalla fine, sembrava davvero la volta buona. I due Andretti erano primo e secondo, con un buon vantaggio sui rivali. Neanche stavolta, però, riuscirono ad alzare al cielo il trofeo. Sam Hornish Jr. mise una rimonta clamorosa, riuscendo a superare Marco in volata, in uno dei finali più emozionanti della storia della Indy 500. La Dea Bendata, dopo aver graziato così tante volte i membri della famiglia istriana, ha deciso di negargli la gioia più bella.

Meglio dal muretto

A sentire la famiglia più titolata delle quattro ruote a stelle e strisce, la maledizione in realtà non esisterebbe davvero. Intervistato dall’Indianapolis Star, Mario si dice convinto che sia tutta un’invenzione dei media. "Non riuscirete mai a farmici credere. Non ne voglio sentire più parlare. Indianapolis è un circuito molto caro a me e alla mia famiglia. Non è un tracciato facile, abbiamo avuto tantissime delusioni qui ma continuiamo a volergli un gran bene". Il nipote Marco la pensa allo stesso modo, riflettendo sul fatto che, nonostante i tanti incidenti e le mille rotture meccaniche, tutti gli Andretti siano usciti dall’ovale con le proprie gambe. Visto che le corse sono un mestiere molto pericoloso, come si fa a parlare di sfortuna? Ogni volta che ti schianti ad oltre 300 km/h la possibilità di lasciarci le penne sono alte, eppure gli Andretti sono sempre qui, pronti a sfidare la fortuna un’altra volta.

Paradossalmente, le cose sono andate meglio quando i membri della famiglia più veloce d’America hanno abbandonato l’abitacolo per vestire gli abiti più comodi dei team manager. La scuderia che porta il nome di famiglia se l’è cavata decisamente meglio sul circuito di Indianapolis. Pur senza riuscire a replicare gli exploit dei Penske, di Paul Newman o di altri magnati delle corse a stelle e strisce, a partire dalla metà degli anni 2000, le vetture degli Andretti sono salite sul gradino più alto del podio ben cinque volte con cinque piloti diversi. Dan Wheldon nel 2005, Dario Franchitti nel 2007, Ryan Hunter-Reay nel 2014, Alexander Rossi nel 2016 e l’ex F1 Takuma Sato nel 2017. La maledizione, insomma, non funziona altrettanto bene quando gli Andretti siedono dietro il muretto. Mario Andretti ci scherza sopra: "Guardate Michael, come si sta togliendo soddisfazioni. Non ha mai vinto da pilota ma ha cinque titoli da proprietario".

Un amore senza fine

Gli anni sono passati ma gli Andretti non riescono a guarire dalla febbre della velocità. Nonostante abbia 83 anni, Mario Andretti è ancora in grado di togliersi qualche soddisfazione, come quando, lo scorso ottobre, fece qualche giro sul famoso circuito di Laguna Seca con una moderna Formula 1. Grazie all’aiuto del team manager della McLaren, il campione del mondo salì su una MP4-28a del 2013 mettendo qualche giro veloce sul complicato tracciato californiano. Mario si è detto grato della possibilità, facendo capire che sarebbe potuto andare ancora più veloce: "Bisogna trovare i rapporti giusti e poi non riuscivo a vedere bene il cruscotto; in alcune curve indovinavo la cambiata, altre volte andava peggio. Comunque è andata come mi aspettavo: la macchina è davvero una meraviglia". C’è stato anche spazio per una battuta, quando ha detto che stava cercando di "accumulare abbastanza punti per riprendermi la Super Licenza", ma in realtà gli Andretti stanno puntando forte ad un rientro trionfale in Formula 1.

Dopo il fallimento delle trattative per rilevare l’Alfa-Romeo, la Andretti Autosport sta provando ad ottenere una licenza dalla FIA per competere in Formula 1. A rendere ancora più probabile il tutto, è arrivata la notizia dell’accordo con la General Motors, ansiosa di schierare i motori Cadillac nel campionato più prestigioso al mondo. A sentire Mario, l’accordo con la GM consentirà sicuramente al team del figlio Michael di approdare in Formula 1 nel giro di pochi anni. Non sarà semplice ma con l’aiuto di uno dei colossi dell’automobile, gli Andretti potrebbero entrare nel circus dal 2026, quando entreranno in vigore le nuove regole sulle power units.

Il cammino non è semplice e diverse scuderie non sarebbero entusiaste all’idea di dover dividere il montepremi con un’altra squadra ma sottovalutare la determinazione degli Andretti non è mai una buona idea. A sentire Mario, parecchi pezzi da novanta sarebbero pronti a salire a bordo ed il lavoro per schierare delle monoposto competitive è già a buon punto. Come quando correvano sulle stradine dell’Istria, l’amore tra gli Andretti e la velocità non è ancora finito. Qualunque sia il prossimo capitolo, la loro è una storia che può succedere solo in America.

Craig Breen.

Craig Breen morto: il pilota di rally aveva 33 anni. Storia di Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2023.

Lutto nel mondo dei motori. Craig Breen, pilota di Hyundai nel WRC, è morto in un incidente nel corso di un test in vista del Rally di Croazia di questa settimana. Breen, 33 anni, è finito fuori strada sul percorso tra Stari Golubovac e Lobora, e la sua Hyundai i20 N Rally1 ha impattato contro un palo, ferendo mortalmente l’irlandese. Le autorità locali hanno confermato che si era verificato un incidente mortale poco dopo mezzogiorno, senza però diffondere l’identità della vittima.

Il co-pilota rimasto illeso

Da quanto appreso, invece, il co-pilota di Breen, James Fulton, non ha riportato ferite. «Hyundai Motorsport è profondamente addolorata nel confermare che il pilota Craig Breen ha perso la vita oggi in seguito a un incidente durante i test in vista del Rally di Croazia. Il co-pilota James Fulton è rimasto illeso nell’incidente, occorso poco dopo mezzogiorno ora locale. Hyundai Motorsport esprime le sue più sentite condoglianze alla famiglia di Craig, i suoi amici e i suoi fan», si legge nel comunicato della casa coreana alla stampa. Breen è stato il campione del mondo WRC Super 2000, conquistando vittorie al Rally di Montecarlo, al Rally del Galles, al Rally di Francia e al Rally di Spagna. Breen è stato anche il campione WRC Academy nel 2011, vincendo il suo primo evento nel 2011 al Rally di Germania. Da ricordare che nel giugno 2012, il copilota Gareth Roberts era rimasto vittima di un incidente durante il Rally Targa Florio, quinto round dell’Intercontinental Rally Challenge 2012.

Gianfranco Palazzoli.

Gianfranco Palazzoli morto l’ex commentatore della Formula 1: aveva 89 anni. Storia di Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 12 aprile 2023.

All’età di 89 anni è morto Gianfranco Palazzoli, una figura nota nel paddock della Formula 1 tra gli anni ‘80 e ‘90. Ex pilota prima di moto e poi di auto, è stato direttore sportivo di diverse squadre (Osella, Merzario, Tyrrell, Williams e Toleman) oltre che esperto dei regolamenti per la Rai insieme al telecronista Mario Poltronieri e al pit reporter Ezio Zermiani. Si è spento all’Ospedale San Carlo di Milano a seguito delle conseguenze di una frattura al femore. Dal paddock alla Rai

Noto come Pal Joe, entra nel paddock dopo aver appeso il casco al chiodo. Lo fa con un ruolo nella scuderia Osella, salvo poi diventare direttore sportivo della Merzario. Da lì le esperienze in Tyrrell, Williams e Toleman. Infine il passaggio in Alfa Romeo come responsabile delle attività nelle corse turismo. Gli appassionati italiani lo conoscono ancora meglio in veste di commentatore tecnico per la Rai, con delega sui regolamenti, affiancando Mario Poltronieri, Ezio Zermiani e Giorgio Piola nelle telecronache delle gare.

Edi Orioli.

Edi Orioli, che fine ha fatto oggi: «Vinto la Parigi-Dakar per quattro volte. Ora faccio l’imprenditore». Simone Golia su Il Corriere della Sera il 21 Marzo 2023

Edi Orioli, ex pilota di moto e auto, ha vinto quattro edizioni della Parigi-Dakar negli anni 80 e 90. Oggi, sessantenne, gestisce la Pratic, l’azienda di famiglia

Quando accende la tv e mette sulla Formula 1, Edi Orioli – ex pilota di moto e auto, re della Parigi-Dakar negli anni 80 e 90 — storce il naso: «Sono un tipo romantico, la mente è rimasta a James Hunt che, seduto su una pila di gomme, si fuma una sigaretta con una bella donna accanto. Allora potevi girare fra i box, mentre adesso senza un pass non ti fanno andare neanche in bagno. È diventata una roba assurda».

È il business, bellezza, direbbe qualcuno.

«Che però ha snaturato il valore delle corse. E con questo non voglio togliere niente ai piloti, che guadagnano un sacco di soldi ma che si fanno un bel mazzo. Forse parlo così perché ho 60 anni, ma io impazzivo per Nigel Mansell. Quando tirava fuori le unghie, non c’era trippa per gatti. Che dire di Senna poi, intramontabile. Come le lotte Hunt-Lauda».

Oggi per chi lo pagherebbe il biglietto?

«Mi piace Leclerc. Hamilton bravo, ma mi sta sulle scatole. Verstappen è arrivato nel paddock su un piatto d’oro, non aveva neanche la patente. È un po’ bastardo, però se vinci i Mondiali vuol dire che qualcosa di speciale ce l’hai».

E il motomondiale?

«Mi manca Valentino Rossi, come a tutti. Le strisciate nere che lasciava con la sua Honda 500 i piloti di oggi le possono solo sognare. Troppa elettronica, non ci sono più gli high side di una volta. Ora al massimo scivoli perché perdi l’anteriore. Certo, per la sicurezza meglio così».

Intanto lei non si ferma un attimo, è diventato un imprenditore di successo.

«Gestisco la Pratic, l’azienda di famiglia. È nata 63 anni fa grazie a papà e mio zio. Siamo leader in Italia e in Europa nella produzione di pergole, tende da sole, protezioni per ristoranti e alberghi. Per quest’anno puntiamo a un fatturato da 80 milioni, in totale contiamo 325 operai. Abbiamo rapporti con i mercati esteri, soprattutto in Germania, Belgio e Olanda, ma anche nel Regno Unito, in America, Australia e Norvegia».

Quando la svolta?

«La prima con mio papà, che inventò la capottina. Conquistò subito gli italiani, che necessitavano di una protezione dal sole adatta ai nuovi contesti abitativi, ma anche alle botteghe artigianali. Poi nel 1995, morto mio padre, abbiamo capovolto l’azienda, passando da un piccolo capannone di paese a uno da 30mila metri quadrati di superficie da produzione»

L’ultima trovata?

«Le pergole bio climatiche. Sembra quasi di stare in spiaggia».

Ma è vero che il Covid vi ha aiutato?

«Nei primi tre mesi di chiusura avevamo le mani nei capelli. Poi però la gente, stando a casa, l’ha riscoperta, imparando ad apprezzare di più il proprio giardino, la propria terrazza. Le persone hanno cominciato a vedere i nostri prodotti non più come oggetti che facevano ombra, ma come un mezzo che accresceva la cultura dell’aria aperta. Che poi, da bambini, chi di noi non ha provato a costruire una capanna? Alcuni nel bosco, altri in spiaggia o dietro un divano. Ora che siamo diventati grandi è cambiato solo il prezzo del giocattolo. Prima bastava un asciugamano, adesso chi può compra una pergola da 40mila euro».

Da pilota ha vinto quattro volte la Dakar, la corsa più pazza del mondo.

«Se l’avessi vinta quest’anno, avrei un milione di follower su Instagram. Invece mi accontento dei miei settemila, non me ne frega nulla».

Le manca?

«No. Quando oggi sento chi dice: “Ho fatto la Dakar”, sorrido. Quelli non sanno neanche cosa è la Parigi-Dakar. Arrivano al bivacco, hanno il camper con aria condizionata e riscaldamento. Le docce, il telefono, i cuochi che preparano da mangiare, dei box che sembrano quelli di F1. Questa roba non mi piace, manca l’avventura».

La prima partecipazione nel 1986, a 24 anni. Come le è venuto in mente?

«Una decisione drastica, una delle tante che ho preso nella mia vita. Facevo enduro da quando avevo 15 anni, vincevo tutte le domeniche e mi annoiavo. Correvamo per conto nostro, partendo dall’ultimo campo sportivo del paese, da dietro una parrocchia o alle spalle dei capannoni industriali. Non c’era coinvolgimento verso gli spettatori. Un giorno arriva un concessionario toscano: “Sei veloce, ti porto al Rally di Sardegna”. Da lì la Tunisia, dove ho pianto per la prima volta. Mi sono trovato da solo nel deserto, fra Tozeur e Nefta. Aveva piovuto, ero sommerso dal fango».

Quell’edizione è tragica. Muore anche il fondatore della corsa, Thierry Sabine, precipitando in elicottero con altre quattro persone.

«La corsa non si fermò neanche quel giorno, facemmo una tappa di trasferimento. La Dakar d’altronde non si ferma mai. Può morire un tuo amico o il tuo compagno di squadra, ma devi tirarti su le maniche e ripartire. The show must go on. Come? Pensando che non potrà mai succedere a te. Poi, quando inizi ad accelerare e a superare le dune, il ricordo di chi non c’è più lo metti da parte, sennò non reggi. Troppo cinico? Sì, ma la vita è così. Il destino è beffardo».

Ad oggi il conto si è fermato a 77 vittime in 43 edizioni fra piloti, addetti ai lavori e tifosi.

«Ormai ogni anno, quando muore qualcuno, mi squilla il cellulare. Basta, mi sono stufato, non rispondo più. Sì, si muore. Come è morto Simoncelli in MotoGp o come ne sono morti tanti in Formula 1. È una roulette russa e sono cavoli del pilota, al quale non lo ordina mica il medico di partecipare. Una volta ci accusò anche il Vaticano: “Correte dove la gente muore di fame”. Forse non sanno che grazie ai soldi della Dakar sono state costruite infrastrutture in Niger, Marocco, Tunisia e via dicendo. Inutile discutere, mia nonna diceva sempre: “Se tagli le orecchie all’asino pensando che diventi un cavallo, resterai deluso. Resterà sempre un asino”.

Nell’88 la prima vittoria: in testa c’è Vatanen, che stava dominando. Poi la sua Peugeot scompare misteriosamente.

«Succede di notte, si parla di un furto ad opera di alcuni mercenari. Ma l’ho sempre vista come una grande messinscena, anche se Jean Todt (allora direttore tecnico dei francesi) non lo ammetterà nemmeno sotto tortura. Chi sale su una macchina da 400 cavalli tutta in carbonio? Impossibile farla partire se non si è un tecnico. Forse avevano fuso il motore e hanno pensato di nasconderla per lavoraci sopra. Volevano guadagnare tempo e hanno tentato di fermare la gara. Erano convinti che, una volta ritrovata l’auto, li avrebbero fatti ripartire. Invece no, sono stati squalificati».

Cosa si porta dietro dalla Dakar?

«L’ho corsa 19 volte, in moto e in macchina. Mi sono divertito come un matto, una lezione di vita continua. Ho capito che la velocità è un elemento astratto che puoi provare in tanti modi, l’importante è riuscire a fermarsi. Dopo una tappa di 650 chilometri, un tuareg mi disse: “Bravo, il deserto esalta sempre le cose più solide”. Poi l’arrivo a Dakar, al lago rosa. Ogni volta mi veniva un nodo allo stomaco e scendevano due lacrimoni. All’inizio mi chiedevo: “Chi me lo ha fatto fare?”. Poi l’Africa mi è entrata sotto la pelle».

Oggi ricerca l’adrenalina o l’ha lasciata da parte?

«Scio molto, la scorsa settimana ero a Cortina. Appena nevica, sono sulle piste e ci resto fino alla fine della stagione. Ma la passione per le moto mi è rimasta. Faccio dei bei giri su mulattiera con i miei amici, ho una Rs6 perché se non ci sono abbastanza cavalli mi addormento. In garage anche una Bmw Gs, mi piace tanto. Sfido quelli che arrivano con la Yamaha R1 e la tuta in pelle, sentendosi Valentino Rossi. Ma se ti ritrovi in montagna con me, hai poco da sfidare».

Arturo Merzario.

Estratto dell'articolo di Umberto Zapelloni per “il Giornale” il 13 marzo 2023.

Sono un uomo fortunato. Sono qui a festeggiare gli 80 anni con mia moglie, sempre la stessa da quasi 60 anni, i miei figli, i nipoti, la famiglia allargata. Ho detto più fortunato, non più bravo», Arturo Merzario centra subito l’argomento. Per un uomo che ha cominciato a correre nel 1962 non era per nulla scontato arrivare fin qui. Lui c’era quando le auto erano pericolose e gli incidenti mortali.

 Ha visto morire davanti ai suoi occhi un amico come Ignazio Giunti, ha salvato dalle fiamme un “nemico” come Niki Lauda. «Io ho rischiato di finire come Frank Williams che poteva muovere solo la testa. Molto peggio del Clay (che era Regazzoni ndr). A Magione nel 1991 con i prototipi mi ruppi la seconda e la terza vertebra cervicale, muovevo solo gli occhi. Poi è arrivato un mio amico specialista, professore a Terni, mi ha messo la corona di Cristo, un anello attorno alla testa con dei fili, un busto di gesso e un millimetro al giorno mi ha rimesso in piedi, mi ha rifatto l’assetto».

 (...)

 Non indaghiamo. Torniamo in auto: è vero che era l’unico a dare del tu a Enzo Ferrari?

«Quando l’ho visto per la prima volta gli ho detto “Ciao Commendatore come stai?”. E ho continuato con il tu, anche quando ho cominciato a chiamarlo Grande Vecchio Saggio. Ma la mia non era mancanza di rispetto. Io ero abituato con Carlo Abarth e poi noi a Civenna eravamo abituati così, davamo del lei solo se non ci sentivamo amici e volevamo mantenere le distanze. Noi ragazzini del paese davamo del « tu a Calvi, Sindona e a Bonelli, quello di Tex... tutta gente a cui papà aveva costruito la casa».

 Ma come era Enzo Ferrari?

«Un gran figlio...»

 Bip.

«Mi diceva in modenese i piloti vanno e vengono, ma la mia fabbrica sta sempre qui. In pole position devono esserci sempre gli interessi dell’azienda».

 Perché è finita con la Ferrari?

«Sono stato io a dire di no a Ferrari, non il contrario e al Grande Vecchio quasi gli viene un infarto. Mi disse che ero il primo pilota a rifiutare un contratto con la Ferrari. Sapevo che non ci sarebbe stato futuro coi nuovi ingegneri».

 Che anni sono stati?

«Io sono stato lì cinque anni dal 1969 al 1973 e rimango l’ultimo ad esser andato sul podio di Le Mans proprio 50 anni fa e adesso ci tornano finalmente».

 Lei si è fatto pure una scuderia tutta sua.

«L’errore più grande della mia vita, ho avuto debiti per 10 anni».

 Chi è stato il pilota più forte contro cui ha corso?

«Jim Clark. Io ho cominciato che lui e Graham Hill, Jochen Rindt erano già in pista. Clark e Hill con la Ford Cortina, Rindt con la Giulietta, io con il millino Abarth. Allora correvamo tanto anche con il turismo».

 Chi era il più simpatico?

«A me piaceva molto Jo Siffert perché era terra terra come me. Anche Hill era simpatico, era un burlone, non come suo figlio, ma aveva quell’impronta austera dell’aviatore. Poi faceva anche lui le cag... come noi, ma sempre stando un po’ sulle sue, come Jackie. Clark invece era come Chris Amon, era un allevatore di pecore, più alla mano. Hill e Stewart oggi diremmo che sono un po’ dei fighetti...».

 Ma qualcuno antipatico c’era?

«Eh... non ti basta il giornale a raccontarli tutti. Ma sai perché diventano antipatici? Perché pagano per correre. Io sono stato l’ultimo ingaggiato e pagato dal Grande Vecchio. Dopo c’è stato solo Gilles. Gli altri li pagava tutti lo sponsor delle sigarette».

 Lauda non le stava simpatico?

«Un amico-nemico. Mi stava un po’ sulle scatole perché mi aveva soffiato un campionato europeo. Poi voi ci avete un po’ marciato su, ma certo non avete inventato nulla. Dopo l’incidente ci sono voluti 30 anni per diventare amici».

 Raccontiamo come andò?

«Quando ho visto l’auto tra le fiamme. Non ci ho pensato su due volte. Ma se non sveniva non lo salvavo... Si muoveva, si dimenava per uscire con le fiamme sotto il sedere e io non riuscivo a slacciare le cinture. Poi è svenuto e l’ho liberato. Non so come uno magrolino come me, sia riuscito a tirarlo fuori. L’adrenalina mi ha trasformato in superman».

 Poi gli ha fatto anche la respirazione artificiale?

«Il massaggio e la respirazione. Lo avevo imparato a militare, facevo il corso di primo soccorso per avere cinque giorni di permesso premio».

 Però non l’ha mai ringraziata davvero e solo trent’anni dopo l’incidente avete fatto la pace.

«Merito di Bernie. Eravamo al Nurburgring. E lui mi dice come on, vieni con me. Mi carica su una Mercedes e mi porta là dove c’era stato il fuoco di Niki. Ci sono una troupe di Rtl e Niki. Se lo sapevo magari non ci andavo. Poi Bernie mi dà un orecchio di plastica e mi dice dai dallo a Niki, digli che l’hai trovato nel bosco.

Per un attimo ho avuto la tentazione di mandare tutti a quel paese. Poi invece sono stato al gioco e da quel momento da nemici siamo diventati amici. Io continuavo comunque a chiamarlo stronzo e lui mi mandava i whatsapp firmandosi il tuo amico stronzo». 

E oggi chi le piace?

«Dal primo giorno che ho visto Hamilton vincere a Monza la gara di Gp2 ho detto questo qui farà strada».

 E tra i giovani?

«Verstappen ha già superato Hamilton. Ma prima di arrivare ha perso un sacco di gare e almeno un mondiale per la sua esuberanza da ragazzino. Aveva il piede giusto, ma non aveva nel team una persona come era stato Niki per Hamilton. Lui gli ha insegnato che per vincere devi anche imparare a perdere. Non devi dimostrare ad ogni giro di essere il migliore».

 E Leclerc le piace?

«Sì, ma la sua rovina è che lo hanno fatto campione ancora prima di vincere la prima gara».

 Auguri Arturo, ci risentiamo tra 20 anni.

«Contateci».

Lewis Hamilton.

Estratto da Il Corriere dello Sport il 5 marzo 2023.

Ha la stessa carica di inizio carriera? 

«Non posso dire che sia stato sempre così ma quest’anno sì. Non ricordo una stagione in cui non vedevo l’ora come adesso di saltare in macchina e ripartire. Ho fatto un paio di test per le gomme pur di salire in macchina il prima possibile, cose che in passato avrei anche evitato. Mi sento rinvigorito, voglio tornare a lavorare con il team che ho trovato molto carico. La W14 è una chiara evoluzione della macchina precedente, ci sono delle differenze che sono emerse molto bene nei meeting che ho fatto finora con lo staff tecnico e gli ingegneri. Mi hanno spiegato cosa hanno realizzato, perché, e cosa si aspettano». 

 (...)

Dopo le difficoltà della stagione 2022, cosa le dà particolare fiducia nell’affrontare quest’anno? 

«Correre per la Mercedes è come stare nella mia famiglia. Ho piena fiducia in tutti e so benissimo che questo gruppo sa vincere: mi ha permesso di farlo numerose volte. Ogni volta che vengo in azienda vedo progressi. Sarà l’undicesimo anno con la Mercedes: il tempo scorre ma trovo sempre un gruppo molto unito e motivato». 

Oltre alle corse, è coinvolto nella realizzazione di un film. Come procede con il casting e ci saranno altri “divi” oltre a  Brad Pitt? 

«Stiamo selezionano i protagonisti. Sarà emozionante lavorare con Brad, abbiamo registrato alcune piccole scene. Io voglio che ci siano anche donne, con una rappresentazione il più larga e differenziata possibile. Amo vedere delle donne meccanico e pilota». 

 Aspetterà di capire quanto sarà competitiva la W14 prima di rinnovare il con la Mercedes? 

«No, la squadra non ha nulla da dimostrarmi,. Una stagione difficile non incide sulla capacità del nostro gruppo. Qui c’è armonia ed energia, è un momento positivo e non vorrei essere da nessun’altra parte». 

 C’è qualcosa di particolare che ha chiesto ai suoi ingegneri? 

«Ci sono stati tanti aspetti che nella macchina dell’anno scorso non sono andati come dovevano andare. Penso che nella realizzazione della W14 siano state accolte le nostre richieste di miglioramenti». 

 Cosa le ha insegnato la scorsa stagione? 

«Quando si perde, si impara di più. Penso che le difficoltà ci abbiano rinforzato. Adesso lavoriamo ancora più profondamente, c’è maggior senso critico e sono orgoglioso e contento di tutti coloro che lavorano con me. L’anno scorso è andato, non si torna indietro, ma ci teniamo le lezioni apprese». 

Con la squadra avete fatto qualcosa di diverso? 

«Ho lavorato molto al simulatore e speso più tempo con i miei tecnici. Ho lavorato tanto sia sul mio lato fisico che mentale». 

 Le piace che la macchina sia tornata una pantera nera? 

Jean Todt.

Estratto dell'articolo di Umberto Zapelloni per “il Giornale” il 30 giugno 2023.

Monsieur Todt si ricorda dove era trent’anni fa?

«Mi lasci pensare...».

Il primo luglio 1993 esordì a Magny Cours alla guida della Ferrari.

«Se non me lo ricordava lei non ci avrei pensato. Il primo luglio ho un altro anniversario da festeggiare».

Ci racconti.

«Quello con Michelle. Stiamo insieme dal 2004». 

Auguri e complimenti a Lady Oscar. Era davvero emozionato nella notte in cui a Hollywood sua moglie ha ricevuto la statuetta. Quasi come nel 2000 sul podio di Suzuka con Michael?

«Il bello della vita è che le emozioni sono sempre diverse. Quando assisti al successo di una persona per cui provi amore o affetto è come se avessi vinto tu. E vale lo stesso se quella persona soffre».

(...)

Torniamo al luglio di trent’anni fa: arrivando in Ferrari si aspettava di riuscire a vincere così tanto?

«Non me lo sarei mai aspettato. Ricordo qualche amico che mi diceva: non resisterai più di due anni. Sono rimasto fino alla fine di marzo 2009, dopo che avevo tentato di andarmene due volte, nel 2004 quando poi mi nominarono amministratore delegato e nel 2008 quando mi chiesero di restare ancora un anno». 

Che cosa ricorda della sua prima volta a Maranello?

«La prima volta fu molto prima, negli anni ’70. Accompagnai Jean Guichet di cui ero copilota. Ricordo che il commendatore gli disse: ma come, di solito vieni con delle belle donne, con chi sei venuto questa volta? Arrivammo con la sua Mercedes 600 passo corto».

Allora è un vizio quello di presentarsi in Mercedes. Fece lo stesso anche a casa di Montezemolo?

«Lui lo dice sempre. Ma gli chieda che macchina guida adesso». 

Incontrò Ferrari altre volte?

«Alla fine degli anni Ottanta dopo che avevamo vinto due mondiali rally di fila con la 205. Attraverso Piccinini gli chiesi la prefazione di un mio libro su quei successi. Mi ricevette a pranzo a Fiorano con Gozzi, Pieri e Piccinini e ricordo che mi disse (e poi scrisse nella prefazione): per me Peugeot è brava solo a fare dei macinini da pepe...». 

Poi venne la chiamata da Montezemolo.

«Fu Ecclestone nel luglio 1992 a dirmi: la Ferrari potrebbe avere bisogno di te, chiama Montezemolo. Ci sentimmo, lo incontrai una prima volta, poi venne lui a trovarmi a Parigi a settembre durate il Salone dell’Auto. Abbiamo discusso fino a fine anno e poi a marzo ho firmato...».

Ed eccoci al primo luglio 1993.

«Ho lasciato il mio ufficio in Peugeot, staccando i quadri dai muri alle 11 di sera del 30 giugno. Il mattino dopo Sante Ghedini venne a prendermi a casa portandomi la divisa e in macchina arrivammo a Magny Cours dove vi feci tutti contenti parlando già un po’ di italiano...». 

Non fu un grande esordio.

«Fu un disastro. La prima decisione infatti fu di lasciare la squadra in pista per due giorni di prove supplementari».

Non fu un inizio semplice.

«La cosa di cui sono più orgoglioso è di aver preso io la decisione di andare via e di non esser stato mandato via.Tante volte negli anni difficili ho pensato che non sarebbe durata».

E qualche volta da Torino hanno chiesto la sua testa.

«Montezemolo mi fece leggere una lettera in cui glielo chiedevano. Ma lui mi difese, come mi difese anche Michael che un giorno disse: “Se mandate via lui, me ne vado anch’io”. Ma sa perché Montezemolo, a cui voglio bene, non mi cacciò? Perché non aveva trovato uno meglio di me». 

(…)

Il primo Mondiale costruttori nel 1991, il primo Mondiale piloti nel 2000...

«Ma non dimentichiamo il 1997 quando abbiamo perso a 10 minuti dalla fine per una cazzata di Michael. Lo dico con affetto, ma Michael in carriera ha fatto due-tre cose che non avrebbe dovuto fare e gli sono costate il mondiale. Nel 1998 poi abbiamo perso per una truffa, per l’incidente causato da Coulthard in Belgio». 

È stato importante anche avere un presidente presente che sapesse di corse.

«È stato importante avere un presidente che non ascoltasse chi dall’esterno voleva cambiare le cose. Montezemolo lo conosciamo, ogni tanto gli saltavano i nervi. Ma mi ha sempre protetto e lasciato fare il mio lavoro». 

(...)

La Ferrari le ha cambiato la vita.

«È vero, perché la Ferrari è di un’altra dimensione. E in Ferrari abbiamo vinto tutto. Poi ho cercato di restituire un po’ di quello che avevo ricevuto. Prima alla Fia e poi all’Onu e poi fondando con Saillant l’Istituto del Cervello e del Midollo Spinale che oggi ha mille ricercatori. Sono presidente della Suu Fondation in Birmania e dell’International Peace Institute a New York». 

Guarda ancora le corse?

«Non potrei farne a meno. Guardo tutto. Dai rally, alla F1 a Le Mans e non perdo un gran premio. Il mondo non mi manca, ma non potrei mancare una corsa».

Bello veder vincere la Ferrari a Le Mans.

«Bellissimo. Avevo spinto io John Elkann a far tornare la Ferrari. Finalmente ha avuto il coraggio di rimettere la Ferrari in gioco».

Ha mai fatto caso che le due persone più importanti della sua vita si chiamano Michelle e Michael...

«Michelle è l’amore della mia vita. Michael è la mia famiglia. Ma non dimentichiamo mio figlio Nicholas. Sono molto orgoglioso di lui e di quello che fa con professionalità. Se non fosse per lui Leclerc non sarebbe in Formula 1». 

Crede che Charles possa vincere il Mondiale?

«Dipende tutto dalla macchina. Il pilota è capace, ma senza macchina non può nulla. Michael senza la Ferrari (o prima la Benetton) non avrebbe vinto. Il pilota è importante, ma non basta. Se Verstappen guidasse la Ferrari e Leclerc guidasse la Red Bull, avremmo un campione diverso».

Jean Todt: «Schumacher? Chi dice che sa qualcosa non sa niente. L’Oscar di Michelle Yeoh? Emozioni come con Michael». Daniele Sparisci su Il Corriere della Sera l’1 aprile 2023

L’ex n.1 di Ferrari e Fia: «Ho provato la stessa gioia sul podio di Suzuka con Michael. Come sta oggi? Chi dice che sa qualcosa, non sa niente. Vado sempre a trovarlo. Alla Ferrari manca qualcosa, Leclerc vale come Verstappen»

Domenica vedrà il Gp d’Australia (QUI gli orari), «ma la vita è fatta di capitoli. Nella mia ci sono stati quelli con la Peugeot, con la Ferrari, e con la Fia. E ora mi dedico alla sicurezza stradale da inviato speciale delle Nazioni Unite, bisogna combattere la “pandemia silenziosa” sulle strade. Giro il mondo alla ricerca di soluzioni. E festeggio la nuova campionessa del mondo che ho in casa: la mia compagna». Sorride Jean Todt parlando dell’Oscar a Michelle Yeoh, migliore attrice protagonista nel film «Everything Everywhere All at Once». Ma il pensiero torna all’agenda, dove in una parte c’è uno spazio per l’International Peace Institute di New York di cui è presidente.

Tanti incidenti sono provocati dalla distrazione, dall’uso del telefono al volante. Come si fa a far arrivare il messaggio?

«Lanceremo una campagna a livello mondiale, in mille città: compariranno Leclerc, Mick Schumacher, Marc Marquez, Patrick Dempsey, Michael Fassbender, il premio Nobel Malala. Useremo gli influencer per educare i giovani in macchina».

Potrebbe godersi la pensione e invece lavora a tempo pieno per il sociale. Perché?

«Perché ora ho molto più tempo libero, mi ritengo un uomo fortunato ed è bello dare indietro qualcosa. Con un gruppo di amici abbiamo creato l’Istituto di ricerca per il cervello e il midollo spinale a Parigi. Siamo il numero due al mondo, nel nostro campo abbiamo mille ricercatori. Salute e sicurezza per me sono le priorità, le corse sono servite da laboratorio per la strada. Dopo aver lasciato la Fia mi sono trovato davanti a un bivio».

Quale bivio?

«Sentivo la necessità di vincere altre corse, in altri terreni».

Sa che in tanti dentro la F1 la rimpiangono?

«Sento poche persone lì dentro. Stefano Domenicali: dopo essere stato un mio collaboratore per 16 anni è diventato un amico. Mio figlio Nicolas (manager di Leclerc, ndr), sono felice di non essere più un’ombra per lui. Ero più un disturbo che un aiuto. La vita è una successione di capitoli, l’ho raccontata in documentario e poi uscirà anche un libro».

Ci metterà anche la notte degli Oscar?

«È stato come vincere un Mondiale. Arrivati a Los Angeles pensavamo di avere delle chance, ma non puoi saperlo finché non si apre la busta. Quando hanno fatto il nome, ero felicissimo. So gli sforzi di Michelle, la prima attrice asiatica poi...».

Quando è che aveva provato una gioia simile?

«A lei ho detto all’orecchio: “Provo la stessa sensazione di quando ho portato Michael (Schumacher ndr) nel 2000 a Suzuka”. Stava scrivendo la storia. Perciò dico che abbiamo una nuova campionessa del mondo in famiglia».

Todt e Schumacher a Suzuka nel 2000, il tedesco in Giappone vinse il primo titolo con la Ferrari (Epa)

Lei va sempre a trovare Michael. Si sentono tante voci, come fanno a parlare tanti che non lo hanno mai visto dopo l’incidente?

«Lasciamolo tranquillo, rispettiamo la volontà di privacy di Corinna e dei figli, sappiamo che quell’incidente ha avuto delle conseguenze. Chi dice che sa qualcosa, non sa niente. Vado sempre a trovarlo. Lui e la sua famiglia sono la mia famiglia».

«Corinna come Michael, prigioniera da dieci anni»

I Gp in tv li segue ancora?

«Di tutto. Rally, endurance, Formula E. Parlo con Domenicali prima e dopo le gare, ho visto il Bahrein e Gedda: quando c’è il Gp non prendo impegni».

Forse il suo amico Domenicali è preoccupato. La Red Bull sembra imbattibile…

«È molto forte, ma c’è anche l’Aston Martin: è cresciuta più di tutti da un anno all’altro».

L’Aston Martin ha dimostrato che il salto è possibile, che cosa serve?

«Tempo e buone decisioni per prendere la gente giusta e metterla al posto giusto».

Todt e Michelle Yeoh, un amore lungo 20 anni

Quando lei arrivò alla Ferrari prese i migliori tecnici.

«Non solo tecnici. È indispensabile avere i migliori in ogni area. Un’azienda si giudica dalla porta d’ingresso. Dal modo in cui un operatore risponde al telefono. Bisogna prendere i migliori e poi coordinarli creando un ambiente fertile».

Non dovrebbe farlo la Ferrari?

«Non sta a me giudicare. Dico solo che auguro il meglio alla Ferrari».

Conosce Vasseur?

«Poco. Lo conosce meglio mio figlio, hanno lavorato insieme».

A molti Verstappen ricorda Schumacher. A lei?

«Veloce, sbaglia poco. È un combattente come Michael. Ma a livello umano conosco Max troppo poco per giudicarlo. Michael quando correva poteva sembrare un po’ presuntuoso e antipatico, ma era un atteggiamento che serviva a nascondere la sua timidezza. Era umile, si metteva sempre in dubbio. Non ha mai accusato la squadra, neanche quando a Silverstone per colpa nostra si sono rotti i freni. Non faccio paragoni ma un punto in comune lui e Max lo hanno».

Quale?

«Guidano per la squadra migliore e questo aiuta».

Leclerc sarebbe in grado di fare ciò che fa Verstappen se fosse nella squadra migliore?

«Sicuro. In F1 esistono quelli bravi, e poi un piccolissimo gruppo di bravissimi di cui Leclerc fa parte».

Abu Dhabi 2021, finale fra le polemiche. Se potesse tornare indietro agirebbe in maniera diversa?

«Io non ho fatto nulla, non è il ruolo del presidente della Fia. Gli arbitri devono essere autonomi, ha mai sentito Infantino dire “Qui c’era un rigore, e qui invece no”? Nel documentario (Jean Todt, la méthode ndr) si vede che sto guardando quella gara nella casa di campagna insieme alla troupe. Mi chiamano Horner e Wolff e a loro rispondo: “Non posso interferire, è responsabilità dei commissari e del direttore di gara”».

Ferrari, sedici anni senza vincere. Se lo aspettava?

«Senza vincere un titolo, però ha vinto delle gare. La Ferrari resta, da quando me ne sono andato, una delle squadre migliori in F1. Manca qualcosa, è protagonista ma non ancora per il campionato. Diamogli tempo di dimostrare di essere in grado di percorrere l’ultimo passo».

Dove vedere il Gp d’Australia in tv

Che regalo ha fatto a Michelle per l’Oscar?

«Glielo ho fatto prima, mi sentivo che avrebbe vinto».

Michael Schumacher.

Ultime notizie su Michael Schumacher: la verità del fratello Ralf sulle condizioni di salute. Il fratello minore del grande ex pilota ha rilasciato un'intervista a un settimanale tedesco. La famiglia, l'unione e l'amore di tutti per l'ex campione e la sua vita privata, i temi trattati. Redazione Web su L'Unità il 7 Novembre 2023

Ralf Schumacher, fratello di Michael, ha ‘rotto’ il silenzio che da 10 anni grava intorno alle condizioni di salute del grande ex pilota di Formula 1. In occasione di un’intervista rilasciata al magazine tedesco Bunte, Ralf Schumacher ha parlato di come l’intera famiglia abbia gestito la situazione riuscendo a mantenere la privacy e allo stesso tempo restando sempre al fianco di Micheal. Quest’ultimo è da sempre assistito dalla moglie Corinna e dai figli Mick e Gina Maria. Ralf è stato anche lui pilota, alla guida di Jordan, Williams e Toyota.

Le parole di Ralf Schumacher

“La vita è imprevedibile – ha raccontato il fratello minore di Michael – ed è stata particolarmente ingiusta con lui. Sappiamo benissimo che la vita può essere tremenda. Noi non possiamo fare altro che accettare il nostro destino. Tuttavia, quando vedo Mick e Gina Maria, il mio cuore sorride. Sono fonti di gioia pura ed è incredibile la forza che stanno dimostrando in un periodo tanto difficile. Ovviamente se qualcuno in famiglia, Corinna o i ragazzi, cerca il mio consiglio, io sarò presente, pronto ad aiutarli. Mi sembra però che abbiano preso la loro strada, siano ormai grandi, vadano per conto loro e sappiano perfettamente cosa fare“.

La carriera all”ombra’ di Michael

Cosa fa oggi Ralf Schumacher? L’ex pilota, dopo aver collezionato 182 gare disputate in F1, con 6 vittorie, 6 pole position e 27 podi, oggi è proprietario di un’azienda vinicola con sede in Slovenia. La società ha il suo nome e i vitigni sono al confine con il Friuli Venezia Giulia. “Un modo perfetto per rallentare questa vita frenetica – ha detto Ralf – Le persone qui vivono la quotidianità con estrema tranquillità e sono sempre cordiali e gentili. Invece di guidare auto veloci qui salgo a bordo di un trattore“. Schumacher jr. ha anche recuperato il rapporto con l’ex moglie Cora: “Oggi siamo buoni amici, la nostra fase di discussione, che alcune persone percepivano come la ‘Guerra dei Roses’, è ormai alle spalle da tempo. Sono molto più sereno“

DI Redazione Web 7 Novembre 2023

Lorenzo Nicolao per corriere.it- Estratti giovedì 2 novembre 2023.

Quali sono le condizioni di salute di Michael Schumacher? Tutti vorrebbero saperlo, ma solo la moglie Corinna, i figli Mick e Gina Maria e la storica portavoce dell’ex pilota Ferrari vincitore di sette titoli mondiali in F1 Sabine Kehm, sono autorizzati a rilasciare informazioni sul suo stato. 

Dall’incidente sciistico rimediato il 29 dicembre 2013 sulle montagne francesi di Méribel, poco o nulla è trapelato nell’arco di quasi dieci anni sullo stato di salute della leggenda della F1, ma non si tratta di casualità. 

A spiegare le ragioni giuridiche del silenzio dei familiari, e del perché sia emersa invece qualche rara indiscrezione diffusa dai pochi, strettissimi amici che hanno potuto far visita a Schumi, è stato l’avvocato della famiglia Schumacher Felix Damm, che tutela gli interessi del campione dal 2008, soprattutto per tutte le eventuali controversie legate ai media e alla stampa.

La spiegazione del legale

In dieci anni le pochissime informazioni diffuse sulla salute di Schumacher sono risultato di una scelta precisa, che è stata presa di comune accordo in primis dalla moglie, e accolta fedelmente tanto dai figli, quanto dalle persone che nel tempo sono rimaste sempre vicine all’ex pilota. All’indomani delle due operazioni alla testa, alle quali era stato sottoposto Schumacher all’ospedale di Grenoble, fino al giugno 2014, l’opinione pubblica non ha più potuto ricevere aggiornamenti. 

(...) Una dinamica spiegata ora dall’avvocato Damm in un’intervista rilasciata alla rivista specialistica tedesca «Legal Tribune Online»: «Con l’incidente la pressione dei media è cambiata radicalmente. Chiunque voleva ricevere di prima mano informazioni sulle condizioni di salute di Michael per mettere a segno uno scoop. Tuttavia nell’ambito della salute ogni dato è di natura sensibile.

Gli stessi bollettini dei medici sono contenuti che possono essere classificati come “tematicamente legati alla privacy”. Di conseguenza, tali informazioni possono rimanere riservate e non essere diffuse, a seconda della discrezione della famiglia». Ruolo, quello dei familiari, ancora più importante se il diretto interessato non può rispondere autonomamente circa le informazioni pubblicate sul proprio conto. 

(…) «Nessuno, a parte Corinna e i figli, può in linea di principio violare la riservatezza dei fatti circa la salute di Schumi, a meno che le informazioni raccolte non siano state divulgate dai diretti interessati. In giurisprudenza questo contesto viene definito “autoapertura della sfera privata” o più semplicemente “autodivulgazione”», ha proseguito il legale.

«In questo modo qualsiasi informazione venga pubblicata è suscettibile di querela da parte della famiglia a meno che le informazioni giungano dalla famiglia stessa. Tutti infatti chiedono come stia Schumi, quali siano le sue condizioni, mentre molti operatori dei media sognano di poter raccontare o mostrare come appaia adesso l’ex pilota. Non dando mai informazioni ufficiali, per proteggere la sua privacy, si può così punire direttamente qualsiasi indiscrezione pubblicata o diffusa sul campione».

L’avvocato spiega così lo strettissimo riserbo imposto da Corinna. «Questi punti fermi giuridici permettono però a moglie e figli di tutelare Schumi e di perseguire legalmente chiunque riveli dettagli su di lui senza neanche dover entrare nel merito delle rivelazioni. Ci saremmo altrimenti trovati di fronte a una lunghissima trafila di controversie, da affrontare caso per caso». Risultato: dipenderà solo da Corinna, Mick e Gina Maria quali e quante informazioni saranno diffuse sullo stato del campione e quanto si potrà venire a sapere ufficialmente sulle sue condizioni di salute.

Estratto dell'articolo di Roberto Mazzu per auto.everyeye.it il 23 marzo 2023.

C'è una persona che da quel maledetto incidente sulle nevi del 29 dicembre 2013, non ha mai lasciato nemmeno per un giorno Michael Schumacher, ed è la moglie Corinna, oggi 54enne. […]

 A parlarne è stato ieri Eddie Jordan, team principal del tedesco ai tempi della Jordan, intervistato dal Sun US. Nell'occasione ha spiegato: "Questa è stata la situazione più orribile per Mick e Corinna.

 Sono passati quasi dieci anni e lei non è stata in grado di andare a una festa, a pranzare in un ristorante oppure in qualsiasi altro posto pubblico. Vive come una prigioniera perché tutti vorrebbero parlarle di Michael quando in realtà non ha alcun bisogno che gliene ricordino di continuo la condizione".

Eddie Jordan ha confessato di non aver mai potuto andare a trovare Michael Schumacher: "Non sono stato in grado di andare a vedere Michael, la famiglia mi ha detto: Ti vogliamo bene Eddie e siamo stati molto vicini per tanto tempo, ma abbiamo bisogno della privacy e della salvaguardia di Michael”. […]

«Corinna Schumacher, come Michael, è prigioniera da dieci anni». Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 23 marzo 2023.

Parla Eddie Jordan, l’uomo che fece esordire Schumi in Formula 1: «Non parla di lui in pubblico e non va più a una festa. Ha impedito a tutti, eccetto i familiari, di vederlo»

Una moglie in missione. Corinna Betsch è l’angelo custode del marito Michael Schumacher da quando il sette volte campione di Formula 1, il 29 dicembre 2013, subì il gravissimo incidente sugli sci a Meribel, sulle Alpi francesi. Un incidente che ha ridotto il campione, a distanza di quasi dieci anni, in condizioni di salute talmente serie da essere tenute praticamente segrete fino a oggi. Se la riservatezza è rimasta pressoché intatta, il merito è quasi esclusivamente dalla moglie, che in lunghissimi anni di sofferenza e sacrificio ha sempre preservato la privacy di Michael. Tra gli amici e i conoscenti che hanno condiviso con il campione rivalità e successi nel mondo delle corse, ha parlato della condizione personale di Corinna l’ex boss di F1 Eddie Jordan, l’uomo che ha lanciato Schumacher, quando era ancora un astro nascente negli anni Novanta. Le sue parole sono state diffuse in un lungo articolo pubblicato dal quotidiano britannico The Sun.

Le parole di Jordan: «Corinna senza vita pubblica»

«Una situazione della quale non si intravedono soluzioni e della quale è prigioniera da quasi dieci anni. Combatte costantemente ogni giorno per mantenere il riserbo sulle condizioni del marito, ma ha praticamente rinunciato a una vita propria», così l’imprenditore irlandese, descrive il dramma che continuano a vivere tutte le persone vicine al campione, in particolare Corinna. A 54 anni la moglie dell’ex ferrarista continua a gestire tutti gli affari di famiglia (oltre 565 milioni di euro di patrimonio complessivo), senza aver mai smesso di aiutare il figlio Mick nella sua carriera da pilota, arginando giornalisti, curiosi, fan, paparazzi e tutti coloro che vorrebbero conoscere le reali condizioni della leggenda della F1. Jordan, al quale è stato impedito di vedere Michael dalla stessa Corinna (come molti altri), ha constatato la pesantezza della situazione in qualità di storico amico di famiglia, raccontando ai giornalisti inglesi di condividere pienamente questa scelta. «Da dieci anni Corinna non va a una festa, a un pranzo o a qualsiasi occasione pubblica che possa esporla. Chiunque la incontri le chiede del marito e vuole saperne di più su di lui. Un’eventualità che ormai cerca di evitare a priori. Anche per il figlio è molto difficile in queste condizioni farsi strada nel mondo dei motori. Ha un grande talento, ma non è solo questione di cognome, è oggettivamente molto dura per lui. Avrebbe bisogno di esprimersi liberamente», ha commentato Jordan. Schumacher oggi può essere visto solo dai familiari più stretti (fa eccezione l’ex team principal della Ferrari Jean Todt). La moglie limita con forza ogni giorno la circolazione delle informazioni. Questo quanto ha lasciato intendere e ha spiegato Jordan. «In tanti vogliono fargli visita, ma Corinna ha sempre rispettato le regole che ha imposto sin da subito. Jean Todt aveva un rapporto speciale con Schumacher, è normale che possa essere stato un’eccezione. Lo trovo assolutamente comprensibile».

«Ora saremo noi a proteggerlo»

Jordan lo ha visto crescere e gli ha dato fiducia nel 1991, quando lo ha fatto esordire a 22 anni al Gp di Spa al posto di Betrand Gachot, pilota belga arrestato per aver utilizzato del gas lacrimogeno durante una lite con un tassista. L’ex patron dell’omonima scuderia ha sempre rispettato e amato Schumacher, quando guidava il suo team dal 1991 al 2005, ma anche dopo, ammirando il talento di un campione capace di vincere 91 Gran Premi su 308 disputati. «Non critico in alcun modo l’atteggiamento di Corinna, anzi voglio quanto più possibile dare un contributo al rispetto della sua riservatezza — ha affermato Jordan —. Questo per me è l’unico modo con il quale possa dare loro una mano oggi. Michael mi manca tantissimo, manca a tutti. Figuriamoci alla moglie e ai suoi figli». Corinna parla sempre più raramente di Schumacher, ma nel documentario diffuso da Netflix nel 2021, non aveva fatto altro che ribadire l’importanza di sostenerlo in ogni modo, in una condizione di salute nella quale il marito «c’è e non c’è al tempo stesso». E ancora: «Il solo fatto che sia vivo ci dà tanta forza e fiducia. Michael ci ha protetto per tutta la vita, ora saremo noi a proteggere lui».

Estratto da liberoquotidiano.it il 2 marzo 2023.

Come sta Michael Schumacher? A poco meno di 10 anni dal drammatico incidente sugli sci a Meribel, in Francia, […] arriva anche la risposta di Eddie Jordan, 74 anni, amico dell'ex pilota tedesco (oggi 54enne) e fondatore dell'omonima scuderia che con cui Schumi esordì nel circus nel 1991.

 "Michael è lì, ma non c’è", […]. "Il motivo per cui mi sento molto vicino a lui è perché non è facile sapere che tuo padre non può più far parte della famiglia — ha detto al sito OLBG Jordan a proposito del figlio di Schumacher, Mick -, […]

Un altro grande amico di Schumacher, il suo ex team manager Jean Todt ai tempi della Rossa, qualche tempo ha fa rivelato che il campionissimo di Hurth […] ancora oggi segue le gare di Formula 1 in tv. E la moglie Corinna, rimasta sempre al suo capezzale e storicamente riservatissima, si era sfogata nel celebre documentario uscito nel 2021:  "Non ho mai dato la colpa a Dio per quello che è successo quel giorno. Michael mi manca ogni singolo giorno, manca a tutti. È ancora qui, è diverso, ma ci dona tutta la sua forza".

Dal “Corriere della Sera” il 27 gennaio 2023.

Sono passati quasi dieci anni dall’incidente sugli sci a Meribel e Michael Schumacher continua a lottare, circondato dall’affetto dei famigliari e protetto dagli sguardi del mondo.

 Eppure in diversi hanno provato a speculare sulle condizioni del sette volte campione del mondo di F1, fra questi ci sarebbe anche un amico di famiglia — secondo quanto riportato da The Sun — che nel 2016, dopo aver fatto visita alla villa di Gland sul lago di Ginevra, avrebbe scattato alcune foto di Michael a letto per poi provare a venderle ad alcuni giornali in Europa per una cifra vicina al milione di euro.

Tutte le offerte sarebbero state respinte, ad accertare la vicenda è stata un un’inchiesta dei giudici di Offenburg, in Germania, senza dare le generalità né indicazioni sull’autore delle immagini. L’indagine sarebbe poi stata «silenziata» su richiesta della famiglia per evitare altro clamore mediatico.

Riccardo Patrese.

Riccardo Patrese: «Dopo tanta Formula Uno vivo tra trenini e cavalli. Con Briatore mi lasciai male». Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera il 14 Gennaio 2023.

L’ex pilota italiano confida: «Dopo la morte di Ayrton Senna, Frank Williams mi offrì il suo posto e io accettai. Ma per una settimana non ci dormii sopra perché avevo 40 anni e mi pareva di sfidare il destino»

Riccardo Patrese , cominciamo dai trenini? «Volentieri, mi riportano alla gioventù e a Badia Polesine, luogo d’origine della famiglia, che da inizio Novecento aveva lì un’attività commerciale». Apriti sesamo! Eccoci nel sancta sanctorum, l’appartamento di Padova nel quale l’unico italiano che, dal 1990 a oggi, si è avvicinato al titolo iridato della F1 custodisce una collezione smisurata, griffata Märklin, assieme alle automobiline appartenute al fratello Alberto — mancato nel 2003 — e a memorabilia della carriera di pilota.

Badia Polesine fu galeotta...

«Andavo in vacanza dalla zia. Mio fratello, maggiore di 13 anni, aveva i suoi Märklin. Mentre era all’Accademia Militare, li potevo usare. Poi la famiglia s’è trasferita definitivamente a Padova: i trenini ci hanno seguito. Amo collezionare, cominciai la “caccia” a locomotive e locomotori: c’era chi andava per me alle aste».

A Padova lei si iscrisse a Scienze Politiche.

«Mia madre, docente di lettere, insisteva per la laurea. Ma la F1 ha tagliato la testa al toro: studi accantonati. Dispiaciuto di non essermi laureato? Un po’ sì».

Ha provato anche lo sci agonistico.

«E pure il nuoto. Mamma mi portò alla Rari Nantes Patavium: trovavo Novella Calligaris e Amedeo Chimisso, uno dei caduti nello schianto aereo di Brema. Ma nuotare era faticoso e a 11 anni ero già sui kart: così lasciai le piscine».

Non ha sognato i Giochi olimpici?

«Mai. La passione di papà e di mio fratello mi ha dirottato sui motori. Alberto importò un go-kart dagli Usa e me lo fece provare. Andavo forte, ma c’era un limite: niente corse fino ai 12 anni».

I motori uno li ha nel sangue?

«Nel mio caso sono entrati, ma se guardo a mio figlio Lorenzo dico che possono già essere nel sangue: l’avevamo avviato all’equitazione ed era pure bravo. Però aveva cominciato anche con i kart e ha scelto i motori. Aggiungo un “purtroppo”: per lui avevo altre idee».

Perché la F1 la bollava come antipatico?

«L’ha fatto fino al 1985, sull’onda dell’incidente del ‘78 a Monza che sarebbe costato la vita a Ronnie Peterson. Pur non avendo colpe, non fu facile per un ragazzo di 24 anni superare la bufera: ero stato sospeso per la gara di Watkins Glen e l’immagine era a rotoli. Mi chiusi a riccio».

Due grandi figure nella sua carriera: Bernie Ecclestone e Frank Williams.

«Bernie mi è sempre stato vicino. Rinunciai alla sua Brabham perché avevo una lettera di Enzo Ferrari per finire a Maranello: l’occasione la sfruttò Nelson Piquet che nel 1981 fu campione. Se ci penso...»

Nel 1981 Ferrari le preferì Pironi.

«Più che il Drake credo sia stato il direttivo. Ecclestone allora mi accolse e nel 1982 a Montecarlo vinsi il primo Gp».

Anziché rimanere, passò all’Alfa.

«Due anni terribili. Nel 1985 ero quasi fuori dalla F1, ma Bernie mi riprese alla Brabham. Nel 1987 stava vendendo il team — cosa che nessuno sapeva — e mi suggerì alla Williams».

Ecco il secondo punto fermo.

«Ma anche qui c’è di mezzo un titolo iridato mancato. Per il 1978 io e Alan Jones eravamo in lizza sia per la Arrows sia per la Williams. Frank era agli esordi, io e Jones prendevamo tempo. Alla fine la Arrows scelse me, così Alan firmò per Williams e nel 1980 vinse il Mondiale: sono le sliding doors della vita».

Lei è stato anche alla Benetton con Flavio Briatore.

«Nel 1993 ci siamo lasciati male, Briatore non è stato corretto. Lui e Alessandro Benetton mi avevano voluto a tutti i costi. La macchina non era all’altezza, ma Flavio dichiarò: “Se Patrese si fa battere da Michael Schumacher, è meglio che vada in pensione. Di ragazzini così ne trovo dieci”. Fu un clamoroso errore di valutazione pure verso di me: l’anno dopo al mio posto usò Lehto, che si schiantò subito, poi Verstappen senior che faceva i looping, infine Herbert. In tre non ottennero i punti conquistati da me nella stagione precedente».

Ci racconta dell’incrocio con Enzo Ferrari?

«Volle parlarmi dopo il Gp del Sudafrica del 1978. Il suo ufficio era cupo, ero intimorito. Ma fu gentile e mi fece firmare una lettera d’intenti: “Se cambio Villeneuve, prendo lei”. Non se ne fece nulla, però pretese di pagarmi la penale».

Perché fu il capro espiatorio dell’incidente di Monza?

«Perché volevano proteggere James Hunt, responsabile della carambola. Erano coalizzati in 5, con Hunt in testa. Gli altri erano Jody Scheckter, che mi confessò di essere stato persuaso a dire certe cose; Emerson Fittipaldi, convinto che fossi “selvaggio”; Mario Andretti perché aveva perso il compagno di squadra alla Lotus; Niki Lauda, che difendeva i piloti del giro Philip Morris e che era amico di Hunt, come avrei imparato anni e anni dopo grazie al film “Rush”. Fui processato in un motorhome: Hunt non disse una parola: aveva la coda di paglia».

In tribunale testimoniò contro anche Arturo Merzario.

«Una cosa che mi ferì: non c’è mai stato un chiarimento, resto deluso da lui. In quel processo tanti spararono caz..e».

Fu assolto: provò più rabbia o sollievo?

«Più sollievo. Era stata chiesta la galera, dopo 12 ore di processo. Quando il giudice disse “l’imputato si alzi”, be’, il mio stress era palpabile».

Con Hunt come finì?

«Con un “vaffa”. A fine carriera fece il commentatore per la Bbc e non mancava di infangarmi. Un giorno ci incrociammo da Ecclestone: Bernie gli disse che era tempo che mi chiedesse scusa. Ribattè che non doveva farlo, io gli sparai un “fuck off” definitivo».

In auto ha mai avuto paura della morte?

«L’ho avvertita solo con la disgrazia di Senna, che capitò 6 mesi dopo che ero fuori dal giro».

Ma meditava di tornare in F1...

«Proprio a Imola, in quel maledetto week end del 1994, mi misi a disposizione della Williams per i collaudi: l’auto aveva bisogno di sviluppi. L’idea era di fare coppia con Senna l’anno dopo. Ayrton fu l’ultima persona che salutai nel lasciare l’autodromo: “Ci vediamo al prossimo test”. Poi successe quello che sappiamo».

A quel punto serviva un titolare.

«Williams mi offri il posto, io accettai. Ma per una settimana non ci dormii sopra: avevo 40 anni, mi pareva di sfidare il destino».

Patrese rimane l’italiano più vicino al titolo della F1 dal 1990 a oggi.

«Un secondo posto e due terzi nel Mondiale, il massimo possibile. La McLaren dominava con Senna e Prost: arrivare terzi equivaleva a essere i primi degli altri. Nel 1992 alla Williams, invece, non sarei potuto arrivare altro che secondo: non avevo fatto dei conti che mi furono chiariti a Magny Cours».

Prego, racconti.

«La nostra auto dava 2’’ a tutti, ma si adattava di più a Mansell: Nigel avrebbe vinto comunque. Però avevo cominciato a capire la monoposto e in Francia ero in testa. Ci fu lo stop per la pioggia, in attesa di ripartire Patrick Head mi disse: “Riccardo, forse non hai capito che abbiamo già deciso, da tempo, che il titolo lo deve vincere Nigel”. Rimasi di sale. “Scusa, Patrick, puoi ripetere?” Silenzio totale. Anche al secondo via andai al comando, ma dopo un giro segnalai in modo plateale di far passare Mansell. Fu l’unico atto polemico».

Quanto le manca il titolo della F1?

«Parecchio. Ripenso alla chimera Ferrari, a Piquet sulla Brabham che avrebbe potuto essere mia, al mio errore nel 1983 a Imola alle Acque Minerali... Di occasioni ne ho avute, ma non ho rimpianti: le cose sono andate così, però nelle giornate migliori potevo battere chiunque».

È stato più forte il Patrese della F1 o quello dell’endurance?

«Il secondo è stato più concreto: 8 vittorie in 41 gare. Ma l’altro è stato sfortunato, a suon di ritiri: ho fatto 3.000 km in testa, ma ho vinto solo 6 Gp; e 19 volte sono arrivato secondo».

Come giudica i piloti di oggi?

«Ce ne sono di “bravetti”, ma li vedo molto “insegnati”: fanno il compito e stop, ai miei tempi si imparava con il fiuto. Hamilton o Verstappen? In questo momento Max ha “self confidence” e il vento in poppa. È forte, cattivo e pure stronzo, cosa che non guasta. Lewis? Adesso è più simpatico perché ha smesso di dominare. E un Mondiale, nel 2021, gliel’hanno scippato».

La Ferrari è ripiombata nel caos: tocca a Frédéric Vasseur, nuovo team principal, toglierla dai pasticci.

«Negli ultimi tempi mi è parso che mancasse un capo che prendesse le decisioni. E poi c’è stato il “granchio” di voler smentire l’addio a Mattia Binotto quando invece era già tutto deciso».

Cinque figli da due matrimoni.

«Simone è quello che mi ha visto di meno: è del 1977, è nato nel week end del mio debutto in F1. Si è laureato alla Bocconi, lavora per Jp Morgan. Poi sono venute le due gemelle, classe 1985: Maddalena, che vive negli Usa, e Beatrice, campionessa con i cavalli e oggi istruttrice».

Da Francesca, la seconda moglie, ha invece avuto Lorenzo ed Elena.

«Lorenzo a 16 anni ha corso la 24 ore di Spa-Francorchamps, diventando il più giovane concorrente nella storia della gara. Invece Elena, 8 anni, sta cominciando con lo sci e con i pony: lo sport è il filo che unisce la famiglia».

La passione per il cavallo come nasce?

«Le figlie maggiori mi hanno fatto passare dai cavalli motore ai cavalli veri. Di questo animale ammiro la potenza e tramite un maestro d’equitazione, Andrea Olmi, figlio del grande regista, ho conosciuto la sua etologia. Il cavallo parte dal presupposto di sentirsi una preda: quindi sta sulla difensiva. Ma se mandi i giusti messaggi, dà soddisfazioni uniche».

Il tempo che avanza la spaventa?

«Non mi reputo vecchio, anche se ho già dei nipoti. L’avere una figlia di 8 anni mi fa sentire bello giovane, più papà che nonno».

Graham Hill.

La nebbia, gli alberi, l'errore umano: il volo che uccise il campione di F1. Storia di Davide Bartoccini su Il Giornale il 23 dicembre 2022.

Leggendario pilota di Formula 1, Graham Hill, padre dell’altrettanto talentuoso Damon Hill, morì il 29 novembre del 1975 in un tragico incidete aero, le cui cause vennero ipotizzate ma mai del tutto chiarite.

Unico pilota da corsa ad aver vito la aver vinto la cosiddetta Triple Crown - ossia il Gran Premio di Monaco, la 500 miglia di Indianapolis e la 24 Ore di Le Mans - Graham Hill aveva 46 anni quand'era al comando del Piper Aztec, aereo leggero bimotore a elica che stava pilotando per tornare a Londra da Le Castellet. Località francese dove si era recato insieme alla squadra corse Embassy Hill, per portare a termine una sessione di test della nuova macchina da corsa Hill Gh2, presso famoso circuito francese intitolato a Paul Ricard.

L'impareggiabile campione, vincitore del campionato del mondo per la categoria Formula Uno nel ’62 e nel ’68, si era ritirato dalla corse professionistiche da appena quattro mesi. Dedicandosi alla parte "tecnica" e preparatoria.

Noto per la sua personalità enigmatica - particolarità che non l'aveva mai allontanato da una condotta encomiabile in pista, e dal fair play che accompagnò la sua intera carriera - perse la vita schiantandosi contro gli alberi adiacenti un campo da golf dell’Hertfordshire un sabato notte, mentre tentava di portare a terra il piccolo Piper su cui aveva sfidato - nonostante i suggerimenti - le condizioni meteorologiche assai avverse di quel penultimo giorno di novembre.

Insieme a lui quella notte persero la vita altri cinque uomini: il manager della squadra Ray Brimble, i meccanici Alcock e Richards, il progettista Smallman e il suo pupillo, il ventitreenne e promettente pilota da corsa Tony Brise.

Destinazione Londra

Decollati una prima volta dall’aerodromo di Le Castellet alle 15.30 (secondo il Greenwich Mean Time diventato Tempo coordinato universale appena tre anni prima, 1 gennaio del 1972, ndr), atterrarono all'aeroporto di Marsiglia-Marignane, dove Hill ritirò i bollettini meteorologici per il tracciato fino alla destinazione finale: Londra.

Il piano di volo presentato e accordato avrebbe condotto il Piper PA-23-250D "Aztect", codificato come N6645Y, alla pista del piccolo aerodromo di Elstree, segnalando quello di Luton come destinazione alternativa. Il decollo da Marsiglia avvenne senza la menzione di problemi alle 17.47. Mentre il traffico aereo di Londra prese contatto con l’Aztec di Hill alle 20.45.

La “Visibilità è di 2.000 metri e si riscontra una base nuvolosa di 300 piedi”. Il Piper proseguiva sulla sua rotta e alle 21.19 l’Aztec passò sotto il controllo dell’odierno e principale scalo londinese di Heathrow, che ne controllò la prima fase di approccio. La visibilità a Elstree sembrava essere scesa a soli 1.000 metri. Il Piper di Hill fu avvisato via radio, ma proseguì sulla sua rotta senza ripensamenti.

Scese di 1.200 metri mentre alla radio la torre di controllo ribadiva come la visibilità fosse scarsa, ridotta a 800 metri. L’Ok alla discesa venne comunque ricevuto. Ai comandi Hill potè approcciare la piccola pista di cemento contornata dal prato che tanti aviatori della domenica hanno toccato e ritoccato. La pista numero 27 di Elstree. Ormai l’Azteca volava a soli 460 metri dal suolo in attesa di individuarla. Da quel momento, ogni decisione successiva fu a discrezione del pilota, e venne comunicata via radio. Ma non ci fu nessuna comunicazione.

Appena sette minuti più tardi il controllo aereo che desiderava prendere contatto con il velivolo in fase di avvicinamento non ricevette risposta. Anche il contatto radar venne perduto. Il Piper Aztec pilotato da Hill, chiamato e richiamato con il codice “N6645Y”, aveva urtato un albero mentre il carrello era già stato abbassato e i flap estesi. Pronto ad approcciare una pista che forse a bordo avevano intravisto. Una pista che non venne trovata.

Mentre sorvolava il vicino campo da golf di Arkley, Hill scese ulteriormente, trovando ancora una volta le punte dei grossi alberi che lo costrinsero a scartare sulla destra mentre era appena a una dozzina di metri da suolo. La punta dell'ala toccò, il controllo venne perduto e l’Aztec finì per schiantarsi velocemente in un boschetto. L’impatto culminò in un incendio che lasciò poco e niente dell’aereo, di Graham Hill e dei 5 sfortunati passeggeri.

Si trattò di un "tragico" errore umano?

Secondo i resoconti dell'epoca la pista di Elstree era dotata delle luci e degli indicatori visivi per il suo corretto avvistamento, ma mancava di "qualsiasi tipo di ausilio radio" ed era sprovvista di una procedura standard di avvicinamento strumentale, rendendosi completamente inadatta per atterraggi in caso di bassa visibilità. Quello stesso giorno di novembre, un altro aereo privato aveva tentato ben tre approcci alla pista prima di arrendersi e deviare su un'altro aerodromo.

Alcuni testimoni confermarono che quel giorno di fine novembre le condizioni meteorologiche erano proibitive per un atterraggio a vista. La nebbia era fitta, e la visibilità a terra poteva essere considerata tea i "50 e i 100 metri". Per quanto concerne l'aereo pilotato da Graham Hill, i dati messi a disposizione degli addetti alle indagini non mostrarono alcuna anomalia o difetto meccanico. Il Piper Aztec - menzionato come un velivolo "ben tenuto" - aveva volato 1.131 ore, e benché non registrato di recente, non aveva mostrato alcuna criticità.

Era semmai l'abilitazione al volo notturno e al volo strumentale di Hill a essere scaduta di recente e non essere considerata "più valida", almeno nel Regno Unito. Ma né questo, né la una mai manifestata "stanchezza del pilota" vennero considerati come fattori da collegare all'incidente. Gli esami tossicologici post mortem confermarono inoltre che nessuna delle vittime aveva assunto alcun tipo di sostanza proibita: risultarono tutti negativi.

Per tali ragioni, e per la completa assenza di richieste d'aiuto, messaggi d'emergenza o may-day, fu impossibile determinare le reali cause dell'incidente. Gli investigatori conclusero che poteva essersi trattato di un semplice quanto tragico errore umano. L'esperto pilota di Formula 1 poteva aver interpretato male la sua altitudine mentre era in volo, leggendo male l'altimetro.

Questo potrebbe essersi verificato proprio nel momento in cui Hill si concentrava a stabilire un "contatto visivo" e non strumentale con il suolo ricoperto della fitta nebbia riportata dai testimoni a terra. Questo, o altri errori di calcolo e stima di altitudine, spazio e distanza, potrebbero essere alla base della tragedia, riconducendo tutto all'errore umano del pilota. Che si suppone abbia "scambiato le luci di Barnet" - riportate come visibili attraverso la nebbia - "per quelle di Borehamwood; e l'adiacente campo da golf di Arkley per la macchia scura accanto all'aerodromo". Inducendolo a una discesa anticipata e alla conseguente perdita dell'orientamento fatale a una quota così bassa.

Secondo gli storici appassionati di automobilismo, la tragica morte di Graham Hill, e non meno quella del suo pupillo, il giovane Tony Brise, incise pesantemente sul futuro della Formula 1. Il figlio Damon, allora quindicenne, seguì tutta via le orme del padre, diventando pilota automobilistico e debuttando in Formula 1 nel 1992, proprio al Gran Premio di Gran Bretagna. Vinse il campionato del mondo, come suo padre, nel 1996. Sicuramente quel giorno, un vecchio campione che portava i baffi alla Clarke Gable, al di sopra delle nuvole, sorrideva.

Il Giro d’Italia.

Sonny Colbrelli.

Sante Gaiardoni.

Tadej Pogacar.

Miguel Indurain.

Mario Cipollini.

Filippo Ganna.

Davide Rebellin.

Gino Mader.

Dario Acquaroli.

Fausto Coppi.

Francesco Moser.

Giuseppe Saronni.

Claudio Chiappucci.

Lieuwe Westra.

Learco Guerra.

Il Giro D’Italia.

Il Giro d'Italia pagò Alfredo Binda per non correre. Nel 1930 gli organizzatori della corsa rosa, esasperati dal dominio del ciclista e intimoriti dagli abbandoni dei rivali, aprirono il portafoglio: ventiduemila e cinquecento lire per non presentarsi. Paolo Lazzari il 6 Agosto 2023 su Il Giornale.

Si scambiano lunghi sguardi interlocutori, senza riuscire ad estrarne una risposta. E adesso come fanno? Come ne escono? Sospirano fitto, mentre l'aria spessa della stanza appanna i pensieri. Emilio Colombo apre la finestra e scaccia un insetto con una copia de La Gazzetta dello Sport. Poi torna verso la sua poltrona e, sedendo, viene colto da un'epifania. "Armando, ci sono. L'unica è non farlo correre". Quell'altro, che poi sarebbe Armando Cougnet, dapprima lo prende per pazzo. Allontana quella proposta con il palmo della mano divaricato. Poi si lascia circuire dal dubbio. "Anche se fosse, come potremmo?". Inizia così una delle vicende più surreali del ciclismo nostrano. Inizia così il sabotaggio consensuale di Alfredo Binda al Giro d'Italia del 1930.

I fatti. Binda, che ha ventotto anni, ha vinto fino a lì per quattro volte. Nel Venticinque, nel Ventisette, nel Ventotto e nel Ventinove. E non è che abbia conseguito successi stiracchiati. Ha divorato il Giro. Cannibalizzato gli avversari. Demoralizzato gli allibratori. Sconfortato giornalisti e pubblico accorsi per intravedere una qualche forma di contesa. Insomma, se corre Binda non c'è partita. Un sentimento che si è fatto talmente forte, negli ultimi tempi, da cambiare stato fisico. Prima sembrava una vaporosa boutade e nulla più. Adesso pare terribilmente tangibile. Prima la voce di un pugno di corridori che avrebbe deciso di rinunciare all'edizione del Trenta. Poi quella rimbalzata negli ambienti di alcune tra le squadre principali. Chiaro che il direttore della Gazzetta, che il Giro lo organizza, adesso esprima un legittimo timore. Potrebbero non iscriversi i corridori. Potrebbe mancare addirittura una fetta di pubblico.

Magari quegli stessi che, non più tardi di un anno fa, hanno fischiato sonoramente il trombettiere di Cittiglio. Stanchi di vederlo vincere. Esausti nel dover constatare che tanto, anno dopo anno, il Giro resta roba strettamente sua. Così manca il sapore agrodolce della sfida. Così le emozioni crepitanti si spengono sul nascere, crivellate dalla pedalata irrestibile di Binda. Così non ha quasi più senso. Alfredo si stringe nelle spalle, i capelli impomatati, quella perenne faccia da buono. Non appartiene certo al girone infernale dei supponenti. Ma ha il difetto di essere di un'altra categoria e questo è sufficiente per essere odiati.

Quindi urge sbrogliare la matassa. Per farlo, Colombo e Cougnet tessono l'unica delle trame davvero plausibili: montano in macchina e vanno ad offrire soldi - un mucchio di soldi - alla Legnano, il team di Binda, quello che costruisce le biciclette. Sulla porta, già informato, li attende il commendatore Bozzi, il padrone della fabbrica. Parlano fitto per un paio di ore, fintano, bluffano, poi si trovano d'accordo. La mano si stringe intorno alla cifra monstre di ventiduemila e cinquecento delle vecchie lire per il campionissimo, oltre ad un cospicuo indennizzo per il disturbo arrecato alla Legnano. Team e corridore strappano però la possibilità di correre a chiamata nei principali velodromi, per prepararsi alle sfide successive. Non è una conquista banale, perché gli organizzatori del Giro non vorrebbero mai distogliere l'attenzione dalla corsa. Ma alla fine cedono, ben consapevoli che il risultato acquisito ben valga una concessione di corredo.

Così tutti d'accordo. Binda, pur malvolentieri, incassa una somma monumentale. Roba da comprarcisi una villa cash. E quella cifra la rimpolpa ulteriormente fluttuando nei circuiti, in preparazione del tour de France. Il Giro, quell'anno, lo vince un ragazzino all'esordio. Ha appena ventuno anni e si chiama Luigi Marchisio. Sarà il più giovane ad esserci riuscito, almeno fino a Coppi. L'altro fatto surreale del ciclismo nel 1930, dopo l'assurdo piano per stoppare Alfredo Binda.

Moser, Fignon e il Giro d'Italia delle polemiche. Nel 1984 si disputò una 67esima edizione sconsigliata ai cardiopatici: l'italiano e il transalpino duellarono fino all'ultima tappa, ma Francesco fu accusato di favoritismi. Paolo Lazzari il 24 Luglio 2023 su Il Giornale.

Scalano le marce superandosi a vicenda una quantità indecifrabile di volte. Lo sceriffo preme. Il professore risponde. Alle porte dell'estate 1984 - dentro al 67esimo Giro d'Italia - quella tra Francesco Moser e Laurent Fignon sembra tanto una questione personale. Del resto, se l'ottanta per cento del genere umano è composto d'acqua, loro no. In quelle vene sgorga ciclismo allo stato liquido. E ciascuno dei due coltiva la sana pretesa di essere migliore dell'altro.

Ci crede l'italiano, che nella crono di Lucca si è portato avanti di qualche spanna. Replica il francese, che lo riprende subito nella cronosquadre. Torna avanti Moser alla sesta tappa. Resiste il divulgatore di sapienza su due ruote che gli contende il titolo. Poi una svolta crepa l'impasse. Gli organizzatori cambiano idea in corsa, decidendo che non si passerà più dallo Stelvio. Troppa neve. Protesta vigorosamente Fignon contro la direzione della corsa, convinto che questa decisione sia stata costruita ad arte per avvantaggiare il suo avversario, che ha una caterva di pregi, ma certo in salita pare appannato.

Francesco fa spallucce, invitando a pensare alla gara. E pare decisamente lanciato verso la conquista del Giro, poiché a quattro tappe dalla conclusione ha piazzato i raggi davanti. Ma Fignon è un tipo ostinato. Per lui il ciclismo è un'equazione che deve produrre sempre un risultato esatto: la sua vittoria. La variabile che assesta è l'attacco sferrato sulle Dolomiti, nel corso della terz'ultima tappa. Di nuovo maglia rosa. Di volontà e potenza. Un piccolo percentile in più verso una possibile sofferta esultanza. Però Moser non è il genere di atleta che si lascia turbare nel profondo. Questa pur prevasiva rentrée non lo sconvolge. Incassa, medita e organizza un nuovo, decisivo affondo.

Scocca il 10 giugno 1984. Ultima tappa del Giro d'Italia. Qui hanno fine gli strapazzi muscolari. Qui termina la tenzone tra questi onnivori signori feudali della bici. La sfida definitiva è una crono di 42 km che sfocia dentro l'Arena di Verona. La situazione, cristallizzata alla partenza, racconta di un Fignon in testa e Moser secondo a 1'21''. L'italiano opta per una bici con ruote lenticolari. Ammicca molto a quella con cui ha stabilito, lo stesso anno, il record dell'ora a Città del Messico. Sul tragitto Francesco pare un missile terra - aria. Vibra verso il traguardo toccando una media di quasi 51 km all'ora. Il che significa infliggere 2 secondi e 24'' al francese. Vuol dire strappargli di nuovo la maglia rosa. Equivale a vincere il Giro.

Laurent non deglutisce affatto la sconfitta e accampa un'altra polemica, stavolta apparentemente sbilenca. Sostiene che Moser sia stato avvantaggiato dalla spinta dell'aria generata dalle pale dell'elicottero che lo seguiva a bassa quota, alle sue spalle. Accuse che non sminuiscono l'impresa di Moser, finalmente trionfatore al giro dopo 11 dalla sua prima apparizione. Anzi, quell'interminabile duello tra fuoriclasse inscrive il Giro '84 nella casella dei più intensi di sempre.

Come si fa a chiamarlo Giro d’Italia se ignora quasi tutto il Mezzogiorno? PIETRO MASSIMO BUSETTA su Il Quotidiano del Sud il 9 Maggio 2023.

Se l’alta velocità ferroviaria si ferma a Salerno e l’autostrada del Sole a Napoli perché stranirsi se il Giro ignora il Mezzogiorno?

Sarebbe pensabile un giro d’Italia che partisse da Bologna e si fermasse a Palermo? Sarebbe immaginabile che la Gazzetta dello Sport si presentasse dagli sponsor istituzionali, come Enel e Ferrovie dello stato per esempio, con un progetto di giro che lasciasse tutto il Nord assente dalla più grande competizione sportiva ciclistica italiana?

E perché invece nessuno si stupisce se il Giro lascia lo stivale fuori dalla competizione? Se poco meno di un terzo della popolazione viene privata e non viene toccata dalla gara?

D’altra parte se l’alta velocità ferroviaria si ferma a Salerno, se l’autostrada del Sole si è fermata a Napoli perché stranirsi se il Giro mette in vetrina solo una parte dell’Italia, quella che conta secondo alcuni. Eppure è proprio la parte che più ha bisogno di mostrarsi che rimane fuori. Quella che é meno conosciuta dal mondo, quella Calabria che per anni e stata la nostra Amazzonia, abbandonata ai nativi, meglio nella quale “gli indigeni” sono stati, lasciati in mano della criminalità organizzata, dove la sanità è stata commissariata, lasciata nelle mani di manager improbabili, di politici trombati provenienti dalle regioni “brave”.

E d’altra parte qualcuno potrebbe anche sostenere che l’Italia è talmente lunga che può anche essere naturale che in qualche anno si possa farlo passare solo da una parte e che può anche essere opportuno, per motivi organizzativi, che ci si possa concentrare solo in una area del Paese. Tutto logico e comprensibile. Se fosse un fatto che alternativamente riguardasse tutti. Il fatto è che invece vi é una parte che viene sempre compresa ed una che viene lasciata qualche volta fuori. Occasione opportuna per riflettere sull’approccio del Paese con il suo Sud, ritenuto frontiera, spesso sconosciuto e guardato come territorio “d’oltremare”.

Lo stesso atteggiamento che si é avuto per i grandi eventi, che non lo toccano quasi mai, per le agenzie internazionali che non vi vengono localizzate, parte utile per posizionare le raffinirei e l’industria pesante, dal quale attingere capitale umano nei momenti di espansione, e da utilizzare come mercato di consumo interno non solo per i beni ma anche per i servizi, da quelli sanitari a quelli scolastici, se é vero che si mortifica la sanità locale per alimentare i viaggi della speranza o si potenziano le università, compresa quella Cattolica, per attrarre i giovani meridionali, che sostenuti nei costi dalla società di provenienza serviranno ad alimentare il mercato del lavoro della parte ricca, in una operazione di sottrazione di un patrimonio finanziario e di capitale umano che ormai dura da decenni e che ha portato all’ impoverimento non solo di alcune aree ma, in una visione bulimica di una parte, di tutto il Paese.

E il Giro é una visione plastica di un vecchio modello che andrebbe superato ma che invece torna prepotentemente perché é insito in una visione provinciale della parte che conta. E nessuno si straccia le vesti o si rifiuta di sponsorizzare una manifestazione chiamata d’Italia ma che dovrebbe piuttosto essere individuata come il Giro di mezz’Italia o che lascia fuori la colonia. Tale scelta sarebbe assolutamente da non commentare se non fosse un indicatore di un approccio, che riguarda tutta la società italiana che conta, tutte le imprese più importanti partecipate, che hanno guardato a questa parte come residuale, per cui le Ferrovie non vi hanno investito, l’Anas non ha fatto le manutenzioni richieste, la Rai pubblica l’ha guardato per le cronache criminali, tanto la classe politica locale chiedeva altro alla politica ed alla grande impresa: il posto di lavoro per l’amico, mancette per i propri clientes, mai un Ministero delle infrastrutture ma piuttosto quello delle Poste.

Il Giro é l’occasione di una riflessione necessaria per chi ha in mano il volante della guida del nostro Paese, che non sono certamente i rappresentanti eletti del Mezzogiorno, che se non si muovono secondo le logiche e gli interessi prevalenti rischiano la loro stessa esistenza. Come si è visto in Conferenza delle Regioni, nella votazione riguardante l’autonomia differenziata, che ha visto votare a favore i governatori meridionali della maggioranza, per disciplina di partito, tranne poi qualche giorno dopo andare ad Arcore a lamentarsi con il loro capo di una normativa che sottrarrebbe ulteriori risorse. Anche quelli che rappresentano regioni importanti come Occhiuto o Schifani.

Bisogna cambiare cappello e finalmente fare quello che a parole si é sempre dichiarato cioè affermare e partire in ogni decisone dalla centralità del Mezzogiorno, perché tale cambio di paradigma é l’unico che può riportare il Paese ad essere competitivo rispetto ai partner importanti del continente. Convincersi che i fattori che vanno sfruttati per far ripartire il Paese si trovano tutti nel Mezzogiorno, a cominciare da una posizione logistica nel Mediterraneo importante rimasta totalmente non utilizzata. Capire che il nostro Western, verso il quale bisogna muovere risorse e impegno, quello che ha tutti i fattori produttivi inutilizzati, da quelli ambientali a quelli umani a quegli logistici, la nuova frontiera, é pronto a rappresentare il futuro di questo nostro Paese.

La parte che può crescere a tassi da tigre d’Oriente, che può rappresentare la soluzione alla eccessiva antropizzaione di un Nord ormai saturo. Sembrerebbe cosi facile da capire per una società pensante eppure le resistenze continuano ad essere enormi, anche se alcune posizioni recenti, come quella di tutta la destra, ma in particolare della Lega, sul ponte sullo stretto e sulle altre infrastrutture al Sud, mostrerebbero un cambio di passo molto interessante, che fa ben sperare. Vedremo nei prossimi mesi se é strumentale o sincero, mentre la sinistra sembra non capire l’esigenza di un cambiamento che, se non avviene, rischia di far crollare il sistema Paese, sotto le proprie contraddizioni, che possono essere rappresentate da una parte dove lavora una persona su due ed un’altra dove invece ne lavora una su quattro, compresi i sommersi. Riuscire a capire che bisogna dare al Sud una prospettiva di sviluppo concreta, senza chiudersi dietro slogan ed ideologie, è un passaggio che ancora la sinistra non riesce a fare. Eppure i segnali forti che sono venuti dal Sud, compreso il successo dei Cinque Stelle, dovrebbe aver dato segnali importanti, che sembrano non essere stati colti, se le posizioni rimangono vecchie e stantie.

Sonny Colbrelli.

Intervista a Sonny Colbrelli. Estratto dell'articolo di Pier Augusto Stagi per "Il Giornale" giovedì 7 dicembre 2023.  

Il 21 marzo del 2022 il suo cuore si è fermato e lì, in quel preciso momento, si è interrotta definitivamente la sua carriera di corridore professionista: come si sente oggi? «Con il cuore nel fango». Sonny, è il titolo della sua biografia... «Oggi è soprattutto il mio stato d’animo. Sto attraversando un momento davvero molto difficile». Dovrebbe averlo alle spalle: arresto cardiaco nella prima tappa del Giro della Catalogna, la luce che improvvisamente si spegne.

«Non è stato facile dover abbandonare tutto all’apice della carriera, a soli 31 anni, dopo aver toccato il cielo con un dito. Dopo aver vinto titolo italiano, europeo e poi quella Roubaix che era la corsa dei miei sogni. Non è facile dire basta. Chiaro, sono vivo, sono qui, ma non le nascondo che in più di un’occasione ho pensato che forse sarebbe stato meglio non risvegliarsi. Grazie a Dio ho avuto vicino persone che mi vogliono bene: i miei figli, la mia famiglia. Chiaro, mi sono anche dovuto far aiutare da Paola Pagani, la mia psicologa, che tutt’ora mi segue. Nel frattempo ho visto il baratro e i fantasmi e in quel periodo ho fatto qualche sciocchezza, che mi sta costando carissimo e che mi hanno portato lontano da Adelina, la mia compagna...».

Lontano quanto?

«Troppo». 

E i suoi bimbi?

 «Tomaso (7 anni) e Vittoria (5) sono spessissimo con me: loro sono davvero la mia gioia, la mia energia, il mio primo pensiero del mattino, ma spesso sono da solo e non è facile. Ho rotto qualcosa di prezioso e di unico che andava rispettato e protetto».

Non c’è modo di riparare?

«Temo di no». 

[…] 

Cosa fa oggi?

«Lavoro per il Team Bahrain e poi sono testimonial di alcuni brand: da Merida a Rudy Project, da Alé a Sidi, per arrivare a Valsir e Mille Miglia».

[…]

Ha provato anche a scendere in politica con Forza Italia.

«Alle Regionali non ce l’ho fatta, ma sono sempre a disposizione. Nel frattempo mi sto adoperando per migliorare la sicurezza dei ciclisti sulle strade e vorrei fare qualcosa con i ragazzi e per i ragazzi. Vorrei insegnare loro non solo ad andare in bicicletta, ma anche ad essere utili alla collettività. Mi piacerebbe introdurre nelle scuole di ciclismo lezioni di pronto intervento, magari insegnando loro a utilizzare anche un defibrillatore: io sono stato salvato così»[…] 

Sante Gaiardoni.

Da gazzetta.it giovedì 30 novembre 2023.

Si è spento nella notte Sante Gaiardoni, che fu l'unico italiano a vincere due medaglie d'oro, nel chilometro da fermo e nella velocità, all'Olimpiade di Roma 1960. Aveva 84 anni ed era nato a  Villafranca di Verona il 29 giugno 1939. Aveva iniziato la sua carriera nel tandem, specialità nella quale conquistò il titolo italiano nel 1957 e nel 1958. Dopo il successo olimpico era poi passato al professionismo, dando vita a una lunga rivalità con il fuoriclasse Antonio Maspes. Gaiardoni si era poi ritirato nel 1971.

Tadej Pogacar.

Triplete (su 2 ruote) del piccolo Merckx. Lo sloveno trionfa al Lombardia per la terza volta consecutiva. Meglio di lui solo Coppi. Pier Augusto Stagi l'8 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Il piccolo Merckx guarda Coppi. Il piccolo Merckx è Tadej Pogacar, che ieri sul traguardo di Bergamo ha conquistato per il terzo anno consecutivo il Lombardia, la classica di chiusura del ciclismo mondiale, l'ultimo atto di una stagione che ora proseguirà fino a fine anno con corse di poco valore, atte più alla promozione del ciclismo nel mondo che altro. Terzo Lombardia consecutivo per Pogacar, come Fausto Coppi nel 1948, il solo che seppe fare anche meglio portando a cinque i suoi successi nel'54.

Ieri il 25enne di Komenda ha allungato la sua collezione di corse con una prestazione da applausi: dopo il Fiandre, Amstel e la Freccia, ecco il terzo Lombardia. Vittoria numero 63 in carriera, la 17a in stagione. «Sono felicissimo, perché questa è una delle corse più importanti del mondo e sento di avere proprio nelle mie corde», ha detto raggiante sul traguardo della città del Colleoni il piccolo prodigio sloveno. Una vittoria ottenuta con talento e strategia. Tante gambe e molto cuore, ma anche tantissima testa. Un Taddeo stratega e pronto anche all'Actors' Studio, visto le doti di recitazione messe in mostra nel finale sul Passo di Ganda.

Sfruttando il ritmo imposto dal compagno di squadra Adam Yates, si sfila nelle retrovie e si mette alle spalle di Primoz Roglic, che sembra non essere in giornata. Il 33enne sloveno fatica, perde terreno e Taddeo simula una crisi, ma quando capisce che Primoz non sta recitando decide di far saltare il banco. Il britannico Simon Yates della Uae continua a dettare l'andatura e ai -34 km dal traguardo è Roglic ad andare fuorigiri. Il vincitore dell'ultimo Giro d'Italia fatica a tenere il ritmo e Taddeo ne approfitta allungando in compagnia di Vlasov (Bora). Alle loro spalle inseguono Carapaz, Carlos Rodigruez, Roglic e Bagioli, Simon Yates.

Intanto ai -37 km dall'arrivo, c'era stato il primo colpo di scena: il belga Remco Evenepoel, che dopo soli 21 km di corsa era finito per le terre, si stacca. Con multiple escoriazioni e botte su tutto il corpo, il belga in ogni caso tiene testa e conclude nella top ten (9°, ndr). Scollinato il Passo di Ganda Pogacar riparte in discesa e questa volta fa il vuoto. L'ultimo pericolo è dato dai crampi, ma bastano degli zuccheri per sistemare ogni cosa, per toccare il cielo con un dito. Pier Augusto Stagi

Miguel Indurain.

Settembre '96, Miguel Indurain scende dai pedali: il ritiro di un eroe normale. La Vuelta di quell'anno sancisce l'addio del sovrano navarro: affaticato e ansimante si sgancia dal gruppo a 25 km dall'arrivo, per sempre

Paolo Lazzari l'8 Ottobre 2023 su Il Giornale. 

In fondo i suoi gliel'hanno sempre ripetuto: la vita è come un campo da coltivare. Devi conoscere la composizione del terreno, non sindacare il meteo anche se è perfido, capire quando è il caso di spingere e quando, invece, non serve accanirsi. Una saggezza contadina che si srotola facile in teoria, ma poi metterla in pratica è un altro discorso. Specie quando la pianta sei tu. Allora tutto si incarta. Mica lo accetti che un giorno eri ben dritto e vigoroso, mentre oggi sembri avvizzire gradualmente.

I primi sintomi di quella indecente decadenza - per un campione del suo calibro - Miguel Indurain li aveva già avvertiti tutti al Tour di quell'anno. Luglio 1996, giorno sei. La corsa si arrampica sulle pendici di Les Arcs. Forse non è il giardino di casa del sovrano feudale - uno che ha vinto le ultime cinque edizioni - ma deve comunque trattarsi della solita salita gestibile. Miguelón, come lo chiamano praticamente tutti, si issa quasi in piedi ed inizia a salire, convinto di poter estrarre da quella pedalata poderosa un nuovo scintillante piazzamento.

Nel frattempo vede partire, al suo fianco sinistro, un manipolo di fuggiaschi. Poco male, riflette interiormente, perché arrampicarsi per primo in cima alle vette non gli è mai sembrato un esercizio troppo intelligente. Alla fine conta la classifica generale e lui, con le crono, serve un puntuale gioco-partita-incontro a tutta la truppa. Devono averglielo trasmesso in quel villaggio contadino, Villava, dove è cresciuto: si può anche vincere restando normali. Non serve strafare.

Miguel è l'archetipo di questo ragionamento. Non è certo il tipico iberico che pulsa passionalità, uno di quelli capaci di sfoderare imprese luccicanti e poi anche di sprofondare nell'oblio, trascinato dall'istinto e dall'individualismo tipici del suo popolo. Piuttosto, pare un misurato diplomatico della bicicletta. Mai una sbracatura con la stampa, mai un gesto fuori posto con i colleghi. Essere un eroe sellato da una disarmante normalità significa non avere nemici. Solo estimatori. Piace alquanto, alla narrazione popolare, anche il fatto che la sua figura pesante e prolungata sia del tutto inadeguata al ciclismo, eppure trionfi lo stesso.

Quel giorno però Miguel si scambia del tu con un sentimento inedito. Bradicardico per eccellenza, sente che il cuore tambureggia perfidamente. Le gambe si fanni presto molli. La gola si secca e le pupille diventano opache. L'uomo che è solito arrivare al traguardo tirato e asciutto, per la prima volta avverte una fatica che riesce a rallentarlo. Disperato, mima con le mani il gesto di una borraccia salvifica, ma non si accosta nessuna ammiraglia. Intanto lo passano a frotte e si ritrova cacciato in fondo al gruppo. Un delitto inenarrabile.

Anche i commentatori si accorgono in fretta di quella potenziale disfatta. "Ma come? Indurain è umano?", discettano al microfono, subito appigliandosi alla notizia del giorno. Lui reclina la testa per la prima volta e ingurgita la pozione amara della sconfitta. Ma lo capisce, in fondo, che quello dev'essere più di un dimenticabile intoppo. La conquista della medaglia d'oro nella crono olimpica di Atlanta lenisce e scansa in parte quella sensazione. Ma il sovrano sa che sta per arrivare il momento di deporre la corona.

20 settembre 1996, tredicesima tappa della Vuelta di Spagna. Finora Indurain ha faticato più del dovuto, ma comunque è dentro la corsa. Solo che adesso, mentre prova a macinarsi la salita di Lagos de Covadonga, gli spettri più recenti pretendono di passare all'incasso. Una nuova crisi giunge terrificante, come tutte quelle cose che incrinano il comfort dell'abitudine. Miguel annaspa penosamente, curvo e pesante. Mentre pedala tossisce: ha preso freddo nella precedente tappa di Avila, ma anche questo è un segno del decadimento fisico che dilaga. Non aveva mai patito nemmeno un raffreddore.

L'eroe normale scivola in fondo al gruppo. La sua crisi diventa talmente profonda da sbiadire pure il giallo aureo di Atlanta e quello ricorrente dei Tour. Il momento è arrivato. Miguel ferma la bici e scende dai pedali, a 25 km dall'arrivo. Non ci risalirà più, dignitosamente consapevole dell'alternarsi delle stagioni. In fondo lo sanno anche a Villava: c'è un tempo per coltivare e uno per raccogliere.

Mario Cipollini.

Cesare Cipollini è morto il fratello di Mario: aveva 64 anni. Storia di Redazione Sport su Il Corriere della Sera giovedì 10 agosto 2023.

L'ex ciclista professionista Cesare Cipollini è morto all'età di 64 anni. Fratello maggiore di Mario e padre di tre figli (tra cui Edoardo che qualche giorno fa ha dominato il Giro del Veneto juniores), ha avuto brillanti trascorsi nel professionismo, categoria in cui rimase dal 1978 al 1990. Raggiunse un traguardo storico alle Olimpiadi del 1976 quando stabilì l'allora record del mondo nell'inseguimento a squadre con Beppe Saronni, Rino De Candido e Sandro Callari. Tra le sue vittorie individuali più importanti e significative nei pro invece spicca sicuramente il Giro dell'Emilia nel 1983. «Mio fratello Cesare se ne è andato —il ricordo di Mario Cipollini sui social, accompagnato da una foto dello stesso Cesare insieme a Beppe Saronni —. La mia mente fugge a ricercare i momenti belli. La mia è stata un'infanzia da fan nei suoi confronti. Dai viaggi per seguirlo nelle gare, ad osservarlo in ogni momento. Ho ancora i ricordi di quando preparava la sua bici o quando preparava la valigia per andare al Giro d'Italia... e lo vedevo come un super eroe. Fai buon viaggio Cesare. Riposa in pace». Nel febbraio 2019 Cesare Cipollini era stato sottoposto ad un trapianto di cuore.

«Ai familiari di Cesare, ai parenti, le espressioni del più vivo cordoglio», scrive la Federciclismo; il presidente Dagnoni, a nome di tutta la Federazione, ha voluto esprimere così la sua vicinanza alla famiglia Cipollini. Cesare, che aveva concluso la sua carriera nel 1990 con la Italbonifica, era un atleta juniores e recentemente era stato protagonista nel Giro del Veneto a tappe con la maglia della Work Service.

Filippo Ganna.

Miracolo di Top Ganna. Sesto sigillo mondiale nel folle inseguimento. Clamorosa rimonta nell'ultimo chilometro. Recuperati due secondi all'amico Bigham. Pier Augusto Stagi il 7 Agosto 2023 su Il Giornale.

Mostruoso. Pazzesco. Incredibile quello che è stato capace di fare Filippo Ganna ieri nel velodromo di Glasgow. Quattro chilometri? A Pippo ne basta uno: l'ultimo. Sempre indietro, ma sempre tranquillo. Sempre un secondo abbondante dietro l'ingegnere Bigham, ma il britannico non poteva sapere che quel mostro degli anelli era capace di un finale semplicemente da antologia. Un recupero pazzesco, sul filo dei sessantasette chilometri orari. Una progressione folle, una volata sontuosa ed esaltante. «Sono felice, anche perché questa sfida non era in programma, ma visto che ero qui a ballare mi sono detto, balliamo fino alla fine. Ringrazio Bigham per questa splendida battaglia».

Sei un mostro, gli dicono. Lui sorride incredulo, quasi divertito per questo ennesimo e sensazionale colpo d'autore. È il nostro simbolo ciclistico nel mondo, il nostro fiore all'occhiello e portabandiera. L'anfitrione di un movimento orfano di Vincenzo Nibali e l'uomo capace di farsi in due e per l'occasione anche in tre, visto che dopo le fatiche con il quartetto (argento) ieri sera si è buttato in pista per inseguire l'ennesima maglia iridata nell'inseguimento individuale, in attesa di misurarsi su strada anche nella crono individuale in programma venerdì prossimo dove andrà all'inseguimento del terzo titolo mondiale in carriera.

Ieri sera, all'ora di cena, il 27enne granatiere di Vignone è andato a caccia del sesto iride di specialità, dopo aver fatto segnare ieri mattina al velodromo Chris Hoy di Glasgow, il miglior tempo in 4'01344 e ha affrontare di nuovo l'amico e compagno di squadra alla Ineos, l'ingegnere britannico Dan Bigham, che dal canto suo ha fatto segnare il secondo miglior tempo a 1617 da Ganna.

La cosa curiosa che ha accompagnato questa finale è la sfida tra questi due compagni di squadra, ultimi due primatisti dell'Ora (il detentore è Ganna con 56,792 km/h, ndr). TopGanna ha sfidato Dan Bigham, ottimo atleta, che nel team Ineos non solo è corridore di assoluto livello, ma anche ingegnere specializzato nello sviluppo dei materiali che ha contribuito non poco, con i suoi test, al successo del record dell'ora del nostro più grande pistard della storia. Ieri sera vittoria al cardiopalmo, sul filo di lana, 4'01"976 per Filippo, 4'02 030 per il britannico.

La serata si è anche arricchita del bronzo di Jonathan Milan che con il terzo tempo si era guadagnato l'accesso alla finalina. Il friulano di Buja ha stravinto la sfida con il portoghese Ivo Oliveira che nelle qualifiche aveva migliorato di 2 il suo primato personale. Nella finale per il bronzo Jonathan ha stravinto facendo segnare il tempo di 4'05 868.

Ganna, l’azzardo tecnico che ha portato al recupero e all’oro Mondiale. Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 7 Agosto 2023 su Il Giornale.

L’azzardo tecnico di Ganna (montare un impossibile rapporto che lo costringe ad un avvio lento) sembrava essergli stato fatale. E invece negli ultimi quattro giri ha recuperato mezzo secondo a giro 

Nessun ciclista sano di mente farebbe montare sulla sua bicicletta un rapporto con 66 denti sulla corona davanti (le dimensioni di un piatto da pizza) e 15 su quella dietro, come quello che Pippo Ganna ha scelto per il suo «Bolide» di carbonio e titanio ieri sera sulla pista di Glasgow: lo sviluppo metrico è così lungo che per sbloccare la catena a qualunque essere umano che non sia Ganna servirebbe la spinta prolungata di due culturisti.

La rimonta di Filippo Ganna

Gli azzurri della strada hanno deluso, com’era purtroppo prevedibile? Quelli della pista faticano ad ingranare in questi Mondiali scozzesi? Niente paura, alle 20.45 di ieri sera SuperPippo Ganna, con una scelta tecnica estrema e di grande coraggio, ha risollevato l’umore grigio dei tifosi italiani disputando una finale dell’inseguimento individuale ai limiti della fisiologia umana. A mille metri dal traguardo, Ganna perdeva infatti due secondi e due decimi dall’amico, rivale e compagno di squadra Dan Bigham, talentuoso ingegnere britannico. A quel punto nessun tecnico preparato e ferrato in matematica avrebbe scommesso un euro sulla rimonta del piemontese, che con un ritardo così pesante era destinato inevitabilmente all’argento.

Il rapporto della bici di Filippo Ganna

L’azzardo tecnico di Ganna (montare un mostruoso, impossibile rapporto che lo costringe ad un avvio dai blocchi enormemente più lento rispetto ai rivali) sembrava essergli stato fatale. E invece negli ultimi quattro giri il piemontese, facendo girare il catenone come la macina di un mulino (115 pedalate al minuto) ha recuperato mezzo secondo a tornata, volando l’ultimo chilometro in 57” e battendo il povero Bigham di 5 centesimi di secondo. L’ultimo giro, divorato in 14”241 a 63,2 km/h di media, non ha paragoni nella storia della specialità.

E pensare che con cinque titoli mondiali già vinti, Pippo nell’inseguimento individuale non doveva nemmeno esserci per smaltire le fatiche della prova a squadre di sabato e non affaticarsi in vista della cronometro di venerdì a cui tiene moltissimo. Ma alla vigilia, dopo un secondo posto alle spalle dei danesi che gli è bruciato moltissimo, Ganna ha comunicato al suo mentore Marco Villa che lui, il mattino dopo, sarebbe salito sui blocchi per le qualificazioni a qualunque costo. Detto, fatto: miglior tempo in batteria (4’01”344), miglior tempo in finale (4”01”976), non lontano dal suo record del mondo su un anello che non si sta dimostrando velocissimo.

Prima ancora di festeggiare, Ganna ha abbracciato Bigham che gli è stato sparring partner nel costruire il record dell’Ora. «Ero stanchissimo — ha detto il corridore della Ineos — e dopo la prova a squadre la gamba non rispondeva bene ma avevo troppa voglia di rifarmi. Fatico anch’io a credere a quello che ho fatto e sono felice ma soprattutto orgoglioso per me e per la squadra. La battaglia con Dan è stata bellissima e il fatto che il suo pubblico mi abbia applaudito come se avesse vinto lui mi ha commosso».

La festa dell’inseguimento azzurro non è finita perché Jonathan Milan, il giovane friulano che ha dominato le volate del Giro, ha steso l’esperto portoghese Oliveira nella finalina per il bronzo colorando il podio di azzurro. Ora Ganna dovrà riposare in vista della crono, lunga (50 km) e impegnativa di venerdì alle 15.30 dove il fronte dei rivali — salvo rinunce dell’ultimo momento — sarà tostissimo: i belgi Evenepoel e Van Aert, l’inglese Thomas, gli svizzeri Kung e Bissegger e tanti altri. La vittoria di Ganna ieri ha cancellato la delusione per il settimo posto nell’Omnium di Elia Viviani e per il quarto posto nell’Eliminazione di Rachele Barbieri. Pippo da solo non basta a risollevare le sorti del nostro ciclismo, però aiuta.

Estratto dell'articolo di Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” l'8 agosto 2023. 

[…] «I festeggiamenti? Messaggini per ringraziare i familiari dei complimenti, un brindisi veloce con i compagni. Ero talmente cotto che mi sono buttato subito a letto. Dopo una gara c’è sempre un’altra gara, bisogna riposare. Le feste le rimando e alla fine magari le dimentico.

Mica sono tipo da grandi cerimonie, io». 

Il riposo del guerriero Filippo Ganna poche ore dopo la sesta maglia iridata nell’inseguimento su pista […] dieci titoli mondiali tra strada e pista, una caterva di medaglie europee, l’oro di Tokyo con il quartetto, il record dell’Ora, la maglia rosa al Giro. E domenica la rimonta mozzafiato con cui ha racimolato cinque centesimi di vantaggio sull’inglese Bigham […]

La gara di domenica è stata esaltante e drammatica: a metà gara lei sembrava spacciato, poi il recupero miracoloso. Cosa si percepisce pedalando a 60 all’ora?

«Poco, pochissimo anche se nel delirio e nella fatica estrema devi trovare un pizzico di lucidità per capire come stai andando e se c’è qualcosa che puoi correggere. Ho percepito il ritardo a metà gara, ho realizzato che stavo rimontando nella seconda parte ma di aver vinto l’ho capito vedendo solo il mio nome che lampeggiava sul tabellone».

La sua tattica, vincente e rischiosa, è spingere un rapporto mostruosamente lungo (62x14 o 66x15 denti) che le permette di sviluppare velocità altissime nell’ultima parte ma che rende la bici lentissima in partenza.

«Dietro quella scelta ci sono ragionamenti complicati e un lavoro duro: scegliere il rapporto immaginando la prestazione che si vuole ottenere e la forma del momento, allenare la forza sollevando bilancieri in palestra e consumando la pista per poterlo spingere senza spezzarsi le gambe. E poi una super bici e meccanici bravissimi a eliminare ogni forma di attrito».

[…]

Dopo il record dell’Ora lei ha parlato di dolori atroci al sedere per mantenere la posizione. Il dolore dei quattro minuti dell’inseguimento invece?

«È diverso. Il momento più brutto arriva dopo due minuti quando l’acido lattico sale dalle gambe e ti annebbia il cervello e sai che manca ancora molto alla fine. Lì devi trovare qualche secondo di recupero, liberare la mente pur continuando a pedalare a 60 all’ora. Non so come faccio, ma lo faccio quando invece mi verrebbe istintivo rallentare, arrendermi. Ma non si può, non posso». 

Venerdì cercherà il terzo titolo nella crono individuale: 47 km invece di quattro, quasi un’ora al posto di quattro minuti, finale in salita e avversari del calibro di Van Aert, Pogacar, Evenepoel e Kung. È masochista?

«No, voglio vincere. Sarà durissima, mi farò come sempre molto molto male, ma ci proverò fino all’ultimo metro».

Davide Rebellin.

 Estratto dell’articolo di Andrea Priante per corrieredelveneto.corriere.it il 6 luglio 2023.

Wolfgang Rieke, il camionista residente in Germania che il 30 novembre scorso travolse e uccise il campione di ciclismo Davide Rebellin, sarà estradato in Italia. La decisione risalirebbe in realtà al mese scorso, quando il giudice tedesco decise di rimetterlo in libertà (con obbligo di firma) dopo che, per una manciata di giorni, era finito in carcere in esecuzione del mandato di cattura europeo emesso a maggio dal gip di Vicenza. Ora spetta alle autorità dei due Paesi concordare tempi e modi perché sia consegnato ai carabinieri. 

 Wolfgang Rieke, l'uomo che ha investito Davide Rebellin

Nei giorni scorsi il suo difensore, l’avvocato Andrea Nardin, ha presentato ricorso al Tribunale del Riesame di Venezia chiedendo che la misura cautelare venga annullata o per lo meno sostituita con gli arresti domiciliari.

L’udienza è fissata per il 14 luglio. «È disponibile a collaborare con le autorità – spiega Nardin - e non ha alcuna intenzione di sottrarsi al procedimento giudiziario: rispettiamo le decisioni dei magistrati ma in questi otto mesi Rieke è sempre rimasto a casa, in Germania, e non fa neppure più il camionista, visto che l’azienda di autotrasporti per la quale lavora l’ha adibito a mansioni amministrative. A nostro avviso, quindi, è evidente che non sussista più alcun rischio di fuga né che possa ripetere lo stesso reato».  

(...)

Le telecamere del ristorante hanno ripreso tutta la scena

E a proposito di telecamere, quelle del ristorante hanno ripreso l’intera scena e «l’ottima qualità delle immagini», si legge sull’ordine di arresto, consente di notare come «immediatamente dopo l’urto con il ciclista, il mezzo effettua un evidente sobbalzo». Dettaglio che contrasta con quanto sostiene Rieke, e cioè di non essersi accorto di aver investito un uomo. Il camionista frena, scende dal mezzo lasciando lo sportello aperto, e si dirige «a piedi verso il corpo esamine» di Rebellin. Intanto nel parcheggio arrivano altre auto e Rieke risale sul camion e lo posteggia qualche metro più in là. Di nuovo scende, e stavolta si mette a parlare con alcuni dei presenti e insieme «si avvicinano ai resti della bicicletta per poi avvicinarsi anche alla salma». 

La saliva usata per cancellare le tracce dell'incidente, poi la fuga

Accade qualcosa di sconcertante, che per gli investigatori rappresenta il primo tentativo del tedesco – a pochi minuti dal dramma – di nascondere le proprie colpe: «Il conducente (…) dopo essersi passato la mano sulla bocca, l’aveva strofinata per due volte contro il paraurti, nell’obiettivo di eliminare (con la saliva, ndr) le tracce derivanti dalla collisione con il ciclista». 

Le telecamere lo mostrano mentre tentenna ancora un po’ nel parcheggio, poi «con passo deciso» risale sul camion e riparte «a velocità sostenuta», tanto da salire con le ruote sul muretto spartitraffico e iniziare la fuga.

È rimasto vicino al cadavere per quindici minuti

Finora si è sempre ipotizzato che Rieke fosse scappato quasi subito, ma dall’ordinanza del gip si scopre che in realtà è rimasto a pochi metri dal cadavere per ben quindici minuti. Da Montebello, l’autotrasportatore si è diretto prima a Montorso, dove ha caricato del materiale, e poi in una ditta di logistica di Verona. Infine, ha raggiunto la Germania. E anche qui emerge una novità: mentre la polizia diramava l’avviso di ricerca del suo camion, lui avrebbe «evitato le arterie stradali e autostradali principali – scrive il magistrato - in modo da raggiungere il proprio Paese passando per rotte secondarie, così evitando i controlli che nel frattempo erano stati predisposti». 

Per il giudice «è del tutto insensibile»

Il resto sono cose note: lui che raggiunge Recke, il rimorchio che viene sostituito e le tracce di sangue lavate con un detergente aggressivo. Infine il mandato di arresto europeo, notificatogli dalle autorità tedesche il mese scorso. Per il giudice di Vicenza, Wolfgang Rieke è «del tutto insensibile a qualsiasi forma di scrupolo» e il suo comportamento denota una «stupefacente assenza di alcun segnale di rimorso». Ritratto severo. Resta da capire se reggerà alla prova del Riesame.

Andrea Priante e Rebecca Luisetto per il “Corriere della Sera” il 18 giugno 2023.

Con il suo camion, il 30 novembre scorso, Wolfgang Rieke ha travolto e ucciso il campione di ciclismo Davide Rebellin, che si stava allenando nel Vicentino, lungo una strada statale. È sceso, ha visto il corpo steso a terra, e si è rimesso al volante, come nulla fosse. Poi è tornato in Germania, ha sostituito il rimorchio e ha lavato le tracce di sangue con un detergente «ad alta reazione acida». 

Per oltre sei mesi, la fuga che gli ha permesso di farla franca. Ma oggi, a duecento giorni esatti dall’incidente, questo camionista tedesco di 62 anni che lavora per l’azienda di trasporti del fratello, si trova in carcere a Munster, in attesa che un giudice decida se dare seguito al mandato di arresto europeo emesso dal tribunale di Vicenza e consegnarlo all’Italia.

[…]  «Non mi sono accorto di averlo investito», ha sempre sostenuto il camionista, che nel 2001 era già stato condannato a Foggia per essere fuggito dopo un incidente senza soccorrere i feriti e che nel 2014 si era visto ritirare la patente a Chieti per guida in stato di ebbrezza. 

«Uno sbaglio, mentre si guida, può capitare — riflette Carlo Rebellin, il fratello del campione — ma a essere inaccettabile è come quell’uomo si è comportato dopo, con la fuga e tutto il resto. In questi mesi non si è mai fatto sentire, magari per chiedere scusa o fornire una giustificazione. Nulla. Il suo arresto ci regala un po’ di sollievo, ma speriamo sia solo il primo passo per punirlo come merita». 

[…]

Stando ai periti, percorrendo una grande rotatoria il camion tedesco ha raggiunto Rebellin — la cui unica colpa è stata quella di mettersi davanti al tir, invece di lasciarlo passare — e poi ha sterzato a destra per entrare nel parcheggio di un ristorante, forse senza neppure azionare la freccia, perché in quel caso avrebbe attivato la telecamera che gli avrebbe permesso di scorgere il ciclista.

Il veicolo ha travolto il campione, trascinandolo per alcuni metri. Stando alle immagini della videosorveglianza e ad alcuni testimoni (che l’hanno perfino fotografato con il cellulare) il conducente è sceso, si è avvicinato al corpo e poi è ripartito abbandonando la vittima. 

Rieke ha raggiunto l’Interporto di Verona, dove ha caricato del materiale, e da lì è tornato in Germania prima che si riuscisse a intercettarlo. Il 28 dicembre, su richiesta della procura di Vicenza, la polizia tedesca ha sequestrato il camion, scoprendo che il rimorchio era stato sostituito. 

Un mese dopo i carabinieri sono andati fino a Greven e lì, in un’officina, hanno finalmente potuto studiare il tir, scoprendo i segni lasciati dalla bici sul paraurti della motrice, ma anche quelli del detergente utilizzato per lavare le tracce. 

[…] Il fratello del campione allarga le braccia: «Le malelingue dicevano che in qualche modo fosse colpa di Davide, che lui non si dovesse trovare lì in quel momento. Ora, finalmente, abbiamo le prove che la responsabilità dell’incidente è soltanto del camionista».

Gino Mader.

Da corrieredellosport.it il 16 giugno 2023.

Non ce l'ha fatta Gino Mader, corridore elvetico morto dopo essere uscito di strada ieri durante la quinta tappa del Giro di Svizzera e precipitato in un burrone a velocità altissima. A darne notizia la sua squadra, il Team Bahrain. Mader, 26 anni, era stato rianimato subito dopo il terribile incidente e ricoverato in gravissime condizioni all'ospedale di Coira.

"Gino ha perso la battaglia per riprendersi dalle gravi ferite subite - ha scritto il team del corridore svizzero in un lungo saluto sulla propria pagina web -. Tutta la nostra squadra è devastata da questo tragico incidente, e i nostri pensieri e le nostre preghiere sono con la famiglia di Gino e le persone care in questo momento incredibilmente difficile. Nonostante gli sforzi dell'eccezionale personale medico dell'ospedale di Coira, Gino non è riuscito a superare questa sua ultima e più grande sfida. 

Alle 11:30 abbiamo salutato una delle luci brillanti della nostra squadra. Gino è stato un atleta straordinario, un esempio di determinazione, un membro stimato della nostra squadra e di tutta la comunità ciclistica. Il suo talento, la sua dedizione e la sua passione per questo sport ci hanno ispirato tutti. Gino, grazie per la luce, la gioia, e le risate che ci hai portato tutti, ci mancherai come cavaliere e come persona".

Le parole dedicate a Mader dall'ad della squadra

Queste invece le parole di Milan Erzen, amministratore delegato del Team Bahrain: "Siamo devastati dalla perdita del nostro eccezionale ciclista, Gino Mader. Il suo talento, la sua dedizione e il suo entusiasmo sono stati d'ispirazione per tutti noi. Non solo era un ciclista di grande talento, ma una grande persona in bicicletta.

Estendiamo le nostre più sentite condoglianze alla sua famiglia e ai suoi cari, e i nostri pensieri sono con loro in questo momento difficile. Bahrain Victorious gareggerà in suo onore, mantenendo la sua memoria su ogni strada in cui gareggeremo. Siamo determinati a mostrare lo spirito e la passione di Gino e rimarrà sempre parte integrante del nostro team".

In bicicletta a 100km/h di velocità come Mader: i rischi. Storia di Marco Bonarrigo su Corriere della Sera il 17 giugno 2023.

Il computer di bordo di Magnus Sheffield, il corridore newyorkese uscito illeso dalla caduta al Giro di Svizzera in cui purtroppo ha perso la vita Gino Mader, si è bloccato sui 94 chilometri/h nel punto dell’incidente. Quello del vincitore della quinta tappa del Giro di Svizzera, Joan Ayuso, ha toccato (stando alle immagini del tachimetro della moto che lo seguiva) i 100 km/h sulla discesa finale dell’Albula Pass. Poi ci sono i 100,8 km/h registrati sul computer di Romain Bardet, eccellente discesista, sempre sull’Albula.

Nel giorno della morte di Gino Mader, il grande pubblico si rende conto di quanto possa essere pericoloso il ciclismo e di quanto veloci vadano in discesa i professionisti in sella a biciclette che pesano appena 6.800 grammi e poggiano su due copertoncini larghi soltanto 23/25 millimetri. Lo stupore è sincero, ma le alte velocità sono uno standard. «Il massimo che ho raggiunto in carriera — spiega Damiano Caruso, che di Mader è stato capitano alla Bahrain — è 106 km/h in una discesa del Giro di Romandia. Eravamo in gruppo, quindi in una situazione ancora più rischiosa. Di quanto forte vai te ne rendi conto solo quando scarichi i dati del computer, sulla strada pensi solo ad essere concentrato. Il ciclismo è rischio, se non rischi ti stacchi».

Il pericolo, in discesa, è rappresentato da curve cieche, stato dell’asfalto, brecciolino sul terreno, errori da parte di chi ti segue o precede, guardrail che chiudono le vie di fuga e rischi presi nei sorpassi: nel caso di Mader, è probabile un errore del corridore favorito forse dalla scarsa visibilità sulla direzione della curva. La velocità va interpretata in modo relativo. Nella sua fenomenale, folle discesa dal Col du Galibier al Tour del France 2022, il funambolo britannico Tom Pidcock ha pedalato per mezz’ora a 55 di media toccando punte di 86 km/h, 15 in meno di Ayuso, ma raggiungendo livelli di rischio molto superiori a quelli dell’Albula Pass per via della tortuosità della discesa, come si vede bene nel video della diretta tv.

Tra gli elementi che rendono molto più sicure le discese oggi rispetto al passato, oltre al miglior stato delle strade, l’adozione dei freni a disco anteriori e posteriori che (una volta metabolizzati dal corridore) permettono di impostare le curve con precisione chirurgica staccando all’ultimo momento. A rendere più difficili le cose sono invece la rigidità dei telai full carbon e della forcella, che se da un lato rendono la bici più scattante, dall’altro penalizzano la precisione di guida nei momenti difficili. Una delle difficoltà quasi insormontabili nasce dal fatto che, per i corridori di vertice, la posizione in sella in salita dovrebbe essere molto più alta per spingere al meglio, quella in discesa invece spostare il baricentro più in basso per aver migliore sicurezza. Nell’impossibilità di cambiare bici per non perdere tempo, una soluzione più pratica è quella di montare un tubo reggisella telescopico a regolazione elettronica come quello che ha permesso allo sloveno Mohoric di vincere la Milano-Sanremo. Uno strumento però tutt’ora poco utilizzato.

Dario Acquaroli.

Dario Acquaroli, morto per un malore in bici: ex campione di mountain bike aveva 48 anni. Storia di Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 9 aprile 2023.

Di ciclisti esperti di fuoristrada come lui ce n’erano davvero pochi: nel 1993, a soli 18 anni, Dario Acquaroli fu il primo italiano a vincere un titolo mondiale di mountain bike a cui ne seguì un secondo nel 1996. Con Paola Pezzo, Acquaroli contribuì in modo determinante al lancio delle disciplina nel nostro Paese. Il campione bergamasco è scomparso a 48 anni la mattina di Pasqua in bicicletta a Camerata Cornello, in una zona impervia dell’alta Val Brembana. Il corpo è stato ritrovato attorno alle 13 e identificato qualche ora più tardi dalla sorella che lo aspettava per il pranzo pasquale: Acquaroli era uscito da solo in escursione in mountain bike, non è ancora chiaro se si tratti di incidente o, più probabilmente, di malore. Il corpo è stato ritrovato da alcuni escursionisti lungo un sentiero in zona Cespedosio, l’arrivo dell’elisoccorso e del soccorso alpino è stato inutile.

«Una pedalata il giorno di Pasqua, un malore. Se n’è andato così, oggi, Dario Acquaroli, 48 anni, uomo simbolo del MTB in Italia per un decennio, due volte campione del mondo XCO», il messaggio su Twitter con cui Acquaroli è stato ricordato dalla Federciclismo.

Oltre ai due Mondiali, Acquaroli aveva vinto due titoli europei e cinque titoli italiani confermandosi come il più forte specialista della disciplina nella nostra storia. Dopo il ritiro, Acquaroli è rimasto nel ciclismo come ambassador in Vittoria Gomme (dirigeva il cambio ruote delle corse professionistiche) e responsabile marketing di Merida Italia.

Estratto dell’articolo di Marco Bonarrigo per corriere.it il 10 aprile 2023.

Di ciclisti esperti di fuoristrada come lui ce n’erano davvero pochi: nel 1993, a soli 18 anni, Dario Acquaroli fu il primo italiano a vincere un titolo mondiale di mountain bike a cui ne seguì un secondo nel 1996. Con Paola Pezzo, Acquaroli contribuì in modo determinante al lancio delle disciplina nel nostro Paese. Il campione bergamasco è scomparso a 48 anni la mattina di Pasqua in bicicletta a Camerata Cornello, in una zona impervia dell’alta Val Brembana.

 Il corpo è stato ritrovato attorno alle 13 e identificato qualche ora più tardi dalla sorella che lo aspettava per il pranzo pasquale: Acquaroli era uscito da solo in escursione in mountain bike, non è ancora chiaro se si tratti di incidente o, più probabilmente, di malore. […]

 «Una pedalata il giorno di Pasqua, un malore. Se n’è andato così, oggi, Dario Acquaroli, 48 anni, uomo simbolo del MTB in Italia per un decennio, due volte campione del mondo XCO», il messaggio su Twitter con cui Acquaroli è stato ricordato dalla Federciclismo.[…]

Chi era Dario Acquaroli campione di mountain bike morto per infarto a 48 anni. Marco Bonarrigo per corriere.it il 10 aprile 2023.

L'ex fuoriclasse bergamasco Dario Acquaroli è stato trovato morto per un probabile infarto. Niente autopsia, mercoledì i funerali. La sua storia sportiva e non solo

Basta un’occhiata al profilo Instagram di Acquaroli, l’ex fuoriclasse bergamasco della mountain bike morto domenica a 48 anni per un malore durante un’uscita con la bici, per capire come Dario interpretasse la vita: immagini di montagna — alta o altissima — sugli sci da alpinismo, in roccia, in escursioni notturne, su pareti di ghiaccio e ovviamente in sella all’amatissima mountain bike.

Non paiono esserci dubbi sulle ragioni del decesso: Acquaroli è stato trovato privo di vita attorno alle 13 del giorno di Pasqua su un sentiero nella zona di Camerata Cornello, in una zona impervia dell’alta Val Brembana, non lontano da casa dove la sorella l’attendeva per un pranzo pasquale a cui purtroppo non si è mai presentato. La bici era accanto al corpo, in un punto non particolarmente difficile o con potenziali pericoli, il che fa supporre agli investigatori un arresto cardiaco. Il magistrato ha deciso di autorizzare i funerali (previsti mercoledì alle 10.30 nella chiesa parrocchiale di San Pellegrino Terme) senza chiedere l’autopsia.

Nato a San Giovanni Bianco nel 1975, Acquaroli all’inizio degli anni Novanta è stato uno dei primissimi azzurri a dedicarsi alla mountain bike, la specialità importata dagli Usa che ebbe un travolgente successo sportivo e commerciale in tutto il mondo. Di talento, lui che era nato alle pendici delle montagne e le frequentava da piccolo, ne aveva da vendere: vinse un primo titolo mondiale nel cross country a livello juniores nel 1993 a Métabief in Francia e un secondo tra i dilettanti a Cairns, in Australia, tre anni dopo: in quell’occasione battè il francese Manuale Martinez, che nel 2000 fu campione olimpico e mondiale della disciplina, e Cadel Evans, diventato poi celebre per il titolo mondiale e la vittoria al Tour de France su strada. A questi aggiunse due titoli europei e cinque titoli italiani. Al contrario della maggior parte dei colleghi (Evans su tutti ma anche il danese Rasmussen e l’italiano Cioni) Acquaroli non si fece mai tentare dalla carriera su strada, troppo libero per assoggettarsi alle regole rigide di quelle corse e troppo innamorato delle sue montagne. Quando correva in Bianchi, Acquaroli ebbe come team manager il grande Felice Gimondi, tra i primi a credere nella mountain bike e in lui.

«Ho raggiunto l’apice della mia carriera nel 1996, quando a 23 anni ho vinto il mio secondo mondiale — raccontò Acquaroli in un’intervista al sito mtbcult.it — e devo ammettere che non è stato per nulla facile gestire le conseguenze di quella vittoria. Non ho avuto figure in famiglia che mi aiutassero: mio padre è venuto a mancare il giorno prima della mia gara di debutto, quando avevo 16 a nni, e non ho mai voluto affidarmi a procuratori o consiglieri di alcun tipo. Quando ti trovi sul tetto del mondo a 23 anni a dover gestire in totale solitudine il lato economico e professionale della tua carriera, è molto facile cadere in scelte sbagliate ed è capitato anche a me».

Dalle scelte sbagliate Acquaroli si riprese rapidamente, lavorando nel mondo del ciclismo come «ambasciatore» e responsabile marketing di aziende importanti. Assieme all’ex direttore sportivo Pietro Algeri, Dario curò per anni il cambio ruote delle corse professionistiche più importanti (come il Giro d’Italia) continuando a collaudare personalmente materiali sul campo grazie a un fisico che rimaneva quello di un atleta. Attualmente era responsabile marketing per l'Italia di Merida, una delle più grandi aziende produttrici di biciclette al mondo.

Dario Acquaroli, il campione di mountain bike morto come suo padre per un malore alla stessa età. Donatella Tiraboschi per corriere.it il 10 aprile 2023.

Il racconto di Bruno Zanchi, che con Dario Acquaroli condivise la carriera: «Dario aveva 16 anni, fu il primo a soccorrere il papà e a praticargli il massaggio cardiaco»

Non avrebbe mai pensato Bruno Zanchi che quella telefonata dello scorso venerdì, per parlare di una fornitura di biciclette, sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbe sentito la voce di Dario Acquaroli. Più che un compagno di carriera, quasi un fratello con cui aveva diviso tanto. Chilometri, gare, fatiche e gioie assolute come, la più grande di tutte, quella di trovarsi sul tetto del mondo: lui campione iridato di downhill e Acquaroli di cross country, la disciplina dove si pedala di più. «Siamo brembani tutti e due, fieri e battaglieri. E di battaglie ne abbiamo fatte tante». 

L'amico: «Sembra che il destino ti aspetti per sfidarti»

Zanchi parla al presente, non al passato. «Sono incredulo. Sembra che il destino ti aspetti per sfidarti e per lasciare senza parole chi ti vede andare via». Dario se ne è andato il giorno di Pasqua, in una mattina di festa che aveva deciso di passare facendo quello che più ha amato al mondo. Lui e la sua bici su per qualche sentiero della valle, prima del pranzo con tutta la famiglia. Che lo ha aspettato prima di dare l’allarme non vedendolo rientrare, quando erano passate le 13. Dario era già morto. Accanto alla sua bicicletta era stato trovato da alcuni passanti lungo una mulattiera che da Cespedosio porta a Camerata Cornello. 

«Anche il papà morì per un infarto»

Un malore all’origine della caduta, il caschetto rotto sul terreno, i tentativi disperati delle squadre territoriali del Soccorso alpino e speleologico della VI Delegazione Orobica, con tredici tecnici, (a supporto dell’équipe dell’elisoccorso decollato da Como). Dario Acquaroli se ne è andato così e l’unica consolazione è che la morte lo abbia colto mentre era in sella felice per l’uscita di primavera, dopo una vita che,seppur di successo, resta breve. Quarantotto anni sono troppo pochi anche se il destino crudele aveva già colpito la sua famiglia. «Anche il suo papà era morto così improvvisamente, per un infarto  - ricorda Zanchi -  anche lui, quando successe la cosa, aveva più o meno 47 anni e Dario, che allora aveva solo 16 anni, fu il primo a soccorrerlo e a praticargli il massaggio cardiaco».

Il legame con Felice Gimondi 

 Era l’inverno del 1991, la famiglia Acquaroli gestiva l’hotel La Ruspinella all’ingresso di San Pellegrino e di lì a qualche settimana Dario, che fino ai 14 anni era stata una giovane promessa dello Sci Club Selvino, sarebbe approdato alla Bianchi trovando la sua strada (sportiva) e un secondo «papà» in Felice Gimondi, pronto a dargli consigli e ad affiancarlo in una carriera a dir poco esplosiva. 

Le vittorie europee e mondiali 

Una bacheca straordinaria la sua: due titoli europei (1992 e 1993), due mondiali (1993 e 1996) e cinque titoli italiani (1992, 1993, 1996, 2000 e 2005), correndo inoltre 19 mondiali con la Nazionale Italiana tra cross-country e marathon. Insomma, il più forte di tutti. E senza mai tirarsela. «Gentile, cordiale, misurato. Da lui mai una parola di troppo, anche se spesso gli si leggeva un velo di tristezza negli occhi, dovuta proprio al fatto che a soli 16 anni, da solo, aveva dovuto affrontare una carriera impegnativa», rimarca Carlo Brena, a capo dell’agenzia che cura la comunicazione di Merida Italia realtà del mondo bike dove Acquaroli ricopriva da tempo il ruolo di marketing manager, dopo aver lavorato per Sidi e Vittoria. 

Il ritorno sui libri durante il Lockdown

«Dario aveva conseguito solo il diploma di terza media, forse un po’ questa cosa gli pesava, ma la sua volontà di mettersi alla prova era stata la molla che, durante il lockdown, lo aveva fatto tornare sui libri. Aveva, infatti, frequentato un corso di marketing per affrontare al meglio la sua sfida professionale»,  conclude Brena a cui, proprio lo scorso venerdì, Acquaroli aveva consegnato una sua bicicletta in vista di una gara che Brena affronterà presto. 

Merida: «Una passione straordinaria»

Anche Merida Italia lo ha ricordato con parole dolci con un post sui social: «Quando sei arrivato da noi hai portato competenza, precisione, attaccamento al lavoro e passione, tanta e straordinaria passione. Ci hai spronato a sviluppare nuovi progetti e a guardare oltre gli ostacoli, ma soprattutto hai sempre iniziato tutto con un sorriso: che fosse un'azione di marketing o una spedizione urgente, hai sempre voluto fare tutto con l'obiettivo di raggiungere il massimo». 

I funerali mercoledì mattina 

Si stenta a credere che Dario riposi adesso in quella bara, ricoperta dalle sue maglie, nella chiesetta di San Nicola a San Pellegrino dove è stata allestita la camera ardente. Quando mercoledì mattina verranno celebrati i funerali , saranno in molti a pensarlo così. Con il sorriso «guascone» con cui lo piange Zanchi, adesso impegnato in un viaggio bellissimo, fatto di pedalate leggere, tonde. Infinite.

Fausto Coppi.

Faustino Coppi: «Mio padre Fausto mi insegnava a stare in equilibrio sulla bici. Ho 68 anni e penso sempre a lui». Paolo Di Stefano su Il Corriere della Sera il 30 Marzo 2023

Il figlio del Campionissimo: «L’ultimo ricordo? Mentre lo portavano via in barella, sulle mi sussurrò: “Papo, non fare arrabbiare la mamma”». «Non ho mai lasciato la casa dove visse». «La malaria? Tornò dall’Africa, come fai a non pensare che s’è la prese»

Angelo Fausto Coppi, detto Faustino, il ricordo di suo padre com’è cambiato nel tempo?

«È il ricordo di un figlio che aveva 4 anni e mezzo quando è morto il suo papà. La sorpresa è che questo ricordo viene alimentato dalle memorie degli altri. C’è sempre un’occasione per rivivere il passato e per correggere qualcosa. Oggi ho 68 anni e vengo sempre gratificato da quello che ancora succede intorno a mio padre, anche se non ho nessun merito».

Quel che si dice un mito.

(Ride) «Sempre giovane, sempre forte e sempre vincitore. Il mito però di solito non gode dello stesso affetto e della stessa gratitudine. In Veneto un suo ammiratore mi ha raccontato che dopo averlo visto passare sulla strada per l’emozione rimase a letto con la febbre per tre giorni».

Come ha vissuto la vita da figlio del Campionissimo?

«Io sono un tipo riservato e faccio la mia vita, ho il mio lavoro nei cantieri edili, ma è logico che tutti i giorni il ricordo di papà viene fuori in qualche modo. Da piccolo non sapevo bene chi era mio padre, e crescendo continuavo a non capire l’interesse verso di me e verso mia madre, visto che tutto era finito. Venivano fotoreporter, come oggi possono fare solo con un cantante, un attore, un atleta famoso. Ma io non sono lui, e in fondo non sono niente e nessuno».

Immagini di suo padre?

«Quando tornava dalle corse e mi portava i giocattoli, quando in giardino mi insegnava a stare in equilibrio sulla bicicletta senza le rotelline o quando faceva le grosse colazioni prima di partire per gli allenamenti, il tavolo pieno di roba da mangiare. Tanti flash, ma non ha fatto in tempo a raccontarmi le imprese della sua vita. È difficile mettere insieme le cose, anche aiutandosi con le fotografie».

L’ultimo flash?

«Era stato portato giù in barella dalle scale, era fermo davanti alla porta di casa e mi disse: Papo, non fare arrabbiare la mamma… Per giorni non ho più saputo che fine aveva fatto. Mia mamma ha avuto una crisi, è finita in ospedale. Da allora ricordo soltanto il vuoto, l’assenza di tutte le persone care».

Lei è nato a Buenos Aires?

«Sì, per poter mantenere il cognome Coppi. Per partorire, mia mamma è salita in aereo con la moglie del meccanico della Bianchi, il Pinetta. Era stato un amico argentino, il ciclista Jorge Batiz, a favorire la cosa. Siamo poi tornati in Italia in nave, sulla Giulio Cesare. Per la legge italiana, fino al ’78, mi chiamavo Locatelli, come il marito di mia mamma, Enrico Locatelli, che non mi ha disconosciuto. Grazie al passaporto argentino ho fatto le scuole come Coppi».

Cosa successe dopo la morte di suo padre?

«Con mia mamma in ospedale, si era pensato addirittura che io non potessi stare con lei e che suo marito, avendo la patria potestà, potesse disporre anche di me. Poi mia madre si è ripresa, un giorno mi porta al cimitero e mi dice che quella è la tomba di mio papà. Diceva che l’ho abbracciata senza dire niente».

Quali persone vi furono vicine in quel momento?

«Mia mamma era napoletana e non ho conosciuto i suoi genitori. Da parte di papà c’era nonna Angiolina, molto affezionata a mia madre. Andavamo tutti i sabati a trovarla a Castellania, dopo essere stati al cimitero. Una mattina, andando al cimitero a trovare suo figlio, è morta. Mia mamma si era inventata un maglificio e quel giorno eravamo alla Fiera Campionaria di Milano. L’abbiamo saputo la sera arrivando a casa».

Le sono rimasti oggetti cari di suo padre?

(Ride) «Qualche cosa… L’ultimo regalo che mi ha fatto a Natale, il Natale del ’59, è stata una banconota da diecimila lire, grande come un fazzoletto. È ancora su una parete nella nostra casa di Novi».

Lei ha sempre abitato lì?

«Sì, quella casa è tutto. Tutti gli affetti sono lì, piena di ricordi di mio papà, foto dappertutto di lui e di mia sorella Lolly che è morta nel 1971. Mia madre aveva questa mania. Ora ho due figli e sono cambiate un po’ le cose. Ma le stanze sono sempre quelle: la camera di mia mamma, quella dove dormivo io, quella dove papà faceva i massaggi… ».

Lolly abitava con voi?

«Mia mamma aveva avuto due figli dal primo matrimonio con Locatelli: Maurizio e Loretta, detta Lolly, che abitava con noi a Novi. Morì per un brutto male. Fu un dolore enorme, mia madre andava due volte al giorno al cimitero a parlare con lei. Diceva sempre che con mio papà aveva passato gli anni belli, e che per quella felicità ha sofferto per il resto della vita. Ma diceva che avrebbe rifatto tutto».

Che tipo era sua madre, Giulia Occhini?

«Dolce e possessiva, con un carattere forte, ha dovuto fare anche da padre, mi ha tirato su lei e mi ha insegnato i valori della vita. Aveva una grinta incredibile, quella che io non ho. Quando aveva qualcosa in testa, nessuno la fermava: se voleva andare a parlare con Agnelli, telefonava e andava».

Sua madre fu chiamata la Dama Bianca. Cosa le raccontò di quella storia?

«Allora era difficile lasciare una famiglia per farsene una nuova. In più, mio padre era famoso e finirono nell’occhio del ciclone. A lui fu ritirato il passaporto, che gli serviva per lavoro, e mia mamma fu chiusa in carcere ad Alessandria e poi ad Ancona in domicilio coatto. Una sofferenza vissuta con amore... per cose che oggi farebbero ridere».

Si sposarono di nascosto?

«Sì, a differenza di quel che si dice, mio padre era molto religioso. Mia madre mi ha raccontato che avevano trovato un frate disposto a sposarli in una chiesa qui in zona».

La morte di sua mamma?

«Era in auto, il 3 agosto 1991 fu travolta davanti al cancello di casa da una macchina che andava a 200 all’ora. Ero in vacanza, quado sono tornato, ho fatto in tempo a leggere sulle sue labbra: ti voglio bene. Al centro di rianimazione a Novara, sbagliarono una tracheotomia e morì dopo un anno e mezzo di coma. Mia mamma era tutto: morta lei, è morto di nuovo anche mio padre».

Perché è morto di nuovo?

«Lei era anche il ricordo di mio papà. Non c’era un giorno che non parlasse di lui: cosa faceva, dove andava, cosa diceva, i suoi modi di fare… Io fino all’ultimo ho sperato che si svegliasse, abbiamo anche chiamato un dottore austriaco dell’equipe che seguì Leonardo David… Sono un po’ sfortunato con i dottori».

Non riconobbero la malaria di suo padre.

«Nessuno aveva capito, malgrado i consulti dei tanti professori che giravano per casa. Una persona che torna dall’Africa, come fai a non pensare che s’è presa la malaria? È andata così».

Cos’è la bicicletta per lei?

«L’ho praticata come fa una persona qualunque, per qualche passeggiata. Il ciclismo è parte della mia vita ma non ci ho mai provato: sarei stato la brutta copia di mio papà».

E i suoi figli?

«Hanno preferito fare altro. Mia mamma diceva che papà non avrebbe mai voluto che patissi quello che aveva patito lui per la bicicletta. Ma se fosse rimasto al mondo, nel giro del ciclismo ci sarei finito in qualche modo di sicuro».

Che aspirazioni aveva suo papà per lei?

«Avrebbe voluto che facessi l’ingegnere. Mi sono iscritto a Genova e ho lasciato dopo due anni. Oggi mi dispiace».

Idee su chi ha passato la famosa borraccia?

«Bartali rispondeva così: “Tu a chi tieni? Se tieni a Coppi la borraccia l’ha passata Fausto, se tieni a Bartali l’ha passata Gino”. Pensiamola così. Infatti Ettore Milano, gregario di mio papà che ha vissuto con noi per diverso tempo, era sicuro che l’aveva passata Coppi, mio padre».

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Francesco Moser.

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L’ex campione di ciclismo: «con Saronni litigavo pure in aereo». «Mio figlio Ignazio e Cecilia Rodriguez dicono che si sposeranno in agosto. Ma gli ho ricordato che in quel periodo si vendemmia». «Tutte le settimane. In salita, attivo la pedalata elettrica»

A 35 anni dal ritiro, Francesco Moser detiene ancora il record italiano di vittorie su strada: 273. Nella storia del ciclismo, solo Eddy Merckx e Rik Van Looy hanno vinto di più.

Oggi, a 71 anni, quanto va in bici?

«Tutte le settimane. In salita, attivo la pedalata elettrica».

Lei usa la bici elettrica?

«Non sono un ciclista scatenato: far fatica è inutile, dato che non devo fare le gare».

La vittoria che non dimenticherà mai?

«Il Giro d’Italia 1984: anche se il Campionato del mondo e le tre Parigi-Roubaix sono altrettanto importanti, il Giro è molto di più. È una corsa di tre settimane, è più sofferta: avevo preso la maglia rosa in partenza, poi, l’ho persa con la cronometro a squadre; poi, l’ho ripresa fra Pavia e Milano... Laurent Fignon l’ha presa alle Dolomiti, poi, io l’ho ripresa alla fine... È stato tutto uno scambio di maglia».

Com’è possibile che il suo record di vittorie sia imbattuto?

«Perché il ciclismo è in declino. Mancano gli sponsor: noi facevamo più corse e avevamo più squadre. E tutti correvano per il capitano, ora, invece le squadre hanno il velocista, l’uomo della corsa a tappe, l’uomo cronometro...».

C’è un italiano sul quale possiamo sperare?

«In Italia, ora che ha smesso Vincenzo Nibali, non vedo grandi speranze».

Lei come s’innamorò del ciclismo?

«Eravamo dodici fratelli, tre correvano. Aldo ha iniziato l’anno il cui sono nato io, nel 1951, a 17 anni, io ho cominciato a 18. Avevo smesso di andare a scuola, lavoravo in campagna, lui ha detto: prova. Pensavo di non poter essere forte, ho tentato per curiosità, poi ho visto che andavo e ho fatto tutto il necessario per arrivare al successo: uno può avere il fisico e l’attitudine, ma arrivare fino in fondo o fare le cose a metà dipende dalla testa. Io volevo sempre migliorare ed essere fra i primi, anche se ho avuto avversari importanti come Felice Gimondi, Eddy Merckx e Roger De Vlaeminck, un belga che ha corso in Italia: tante volte ho vinto contro di lui, ma tante volte sono arrivato secondo dopo di lui. E la competizione è diventata più forte dopo che il ciclismo è uscito dai confini europei. I primi mondiali fuori Europa furono a Montreal nel 1974. Dopo, hanno cominciato ad arrivare i corridori americani e, con la caduta del Muro di Berlino, quelli dell’Est».

Che altro serve per vincere, oltre a talento, condizione fisica e testa?

«Fortuna: alle Olimpiadi di Monaco del 1972 ero nella fuga giusta, poi, all’ultimo chilometro, ho bucato e sono arrivato settimo. Potevo essere bronzo o argento. Qualche anno dopo, facciamo il prologo del Giro di Germania e, nello stesso punto, avevo già vinto, ma ho bucato e sono arrivato secondo».

Che cosa si ricorda del massacro degli atleti israeliani a quei giochi?

«La notte, quando i terroristi palestinesi entrarono nella casa degli israeliani nel villaggio olimpico, non ho sentito niente. La mattina, c’era polizia dappertutto in assetto di guerra, non capivamo, tant’è che non riuscendo a raggiungere la nostra mensa, scavalcammo per fare colazione in quella femminile. Ma quando abbiamo capito, quando abbiamo saputo degli undici colleghi morti, è stato uno shock».

Com’era il tifo a quei tempi?

«Nei bar, c’erano discussioni enormi tra le fazioni. Il sistema era stato esasperato più che oggi nel calcio. La gente si appassionava, si creavano rivalità. Ora, la rivalità non è più di moda. Oggi, il corridore chiede scusa a quello che ha battuto. C’è il fair play, noi eravamo più ruspanti».

La rivalità alla Coppi e Bartali con Giuseppe Saronni era vera e c’era anche nella vita?

«Era vera. Era difficile andare d’accordo con lui. Era sempre scontro aperto. Correvamo e, chiaramente, uno cercava di arrivare davanti all’altro o cercava di farlo perdere».

Perché era difficile andarci d’accordo?

«Io venivo dalla campagna, lui dalla città: si sentiva superiore».

Litigavate in gara e anche fuori?

«Pure sugli aerei quando andavamo a correre all’estero».

Siete mai arrivati alle mani?

«Era più una sfida continua. Per esempio, a un campionato in provincia di Parma nell’81, quelli davanti a me si sono fermati, io ho frenato, Saronni mi ha preso la ruota, si è arrabbiato, mi fa: non sei capace di andare in bici. E io: vediamo stasera chi è capace. La sera, avevo vinto io. Lui era più giovane di sei anni, dal ’79 ha avuto tre o quattro anni forti, forse troppo per il suo fisico. Infatti, d’un tratto, ha smesso di essere forte. Mentre io, nell’84, a Città del Messico, feci il record dell’ora, e nello stesso anno vinsi la Milano-Sanremo e il Giro d’Italia».

Com’erano state infanzia e giovinezza in campagna, a Palù, nel trentino?

«Intanto, ho rischiato di chiamarmi Decimo. Poi, siccome prima di me c’erano due sorelle che si chiamavano Lucia e Giacinta, come le pastorelle di Fatima, mi misero il nome del terzo pastore. Papà aveva le vigne, si lavorava tutti nei campi. Poi, ha avuto un ictus ed è morto all’improvviso. Io avevo tredici anni, tre fratelli correvano, uno era frate, l’altro era piccolo ed è toccato a me portare avanti i campi. Ho lasciato la scuola e mi sono messo a lavorare la terra».

Manteneva la famiglia a soli tredici anni? Le piaceva o era solo dovere?

«Era l’unica cosa che sapevo fare, ed era la normalità. I muscoli me li sono fatti in campagna: portavamo i pesi, si faceva tutto a mano, non è che andavi in palestra o in discoteca».

E quando anche lei ha iniziato a correre in bici, chi si occupava della terra?

«C’è stato un momento che era quasi abbandonata. Poi, Diego ha smesso di correre, se n’è occupato e ha pure modernizzato la cantina. Prima di lui, non imbottigliavamo, vendevamo a damigiane. Oggi, è tutto diverso: vendi la qualità, devi sceglier dove collocarti sul mercato... Per me, è più facile vincere le corse che fare il vino».

Però il vino lo fa: il brut 51,151 si chiama come il suo record dell’ora.

«All’inizio, sulle bottiglie c’era la mia foto con la maglia rosa, poi con le foto delle varie gare vinte. C’è gente che ha tutte le collezioni. Quando ho smesso di correre, nel 1988, ho comprato una campagna e il maso dove vivo, sulle colline di Trento, ci ho fatto vicino il museo con le mie bici, le mie maglie, i trofei. La gente arriva. E oltre a occuparmi della cantina, produco bici con Fantic: bici tradizionali che si trasformano in elettriche, le FMoser».

Come sono fatte le sue giornate?

«Cerco di tenere in ordine la campagna, gli operai fanno i lavori più pesanti, mentre io mi occupo dell’orto, delle galline, dei cani, e poi ricevo i clienti che vogliono le foto, i selfie».

Quattro anni fa, si è separato da sua moglie dopo quasi 40 anni di matrimonio. L’anno scorso, è arrivato il divorzio. Come è ritrovarsi single alla sua età?

«Bisogna adattarsi, stare da soli non è mica una roba semplice. Però, ora, non sono più solo: ho una nuova compagna che sta spesso da me, una ragazza che più o meno è come me».

In che senso è come lei?

«Ha corso in bici, è stata campionessa d’Italia. È più giovane, del ’68. Si chiama Mara Mosole».

Come l’ha conosciuta?

«La trovavo in giro in bici, o alle Eroiche, le gare vintage: anche lei ha ancora la passione e andiamo spesso in giro insieme. Poi, più o meno con la pandemia, ci siamo avvicinati. Ma lei non vive qui perché lavora con il padre che ha un’azienda nel trevigiano».

Com’è innamorarsi a 70 anni?

«Diverso da quando sei giovane. Ma non sono bravo a parlare d’amore. Posso dirle che si può vivere anche soli, ma che in due si sta meglio».

Ha tre figli, che padre è stato?

«Ho sempre girato molto. Due li ho avuti mentre correvo, mentre Ignazio è nato che avevo appena smesso. Era più mia moglie che stava dietro ai figli. Io ho insegnato a tutti ad andare in bici e a stare nei campi. Francesca, la più grande, prima dirigeva la cantina, ma ora lavora col marito e ha tre figli fra i 9 e i 12 anni e il maggiore, Pietro, vince le prime garette in bici. Della cantina adesso si occupa il mio secondogenito, Carlo, mentre Ignazio vive a Milano».

Anche Ignazio correva, poi è andato al Grande Fratello. Le è spiaciuto che abbia lasciato?

«È chiaro che, se avesse continuato con la bici, sarei stato contento».

Ora, Ignazio è fidanzato con Cecilia Rodriguez e, così, lei si ritrova imparentato con Belén. Vi frequentate?

«Certo, è stata anche qua. Abbiamo fatto Natale insieme. Poi, i giovani sono andati in montagna per conto loro, io sono rimasto a casa, non è che m’intrometto».

Che effetto le fa la famiglia in cronaca rosa?

«Non lo trovo strano: pure io da giovane ci stavo sulle copertine».

Ma non per i pettegolezzi.

«Quelle sono cose a cui non sto dietro: non guardo Internet, non ho i social, il telefono lo uso solo per telefonare».

Al Grande Fratello, Cecilia era fidanzata, ma si è messa con suo figlio. Lei tifava affinché ci restasse o perché tornasse dall’altro?

«Ognuno sceglie la sua vita. Io ho le mie idee, ma non sempre si avverano e mi adatto».

Ignazio e Cecilia si sposeranno?

«Non lo so, non mi pronuncio».

Su Instagram, si è vista la proposta di matrimonio con l’anello di fidanzamento.

«Hanno detto che si sposano quest’anno, ma ci credo quando lo vedo. Avevano detto agosto, ma da agosto a ottobre c’è la vendemmia».

Sa che i geriatri vogliono far cominciare la terza età non a 65 ma a 75 anni? Che ne pensa?

«Mi ricordo di mio padre a 67 anni, quando è morto: lo vedevo molto vecchio. Io ne ho 71 e penso che potrò pedalare in giro per il mondo ancora per un sacco di tempo».

Moser-Saronni, l’ultimo duello: «Con quel tipo lì non parlo più». Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 23 Marzo 2023

La verità sulla lite tra i due ex ciclisti e la testimonianza di Baronchelli: «Francesco era un gran corridore, ma un Giro d’Italia con salite vere non l’avrebbe vinto. Come Beppe, se posso permettermi». La prossima settimana i tre saranno assieme a una cerimonia

«Con la complicità di quel tipo lì avete montato una polemica indegna. Non parlerò mai più con un giornalista e nemmeno con lui». E giù il telefono. No, Francesco Moser non ha preso bene l’intervista di ieri al Corriere di «quel tipo lì», alias Giuseppe Saronni, coprotagonista di una feroce rivalità che ha fatto la storia del ciclismo italiano e dopo 40 anni non si è stemperata. Tutto era cominciato lunedì con il trentino che, raccontandosi, accusò Saronni di «essersi sempre sentito superiore a lui perché uomo di città» e di una permanenza molto breve ai vertici del ciclismo «per aver chiesto troppo al suo fisico».

Il lombardo ha risposto per le rime: Moser ha vinto il suo unico Giro d’Italia nel 1984 grazie «alle spinte dei tifosi» (che avrebbero anche regolarmente molestato Saronni con «schiamazzi notturni davanti agli hotel in cui dormiva»), alle salite «spianate» dagli organizzatori e a una longevità atletica favorita da «una certa scienza, di cui lui disponeva in modo esclusivo».

Riferimento alle bici spaziali delle cronometro e del Record dell’Ora e al supporto del celebre professor Conconi. Sugli eccessi per amore del tifoso moseriano c’è ampia letteratura. Dopo la tappa del San Pellegrino al Giro 1978, Giovanbattista Baronchelli (superbo scalatore) disse ai cronisti: «Moser è salito a spinte dei tifosi, questo non è sport».

Il trentino rispose da par suo: «Baronchelli non sa che cosa sia l’intelligenza, con la testa che si ritrova un Giro d’Italia non lo vincerà mai». Tista oggi ha 69 anni: «Francesco aveva ragione, mai vinto un Giro, io: due volte 2°, una volta 3° e tre 5°. Nelle rare salite che gli organizzatori inserivano sul tracciato per non rovinargli la festa, quando non ce la faceva più Moser si faceva spingere approfittando della distrazione dell’elicottero. Sempre nel 1978, sul Bondone, a casa sua, presi ombrellate, sputi e insulti dal suo clan e dovetti farmi largo a schiaffoni. Non dico che organizzasse i tifosi ma con il suo modo di fare li aizzava. Era un gran corridore, ma un Giro con salite vere non l’avrebbe vinto. Come Saronni, se posso permettermi».

E la «certa scienza» a supporto della seconda giovinezza del trentino? Saronni: «Nella 16ª tappa del Giro 1983, che stravinsi, Moser mi affiancò dicendomi: mi ritiro, sono troppo vecchio per le corse a tappe. Provai quasi tenerezza. L’anno dopo però si prese Sanremo e Giro dopo aver fatto il Record dell’Ora. Ma non era vecchio?». Moser si era legato al professor Francesco Conconi, lo scienziato innamorato del ciclismo che rivoluzionò la sua preparazione e lo aiutò nella scelta di bici così estreme da esser messe fuori legge pochi anni dopo. E le famose trasfusioni, frutto di studi pionieristici scandinavi? All’epoca non erano doping, lo diventarono solo nel 1986.

Nel 1999 Moser avrebbe dichiarato ai Nas di Bologna di averle utilizzate, appunto, fino al 1985. In un’intervista più recente spiegò che «accusarmi è come macchiare le vittorie di Bartali e Coppi dicendo che hanno preso delle sostanze che solo poi sono state vietate. La vera novità furono gli allenamenti col cardiofrequenzimetro, le ripetute in salita con bici da pista, il manubrio a corna di bue...». Come replica Saronni? «Capisco che le mie parole non gli abbiano fatto piacere ma è la pura verità dei fatti. La prossima settimana io e lui dovremmo presentare assieme una tappa del Giro d’Italia: spero che l’incazzatura gli passi prima». Alla presentazione ci sarà anche Baronchelli, la saga continua.

Estratto dell’articolo di Marco Vigarani per il Corriere della Sera sabato 14 ottobre 2023.

Francesco Moser e Beppe Saronni sono veramente destinati a essere eterni rivali. I due grandi campioni erano separati appena da pochi chilometri ma la distanza che li divide ormai è ben più profonda di quella geografica. In occasione del primo giorno del Festival dello Sport, Saronni è stato introdotto nella Hall of Fame del Giro d’Italia insieme a Franco Balmanion (trionfatore nel 1962 e 1963). 

L'eterna rivalità tra Beppe Saronni e Francesco Moser

L’evento si è svolto nella Sala Depero del palazzo della Provincia, nel cuore della città che ha visto crescere il suo storico avversario Moser. Una coincidenza che non è sfuggita alla verve di Saronni: «Chissà perché ma ci ritroviamo ancora una volta sulle stesse strade, negli stessi luoghi — ha commentato il 66enne che ha vinto il Giro nel 1979 e nel 1983 —. La nostra rivalità ha incendiato l’Italia, nei bar non si parlava solo di calcio ma anche di ciclismo e questo penso sia il risultato più bello che abbiamo ottenuto. Immagino che più tardi lo incontrerò. Vorrà venire a salutarmi e a complimentarsi per questo riconoscimento».

Accuse e attacchi tra i due campioni di ciclismo

Parole che sembravano il preludio a un disgelo nel rapporto fra i due ma che si sono rivelate soltanto una stilettata di pungente sarcasmo visto che questo incontro non è avvenuto e nemmeno è in calendario. La conferma è arrivata direttamente da Moser: «Non ho mai detto che sarei andato all’evento. A parte che lui non è venuto nel 2015 a Milano quando sono stato premiato, ma in generale non voglio proprio vederlo. Negli anni passati è vero che mi veniva a trovare ma le sue ultime dichiarazioni mi sono rimaste sullo stomaco e preferisco non avere niente a che fare con lui». 

L'intervista al «Corriere della Sera» che ha riacceso lo scontro

Lo Sceriffo nativo di Palù di Giovo fa riferimento a un’intervista rilasciata nei mesi scorsi al Corriere della Sera in cui Saronni ha sminuito i trionfi del collega accusandolo di avere utilizzato biciclette iper tecnologiche e soprattutto procedimenti medici sperimentali ideati dal professor Conconi che negli anni successivi sono stati vietati. Moser ha colto la palla al balzo per replicare con una battuta: «Non ho nulla in contrario al fatto che lui riceva questo premio, va bene anche a Trento. Ormai lo danno a tutti gli ex campioni che hanno vinto il Giro in passato. Il mio l’ho preso da un po’ di tempo». 

(…)

Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” - Estratti venerdì 10 novembre 2023.

L’abbraccio richiesto sarebbe stato troppo. Ma una vigorosa stretta di mano a favore di telecamera sì, come vecchi nemici di una certa età e di un certo pudore che per l’ennesima volta decidono di provare a far pace. A 35 anni dall’ultima sfida su strada e a 232 giorni da un duello verbale (sul Corriere della Sera ) di durezza che pareva definitiva, ieri sera Francesco Moser e Beppe Saronni si sono rivisti nel salotto Rai di Radio Corsa , grazie al giornalista Beppe Conti. 

Eravamo rimasti al «Moser vinse grazie ai medici. Io lo battevo anche nei confronti in tv: se ne faccia una ragione» del lombardo cui il trentino rispose con un perentorio: «Saronni? Non voglio più vederlo. Le sue dichiarazioni mi sono rimaste sullo stomaco». 

L’accordo preliminare era grossomodo questo: vediamoci, parliamo di tutto, tranne che del contributo all’eterna giovinezza sportiva di «Moserone» del celebre professor Conconi. Saronni parte con una confessione: «Avevo la lingua lunga, ero giovane, dicevo apposta cose cattive per innervosirlo. Era una tattica, tutto faceva gioco per poterlo battere». Moser abbozza: «Certo che mi innervosivo, specie quando diceva cose non vere. Tipo quella volta che mi accusò di non saper guidare la bici. Mi arrabbiai così tanto che ai campionati italiani lo stracciai. Parla lui, poi, che nell’unica Roubaix che ha disputato per poco non finiva sotto una macchina».

Pane per i denti del perfidamente elegante Saronni, che come Moser, ha vinto tra l’altro Giro, Sanremo e Mondiale.

«Io — spiega il lombardo — dico cose vere e documentabili. Tipo che Francesco vinse un Giro d’Italia disegnato per lui, con 140 km a cronometro e salite non trascendentali.

Questa è storia». Moser comincia a irrigidirsi: «I chilometri a cronometro saranno stati 80-90 e in quanto a montagne c’era lo Stelvio». Beppe non aspettava altro («Lo Stelvio c’era, tocca vedere chi saliva in cima in bicicletta e chi no»), Checco lo blocca subito: «Di questo avevamo detto che di non parlare».

(...)

Giuseppe Saronni.

Giuseppe Saronni: «Moser vinse grazie ai medici. Io lo battevo anche nei confronti in tv: dovrebbe farsene una ragione». Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 22 Marzo 2023

«Non è vero che ho vinto solo 3-4 anni, ma venti corse l’anno per sei stagioni di fila. Quanto alla sua seconda giovinezza... Moser ha sfruttato certe metodologie che il famoso professor Conconi offriva solo a lui. Però gli compro il vino: non mi fa sconti»

A trentacinque anni dalla loro sfida finale (la cronometro Firenze-Pistoia del 24 ottobre 1987), Beppe Saronni sente ancora sul collo il fiato e gli improperi dell’acerrimo rivale Francesco Moser, 71 anni, il più anziano dei due giganti del ciclismo italiano moderno. Moser ha una nuova fidanzata dopo il divorzio, un figlio celebre influencer e Belén come ospite fissa nel suo maso di montagna. Saronni che ha 65 anni e la stessa moglie da 45, si gode la pensione in Brianza e le cene tra vecchie glorie.

Saronni, Moser ha detto al «Corriere» che tra voi era scontro continuo, in corsa e fuori: impossibile andare d’accordo con uno che si sentiva superiore perché veniva dalla città.

«Lui evoca sempre il confronto tra un montanaro trentino con dieci fratelli che zappava la terra e un borghese di Milano. Peccato che io sia cresciuto a Buscate, nella campagna lombarda. Papà Romano era autista di bus di linea, mamma Giuseppina casalinga: eravamo quattro fratelli, si campava con un solo stipendio».

Lei pedalava e lavorava.

«Sì, per portare qualche soldo a casa: tre allenamenti a settimana, tre giorni di lavoro in fabbrica alla Olivetti e poi la gara alla domenica. Aggiustavo macchine da scrivere e imparavo a montare e smontare le Logos, le calcolatrici da cui vennero sviluppati i primi computer».

Perché il ciclismo?

«Per via di mio nonno materno Tito Brambilla, classe 1897, gregario di Libero Ferrario, il primo italiano a diventare campione del Mondo nel 1923 a Zurigo, ai tempi eroici di Binda e Guerra. Era un corridore indipendente, gregario a gettone come usava all’epoca. E poi per merito di mio padre, buon ciclista dilettante. Anche da mia madre ho ereditato qualcosa: giocava a basket in serie A nella Bernocchi Legnano, una delle prime squadre femminili italiane. Reclutavano atlete tra le apprendiste delle loro filande».

Da ragazzino lei era considerato un talento assoluto.

«Tra i 13 e i 17 anni ho vinto quasi 150 corse, tra pista strada e cross. I premi erano tubolari, pantaloncini di lana o caschetti di cuoio. Preziosi perché si usuravano facilmente. Grazie ai premi non dovevo chiedere ai miei genitori i soldi per comprarli. Dopo l’oro agli Europei di velocità, ho partecipato alle Olimpiadi di Montreal. A 19 anni, nel 1977, mi hanno autorizzato a passare direttamente professionista: era rarissimo».

Che ciclismo era, il suo?

«Ruspante e favoloso. Un gruppo di industriali italiani investiva su squadre e corridori contendendoseli a suon di milioni: c’erano i Del Tongo dei mobili, il Teofilo Sanson dei gelati, i Bagnoli della Sammontana, i Fornari della Scic Cucine, Belloni della Termozeta e Rancilio delle macchine da caffè. Erano appassionati, entusiasti e competenti, sempre presenti alle corse. Oggi le squadre, nel ciclismo come nel calcio, sono proprietà di fondi di investimento».

Cos’è cambiato?

«I costi del ciclismo si sono gonfiati. Dai piccoli industriali appassionati si è passati ai gruppi assicurativi e automobilistici e adesso addirittura agli Stati sovrani come Bahrain ed Emirati Arabi. Per allestire una squadra di alto livello servono almeno trenta milioni a stagione, in Italia si fatica a trovarne tre».

Perché Moser la soffre ancora così tanto?

«Ho sei anni meno di lui, sono arrivato nel professionismo quando Francesco era un Dio acclamato dalle folle e dai giornalisti. Il ciclismo era lui. Ho cominciato a batterlo presto e in più avevo la battuta pronta e la lingua affilata, al contrario di Moser, goffo e lento nell’esprimersi. Nel confronto televisivo perdeva sempre e non gli è mai andato giù. Dovrebbe farsene una ragione».

Ancora Moser: «Saronni ha avuto solo tre o quattro anni forti, forse troppo per il suo fisico. Infatti d’un tratto ha smesso. Io nel 1984 a Città del Messico feci il Record dell’Ora e vinsi Milano-Sanremo e Giro d’Italia».

«A dire il vero io ho vinto venti corse l’anno per sei stagioni di fila, non tre o quattro. E preferirei non parlare della famosa seconda giovinezza di Moser...».

Parliamone, invece.

«A fine carriera Francesco è stato il primo e in quel momento l’unico a far ricorso a una certa scienza, di cui disponeva in modo esclusivo. La bici con cui ha battuto il Record dell’Ora era un siluro che pochi anni dopo venne vietato perché dava vantaggi enormi. Per tacere del resto».

Se si riferisce a pratiche mediche come la trasfusione di sangue che oggi sono doping, all’epoca erano consentite.

«Sì, lo so. Ma ha sfruttato certe metodologie che il famoso professor Conconi offriva solo a lui: io e gli altri i suoi vantaggi li abbiamo subiti. Nel 1983 quando vinsi il Giro mi disse che era troppo vecchio e si sarebbe ritirato. Poi ha accettato il progetto del Record con innovazioni che non si sono rivelate sempre positive».

Perché?

«Sulla base di alcune di quelle innovazioni il ciclismo negli anni successivi ha avuto un sacco di problemi. Ma lui non aveva nulla da perdere e le ha sfruttate quando erano legali».

Moser: «A 71 anni amo un’ex ciclista. Belen? Ormai siamo parenti»

Potendo, lei avrebbe fatto le trasfusioni?

«Non posso rispondere a posteriori. Oggi potrei dire di no, magari allora avrei detto di sì, ma resta il fatto che lui era l’unico a usufruirne. Moser aveva il monopolio, è stato un po’ una cavia».

Lei invece si ritirò a 32 anni.

«Mi sono accontentato di una giovinezza sola dopo aver vinto due Giri d’Italia, un Mondiale, una Sanremo, un Giro di Lombardia e altre 120 corse. E i due Giri li ho vinti con le mie forze».

Moser, invece?

«Ha conquistato quello del 1984, disegnato per lui e dove la tappa dello Stelvio che gli sarebbe stata fatale venne cancellata per presunto maltempo. Superò il povero Fignon nella cronometro finale con una bici a ruote lenticolari che nessun’altro poteva permettersi. È stato bravo, ma queste cose vanno dette».

Anche i due Giri che lei ha vinto non erano proprio da scalatori.

«Infatti erano disegnati per Francesco che ho battuto sia nel 1979 che nel 1983 andando più forte di lui in salita e a cronometro. Ho vinto contro di lui e contro i suoi tifosi».

I famosi tifosi moseriani...

«Che in salita organizzavano catene umane per spingerlo quando arrancava e la notte si mettevano a fare schiamazzi sotto le camere d’albergo dove dormivo per non farmi dormire. Sa cosa mi fa impazzire?».

Cosa?

«Che nemmeno oggi, a 40 anni di distanza, Moser ammetta quanto io venissi molestato dai suoi tifosi e in che modo scorretto lo aiutavano. Ogni volta cambia discorso».

Quindi, più che di estrazione contadina e borghese, eravate di carattere completamente opposto.

«Sì. Ci beccavamo su tutto. Moser aveva un carattere impossibile anche con i suoi gregari che ancora adesso sono troppo educati per raccontare quanto venivano sfruttati e bastonati se non si sfiancavano per lui. Ma la gratitudine non è mai stata il suo forte. Le racconto una cosa».

Prego.

«Francesco ha vinto il suo Mondiale a San Cristobal, in Venezuela, nel 1977. In quella corsa io che ero passato professionista da poco mi sacrificai per lui, come mi aveva chiesto il grande Alfredo Martini che dirigeva la nazionale. Pochi giorni dopo, al Giro del Lazio, eravamo in fuga io, lui e Felice Gimondi. Pensate mi abbia ricambiato il favore? No, pensò solo a vincere».

Ci sarà una qualità che gli riconosce.

«Una forza di volontà e una caparbietà mostruose. Io avevo più talento di lui ma vincevo solo quando ero in forma. Lui quando voleva».

Moser ha vinto tre Parigi-Roubaix, lei sul pavè non si è mai affacciato.

«Non gliele invidio, la Roubaix non l’avrei mai vinta perché il percorso non era adatto a me. I miei rimpianti sono diversi, ad esempio non aver mai corso il Giro delle Fiandre, che avrei potuto vincere, e aver trascurato il Tour de France dove potevo prendermi un bel po’ di tappe. Ma all’epoca i nostri sponsor erano italiani e volevano che corressimo in Italia».

Con Moser vi sentite?

«Spesso. Parla sempre solo lui, però: quando parte con i suoi discorsi è difficile interromperlo e comunque rischieremmo di litigare. Ci vediamo alle cerimonie e io compro regolarmente il suo vino che è davvero buono. Non guardo mai le fatture, ma non credo mi faccia sconti nemmeno lì».

C’è qualcosa su cui andate d’accordo?

«Nel giudicare lo stato del ciclismo italiano, che è davvero critico».

Perché?

«Per mille motivi: mancano gli sponsor, mancano i maestri, le strade sono così pericolose che i genitori non mandano i bambini ad allenarsi. E poi conta l’assenza di campioni che ispirino i giovanissimi».

Lei, quando era team manager alla Uae, ha scoperto il più luminoso di tutti, Tadej Pogacar, vincitore di due Tour .

«Difficile non notare un fenomeno del genere. Ma io preferirei soffermarmi sulla Slovenia, il Paese da cui Tadej viene. Due milioni di abitanti, fuoriclasse in tanti sport diversi, dal ciclismo allo sci al calcio al basket, una cultura straordinaria dell’educazione fisica a livello scolastico. I campioni non si costruiscono dal nulla, in Italia siamo messi male a cominciare dalla scuola».

Ci saranno un nuovo Moser e un nuovo Saronni?

«Non credo proprio e di sicuro non esisterà mai più una rivalità del genere. Con tutti i suoi eccessi e con i nostri caratteracci, sono stati anni meravigliosi: decine di migliaia di persone che stavano a bordo strada ad aspettare ore per tifare per te e contro di te, magari litigando tra loro ma innamorati persi dello sport».

Claudio Chiappucci.

Estratto dell'articolo di Francesco Ceniti per la Gazzetta dello Sport il 5 marzo 2023.

 “Arriba arriba el Diablo...”. Alla fine del 1990 nelle radio italiane irrompe come un tuono il brano dei Litfiba: diventa subito un successo. Più o meno nello stesso periodo sulle strade del Belpaese impazza un altro Diavolo: Claudio Chiappucci è il lampo che il 23 marzo 1991 illumina la Milano-Sanremo. Oggi il ciclista osannato dai tifosi con “quella faccia un po’ così” e un soprannome infernale, conquistato grazie alle mille scorribande in salita, taglia il traguardo dei 60 anni. Lo fa prima del suo storico rivale Gianni Bugno (ci arriverà il 14 febbraio 2024) e con una “tappa” speciale: New York.

 «Mi piaceva accendere le gare.

 Più di qualcosa... Il suo podio dei trionfi più belli?

«Al primo posto la Sanremo: classica Monumento mica pizza e fichi... Vinta dopo una fuga di 140 chilometri, eliminando gli avversari uno a uno. Poi mi sono goduto il boato della folla. Bellissimo... Ma ora che ci penso...».

Prego...

«C’è pure il successo della tappa al Tour 1992, quella con arrivo al Sestriere... Va a pari merito con la Sanremo: avevo la maglia a pois (leader della classifica scalatori, ndr) e mi sono sciroppato 200 chilometri da solo. Nella salita finale dalla fatica non sentivo più le gambe, ma i tifosi urlavano il mio nome e allora mi alzavo sui pedali e continuavo a scattare...».

Al terzo posto?

«La vittoria a Corvara al Giro 1993: altra giornata di fatica, cuore e una battaglia infinita».

Rovescio della medaglia: podio dei rimpianti...

«Ahia, preferivo l’altro... Comunque, il Mondiale 1994 in Italia è il buco nero: ero il più forte, dovevo vincere io. Sarebbe servito un gioco di squadra diverso quando partì Leblanc. Se Massimo Ghirotto (4° all’arrivo, ndr) avesse corso meglio... Quell’argento resta la sconfitta più bruciante, quante lacrime versate».

 E il Tour 1990?

«Ero maglia gialla fino alla penultima tappa, ma potevo poco contro Greg LeMond a crono. In quegli anni gli scalatori erano sfavoriti dai percorsi pensati per i vari LeMond e Indurain».

E il Giro? Tanti podi e neppure una maglia rosa...

«Ho trovato sempre avversari in stato di grazia. Come nel 1991 quando Franco Chioccioli dettava legge su ogni terreno».

 L’anno prima aveva dominato Gianni Bugno: la vostra è stata una rivalità tipo Moser e Saronni.

«Ci siamo divertiti e abbiamo fatto divertire. Gianni era un fuoriclasse. Ci sentiamo spesso, nel tempo siamo diventati amici. Lui ha vinto molto più di me, ma forse io avevo più tifosi. E comunque pure lui è stato penalizzato dalle crono lunghe, altrimenti un Tour lo avrebbe portato a casa».

L’Italia dopo il ritiro di Nibali non ha più uomini da grandi Giri.

«Siamo in un momento di crisi. Il motivo? Serve accelerare il passaggio al professionismo, inutile correre fino a 23 anni nei dilettanti. Uno schema simile andava bene ai miei tempi».

 Pogacar, Evenepoel, Van Aert, Van der Poel, Vingegaard: c’è l’imbarazzo della scelta. Lei chi preferisce?

«Direi Pogacar ed Evenepoel: campioni universali».

 Nella “sua” Carrera ha tenuto a battesimo un certo Marco Pantani...

«Già nel 1993, dopo le prime pedalate in allenamento, avevamo capito le potenzialità: era nato per vincere, quando stava bene nessuno in salita reggeva il suo ritmo. Nel 1994 è esploso al Giro: ero il capitano, ma gli ho lasciato spazio. Andava protetto e invece dopo il 1999 c’era la corsa a sparargli addosso...».

Ma Chiappucci da ragazzo voleva fare il ciclista?

«No, il calciatore. Giocavo molto bene in attacco, poi l’allenatore mi spostò in difesa. A 14 anni passai al ciclismo. Si può attaccare alla grande anche pedalando...». 

Lieuwe Westra.

Lieuwe Westra morto a 40 anni: aiutò Nibali a vincere il Tour de France 2014. Storia di Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 15 Gennaio 2023.

Grave lutto nel mondo del ciclismo. Sabato pomeriggio è stato trovato morto nel suo negozio, a soli 40 anni, Lieuwe Westra, ex corridore olandese. Soffriva da anni di depressione. Nel corso della carriera, Westra ha difeso i colori dell’Astana, con cui ha conquistato tappe alla Parigi-Nizza, al Giro di Catalogna e al Delfinato, oltre che due campionati dei Paesi Bassi a cronometro. Nel 2014 è stato al fianco di Vincenzo Nibali nel trionfo del siciliano al Tour de France. Westra, che ha corso anche per la Vacansoleil, aveva chiuso la carriera nel 2017 con la squadra belga Wanty-Gobert.

Il suo biografo Thomas Sijtsma — nel libro pubblicato nel 2018 l’atleta ammise di avere usato il cortisone in carriera come sostanza dopante: «me lo iniettavo per poter correre più veloce: si cercano i confini dell’accettabile per competere con i grandi» — ha annunciato su Twitter: «Lieuwe Westra è morto sabato pomeriggio. Negli ultimi anni l’ex ciclista ha combattuto una battaglia contro sé stesso e ha perso. Riposa in pace, Bestia». Ed escludendo, comunque, in un secondo tweet, che possa trattarsi di suicidio.

Classe 1982, il ciclista olandese divenne professionista nel 2009 proprio con la Vacansoleil vincendo subito il Tour de Picardie. Nel 2012 il primo successo a livello di World Tour con una tappa alla Parigi-Nizza e, soprattutto, il secondo posto in classifica generale alle spalle di Bradley Wiggins. Nello stesso anno il successo al Giro di Danimarca e il primo dei suoi titoli nazionali a cronometro. Nel 2017 lo stop improvviso alla carriera adducendo motivazioni personali. Nell’autunno precedente «aveva ammesso di soffrire di depressione, in parte per una relazione finita, mentre non si sentiva sicuro di proseguire come professionista», scrive l’agenzia di stampa olandese Anp.

Learco Guerra.

Learco Guerra, la prima maglia rosa: una locomotiva su due ruote. Il lavoro da muratore, l’ingresso quasi fortuito nel mondo del ciclismo, la rivalità con Binda: (breve) storia di un atleta appassionante. Paolo Lazzari su Il Giornale il 26 dicembre 2022.

La bici la usa solo per andare al lavoro. Il lembo di strada che congiunge casa sua al cantiere è un dedalo di soffici pendenze e liberatorie pianure. E lui, che di nome fa Learco, si diverte un mucchio ad affondare sui pedali. Anche perché è lo sfogo ideale per quella muraglia di muscoli che gli fasciano le ossa. Non è che si alleni: ci è proprio nato, possente. Sfreccia come un pazzo lungo i declivi di campagna e i sinuosi vicoli cittadini. Paura non ne ha. Come fai a patire la sudditanza di quei brividi che ti si infilano tra le scapole, quando di cognome fai Guerra?

Viene su, questo ragazzo che pare possedere i tratti e l’appellativo di un qualche eroe omerico, quando il secolo tira la tendina del sipario. Nel 1902. Però per capire che la bici deve essere inscritta nel suo destino ci vuole un bel po’. A ventisette anni lavora ancora con il padre: tira su muri, ripara tetti, stucca fenditure e gratta via intonaci. Più che onesto, ma non esattamente quel che si addice ad un campione. La bici è un dilettevole passatempo. Nulla più.

Ci vuole allora che un suo amico la combini grossa. Un giorno questo sodale si presenta al cantiere e gli porta due cose: una bici da corsa nuova ed una maglia della Maino, uno dei team più forti dell’epoca. Gli dice anche che, così agghindato, potrà tranquillamente presentarsi al via della Milano - Sanremo, perché è stato preso in squadra. Si tratta di una monumentale bugia bianca, ma cambierà per sempre il verso della personalissima vicenda di Learco.

Lui in effetti ci va e corre, da perfetto - e inconsapevole - clandestino. Corre esattamente come quando è in ritardo per andare al lavoro. Pesta sui pedali con tribale attitudine, mista ad una passione che entusiasma fin da subito le ali di folla che si radunano ai bordi della strada. Appare chiaro fin da subito che lui è uno di quei tizi che ci mettono il cuore, e forse anche qualcosa di più. Non vince, perché le favole sono premute nei libri per bambini, ma si difende più che dignitosamente. Anche se il primo lo stacca di parecchio. Learco lo contempla con ammirazione mentre quello stappa una bottiglia di spumante dopo la traversata su due ruote. Si chiama Alfredo Binda. Entrambi ancora non possono saperlo, ma diverranno acerrimi rivali.

Altra spintina: i capoccia della Maino vengono a sapere dello scherzetto che gli hanno rifilato. Prima la prendono parecchio male. Chi è questo Guerra che si permette di correre con i nostri colori? Sbottano. Poi però, sbollita la rabbia, elaborano. E il risultato è palese: questo è una che ha carattere. Questo ha pedalato come se ne andasse della vita di tutta la sua famiglia. Uno del genere è meglio averlo in squadra.

Così - adesso che scoccano gli anni Trenta - Learco è finalmente un ciclista professionista. Viene fuori in fretta che lui il cronometro lo sbriciola. Inoltre è dannatamente abile negli sprint e in montagna si difende a colpi di sciabola. Entra al Giro d’Italia sgomitando. Vince due tappe e il flirt con la gente divampa ulteriormente. Guerra piace perché regola la sua corsa sulla manopola dei sentimenti. Non calcola, no. Non si sofferma a rimuginare sul fatto che se sprinta troppo presto poi darà fondo a tutte le sue energie e addio successo. Le decisioni sono tutte preda del suo muscolo cardiaco.

Ed è al Giro che, apprezzandone la cadenza costante e inarrestabile, un giornalista de La Gazzetta dello Sport lo battezza “locomotiva umana”. Un soprannome che lo identifica e che, una volta affibbiato, gli aderisce per il resto della carriera. Che prosegue incenerendo le tappe. In Francia, al tour, battaglia aspramente con Pellissier e indossa per due volte la maglia gialla. Ma il confronto totale è quello con Binda, rivale antipodico e letale, tutto calcoli e raziocinio.

Nel 1931, però, Guerra strappa un formidabile primato. La Gazzetta, che organizza la corsa, ha appena deciso che il leader deve indossare un segno distintivo inequivocabile. Una maglia di colore differente da tutti gli altri. Rosa, come il colore del giornale che raccontava l’epica disfida. Il 10 maggio è lui il primo ciclista della storia a infilarla. Ora anche Binda, che pure ha vinto tutto quel che si poteva umanamente sollevare, comincia ad avvertire un sudore freddo. Mentre sfoglia le pagine del giornale sportivo deve pensare, sarebbe legittimo, che quello è un animale pronto ad addentare il suo primato.

In quello stesso anno Alfredo prevale su Learco alla Milano - Sanremo, ma i ruoli si ribaltano ai mondiali di Copenaghen. Nel ’33 Guerra vince finalmente al traguardo nella città dei fiori, al prezzo di un duello incandescente e sfinente con l’indomabile rivale. Replica Binda: Giro nelle sue mani. Risponde il nostro: lo vince nel 1934.

Un confronto che prosegue per l’intera durata delle loro carriere. L’aristocratica eleganza del primo contro la popolare esplosività del secondo. Ogni eroe, del resto, ha bisogno di un antagonista di pari lignaggio per essere definito tale. Guerra trionferà ancora e ancora. Mai saturo, mai arrivato. L’amore lucido delle persone è forse il successo migliore di una carriera tardiva. Il recupero in sella del tempo perduto è tuttavia fenomenale. In fondo non devi andare in bici al lavoro, quando la bici è il tuo lavoro.

Le Croci.

Gli Abusi.

Kristian Ghedina.

Alberto Tomba.

Elena Fanchini.

Mikaela Shiffrin.

Sofia Goggia.

Le Croci.

Il CAI e il dibattito surreale sulle croci in Montagna: come nasce una fake news.  Enrica Perucchietti su L'Indipendente il 29 Giugno 2023

«Possibile che direttori di giornale, redattori, cronisti non verifichino in modo oggettivo ciò che si è detto in quell’occasione?» è la domanda che si è posta l’autrice Ines Millesimi sul brutto pasticcio dei media che si sono inventati di sana pianta la notizia della fantomatica proposta del CAI di togliere le croci ad alta quota, dalle vette delle montagne.

Se è pur vero che in estate, quando nelle redazioni scarseggiano le notizie, si tende a raschiare il fondo del barile e a spettacolarizzare anche casi poco rilevanti, qui ci troviamo di fronte a un episodio da manuale che potremmo ribattezzare: “come ci si inventa una fake news sulla base del nulla”. Pensiamo per esempio al Corriere che ha titolato: “Svolta del Cai: «Basta nuove croci sulle vette delle montagne: anacronistiche, non rappresentano tutti gli scalatori»”. E tutti dietro, per non bucarsi la notizia. È stato, infatti, un vero e proprio telefono senza fili quello che ha portato, sulla base di una bufala, a creare uno scandalo, con tanto di indignazione collettiva, strumentalizzazione politica e coinvolgimento ministeriale.

Per spiegare come sia nato il tutto, bisogna fare un passo indietro. Il cortocircuito mediatico ha avuto origine durante la presentazione del libro Croci di vetta in Appennino presso l’Università Cattolica di Milano, alla presenza dell’autrice Ines Millesimi. Durante l’evento, si è discusso in modo generico della questione delle croci di vetta, ma nessuno ha mai avanzato l’ipotesi di rimuoverle o di promuovere l’interculturalità attraverso tale azione.

Eppure, la notizia, sfacciatamente falsa, ha fatto rapidamente il giro d’Italia, alimentata dalle dichiarazioni indignate della destra. La ministra Daniela Santanchè – che avrebbe ben altro a cui pensare in questo periodo – si è dichiarata “basita” e ha condannato questa presunta decisione contraria ai princìpi del Paese. Il ministro Matteo Salvini ha bollato la proposta di vietare le croci in montagna “una sciocchezza, senza cuore e senza senso”. “Difendiamo i nostri valori, la nostra identità, le nostre radici”, ha fatto eco il ministro degli Esteri Antonio Tajani. 

Dopo meno di 24 ore di putiferio mediatico, il presidente del CAI, Antonio Montani, ha smentito categoricamente qualsiasi intenzione di cancellare le croci di vetta, arrivando a cospargersi il capo di cenere per aver potuto in qualche modo aver dato il via a questo putiferio mediatico. Montani ha chiarito che l’argomento non è mai stato trattato ufficialmente e che le dichiarazioni durante la presentazione del libro erano opinioni personali del direttore editoriale Marco Albino Ferrari. Montani ha quindi chiesto scusa per l’equivoco generato e ha rassicurato sul fatto che il Ministero sarebbe sempre stato coinvolto in questioni di tale portata. 

Millesimi ha invece evidenziato come i media avessero preso un abbaglio e riportato semmai il senso contrario degli interventi: «Anzi, il messaggio generale di tutti i relatori è stato ben altro rispetto al togliere croci. In vario modo, infatti, abbiamo parlato di un nuovo corso per la loro manutenzione e sull’opportunità e il senso di inserirne di nuove in luoghi già eccessivamente antropizzati».

Ma la questione non si ferma qui. FQMagazine ha intervistato i partecipanti all’evento e ha scoperto che nemmeno Marco Albino Ferrari ha mai avanzato l’ipotesi di cancellazione delle croci di vetta. “Ma scherziamo? Non l’ho mai detto”, ha precisato Ferrari. Anzi, la sua posizione riguardava il valore storico-culturale delle croci e l’importanza di preservarle, contrariamente a quanto è stato invece distorto dai media. 

Pare che la fake news sia nata dalla ripresa di un articolo del 13 giugno 2023 sul portale del CAI Lo Scarpone. Nell’articolo, intitolato “Croci di vetta: sbagliato rimuoverle, anacronistico installarne di nuove”, a firma di Pietro Lacasella, in un passaggio leggiamo: “Ma la società attuale si può ancora rispecchiare nel simbolo della croce? Ha ancora senso innalzarne di nuove? Probabilmente la risposta è no. Innanzitutto, perché l’Italia si sta rapidamente convertendo in uno Stato a trazione laica, territori montani compresi. Pertanto, la croce non rappresenta più una prospettiva comune, bensì una visione parziale”. Da questo passaggio – in cui si basi bene, nessuno vuole rimuovere: le croci, semmai evitare, in futuro, di innalzarne di nuove sulle cime delle montagne – potrebbe essere nato il colpo di sole che ha tramortito i nostri organi di stampa e mandato in tilt, per un paio di giorni, anche alcuni “pasionari” del governo in cerca di battaglie da combattere. [di Enrica Perucchietti]

Estratto dell'articolo di Claudia Guasco per “il Messaggero” il 26 giugno 2023.

La questione è annosa, ogni tanto riaffiora e suscita sempre un polverone anche tra i membri del Club alpino italiano, […] Le croci in vetta. Sono 372 sulle Alpi, […] più di settanta sugli Appennini, alcune sono gigantesche: […] Da decenni gli ambientalisti denunciano: «Insidiano l'integrità naturale dei crinali». 

Qualche giorno fa Marco Albino Ferrari, da otto mesi direttore editoriale delle testate del Cai, ha rilanciato: «È anacronistico l'innalzamento di nuove croci». Un'esternazione tracimata in valanga di polemiche politiche - «atto arrogante, ideologismo talebano» - e chiusa con tante scuse e presa di distanza dai vertici del Club alpino.

 Tutto comincia da un convengo sul tema, svoltosi giovedì scorso all'Università Cattolica di Milano con successivo editoriale dell'antropologo Pietro Lacasella, curatore della testata online dell'associazione "Lo Scarpone". «La società attuale si può ancora rispecchiare nel simbolo della croce? Ha ancora senso innalzarne di nuove? Probabilmente la risposta è no. Innanzitutto perché l'Italia si sta rapidamente convertendo in uno Stato a trazione laica, territori montani compresi. Pertanto la croce non rappresenta più una prospettiva comune, bensì una visione parziale», […]

 «se da un lato sono inappropriate le campagne di rimozione, perché porterebbero alla cancellazione di una traccia del nostro percorso culturale», dall'altro si rivela «anacronistico l'innalzamento di nuove croci e, più in generale, di ingombranti simboli sulle cime alpine: sarebbe forse più pertinente intendere le vette come un territorio neutro, capace di avvicinare culture magari distanti, ma dotate di uguale dignità». […]

«Non abbiamo mai trattato l'argomento delle croci in vetta in alcuna sede, tantomeno prendendone una posizione ufficiale. Sono dichiarazioni personali espresse dal direttore editoriale Marco Albino Ferrari durante la presentazione di un libro», corregge la rotta il presidente del Cai Antonio Montani. «[…] 

Ma nel frattempo si è scatenata la bufera. «Resto basita dalla decisione del Cai di togliere le croci senza aver comunicato nulla al Ministero. Non avrei mai accettato una simile decisione che va contro i nostri principi, la nostra cultura, l'identità del territorio», dichiara il ministro del Turismo, Daniela Santanchè. «Dovrete passare sul mio corpo per togliere un solo crocifisso da una vetta alpina», rincara il responsabile delle Infrastrutture Matteo Salvini, rallegrandosi poi per la «scelta di buonsenso del dietrofront dopo il nostro appello».

E il ministro degli Esteri Antonio Tajani twetta: «Esiste un minimo comune denominatore che lega l'Europa ed è il cristianesimo. Difendiamo i nostri valori, le nostre radici». […]

Evviva le croci in montagna. Andrea Soglio su Panorama il 26 Giugno 2023.

La polemica scoppiata ieri sullo stop al simbolo delle nostre vette perché «divisivo» mostra ancora una volta il lato debole della nostra cultura dell'accoglienza a tutti i costi, tradimento compreso

«Stop alle croci sulle vette delle montagne, sono anacronistiche e divisive». Presi come eravamo dal cercare di capire cosa stesse succedendo in Russia ci siamo persi una frase che ha creato polemiche nel mondo della montagna, per poi scendere a valle e finire in fretta tra i palazzi della politica. Riassunto dei fatti. Il direttore editoriale del Cai Marco Albino Ferrari durante un convegno organizzato all'Università Cattolica di Milano, in occasione della presentazione di un libro ha detto “non saranno istallate nuove croci sulle montagne, sono divisive…». Concetto ripetuto anche nell’editoriale del Club Alpino Italiano sulla rivista ’Lo Scarpone'. Il portale del club aveva evidenziato la larga concordanza emersa nel convegno "sulla necessità di lasciare integre le croci esistenti, perché testimonianze significative di uno spaccato culturale, e allo stesso tempo di evitare l'istallazione di nuovi simboli sulle cime". L'editoriale parlava di una tesi "condivisa pienamente dal Cai" e aggiunge: nessuno intende rimuovere le croci che già ci sono, ma è "il presente caratterizzato da un dialogo interculturale che va ampliandosi e da nuove esigenze paesaggistico-ambientali, a indurre il Cai a disapprovare la collocazione di nuove croci e simboli sulle nostre montagne”. Inutile dire che la frase, l’attacco alla croce cristiana, arrivava in fretta alle segreterie dei partiti di centrodestra che insorgevano ed in poche ore costringevano il presidente del Cai alle scuse, ai chiarimenti, al passo indietro. Resta un tema di fondo, anzi, un errore di fondo: la croce in montagna è molto più di un simbolo religioso; è un simbolo di un modo di vivere la montagna.

Quella croce è spesso il punto di arrivo, è ciò a cui punta l’occhio nel salire, è qualcosa in grado di farti superare l’inevitabile senso di fatica. La croce è un aiuto: toccarla appoggiarsi, fotografarla una volta arrivati non ha nulla a che fare con la fede religiosa, ma ha tutto a che fare con la Fede per la montagna. Il solo pensare di metterle in discussione, il solo dire “non ne faremo di nuove” però, con tutte le buone intenzioni del caso, mostra ancora una volta quel malessere profondo della nostra cultura e delle nostre tradizioni che emerge da qualche anno a questa parte in nome di una non meglio precisata “accoglienza”. Siamo forse l’unico paese che ha paura di se stesso, delle sue basi (appunto culturali e si, anche religiose, pur se non è questo il caso). Una croce non è divisiva, un presepe non discrimina; in Italia la libertà di religione esiste, la libertà di espressione altrettanto. Non c’è bisogno di nasconderci, di vergognarci della nostra storia, di quello che siamo. Bisogna invece andare avanti, a testa alta, fieri nel nostro camminare come l’alpino fa, zaino in spalla, inciampando, sudando, rischiando ma certo che a quella croce si arriverà. Si, ma solo andando in avanti, mai all’indietro.

La polemica del giorno. “Dovrete passare sul mio cadavere per togliere una sola croce di vetta”: ma nessuno le voleva rimuovere. Le dichiarazioni di un membro del CAI travisate e strumentalizzate. Quella sui crocifissi ad alta quota è soltanto l'ultima e quotidiana polemica cavalcata dal governo. Redazione Web su Il Riformista il 26 Giugno 2023 

Una polemica al giorno, puntuale. Sempre qualcosa di politicamente peloso, ideologico, meglio ancora se in grado di togliere spazio ad altri temi più scomodi e spinosi per la maggioranza di governo. Il simbolo dei simboli: la croce di Gesù Cristo è al centro dell’ultimo scandalo, un’indignazione senza fine per il centrodestra. E solo perché il direttore editoriale del Cai Marco Albino Ferrari ha proposto: “Non saranno installate nuove croci sulle montagne”. Che non voleva dire: togliamo tutte le croci di vetta dalle vette appunto. E neanche un giudizio di merito sul gesto e l’omaggio. Niente da fare. Il caso è diventato: vogliono togliere tutte le croci dalle vette. Apriti cielo.

A scagliarsi tra i primi nell’ultimissima agone Daniela Santanché, ministra del Turismo. “Inaccettabile la decisione del Cai. Un territorio si tutela fin dalle sue identità e l’identità delle nostre comunità è fatta anche di simboli”, ha twittato la ministra. Il vice primo ministro e ministro della Infrastrutture e segretario della Lega Matteo Salvini aveva postato la foto di un articolo e ha scritto: “Penso che la proposta di ‘vietare’ il Crocifisso in montagna perché ‘divisivo e anacronistico’ sia una sciocchezza, senza cuore e senza senso, che nega la nostra Storia, la nostra cultura, il nostro passato e il nostro futuro”. Il ministro della Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo: “Il dibattito sulle croci in cima alle vette, ritenute ‘anacronistiche e divisive’, mi lascia attonito”.

Lo scrittore e direttore editoriale e responsabile delle attività culturali del Club Alpino Italiano (CAI) Marco Albino Ferrari era intervenuto alla presentazione di un libro e aveva immaginato l’opportunità di non installare nuove croci in cima alle montagne. Non ha mai parlato di staccare le croci presenti. Le sue considerazioni erano state raccolte in un articolo sul portale del CAI, Lo Scarpone. Il pezzo era stato ripreso con pezzi un po’ equivoci se non maliziosi. Il CAI alla fine è intervenuto per dissociarsi dalle opinioni di Ferrari che comunque non si esprimevano sulle croci esistenti. Millesimi ha aggiunto che è il CAI stesso a occuparsi della manutenzione delle stesse croci. All’incontro era presente il sacerdote Melchor Sánchez de Toca y Alameda, sottosegretario del dicastero per la Cultura e l’Educazione del Vaticano, che si era dichiarato d’accordo con l’idea di non aggiungere altre croci.

Le croci di vetta sono di legno, metallo o di pietra. Spiccano su cime e cucuzzoli di Alpi e Appennini. L’usanza di erigerle era cominciata alla fine del Settecento per celebrare e fissare l’impresa alpinistica e per dare una forma concreta alle preghiere. Della questione se ne parlava già agli esordi del Club Alpino Italiano alla fine dell’Ottocento. Il dibattito si è innescato da anni, da quando l’universalità dei simboli viene messa in discussione e da quando l’ambientalismo è ritornato a una nuova fase militante e molto attiva. La storica dell’arte Ines Millesimi ha dedicato al tema il libro Croci con vetta in Appennino (Ciampi Editore, 2022) che stava presentando proprio con Ferrari. La linea degli interventi era stata confermata in un articolo riassuntivo dell’incontro pubblicato su Lo Scarpone.

Il Presidente del CAI Antonio Montani è intervenuto per calmare gli animi. “Non abbiamo mai trattato l’argomento delle croci in vetta in alcuna sede, tantomeno prendendo una posizione ufficiale”, ha assicurato scusandosi personalmente con Santanchè “per l’equivoco”, nato da “dichiarazioni personali”. Niente da fare. Le reazioni già erano partite. Il deputato Mauro Malaguti ha sollecitato perfino le dimissioni, il governatore della Lombarda Attilio Fontana aveva attribuito l’uscita “ai primi caldi”. Salvini aveva riconosciuto la “scelta di buonsenso del CAI che, dopo il nostro appello, fa dietrofront sullo stop alle croci in cima alle montagne. Bene così!” anche se non c’era stata né una scelta né un dietrofront. Domenica a un congresso del Carroccio in Piemonte era arrivato a dire: “Dovrete passare sul mio corpo per togliere un solo crocifisso da una vetta alpina, senza se e senza ma”.

Redazione Web 26 Giugno 2023

Gli Abusi.

Alberto Marzocchi per  ilfattoquotidiano.it il 12 gennaio 2023.

E se il caso delle ginnaste non fosse isolato? Il numero uno del Coni, a domanda diretta de ilFattoQuotidiano.it, ha detto di essere “informato di tutto” e di avere “un indirizzo di posta elettronica dove arriva di tutto“. Anche su eventuali abusi commessi in altri sport, come lo sci. “Qualsiasi tipo di denuncia viene inviata ai giusti canali, poi è da verificare la veridicità dei fatti”. Il presidente del Coni Giovanni Malagò, a Milano, ha siglato un protocollo d’intesa col procuratore capo, Marcello Viola, e col procuratore generale dello sport, Ugo Taucer, grazie al quale si stabilisce uno scambio di informazioni tra la giustizia sportiva e quella ordinaria. Lo scopo, com’è stato annunciato, è migliorare il contrasto alle violenze commesse dai tesserati in ambito sportivo.

Dato che Malagò sostiene di essere “informato di tutto”, certamente sarà a conoscenza della vicenda – nonostante sia passata sottotraccia – degli abusi commessi da un istruttore nazionale di sci alpino nei confronti di due giovani future maestre durante lo svolgimento dei corsi professionali (in sostanza, gli istruttori, circa 300 in tutta Italia, sono i “maestri dei maestri”, cioè coloro che insegnano la professione a chi, finito il corso, lavorerà sulle piste da sci). L’istruttore, bresciano, 29 anni, è stato sospeso per un anno, lo scorso settembre, dalla Corte federale d’appello della Fisi (Federazione italiana sport invernali) ancorché la procura ne chiedesse la radiazione. Ora si è rivolto al Collegio di garanzia del Coni.

I fatti risalgono a ottobre-novembre del 2021. A Bormio e al Passo dello Stelvio, l’istruttore – si legge nel dispositivo della Corte presieduta da Daniele Portinaro – “prometteva l’eliminazione di inesistenti voti negativi” chiedendo “loro insistentemente prestazioni sessuali“; “rivolgeva frasi volgari e inopportune, toccandole fisicamente in modalità non connesse allo svolgimento del proprio compito”; il comportamento dell’incolpato “si è estrinsecato in espressioni volgari a sfondo sessuale, in atti di corteggiamento invasivo e insistito”, “in un bar si sarebbe strusciato” su una ragazza “e subito dopo l’avrebbe tirata per un braccio cercando di portarla verso di sé e solo grazie a una sua richiesta di aiuto a un amico riuscì a liberarsi dalla presa.

Nel corso della medesima serata, presso un altro bar” l’istruttore “era tornato alla carica e la costrinse, con la forza, a sedersi sulle sue gambe e tenendola per le braccia iniziò a leccarle il viso“. Anche in quella circostanza la ragazza chiese aiuto e grazie a una terza persona riuscì a divincolarsi. Per il Tribunale sportivo ha approfittato della differenza di età con le ragazze e “ha utilizzato il suo potere, derivante dall’essere istruttore del corso”. Così, come detto, ne ha decretato la sospensione per 12 mesi.

Il caso dell’istruttore nazionale è emblematico alla luce del protocollo firmato da Malagò e Viola. Le due ragazze coinvolte, infatti, non hanno presentato querela, ma si sono rivolte alla giustizia sportiva – si legge – “al solo fine di evitare che i comportamenti denunciati si potessero ripetere in danno di altre tesserate”. La Corte ha preferito non definire se la condotta dell’istruttore rientrasse nella violenza sessuale o nella molestia, perché ritenuto non rilevante ai fini della sanzione.

In ogni caso, sia la violenza (art. 609 c.p.) sia la molestia (art. 660 c.p.) sono procedibili soltanto dopo querela. Cosa cambia dopo che, per dirla con le parole della procuratrice aggiunta Letizia Mannella, “il codice rosso è entrato nel mondo dello sport“? Il protocollo, all’articolo 6, stabilisce che “il Procuratore Generale dello Sport, nel caso di autonoma acquisizione della notizia di reato posto in essere da tesserati, in aggiunta alla trasmissione della notizia per l’iscrizione nel relativo registro, chiede alla Procura della Repubblica il nulla osta all’istruzione del procedimento disciplinare”.

La nostra idea è che la violenza sessuale sia sempre collegata alla radiazione. È una sanzione coerente se si riconosce il ruolo di educatori delle persone coinvolte” è il commento di Daniela Simonetti, presidente di ChangeTheGame, l’organizzazione di volontariato impegnata a proteggere atlete e atleti da abusi sessuali, emotivi e fisici, e che ha raccolto oltre 200 denunce arrivate da ginnaste di tutta Italia. Simonetti ha anche promosso la sottoscrizione del protocollo: “Rappresenta un grande passo avanti verso il raggiungimento dell’obiettivo di offrire una più completa tutela ai minori e ai soggetti abusati nello sport”.

Kristian Ghedina.

Ristorante, Passat, scuola sci. Kristian Ghedina: "Sono un risparmiatore, l'uovo di Pasqua da bambino..." Vincitore di tre medaglie ai mondiali e di 13 gare in coppa del mondo, il campione ampezzano racconta a Il Giornale.it il suo rapporto con il denaro. Negli investimenti il richiamo del rischio scompare per lasciare spazio a misura e prudenza. Dino Bondavalli il 7 Agosto 2023 su Il Giornale.

In pista e nella vita ha sempre amato l’adrenalina e la velocità. Vincitore di tre medaglie ai mondiali e di 13 gare in coppa del mondo, Kristian Ghedina ha regalato enormi soddisfazioni allo sci italiano negli anni Novanta, scolpendo il proprio nome nella memoria di tutti gli appassionati come il miglior discesista italiano di sempre. Quando si tratta di risparmi e investimenti, racconta a Il Giornale.it, il richiamo del rischio scompare per lasciare spazio a misura e prudenza. Un’eredità degli insegnamenti di nonno Paolo e di papà Angelo, ancora più preziosa oggi che Kristian è diventato a sua volta padre di Natan, 2 anni, e Brayan, nato a fine marzo.

Nella sua carriera ha vinto molto e avrà guadagnato cifre importanti: lei è formica o cicala?

"Io ho sempre risparmiato, come una formichina. Non sono uno che ha bisogno di far vedere, anzi, non mi piace per niente ostentare. Ho risparmiato per la mentalità che mi è stata inculcata: mio nonno diceva che quando i soldi non ci sono è facile risparmiare, ma quando ci sono è difficile perché si è tentati di spenderli. D’altra parte sono sempre stato così fin da piccolo: pensi che, quando mi davano l’uovo di Pasqua, lo facevo a pezzetti che nascondevo da tutte le parti per far durare il cioccolato fino alla Pasqua successiva ed evitare che mia sorella se lo mangiasse."

Come ha investito i suoi guadagni?

"Da quando ho cominciato a vincere e a guadagnare i miei primi soldi, a vent’anni, mio padre mi ha sempre aiutato a gestire i rapporti con gli sponsor e il denaro che entrava. Io mi preoccupavo solo di sciare. Il primo grande investimento che mio padre ha messo sul piatto all’epoca, all’inizio degli anni Novanta, è stato l’acquisto di un locale in centro a Cortina. Si è trattato di un investimento impegnativo, perché a Cortina le quotazioni immobiliari sono sempre state alte. Ad ogni modo è andato bene: io ho comprato i muri, che i vecchi proprietari vendevano, e in quei locali mio zio Giuseppe ha aperto un ristorante (il 5 Torri ndr) che c’è ancora oggi."

Il mattone, quindi.

"Esatto. Tra l’altro subito dopo aver fatto il rogito ho avuto un brutto incidente in auto che mi ha tenuto a lungo lontano dalle piste, per cui mio padre era molto preoccupato. Poi sono tornato a correre e a vincere, ma questo episodio mi ha insegnato l’importanza di investire per aumentare il patrimonio, non per speculare, e a differenziare."

E oggi che non gareggia più che cosa fa?

"Al di là degli immobili, ho la scuola di sci M’Over a Cortina, che offre servizi a 360 gradi, tra cui sci, arrampicata, bicicletta e gite in montagna. È una scuola di eccellenza nella quale ci sono anche Deborah Compagnoni, Pietro Piller Cottrer (ex fondista campione olimpionico e mondiale) e Giacomo Kratter (campione di snowboard) e nella quale, tra le altre cose, offriamo la possibilità di sciare con noi. Poi sono testimonial e ambasciatore di diversi marchi tecnici a cui mi ero legato quando sciavo e con cui il rapporto continua."

Non male.

"Diciamo che ho un buon tenore di vita. Non sono un miliardario, ma vivo bene. Se devo fare delle operazioni importanti ho ancora mio padre che mi aiuta. Peraltro si è risposato con una commercialista, che mi tiene tutti i conti e che per me rappresenta una grande fortuna e una fonte di confronto quando si tratta di capire come investire i soldi."

Il denaro è stato sinonimo di successo?

"Non in particolar modo. Il successo per me era arrivare davanti al mio avversario. Poi, certo, avevo la cognizione del valore dei soldi e sapevo che un risultato sportivo importante valeva anche dal punto di visto economico. Ma io avevo, e ho ancora, l’ansia di voler essere davanti a tutti. Anche oggi quando sono in giro con la mia ragazza ho la tendenza a voler stare davanti. Sono sempre stati la competizione, il rischio e l’adrenalina ad affascinarmi, anche se chiaramente quando vinci nello sci i soldi arrivano. Lì, però, se sei bravo a sfruttare le tue capacità e se fai gli investimenti giusti riesci a metterti relativamente a posto. Altrimenti il rischio di bruciarsi il patrimonio è alto."

Con questa passione per la velocità si sarà comprato un’auto sportiva…

"In realtà no. La prima auto che mi sono comprato a 18 anni è stata una Passat Variant. Io avrei voluto una di quelle auto leggere e potenti che avevano i ragazzi all’epoca, ma mio padre che sapeva che ero uno scalmanato mi ha impedito di comprarmela facendomi prendere la Passat, che costava quasi il triplo, con cui prosciugai tutti i risparmi che avevo faticosamente messo da parte fin da bambino con le mancette dei parenti. Però alla fine ha avuto ragione, perché ho fatto un brutto incidente in autostrada, salvandomi proprio perché l’auto era bella solida. Oggi ho un Volkswagen California, che ho preso lo scorso anno e che ora che ho 2 figli è comodissimo."

Non si è mai concesso nemmeno una spesa folle?

"Quando gareggiavo e vincevo ho fatto il fenomeno una volta in discoteca a Cortina, prendendo il tavolo e facendo saltare bottiglie come si vede fare oggi sui social. Ma quella volta mi è bastata per sempre. Sono una persona parsimoniosa a cui non piace buttare via i soldi: gli amici mi prendono in giro perché non butto via niente e nella soffitta accumulo le cose. Mi dicono che voglio diventare il più ricco del cimitero, ma adesso che ho due figli so che lascerò quello che ho a loro, come ha fatto mio padre con me. Non voglio fare come tanti ampezzani che sono dovuti andar via e si sono venduti tutto."

Investirebbe mai in Bitcoin o prodotti simili?

"Non mi attraggono. Mi sembrano un campo in cui farsi male se non si ha esperienza. Un po’ come la velocità: io ho fatto discesa per 18 anni in coppa del mondo e 20 in nazionale e di incidenti gravi non ne ricordo, pur essendo una disciplina estremamente pericolosa. Invece, mi sono fatto male in auto e in moto, dove non avevo l’esperienza che invece avevo sugli sci. Per me l’investimento migliore resta il mattone. Vivendo a Cortina abbiamo una certa tranquillità rispetto al fatto che gli investimenti che si fanno non perdano valore. È sempre stato così fin dalle Olimpiadi del 1956."

Alberto Tomba.

Alberto Tomba: «Intimorivo i miei avversari. Essere un sex symbol aiutava, rimpiango gli anni Novanta». Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera il 14 settembre 2023.

Il campione bolognese, 56 anni, racconta aneddoti personali e di una carriera sugli sci di grande successo: «Accettavo l’imitazione di Gioele Dix, di ragazze ne ho avute parecchie ma con Martina Colombari non ho mai litigato: è finita e basta»

Alberto Tomba, il 14 marzo ricorrono i 25 anni dal suo ritiro e la Rai dedicherà un documentario al campione ma anche a un personaggio che nel 2016 è stato la prima «materia vivente» del Rischiatutto: era lei, nel remake di Fabio Fazio della trasmissione di Mike Bongiorno, a fare le domande sulla sua carriera.

«Già passati 7 anni e oltre 40 dal Rischiatutto di Mike Bongiorno? Caspita... È vero, non ci sono stati altri in quella situazione: è un bel ricordo, anche nel nome di Mike che amava lo sci».

Il cognome «cimiteriale» le ha mai dato problemi?

«Qualcuno a scuola sì. Si fanno battutine: nel mio caso, silenzio di tomba, pietra tombale, bara, sepolcro... Avrei potuto vederlo come una forma di bullismo, ma non ci davo peso».

Come mai usa spesso i giochi di parole?

«Per istinto: a scuola andavo bene in geografia e nelle rime. Però la mia specialità sono anche i numeri. Ho salutato le vittorie con cifre e con calembour. Calgary è nell’Alberta, poi è venuta Albertville; un posto più un altro fanno i due ori in Canada... Quindi partivano le filastrocche: non c’è il due senza il tre, la quarta vien da sé, la quinta è già vinta, la sesta è una festa».

Aveva un fascino magnetico: come mai?

«Si può spiegare così: estroverso, bolognese, con la faccia diversa dai montanari che hanno le piste sotto casa. E poi: amore e odio, due opposti che hanno segnato la mia carriera».

Ricorda la prima volta sugli sci?

«No. Avrò avuto 7 anni, o forse 5, ma non rammento nulla. Non immaginavo però di arrivare a certi livelli, tutto è andato oltre i sogni: pensavo di arrivare ai Giochi, ma non di vincerli e men che meno di conquistare tre ori».

Mikaela Shiffrin ha superato il record di 86 vittorie di Stenmark. Ma Ingemar, nel renderle omaggio, ha precisato che nessuno scalfirà quello che lui ha fatto.

«Mikaela arriverà a 100 e oltre, ma Ingo ha ragione: il più grande di tutti i tempi non esiste; esistono tanti grandi in più epoche».

Quando le ricordano che il Festival di Sanremo si è fermato per il suo secondo oro di Calgary prova orgoglio o le viene da sorridere?

«Sarebbe da fermare il Festival di oggi. Invece hanno fermato quello degli anni belli».

È vera la storia che nella casupola dello start battè la spalla a Girardelli e gli disse «se non vai forte arrivo io e ti sorpasso»?

«No, è andata così. Si era ai Giochi di Albertville, eravamo io primo e lui secondo. Gli dissi: “Marc, qui c’è una ragazza; ti emozioni e non vai più bene”. E lui: “Vale pure per te”. Uno sketch prima della gara».

Quanti ne ha messi in soggezione psicologica?

«Tanti. Una volta alla prima porta sento “stop, stop, stop” e mi fermo. Stangassinger era in testa, ma alla fine ho vinto io, sotto la pioggia. A Lech commisi un errore, persi 2 secondi però rimontai e li battei tutti. Mi subivano? Forse sì».

Alberto era «Tomba la Bomba».

«Mi chiamò così Patrick Lang, figlio dell’inventore della Coppa del Mondo. Magari a suo tempo poteva starci, oggi con le bombe vere che riempiono le cronache di guerra è meglio lasciar perdere. Peraltro c’è sempre il resto del campionario di soprannomi: Albertone, Albert-One, la Albertite».

Diceva che quelli della Federazione Internazionale la osteggiavano: Tomba dava fastidio?

«Forse hanno preferito che vincessero Girardelli e Zurbriggen piuttosto che un bolognese cittadino. Io ho portato l’audience ed è cambiato tutto. Mi hanno fatto i complimenti, ma quando ho smesso molti erano contenti».

Lei e Bode Miller siete stati, e siete ancora, popolari come pochi. Come mai?

«Perché eravamo diversi. Bode più di me: lo vedevi in giro a ballare e a bere birra. Del resto uno che ha attaccato la medaglia d’oro allo sciacquone del gabinetto è come minimo originale».

Crede che il successo sia legato all’immagine da «macho italiano»?

«Sì: essere un sex symbol aiuta, ma poi devi anche essere vincente».

Quante ragazze ha avuto?

«Sul piano affettivo poche, ma ne ho conosciute parecchie. Sì, certo, si avvicinavano prima di tutto perché ero famoso: non è facile tenere i conti... Comunque, altri tempi, ma il corteggiamento era più bello una volta».

Con Martina Colombari non era possibile fare pace?

«Mica abbiamo litigato... Eravamo entrambi giovani: è stata una storia ed è finita. Succede».

Una storia importante.

«Sì: Cristina prima, poi Martina, Janina che era Miss Finlandia... Tutte che finivano in “ina”. Be’, ne ho nascoste tante: una volta non c’era, come oggi, la privacy a tutelare».

Tomba resterà single oppure no?

«Resto... simple» ( risata ).

Un «tombino» o una «tombina» un giorno arriveranno?

«Guardate, un tombino l’ho appena preso con il cerchione della macchina... Vabbé, ho capito che cosa volete dire: ci penserò su».

Qual è l’ultima volta che s’è innamorato?

«Dopo i 50 è dura: parliamo di anni fa».

Qualche ipercritico sostiene che lei è troppo legato alla mamma.

«È ovvio che sia così e comunque non è troppo. Già a 15 anni ero in giro per il mondo, lei era in pensiero: la chiamavo dalle cabine telefoniche o dalle stanze d’albergo. E quando partivo mi dava la pasta, l’olio, il parmigiano: ci teneva, invece mio padre era burbero e “selvaggio”».

Il famoso bacio a sua sorella dopo l’ultima vittoria, a Crans Montana: tanti rimasero colpiti dall’intensità di quel gesto.

«Ad Alessia ero molto legato. Oggi che ha un figlio ci vediamo un po’ di meno, ma faccio lo zio e rispolvero i bei ricordi».

Un’altra leggenda vuole che lei abbia quasi mancato una gara perché s’era intrattenuto a lungo con una ragazza.

«È una cavolata. Si era a Chamonix, non volevo fare la gara perché il giorno prima mi ero fatto male giocando a squash. Ero con Martina e le dissi: “Domani non corro”. Poi ci ho ripensato. Comunque ho dormito solo mezz’ora in più».

C’è un aspetto del carattere che non è ancora emerso?

«La timidezza. Ma quando ho raggiunto il successo due cose le ho dovute dire: non potevo stare zitto come i montanari. Così sparavo la battutina o la cazzata».

La vicenda della coppa lanciata dal podio al fotografo Martinuzzi che aveva venduto immagini del Tomba nudo in sauna: lo rifarebbe?

«L’ho colpito a un dito. Non lo rifarei in pubblico, magari aspetterei Carnevale, mi metterei in maschera e andrei a casa sua. Mi spiace aver agito così, ma una vigliaccata del genere non me l’aspettavo e mi ha creato problemi. Lui poi si faceva sempre vedere: per quattro volte sono stato buono, alla quinta provocazione mi è cascata la catena».

I paparazzi li ha pure menati.

«Erano assillanti. E non sono stato l’unico che ha avuto duri screzi: chiedete alla gente dello spettacolo».

La vicenda della frode fiscale: l’hanno «spettacolarizzata» perché di mezzo c’era un personaggio popolare?

«Se sei sul gradino più alto è maggiore il vento. E sei sempre condannato. Ma nel 2002 mi hanno assolto. Non gestivo io, io pensavo solo a sciare».

Perché non ha convocato una conferenza stampa per annunciare il ritiro?

«Sarebbe stato un evento triste. Un saluto alla Totti, con magone e lacrime? Assolutamente no. I pianti li ho fatti per i cavoli miei, ecco il mio carattere riservato».

Quante volte ha pensato di tornare?

«La voglia è stata forte in occasione dei Giochi di Torino: ma ero già quarantenne. Insomma, due stagioni in più, dopo che avevo chiuso a 31 anni, avrei potuto farle».

Non è pentito di non essere diventato tecnico?

«No. Stenmark o altri campioni hanno forse allenato? Alzatacce, viaggi, sbattimenti: avevo già dato».

Come vede i grandi dello sci di oggi?

«Marco Odermatt è una belva: mi ricorda Hermann Maier. È il nuovo Terminator: sciata elegante, aggressiva. Uno svizzero così mancava dai tempi di Zurbriggen».

Sul fronte italiano dobbiamo dire «le grandi»: Bassino, Brignone, Curtoni, Goggia, in ordine alfabetico.

«Dico brave a tutte: le voglio vedere fino ai Giochi 2026. Ciascuna ha caratteristiche diverse dalle altre».

Teme che nel tempo ci si dimentichi di Alberto Tomba?

«C’è chi mi dice: ti ricorderemo sempre. Per ora è vero e mi commuovo per l’affetto che mi riservano: adesso capisco quanto ho combinato».

Tomba amava la ribalta o era la ribalta che andava da Tomba?

«Entrambe le cose. I 20 mila tifosi sugli spalti non mi davano pressione, semmai mi caricavano».

Ha avuto più amici o nemici?

«Dico 70% amici e 30% nemici».

Lei vinceva ridendo. Oggi accade di meno.

«Viviamo anche in tempi più difficili, il nuovo millennio è un disastro. Rimpiango gli anni 80 e 90».

Si sta dedicando allo sci-alpinismo: come mai?

«Perché servono due ore per salire e bastano due minuti per scendere. Affascinante».

Gioele Dix la imitava: le dava fastidio?

«Gioele è stato a casa mia. Lo sfottò lo accettavo, non mi andava invece il “bella gnocca”, perché io dicevo semmai “bella bimba”. Lo sapete che quando incontravo i ragazzini partiva proprio il “bella gnocca”? Diseducativo».

Elena Fanchini.

Elena Fanchini è morta a 37 anni: addio all'argento mondiale nello sci. Il Tempo l’08 febbraio 2023

È morta a 37 anni Elena Fanchini, campionessa italiana di sci. Fanchini nel 2005 aveva vinto l’argento ai Mondiali, mentre nel 2018 aveva sconfitto un tumore, tornando poi sulle piste. Lo scorso agosto ha accusa una ricaduta del terribile male. “Non posso arrendermi ora. Ho chiesto io a Sofia il pettorale rosso” aveva detto Fanchini a proposito di Goggia, che le aveva dedicato la vittoria in discesa libera a Cortina d’Ampezzo. L'ex sciatrice è morta dopo una lunga battaglia contro un tumore: si è spenta nella sua abitazione di Solato, in provincia di Brescia. Nel suo palmares vanta anche due vittorie in Coppa del Mondo.

Aveva 37 anni. Addio alla sciatrice Elena Franchini: la malattia, l’infortunio e la recidiva. Pochi giorni fa la dedica di Sofia Goggia. Redazione su Il Riformista l’8 Febbraio 2023

Addio a Elena Franchini, l’ex sciatrice stroncata da un tumore all’età di 37 anni. Si è spenta nella sua abitazione di Solato, in provincia di Brescia. Nei mesi scorsi aveva scoperto una recidiva della malattia che l’aveva colpita una prima volta nel 2018 costringendola, due anni dopo, a lasciare definitivamente l’attività agonistica. Nella sua carriera ha vinto un argento ai mondiali del 2005 e due gare nella Coppa del Mondo di sci.

Amica della campionessa Sofia Goggia, che nei giorni scorsi dopo la vittoria della prima tappa della Coppa del Mondo di sci le aveva dedicato il successo: “Elli è per te, voglio dedicare la vittoria a Elena Franchini che sta attraversando un momento delicato”.

In una recente intervista al Corriere della Sera aveva raccontato il ritorno della malattia: “Ad agosto, alla fine del mese ho cominciato le prime cure. Una recidiva. La prima volta ero guarita completamente. Ma purtroppo, e me ne sto accorgendo in questi giorni in ospedale, di recidive ne capitano tante. Ci sono cose che non puoi comandare, l’ho imparato dalla malattia e anche dallo sci”.

Nel 2018, quando comparve per la prima volta la malattia, Franchini spiegò di essere “costretta a fermarmi per curarmi”. L’annuncio arrivo a poche settimane della Olimpiadi di Pyeongchang in Corea del Sud.

La velocista azzurra, la maggiore delle sorelle Fanchini (Nadia e Sabrina), nel 2019 stava per tornare a competere ma un grave infortunio (si ruppe il perone) le precluse definitivamente la carriera.

Lutto nel mondo dello sci, è morta a 37 anni l’azzurra Elena Fanchini: era malata da tempo. Redazione su Il Secolo d’Italia l’8 febbraio.

Lutto nel mondo dello sport. E’ scomparsa a 37 anni l’ex sciatrice Elena Fanchini. L’azzurra era malata da tempo, lottava contro un tumore. In carriera aveva collezionato un argento mondiale in discesa libera a Bormio 2005 e due vittorie in altrettante gare di Coppa del mondo.

Sci, è morta Elena Fanchini

Nata a Lovere (Brescia) il 30 aprile 1985, Elena si mise in luce nella discesa libera dei Mondiali di Santa Caterina Valfurva del 2005 quando, a nemmeno vent’anni, conquistò una strepitosa medaglia d’argento alle spalle di Janica Kostelic. Sorella delle ex nazionali Nadia e Sabrina, ha preso parte a sei edizioni dei Mondiali e a tre Olimpiadi. In Coppa del mondo conquistò due vittorie in discesa a Lake Louise nel 2005 e a Cortina nel 2015, per un totale di quattro podi, nonostante una serie ripetuta di infortuni che non le hanno mai tolto il sorriso e la capacità di farsi amare dalle compagne di squadra e dalle avversarie. Il presidente Flavio Roda e tutta la famiglia della Federazione Italiana Sport Invernali è vicina a Nadia, Sabrina, papà Sandro e mamma Giusi in queste difficili ore.

L’annuncio della malattia

Nel 2018 l’annuncio della malattia. Elena, come ricorda mediaset.it, aveva spiegato di dover rinunciare Giochi olimpici invernali di Pyeongchang 2018 per curarsi da un tumore. Una lotta durissima, alla quale ha risposto da campionessa. Cercando di rientrare nel circuito, nella stagione 2018-2019 durante un allenamento si è infortunata gravemente e nel 2020 ha annunciato il ritiro insieme alla sorella Nadia.

Le parole di Sofia Goggia

Lo scorso 20 gennaio, nella discesa di Cortina d’Ampezzo, Sofia Goggia le aveva dedicato il successo: «Questa vittoria è per Elena Fanchini che sta attraversando un momento delicato» le sue parole. Ed Elena l’aveva ringraziata.

Elena Fanchini, morta la sciatrice: aveva 37 anni. Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera l’8 Febbraio 2023.

Fanchini, argento ai Mondiali di sci del 2005, aveva sconfitto il tumore nel 2018 ed era tornata sulle piste. Poi ad agosto la recidiva. Sofia Goggia le aveva dedicato la vittoria in Coppa del mondo

Aveva avuto la forza di rimettersi sugli sci dopo un intervento (30 ottobre 2018) e la chemioterapia, attirata irresistibilmente da quella neve che aveva imparato a conoscere e amare a Montecampione, la montagna di casa per lei che era nata a Lovere il 30 aprile 1985, prima di tre sorelle impavide, e la neve aveva usato per darsi l’obiettivo di seminare la malattia: «Lo sci mi ha regalato tantissima forza — spiegava —, volevo guarire per tornare alle gare».

Elena Fanchini è mancata ieri a 37 anni nella sua casa di Solato, bassa Val Camonica, lasciando sgomenta la squadra femminile di sci alpino, due gare e due vittorie (Brignone in combinata e Bassino in superG) a Meribel, e tutta la famiglia degli sport invernali che quella ragazza capace di conquistare l’argento nella libera al Mondiale 2005 pochi giorni dopo il debutto in Coppa del mondo aveva amato da subito per la genuinità e l’entusiasmo con cui desiderava lasciare una scia in Nazionale, da sola (due gare di Coppa vinte a dieci anni di distanza: Lake Louise 2005 e Cortina 2015) e insieme a Nadia e Sabrina (con la prima aveva dominato i Mondiali junior di Bardonecchia), le sorelle Fanchini che ora la piangono.

Del tumore, che si era ripresentato l’estate scorsa, parlava come di un male necessario («È un peccato che sia ricapitato»), quasi fosse il salto nel vuoto sul tracciato di una pista nera che, volendo arrivare in fondo, non si poteva evitare. Si era rimboccata le maniche («Non posso arrendermi») e aveva chiesto a Sofia Goggia, l’amica di una vita (non a caso l’azzurra, in costante contatto con le Fanchini, è rimasta silenziosa e defilata in avvicinamento al Mondiale), un regalo: «È nato come un gioco dopo aver visto alla tv Dorothea Wierer vincere nel biathlon — aveva raccontato Elena al Corriere nella sua ultima intervista —, allora ho chiamato Sofia: adesso tocca a te». E a lei, puntuale e di parola, Goggia aveva dedicato il successo nella libera di Cortina. Era il 22 gennaio scorso.

In quell’occasione, Elena era stata generosa di particolari: «Alla fine di agosto ho cominciato le prime cure. Una recidiva. La prima volta ero guarita completamente. Ma purtroppo, lo vedo in ospedale, di recidive ne capitano tante. Ci sono cose che non puoi comandare, l’ho imparato dalla malattia e anche dallo sci».

Gli infortuni, tanti. Quello di Copper Mountain disastroso.

Elena era friabile e delicata, come la sua neve.

È un giorno molto triste, ci ha lasciato Elena Fanchini.

Cara Elena, ti ricordiamo col sorriso, allo stadio con noi o mentre scii sulle tue amate montagne.

Funerali di Elena Fanchini, la madre: «Mi ha annunciato che Nadia era di nuovo incinta». Redazione Sport su Il Corriere della sera l’11 Febbraio 2023.

Abbracci e lacrime del fan club, delle sorelle Nadia e Sabrina; l’intevento più toccante, quello della madre Giusi che affrontato il lutto con coraggio: «Ho pregato tanto per farti guarire ma il Signore non mi ha ascoltato. Ho anche chiesto che il tuo male lo passasse a me»

La chiesa piena di amici, tifosi, ex compagne di sci. L’ultimo saluto a Elena Fanchini, la discesista argento ai Mondiali 2005 scomparsa l’8 febbraio per un tumore, a Brescia. «Guarda quante persone, Elena, si sono messe ai lati della strada — ha detto don Simone Caricari durante la Messa —. Sembra il Giro d’Italia sulle tue montagne. Era lì che avevi scelto Pantani come tuo eroe. Oggi tutti tifano per te come tifavano per lui sul Mortirolo».

Abbracci e lacrime del fan club, delle sorelle Nadia e Sabrina; l’intevento più toccante, quello della madre Giusi che affrontato il lutto con coraggio: «Ho pregato tanto per farti guarire ma il Signore non mi ha ascoltato. Ho anche chiesto che il tuo male lo passasse a me. Poi ho capito che ti voleva lui, ma ha esaudito l’ultima mia richiesta: negli ultimi giorni non ti ha fatto soffrire. Venerdì abbiamo mangiato la pizza tutti insieme ed è stata lei a dirmi che Nadia era di nuovo incinta: ci siamo abbracciate». La sorella Nadia nei giorni scorsi aveva raccontato gli ultimi giorni di Elena: «Mi disse: il fisico non risponde più. Ti voglio bene».

 "Ho chiesto a Dio che il male passasse a me". Il dolore della mamma di Elena Fanchini. Duemila persone per l'ultimo saluto alla campionessa di sci morta a 37 anni dopo la battaglia contro il cancro. Giuseppe Spatola l’11 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Oltre duemila persone hanno voluto rendere omaggio alla campionessa salendo a Solato, piccola frazione di Pian Camuno in vallecamonica, per l'ultimo saluto a Elena Fanchini, morta mercoledì sera a 37 anni dopo una lunga battaglia contro il cancro che l’aveva costretta al ritiro negli anni scorsi. Tutta la comunità della Vallecamonica, i colleghi sportivi, ex compagne di squadra e non solo si sono stretti umanamente al marito Denis, a mamma Giusy e papà Sandro, oltre alle sorelle Nadia e Sabrina per i funerali.

Il silenzio poi l'applauso per ricordare Elena

Tutti accompagnati durante la funzione da un silenzio composto davanti al feretro, arrivato in chiesa accompagnato a piedi dalla casa di Elena. Poi applausi nel momento dei ricordi, in chiesa, davanti alla bara avvolta dal tricolore e con un pettorale di partenza di una delle tante gare che hanno segnato la vita agonistica di Elena. "Con il cuore anche noi eravamo lì", ha commentato Sofia Goggia, commossa, al termine della sua sfortunata prova nella discesa libera dei Mondiali in corso di svolgimento in Francia . Poi, all'uscita della piccola parrocchiale di san Giovanni Battista, palloncini liberati in cielo per l'ultimo addio. E la madre che davanti agli amici non ha trattenuto il dolore.

La madre: "Ho chiesto che il male passasse a me"

"Ho detto tante preghiere per farti guarire - ha detto -. Ho chiesto al Signore che il tuo male lo passasse a me, ma non mi ha ascoltata. Poi ho capito che ti voleva lui, ma ha esaudito l'ultima mia richiesta: negli ultimi giorni non ti ha fatto soffrire". Giusy Alessi durante il funerale della figlia ha ringraziato tutti per l’affetto nel ricordo di Elena Fanchini che ha ceduto il passo alla malattia per colpa di una recidiva del tumore. Nella sua carriera Elena, sempre sorridente, aveva vinto l'argento mondiale in supergigante nel 2005 e due gare di Coppa del mondo. a madre Giusy ha poi aggiunto: “Elena, non dovevi entrare qui così, oggi, dovevi entrare con l'abito bianco“.

Elena Fanchini, la sorella Nadia: «Non riusciva più a controllare il dolore». Redazione Sport su Il Corriere della sera il 9 Febbraio 2023.

Nadia Fanchini ricorda le ultime parole dette alla sorella: «Sei la persona più importante della mia vita». E ripercorre gli ultimi giorni della malattia

L’ha sostenuta, accompagnata, tenuta per mano fino all’ultimo giorno. Ora piange, ripensando ai tanti momenti belli condivisi. Sofia Goggia ha raccontato di aver finito le lacrime; Nadia Fanchini, la sorella di Elena , la sciatrice scomparsa ieri a 37 anni dopo una lunga lotta con un tumore, ripercorre i sorrisi condivisi: «La mia vita — racconta — è piena di ricordi di lei. Siamo sempre state legatissime, abbiamo vissuto sempre insieme in pista ma anche nella malattia. Non ci siamo mai lasciate. Elena era il nostro mondo, era mia sorella. Ora per noi sarà difficile. Lei era una lottatrice, non si è lamentata mai. Aveva una gran voglia di vivere, ha dato tutto, non si è mai arresa fino alla fine. Ma purtroppo ha vinto lui».

Ha vinto quel tumore che Elena scoprì nel 2017, che la costrinse a mettere da parte la sua più grande passione, che lei vinse, prima che si ripresentasse nelle scorse settimane: «Abbiamo scoperto la recidiva ed è stata dura, perché ha sofferto tanto. Perché non riusciva a controllare il dolore. Per noi è stato un dolore vederla soffrire così tanto. Vedere questo brutto male che la stava distruggendo. “La mia testa c’è, ma il mio fisico non c’è” mi diceva. Siamo nel 2023 e purtroppo ancora non c’è una cura contro il cancro. Lei era anche testimonial di Airc e crediamo nella ricerca, dobbiamo far sì che si possa sconfiggere questa malattia». E racconta con emozione l’ultima conversazione: «Le ho detto: “Sei la persona più importante della mia vita, ti voglio tanto bene”. E lei mi ha risposto: “Lo so”».

Mentre sulla tv nella camera ardente di Pian Camuno (in provincia di Brescia) scorrono le immagini del Mondiale di sci in corso a Meribel e Courchevel (dove Federica Brignone e Marta Bassino hanno conquistato due medaglie d’oro) anche la mamma di Elena e Nadia racconta come è nata la passione delle figlie per la neve: «La prima volta che Elena è andata sulla neve aveva tre anni, con il suo papà. Quando aveva 7 anni ha fatto la sua prima gara, e sia lei che Nadia vincevano sempre. Non me l’aspettavo. Loro mi dicevano: “Tu non ci sei mai”. Ma noi siamo due operai, non potevamo andarci sempre, perché lavoravamo anche di domenica per permettere alle ragazze di fare le gare. Eli, sei stata la mia vita. Ora so che stai bene dove sei andata. So che non devo piangere». 

Elena Fanchini, il tumore e la dedica di Goggia: «Sofia mi ha ridato il sorriso». Daniele Sparisci su Il Corriere della Sera il 22 gennaio 2023.

Fanchini, argento ai Mondiali di sci del 2005, aveva sconfitto il tumore nel 2018 ed era tornata sulle piste: Poi ad agosto la recidiva: «Ma non posso arrendermi ora. Ho chiesto io a Sofia il pettorale rosso»

«Ha già detto tutto Sofia, non c’è bisogno di aggiungere altro: io sono qui a lottare. Quel pettorale rosso però mi ha regalato un sorriso». Elena Fanchini, ex discesista della Nazionale, come la sorella Nadia: ha vinto un argento ai Mondiali del 2005 e due gare in Coppa del Mondo. A lei Sofia Goggia ha dedicato la vittoria di sabato a Cortina. A 37 anni Elena mostra una straordinaria forza d’animo, la stessa di sempre. Quando il tumore la colpì nel 2017 mentre preparava le Olimpiadi di Pyeongchang 2018, fu operata, guarì, e rientrò sulle piste. Il male purtroppo è tornato, quest’estate.

Aveva chiesto a Sofia di portarle un pettorale rosso, «vincente». Ci racconta...

«È nato come un gioco, l’ho sentita qualche sera fa, dopo aver visto Dorothea Wierer vincere una gara di biathlon. E allora ho detto, adesso tocca a Sofia. Ci sentiamo spesso noi due».

Come siete diventate amiche?

«Noi in famiglia eravamo tutte sciatrici. C’era un gruppo di ragazze, fra le quali mia sorella Sabrina, che spesso si allenavano insieme. Ci siamo conosciute qui dalle nostre parti (Montecampione ndr), Sofia frequentava casa nostra».

Siete rimaste sempre molto legate?

«Sì, nei suoi primi anni di carriera siamo state anche compagne di Nazionale».

Che effetto le hanno fatto le parole per lei dopo la vittoria a Cortina?

«Sofia è stata molto dolce, e molto delicata. Per questo dico che non ho molto da aggiungere: sto combattendo».

Come affronta questa seconda «battaglia»?

«È un peccato che sia capitato di nuovo, ma non posso arrendermi».

Quando lo ha scoperto?

«Ad agosto, alla fine del mese ho cominciato le prime cure. Una recidiva. La prima volta ero guarita completamente. Ma purtroppo, e me ne sto accorgendo in questi giorni in ospedale, di recidive ne capitano tante. Ci sono cose che non puoi comandare, l’ho imparato dalla malattia e anche dallo sci».

La sua è sempre stata una famiglia molto numerosa e unita, come la aiutano?

«Le mie sorelle mi sono sempre vicino, tutti mi sono vicino. Ho una famiglia fantastica, sono fortunata. Quando sciavo la ringraziavo sempre, adesso la ringrazio ancora di più».

Nadia Fanchini con Sofia Goggia e Johanna Schnarf ai campionati italiani del 2016 (foto Sci club 70 Trieste)

Segue le gare di sci in tv?

«Assolutamente sì! È anche un po’ la mia medicina. Oltre ad avere quattro nipotini stupendi, sono i figli di Nadia e di Sabrina, mi danno una gioia enorme. In casa affrontiamo questo periodo tutti insieme, con grande forza».

Lei ha sempre dimostrato una forza incredibile anche da atleta. Tanti infortuni ma si è sempre ripresentata al cancelletto di partenza. Questione di carattere?

«Sia me che alle mie sorelle è mancata la continuità a causa degli infortuni. È l’unica recriminazione: non c’è mai stato un anno liscio, senza cadute. Però ci siamo tolte belle soddisfazioni, le vittorie non ce le porterà via nessuno».

Lo sci azzurro è in mano alle ragazze che vincono tanto Come Sofia, come Brignone e Bassino. Che ne pensa?

«Sofia sta dominando nella discesa, ormai da anni. Forse rispetto ai miei tempi però lo sci è cambiato».

Con Sofia vi vedete spesso?

«L’ultima volta prima di Natale, ma ci sentiamo tanto al telefono».

Quando ha visto quel pettorale rosso come ha reagito?

«Con un sorriso. Glielo avevo chiesto io: Sofia regalami un pettorale vincente».

Mikaela Shiffrin.

Chi è Mikaela Shiffrin: lo sci e il record di vittorie (con Vonn) in Coppa del Mondo. Flavio Vanetti Online su Il Corriere della Sera l’8 gennaio 2023.

Toccati gli 82 successi come Lindsey Vonn. Ora potrà diventare la sciatrice più vincente e poi la numero uno in assoluto, tra maschi e femmine, della storia: il trono di Ingemar Stenmark, a quota 86, è ormai vacillante

Ora l’attacco al record assoluto di Stenmark

Grazie alla vittoria nello slalom gigante di Kranjska Gora (davanti a Federica Brignone) Mikaela Shiffrin raggiunge Lindsey Vonn a quota 82 vittorie, il primato ogni epoca tra le donne nella Coppa del Mondo di sci. Lindsey, classe 1984, ritiratasi nel 2019, arrivò a quel livello a 34 anni: l’ultimo successo della carriera risale infatti al 2018, in una discesa a Aare, in Svezia. Mikaela l’ha eguagliata ben prima, non ha ancora 28 anni (è nata il 13 marzo 1995): un altro stigma della sua grandezza. Da qui in poi avrà campo libero per diventare innanzitutto la sciatrice più vincente e poi la numero uno in assoluto, tra maschi e femmine, della storia: il trono di Ingemar Stenmark, a quota 86, è ormai vacillante, anche se è doveroso ricordare che Ingo stabilì quel primato in un’era molto differente dello sci e con un minor numero di gare a disposizione.

L’elogio della Vonn: «La migliore mai vista»

I record, si dice, sono fatti per essere battuti e anche in questo caso — come presto accadrà nel basket, quando LeBron James sorpasserà Kareem Abdul Jabbar per numero di punti segnati nella Nba — è una verità che viene certificata. È solo una questione di tempo, lo sperimentò anche Bob Beamon nel salto il lungo con il suo balzo da 8,90 ai Giochi del 1968 che pareva insuperabile: ma 23 anni dopo, al Mondiale 1991, Mike Powell portò il record a 8,95. Il primato di Stenmark resiste dal 1989: è plausibile che il capolinea arrivi 33 anni dopo. Lindsey Vonn nei giorni scorsi s’era già portata avanti: in un’intervista a una rivista tedesca aveva definito la Shiffrin «La miglior sciatrice che i miei occhi abbiano mai visto». Quando erano avversarie — anche se gli incroci non erano particolarmente frequenti ed erano limitati alle prove veloci dal momento che la Vonn da tempo aveva dovuto rinunciare a slalom e giganti, terreno di caccia preferito della connazionale — magari non si «fiutavano» più di tanto. Ma adesso è bello prendere atto del fair play di chi è stata raggiunta.

Una giovane veterana

Ecco allora un ritratto di Mikaela Shiffrin, in predicato di catturare lo scettro assoluto dello sci. È una veterana ancora giovane che ha avuto nella precocità dei successi una delle sue caratteristiche. È una delle 7 sciatrici della storia capaci di imporsi nelle cinque classiche specialità (discesa, superG, gigante, slalom, combinata), ma è la sola ad aver vinto anche nella sesta, il parallelo. Mikaela vanta due ori olimpici, sei mondiali (il primo, a 17 anni, a Schladming 2013), 4 Coppe del Mondo assolute (l’ultima nel 2022), un «contorno» formato da un argento olimpico, 2 argenti e 3 bronzi iridati, 8 Coppe di specialità, 1 bronzo ai Mondiali juniores: l’aggettivo che caratterizza l’americana di Vail è «fast». Veloce in pista e nel migliorarsi grazie alla qualità e alla quantità degli allenamenti. Sua mamma, Eileen, l’ha educata al rigore, alla costanza e alla continuità. «La concentrazione è ciò che mi ha aiutato a farmi uscire dal letto al mattino presto per andare in palestra o in montagna. Ho imparato ad allenarmi anche prima che sorgesse il sole». L’attitudine a prendere tutto sul serio ha fatto sì che, nella fase di crescita e di formazione, ogni momento fosse adatto a mettersi alla prova: perfino il tratto dalla stazione di arrivo di una funivia o di una seggiovia fino al percorso di allenamento era un’occasione per spingere al massimo.

Il «buco nero» di Pechino 2022

Eppure anche i fuoriclasse possono avere le loro defaillance. Mikaela ha incontrato il suo «buco nero» meno di un anno fa ai Giochi di Pechino. Un’Olimpiade da dimenticare: zero medaglie, con l’ultimo flop nella combinata nella quale aveva gareggiato, nella prova veloce, con gli sci che le aveva dato Sofia Goggia. La nostra campionessa, reduce da una splendida medaglia d’argento a 23 giorni dall’incidente di Cortina, aveva infatti voluto donarle la sua attrezzatura accompagnandola con un bigliettino «Fly Mika, you can» («Vola Mika, tu puoi»). Un augurio che ha commosso la stessa Shiffrin che, però, dopo essere già uscita in gigante e in slalom, dove in passato aveva vinto l’oro, e in ritardo sia nel superG che in discesa, non è riuscita a terminare la gara. Mikaela diventò oggetto di critiche (l’ex olimpionico Ted Ligety: «Ha sbagliato come una principiante») e delle assurde uscite degli «haters» che frequentano i social. In suo soccorso arrivò proprio la Vonn («Questi risultati non tolgono nulla alla tua leggendaria carriera: tieni alta la testa!»), ma Mikaela, superato un iniziale sconforto («Non ho mai vissuto una situazione come questa»), replicò per le rime: «Ci sarà sempre qualcuno che vorrà metterti ko, ma io tornerò a vincere». Detto e fatto: la stagione 2022-2023 ci ha restituito la Shiffrin dei giorni migliori, avendo ormai alle spalle il buio del 2020 del quale parleremo tra poco.

Pilates, surf e chitarra

Nonostante abbia sperimentato il loro rovescio della medaglia (il rischio di imbattersi in chi pensa solo ad offendere), Mikaela ama comunicare con i social: Instagram è il preferito, accomunata in questo a moltissimi atleti, ed è solita postare foto o video delle sue sedute di allenamento. Lo sci è sport esigente e la Shiffrin allena così ogni parte del corpo, puntando soprattutto su esercizi per gli addominali e per il potenziamento delle gambe (usa gli affondi col bilanciere). Ama anche il pilates, lavorando addirittura… a testa in giù. Anche la spiaggia è luogo adatto a restare in attività: il beach running, utile per incrementare la resistenza, è uno dei suoi «must». Mikaela è poi una surfista provetta: è uno sport che la rilassa, anche sul piano della mente. Infine, suona molto bene la chitarra: nel 2020, durante i primi mesi della pandemia, con l’Italia in lockdown, dedicò una canzone al nostro Paese ispirandosi «agli operai della mia “famiglia” Barilla ma anche a quelli di tutte le aziende alimentari che continuano a produrre il cibo di cui c’è tanto bisogno in questo periodo di emergenza sanitaria». Sempre in quel periodo si esibì «live» con la cantautrice scozzese KT Tunstall a scopo benefico per i medici impegnati sul fronte Covid-19.

Fidanzata con il norvegese Kilde

Com’è messa Mikaela Shiffrin sul fronte delle storie d’amore? Dal 2017 al 2019 era stata legata al francese Mathieu Faivre, il campione del mondo in carica del gigante e del parallelo (due ori conquistati a Cortina 2021): la loro storia fu annunciata, un po’ a sorpresa, dalla divulgazione di una foto dei due sotto la Torre Eiffel. Anche la rottura della relazione è stata inattesa: si vuole che alla base ci sia stato anche un peggioramento dei rapporti tra Faivre e la mamma di Mikaela. Dal maggio 2021, comunque, la campionessa americana è fidanzata con il norvegese Aleksander Aamodt Kilde, vincitore della Coppa del Mondo assoluta 2020 e rimessosi da un grave incidente a un ginocchio. Per ora la coppia funziona benissimo.

I guadagni e gli sponsor

Mikaela Shiffrin ha sette sponsor principali: Adidas, Barilla, Visa, Longines, Bose, Ikon Pass, Oakley. Poi ci sono quelli tecnici: Atomic, Reusch, Leki. Si stima che gli introiti da queste partnership siano nell’ordine dei 4 milioni di euro a stagione e che l’americana in questi anni sia già riuscita ad accantonare un bel po’ di quattrini. Poi ci sono i premi delle gare: 600 mila euro nell’ultima stagione, quella che dopo la delusione olimpica le regalò la gioia della quarta Coppa del Mondo assoluta. Forbes, ipotizzando altri 10 anni di agonismo, ha prospettato per lei introiti tra i 30 e i 50 milioni di dollari.

La morte del padre

Nel febbraio 2020, poco prima che il mondo si trovasse ad affrontare l’emergenza sanitaria, Mikaela Shiffrin è stata colpita dalla tragica scomparsa del padre Jeff, morto per la caduta dal tetto di casa. È stata una mazzata terribile per la famiglia e Mikaela ha sofferto al punto da considerare il ritiro. In un messaggio divulgato sui social ha spiegato quanto fosse importante il ruolo del padre nella gestione della parte finanziaria della sua carriera: «Io e mio fratello Taylor, all’improvviso, abbiamo dovuto occuparci di aspetti che erano totalmente nelle mani di papà». È stata una prova difficile da superare, ma dopo mesi tribolati i fratelli Shiffrin ce l’hanno fatta.

Tifosa della Juventus

Non ci sono solo sci, palestra, corsa e surf nel profilo sportivo della Shiffrin. Mikaela ama il tennis, lo gioca, e indica Roger Federer quale modello di riferimento (anche al di là della sua bravura in questo sport). Un’altra passione è il calcio: Mikaela palleggia benissimo ed è tifosa della Juventus. Prima di una partita dei bianconeri in Champions contro l’Ajax s’era fatta fotografare con i guanti di Szczesny.

Ama la pasta

Essendo dall’età di 16 anni sponsorizzata da Barilla (come Alberto Tomba e Bode Miller), Mikaela Shiffrin non può non essere appassionata della pasta. Navigando nei social si può vedere la sua foto mentre partecipa a un’edizione del Carbonara Day, giornata dedicata a uno dei piatti più famosi della cucina italiana. La sua dieta prevede 3000 calorie al giorno, partendo da due toast e due uova a colazione. Lo stile di vita nel corso della stagione è rigoroso: va a letto alle 21, si alza alle 7 (sempre che le esigenze delle gare o degli allenamenti non richiedano sveglie anticipate) e se ce la fa non rinuncia mai a un sonnellino pomeridiano.

Le scritte sul casco

Dopo la scomparsa del padre Jeff, Mikaela ha aggiunto una seconda scritta sul retro del casco: «Be nice, Think first, Have fun» («Sii gentile, prima di tutto pensa, divertiti»), una frase che il genitore era solito ripeterle. La campionessa ha mantenuto l’altra epigrafe: ABFTTB, che sta per Always Be Faster Than The Boys («Sii sempre più veloce dei ragazzi»). Quell’acronimo glielo scrisse su un poster autografato l’ex sciatrice Heidi Voelker quando la Shiffrin era bambina. Anche la Vonn ha sempre sognato di misurarsi con gli uomini, lei aveva addirittura proposto alla Fis di poter competere in una gara maschile. Mikaela sta portando avanti lo stesso concetto e quando avrà scavalcato Stenmark avrà un’arma in più per sostenerlo.

Il dubbio Olimpiadi 2026

Nel corso di una conferenza stampa al Mondiale 2021, a Mikaela fu chiesto se conta di proseguire fino a Milano-Cortina 2026. La Shiffrin rispose dopo aver fatto un rapido calcolo sugli anni che avrà nel febbraio di quell’anno (30; i 31 li compirà il 13 marzo, ndr): «Uhmmm, non so se ci sarò. Non mi vedo a sciare sempre, soprattutto nel caso non dovessi essere più veloce». Sembra il dubbio che qua e là vive anche Lewis Hamilton in F1: vale la pena di allungare la presenza nel proprio mondo e nel proprio sport, oppure è il caso di guardarsi attorno e a un certo punto pensare anche ad altro? La risposta è custodita nel tempo che verrà. Ma l’impressione è che la batosta di Pechino 2022 ci farà vedere Mikaela anche nei prossimi Giochi.

Sofia Goggia.

Estratto dell'articolo di Giovanni Audifreddi per repubblica.it il 19 maggio 2023.

Come stanno i piedi?

«In preda a una costante deformazione professionale. Sono inscatolati negli scarponi da una vita. Da bambina erano sempre un filo più abbondanti e il piede si muoveva. Questi sfregamenti hanno creato le classiche palline da ping-pong che noi sciatori abbiamo sul calcagno». 

Ma soffre?

«Beh, ora i miei scarponi sono più piccoli del mio numero, sono 276 millimetri, le dita dentro restano arricciate. Quando in pista c’è un salto, le unghie partono. Quest’inverno ho fatto un mese a meno 25 gradi negli Stati Uniti. Soffro di un principio di congelamento all’alluce sinistro. Mi fa parecchio male. I miei piedi non sono belli, ma valgono tanto».

Perché si scia con i piedi, giusto?

«Sono la parte del corpo più vicina alla neve e con più sensibilità. Bisogna stare sui piedi: è in mezzo a loro che deve cadere il baricentro». 

Li ha assicurati?

«Ho assicurato tutto il pacchetto del corpo». 

Il drink con Sofia Goggia termina con un abbraccio. Dopo un paio di bicchieri di un serio Primitivo del Salento, alzandoci dal tavolino di God Save the Food, in zona Tortona a Milano, poco prima che andasse a farsi un’infiltrazione di acido ialuronico al ginocchio. Sofia ha messo in bacheca la quarta Coppa del Mondo di discesa libera, chiuso il mega trolley con l’attrezzatura, riposto gli sci in garage e salutato via Instagram “i fan”. Come li ha ribattezzati il suo skiman Barnaba Greppi, detto Baby: «E anche per questa stagione abbiamo dato». La campionessa olimpica, oro a Pyeongchang 2018 e argento a Pechino 2022, atleta delle Fiamme Gialle, è pronta per spegnere il cellulare. Prima, deve assaporare il premio popolarità: «Finalmente incontro il mio idolo: Carlo Verdone. Poi vacanza totale».  

È la donna più veloce del “circo bianco” e le chiedono sempre se ha paura di passare tra le porte a 140 chilometri orari. Ma la velocità lei la crea o la domina?

«Non sono brava a crearla da zero. Ma, sopra certe velocità, non c’è nessuna che sappia sciare come me. Per il mio schema motorio, accelerare da fermo è faticoso. Ma se me ne dai un po’, la mantengo e la incremento. Altre funzionano al contrario. Diciamo che non so gestire la lentezza».

[…] 

Respira bene o va in apnea?

«Ho delle routine mattutine per muovere correttamente il diaframma. Lo sport ad alti livelli logora il corpo. Ma, la mente, in maniera più subdola».

In che senso?

«Quando ha troppo da gestire, un atleta si perde facilmente in un bicchiere d’acqua. Ci fissiamo su dettagli. Io se mi incaglio in qualcosa, fatico a mettere la retromarcia. Il vero motore è l’emotività. È quella la vera fregatura. È lì che va fatto il lavoro più importante». 

[…] ma lei cosa teme?

«Sono irrequieta. La mia paura è non essere mai abbastanza. Non credo di essermi mai goduta un risultato nella vita. Ho sempre vissuto la vittoria come un compito fatto per passare subito al successivo. Questa idea che la gara più importante sia sempre la prossima l’ho trasferita in tanti aspetti della mia vita. Non riesco a vivere dimensioni e ritmi separati».

Significa che è in adrenalina da performance costante?

«Quando sono dentro il flusso della stagione: addio. Ci rivediamo ad aprile. Devo per forza fare così. Non ho un minuto per un caffè con nessuno. Non parlo solo di allenamenti massacranti, trasferte, gare. Anche a livello professionale lo sciatore non è un calciatore con la maglietta piegata in spogliatoio. Io devo fare e pensare a tutto, borsone incluso». 

Non ho capito se si fa aiutare da una psicologa o da una psichiatra?

«Prima avevo una psicologa sportiva. Mi ci voleva qualcosa di più. Ora ho una psichiatra che mi aiuta ad affrontare l’oggettività delle cose».

Ma ha un trauma da superare?

«Non uno specifico. Essere costantemente in equilibrio su tutto, lucida, tagliente, è un lavoro che va supportato». 

È vero che da piccola era una peste?

«A scuola sono stata sospesa per risse. Avevo una certa aggressività repressa. Forse per la voglia di emergere. Facevo la regina cattiva anche quando recitavo nello spettacolino di Alice nel Paese delle Meraviglie. Dovevo dire: “Orrore, orrore, i fenicotteri rosa” e giocare a golf con i poveri animali. Ora capisce che con questa R moscia un po’ snob… Ci vuole una certa autoironia per pronunciare quella frase. Ridevano tutti come matti». 

La prendevano in giro per la voce?

«Sono stata sempre bullizzata. Anche perché ero un po’ trasandata. Mai avuto una vita sociale. No adolescenza, no feste, solo, sempre tutto per avere una vita sugli sci. È stata una scelta».

Ci ripensa spesso?

«Sì, perché a 30 anni capisco di aver vissuto poco con spensieratezza e mi manca. Io sono un soldatino che esegue le cose da fare. Sono tante e non mi risparmio. Non mi lasciano mai stare. Mio padre, credo sia uno dei pochi genitori che dice alla figlia: “Sofia, vorrei che ti divertissi di più, assapora il valore della gioventù. Le gioie non te le sai godere, non voglio che ti ritrovi a rimuginare”». 

Lui è stato severo con lei?

«Mio padre è un uomo che amo intensamente. È stato una figura impattante, ma ne ho beccate tante. Quando litigavo con mio fratello Tommaso, tre anni più grande, e lo menavo, papà mi chiudeva in cantinetta a Bergamo. Una stanzetta tipo crotto, buio, con le pietre fredde e gli scaffali pieni di bottiglie di vino. Stavo nel buio. Detto così suona da Telefono Azzurro. Una volta sono scappata di casa a Foppolo. I miei hanno chiamato la polizia. Quando sono sbucata fuori nel piazzale, mamma mia le urla». 

Per fortuna si è sfogata con lo sci. Cosa sente quando scende?

«L’attrezzo, la neve, io. Quando avverti che la curva sei tu, allora è bellissimo. Ma il massimo è la gara. Quando uscirò dalla bolla della competizione, avrò una vita per fare la turista». 

Cose le piace tanto della competizione?

«Zaino, riscaldamento, sagomi le scarpette con il phon, metti la tutina, prendi la borsetta delle lenti per la maschera. Sei in partenza, ultime indicazioni, silenzio, alzi uno sci e lo skiman pulisce le lamine. Uno, poi l’altro. Il cancelletto è davanti. Ti battono sulla spalla. Qualcuno ti dice: Deux minutes. Chiudi gli scarponi. Inizi a visualizzare la pista come un sogno. Poi dicono: Trente secondes. Poi respiri. Metti i bastoni fuori dalla partenza. Spingi, vai. Per me l’opportunità di giocarmela è tutto. La luce verde al traguardo è vittoria».

[…] 

Si riguarda molto?

«Molto e guardo tanto anche le altre. Per vedere cosa fanno di diverso, perché c’è da imparare da tutte. Per esempio, a Crans-Montana in Svizzera, quest’anno ho fatto una prova, sono caduta alla quinta porta. Ho spigolato, mi sono girata, sono passata vicino alla rete, c’era una curva a gomito e ho fatto un testacoda. Però il giorno dopo ho vinto. Perché? Ho studiato le altre. Guardo quelle che fanno meglio nei singoli settori della pista». 

Si percepisce un legittimo orgoglio.

«Lo so che sembra arroganza. Rimango solo stupita: da tre anni sono la prima in discesa libera e nessuno mi ha mai chiesto un consiglio? Boh. Arroganza è sentirsi migliore degli altri, autostima è non sentirsi inferiore a nessuno». 

Si vede bella?

«Working in progress. A volte mi sento proprio figa. Insomma, cerco di valorizzarmi. Certo in tuta al supermercato… Meno». 

Con abito Giorgio Armani, l’orologio di brillanti e i gioielli Chopard meglio?

«Vanità femminile. Il “brillo” mi piace. Ma cerco di emanare luce come essere umano».

Perdere invece fa male?

«Mi fa schifo la mediocrità. Io non faccio il compitino. Se hai dato tutto, ogni risultato va bene». 

Come stanno le mucche che ha vinto grazie alle gare in Val d’Isère?

«Benissimo. Ambrosia e Isère sono in alpeggio a Lenna. La prima va coperta da un bel toro orobico. Sono l’unica che le ha volute portare a casa. I francesi non ci credevano». 

Le campionesse sono molto amate, no?

«Quando arrivavo 50ª stavo simpatica a tutti. Non è semplice fare uno sport di gruppo se poi devi performare da singolo. Le dinamiche non sono semplici e io sono molto riservata. Raramente mi aggrego alle iniziative delle altre, che comunque non mi invitano mai». 

Si sente sola?

«La solitudine mi fa paura, ma non riesco a fare a meno di stare con lei». 

L’affetto è importante?

«Non sento di averne ricevuto tanto nella mia vita. Ho avuto quello degli italiani quando mi sono fatta male. Ma non ho mai sperimentato un amore incondizionato». 

Lo cerca?

«Prima dentro di me, poi vedremo». 

Cerca un abbraccio?

«Certo, sono una cucciolona».  

Sofia Goggia vince la Coppa del Mondo di discesa libera. Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2023.

L'azzurra finisce (seconda) davanti alla Stuhec nella libera di Kvitfjell, in Norvegia e si aggiudica per la quarta volta il titolo di specialità per la stagione 2022-2023. Mikaela Shiffrin vince la Coppa del mondo generale grazie al quinto posto conquistato

La manita «ridotta»: quattro dita, e non cinque, esibite al parterre. Ma sempre «manita» è, ovvero un simbolo di gioia e di trionfo. Era la missione che si era prefissa dopo il deludente Mondiale e Sofia Goggia l’ha portata a termine: sulle nevi «olimpiche» di Kvitfjell (qui si svolsero alcune delle prove di sci dei Giochi 1994) ha centrato la quarta Coppa del Mondo di discesa. Stavolta non ha vinto – il primo posto è andato alla giovane Kajsa Vichoff Lie: mai una norvegese s’era imposta fin qui in libera, dunque è lei ad aver scritto una pagina storica –, ma il secondo posto basta e avanza. Anzi, in realtà è perfino superfluo – al netto di aver aggiunto un podio, il numero 47, alla carriera – perché dopo la discesa della slovena Ilka Stuhec, che avrebbe dovuto vincere per alimentare le minime speranze residue di sorpasso, era già tutto definito.

La discesa sulla Olympiabakken, dove l’Italia ha avuto ancora una buona prova di Federica Brignone (settima) e prestazioni inferiori alle attese dalle altre, ha pure sancito un altro importante verdetto: Mikaela Shiffrin, quinta a pari merito con l’austriaca Siebenhofer, ha fatto suo il quinto trofeo di cristallo assoluto. Le sarebbe stato sufficiente arrivare dodicesima per regolare Lara Gut-Behrami, ma la campionessa svizzera ha provveduto con le sue mani a emettere il verdetto risultando lentissima e strabattuta. Per la Shiffrin, che è in attesa di raggiungere e di scavalcare Ingemar Stenmark al vertice della classifica delle vittorie nella Coppa del Mondo (la situazione è 86-85, il primato ha le ore contate), si prospetta la caccia a un altro record: quello di Anne Marie Moser Proell, austriaca, l’unica donna ad avere in bacheca sei trofei di cristallo generali. La prossima stagione sarà quella dell’aggancio? Può essere. E comunque è chiaro che Mikaela nel futuro della sua carriera potrà mettere nel mirino le otto Coppe del Mondo del primatista assoluto: l’austriaco Marcel Hirscher, un altro uomo da sorpassare.

Tornando a Sofia, era felice ma non soddisfatta. Avrebbe voluto vincere pure questa, è chiaro. Ma la Lie, scesa con il pettorale numero 3 (l’azzurra aveva invece il 12) è stata più continua e precisa: «Non so se per il vento o per altro la curva nella parte alta che ho sempre fatto benissimo non è stata perfetta – è il commento della Goggia –: da lì in poi ho dovuto inseguire, ma l’obiettivo è stato raggiunto. Nonostante la mia discontinuità, sono quattro coppe, tre di fila». Discontinuità? E’ un termine estremo: un po’ è corretto – Sofia di occasioni ne ha sprecate –, ma allo stesso tempo è eccessivo e paradossale. E’ lei stessa, sostanzialmente a spiegarlo. «Nella stagione ho fin qui disputato otto discese: ne ho vinte cinque, in una sono caduta e nelle altre due sono stata seconda. Dunque, il mio peggior risultato, a parte il capitombolo, è il secondo posto. Posso affermare di essere stata dominante nella specialità, nonostante abbia “toppato” il Mondiale (riflessione diretta e sincera, ndr): sono pure felice perché questa quarta coppetta è arrivata con uno scarto netto sulle avversarie». Certo, viene alla mente la giornata di Meribél, quando la svizzera Flury e l’austriaca Ortlieb, oro e argento, banchettarono sul suo errore. L’elvetica era una carneade e carneade è prontamente tornata: dopo il Mondiale è dispersa negli ordini d’arrivo, la stanno cercando con i cani da valanga. E la giovane aquilotta figlia d’arte, nona nell’occasione, deve ancora crescere per essere competitiva ad altissimo livello. Un pensiero lo merita pure Corinne Suter, terza di giornata e campionessa olimpica in carica (oltre ad essere stata pure iridata): è sciatrice tosta e di gran valore, ma non smonta l’idea che se la Goggia a Pechino 2022 fosse giunta al meglio della condizione fisica e non con una rocambolesca ripresa dall’infortunio di Cortina, non avrebbe vinto. E la nostra campionessa avrebbe celebrato il “back to back” rispetto al trionfo del 2018 a Pyeongchang. Ma questo è passato. E il passato non si cambia. Piuttosto, con esso ci si confronta. Ecco allora che la forza di Super-Sofi, il «Puma de Bèrghem», emerge dando un’occhiata agli albi d’oro: ha raggiunto Michela Figini (svizzera) e Katja Seizinger (tedesca), a loro volta vincitrici di quattro Coppe del Mondo di discesa, ed è diventata la quinta nella storia a conquistare tre trofei di fila dopo la Proell, le già citate Figini e Seizinger e ovviamente Lindsey Vonn, che di «coppette» della libera ne ha otto. Quindi, a carriera tutt’altro che terminata, Sofia Goggia è già nell’olimpo delle più grandi di sempre.

Sofia Goggia e il flirt con Massimo Giletti, la confessione del conduttore: "Amo le nevi vincenti". Redazione Sport su La Repubblica il 5 marzo 2023.

Il giornalista de "Non è l'Arena" ospite di Francesca Fagnani a Belve, su Raidue, si è lasciato andare. Un anno fa i due erano stati paparazzati a Roma, ma finora nessuna ammissione sulla loro relazione

Il gossip c'è da tempo. Le foto galeotte e rubate anche. Ma sul flirt fra Sofia Goggia e Massimo Giletti i due protagonisti hanno sempre mantenuto il massimo riserbo. Almeno fino a qualche giorno fa, quando Giletti è stato ospite a "Belve", la trasmissione di Raidue condotta da Francesca Fagnani, e si è lasciato scappare qualche indizio. Massimo Giletti è entrato in studio e ha ricordato che Sofia Goggia, una sera, gli ha fatto l'imitazione di Fagnani "in un modo pazzesco". Fagnani ha colto al volo l'occasione ("Adesso ci arriviamo e invitiamo subito la Goggia"), poi ha cercato di strappare altre confidenze nel privato a Giletti.

Giletti e i tradimenti in amore

Fagnani ha chiesto a Giletti: "Anni fa un sondaggio rivelò che una donna su tre avrebbe pagato cinquemila euro pur di passare una notte con lei". E lui: "Pensi com'erano messe queste donne. Saranno state tutte novantenni ricche in pensione". "Ma lei piace alle donne?". "Mi sono sempre piaciute le donne. E sarò piaciuto a qualcuna. Perché sono diretto, allegro, vivo un'altra vita rispetto al modo di vivere la televisione, e poi so ascoltare. Odio la quotidianità, nei rapporti ho sempre cercato di vivere la passione deo grandi attimi, poi dopo un po' le donne si scocciano ma quegli attimi li vivono bene. I tradimenti? Con le donne sono stato molto disonesto, uno è sempre alla ricerca e la ricerca comporta dei tradimenti, c'è l'illusione e la tendenza infermieristica di voi donne di curarmi, ma Giletti è incurabile, anzi era, ora faccio vita monacale".

Massimo Giletti e il flirt con Sofia Goggia: "Amo le montagne vincenti"

Fagnani ha chiesto se nella vita di Giletti esiste un amore "o è tipo Mark Caltagirone?", riferendosi, scherzosamente, al finto fidanzato di Pamela Prati. E qui Giletti per la prima volta si è sciolto: "Esiste". "Possiamo dire che è in pista?", la domanda con riferimento evidente a Sofia Goggia. "Mi faccia vivere dei giardini privati e coltivati". "Ma è innamorato adesso? "Sono innamorato della vita". "Ma anche delle nevi? Delle montagne?". "Avete capito? Stiamo parlando di Heidi. Io sono cresciuto, mi trovo molto a mio agio. Amo le montagne". "Quelle vincenti?". "Mi sa che stiamo parlando di una cosa che sappiamo solo noi, chi capisce capisce. I perdenti non mi sono mai piaciuti, comunque".

A maggio 2022 il conduttore de "Non è l'Arena" su La7 e la campionessa olimpica erano stati paparazzati a Roma: una cena insieme, poi un gelato. Le foto sono state pubblicate da Diva & Donna, ma dai diretti interessati mai nessun commento.

Estratto da corrieredellosport.it il 14 marzo 2023.

Spuntano nuove indiscrezioni sulla love story tra Sofia Goggia e Massimo Giletti. I diretti interessati, almeno fino ad oggi, non hanno né confermato né smentito i gossip sul loro conto ma è stato il famoso giornalista, indirettamente, a sganciare la bomba. Ospite di Belve su Rai Due, poco prima di cominciare l'intervista con Francesca Fagnani, ha confidato: "Pensavo a Sofia Goggia che una sera faceva la tua imitazione in un modo pazzesco...". La Fagnani ha prontamente indagato: "Allora adesso la invitiamo qui in studio Sofia". Poi ha insistito con Massimo chiedendogli se nel suo cuore c'è in questo periodo una persona. "Sì, esiste", ha confermato lui. 

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A conferma che la storia tra Sofia Goggia e Massimo Giletti è vera e va avanti da qualche tempo è una foto pubblicata dal settimanale Di Più Tv. Una foto scattata la scorsa estate che testimonia che la sportiva e il conduttore sono una coppia già da diversi mesi. Nell'immagine si vede Massimo, di spalle, mentre cammina per le strade di Roma dietro a Sofia durante un loro incontro che avevano cercato di tenere segreto. 

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La storia tra Sofia Goggia e Giletti

Una persona molto vicina a Giletti ha spifferato: "Non appena hanno qualche giorno libero fanno il possibile per vedersi, per stare insieme. Massimo è cotto di Sofia". La differenza d'età al momento non sembra essere un problema: lui ha 60 anni, la Goggia solo 30. Diverse le passioni in comune: la montagna (Giletti è nato e cresciuto a Torino e ha sempre frequentato Bardonecchia, una delle località sciistiche più note in Italia), gli animali e la Juventus.

Sofia Goggia, quel lato inedito della campionessa olimpica. Il Corriere della Sera il 30 dicembre 2022.

Questo sì che è un documentario: è la scoperta di una donna, le cui imprese sportive, pur straordinarie, rappresentavano soltanto la metà del racconto. 23 giorni. Il miracolo di Sofia Goggia è una produzione di Sky Sport, ideata dal direttore Federico Ferri e curata da Sara Cometti, che ricostruisce l’indimenticabile impresa olimpica della sciatrice azzurra: in 23 giorni dallo sconforto di un infortunio che pareva averle tolto ogni chance, alla medaglia d’argento di Pechino.

È il 23 gennaio 2022, siamo a Cortina d’Ampezzo, pista delle Tofane: nel corso del supergigante femminile valevole per la Coppa del mondo, Goggia cade malamente. Il replay delle immagini mostra una rotazione anomala del ginocchio, la diagnosi parla di distorsione del ginocchio sinistro con una lesione parziale del legamento crociato già operato nel 2013, una piccola frattura del perone e una sofferenza muscolo tendinea.

Video correlato: Sofia Goggia a Foppolo: "Che emozione, su queste piste è iniziato il sogno" (Dailymotion)

E qui entra in pista la Goggia che non conoscevamo. Nel ricostruire quei tormentati giorni che la separavano delle Olimpiadi, Sofia parla di sé, della coscienza che ha dei suoi limiti e della sua determinazione, delle sue paure con una sorprendete capacità d’introspezione. Spiega la differenza che esiste tra fidarsi delle persone e affidarsi alle persone (che fantastica persona il dott. Herbert Schoenhuber), descrive la difficoltà di superare la paura di sciare per gli altri e non per sé stessa, confessa lo sforzo fisico profuso per affrontare anche un innato senso di inadeguatezza, parla della velocità come una condizione esistenziale. Insomma, dietro la scorza un po’ dura dell’atleta, scopriamo una Sofia che si autorappresenta come mai i media avevano saputo fare, con un controllo nel raccontarsi pari soltanto alla sua bravura sugli sci. E non le manca l’ironia, quando passa in rassegna alcuni errori commessi in gara, prontamente definiti «goggiate».

Giorgia Iovane per tvblog.it il 4 gennaio 2023.

Sofia Goggia co-conduttrice di Sanremo 2023: è l’indiscrezione pubblicata da Il Messaggero e Il Mattino di oggi, 4 gennaio 2023, quotidiani per i quali mancherebbe solo l’annuncio ufficiale da parte del Direttore Artistico, Amadeus. Proprio Amadeus aveva dichiarato che un nuovo annuncio sul parterre di co-conduttrici sarebbe arrivato entro la fine del 2022, ma finora nulla è stato ufficialmente annunciato, se non la presenza di Mahmood e Blanco nella prima serata del Festival 2023 per cantare il brano vincitore di Sanremo 2022, Brividi.

 Ma torniamo alle co-conduttrici: finora è stata annunciata l’ufficialità di Chiara Ferragni nella prima e ultima serata di Sanremo 2023 (martedì 7 e sabato 11 febbraio) e Francesca Fagnani, in una serata ancora da definire. Stando sempre a Il Messaggero e a Il Mattino, Amadeus sarebbe intenzionato anche ad avere nella sua squadra la giornalista del Tg1 Giorgia Cardinaletti, che seguirebbe dunque le orme delle colleghe Laura Chimenti ed Emma D’Aquino, presenti a Sanremo 2020.

Volendo, qualche indizio potrebbe essere arrivato: il primo è il collegamento con Fiorello durante Viva Rai 2!. E non si può dire che Fiorello sia ‘estraneo’ ai movimenti di ‘Casa Amadeus’.

 Un altro è arrivato dalla stessa Goggia, che in una su Instagram di qualche giorno fa raccontava divertita di essere entrata sanguinante a casa di Giorgio Armani. Si lavora a degli outfit, dunque, anche se un ‘primo risultato’ di questa collaborazione sembra destinato a Sportweek.

 Sarebbe dunque la Goggia “la ragazza che non sta mai ferma”, come da indizio fornito dallo stesso Amadeus. A questo punto attendiamo l’annuncio ufficiale, che potrebbe arrivare il 6 gennaio, nel corso dello Speciale dei Soliti Ignoti – Il ritorno per la Lotteria Italia. Magari con una doppietta al Tg1, per invitare la Cardinaletti e nel corso della serata per confermare la Goggia.

Se le indiscrezioni dei quotidiani fossero giuste, non mancherebbe più nessuna co-conduttrice, anche se molti non avrebbero visto male anche Noemi al fianco di Amadeus dopo le ‘prove di conduzione’ a L’Anno che Verrà.

Daniele Sparisci per corriere.it il 4 gennaio 2023. 

La mano gonfia scivola sul pianoforte.

Sofia Goggia come sta?

«Ogni mattina mi sveglio con tanto dolore, ho preso una bella tranvata. Vedremo come va nei prossimi giorni sugli sci, impugnare il bastoncino sarà impegnativo».

Che cosa suona?

«Einaudi e Max Richter».

Sofia in pista anche per l’ambiente. Poca neve, temperature primaverili, com’è il cambiamento climatico visto dalle montagne?

«Allarmante. Alcuni studi (Sofia è testimonial per la sostenibilità di Deloitte Italia ndr) paragonano l’inquinamento globale a una vasca da bagno piena: il problema non è solo chiudere i rubinetti ma anche far defluire l’acqua. Sto andando in Val di Fassa e piove anche là. Però in questa stagione ho anche sperimentato un freddo mai sentito prima».

Dove?

«In Nord America, abbiamo passato settimane a -25 C°».

 C’è chi protesta contro il cambiamento climatico tirando vernice, che ne pensa?

«Quando hanno imbrattato i Girasoli di Van Gogh ho provato una grandissima rabbia. Sono gesti inutili, inquinano ancora di più perché le opere poi vanno pulite con solventi e altre sostanze».

Vale per tutto, anche per i muri del Senato?

«Sì, sì. Non sono d’accordo con le proteste vandaliche».

 Torniamo a lei. Dopo una vittoria se la gode o pensa già alla prossima?

«La gara più importante è sempre quella dopo. Sono sempre sul pezzo e affamata».

 È un’inquietudine di fondo?

«È tensione per raggiungere ciò che ancora non abbiamo, un movimento continuo. Chi si ferma è perduto».

 Desideri per il nuovo anno, che cosa ha espresso?

«Stare bene, fisicamente e mentalmente».

 Nella vita di tutti di giorni va sempre veloce come scia. Riesce mai a rilassarsi?

«Ogni tanto. Anche se il tempo, per come sono io, non è fatto per fermarsi. Però ultimamente ho trovato degli escamotage».

 Per esempio?

«Stare con la famiglia, con gli amici, con il cane. Trascorrere del tempo di qualità».

 È fidanzata?

«No» .

A mettere su famiglia ci pensa?

«No, perché so che cosa voglio dai prossimi quattro anni. Poi la vita è imprevedibile, prende pieghe particolari sia nel bene che nel male. Vivo fra un hotel e un altro da quando ho 15 anni, cambio posto ogni 3-4 giorni, con la valigia sempre in macchina, mi sento un po’ una zingara. Pensare di convivere per tutta la vita con una persona, non credo che faccia per me».

Magari non adesso ma dopo...

«Adesso è chiaro che no, ma non so se anche dopo sarei in grado di farlo».

 Dica la verità: le storie divertenti sui social, le frasi a effetto, le studia o le vengono naturali?

«Tutto naturale. Emerge la mia semplicità. I fan capiscono che sono una di loro, una alla mano. Mi levo l’aurea della campionessa con cui mi vedono. Sono quella che affronta la discesa con la mano rotta ma anche quella che si piega dalle risate alla sagra del casoncello».

È più faticoso o più divertente essere Sofia Goggia?

«Divertente. A parte gli infortuni, ma le sofferenze insegnano ad andare oltre. Non so se ho preso o dato di più a questo sport, il conto lo farò alla fine. Però sono abbastanza orgogliosa dei miei risultati, nonostante abbia versato lacrime e sangue».

 Cosa vuole dai prossimi 4 anni?

«Vincere tutto quello che posso: gare di Coppa del Mondo, coppe di specialità, medaglie mondiali e olimpiche. Provare a essere l’atleta che ancora non sono riuscita a essere».

 Canta ancora mentre scia?

«Ogni tanto sì».

 Colonna sonora?

«Ultimamente Celentano, “Un bimbo sul leone”, “Un mondo in Mi 7a”. Oppure Ornella Vanoni, “L’appuntamento”».

 Mentre va a 100 all’ora?

«Solo quando sono felice. Mi è capitato di vincere gare cantando. Cantando nella testa, mai con la voce».

 Mikaela Shiffrin ci ha raccontato che di lei ammira «il fuoco che ha dentro». E lei di Mikaela?

«Solidità e strategia, sarebbe stata un’ottima comandante militare. Avrebbe fatto fare tutte le mosse giuste alle sue truppe».

 Venti successi in Coppa come Federica Brignone, siete le italiane più vincenti di sempre. Come vanno le cose fra voi?

«Devo dire... bene!».

 Sono migliorati i rapporti?

«Abbiamo trent’anni, siamo donne. Basta bambinate. Non vedo ostilità particolari, secondo me questa rivalità è stata molto più “bombata” mediaticamente di quanto lo fosse davvero».

E Marta Bassino nel gruppo chi è?

«Tranquilla. Una madamin piemontese. Furba, perché sa il fatto suo ma sta sempre al suo posto».

 Sofia, come si disconnette?

«Spegnendo il telefono o stando con persone che mi fanno dimenticare del telefono. Il mio lusso è non essere raggiungibile e vivere la realtà. I social sono importanti, ma la vita vera è un’altra».

 Che libro ha letto di recente?

«Testi universitari, studio Scienze politiche alla Luiss. Avevo gli esami dopo St. Moritz, mi dicevano: “Ma come, vai a Roma con la mano rotta?”. E io: “Mi sono fatta un c... per quest’esame”. Ero in catalessi, ma mi ero imposta di studiare dopo allenamenti e gare. E mi sentivo pronta».

Che esame era?

«Storia delle dottrine politiche. Si partiva da una domanda a piacere».

 Che ha scelto?

«Aristotele che in una frase diceva: “Mano e piede non sono nulla senza il corpo”. Ho citato il concetto degli organicisti, tutto viene prima delle parti ma le parti devono collaborare. Per poi passare al Principe machiavellico e all’impronta che vuole lasciare nella storia tramite la volontà. Ricalcando un po’ ciò che mi era successo a St. Moritz. Perché a volte la volontà va oltre le parti mancanti».

Se non avesse sciato che cosa avrebbe fatto?

«La sciatrice. No, dai: un’alternativa c’era. Da piccola ero un talento nella recitazione. Al teatro della scuola...».

Il più lento delle Olimpiadi.

Il Settebello.

La Depressione.

Thomas Ceccon.

Linda Cerruti.

Federica Pellegrini.

Margherita Panziera.

Il più lento delle Olimpiadi.

Eric l'anguilla, il nuotatore più lento delle Olimpiadi: non aveva mai visto prima una piscina. Nel 2000, a Sidney, il ventiduenne Eric Moussambani viene selezionato da un programma speciale per favorire la partecipazione ai Giochi dei paesi in via di sviluppo: non aveva mai visto in vita sua una piscina olimpionica. Paolo Lazzari il 17 Settembre 2023 su Il Giornale.

Mentre vacilla sul bordo umido che lo separa dal tuffo, probabilmente pensa a chi gliel'ha fatto fare. Stringe di più gli occhialini, assesta la cuffia, tira su il costume: sono i gesti che lo separano da un'impresa che, date le dimensioni del muro d'acqua che gli si staglia davanti, lui non vorrebbe mica compiere. La questione è che la Guinea Equatoriale è stata inserita in un programma speciale dedicato ai paesi in via di sviluppo. Gli organizzatori dei Giochi Olimpici vogliono incentivarne la partecipazione e così a Sidney, nel 2000, il ventiduenne Eric Moussambani si trova in procinto di tuffarsi con un discreto groviglio di dubbi ad intasargli il cervello.

Primo: in patria lui sarebbe un pallavolista. Secondo: ha imparato a nuotare soltanto 8 mesi prima, nella piscinetta di un albergo di Malabo. Terzo: lui una piscina olimpionica è la prima volta che la vede in vita sua. Chiaro, come sovente accade c'è sempre chi è messo addirittura peggio di te. Prendiamo il caso di quei due che dovrebbero gareggiare accanto a lui nelle qualificazioni dei 100 metri stile libero, il nigeriano Karim Bare e il tagiko Farkhod Oripov. Partono entrambi prima del gong e vengono squalificati. Almeno Eric ha il tempismo giusto. Ma ora deve nuotare da solo in cerca del miglior tempo possibile, davanti a 17mila spettatori.

Tentenna legittimamente, dunque, ma poi si butta. Panciata clamorosa. Quindi inizia il suo show. Procede in modo sgraziato, con la testa fuori dall'acqua, le gambe sommerse e fuori sincrono rispetto alle braccia. Così fa una fatica monumentale, ma porta comunque a casa i primi 50 metri dignitosamente. La gente sugli spalti intanto è interdetta: alcuni fischiano. Molti di più comprendono le difficoltà di Eric e iniziano ad incitarlo.

Nei secondi 50 metri sono tutti con lui. Solo che Moussambani ha già scaricato le pile. Annaspa tra i flutti da lui stesso generati. Arranca penosamente. Sta andando lentissimo. Ingurgita cloro ad ogni bracciata. Ad un certo punto deve anche pensare che forse sarebbe meglio gettare la spugna, ormeggiarsi ai divisori e buonanotte. Poi tutto quel tifo per lui, misto ad una sorsata d'orgoglio, gli passa le energie per trascinarsi fino in fondo.

Quando finalmente tocca la sponda da cui si è lanciato fa registrare il tempo di 1′ 57″52. Il più lento di sempre in questa specialità, nell'intera storia delle Olimpiadi. Praticamente più del doppio del tempo medio. Quando esce, stremato, ha appena il tempo di sussurrare: "Non sono mai stato così stanco in tutta la vita". Poi diventa la notizia del giorno. In sala stampa si riversano cento giornalisti. La sua discutibile performance si trasforma rapidamente in storia simpatica: i media lo ribattezzano giocosamente Eric l'anguilla. La Speedo gli regala un costume per andare più veloce, poi lo ingaggia come testimonial. La sua storia allarga, comunque, il fronte della riflessione sullo sport nei paesi in via di sviluppo.

Oggi Moussambani allena la nazionale di nuoto della Guinea Equatoriale. Non sono velocissimi, d'accordo. Ma un tecnico così famoso non ce l'ha quasi nessuno.

Il Settebello.

Ermenegildo Arena, l'uomo che si inventò il Settebello. Un viaggio in treno sul finire degli anni Quaranta, un gruppo di ragazzi e ragazze che si mescola, una battuta fortunata: così nacque il mito. Paolo Lazzari il 20 Agosto 2023 su Il Giornale.

Chi disse che le cose migliori sono sempre quelle sospinte dal caso, forse ci aveva preso in pieno. Certo, per capirsi a volte bisognerebbe esserci, dentro alle situazioni. Il balzo carpiato è prepotente. Italia deturpata dalla seconda guerra mondiale, appena uscita dall'apnea del conflitto, in movimento lento e oscillante per cercare di rimettersi in sesto. Siamo sul finire degli anni Quaranta. Treno che sbuffa lavorandosi la parsimoniosa costa ligure. Vagone affollato e rumoroso. Sui sedili centrali di quella carrozza se ne stanno stravaccati sette ragazzi giovani dalle spalle larghe e dai sorrisi ampi. Uno si riavvia i capelli, l'altro indugia con il tappo di una bottiglietta d'acqua, uno ancora sghignazza rammentando il successo che hanno appena messo via.

Se si potesse frugare nei borsoni stipati sopra le loro teste scoveremmo in fretta cuffie, accappatoi, costumi e ciabatte. Perché si dà il caso che quella chiassosa combriccola sia la spina dorsale della Rari Nantes Napoli. Tornano in locomotiva da una trasferta vittoriosa e questo li carica a maggior ragione. D'un tratto il treno inchioda per far salire a bordo altri mucchi di passeggeri. Tra la folla spicca un gruppetto composto da quattro ragazze tedesche che trovano posto proprio accanto ai nostri. La detonazione ormonale è inevitabile. Scoccano le prime battutine nella ancestrale lingua dei gesti. Poi inizia una partita a carte che cela maldestramente, è ovvio, altri intenti.

A capo di quello spassoso drappello di aitanti corteggiatori c'è Ermenegildo Arena. Napoletano spumeggiante, sulla trentina visto che è nato nel 1921, leader carismatico e tecnico di quella squadra. Estasiato da quel promettente quadretto si rivolge alle tedesche con un'esclamazione che avrebbe inciso la storia futura della pallanuoto italiana: "Noi siamo sette, sette e belli, siamo il Settebello!". Touché.

Non troppo tempo dopo lo stesso Arena salirà verso la postazione dei telecronisti, alle Olimpiadi di Londra del 1948, per intercettare il divino cronista sportivo Nicolò Carosio. E, una volta trovato, gli chiederà esplicitamente di chiamarli così - il Settebello, appunto - da qui in avanti. Quello accetta divertito. Nel frattempo, in vasca, l'Italia sbraccia verso la medaglia d'oro. La nazionale gioca una pallanuoto talmente ariosa da costringere anche gli inglesi, che certo non stravedono per noi in quel frangente storico, a spellarsi le mani in segno d'approvazione.

Inizia così l'epopea di un soprannome che collimerà per sempre con gli azzurri. Un adesivo ancora più luccicante grazie alle imprese sportive affastellate con Arena in acqua. Lui, infatti, è lo zaffiro di una squadra vincente. Interseca un nuoto fluido, potente e rapidissimo, con intuizioni da fantasista dell'acqua dolce. Una volta che riesce a portarsi a ridosso della porta avversaria colpisce con sequenze mai banali - destro, sinistro alternati, oppure il famoso gancio "alla beduina", di spalle rispetto allo specchio - infilzando gli avversari con una sorta di fervore pittorico.

Un artista illeggibile, Arena, che in virtù di quelle doti trascendentali otterrà il soprannome postumo di "Maradona della pallanuoto". Ma il colpo che galleggerà per sempre nella memoria comune resta quello segnato dentro al vagone di un treno che scendeva verso Napoli.

La Depressione.

Da ilnapolista.it venerdì 28 luglio 2023.

C’è un filo subacqueo sottile che unisce i campioni del nuoto: la propensione a cadere in un vortice di disagio mentale. Come scrive El Mundo, che dedica un pezzo al tema: se “il nuoto è un deserto, sulla strada che lo attraversa, tanti, tanti si sono persi. Due dei tre migliori nuotatori della storia, Michael Phelps e Ian Thorpe, hanno attraversato una grave depressione, come Grant Hackett, Missy Franklin e, tra gli spagnoli, Rafa Muñoz”. Gli ultimi due Caleb Dressel e Adam Peaty. 

“Quando immergi la testa sei solo. Quando sei bravo, sei il migliore. Ma quando vai male… Non smetti di pensare che tutto è una fottuta merda”, dice al Mundo Muñoz. 

Alle Olimpiadi di Tokyo Dressel vinse cinque medaglie d’oro e Peaty due. Poi sono finiti nel vortice. 

“Arrivò un momento in cui pensai: fanculo il nuoto, fanculo l’allenamento! La mia vita erano le Olimpiadi e tutto doveva essere perfetto. Ho vinto cinque ori a Tokyo, ma non ho ottenuto i tempi che volevo e mi sentivo una schifezza. Sono caduto in un pozzo. Mi sono rinchiuso”, ha raccontato Dressel.

Per diverse settimane è rimasto nella sua stanza, senza parlare con nessuno, senza sapere cosa non andava in lui e, naturalmente, senza allenamento. Poi è tornato per inerzia, ha gareggiato anche all’ultimo Mondiale di Budapest e ha vinto due ori. Ma in piena competizione ha avuto una ricaduta – racconta il giornale spagnolo – il cielo si è nuovamente oscurato, ha preso il primo aereo per gli Stati Uniti e ha deciso di fermarsi. Non sa ancora se ci sarà a Parigi 2024. 

Peaty invece s’è dato all’alcol. Ha rotto dopo i Giochi di Tokyo ed è scomparso dall’acqua. Con due medaglie al collo, Peaty ha subito un raro infortunio allenandosi nella palestra del suo hotel a Tenerife, ha affrontato il divorzio e la sua vita è andata in pezzi. Che senso aveva cercare di recuperare e vincere ancora se nessuno lo aspettava a casa?

“Da nuotatore speri che un oro o un record mondiale risolva tutti i tuoi problemi, ma quando raggiungi un successo del genere ti rendi conto che nulla è risolto. Dopotutto, una medaglia è un oggetto molto freddo per il quale hai sacrificato la tua vita. C’è un momento in cui ti rendi conto che devi davvero fermarti e mettere ordine in ciò che ti circonda”.

Thomas Ceccon.

Il ritratto del campione. Chi è Thomas Ceccon, oro ai Mondiali di nuoto di Fukoka: il campione dei record. Redazione Web su L'Unità il 25 Luglio 2023.

Nessun nuotatore italiano aveva mai vinto una medaglia mondiale nei 50 farfalla (o delfino, una specialità che non c’è alle Olimpiadi). Thomas Ceccon ha vinto l’oro ai mondiali di nuoto di Fukuoka, ha conquistato anche l’argento nel 100 dorso, mancando per un soffio il bis mondiale. E ha già migliorato il record italiano, che già deteneva, mezz’ora dopo essersi qualificato alla finale dei 100 metri dorso, dove martedì non è riuscito a difendere il titolo mondiale vinto un anno fa (con record mondiale) finendo secondo per 5 centesimi dietro lo statunitense Ryan Murphy. Un atleta straordinario che vince tanto e in specialità diverse. Nato a Thiene, provincia di Vicenza, il 27 gennaio 2001, sin da piccolo ha iniziato a nuotare sulle orme del fratello maggiore Efrem.

Alto un metro e 97 e pesa 87 chili, ha già portato a casa numerose vittorie importanti. Campione del mondo ai mondiali di Budapest 2022 nei 100 metri dorso, dove ha stabilito il primato mondiale con il tempo di 51″60, Ceccon è salito cinque volte sul podio mondiale in vasca lunga, eguagliando Massimiliano Rosolino. In un’intervista a Vanity Fair ha raccontato i suoi esordi: “Nella piscina di Schio, la città dove sono nato e cresciuto. Mio padre appunto mi lanciava questi hamtari e io mi esercitavo insieme a mio fratello a fare le subacquee. È uno dei miei primi ricordi, sicuramente tra i più belli”.

In un’intervista alla Stampa ha fatto un rapido passaggio sulla sua vita sentimentale: “Sono fidanzato con Giorgia Biondani, una delle ragazze che nuotano a Verona con me. Lo sanno in pochi, è una storia recente e non è che sto a postare foto insieme o che. La mia vita privata non la spiffero”. E, sempre a Vanity Fair che chiedeva se tra un allenamento e un altro si può trovare il tempo per la vita sentimentale ha detto: “Il tempo, se vuoi, lo trovi. Certo, diciamo che se prendi una persona che fa sport, non per forza il tuo e non per forza ad alto livello, è più probabile riesca a capirti. Il rischio sennò è che magari le dici che sei arrivato secondo alla gara della vita, ti risponde che va benissimo e che il secondo posto è un bellissimo piazzamento. E no, il secondo posto non va per nulla bene”.

Si era definito “pecora nera” di un gruppo fantastico, forse il più forte di sempre a suo dire. Figlio di un calciatore e di una pattinatrice, ha fatto sport fin da piccolo. Con il fratello Efrem giocavano a tennis. Sono passati al nuoto perché con i capelli lunghi, che non volevano tagliare, faceva troppo caldo. È tesserato per l’Asd Leosport/Fiamme Oro. Ha vinto il bronzo mondiale nella 4×100 sl, i bronzi europei a Budapest 2020 (4×100 sl, 4×100 misti e 4×100 sl mista). A livello giovanile, Ceccon aveva conquistato l’oro nei 50 stile libero alle Olimpiadi giovanili di Buenos Aires 2018 (anche argento nei 50 dorso e 200 misti, bronzo nei 100 dorso e 4×100 sl) e aveva vinto l’oro nei 100 dorso ai Mondiali giovanili del 2019. Con il suo record ha cancellato il tabù italiano nel dorso che finora aveva visto solo Stefano Battistelli sul podio iridato con l’argento nei 200 dorso a Perth 1991, emulato ai Mondiali di Roma 1994 da Lorenza Vigarani.

“Il record del mondo in Italia l’hanno fatto 4 atleti forse, è un ‘achievement’ che per la carriera di uno sportivo è tanta roba – ha detto l’azzurro ai microfoni della Rai un anno fa a Budapest -. Oggi gli americani sono andati molto forte, Murphy si nasconde sempre e poi in finale tira fuori quello che non ha. L’altro ragazzo (Armstrong, ndr) ha la mia età e sapevo che poteva andare forte. La gara di ieri mi ha dato tanta sicurezza, oggi non dico che sapevo di vincere ma secondo me non avevo rivali. L’emozione? Sinceramente non lo so, non ne ho idea. Poi ovviamente oggi mancavano i due russi, sarebbe stata una sfida ancora maggiore. L’obiettivo non è questo, è più in alto, ma già così sono contento“.

Dalle Olimpiadi di Tokyo era tornato a casa con due medaglie, entrambe in staffetta, argento nella 4×100 e bronzo nella mista. È arrivato ai mondiali in Ungheria dopo non pochi contrattempi. “Ho saltato la mia classica preparazione, ho deciso di gareggiare nella Isl, la lega privata, fino a dicembre, quindi ho messo meno chilometri all’inizio. Poi a febbraio ho avuto il Covid: un paio di giorni di raffreddore, pensavo tutto ok, ma per mesi non sono stato più io. Lavoravo duramente, ma facevo tempi che non ho mai fatto in vita mia. Agli Assoluti sono arrivato solo sesto nei 100 stile, quindi quella gara qui a Budapest non la farò”, aveva detto a Il Corriere della Sera.

A descrivere e celebrare sulle pagine del quotidiano spagnolo El Pais l’impresa di Ceccon l’esperto di biomeccanica Raul Arellano. “Ha nuotato con una frequenza straordinariamente bassa. È un evento molto raro ed è dovuto a una tecnica eccezionale“, si legge sul giornale iberico. “Ceccon ha mantenuto sangue freddo. Contro ogni logica di biomeccanica e fisiologia, che costringono i nuotatori ad aumentare la frequenza dei colpi quando la fatica determina una maggiore immersione del corpo in acqua, l’italiano ha dato 34 bracciate nei primi 50 metri e solo 33 nel secondo, quando la logica avrebbe voluto che fossero 35 o 36“. Un articolo che celebra la scuola di nuoto italiana: “L’impresa di Ceccon non sembra casuale. Lo ha dimostrato Nicolò Martinenghi con l’oro nei 100 rana. L’Italia è il paese europeo che più resiste alla supremazia degli Stati Uniti. E riesce a farlo grazie ai suoi velocisti fenomenali. A differenza della Spagna, dove ogni individuo sfrutta le proprie possibilità, gli italiani hanno creato una vera squadra“.

Redazione Web 25 Luglio 2023

Linda Cerruti.

Da repubblica.it il 12 gennaio 2023.

La Polizia di Stato ha identificato e denunciato gli autori della diffamazione a mezzo internet ai danni della campionessa di nuoto sincronizzato Linda Cerruti, vittima di insulti sessisti. Ad agosto dell'anno scorso, dopo una straordinaria prestazione agli Europei di nuoto sincronizzato di Roma che l'aveva portata a vincere otto medaglie, la campionessa aveva festeggiato postando su Instagram una foto in cui compariva in costume da bagno, in una classica posa del nuoto sincronizzato, esibendo le medaglie conquistate.

La foto, scattata sul molo di Noli (Savona), la sua città natale, aveva attirato molti commenti, alcuni dei quali diffamatori e sessisti. L'atleta, amareggiata, aveva deciso di denunciarli rivolgendosi alla Sezione operativa per la Sicurezza cibernetica della Polizia Postale di Savona. Le indagini, condotte anche dagli esperti del Centro operativo per la Sicurezza Cibernetica di Genova e coordinate dalla Procura di Savona, con il supporto del Servizio Polizia Postale di Roma, hanno permesso d'identificare 12 utenti della rete, ritenuti autori dei commenti diffamatori più condivisi.

Tra questi un impiegato romano, cinquantenne, un operaio veneto, due pensionati residenti in Lombardia, un dipendente pubblico quarantenne residente in Friuli Venezia Giulia e un trentenne, residente in Sardegna. Con la partecipazione dei Centri Operativi per la Sicurezza Cibernetica della Polizia Postale della Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Lazio, Umbria e Sardegna, sei utenti sono stati destinatari di una perquisizione informatica delegata dalla Procura di Savona, mentre gli altri sei sono stati convocati presso i Centri Operativi della propria città e dovranno rispondere del reato di diffamazione aggravata.

I provvedimenti adottati nella fase delle indagini preliminari costituiscono uno strumento per la prosecuzione e conclusione dell'attività investigativa. "Questa operazione - fanno sapere gli investigatori - smentisce ancora una volta chi pensa che l'anonimato in rete possa essere sfruttato per commettere reati informatici. I Centri Operativi per la Sicurezza Cibernetica della Polizia Postale sono attivi sia nell'educazione dei giovani all'utilizzo consapevole degli strumenti digitali, mirata anche a prevenire le campagne di odio online, che nella repressione di ogni manifestazione delittuosa commessa attraverso la rete".

Da repubblica.it il 12 gennaio 2023.

La gioia del trionfo, la condivisione sui social delle otto medaglie (6 argenti e 2 bronzi) vinte agli Europei di Roma con la tipica del sincro. Tutto rovinato da commenti fuori luogo, espliciti, volgari e sessisti. E Linda Cerruti, inevitabilmente e comprensibilmente, c'è rimasta male.

 "Come ogni anno, dopo mesi e mesi di sacrifici (sveglia alle 5, allenamenti e fisioterapia fino a sera, repeat) è arrivata quella settimana in cui alzo la testa fuori dall'acqua, e respiro...", spiega prime di usare parole dure con chi l'ha insultata. "Sono rimasta basita nonché schifata dalle centinaia, probabilmente migliaia, di commenti fuori luogo, sessisti e volgari che ho letto.

Trovo a dir poco vergognoso leggere quest'orda di persone fare battute che sessualizzano il mio corpo. Un sedere e due gambe sono davvero quello che resta, l'argomento principale di cui parlare?

 L'unica cosa che posso fare è denunciare l'inopportunità di quei commenti, specchio di una società ancora troppo maschilista e molto diversa rispetto a quella in cui un domani vorrei far nascere e crescere i miei figli. Ringrazio le persone che mi hanno difeso e hanno apprezzato la foto per quello che è: l'immagine di un'atleta di nuoto artistico orgogliosa dei suoi risultati".

Il post di Linda Cerruti su Instagram

 Come ogni anno, dopo mesi e mesi di sacrifici, è arrivata quella settimana in cui alzo la testa fuori dall’acqua, e respiro. Sia chiaro, non mi sto lamentando, ma sto solamente riportando la realtà quotidiana che è stata più che ripagata da una carriera piena di soddisfazioni.

 Due giorni fa ho condiviso una foto fatta nella spiaggia in cui vado da sempre, in cui ho coltivato i primi sogni e che per me ha anche un forte valore simbolico. La foto mi ritrae in una posa artistica, tipica del mio sport, a testa in giù e in spaccata, insieme alle otto medaglie vinte in quello che è il miglior campionato europeo della mia carriera. Il post è stato ripreso da vari giornali fra i quali @gazzettadellosport , @tuttosport , @larepubblica e @ilfattoquotidianoit .

Stamattina una mia amica mi invia uno di questi post condiviso dalle testate giornalistiche sulla loro pagina Facebook, lo apro e rimango letteralmente basita nonché schifata dalle centinaia, probabilmente migliaia, di commenti fuori luogo, sessisti e volgari che lo accompagnano. Qui sopra, scusandomi in anticipo con le giovani atlete che mi seguono per quanto leggeranno (ma l’alternativa è il silenzio, che è uno dei motivi per cui oggi leggiamo ancora queste cose), riporto alcuni screenshot esemplificativi della pochezza di alcune frasi a commento della foto.

 Dopo più di 20 anni di allenamenti e sacrifici, trovo a dir poco VERGOGNOSO e mi fa davvero male al cuore leggere quest’orda di persone fare battute che sessualizzano il mio corpo. Un sedere e due gambe sono davvero quello che resta, l’argomento principale di cui parlare?

 Il minimo, nonché l’unica cosa che posso fare, è denunciare l’inopportunità di quei commenti, specchio di una società ancora troppo maschilista e molto diversa rispetto a quella in cui un domani vorrei far nascere e crescere i miei figli. Ci tengo, allo stesso tempo, a ringraziare tutte le persone che hanno preso le distanze da questi commenti, mi hanno “difesa” ed hanno apprezzato la foto per quello che è: l’immagine di un’atleta di nuoto artistico orgogliosa dei suoi risultati. E’ questa l’Italia che orgogliosamente rappresento portando la bandiera tricolore in giro per il mondo.

 Daniele Cotto per “La Stampa” il 12 gennaio 2023.

Linda Cerruti ha appena caricato in auto la mountain bike, dopo un pomeriggio catartico trascorso a pedalare nell'entroterra ligure con il fidanzato Francesco. Troppi pensieri ancora la tormentano. È finita nel tritacarne mediatico, vittima di messaggi sessisti, e ora deve, suo malgrado, scacciare i fantasmi.

 «Con la fatica ho cercato di cancellare l'amarezza per tutte quelle frasi maschiliste che ho ricevuto sui social. Possibile che questa gente sappia occuparsi solo di un sedere e di due gambe, ignorando le vittorie? Siamo atlete, non oggetti». Parla con calma, la regina della disciplina più spettacolare del nuoto, la stella della Marina Militare.

Non chiamatela sincronetta, lei è molto di più: è diventata un simbolo del successo italiano, un'artista della piscina che il mondo ci invidia. Spiega i concetti basilari del suo sport spettacolare, pur dovendosi difendere per quella "colpa" inesistente: aver postato su Instagram una posa acrobatica, provata mille volte in allenamento, con le gambe in spaccata sulle quali ha appeso le otto medaglie.

 Sono i sei argenti e i due bronzi vinti agli Europei di nuoto terminati domenica scorsa a Roma. Una foto artistica, sportiva. Fatta con ironia e orgoglio, un flash per rivivere le emozioni di quelle giornate intense nelle quali lei, l'azzurra vincente di Noli (Savona), 28 anni e tanti interessi coltivati dopo il liceo scientifico, è stata ancora protagonista esaltando il tricolore. Un'esplosione di gioia che i "leoni da tastiera" hanno interpretato e commentato a modo loro. Da beceri. Linda, con la sua presa di posizione serena, offre un esempio di coraggio e di civiltà.

Cosa vuole trasmettere alle donne vittime di questi attacchi?

«Spesso la soluzione scelta è mettere tutto a tacere, ma non è giusto. Il mio messaggio non cambierà il mondo, però è un segnale, un passo importante. È necessaria una rivoluzione culturale per superare queste orrende dinamiche sociali.

 Ho riflettuto molto su quello che è successo e poi ho deciso di prendere provvedimenti concreti denunciando il fatto alla Polizia Postale, che ringrazio. Perché ci tutela. Il mio atteggiamento è un invito a tutte le donne a credere e a lottare per una società migliore nella quale far crescere i nostri figli. Non dobbiamo aver paura».

 Cosa ha provato quando sui social ha letto le reazioni alla sua foto?

«Profonda tristezza. Sono schifata per i commenti volgari, fuori luogo. Sono centinaia, forse migliaia. Ho scattato quell'immagine sulla spiaggia che frequento da sempre, dove sono cresciuta e dove ho coltivato i primi sogni da atleta».

Qual è secondo lei la motivazione che spinge queste persone ad insultare?

«Credo ci sia molta leggerezza. Chi non è atleta non sa e non capisce quanta fatica c'è dietro ad una medaglia, è un sogno che si avvera. E vuoi festeggiare. Avevo fatto la stessa foto nel 2010, l'anno dell'esordio in Nazionale. Poi l'ho ripetuta nel 2018 quando ho vinto sette medaglie agli Europei. E poi c'è questa, con otto. Bella. Ma interpretata male. Per fortuna ho ricevuto anche moltissimi messaggi di solidarietà e tanti complimenti».

 Ci racconti la sua giornata da atleta.

«Sveglia alle cinque, poi in acqua alle sei e un quarto e allenamento fino alle 12. Pausa per il pranzo e dalle 15,30 si ricomincia, dividendosi tra palestra e piscina fino alle otto di sera. Quindi cena e fisioterapia. E verso le nove e mezzo di sera crollo, non restano molte energie. Ecco, questa è la nostra vita, voglio spiegare che dietro ad ogni medaglia c'è una fatica immensa. Altro che storie».

 Ciò che è successo è lo specchio del degrado della nostra società?

«Pochi giorni fa ho sentito una mia collega francese che ha dovuto affrontare lo stesso problema. Purtroppo è un fenomeno esteso, non solo un malessere italiano».

 Quali sono i suoi programmi ora?

«Come ogni anno, dopo mesi di sacrifici, è arrivato il momento in cui alzo la testa dall'acqua e respiro. Ora mi godo questi giorni a casa, poi mi dedicherò al camp organizzato dalla mia società, la Rari Nantes Savona, per le giovanissime. A settembre, invece, stacco tutto e volo in Indonesia».

 Si sarebbe mai immaginata un dopo Europeo così strano?

«No, mi creda. Però adesso non ne voglio più parlare. Perché non è giusto dare spazio a persone così. Con la denuncia ho fatto la mia scelta. Dobbiamo agire, tutti insieme: le parole a questo punto non servono più».

Federica Pellegrini.

Estratto dell’articolo di Novella Toloni per ilgiornale.it sabato 8 luglio 2023.

Da Luca Marin a Filippo Magnini fino a Matteo Giunta. Nella sua biografia "Oro", Federica Pellegrini ha dedicato ampio spazio agli amori vissuti fuori e dentro la piscina. Relazioni chiacchierate, sofferte e soprattutto finite sulle copertine delle maggiori riviste di gossip. 

Ma dei suoi ex la Divina non ha parlato sempre bene e il primo a pagarne le spese è Luca Marin, che nel libro viene descritto come un uomo "geloso, possessivo" e con un serio "problema di ruolo". 

(...) 

L'ossessione di Luca Marin

Luca Marini e la Pellegrini si frequentavano di nascosto. Il loro allenatore, Alberto, non tollerava che i suoi atleti avessero storie tra loro, ma i due nuotatori andavano controcorrente. La passione e l'idillio, però, durano poco. "Io ero più conosciuta e lui era ossessionato dal dover dimostrare che questo nella nostra coppia non significava niente. Che comunque lui era il maschio. In pubblico si comportava in maniera sprezzante, maleducata, perché fosse chiaro a tutti che non era affatto sottomesso a me, semmai il contrario", scrive nel libro la campionessa.

"Era una questione di competizione"

Nella biografia Federica Pellegrini parla di sé come di una donna debole, che non riusciva a frenare il compagno quando in pubblico diceva cose inopportune: "Ma non volevo ferirlo. Ero innamorata e trovavo per lui mille scuse". La campionessa ha spiegato che il problema era la competizione che Marin sentiva forte tra loro. E quando Federica Pellegrini ha vissuto un momento difficile, sopraffatta dagli attacchi di panico che la costringevano a lasciare allenamenti e gare, qualcosa con Luca si è rotto: "Luca Marin non ce la faceva ad aiutarmi. L'ho già detto, è una persona buona ma ha un carattere difficile". 

La sbandata per Magnini

L'epilogo della storia d'amore con Marin coincide con il colpo di fulmine per Filippo Magnini. Era il 2011. "Le cose con Luca andavano male da un po'. Negli anni avevo accumulato, accumulato, accumulato. Le magagne della relazione, i difetti. Dunque, da una parte non ne potevo più dei suoi comportamenti, dall’altra ero cotta, cottissima di un altro", rivela la Pellegrini, parlando dei sotterfugi messi in atto per incontrarsi di nascosto con Magnini ai mondiali di nuoto di Shanghai: "Luca era sospettoso, inquieto. E non aveva torto. Io in quelle due settimane vedevo effettivamente di nascosto un altro. E quell'altro era Filippo". Un episodio, che ha segnato la definitiva rottura con Luca Marin.

Estratto dell'articolo di Giulia Zonca per “la Stampa” il 17 maggio 2023.

«Posso scopare con chi voglio» e sembra una frase banale, scontata, magari non proprio raffinatissima e persino un po' brutale detta in pubblico, scritta su un libro e ripetuta qui, però ci sta: è utile, non necessaria, per carità, per rafforzare un principio cardine dell'umanità, l'indipendenza. 

L'uscita è di Federica Pellegrini, parole dette all'apice, mentre è l'atleta (a prescindere dal sesso) più famosa d'Italia, dentro a un Mondiale in cui vincerà due ori ripetendo il risultato strabiliante del 2009 e con un nuovo allenatore, dopo una stagione molto difficile. Lo dice nella sala di un albergo, convocata da federazione e da mezza squadra perché in quella competizione, tra le altre cose, lei è passata da un fidanzato all'altro. Lascia Luca Marin appena arrivata a Shanghai e si innamora di Filippo Magnini. E quando lei entra nella stanza dell'uno, l'altro si strugge e picchia la porta e urla.

[…] Affare pubblico e pubblicato, ma nell'autobiografia «Oro», appena uscita per La Nave di Teseo, Pellegrini affronta la questione in prima persona, senza filtri, e aggiunge: «Sono convinta che a parti inverse sarebbe stato diverso. Ma vedere un uomo che soffre e una donna libera, che si gode il suo nuovo amore, è più difficile da accettare». E qui la faccenda si fa più seria. 

Stavamo davvero lì nel 2011 e ci siamo ancora nel 2023? La polemica ha avuto strascichi sportivi, si è mescolata alle gare, è andata avanti fino ai Giochi di Rio, a scossoni, con litigate private e scompensi pubblici. Pellegrini parla di questo sdoppiamento impossibile da parificare, dell'immagine da «circe», da «strega», da «mangia uomini» rimasta addosso anche in momenti ben diversi, appiccicata perché era l'adesivo più comodo in quell'umidissima estate cinese.

Se ci fosse stata una ragazza a piangere davanti alla porta, il campione dentro la stanza forse non sarebbe stato convocato. Sia chiaro, nessuno ha fatto un processo a Pellegrini in quelle sere concitate e nessuno se lo sarebbe potuto permettere in quegli anni di successi a ripetizione (decenni), però le è stato fatto capire, in modo esplicito, che turbava l'equilibrio e come lei stessa ricorda «la nazionale si è schierata»

[…] In molti hanno detto che era semplicemente inopportuno sventolare la nuova relazione in faccia all'uomo appena salutato, vero eppure succede di continuo nei ritiri sportivi popolati di ventenni che stanno costantemente fuori casa e sempre tra loro. 

A rendere più delicata la situazione c'erano solo i nomi importanti: Magnini due volte re dei 100 ai Mondiali, Pellegrini, nostra signora dello sport. Lui pure capitano e rappresentante di un gruppo che si sentiva tradito dall'inquietudine più che dal sesso. Il compagno di stanza di Magnini sfrattato, i vicini che non potevano dormire (per Marin che picchiava sull'uscio).

Trambusto in fase di concentrazione. Il rumore di sottofondo che in realtà è costante in occasioni così. Resta quel quesito «se fossi stata un uomo...» e il sospetto che in quel caso sarebbe stato più facile. Anche scopare. È passato del tempo, oggi preferiamo respingere quel dubbio in nome del progresso.

Da ilnapolista.it il 16 maggio 2023. 

“Scusa ci siamo lasciati due giorni fa quindi posso fare quello che mi pare. Più esattamente, dico di fronte ai dirigenti della Federazione, posso scopare con chi voglio”. Il turbolento triangolo d’amore e tradimenti che incendiò (si dice sempre così, in questi casi) di gossip il nuoto italiano nel 2011, è raccontato direttamente da Federica Pellegrini nella sua nuova autobiografia “Oro”, da oggi in libreria per La nave di Teseo.

La storia di Pellegrini che lasciava Luca Marin per mettersi con il compagno di squadra Filippo Magnini, si dipana in un ritiro un collegiale prima dei Mondiali a Shanghai. Il racconto, ripreso da Repubblica, di quello che accadde quelle notti in hotel. Marin “ha cominciato a stare male – scrive Pellegrini – a non mangiare e a dimagrire tantissimo. Era sospettoso, inquieto. E non aveva torto. Il giorno in cui lo avevo lasciato mi aveva chiesto se c’era un altro e io avevo negato“.

La sera dopo, Pellegrini prova ad andare nella camera di Magnini passando davanti alla camera di Marin: “Ma potevo mai sapere che lui stava appostato dietro lo spioncino per sorprendermi?“. Lui le urla di non prenderlo in giro, le chiede dove stia andando, lei finge di essere al telefono con la mamma, litigano, lo calma. Ma due sere dopo ci riprova: “Apro la porta, esco dalla camera, mi guardo in giro: via libera. Raggiungo la stanza di Filippo, ma sul più bello sentiamo picchiare selvaggiamente contro la porta: ho sentito tutto, uscite fuori o vi ammazzo! Io e Filippo non apriamo. Luca è fuori di sé, sarebbe finita a botte”.

I dirigenti della federazione, coinvolti da Magnini e Pellegrini, chiedono un chiarimento: “Scendo, sono tranquilla, non mi importa niente, non ho fatto niente di male, sono solo affari miei. Luca urla, ti rendi conto di quello che fai? Che io sto male? Scusa, gli rispondo io, ci siamo lasciati due giorni fa quindi posso fare quello che mi pare. Più esattamente, dico di fronte ai dirigenti della Federazione, posso scopare con chi voglio”.

Estratto di “Oro”, l’autobiografia di Federica Pellegrini in uscita per La Nave di Teseo, pubblicato da “la Repubblica” il 15 maggio 2023. 

Ai Mondiali di Montréal del luglio 2005 mi ero presentata con il miglior tempo stagionale. Ad aprile avevo fatto 1’57”92 nei 200, dunque ero la favorita. Sono i Mondiali nei quali Filippo Magnini vince l’oro nei 100 stile libero e diventa una star, quelli in cui Laure Manaudou vince i 400. Il fenomeno era però Michael Phelps: cinque ori, tra cui i 200 stile libero e i 200 misti, e l’argento nei 100 farfalla. 

Avevo investito tutto su quei Mondiali, dopo un anno schifoso. Volevo l’oro. Solo l’oro mi avrebbe ripagato della fatica, del dolore, dell’angoscia e della solitudine. Sarebbe stato il mio risarcimento. Purtroppo però ho un ritardo nelle mestruazioni pur prendendo la pillola, ero un casino in quel periodo, e il mio corpo non risponde, è fiacco, non esplode. Faccio 1’58”73: argento. Vince la francese Solenne Figuès con 1’58”60.

Placcata per un’intervista in televisione scoppio in un pianto a dirotto. Tanto ero stata felice per l’argento olimpico di Atene, quanto questo argento mondiale mi brucia. Al giornalista dico: «Questa medaglia è da buttare. Non ho ancora capito perché la finale mi sia venuta così male. Non trovo risposte a un crono così deludente». Mia mamma, che mi guarda alla televisione, si spaventa. Mi conosce, indovina come sto dal modo in cui le rispondo al telefono, già se la chiamo mamma e non mami si preoccupa. Mi ha detto che ero irriconoscibile, gonfia come non mi aveva mai vista. 

Tutti mi attaccano perché ho pianto per un argento mondiale invece di essere felice. Nessuno capisce. Ma come avrebbero potuto se neppure io capivo? Mi dibattevo come un pesce preso all’amo, avrei voluto soltanto scomparire. Invece ero lì, davanti agli occhi di tutti, incapace di gestire lo stress. Avevo diciassette anni, che è già abbastanza un casino di per sé anche se non devi nuotare in una gara mondiale. Non provavo alcuna indulgenza nei miei confronti. Ero rigida, non vedevo via d’uscita. Nelle foto ho gli occhi completamente spenti. E sono gonfia, brufolosa, i capelli lunghi che non ho più avuto e neanche mi piacevano.

Da qualche mese, poco dopo essermi trasferita a Milano, avevo cominciato a ingozzarmi di cibo. Ero capace di far fuori chili di gelato seguiti da svariate tazze di cereali una dietro l’altra. Una volta mia mamma era venuta a trovarmi e se n’era accorta. Le avevo detto ho fame, facciamo merenda? E avevo divorato due buste di prosciutto crudo e tre pacchetti di cracker. Lei mi aveva guardato perplessa. 

La sera, dopo aver mangiato tutto quello che potevo durante il giorno, vomitavo. Lo facevo sistematicamente, ogni sera prima di andare a dormire, quando il ricordo di tutto il cibo ingurgitato aumentava il senso di colpa. Vomitare era un po’ come ripulirsi la coscienza e anche la mia maniera di metabolizzare il dolore. Si chiama bulimia ma io non lo sapevo. La bulimia per me non era il problema, era la soluzione. Il mio modo di dimagrire senza sacrifici mangiando tutto quello che volevo. 

(...) 

Cosa c’era di sbagliato in me? Perché davo agli altri un’immagine così diversa da quella che ero? Forse ero troppo formosa, non avevo un corpo da atleta? Tradotto nel mio linguaggio della disperazione, ero un ammasso di ciccia? In quel caso avevo quindi ragione: dovevo vomitare tutto. La mia medicina per smettere di essere la donna che gli altri vedevano e che non ero io.

Eppure avevo sempre avuto un rapporto sano con il cibo. Non mi sono mai fatta seguire da un nutrizionista, uno di quelli che ti dà la dieta al milligrammo. Mangio tutto, tranne la besciamella e la trippa che non mi piacciono. Negli anni mi sono accorta che non avevo bisogno di fare grosse rinunce, anche quando mi allenavo. Senza abbuffarmi, ma se avevo voglia di un tiramisù me lo mangiavo. O di un bicchiere di vino. Sono cresciuta in Veneto in una famiglia di bartender. Sono cresciuta pensando che bere con moderazione fosse una cosa naturale. Fin da bambina sapevo cosa fosse uno spritz, perché i miei genitori me lo avevano fatto assaggiare. Così quando arriva il tramonto sento il bisogno di fermarmi e bere qualcosa, per scaricarmi. È quasi una questione genetica. Ovviamente quando nuotavo non lo facevo tutte le sere, ma il fine settimana mi capitava. 

Negli ultimi anni della mia carriera agonistica, quando non mangiavo abbastanza, un bicchiere di vino mi aiutava addirittura a sbloccare lo stomaco. Nelle fasi di carico di allenamento pesante ero talmente stanca che non avevo fame, ma dovevo mangiare per recuperare. Non che mi imponessi qualcosa o avessi qualche forma di rifiuto per il cibo.

Era proprio il mio corpo che chiudeva completamente i boccaporti, si metteva in standby e l’unica cosa che desiderava era riposare, dormire. Succedeva che al pranzo prima della finale non riuscissi neppure a finire un piatto di spaghetti. Di solito prima delle gare si mangia pasta in bianco, zuccheri assimilabili in maniera veloce. Eviti cose come la lasagna o la parmigiana, che richiedono una lunga digestione. 

Pasta in bianco, un po’ di prosciutto e grana, bresaola, tonno. Ma nemmeno quello mi andava giù. Quando ero tesa, non mi passava neanche uno spillo. Con gli anni ho imparato a integrare per via solubile. Nei giorni di stanchezza eccessiva mi ingozzavo di bibitoni di proteine e carboidrati. 

Ma questo è normale per un atleta. Quello che invece mi è successo a diciassette anni a Milano era un’altra cosa. Era saltato tutto. E in più il mio corpo era diventato pubblico. Gli atleti hanno corpi fuori standard, perché il loro obiettivo non è la bellezza ma la potenza. E ogni sport pretende una disposizione di muscoli, leve, vuoti e pieni diversa. Nel nuoto vengono fuori soprattutto le spalle. E io fin da piccola avevo queste spalle larghe, robuste, che mi imbarazzavano se esposte in abiti eleganti. Cercavo di evitare canottiere, top e qualsiasi cosa le mettesse in evidenza. Crescendo ci ho fatto pace. Ho imparato a vestirmi in maniera da far diventare le mie spalle un pregio e non un difetto. Ma non erano le spalle: in quegli anni io mi vedevo un mostro.

Dismorfia. È la malattia per cui non riesci a vederti come sei davvero. Lo specchio riflette l’immagine prodotta dal tuo inconscio, dalle tue ossessioni. Quella che vedi non sei tu, ma la proiezione della tua paura, della tua insicurezza.

Estratto dell’articolo di Alessandra Retico per “la Repubblica” il 10 gennaio 2023.

Natale ognuno a casa propria. «Non ci sarebbe stato tempo per vedere i rispettivi parenti, altrimenti». Altrimenti, Federica Pellegrini lo è sempre stata. Anche nella sua nuova vita, quella dopo il nuoto, quella dopo il matrimonio, il suo stile è libero. Con Matteo Giunta, ex allenatore e da fine agosto suo marito, saranno protagonisti di Pechino Express (in onda a marzo).

 Sono appena tornati da una luna di miele tardiva alle Maldive. Non ha ripensamenti sulla piscina cui ha detto addio dopo la quinta finale olimpica (record) a Tokyo. «Nessun dramma esistenziale». Ha 34 anni e sul diventare mamma, o addirittura essere già incinta come si vocifera da qualche parte, taglia corto: «Ma va, non ci stiamo proprio pensando».

 Eppure sua mamma Cinzia è già da un po' che batte il dito sull'orologio .

«È una sua battuta. Ma è lì che aspetta da un anno e mezzo. E aspetterà ancora».

 Quanto? Ci sarà pure il progetto di un figlio.

«Non per ora. Non è nelle nostre priorità. Ci sono troppi impegni e progetti da realizzare».

 Quali?

«Almeno tre e tutti importanti. Sto lavorando a un paio di idee che mi riguardano, una di tipo, diciamo così, letterario e l'altra di prodotto. Ci tengo perché sono entusiasmanti e perché spero portino un messaggio positivo. Non posso aggiungere altro per ora. Con Matteo invece vogliamo mettere su una nostra Academy del nuoto per i più giovani, non sarà a Verona, ma in un luogo a noi molto caro, un po' casa nostra».

Ci racconti.

«Vorremmo partire quando finiscono le scuole con tre settimane di full immersion divise per età dei partecipanti. Ci sarà palestra, corsia e altre attività. Vorremmo che fosse una cosa semplice all'inizio. Ci sarà uno sponsor tecnico e stiamo studiando un logo, una delle cose più divertenti».

Com' è la vita a casa dei coniugi Pellegrini-Giunta?

«Come prima del matrimonio, già convivevamo, Matteo non è cambiato, il solito pantofolaio, mi aveva già preparata a questo. La logistica è la stessa, impegni e lavoro, amici, ultimamente ci vediamo qualche volta a cena anche con Sofia Goggia a Verona.

 Non grandi stravolgimenti, ma c'è più magia. Ci fa strano chiamarci marito e moglie, ci sentiamo ancora 16enni. Il 2022, al livello personale, lo ricordo per le nostre nozze: un giorno che non dimenticherò per tutta la vita, bello, emozionante, divertente».

 Luna di miele, ritardata, alle Maldive.

«C'ero già stata sette anni fa, ma devo dire che stavolta mi è piaciuto molto più. Abbiamo fatto amicizia con Pecco Bagnaia e la sua compagna, non ci conoscevamo, si sono trasferiti a Pesaro più o meno quando Matteo la lasciava per Verona.

 Siamo stati tre ore in acqua ogni giorno, peccato che ci siamo dimenticati la telecamera. Abbiamo visto anche due squaletti. Se mi è passata la paura del mare? Un po' di blu l'ho visto e ci sono anche stata dentro, ma sempre con la barriera corallina da un lato, non mi avventurerei dritto per dritto al largo, non mi sentirei a mio agio, preferisco stare in superficie».

La piscina rimane al centro della sua vita. Possibile nessun rimpianto?

«So che sarebbe un bel titolo: Pellegrini si prepara per la sesta Olimpiade. Ma non è così. A Parigi 2024 ci sarò ovviamente come membro Cio, quest' estate non so se farò un salto ai Mondiali di Fukuoka, il Giappone mi attrae sempre moltissimo. Non mi manca la piscina, vado a nuotare solo ogni tanto, frequento più la palestra.

Margherita Panziera.

Giovanni N. Ciullo per repubblica.it il 10 gennaio 2023. 

È un incontro che comincia di spalle, le sue. […] Sono le stesse spalle che dà all’acqua da sempre, nuotando sul dorso da quando ne ha memoria: «Avevo 5 anni ed è stato subito lo stile che mi veniva meglio. E sa perché? Mi permetteva di respirare. Libera, sempre. […]Con il dorso sei naso all’insù: respiri e guardi in alto. Pensi a niente, a un soffitto da scalfire o a quel cielo sopra i tuoi sogni». 

I suoi, di sogni, hanno portato Margherita Panziera, 27 anni, a vincere più di 50 medaglie nei campionati italiani e 13 in competizioni internazionali, di cui 4 ori in tre edizioni consecutive degli Europei: Glasgow 2018, Budapest 2020 e, pochi mesi fa, Roma 2022. Così questa 27enne sintetizza l’anno straordinario del nuoto italiano (con Benedetta Pilato e Simona Quadarella), nella prima stagione senza Federica Pellegrini. […]

 […]

La piscina com’è entrata nella sua vita?

«A Montebelluna, Treviso, dove sono nata. Era vicino a casa, da piccola ero magrolina e il nuoto poteva solo farmi bene. Avevo 5 anni, un sacco di energia, ero obbediente e con una buona acquaticità: il resto è venuto da sé e non sono più uscita da quella vasca. Finché, dopo il liceo, mi sono trasferita Roma».

 In che tipo di famiglia è cresciuta?

«Mamma infermiera, papà ingegnere chimico, sorella di due anni più piccola che ha nuotato per un po’ e ha preferito lasciare. Fu mia madre a scegliere l’Aniene, la società migliore in Italia e a convincermi ad andare nella capitale. […]».

Fu il classico “punto di non ritorno”?

«C’era già stato, con la prima medaglia a livello giovanile, a 15 anni. È stata la mia condanna: “Cavolo Margherita”, mi dicevo, “se quella gara la sbagliavi ora non saresti qui a fare fatica, a soffrire”».

 […]

Colleghe che le piace citare?

«Benedetta Pilato, che a 17 anni ha vinto un oro mondiale straordinario. Simona Quadarella: un’altra vincente. E poi, ovviamente, Federica».

 Quanto manca al nuoto italiano Pellegrini?

«Se si buttasse in acqua oggi farebbe ancora ottimi tempi. È una grande, una extraterrestre. Faceva allenamenti devastanti, i ragazzi faticavano a starle dietro. Trovarne un’altra è impossibile. Eppure a Rio 2016, quando arrivò quarta ai 200 stile per pochi centesimi, venne attaccata in maniera assurda senza capire cosa significasse per lei non essere su quel podio, non rappresentare l’Italia con la medaglia al collo. Dietro quei maledetti centesimi si erano “congelati” anni di allenamenti e ambizioni. Questo lato dello sport è oscuro. Non siamo macchine, robot. Si pensa spesso solo alla fatica fisica, ma quella mentale, di testa, spesso è peggiore».

E ci sono pressioni psicologiche, come l’inchiesta sulle ginnaste proverà a indagare.

«È terribile. Non significa che tutto quel mondo sia così, ci sono tante persone serie, ma è giusto fare luce al più presto. A me non è mai capitato nulla di simile. Invece, per un breve periodo, ho sfogato nel cibo alcune frustrazioni: per fortuna ne sono uscita da sola».

 E il gender gap?

«Nel nuoto non c’è, sinceramente. Conviviamo tra atleti e semmai per marketing e sponsorizzazioni le donne sono più richieste dei maschi. Ma la questione della carriera e dei figli è ancora una discriminante».

 C’è altro che la preoccupa?

«Il caldo di novembre: si può mai pensare che l’emergenza climatica sia rimandabile? Su che pianeta Terra vivrà un giorno il figlio che vorrei?».

 Sono le domande che vi ponete voi under-30?

«Rispetto ai nostri genitori abbiamo problemi a trovare lavoro, comprare casa, pensare a quel figlio. È “la” questione, su cui non si ragiona abbastanza. Ci vorrebbero un salario minimo per i più giovani e incentivi alle imprese che li assumono: un grande investimento sulla società».

 Viene fuori l’economista che è in lei, dottoressa Panziera…

«Che impressione (ride, ndr)! Ho preso la triennale in Economia, con una tesi sull’impatto delle Olimpiadi sulle città che le ospitano. E sto per finire la magistrale in Gestione aziendale, con un lavoro sul neuromarketing applicato allo sport. Cosa farò dopo il nuoto? Non lo so. Sono nella Polizia, vorrei sfruttare la laurea. A fare l’allenatrice non mi ci vedo».

[…] C’è una frase, un motto davvero suo?

«Un tempo avrei detto: “Ciò che non ti uccide, ti rende più forte”. Oggi, crescendo, non è più così. È un messaggio che può persino suonare sbagliato. Le esperienze negative vanno evitate, limitate, denunciate. Siamo un equilibrio fragile e dobbiamo preservarlo».

 Cosa direbbe quindi a una ragazzina che le chiedesse un consiglio sul mondo dello sport?

«Che c’è tanta bellezza, tante soddisfazioni. Ma tutte le cose nella vita sono faticose. È necessario impegnarsi, fare sacrifici, cadere e rialzarsi. E se non dovessi essere sempre felice: be’, è normalissimo». […]

Paul Cayard e il grande sogno del Moro di Venezia. Tra l'aprile e il maggio del 1992 si consumò un'impresa epica e una venne sfiorata: quell'imbarcazione e quell'equipaggio restano ancora oggi scolpiti nella memoria condivisa. Paolo Lazzari l'1 Ottobre 2023 su Il Giornale.

La passano su Tele Montecarlo e spesso, in studio, c'è l'avvocato Gianni Agnelli a commentare. Eppure, anche se tra le qualifiche principali degli italiani c'è quella di essere un popolo di navigatori, sarebbe temerario affermare che la vela sia uno sport seguito. Le cose però stanno gradualmente cambiando. Come spesso accade, quando dei tuoi connazionali colgono un successo di calibro planetario la gente inizia ad interessarsi. Nulla però succede d'improvviso.

Per comprendere il fenomeno de Il Moro di Venezia, l'imbarcazione che ormai oltre trent'anni fa - era il 1992 - lucidò i sogni di milioni di italiani, bisogna riavvolgere solennemente il nastro. Scendere tra le pieghe del tempo, fino ad indovinare la figura sottile del ravennate Raul Gardini, divoratore di onde per diletto, poi promettente velista, quindi ambizioso imprenditore. Sul mare si muove bene. All'inizio degli anni settanta partecipa alle prime competizioni, manifestando un talento gestionale insolito e intuizioni poderose. Non sarebbe comunque ancora abbastanza per far svoltare questa storia. Serve, come sempre, il fatidico click.

Che arriva, puntuale, quando il genero Serafino Ferruzzi fa dono a lui - e al cognato Arturo - di una imbarcazione maestosa per i risultati imprenditoriali acquisiti. Gardini si sfrega gli occhi: è un maxi in legno lamellare che porta in dote un nome imponente. Il Moro di Venezia. La vicenda prende il largo da qui. Raul rimugina sulle sue qualità come velista e sull'eventualità di provare ad alzare il tiro. A volte però un segnale solo non basta. Ne servono almeno due.

Così ecco un telefono che trilla insistentemente, nell'estate del 1984. Una voce femminile, giovane, che trepida mentre suggerisce: "Papà, dovresti vedere quel Paul Cayard, oggi ha surclassato tutti". Altra scintilla. Il timoniere americano è stato chiamato all'ultimo istante alla Sardinia Cup, per rimpiazzare Lorenzo Bortolotti alla guida di Nitissima. Ed ha stravinto. Il consiglio della figlia Eleonora non resta inevaso. Gardini vola subito sull'isola per conoscerlo di persona. In breve tempo se ne innamora. Il progetto del Moro procede a vele spiegate. Adesso che ha incontrato un fuoriclasse, quell'imbarcazione può davvero immaginarsi un sogno impudente: partecipare alla Coppa America. E magari provare pure a vincere.

Paul Pierre Cayard da San Francisco viene ricoperto di grano: assegno annuo da 200 milioni delle vecchie lire. C'è però una questioncella da dirimere: secondo il regolamento, su una barca italiana, lo skipper deve essere italiano. Problema superabile: l'americano prende la residenza a Milano e buonanotte alla burocrazia. Nel frattempo, nel cuore incandescente dei cantieri navali, si affastellano le versioni successive del Moro e si svolgono rigide selezioni dell'equipaggio. Si spostano poi tutti a Palma di Maiorca, per riprodurre condizioni ambientali simili a quelle offerte dalle prossime acque di San Diego. Il Moro viaggia veloce, ma è ancora fuori dai radar della gente. Nelle case italiane si parla di calcio, motori, di quando in quando di tennis. La vela resta un pensiero laterale.

Fino, almeno, al 30 aprile del 1992. A quella finale della Louis Vitton Cup che vede Cayard e Gardini spuntarla sul team New Zealand di Rod Davis e Michael Fay. Ora cucine e salotti iniziano a farsi umidi. Le pietanze galleggiano. Ne parlano i telegiornali. Ne scrivono in edicola. La gente inizia a farsi qualche domanda. "Ma chi sono questi? Oh, c'è un'italiana in finale". Il fuso orario certo non aiuta, ma comunque la notizia passa solenne. Moro sotto di 3 a 1, ma poi gli elicotteri che rombano sopra le acque increspate e i teleobiettivi scoprono la truffetta. Quelli di New Zealand hanno violato il regolamento. Annullato il quarto punto. Kiwi gettati in crisi mistica. Straordinaria rimonta italiana: 5-3. Il vessillo del Leone di San Marco sventola regale e vittorioso.

La festa che erompe è fenomenale, perché è la prima volta che una nostra imbarcazione porta a casa la coppa ed accede allo scontro decisivo, quello per alzare al cielo l'America's Cup. Poco rileva, a quel punto, se l'America3 - avversaria del Moro - risulterà imprendibile. Gardini e Cayard stavolta perdono, ma tornano con tutti gli onori a Ravenna e poi a Venezia. Ad accogliere l'equipaggio ci sono migliaia di persone. Una sconfitta tramutata in vittoria. Ora la vela è sulle labbra di tutti.

Gli Abbagnale, Peppiniello, Galeazzi e il giorno migliore del canottaggio italiano. Giuseppe e Carmine (con Peppiniello Di Capua a dettare il ritmo) devono battere i leggendari Redgrave e Holmes, ma trovano anche l'opposizione dei tedeschi orientali: ne esce una gara epica, narrata dall'indimenticato Galeazzi. Paolo Lazzari il 3 Settembre 2023 su Il Giornale.

La sera prima si sono seduti sulla sponda di quel corso d'acqua placido, socchiudendo a turno le palpebre. La corteccia cerebrale di Giuseppe Di Capua tambureggia. Immagina il ritmo che toccherà tenere. Gli amici lo chiamano "Peppiniello", ma a dire il vero ormai anche la tv. Domani commenterà "bisteccone" Gian Piero Galeazzi, uno che di canottaggio se ne intende parecchio, anche perché ci dava dentro pure lui prima di darsi al giornalismo. Ci pensano forte anche Carmine e Giuseppe, a quel che succederà domani. Sono fratelli, vengono da Castellammare di Stabia, hanno 26 e 29 anni.

La Federazione ci punta senza indugio. Seoul 1988 sono le Olimpiadi che tornano nella loro forma più autentica, dopo le stazzonate edizioni del Los Angeles 1984 e Mosca 1980. Del resto il trio si è imposto con irriverente facilità nell'ultima edizione. Quei due fratelli tarchiati, un groviglio di capelli bruni ciascuno, ed il sottile Peppiniello, hanno strappato una caterva di successi anche nelle tappe d'avvicinamento ai Giochi. Però mica può essere una sorsata liscia, la gara di domani, se accanto alla tua corsia fluttuano Redgrave e Holmes, due leggende del canottaggio. E poi tutti gli altri, certamente.

Comunque il giorno fatidico arriva e la gara del "due con" che ne esce non diserta le attese. Domenica 25 settembre alle 10,50: l'appuntamento è questo qui. L'armo azzurro l'hanno collocato nella corsia centrale. Gli infidi britannici galleggiano in acqua due. Bulgari in acqua quattro e tedeschi orientali nella cinque, tanto per stringere nella coda dello sguardo alcuni tra i più pericolosi. Lo start è imminente. Mezza Italia se ne sta incollata alla tv. Galeazzi schiuma.

Il trio c'ha pensato a lungo. Redgrave e Holmes partono solitamente forte, per poi gestire. L'unica è sorprenderli ricorrendo all'imitazione. Quando lo sparo a salve incide l'aria di Seoul l'equipaggio italiano parte a razzo, stranendo subito avversari e commentatori. Anche perché il rischio corso è di quelli impudenti. Pensare di strapazzare i contendenti è impensabile. Riusciranno ad amministrare le energie? Intanto hanno già messo via un margine di 3'' 28 sull'armo bulgaro e ben 5'' 25 sui sudditi di sua maestà, quando scocca metà gara.

Di Capua, in trance, seguita a dettare il tempo. E i fratelloni d'Italia eseguono, a quanto pare per nulla erosi dalla fatica. Raggiunti i 1500 metri si espande il distacco sui bulgari, mentre i Redgrave e Holmes limano soltanto qualche decimo. Ora però il gioco si fa più sofisticato. Gli azzurri devono respingere il ritorno della coppia britannica e, soprattutto, domare il tentativo poderoso dei tedeschi orientali Streit e Kirchoff, che mulinano con cadenze sempre più pungenti.

Dall'alto della sua postazione, Galeazzi è il primo ad avvedersi di quel recupero teutonico. Bisteccone suda, si alza, segue gli ultimi metri in piedi tentando metaforicamente di sospingere l'armo italiano. Quella cabina stampa diventa un arcipelago emotivo. La telecronaca diviene tracimante. Anche perché quelli hanno quasi ripreso 5''. Ora Carmine e Giuseppe devono davvero cercare le residue energie depositate sul fondale dei loro organismi. E ci riescono, staccando di una spanna gli avversari - primi con 1'' 84 di vantaggio - e salutando dallo specchietto anche gli increduli britannici, terzi.

Galeazzi, stremato e in deliquio, li definisce "stupendi cavalieri delle acque". Quello è il secondo oro olimpico per il trio e l'ennesimo successo di un sodalizio dirompente. Tra tutti i giorni possibili passati a solcare le acque, probabilmente il più difficile. E, per questo, anche quello migliore.

Il panorama delle competizioni a vela nel mondo: numeri e sponsor. Alessia Di Bella su Il Corriere del Giorno il 24 Dicembre 2022

Proprio negli anni in cui la sponsorship trova un suo spazio all’interno della comunicazione aziendale, le imprese iniziano ad investire in progetti volti a rafforzare la propria immagine e a ricercare impatto mediatico anche attraverso lo sport della vela. La vela come mezzo di comunicazione ha seguito il percorso storico ed evolutivo delle sponsorizzazioni sportive, forse talvolta anche precorrendo i tempi.

La vela è uno sport acquatico molto affascinante e seguito da milioni di persone in tutto il mondo, per questo motivo vengono organizzate numerose competizioni mondiali.  Facciamo un passo indietro per capire bene come funziona questa disciplina: una regata velica è una competizione che vede coinvolte le barche a vela; per ogni classe sono disponibili specifiche tipologie di regate. L’oggetto delle regate, per una determinata classe, consiste nella percorrenza di un percorso prestabilito nel minor tempo possibile, nell’ambito del quale la barca si può trovare in condizioni di navigazione anche differenti. Come in tutti gli sport in cui gareggiano dei mezzi comandati dall’uomo, la vittoria può derivare sia dall’essere umano che la pilota, sia dalla qualità della macchina. Le manovre vanno eseguite alla perfezione, ma il progetto può prevedere una barca più facilmente manovrabile o, in caso contrario, una barca instabile e difficile da comandare. Portare una barca a vela ad alte velocità, a parità di vento, dipende sia dall’abilità dell’equipaggio ma anche dal livello di perfezione del progetto. Il circuito da svolgere, spesso chiamato nel gergo come campo gara, può essere un tracciato delimitato da delle boe apposite come per le regate in lago, oppure può essere un percorso definito da un punto di partenza ed un punto di arrivo come per le grandi regate in stile America’s Cup. 

Sponsor e vela: un binomio che ha più di un secolo

Nonostante le numerose testimonianze, non si può definire con esattezza la nascita vera e propria della sponsorizzazione nello sport: infatti questa forma di comunicazione, per essere considerata tale, deve avere uno scopo commerciale. Partendo da questa valutazione, l’origine di tale attività in ambito sportivo può essere fatta risalire al 1899 e proprio con le barche a vela. Infatti in quell’anno un personaggio dotato di forte carisma mostra le sue abilità commerciali proprio in questo sport: si tratta di Sir Thomas Lipton, un nobile irlandese che fa della produzione di tè la sua fonte di ricchezza. Egli, oltre ad essere un valido commerciante, era appassionato velista e ha scelto così di unire il lavoro al piacere recandosi oltre Oceano per partecipare alla sfida di Coppa America: essa era (ed è ancora) una regata prestigiosa, in cui Lipton intravide la possibilità di far conoscere il suo prodotto anche al mercato americano e quindi di incrementare i propri profitti.

Attraverso un club nautico irlandese, Lipton lanciò la sua prima sfida al New York Yacht Club, defender della Coppa America: il confronto tra le due squadre è terminato a favore di quella americana. Tuttavia, nonostante la sconfitta, il successo commerciale e la simpatia suscitata nel popolo statunitense hanno convinto Sir Lipton a ripresentarsi nelle edizioni successive.Nella storia della vela ma anche in quella dell’America’s Cup sono molti i nomi di quegli industriali, e ancora prima mecenati, che hanno investito in questo sport il proprio patrimonio: tra questi, oltre al già citato Lipton, troviamo il francese Bich, colui che ha inventato l’omonima penna a sfera.

Proprio negli anni in cui la sponsorship trova un suo spazio all’interno della comunicazione aziendale, le imprese iniziano ad investire in progetti volti a rafforzare la propria immagine e a ricercare impatto mediatico anche attraverso lo sport della vela. La vela come mezzo di comunicazione ha seguito il percorso storico ed evolutivo delle sponsorizzazioni sportive, forse talvolta anche precorrendo i tempi. E’ necessario capire quali possibilità ha offerto e offre il mondo della vela e delle regate alle aziende interessate in sponsorizzazioni. Le sponsorizzazioni sportive sono sempre più complesse e hanno raggiunto una forma denominata co-marketing sportivo, che vede più attori collaborare per il raggiungimento di un obiettivo.

In origine la vela è stato il mezzo di movimento privilegiato per le barche da guerra e da commercio. A partire dal 1700 si diffonde lo yachting, inteso come andare in barca a vela per sport o come passatempo: in questi anni vengono costruiti velieri, imbarcazioni di lusso e su misura per gli aristocratici e grossi proprietari terrieri che si dedicavano alla navigazione solo nelle occasioni di mondanità. Verso la fine del 1800, questo sport si è diffuso anche tra la nuova borghesia e la barca diventa soprattutto uno status symbol, un segno di prestigio, successo e potere.

Contemporaneamente si assiste, soprattutto nel nord Europa, all’utilizzo sportivo della barche: vengono infatti costruite imbarcazioni non abitabili e adatte solo per le regate. La passione per questa competizione è così forte da spingere i proprietari a trascorrere l’estate a gareggiare, e l’inverno nei capannoni allestiti per sistemare e modificare le imbarcazioni per la stagione successiva. Lo yatching progressivamente conquista tutta l’Europa, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda: vengono creati gli “yachting club” e di conseguenza le gare ufficiali si moltiplicano.

Le regate più famose e avvincenti

La prima tra le regate internazionali è stata la Competizione delle cento Ghinee, era il 1851. Ora si chiama America’s Cup, un “match race” tra lo yacht club che detiene la coppa e lo sfidante, il vincitore della Louis Vuitton Cup, competizione a eliminazione preliminare alla Coppa America. Forse è la più conosciuta per la copertura mediatica, l’altissima tecnologia degli yacht e la tipologia stessa della regata, ma non è l’unica a dare spettacolo.

La Giraglia, creata in un café parigino nel 1952 da Renè Levaiville, Franco Gavagnin e Beppe Croce, debuttò l’11 luglio 1953 con 22 imbarcazioni in gara, l’edizione 2016 della Giraglia Rolex Cup, ne contava 302. Tra le imbarcazioni ammesse, Swan tradizionali e Wally ultramoderni, Maxi, Beneteau 40.7 e 47.7, Corel 45. La competizione prevede regate costiere e le 243 miglia in altura tra Saint Tropez e Genova, passando per l’isola della Giraglia in Corsica.

L’anno 2020 ha segnato una svolta nell’organizzazione della manifestazione “Les Voiles de Saint-Tropez“ che fino ad ora durava solamente una settimana ; il nuovo programma prevede 2 settimane di regate e promette di offrire uno spettacolo eccezionale. Potranno partecipare velieri piu’ grandi e le condizioni di gara saranno migliorate per organizzare l’evento esclusivo che si chiamerà “Les Voiles Super Boats” . Si aggiungeranno al programma delle nuove regate costiere, alle quali potranno partecipare i trecento velieri iscritti: vele moderne o tradizionali, Wally, Loro Piana, Mini Maxi, Super Maxi, Schhooners, GTR e Class J.

Sempre nel Mediterraneo, la Rolex Middle Sea Race, fa parte dell’olimpo delle regate: una classica offshore, difficile per le condizioni del mare e dei venti, ripaga skipper ed equipaggi con lo spettacolo della natura. Il percorso di regata prevede infatti 680 miglia nautiche con partenza da Grand Harbour (Malta), poi verso nord sulla costa est della Sicilia fino allo Stretto di Messina, rotta alle Eolie, Marettimo e Favignana, a sud verso Lampedusa e Pantelleria, fino al porto di Massamxett, dove termina la gara. Eric Tabarlay, Cino Ricci, Sir Francis Chichester e Ted Turner sono alcuni tra i velisti di spicco che hanno partecipato alla regata.La regata da trendsetter è in Toscana. La 151 Miglia Trofeo Cetilar è la competizione di media altura che più rapidamente è cresciuta negli ultimi anni per numero di partecipanti. Un percorso creato per esaltare le capacità degli equipaggi, attraverso le isole. Da Livorno a Punta Ala passando per Marina di Pisa, scoglio della Giraglia e il faro delle formiche. L’unica regata d’altura che ti consente di scoprire una costa, un’isola o una terra diversa ogni due ore di navigazione. Con la Fastnet, la Sidney Hobart e la Newport-Bermuda, siamo negli oceani. La Fastnet, la cui prima edizione è del 1925, si svolge ad anni alterni: si parte da Cowes, sull’isola di White, verso lo scoglio Fastnet, sud ovest dell’Irlanda, isola di Scilly e Plymouth, 608 miglia in totale.

Sport di nicchia e peso degli sponsor

In epoca covid, con il paese mezzo bloccato, una fetta di Italia si collegava su Rai Sport o Sky Sport per guardare una diretta dall’altra parte del mondo. A dodici ore di fuso orari, e agli antipodi della Nuova Zelanda, nel Golfo di Hauraki, si disputava la 36esima America’s Cup. La barca tricolore Luna Rossa sfidava il detentore del titolo, la neozelandese Emirates. La partenza fulminante di Luna Rossa, con 3 vittorie nelle prime 5 gare, aveva fatto accarezzare l’idea che gli italiani potessero insidiare il titolo ma quando alla sesta regata, la barca italiana di Prada e Pirelli sbagliò una manovra e venne superata da Emirates, si capì che si era persa l’occasione cruciale e che Luna Rossa non ce l’avrebbe fatta.

Il Vendée Globe nell’ultima edizione, l’edizione dei Foil, ha avuto uno scatto in avanti in termini di popolarità molto forte. Probabilmente aiutato anche dalla caduta, sempre in termini di popolarità, della Coppa America, il giro del mondo in solitaria senza scalo e senza assistenza, ha fatto i numeri. Numeri in termini di pubblico che si trasformano in maggiore facilità per gli skipper di trovare uno sponsLogico chiedersi perché una grande banca come la Banque Populair investe circa 5,5 milioni di euro l’anno nella vela. Che ritorni ha? Per trovare le risposte abbiamo indagato nel complesso mondo del Vendée Globe.

I ritorni per gli sponsor maggior nel finanziare un’impresa come il giro del mondo come il Vendée Globe sono importanti e sono in salita. Gli esperti del settore hanno calcolato che Banque Populaire dal suo investimento nel Vendée Globe abbia ricavato guadagni per 55 milioni di euro, oltre a una forte visibilità permanente e a un accrescimento del valore dell’immagine della banca. Nel totale il Vendée Globe nell’ultima edizione ha generato ritorni per i suoi sponsor pari a 185 milioni di euro. Si va, appunto dai 55 milioni di Banque Populaire al 1.8 milioni di SMA dello skipper Neuling Paul Meilhat che è stato uno degli skipper che hanno abbandonato la gara per problemi all’attrezzatura.

Ma gli sponsor più entusiasti di investire nel mondo degli IMOCA 60 sono quelli di Alex Thompson, Hugo Boss, Mercedes Benz e BASF. I loro ritorni dal 2014 ad oggi assurgono a 200 milioni di euro, oltre 12 volte l’investimento fatto. Solo in video caricati su You Tube, il team di Thomson ha registrato 38 milioni di visualizzazioni.

Il dilemma dei diritti tv

Nell’attesa di  programmazioni, per incrementare l’interesse del pubblico, Rai e Sky hanno trasmesso gratis la America’s Cup, perchè a loro volta hanno avuto gratis i diritti tv.  La mossa è servita a far conoscere lo sport e creare un base di tifosi e appassionati,  da questo punto di vista, traguardo raggiunto, con i diritti gratuiti, la Vela è entrate in più case possibili ma ancora rimane, uno sport di super-nicchia. La popolarità della vela aumenta ogni giorno di più, grazie anche all’impegno profuso dagli sponsor , gli effetti commerciali ci sono: ogni volta che l’Italia è arrivata in finale con Prada, la linea di abbigliamento griffata Luna Rossa ha generato un vero e proprio boom di vendite. Stavolta in scia si è messa pure la casa di orologi Panerai, che ha prodotto dei modelli appositi. 

Da oltre sessant’anni, Rolex vanta un legame privilegiato con il mondo della vela, sport che celebra prestazioni e tradizioni. Il Marchio, partner degli eventi, dei protagonisti e degli yacht club più prestigiosi, condivide la passione dell’eccellenza con i grandi rappresentanti di questo mondo. Rolex sostiene alcune delle più prestigiose regate costiere e d’altura con equipaggio. Il Marchio collabora con numerose regate costiere annuali e biennali in tutto il mondo ed è Orologio Ufficiale di due di queste competizioni, entrambe all’avanguardia della tecnologia nautica: il SailGP, in cui competono 7 catamarani fra i più veloci del pianeta, e la 52 Super Series, disputata da monoscafi TP52 ad alte prestazioni. Rolex è anche partner di regate d’altura di prim’ordine come la Rolex Fastnet Race, la Rolex Sydney Hobart Yacht Race e la Rolex Middle Sea Race. Alessia Di Bella

Frankie Dettori: «La mia vita spericolata sui cavalli. Non finirò come Ronaldo, mi ritiro». Storia di Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 12 ottobre 2023.

Non è un filosofo, Lanfranco Dettori, «solo» un fantino che a quasi 53 anni si sta per ritirare dopo 35 stagioni da più forte jockey del mondo. Eppure è tra i pochi a poter rispondere: quando si sopravvive alla morte, come nello schianto del suo aereo privato nel 2000 in cui morì il pilota e lei fu salvato dal collega Ray Cochrane prima che il relitto esplodesse, si rivoluzionano priorità e rapporti con le persone? O la routine si riprende la vita? «Con il senno di poi sarebbe stato meglio se avessi cercato aiuto da psicologi. Perché per due anni non ero più io. Mi ero perso. Quando ti succedono queste cose, ti fai un sacco di domande: perché è successo proprio a te, perché altri sono morti e tu no, come avresti lasciato moglie e figli. Brutto, era come il cane che rincorre la coda. Era una nuvola che io neanche vedevo ma c’ero dentro. Ci ho messo due anni per uscirne e mi ha cambiato la vita. Nel male. Ma anche nel bene. Perché prima ero ferocemente concentrato sul successo di conquistare sempre più titoli, ma... forse non era così importante». Peraltro voi fantini fra gli atleti rischiate ormai più dei piloti di F1, forse solo quanto i piloti di moto e i pugili. «A livello mondiale il tasso di mortalità di fantini è due all’anno, che è già altissimo e per di più non tiene conto di tutti gli incidenti con fratturati e feriti, come il mio amico Frederick Tylicki su una sedia a rotelle nel 2016. Io stesso ho visto morire un fantino in corsa, Steve Wood, a Lingfield nel 1994: era di fianco a me, cadde, e un cavallo da dietro lo prese in pieno». Si convive con la paura? «L’adrenalina che ti dà un cavallo lanciato a 60 all’ora, davanti a 50.000 persone, con la pressione del gran premio, batte dieci a zero la paura di farti male. È come una droga che ti anestetizza». È conosciuto anche da chi mai è stato all’ippodromo: vivere dovunque come una rockstar gratifica o asfissia? «Chi ti suona il clacson per strada, chi ti chiede un selfie, chi vuole l’autografo... Ma è una cosa che ti fa sentire bene, inutile negarlo».

Estroverso, «Frankie il ragazzo che sorride», perfetto per i media, aneddoti sulla Regina, il «salto dell’angelo» come gesto iconico: ma ci è o ci fa? È spontaneo o recita il ruolo che l’ha fatta diventare star globale? «Da giovane uno cerca di “vendere” se stesso al pubblico e ai proprietari per avere la disponibilità di buoni cavalli nei gran premi. Come l’attore sul palco: uno si rende disponibile anche se a volte non ne avrebbe voglia, poi quando si chiude il sipario si torna a casa magari pure scorbutici. Il mio è anche uno sport di intrattenimento, e questo o lo accetti e te lo fai piacere, o lo trovi irritante e lo patisci». Tamberi ha vinto i Mondiali di salto in alto dopo aver rotto con il padre allenatore. Lei, a 14 anni, solo, fu spedito in Inghilterra da suo padre Gianfranco (13 scudetti anni ‘70), tra gente sconosciuta, senza sapere la lingua, a fare un duro apprendistato nelle albe gelate: l’ha più odiato all’epoca o più ringraziato oggi? «Ho avuto poi anni di discussione su questo con mio padre. Gli dicevo: ma se mi fossi fatto male o per qualunque altra ragione io non avessi più potuto avere una carriera da fantino, mentalmente poi come mi sarei ritrovato? Un fallito? Un depresso? E lui mi rispondeva: ma guarda chi sei diventato adesso, il n.1 al mondo! Dal suo punto di vista aveva ragione. Però io non riuscirei mai a fare lo stesso con i miei figli. Mai, mai». Ha subito atti di bullismo? «Altroché! Negli anni ‘80 per gli inglesi ero davvero molto straniero, dovevo stare con gli occhi aperti tra chi mi tirava una scopa e chi uno schiaffo... Inoltre ero dislessico e a scuola ero quasi sempre l’ultimo della classe, facevo molta fatica a seguire. Oggi mi dispiace non riuscire a leggere bene per la mia età né in inglese né in italiano, oggi è tutto un altro mondo e ci sono specialisti che supportano i bambini a scuola». Il fantino migliore è quello che non perde le corse che chiunque al posto suo vincerebbe, o quello che vince le corse che nessun altro saprebbe vincere? «All’inizio in Inghilterra ho avuto nell’allenatore Luca Cumani un grandissimo insegnante, e lui mi dava sempre sfide improbe con cavalli che mi mettevano in difficoltà, io stavo male e dicevo “ma perché?”, e lui rispondeva che dovevo trovare la chiave di tutti i cavalli perché tutti i cavalli sono diversi uno dall’altro. E aveva ragione. Il resto te lo possono insegnare, ma la chiave di un cavallo te la devi trovare da solo, è il segreto del mio mestiere. Non per niente il cavallo fa miracoli con disabili, non vedenti e non udenti: ha un sesto senso, devi entrare nella sensazione di un tutt’uno con lui, bisogna trovare un linguaggio». Quanto guadagna? «Scusi ma è personale. Ci sono i contratti con le grandi scuderie, le pubblicità, la percentuale sui premi vinti dai cavalli che monto». Quant’é la percentuale? «In Europa il 7%, negli Stati Uniti il 10%». I suoi cavalli hanno vinto almeno 220 milioni. Come impiega i suoi soldi? «Da giovane, finchè ero single, ho avuto anche quattro Ferrari, poi ho costruito casa con la famiglia, quindi ho pagato le scuole private per i miei cinque figli, che qui in Inghilterra costano un botto. Una volta potevo dire di essere ricco, adesso meno…». Il campione 2021 dei fantini inglesi Oisin Murphy è tra i tanti ad aver avuto problemi di droga o alcol, e anche lei, dopo una ragazzata nel 1993, in Francia nel 2012 a 41 anni fu squalificato 6 mesi per una positività alla cocaina. Quale debolezza nascosta vi rende fragili? «Forse il fatto che siamo tutti matti per fare il lavoro che facciamo, tutti un po’ suonati dentro: è un mestiere ad alto rischio e forti pressioni, e forse si cerca l’adrenalina che non si trova fuori dalle corse. Quando sei da solo il pesciolino rosso nella vasca, e ti giri e non c’è nessuno con te, la pressione diventa enorme e ti sembra che l’acqua bolla». Le sue 3.500 vittorie sono meno delle 13.000 del brasiliano Jorge Ricardo, ma nessuno come lei vanta un gran premio ogni cinque vittorie: oltre 750, di cui quasi 300 “gruppi 1”. E a 53 anni potrebbe continuare un paio d’anni: perché appende ora la frusta al chiodo? «Ero a una partita importante di Champions League e c’era Ronaldo in panchina: caspita, mi son detto, il migliore giocatore del mondo é messo in panchina, io non voglio finire così, io non voglio sentirmi così. Poi c’è l’incognita del fisico per l’etá e gli infortuni. E poi è un momento di cambio della guardia dei trainer: hanno 25 anni meno di me, e facciamo fatica a capirci...». Nel nuoto é caduto l’ultimo record mondiale di Federica Pellegrini dopo 14 anni: tra i suoi quale sarà il più difficile da battere? I 6 Arc de Triomphe? I quasi 300 “gruppi 1”? O tutte e sette le corse del Champion’s Day di Ascot il 28 settembre 1996? «Il 7 su 7 di Ascot che nello sport mi ha reso immortale, ancora oggi io non so dire come sia successo. Pensi che della quinta corsa non mi ricordo niente, ho un black out totale nella mente. Zero. Ero in trance. Si vede che il cervello era pieno di cose che non riusciva più a processare…». La prima da non fantino? «Andrò a sciare a Cervinia: la vacanza più bella perché l’unica coi figli tutti assieme».

Estratto dell’articolo di Francesco Bei per la Repubblica il 29 maggio 2023.

“Ci sono i fantini e poi c’è lui, un semidio. Ed è italiano”. Per una volta l’enfasi dello speaker di Capannelle nel 140esimo Derby che Lanfranco “Frankie” Dettori ha corso domenica 21 a Roma non era eccessiva. Perché Dettori, italiano ma trapiantato da decenni in Inghilterra, ha vinto al galoppo tutto quello che c’era da vincere. E l’ha rivinto, e ancora e ancora. Nell’anno in cui ha deciso di lasciare le gare, basta ricordare le sei volte in cui ha tagliato in testa il traguardo all’Arc de Triomphe di Parigi (nessuno come lui).

 I primi ricordi legati al cavallo?

“Mi ricordo quando ero un bambino che mi mettevano sopra i cavalli, i purosangue della scuderia del mitico Carlo d'Alessio, la famosa Cieffedi. Erano cavalli che avevano finito di correre e il pomeriggio, stanchi, venivano passeggiati per farli raffreddare”.

Paura lassù?

“Altroché, erano così alti! Pensavo: madonna mia, chissà che mi succede se cado!”

Lei è figlio d’arte, Gianfranco Dettori è stato un grande protagonista dell'ippica italiana. Che padre era?

“Severo, ma era la sua generazione, i padri del dopoguerra erano ancora più severi. Poi, essendo sardo, oltre a essere duro era anche un po’ testardo. Quando uno è giovane pensa che tutti i padri siano uguali al tuo, poi  capisci che ci sono quelli severi e quelli più dolci, ce ne sono di tutti i tipi”.

Lei che padre è?

“L’opposto del mio. In famiglia sono il “poliziotto buono”, quello che dà tutto ai figli e non li sgrida mai. Mia moglie fa tutto il resto”.

Nella sua lunga carriera ci sono molti record, ma uno su tutti è entrato nella leggenda: the Magnificent Seven. il 28 settembre 1996 ad Ascot, di fronte a decine di migliaia di inglesi impazziti, lei ha vinto tutte e sette le corse in programma. Il Time scrisse che risultati del genere “trasformano gli uomini in dei”.

 Si è sentito un dio quel giorno?

“Quel giorno no, ero troppo emozionato e confuso… il giorno dopo sì! Quando ho aperto la porta per prendere il giornale c’era una torma di giornalisti fuori con le telecamere e i taccuini aperti. Wow! Io ero in mutande e canottiera e ho subito richiuso la porta”. 

Sembra la scena di Hugh Grant in Notting Hill.

“Uguale. E’ stato in quel momento che ho capito che era successo qualcosa”.

Lei è stato definito il Robin Hood delle corse, il campione del popolo che ha battuto i pronostici tirando fuori l’impossibile. Il giorno delle magnificent seven i bookmaker persero 40 milioni di sterline.

“Sono passati 23 anni e ancora adesso incontro persone che mi ringraziano: tassisti, infermiere, l’avvocato e il pensionato. Ci sono persone che quel giorno hanno vinto, puntando poche sterline, una marea di soldi. Chi mi racconta che gli ho pagato il mutuo, chi il matrimonio, chi la barca o la macchina nuova”. 

Nella sua vita, come nella carriera, lei ha avuto alti e bassi e, da un certo punto di vista, si può considerare un sopravvissuto. Come andò l’incidente d’aereo che la coinvolse?

“Era il primo di giugno del Duemila. A quel tempo avevo un mio aereo personale, con il mio pilota, a sei posti, però in quel momento era in manutenzione e ne avevamo preso uno in affitto quasi uguale. Purtroppo il mio pilota e amico, Patrick MacKay ha perso la vita e io sono sopravvissuto. L’incidente avvenne al decollo e ho rischiato di morire due volte: sia all’impatto con il suolo che dopo, perché mi ero rotto la gamba e non sarei riuscito a uscire da quell’inferno di fuoco senza l’aiuto del mio collega Ray Cochrane, anche perché dopo l’aereo è esploso”

Ha pensato: oddio, sto per morire?

“Sì. Quando l’aereo stava precipitando ho pensato che fosse davvero finita, ma non ho avuto davvero paura. E’ strano. Ho provato questa sensazione di disappunto. Mi dispiaceva che finiva così. Cavolo, ho 29 anni, ho appena fatto un figlio, le cose mi stanno girando benissimo e mi porti via adesso”.

Poi c’è stato anche l’episodio della cocaina nel 2012 e la sospensione dalle gare per sei mesi. Come è riuscito a rialzarsi?

“La droga sta dappertutto e ci sono finito dentro anche io. Non ero dipendente, ne facevo un uso ricreativo. Mi sono fatto coraggio e sono ripartito, sono debolezze dell’uomo. Non sono stato il primo e non sarò l’ultimo” 

Ha provato vergogna quando è tornato sulla scena?

“Sicuramente sì, solo adesso che ho passato i 50 anni sono riuscito a mettere tutto su un libro. Non mi sento più in imbarazzo e posso dire cose che non avrei detto dieci anni fa. Fa parte dell’arcobaleno della mia vita: non puoi dire che c’è stato solo il giallo e il rosso, ma anche il nero e il viola. I posti belli e quelli brutti, nessuno ha fatto la vita perfetta”.

La sua “firma” è il salto d’angelo che fa dalla sella ogni volta che vince. Come nasce?

“La verità è che io sono stato un ladro, ho rubato questa cosa da un fantino portoricano che si chiamava Angel Cordero Jr ed era uno dei miei eroi”. 

Come lei, Cordero vinse tutto negli  Stati Uniti.

“Sì. Mi piaceva il suo stile, io ho copiato tanto da lui. Nei primi anni Novanta mi ha preso sotto la sua ala, mi ha dato dei consigli, sono stato a casa sua. Poi nel ’94 ho fatto il salto d’angelo una prima volta quando ho vinto la Breeder’s Cup e da lì è diventato una specie di tradizione. La cosa divertente è non fu presa bene all’inizio”.

Perché?

“Perché in quegli anni il mondo dell’ippica era ancora molto chiuso e autoreferenziale, non si poteva ridere. Poi piano piano, anche grazie a Sky, si sono aperti, ed è diventata una cosa accettabile che la gente si diverte a guardare” 

Ha qualche altro oggetto o rituale scaramantico, come molti fantini?

“Io li avevo tutti! Portavo al collo una catena che sembravo Mr-T, quello della serie A-team: avevo un corno, un ciondolo a forma di trifoglio, ogni cosa. Alla fine un giorno mi sono tolto tutto, era diventato una cosa ossessiva, molto tipica in Italia ma vivendo in Inghilterra l’ho lasciata un po’ andare…”.

E ha continuato a vincere anche senza amuleti. Crede in qualcosa, fortuna a parte?

“Sono cristiano, credo in Dio, basta quello” 

Come si fa ad avere a 52 anni un fisico come il suo?

“Ho a casa un tapis roulant sul quale faccio un’ora di corsa leggera/camminata tutti i giorni. Ma corro non tanto per allenarmi, quando per poter mangiare e bere quanto voglio. Altrimenti la vita del fantino è sempre sulla bilancia, devi essere come un monaco… non fa per me”.

Quindi è una leggenda che beve solo acqua?

“Ma certo! Nella mia carriera avrò bevuto milioni di litri di champagne”. 

(...)

Si è molto favoleggiato del suo rapporto con la regina Elisabetta, i vostri cocktail Martini…”.

“Gin&Tonic”

Cosa c’è di vero?

“Tutto. E’ stato un bel rapporto, durato trenta anni. All’inizio avevo un po’ di soggezione, aveva sempre questa presenza bellissima, carismatica. Però poi siamo entrati in confidenza. Due volte l’anno veniva nella mia scuderia, prendevamo il thè assieme, voleva sapere sempre tutti i retroscena sulle altre scuderie, sui fantini e i cavalli. E io allora le raccontavo un po’ di gossip, gli scandali, le davo quello che voleva”.

Perché il pubblico inglese l’ha subito adottata?

FRANKIE DETTORI E LA MOGLIE 2

“Forse perché cercavano una persona diversa. Quelli di prima erano tutti freddi e seri…io ho portato un po’ di gioia nell’ippica degli anni Novanta quando non c’era, avevo un carattere aperto, mediterraneo. La gente finalmente poteva avvicinarsi un po’ di più al nostro sport, che prima era visto come lo sport dei Re, dei principi e dei ricchi. Io ho unito la gente e le élite, l’alto e il basso”.

Quest’anno finirà con l’agonismo. Dove?

“Il 15 ottobre farò la mia ultima corsa in Italia, a Milano. Il 21 ottobre ad Ascot, in Inghilterra, sarà l’ultima volta sul suolo europeo. Ma non ho ancora deciso l’ultima gara in assoluto, tra America, Giappone e Australia”.

E dopo il 2023? Quale sarà la seconda vita di Dettori una volta sceso, come quel bambino, dalla sella?

“Sono in trattativa con alcuni canali tv per fare il commentatore, ma ancora non c’è niente di scritto”.

Lascia mentre è in cima alla vetta. Il sentimento prevalente è il rammarico o addirittura, forse, c’è un senso di liberazione?

“Il mio cuore vorrebbe continuare ma la testa dice che è questo il momento giusto per fermarmi. C’è l’angelo e c’è il diavolo…Sarà molto doloroso lasciare, ma anche mio padre mi ha messo in guardia: uno sportivo muore due volte, la prima quando smette di correre e poi quando muore veramente”. 

I tre fenomeni con la criniera che hanno stupito il mondo quest'anno. Le gesta degli ultimi tre campioni che il galoppo mondiale ci ha regalato, due maschi ed una femmina. Marco Monaco il 25 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il 2022 sta per lasciarci e quindi è tempo di bilanci, anche per le corse dei cavalli. In questo articolo vi racconteremo le gesta degli ultimi tre campioni che il galoppo mondiale ci ha regalato, due maschi ed una femmina, tre cavalli che lasciano l’attività agonistica per dedicarsi alla famiglia, due futuri padri ed una splendida madre.

E se gli appassionati sanno di che parliamo o meglio scriviamo, il nostro intento è avvicinare anche coloro che il mondo del cavallo da corsa non lo conoscono o ancor peggio lo temono. Citando questi tre campionissimi abbiamo la speranza di accendere la loro curiosità… Flightline, Baaeed ed Alpinista sono i protagonisti.

Nella classifica finale e mondiale 2022, quella redatta dall'Ifha (International Federation of Horseracing Authorities), la massima organizzazione mondiale al pari della Fifa nel calcio, i maschi sono al primo (139) e secondo (135) posto mentre la femmina è al dodicesimo, prima assoluta del gentil sesso (123).

E proprio con la femmina apriamo il discorso, non per galanteria bensì per la gioia che ha saputo trasmettere in un percorso agonistico che ha fatto sognare, culminato con la vittoria, da favorita, all’Arc de Triomphe di Parigi il 2 ottobre scorso. Per chi non lo sapesse la corsa francese è la più importante al mondo, la numero uno in assoluto, quella che consacra il vincitore nell’Olimpo dei Leggendari.

Alpinista nasce il 16 Febbraio 2017 dal campionissimo e imbattuto Frankel ed Alwida, figlia di Hernando, che vanta buoni trascorsi agonistici. Primogenita, ha una sorellastra di nome Alpenblumen. Inizia a correre all’età di due anni e lo fa 15 volte, negli ultimi due rimane imbattuta con un record di 8 vittorie di cui 6 GR1 (Gruppo uno) consecutivi, l’Arc de Triomphe è l’ultimo regale sigillo. In verità avrebbe dovuto disputare l’ultima gara in Giappone, nella Japan Cup di Tokyo, ma per un piccolo inconveniente di natura fisica la proprietaria ha rinunciato all’ingaggio. La signora Kirsten Rausin, in accordo con l’allenatore Sir Mark Prescott, il fantino Luke Morris e la squadra dei veterinari l’hanno ritirata dall’attività agonistica e dal prossimo anno si dedicherà a tempo pieno a far nascere futuri campioni. Cavalla grigia con un cuore grandissimo, Alpinista è riuscita a metter dietro di sé campionissimi come Vadeni e Torquator Tasso e dominare la scena europea sulla distanza classica per due anni nell’Europa che conta ovvero Inghilterra, Francia e Germania.

Il secondo protagonista di questa piccola storia è l’imbattuto americano Flightline, cavallo che ha fatto sei vittorie su sei corse disputate e verrà inserito nella categoria degli invincibili, una particolare categoria che annovera cavalli del calibro di Kincsem, Eclipse, Nearco, Ribot, Frankel solo per citarne alcuni. Un ristrettissima cerchia di eletti perché rimanere imbattuti, vi assicuriamo, è impresa titanica vista la concorrenza spietata che regna da sempre sovrana...

Flightline nasce il 14 marzo 2018 da Tapit, un cavallo che sta dimostrando di essere un ottimo riproduttore e Feathered, figlia di Indian Charlie che vanta ottimi trascorsi agonistici. Proprietà: Hronis Racing LLC, West Point Thoroughbreds et al; allenatore: John Sadler; fantino: Flavien Prat. Secondogenito, debutta a tre anni e corre sino ai 4, consacrandosi il migliore dei migliori nella corsa per eccellenza del circuito americano, la Bredeers’ Cup Classic, una corsa sulla distanza di 2.000 metri in sabbia. Flightline percorre l’anello di Keenland in un tempo di 2 minuti e qualche centesimo e lascia il secondo arrivato a otto lunghezze abbondanti che nel galoppo agonistico sono un’infinità, fatto non casuale, infatti è sempre stato così sin dal suo debutto il 24 aprile 2021. In totale sono 71 le lunghezze di differenza tra il fenomeno americano e i secondi arrivati (13,25, 12,75, 11,5, 6, 19,25, 8,25). C’è poco altro da aggiungere se non che dal 2023 diventerà stallone, con un tasso di monta record di 200mila dollari. Una speciale agenzia ha valutato l’animale 184 milioni di dollari, altro record assoluto nella storia del galoppo mondiale.

Per ultimo ma non per qualità, Baaeed, il cavallo che ha fatto sognare il popolo inglese e non solo, il cavallo che doveva prendere il posto di Frankel, il cavallo che aveva fatto un 10 su 10 stellare, il cavallo che in molti lo volevano all’Arc vinto da Alpinista, il cavallo che è stato sulle lavagne dei bookmakers di tutto il mondo a 3/5 per tre mesi aspettando la sua undicesima e ultima corsa, il Champion Stakes ad Ascot. Un’attesa spasmodica, un evento ippico diventato evento planetario. In milioni hanno seguito la corsa, dall’Europa all’Australia, passando per Usa e Giappone. Alla fine tutti sono rimasti increduli e piangenti…vederlo arrivare solamente quarto su un terreno che solo all’apparenza sembrava congeniale, è stato un colpo al cuore per il mondo degli appassionati e degli scommettitori.

Baaeed nasce l’otto aprile 2018 dall’eccellente Sea the Star ed Aghareed, figlia di Kingmambo che vanta discreti trascorsi agonistici. Proprietà: “Shadwell Estate Company Ltd”; allenatore: William Haggas; fantino Jim Crowley. Quintogenito, debutta il 7 giugno 2021 ed in carriera vince 7 corse di Gruppo di cui 6 GR1, considerato un formidabile miler, gli scettici non credevano potesse arrivare alla distanza del doppio chilometro, ancorchè per genealogia tutto lo faceva presumere. Il 17 agosto i dubbi si sono disciolti come neve al sole, con una prestazione fuori del comune sulla pista di York nel “Juddmonte International” corsa sulla distanza dei 2.063 metri. Con un cambio marcia ai trecento finali, vince fermando e diventa di diritto il principe ereditario, quello che prenderà il posto del mitico Frankel.

Il 15 ottobre tutto il mondo si è fermato per consacrare il campione alla storia, e come spesso accade la storia non è come la si è immaginata. Una delusione cocente che ci ricorda quanto la vita possa essere amara anche quando tutto può apparire dolce e sereno. Baaeed, il cavallo che passerà alla storia per non esser diventato invincibile, perché quel dieci su dieci sarà presto dimenticato e lascerà spazio a quella sconfitta maturata a poco meno di due lunghezze dal vincitore. Dal 2023 si dedicherà all’attività stalloniera ad un tasso di monta pari a 80.000 sterline, e se è vero che non è rimasto imbattuto, scommettiamo che in questa nuova professione sarà formidabile come lo è stato sulle piste inglesi e francesi.

Concludiamo ricordando che il circuito nazionale non si ferma e il 26 dicembre nell’ippodromo di San Rossore, a Pisa, si correrà l’ultima corsa classica, il Premio Piazza dei Miracoli (Listed race) con una dotazione di € 38.500,00 (14.875,00 -6.545,00 - 3.570,00 - 1.785,00) per cavalli di 3 anni ed oltre sulla distanza dei 2.200 metri.

Una menzione speciale anche per due cavalli nostrani che hanno fatto sognare e gioire il popolo italiano. Cantocorale, capace di vincere 3 corse di GR2 nell’anno, “Presidente della Repubblica”, “Premio Milano”, “Roma Italian Champion” e Tempesti, lo sfortunato dormelliano secondo del “Derby Italiano” che ha vinto il “Federico Tesio”, anch’essa corsa di GR2: al portarlo al traguardo Sir Lanfranco Dettori che si è tolto un’altra soddisfazione, vincere con la mitica giubba della croce di Sant’Andrea che fu di Nearco e Ribot.

Che altro aggiungere se non un cordiale augurio di buone feste a tutti i nostri lettori e infiniti auguri per un 2023 ricco di vittorie e serenità.

Sir Frankie Dettori annuncia il ritiro nel 2023. Il 52enne fantino italo-inglese, una delle figure più note di questo sport, ha annunciato il ritiro dalle corse nel 2023. Ha vinto le gare più famose del circuito dell'ippica, arrivando a toccare quota 3.300 vittorie. Marco Monaco il 17 Dicembre 2022 su Il Giornale.

L’annuncio che il miglior fantino di sempre si ritira e che il 2023 sarà il suo ultimo anno da jockey professionista è una notizia che stringe il cuore degli appassionati. Il mio si stringe ancor di più perché si intreccia con il sentimento dell’amicizia.

Voglio raccontare una bella storia, una storia vera, una storia che non si può dimenticare per onorare una notizia che certamente doveva arrivare ma che nessuno avrebbe mai voluto ascoltare. Era il 1992 e come tutti i sabato sera ci ritrovavamo al bar "La Borsa" di Pisa a fare l’aperitivo prima della consueta cena in uno dei tanti ristoranti della città. Il giorno seguente si correva il 102° Premio Pisa, l’evento che tutti i pisani aspettano con trepidazione ogni anno, nonché la corsa di galoppo più importante della Toscana, all’epoca classificata corsa di GR3.

I partenti davano agli ordini dello Starter la famiglia Dettori al completo, padre e figlio, Gianfranco detto "il Mostro", e il figlio Lanfranco, promettente Jockey di 21 anni. Già all’epoca ero un appassionato frequentatore di ippodromi e sale corse ma personalmente non conoscevo né il mostro e neanche il figlio, ma quella sera ebbi il piacere di conoscere quello che sarebbe diventato il numero uno assoluto del galoppo planetario, Lanfranco. A presentarmelo fu Pierfrancesco Macchi, il mio carissimo amico Checco, proprietario insieme al padre Angelo della Scuderia Azzurra, una piccola realtà ma di grande qualità

Bevemmo un paio di flut di Ferrari e ci salutammo sapendo che ci saremmo beccati all’ippodromo. Lanfranco fu molto cordiale, mi strinse la mano, bevemmo e disse che il giorno seguente sarebbe stata molto dura contro il padre: "Mi metterò dietro di lui ed arriverò secondo!". Ridemmo e felici ci salutammo. Il Premio Pisa 1992 fu vinto da Gianfranco Dettori con Worldwide figlio di Sayyaf, al secondo posto That&ll Be The Day con Lanfranco Dettori. Fu un grandissimo giorno per la città di Pisa e per il galoppo nazionale.

Trent’anni dopo, Lanfranco è tornato a Pisa a vincere il suo primo ed unico Premio Pisa con Il Grande Gatsby, non l’ho incontrato perché il nostro carissimo amico Pierfrancesco ci ha lasciato molto prematuramente, alcuni anni fa. Che altro posso aggiungere dopo quel magico incontro, solamente che Lanfranco è diventato Frankie per il mondo intero, che è stato nominato baronetto dall’eterna Regina Elisabetta II per le sue gesta sportive ma non solo. E quando il 13 novembre, con la giubba di Ribot, la giubba bianca con la croce di Sant’Andrea rossa ha vinto con Tempesti il Premio Federico Tesio, tutto il popolo italiano ha gioito come ai bei tempi ed anch’io mi sono unito a quella immensa gioia.

Lanfranco Dettori, il fantino che ha vinto "solamente" 294 corse di GR1, tra cui 7 volte “King George VI and Queen Elizabeth Stakes” con Lammtarra (1995), Swain (1998), Daylami (1999), Doyen (2004), Enable (2017, 2019 e 2020); 6 volte “Prix de l'Arc de Triomphe” con Lammtarra (1995), Sakhee (2001), Marienbard (2002), Golden Horn (2015), Enable (2017 e 2018); 1 volta “Breeders' Cup Classic” con Raven's Pass (2008); 4 volte “Dubai World Cup” con Dubai Millennium (2000), Moon Ballad (2003), Electrocutionist (2006), Country Grammer (2022); 3 volte “Japan Cup” - Singspiel (1996), Falbrav (2002), Alkaased (2005) e che ha vinto in tutto il resto del mondo e forse anche un po’ più in là.

Il 2023 gli riserverà ancora delle grandi vittorie e tutti noi lo seguiremo come abbiamo sempre fatto. E se il padre era detto il Mostro, lui è l’extraterrestre ineguagliabile. Posso solo sperare di rivederlo nella mia città a vincere il suo secondo ed ultimo Premio Pisa. Grazie Lanfranco ed ancora buon compleanno, visto che soli tre giorni fa hai festeggiato i tuoi primi 52 anni.

Estratto dell’articolo di Agostino Gramigna per il “Corriere della Sera” il 4 aprile 2023.

Ha una passione e non la nasconde. «Ama». Ama follemente il Canada. «È un bellissimo Paese», argomenta. E poi, ma questo non è più lei ad argomentarlo, è la nazione che ha due milioni di praticanti il curling (un’enormità rispetto ai 330 e poco più iscritti in Italia). «Quando sono lì, mi sento importante».

 Un dato questo che serve a comprendere la biografia di Giulia Zardini Lacedelli. Che ha solo 20 anni, gioca a curling e fa parte della nazionale femminile. Agli ultimi mondiali in Svezia, poche settimane fa, è stata eletta come miglior giocatrice al mondo nel suo ruolo (l’Italia si è classificata quinta, miglior risultato di sempre).  […]

Una medaglia di difficile immaginazione prima delle Olimpiadi. Tanto per dare un’idea. In Italia il curling si gioca a certi livelli solo a Cortina, Cembra e Pinerolo. Anche per mamma e papà di Giulia è un gioco difficile da capire. «La cosa che non è ancora chiara a miei genitori è la tattica con cui viene chiamato il gioco. Provo a spiegare». Ci ripensa.

 «Forse è meglio di no». Giulia organizza così la sua vita quotidiana. Studia (è iscritta a Mediazione Linguistica), si allena, mangia e dorme. Lo scorrere del suo tempo non cambia mai. Si reitera sulla base di un ordine intrinseco. Non si direbbe il miglior spot per attrarre al curling giovani della sua età. «In effetti i miei amici spesso me lo fanno notare. Mi dicono: “E su, vieni un po’ a goderti la vita”. Ma non ho tempo».

 Giulia organizza pure il gioco. Nel suo ruolo è la migliore al mondo. «Sono una lead».

Una lead (o un lead) è colei che lancia per prima nel quartetto. Tenta di spiegare: «Effettuo i primi due lanci del sasso (come si chiama il disco che scivola lungo il campo del curling). Poi spazzo gli altri sei lanci...». Si ferma. «Mi rendo conto che se non si comprendono bene i meccanismi di questo sport, che è anche una filosofia della precisione, può sembrare noioso».  […]

Per un’atleta che non ha molto tempo per fare attività sociale, l’ideale (argomenta) è il fidanzato scelto nello stesso campo. «Il mio ragazzo fa curling. Insieme abbiamo vinto l’argento nel doppio misto ai campionati italiani. La passione in comune favorisce il rapporto».

 Ma chi vince a curling? «Me lo chiedono in tanti. Cerco di spiegare...». Prova. «Pensiamo alla bocce. Ci siamo? Bene. Nel curling i sassi devono finire al centro. Più sono centrali più si guadagna punti. Vince chi fa più punti. Semplice, no?».

Armstrong e il doping nel ciclismo: «Io e Ullrich, una generazione di m...». La frase su Pantani. Redazione Sport su Il Corriere della Sera giovedì 30 novembre 2023.

Il texano si racconta senza freni: «Mi ci sono voluti dieci maledetti anni per uscire da questo buco. La mia vita è letteralmente implosa. Non solo ho perso milioni di dollari, ma ho perso quasi tutto ciò che mi aveva definito come uomo e atleta»

Lance Armstrong torna a parlare dei suoi anni di successi, poi revocati per uso di doping. Dio recente anche Jan Ullrich, all’anteprima del documentario sulla sua carriera («Der Gejagte», «Il Ricercato», in Germania su Prime dal 28 novembre), ha ammesso di essersi dopato. Così anche il texano, intercettato da Zeit Magazine, ha ammesso: «Siamo stati i migliori di una generazione di m...». Poi l’ex ciclista parla di quell’epoca nera del ciclismo: «Mi ci sono voluti dieci maledetti anni per uscire da questo buco. La mia vita è letteralmente implosa. Non solo ho perso milioni di dollari, ma ho perso quasi tutto ciò che mi aveva definito come uomo e atleta. Né io né Jan, né nessun altro della nostra generazione avrebbe dovuto doparsi. Purtroppo la realtà è stata diversa: facevamo parte di una generazione di m…».

L’amicizia con Ullrich

C’è spazio anche per il racconto della sua amicizia con Ullrich: «Eravamo entrambi delle icone nei nostri Paesi. Io, perché avevo sconfitto il cancro e avevo ispirato molte persone e Jan perché era stato il primo vincitore tedesco del Tour. Anche se sembra immodesto: eravamo i più grandi del ciclismo, a livello globale. Quando seppi che era stato ricoverato, provai a stargli vicino, a dargli tutto il mio appoggio possibile. Non sapevo cosa aspettarmi, ma amavo quell’uomo — le parole dell’americano —. Il fatto che stesse così male mi aveva spezzato il cuore: Marco Pantani era appena morto all’epoca, non potevo sopportare di perdere un altro di noi».

Tra le recenti ammissioni di Ullrich, quella in cui spiega come prima del Tour de France 1997, poi vinto, avesse fatto uso di sostanze dopanti: «Ma senza doping allora non avrei potuto resistere in gara ed essere competitivo. Fuentes mi chiese: vuoi passare con semaforo verde, giallo o rosso? Non ebbi dubbi: verde. Ossia: dammi tutto quello che può farmi vincere. Era tutto sotto controllo medico, ero tranquillo».

Cosimo Cito per La Repubblica - Estratti venerdì 24 novembre 2023.

Oltre dieci anni dopo le ammissioni di Lance Armstrong, un altro grande protagonista del ciclismo di fine Millennio vuota il sacco. Per la prima volta nella sua vita Jan Ullrich ha ammesso di essersi dopato. Purtroppo non è una grande notizia: il tedesco aveva chiuso con disonore la sua carriera dopo essere finito nel libro nero del dottor Fuentes ed essere stato smascherato (lui tra i pochi) dall'Operacion Puerto della Guardia Civìl spagnola, nel 2006. 

Tuttavia le frasi di Ullrich all’anteprima del documentario in quattro parti “Der Gejagte” (“Il Ricercato”), che sarà rilasciato su Amazon Prime in Germania dal 28 novembre, riaccendono i riflettori sul vincitore del Tour de France 1997 e grande avversario di Marco Pantani in quello del 1998. Ullrich è salito sette volte sul podio della corsa gialla, ha vinto una Vuelta e l'oro olimpico a Sydney 2000.

Le ammissioni di Ulrich

Parlando con i media tedeschi, l’ex corridore della Telekom, 49 anni, ha confessato di aver fatto uso di doping seguendo il programma del dottor Eufemiano Fuentes, anche prima della sua vittoria al Tour de France 1997, mai revocata come accaduto invece ad Armstrong. "Sì, ho fatto uso di sostanze dopanti" ha confessato candidamente Ullrich. "Ma senza doping allora non avrei potuto resistere in gara ed essere competitivo. Fuentes mi chiese: vuoi passare con semaforo verde, giallo o rosso? Non ebbi dubbi: verde. Ossia: dammi tutto quello che può farmi vincere. Era tutto sotto controllo medico, ero tranquillo".

Ulrich e la madre di Pantani

Durante le riprese Ullrich ha visitato Cesenatico e ha incontrato i genitori di Marco Pantani. "Fui profondamente scosso dalla sua morte. Sua madre era incredibilmente commossa quando mi sono presentato davanti a lei, c’è una vera connessione. Anche se forse suonerà banale, in un certo senso siamo come una grande famiglia". Negli ultimi anni Ullrich ha attraversato un forte periodo di depressione e ha dovuto disintossicarsi dall'abuso di alcol e cocaina. 

La verità tardiva di Ulrich

"Se avessi raccontato la mia storia, avrei avuto anni migliori" ha poi aggiunto il Rosso di Rostock, "ma non ho avuto il coraggio. Quasi tutti assumevano sostanze dopanti in quegli anni. Non ho preso nulla che gli altri non prendessero. Ero colpevole e ora mi sento colpevole, ma posso dire con tutto il cuore che non volevo ingannare nessuno, non volevo essere avanti agli altri corridori. Il ciclismo aveva un sistema e io mi sono inserito in quello". 

Ulrich, doping dal 1995

Ullrich ha poi rivelato di aver iniziato a fare uso di doping quando diventò professionista con la Telekom. "Sono venuto a contatto con queste sostanze nel 1995. All’epoca mi fu spiegato in modo chiaro, ma non avevo paura. Ero giovane e ingenuo e mi inserii in un sistema esistente. La mia carriera sarebbe stata finita se non l’avessi fatto. Personalmente, penso di meritare il titolo del Tour 1997 (vinto su Virenque e Pantani), anche se spetta agli altri decidere. Ma nel mio cuore sono un vincitore del Tour".

"Pogba come Schwazer. È la solitudine dei numeri primi". Donati: "Quante analogie. Oro, mondiali e soldi, poi caduta e bisogno di tornare. Ma con le persone sbagliate accanto". Pier Augusto Stagi il 13 Settembre 2023 su Il Giornale.

Una marcia lenta e dolorosa, rallentata dal dubbio e dalla paura, quella di non tornare più dove si era stati così bene. Là, in cima a tutto, dove c'è gloria e trionfi, persino estasi. Paul Pogba si è trovato anche lui per troppo tempo senza un pallone fra i piedi e con quella dannatissima strada da percorrere con il peso del dubbio. Una marcia verso l'ignoto e la rinascita, spostata a più riprese un po' più in là. Una marcia inesplorata in una notte buia piena di fantasmi che non ne vogliono sapere di uscire da quelle teste intossicate da dolore e fatica, attese e date.

Una marcia lenta e faticosa dicevamo, come se Paul fosse un Alex Schwazer alle prese con un destino che improvvisamente cambia direzione. Entrambi campioni adorati e glorificati, entrambi atleti di vaglio assoluto con onori, ori e denari, per Pogba molti, molti denari. Poi il buio. Il marciatore altoatesino che si ritrova improvvisamente senza un guida, quel Sandro Damilano amico e allenatore di primo livello. «Se mi si chiede un punto di congiunzione tra la storia di Pogba e quella Schwazer dico la solitudine esordisce Sandro Donati, allenatore, amico e convinto assertore dell'innocenza del marciatore altoatesino -. Alex, ad un certo punto della sua carriera, dopo la consacrazione olimpica di Pechino 2008 e prima che fosse fermato il 6 agosto del 2012 per una positività all'eritropoietina ricombinante, era un ragazzo solo e spaesato: credo come Paul. Alex era in una situazione di depressione e di confusione totale. Aveva dovuto rinunciare al suo allenatore storico Sandro Damilano e non gli era stata prospettata né dalla Federazione né dal gruppo sportivo una alternativa adeguata». Sandro Donati si ricorda bene quello che fu costretto a passare Alex Schwazer, quando fu squalificato per tre anni e sei mesi e, nel 2015, la II Sezione del Tribunale nazionale antidoping del Coni gli aggiunse tre mesi per aver eluso il prelievo dei campioni biologici: il marciatore aveva chiesto in quell'occasione all'allora fidanzata (Carolina Kostner, ndr) di dire che non era a casa. «È facile finire in un girone infernale aggiunge sempre Donati -. In certe situazioni finisci in un futuro distopico. Gli errori si sommano e si confondono: errori in allenamento, involuzione tecnica, non ne esci più». Uomini di talento che si trasformano in Uroboro, in quel drago o serpente che si morde la coda. «È la solitudine dei numeri uno e primi, ma ancor prima di quella solitudine, si cela probabilmente la mancanza di competenze adeguate. Per competenze intendo persone che grazie alla qualità dei loro interventi assicurano all'atleta un'assistenza adeguata nella rieducazione post infortunio, atte a colmare le lacune che l'atleta ha accentuato durante l'infortunio per quella naturale bramosia di ritornare». Una marcia lenta e dolorosa, che accomuna Paul ad Alex, due fenomeni, due fuoriclasse adorati e glorificati, entrambi oggi accomunati da un destino comune: un viaggio all'inferno. «Alla base di tutti i miei infortuni c'era la testa e il mio corpo ha reagito di conseguenza. Io ero stressato, il corpo era teso», questo è quello che il francese diceva solo a giugno, quando in fondo al tunnel cominciava a intravedere un po' di luce.

«Quello che mi fa specie di tutta questa vicenda, sono le considerazioni fatte da molti medici sulla sostanza assunta: il testosterone aggiunge Donati -. È un doping sorpassato, ho letto. Non è questo il punto. Il punto è che il testosterone è doping, dà forza, toglie la fatica, aumenta la produzione dei globuli rossi e di conseguenza migliora l'ossigenazione. Forse è il caso che si vadano a ripassare qualche lezione».

Estratto dell'articolo di Valerio Piccioni per gazzetta.it il 12 luglio 2023.

La forza della verità. Due parole con cui Sandro Donati spiega il successo della docuserie di Netflix che racconta Il caso Alex Schwazer. "È stato un racconto trasparente, reale, umano, senza bugie. Probabilmente questo è stato colto dalle persone". 

Donati, una vita vissuta a tutta contro il doping, l’allenatore che ha guidato la nuova carriera di Alex Schwazer e che non l’ha abbandonato dopo la contrastata e sempre negata positività al testosterone, non ha smesso di combattere contro quella che ritiene una gigantesca ingiustizia. 

Donati, che cosa insegna questa storia?

"Fa capire quanto alcune istituzioni sportive siano deviate. Era già chiaro quando due persone di alto profilo abbandonarono la Wada. Jack Robertson era capo ispettore e protagonista dell’inchiesta sulla Russia, mentre il ruolo di Rob Kohler era di vicedirettore generale. Uno dei problemi sollevati era stato la mancanza di protezione degli atleti che denunciavano. 

E su questo punto sono successe cose inquietanti: ci sono voluti alcuni anni e oltre 200 mail perché i coniugi Stepanov (i pentiti più noti dello scandalo del doping di Stato) avessero una risposta. E che dire della discobola Darya Pishchalnikova che raccontò tutto il sistema doping a Iaaf e Wada con una mail che i responsabili di queste due istituzioni girarono ai dirigenti russi? Un atto di grande servilismo e vigliaccheria". 

Però in questi anni la lotta al doping ha fatto comunque grandi passi in avanti: ricerca, nuovi metodi, analisi, tecnologia. Tutto questo dove va a sbattere?

“Molto è sceneggiata. Non c’è mai un incremento del numero dei positivi. Anzi, si sta assistendo a una crescita preoccupante di certe prestazioni. Penso ai lanci nell’atletica. Una volta solo con gli anabolizzanti facevano certe misure ed ora come si fanno?". 

(...) 

Ma in fondo non c’è già con il passaporto biologico?

"E come viene usato? C’è un’assoluta opacità delle statistiche. Ti dicono i numeri dei controlli, ma a quali categorie di atleti sono diretti i controlli? Per esempio quelli a sorpresa come incidono sugli atleti di alto livello? E se fai due missed test, scatta subito un altro controllo o oppure il terzo non arriva mai? E le esenzioni terapeutiche? Sono verificate con ponderazione? E poi la domanda fondamentale: può una federazione internazionale controllare se stessa?". 

Però da una parte lei denuncia l’assenza di garanzie per Schwazer e gli atleti, dall’altra dice che il sistema preferisce non colpire.

"Siamo di fronte a un sistema del tutto autoreferenziale e caratterizzato dall’autotutela. Se un atleta ha il coraggio di sfidare questi poteri va incontro a organi di giustizia che le stesse istituzioni sportive hanno nominato: ad esempio gli arbitri del Tas vengono nominati dal Cio e dalle federazioni internazionali. Non c’è terzietà. E sapete quanto costa ricorrere al Tas o alla Corte Federale Svizzera?" 

Abbiamo letto di una cifra vicina a 50mila euro.

"Almeno. Così molti atleti rinunciano perché non possono, sistema spietato. Quando hai a che fare con una federazione internazionale, le carte ce l’hanno tutte loro. Ricordate a luglio di sette anni fa cosa successe? Il Tas fissò l’udienza, ma la Iaaf disse che aveva bisogno di studiare i documenti.

(...) 

Molte persone dicono di fronte al caso Schwazer “qualcosa non quadra”, anzi molto non quadra. Ma ci si chiede anche: possibile che si sia organizzato tutto questo per colpire un solo atleta?

"È un’obiezione di chi non ha approfondito i fatti. Io penso che le istituzioni coinvolte si siano incastrate con la scelta del negare tutto. Per spezzare questo cerchio ci voleva una persona responsabile che dicesse basta, anche solo in base alla falsità dei verbali della catena di custodia. Si poteva annullare per vizio di forma e formare una commissione d’inchiesta".

La Wada, però, all’inizio è stata una svolta.

"Soltanto all’inizio, poi questo organismo non ha più funzionato. Ho chiesto più volte di quei finanziamenti della Russia alla Wada dal 2013 al 2015". 

È stato mai smentito?

"Ma se sono scritti nei bilanci. Attenzione: finanziamenti straordinari. Straordinari per cosa?". 

Donati, dopo quasi sette anni di questa lunga storia, che cosa spera?

"Spero che un organismo esterno al sistema sportivo, per esempio costituito nell’ambito dell’Unione Europea, possa avviare un’inchiesta indipendente, ma so che è un’utopia, anche perché la politica è ormai diventata poca cosa".

Estratto dell’articolo di Filippo Maria Ricci per gazzetta.it il 13 Maggio 2023.

"Nel Brescia ci facevano iniezioni, nel Milan ci davano pasticche…". Questo titolo ha aperto per buona parte della mattinata il sito di As, quotidiano sportivo madrileno che ha intervistato Florin Raducioiu, ex calciatore rumeno che ha giocato tanti anni in giro per l’Europa, Italia compresa. Una chiacchierata lunga e che tocca vari temi, compreso quello dei medicinali somministrati ai giocatori. 

L’attaccante rumeno è stato in Italia tra il 1990 e il 1994, giocando con Bari, Verona, Brescia e Milan. Queste le sue parole sulla sua esperienza in Italia in tema di sostegno medico: "Con tante morti premature, come quella di Vialli, Dino Baggio si è spaventato. Io quello che posso dire è che al Brescia a ogni partita ci facevano iniezioni di un liquido rosso, sembrava sangue. 

(...) Nel Milan ricordo che prendevamo anche delle pasticche". 

“IO STO BENE”—   Vi facevano controlli antidoping? "Sì, erano con l’urina. Tutte queste domande nascono dalla morte di Vialli e di altri giocatori. La cosa ha fatto sì che iniziassero a fare domande su ciò che ci davano allora. Magari è stata solo una fatalità, o magari sono stati accelerati dei processi derivati da quei prodotti. Io ho 53 anni e sto bene".

SOLO IN ITALIA —   Lei ha giocato anche in Romania, in Spagna, in Inghilterra, in Francia e in Germania. Anche lì le davano sostanze simili? "No, mai. Solo in Italia si prendevano quelle cose. Negli altri Paesi ti davano medicine solo quando eri raffreddato".

DINO BAGGIO A "LA STAMPA" il 18 gennaio 2023.

: "Ho paura di finire come Vialli e Mihajlovic. Bisogna indagare su quello che prendevamo. Potrebbero esserci molti malati in giro. Assumevamo molti integratori, che non erano controllati come oggi. Che ne sappiamo delle conseguenze a lungo termine? Anche i diserbanti e altre sostanze sparse sui prati possono aver fatto danni"

 Estratto dell'articolo di Andrea Schianchi per gazzetta.it il 18 gennaio 2023.

[…] Fanno discutere le dichiarazioni di Dino Baggio alla televisione privata veneta Tv7, in risposta a una domanda sulla morte di Gianluca Vialli: "C’è sempre stato il doping, comunque sia robe strane non sono mai state prese perché c’è sempre una percentuale che tu devi tenere. Però col tempo bisogna vedere se certi integratori fanno bene oppure no". Dove Baggio dice "doping" si deve però leggere "antidoping", e lo si evince dal seguito del discorso: "Robe strane non sono mai state prese...". […]

 Buongiorno, Dino. Ha visto che pandemonio dopo che ha dichiarato che ai suoi tempi nel calcio "c’è sempre stato il doping"?

"Colpa mia. […] È un errore che nasce dalla consuetudine. Noi calciatori, quando andavamo a fare il test nella stanza a fianco dello spogliatoio, dicevamo: ‘Anche stavolta mi tocca il doping...’. E così questo modo di dire me lo sono portato dietro...".

Eliminata la faccenda del doping, resta la sostanza del discorso. Ce la può spiegare?

"Il mio ragionamento è figlio del dolore che mi porto dentro per la scomparsa di Vialli, […] di Mihajlovic e di altri ragazzi che, come me, hanno giocato a pallone negli anni Novanta. Sono tanti, troppi, quelli che se ne sono andati. Credo sia necessario investigare sulle sostanze farmacologiche prese in quei periodi. Magari non c’entrano nulla, magari si scopre qualcosa...".

Si trattava sempre di sostanze lecite, giusto?

"[…]. Figuratevi se i medici ci davano sostanze dopanti: avevamo controlli ogni tre o quattro giorni. […]".

 Di quali integratori stiamo parlando?

"I soliti, quelli che si vendono anche adesso in farmacia. […] D’altronde non se ne poteva fare a meno: giocavamo 60-70 partite all’anno, tra campionato, coppe varie e Nazionale. […].

Se parla di integratori che si vendono anche oggi in farmacia...

"Certo, ma una persona normale ne prende uno o due alla settimana, mentre noi ne assumevano una notevole quantità tutti i giorni. C’è un po’ di differenza. […]".

 E che cosa c’era dentro quelle flebo?

"Di preciso non l’ho mai saputo. Di sicuro non sostanze dopanti, perché l’antidoping non mi ha mai fermato. Però si trattava di farmaci, che sono cose diverse dalle sostanze naturali che magari vengono utilizzate oggi. Quei farmaci, assunti per tanto tempo, sono ancora nel mio corpo, nei miei tessuti? Chi lo sa? Vorrei che qualcuno mi potesse rispondere".

 […]Lei ha parlato anche dell’erba dei campi.

"Eh sì, avete presente l’odore che si sentiva quando si entrava in campo negli anni Novanta? Era un odore acre, a volte persino fastidioso. A quell’epoca, per tenere i terreni in ordine, si usavano prodotti che contenevano sostanze oggi non più consentite. Adesso, invece, per fortuna è tutto diverso. Ma quelle sostanze che io le ho respirate, si sono incollate al mio corpo. Mi faranno male? Avrò il diritto di sapere o no?".

 Quale soluzione auspica?

"Mi piacerebbe che la scienza potesse dare risposte sui farmaci […] E mi piacerebbe anche che tutto il mondo del calcio ricercasse la verità, che non necessariamente deve essere negativa. […]".

Da gazzetta.it il 17 gennaio 2022.

Le parole di Dino Baggio, secondo cui il doping nel calcio c’è sempre stato, non sono passate inosservate e cominciano a far discutere. “Questo è un discorso non certo di oggi. È un fatto inquietante che preoccupa ma è una storia obsoleta, a partire dalla morte di Beatrice.

 Non è un certo un discorso riferibile a Gianluca Vialli. C’è stata una moria di giocatori lunghissima per cui i sospetti sono consistenti e anche giustificabili, legati anche a metodi adottati una volta e che non erano probabilmente legati ad un sistema di doping ma un sistema di sostegno integrativo che portato a dosi eccessive può aver condotto a qualche problematica importante nel futuro”: a commentare il pensiero di Baggio, sempre a LaPresse come l’ex calciatore, è il dirigente sportivo ed ex calciatore Walter Sabatini. “È inquietante e preoccupante e lascia un velo di sospetto sulle nostre regole etiche e sul calcio che è universale con tutte le magagne che si porta dietro - aggiunge - Ora però sto pensando a Vialli in maniera diversa, non lo penso come un oggetto di indagine”.

Sabatini rincara la dose. “Ci si accorge dopo dei danni? Ci sono passato anche io quando avevo 18 o 20 anni, passavano i medici ti facevano punture e non sapevo quello che ti iniettavano. E il rischio è insistito per tutti, a parte qualcuno che voleva le informative. Io mi facevo puntualmente due punture prima della partita senza mai fare una domanda, mi fidavo dei medici. Per adesso sono stato fortunato e non ho al momento un ritorno così negativo.

 Diciamo che era la prassi”, aggiunge. Poi: “Gli integratori ora sono diventati più raffinati, evoluti e controllati. Sono come tutti perplesso ma Gianluca in questo momento lo lascerei stare, mi dispiace coinvolgere un ragazzo morto 10 giorni fa. Non credo che ci sia il doping nel calcio, alcuni medici ricorrono ad integratori. Ma è sempre un problema di quantità, è quella che viene forzata”.

Da open.online il 23 Dicembre 2022.

Il senatore di Forza Italia e presidente della S.S. Lazio Claudio Lotito ha parlato di malattie legate alle cure dei calciatori in occasione della morte di Sinisa Mihajlovic per una leucemia mieloide acuta. Lotito ha anche parlato dei vaccini e dei loro effetti collaterali, anche se sia l’ex allenatore del Bologna che Gianluca Vialli si sono ammalati prima della pandemia. Le parole di Lotito hanno fatto breccia negli ambienti No vax. 

Oggi Raffaele Guariniello, ex procuratore di Torino, parla delle sue indagini della fine degli Anni Novanta sull’abuso di farmaci nel calcio, oggi in un’intervista al Fatto Quotidiano parla dell’argomento. Suggerendo prima di tutto «cautela a tutti prima di parlare. In questo momento sarebbe indelicato e soprattutto completamente inutile. Fermarsi al caso singolo non serve, il fenomeno va studiato nel suo insieme a livello epidemiologico».

Guariniello ha indagato nel caso di Bruno Beatrice. Il calciatore si ammalò nel 1985 per una leucemia linfoblastica acuta. Secondo la vedova nel 1976 aveva trattato una pubalgia cronica con radioterapia a base di raggi X. Anche altri suoi compagni di squadra nella Fiorentina morirono prematuramente. L’indagine, trasferita per competenza a Firenze, venne archiviata per prescrizione. Guariniello ha indagato anche sull’abuso di farmaci nella Juventus nel 1998.

Il processo finì con l’assoluzione del medico sociale Riccardo Agricola e dell’amministratore delegato Antonio Giraudo per l’accusa sull’uso di eritropoietina (Epo). La Cassazione invece annullò l’assoluzione sull’uso di altri farmaci della Corte d’Appello. Ma la prescrizione fermò la celebrazione di un nuovo processo. «Commissionammo all’Iss (Istituto Superiore di Sanità, ndr) un’estesa indagine epidemiologica su centinaia di casi. Ci consentì di individuare un’anomala eccedenza di morti premature tra gli ex calciatori. Fu il risultato di un lavoro lungo e meticoloso», racconta oggi a Stefano Caselli.

Ma per Guariniello oggi di doping si sa poco o nulla: «Sa quanti processi per doping sono arrivati fino in Cassazione dal 2019 al 2022? Quattro, tre dei quali a livello di sport amatoriale. Significa che su questo tema siamo tornati indietro di 30 anni, a quando si faceva molto poco». E questo perché «la giustizia penale in tema di doping – e aggiungo in tema di sicurezza sul lavoro – non fa più paura a nessuno. Pochi processi, piccoli, locali. Un fenomeno così complesso va affrontato nel suo complesso e deve essere anche aggiornato. I nostri studi sulla Sla sono ormai datati».

 Per Guariniello bisognerebbe istituire una procura nazionale per la sicurezza sul lavoro e sul doping. E lasciare al pm la possibilità di cercare notizie di reato: «Senza non si va da nessuna parte. Ma da tempo questi principi non godono di ottima salute».

Da ilnapolista.it il 18 gennaio 2023.

Non solo Dino Baggio, anche Florin Raducioiu, ex attaccante di Bari, Verona, Brescia e Milan, manifesta alcune preoccupazioni sulle sostanze che i medici facevano assumere ai calciatori negli anni ’90. Le sue parole, durante la partecipazione a Sport Report, su Orange Sport, sono riportate dalla Gazzetta dello Sport.

 «Facevo flebo con un liquido rosa. Lo ammetto, ho preso anche delle medicine. Ora chiamerò il medico che ci seguiva a Brescia per capire di più. Per sapere che medicine ho preso a Milano, Brescia, Verona».

Raducioiu continua:

«Non sapevamo che cosa stavamo prendendo. Ci è sempre stato detto che si trattava di vitamine, di glucosio. Per tutto il tempo facevamo flebo con questo liquido rosa, alla vigilia delle partite. Lo ricordo perfettamente. A Milano prendevamo altre cose, pillole. L’ho detto prima e dopo la morte di Gianluca Vialli, c’era anche Gica Popescu. Dobbiamo chiederci perché si verificano queste morti premature».

 Ieri, in un’intervista a Tv7, l’ex centrocampista di Juventus, Inter, Parla e Lazio, Dino Baggio, aveva parlato di doping e di rischio di correlazione con i tumori sempre più frequenti tra i calciatori.

«Bisognerebbe investigare sulle sostanze che abbiamo preso in quel periodo. Il doping c’è sempre stato. Bisogna capire se certi integratori col tempo hanno fatto male. Ho paura anch’io, sta succedendo a troppi calciatori».

 «Negli anni miei c’era il doping. Non prendevi robe strane, prendevi robe normali ma poi bisogna vedere se col tempo riesci a buttarle fuori o restano dentro. Poi tanti hanno parlato dell’erba dei campi e dei prodotti che utilizzavano che davano dei problemi».

 Oggi la Gazzetta dello Sport intervista Baggio, che fa marcia indietro, almeno sulla questione doping.

«Chiedo scusa a tutti. Io volevo dire “antidoping”, e non “doping”. Infatti ho aggiunto che robe strane non ne abbiamo mai prese, perché non si poteva: c’erano i controlli. Mica si scherzava. È un errore che nasce dalla consuetudine. Noi calciatori, quando andavamo a fare il test nella stanza a fianco dello spogliatoio, dicevamo: “Anche stavolta mi tocca il doping…”. E così questo modo di dire me lo sono portato dietro…».

Ad ogni modo, Baggio insiste sulla richiesta di indagini più accurate «sulle sostanze farmacologiche prese in quei periodi. Magari non c’entrano nulla, magari si scopre qualcosa…».

"Pillole come caramelle". Doping e morti sospette: i calciatori hanno paura. Non solo Dino Baggio, i timori anche degli ex Brambati e Raducioiu: "Cosa c'era nelle flebo?" Stefano Arosio il 19 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Il sospetto, subdolo e vigliacco, riesce a essere anche peggio del nemico che ti guarda negli occhi. Un terrorista delle certezze che logora fino a sgretolare le resistenze. Esternare le paure significa giocare a campo aperto, provare a vincere la partita con il timore. Per questo dopo le preoccupazioni di Dino Baggio («Prendevamo tanti farmaci, diteci se erano pericolosi»), altri ex calciatori scelgono di andare all'attacco. Massimo Brambati, ex di Torino e Bari («Prima della partita prendevo Microren come se fossero caramelle, ho paura anche io») e Florin Raducioiu, già di Juventus, Milan, Verona («Facevo flebo, prendevo medicine: cosa c'era dentro?»).

I sospetti di Baggio, Brambati e Raduciou sono quelli che già Massimo Mattolini, alla Fiorentina dal '73 al '77, espresse in Procura a Torino al giudice Raffaele Guariniello: troppi morti tra i suoi ex compagni in Viola, troppi i timori che qualcosa potesse ancora accadere. E come gli sarebbe accaduto nel 2009, quando rimase vittima di un'insufficienza renale però non dimostrata correlabile all'uso del Cortex, durante gli anni in attività. Tanti capitoli, nessuno esaustivo. Dalla morte dell'ex Fiorentina, Bruno Beatrice, a 39 anni nel 1987 per leucemia, fino all'inchiesta della Procura di Firenze sulla terapia a raggi Roentgen a cui fu sottoposto per pubalgia.

Ma poi anche Nello Saltutti, morto a 56 anni nel 2003 di infarto, lui che ebbe a dire «nello spogliatoio ci davano un caffè speciale, flaconi delle pillole, gocce, flebo modello damigiane e punture». O Ugo Ferrante, scomparso nel 2004 a 59 anni. Fino a Giancarlo Galdiolo, morto nel 2018 a 69 anni per malattia neurodegenerativa. E poi tanti incidenti guai di salute: Giancarlo Antognoni (infarto), Mimmo Caso (tumore), Giancarlo De Sisti (ascesso frontale al cervello). Oppure Pino Longoni (stroncato da vasculopatia cardiaca) e le accuse al Micoren. Come Longoni, dalla Fiorentina al Como ci passò anche Stefano Borgonovo. Proprio l'erba dello stadio Sinigaglia negli scorsi anni è stata innaffiata da sospetti e lacrime: quelle versate per Adriano Lombardi, morto il 30 novembre 2007, stroncato dalla Sla. E quelle per Maurizio Gabbana, Celestino Meroni (fratello del granata Gigi), Albano Canazza e Piergiorgio Corno. O Andrea Fortunato, morto di leucemia.

Guariniello spedì i suoi ispettori a prelevare funghicidi, anche per sbugiardare le ipotesi sui presunti materiali tossici provenienti dalle fonderie di Dongo e presenti nel terreno. «Avete presente quell'odore che si respirava entrando sui campi?», spiegava proprio Dino Baggio nelle scorse ore, raccontando i suoi anni di attività. Un altro dado tirato sul tavolo dei perché senza risposta, un gioco dell'oca in cui ci si ritrova al punto di partenza. Sospetti destinati a restare latenti sino al giro successivo. La verità che è che già ai tempi della sua presidenza dell'Aisla, Mario Melazzini evidenziò come in Italia i malati di Sla fossero solo 5mila, «una minoranza su cui non conviene investire in ricerca: non un business». Nell'inchiesta di Guariniello furono monitorati 30mila atleti, accertati 43 casi: molti di più dei 6 ogni 100mila persone nella popolazione non calcistica. Tito Cucchiaroni, Ernst Ocwirk, Guido Vincenzi (tutti ex Samp), Attilio Tassi, Fulvio Bernardini (che fu anche cittì dell'Italia), Armando Segato, Giorgio Rognoni: tanti nomi, tanti volti, stesso destino. Quando a inizio anni Duemila incrociò i dati, l'Enpals - l'ente per le pensioni agli ex calciatori - accertò che con il passare del tempo il rischio di ammalarsi di Sla non era diminuito.

Le morti di Mihajlovic e Vialli hanno ridato forza alla machiavellica ciclicità del tempo, riaffermando l'esigenza di risposte mai arrivate. Che ora nutrono nuovi timori.

Da corrieredellosport.it il 18 gennaio 2023.

"Anche io ho paura": lo ha dichiarato a Processo 7 Gold Massimo Brambati, ex calciatore, tra le altre, di Bari, Torino, Empoli, Lucchese e Palermo, è tornato sulla questione doping sulla quale ha recentemente espresso i propri timori Dino Baggio: "Lo dissi venti anni fa, e ricevetti una lettera della Figc che mi minacciava perché avevo detto in tv che prendevo Micoren come caramelle e avevo prestazioni eccezionali.

 Vennero sotto casa quelli delle Iene", ricorda l'ex difensore, attualmente procuratore sportivo: "Prima della partita prendevo l'Anemina e sentivo gli effetti: mi accelerava battiti e prontezza di riflessi. Per quello che ho preso e che mi hanno messo davanti ho paura. Avevo 20 anni, quindi li prendevo senza chieder nulla. Alcuni allenatori si incazzavano se non facevi la flebo la sera prima della partita. Ora mi affido a Dio", ha concluso Brambati.

Estratto da fanpage.it il 19 gennaio 2023.

(...) Massimo Brambati, ex difensore di Bari e Torino, attuale opinionista tv, è intervenuto al Processo 7 Gold usando queste parole: "Ho paura anche io  ma vent’anni fa, quando parlai, mi arrivò una lettera della Figc che mi minacciava. Io, in una società di cui non faccio il nome, prendevo prima della partita il Micoren come fossero caramelle. All’epoca non era proibito, dopo qualche anno è diventato proibitissimo. Prendevo anche l’Anemina, una sostanza non dopante, ma ne avvertivo l’effetto. Non sentivo la fatica, avevo i battiti accelerati e una maggiore prontezza di riflessi".

Lo stesso Brambati ha proseguito il suo intervento facendo riferimento alla possibilità di rifiutare le somministrazioni di queste sostanze: "Avevo 20 anni e mi dicevano che facendo una flebo avrei avuto una performance migliore. C’erano allenatori che se non facevi la flebo, si arrabbiavano. Davano sostanze che all’epoca non erano però ritenute doping. Oggi quando sento determinate situazioni che accadono ai calciatori del mio periodo, mi affido a Dio".

 Da ungiornodapecora.rai.it il 19 gennaio 2023.

 «Mio fratello Ferruccio aveva ragione: le sostanze dopanti nel calcio a quei tempi erano normali. Io mi ricordo che all’Inter, prima della partita i dirigenti arrivavano con questo caffè. Io non lo bevevo mai, sospettavo ci fosse dentro qualcosa. Non ero il solo, in tanti non lo prendevamo. Dicevano che ci fosse dentro la simpamina. Solo che a volte prima della partita non ti senti troppo in forma, le gambe non funzionano e allora dici “Beh, per una volta me lo prendo”

Il problema è che poi dopo, se vedi che funziona, allora magari lo prendi sempre e questo non va bene. Io non ne ho mai avuto bisogno, i gol li facevo lo stesso. Il giorno prima della partita ci facevano anche le infiltrazioni. Non ci dicevano cosa c’era dentro, solo che ci faceva bene e ci fidavamo perché i dottori erano delle brave persone».

 Lo ha raccontato la leggenda del calcio italiano Sandro Mazzola ai microfoni di Un giorno da Pecora, il programma condotto da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro su Radio1

Estratto dell’articolo di Stefano Arosio per “il Giornale” il 19 gennaio 2023.

[…] Dopo le preoccupazioni di Dino Baggio («Prendevamo tanti farmaci, diteci se erano pericolosi»), altri ex calciatori scelgono di andare all'attacco. Massimo Brambati, ex di Torino e Bari («Prima della partita prendevo Microren come se fossero caramelle, ho paura anche io») e Florin Raducioiu, già di Juventus, Milan, Verona («Facevo flebo, prendevo medicine: cosa c'era dentro?»).

I sospetti di Baggio, Brambati e Raduciou sono quelli che già Massimo Mattolini, alla Fiorentina dal '73 al '77, espresse in Procura a Torino al giudice Raffaele Guariniello: troppi morti tra i suoi ex compagni in Viola, troppi i timori che qualcosa potesse ancora accadere. […]

Ma poi anche Nello Saltutti, morto a 56 anni nel 2003 di infarto, lui che ebbe a dire «nello spogliatoio ci davano un caffè speciale, flaconi delle pillole, gocce, flebo modello damigiane e punture». O Ugo Ferrante, scomparso nel 2004 a 59 anni. Fino a Giancarlo Galdiolo, morto nel 2018 a 69 anni per malattia neurodegenerativa. E poi tanti incidenti guai di salute: Giancarlo Antognoni (infarto), Mimmo Caso (tumore), Giancarlo De Sisti (ascesso frontale al cervello). Oppure Pino Longoni (stroncato da vasculopatia cardiaca) e le accuse al Micoren. Come Longoni, dalla Fiorentina al Como ci passò anche Stefano Borgonovo. Proprio l'erba dello stadio Sinigaglia negli scorsi anni è stata innaffiata da sospetti e lacrime: quelle versate per Adriano Lombardi, morto il 30 novembre 2007, stroncato dalla Sla.

 E quelle per Maurizio Gabbana, Celestino Meroni (fratello del granata Gigi), Albano Canazza e Piergiorgio Corno. O Andrea Fortunato, morto di leucemia. Guariniello spedì i suoi ispettori a prelevare funghicidi, anche per sbugiardare le ipotesi sui presunti materiali tossici provenienti dalle fonderie di Dongo e presenti nel terreno. […]

La verità che è che già ai tempi della sua presidenza dell'Aisla, Mario Melazzini evidenziò come in Italia i malati di Sla fossero solo 5mila […] Nell'inchiesta di Guariniello furono monitorati 30mila atleti, accertati 43 casi: molti di più dei 6 ogni 100mila persone nella popolazione non calcistica. […]

Da corrieredellosport.it il 20 Gennaio 2023.

Le parole di Dino Baggio riguardanti il doping hanno fatto scalpore e stanno facendo il giro del mondo. L'associazione di queste sostanze alla morte di Gianluca Vialli ha amplificato un tema che resta sempre molto scottante. Dubbi e incertezze che hanno trovato sponda nei racconti di altri calciatori di quei tempi, dal romeno Florin Raducioiu, che in quegli anni ha giocato in Italia con diversi club, a Massimo Brambati, ex difensore di Bari e Torino.

 A Fanpage.it è stato un altro calciatore del passato come Alberto Di Chiara, che dal 1980 al 1997 ha giocato con Roma, Lecce, Fiorentina e Parma. Proprio in Emilia, negli anni d'oro del club gialloblu, ha condiviso lo spogliatoio con Dino Baggio. Ecco cosa ha detto: "Faccio un inciso. Al di là dell’amicizia di Dino Baggio, non so quale fosse la sua preoccupazione, ma non mi pare ci sia una correlazione tra il doping e la morte di Vialli perché non c’è un riscontro scientifico. Dire queste cose per supposizione sembra come lanciare un amo a chi piace parlare di questa cosa...Personalmente ho iniziato a giocare nel 1980 e ho finito nel 1997.

C'erano dei prodotti non dopanti, era quello che ci dicevano, e di certo non potevamo sottoporli ad analisi. Non ho mai avuto riscontri negativi. Purtroppo poi nella vita può succedere di tutto, ma mi pare che le morti legate ai calciatori possano essere dovute alla fatalità. Questo è un argomento sul quale si può dibattere quanto si vuole, ma la polemica è nata sulla morte di Vialli e la correzione al doping, non so su quali basi. Forse perché 30-40 anni fa c’erano delle bibite con dei colori strani. Forse era Enervit, non so, ci dicevano così.

 Magari sono stato anche fortunato, ma se ci sono delle prove tiriamole fuori. A Parma ho giocato e non ho mai avuto sospetti o sensazioni, mai visto qualcuno iniettarsi cose di nascosto. Non mi è mai capitato e non credo che sia mai successo. Se poi Dino Baggio ha avuto questa esperienza e ha visto queste cose, rispetto pienamente le sue riflession1, ma abbinarle alla morte di Vialli mi pare fuori luogo. Vialli è stato ricordato in ogni angolo del mondo proprio per come ha affrontato la malattia e ora dicono che la sua morte può essere stata causata dal doping. Su quali basi, mi chiedo".

Estratto dell’articolo di Giuseppe Antonio Perrelli per repubblica.it il 20 Gennaio 2023.

"Il Micoren l’ho preso direttamente in campo. Era il 10 aprile 1977, il mio esordio in Serie A con la Fiorentina, contro la Juventus, a neanche 19 anni. Ero emozionatissimo. Dopo venti minuti si fermò il gioco per un fallo e il massaggiatore venne a darmelo".

 Antonio Di Gennaro, prima voce del calcio di Rai Sport, commentatore della Nazionale e dell’ultima finale mondiale Argentina-Francia, parla dopo le dichiarazioni degli ex calciatori Dino Baggio e Massimo Brambati, che hanno confessato di avere paura per la loro salute per i farmaci e gli integratori presi quando giocavano. Brambati, dal 1989 al 1991 compagno di Di Gennaro, ha rivelato: "Mi davano il Micoren (un analettico respiratorio che fa parte delle sostanze vietate, ndr) come fossero caramelle".

 (...)

Lei dal 1976 al 1980 ha giocato nella Fiorentina.

"Una squadra segnata dalle morti premature di tanti giocatori degli anni 70: Beatrice, Saltutti, Longoni, Ferrante, Mattolini. Un elenco impressionante. Ricordo perfettamente che alla Fiorentina prendevo l’Epargriseovit".

 Un ricostituente per il fegato che serve a curare anemie e gravi forme di malnutrizione e che spesso è stato usato per alterare le prestazioni degli atleti.

"Quando l’ho preso io penso proprio che fosse lecito. Così mi veniva detto e io ci credevo".

 (...)

Quel decongestionante nasale contiene efedrina. Senza necessità terapeutiche è doping.

"All’epoca eravamo poco informati. Non come i ragazzi di oggi, che giustamente leggono, vogliono sapere, chiedono".

Lei ha giocato fino al 1992. Si è accorto, negli anni, che la sensibilità sul tema stava cambiando. Si usavano meno farmaci?

"Il mio ultimo anno, a Barletta, in Serie C, il sabato mattina, quando non ci allenavamo, ci davano una bevanda: 'Un semplice integratore', dicevano. L’ho presa perché ero convinto che non ci fosse nulla di pericoloso".

 (..)

Marco Tardelli: «Il Micoren? Anche a me davano quei farmaci. Spero di essere fortunato, ma non vedo centenari». Daniele Dallera su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2023.

L’ex campione della Juventus e della Nazionale: «Chi non l’ha preso? Ai miei tempi non c’era tanta attenzione, anche se a volte ho finto di prendere le medicine»

«Lo sport professionistico, di alto livello, chiede all’atleta prestazioni estreme, ovvio che poi quel corpo, messo a dura prova, possa risentirne». Marco Tardelli non è stato solo campione, ma anche uno degli atleti più belli, armoniosi: talento, generosità e coraggio. Ora a 68 anni guarda prima dentro se stesso, poi indietro, ponendosi delle domande, per esempio se ai suoi tempi non si sia esagerato con l’assunzione di farmaci. Leciti, attenzione, mai dimenticarlo.

Ma lei il famoso Micoren l’ha preso?

«E chi non ha preso il Micoren?».

Come sarebbe a dire?

«Quando giocavo io, anni 80-90, non c’era quella attenzione alla farmacologia di adesso: il giocatore è più seguito a livello medico, assistito anche sotto l’aspetto psicologico. Un tempo, non era così…».

Com’era?

«C’era un medico di società, un po’ come quello di famiglia: se il giocatore aveva un problema, il dottore lo valutava e se proponeva un farmaco, permesso ribadisco, il giocatore lo assumeva e andava in campo. Adesso le società hanno messo a disposizione dei giocatori una struttura medica più complessa, sicuramente più preparata. Non che i medici di una volta non lo fossero, ma non esisteva assolutamente una organizzazione come quella attuale».

Ma si abusava di farmaci?

«Se vogliamo fare lo sport che fa bene alla salute, si fa la corsetta, la passeggiata. Ma non è certo questo il caso dello sport professionistico, quindi estremizzato. Se stavo bene tutto ok, ma io andavo in campo anche se non ero in perfette condizioni. I tempi di recupero erano stretti, si doveva giocare e quindi è possibile che abbia abusato di qualche farmaco».

Si giocava anche in condizioni non ideali.

«Se il fisico rispondeva, nessun problema, ma capitava anche che la reazione del corpo non fosse quella adeguata. Però, dovevi giocare, magari anche con qualche infortunio e dolore, o costola rotta oppure un leggero stiramento. Quindi davano farmaci, ripeto consentiti, perché si andasse in campo».

Ma lei, campione e uomo di personalità, aveva la possibilità di rifiutare?

«Tempi diversi rispetto a quelli di adesso: le rose erano molto meno numerose, non certo come quelle attuali, e si giocava tanto e di frequente anche allora, tra campionato, coppe internazionali, Nazionale e Coppa Italia. Capitava che si abusasse del nostro corpo, ma sia chiaro non perché ci davano le medicine, i farmaci: eravamo costretti a farlo».

Lei come viveva quelle situazioni?

«Ho sempre giocato con piacere, con gioia».

Assumendo quindi ciò che i medici le proponevano.

«È successo anche che abbia finto di prendere un farmaco. La verità è che ci fidavamo del medico della società. Non avevamo la conoscenza e la consapevolezza attuale. Col passare del tempo alcuni farmaci sono stati vietati, non si possono più usare».

La morte di Gianluca Vialli ha riportato d’attualità il tema della farmacologia nello sport: un segnale l’uscita di Dino Baggio che ha chiesto spiegazioni.

«Ecco, Dino Baggio non ha fatto un j’accuse, ha chiesto di capire: datemi una mano a comprendere cosa ho assunto, quali conseguenze possono esserci. La verità è che ogni organismo reagisce in modo diverso».

Lei ha paura rispetto ai farmaci assunti in passato?

«Spero di essere fortunato, tutto qui. Non credo che ci sia un legame diretto tra le medicine prese e la morte prematura di certi sportivi. Nessuno ha mai spiegato questa relazione. Come si fa a sostenerlo? Certo che centenari nello sport non si vedono. La normalità è 80-82-83 anni, forse perché il nostro corpo è maggiormente usurato».

Che rapporto ha con i farmaci?

«Non li amo molto, li prendo se necessari. Mi è capitato recentemente di avere uno stato influenzale, la tosse, ho preso l’antibiotico consigliato. Così, nella normalità assoluta, ma ricordo, tanto per dire, di aver giocato anche con la febbre a 38 e di aver fatto la miglior partita. Adesso i calciatori sono più aiutati, importante per esempio la figura dello psicologo: per questo non so se si possano abbinare metodi e cure di un tempo a quelli di adesso. Non solo, il coinvolgimento, la presenza dell’agente è un fattore che un tempo non c’era».

Il confine tra farmacoterapia e doping è molto labile.

«È fondamentale il supporto psicologico a disposizione dell’atleta: lo psicologo».

Che consiglio dà al giovane calciatore?

«Trovare tempi e modi per riposare mentalmente. Bisogna poi che il calcio si dia una calmata, ma tutti, a cominciare dalle società, non solo i giocatori: questo è un mondo che cerca solo i soldi. Basta, bisogna cambiare».

Venio Vanni per ilnapolista.it il 21 gennaio 2023.

I timori e le domande che si fanno Tardelli, Massimo Brambati e Dino Baggio hanno lo stesso sapore delle denunce del movimento “Me Too” che muove accuse fuori tempo massimo. Come ha argutamente sottolineato Ornella Vanoni in una sua recente intervista. Certo è difficile dire di no. E se non lo si dice per tempo, a “babbo morto” è troppo facile piangere e denunciare.

Ipocrisia e convenienza viaggiano a braccetto. Quando qualcuno non serve più allo scopo, oppure quando non c’è più pericolo di essere ostacolati, ecco che partono denunce, lacrime e si rivivono “traumi”: “anche a me è successo”. Quando invece il “carnefice” serve ancora ce lo si tiene stretto, facendo buon viso a cattivo gioco, per i propri obiettivi, per i propri interessi. Sono tutte posizioni legittime. È la natura umana ad imporcelo. Io do una cosa a te tu dai una cosa a me. La vita funziona così.

 Il cervello se lo possono permettere le persone coraggiose e quelle che non hanno ambizione. Il problema è sempre lo stesso: scegliere. Ciascuno decide per se stesso. Ci sta aver paura di scelte sbagliate.

Questi uomini quando era il momento di decidere lo hanno fatto. Non è un giudizio, è una constatazione di ciò che è stato. Scegliere è difficile per tutti. Soprattutto se quella decisione comporta una rinuncia. Dei ragazzi nel fiore dei propri anni, senza le adeguate conoscenze culturali, non sceglieranno mai pensando a cosa viene loro somministrato. Faranno ciò che gli viene detto. Scegliendo senza scegliere.

 Dopo oltre vent’anni il tempo delle denunce è scaduto. Sono stati mandati al macello da giocatori? Non abbiamo le competenze scientifiche per poterlo affermare. Il campione non sarà mai significativo, per fortuna.

Eppure all’epoca di Vialli e Mihajlovic i calciatori erano già iconici. Se avessero voluto, avrebbero potuto farsi almeno qualche domanda e decidere. Avrebbero cambiato forse le cose? Non si cambia la natura umana. Ma al processo sul doping i silenzi e gli imbarazzi sono rimasti. Carriere da allenatori, commentatori o soldati semplici del calcio con qualche parola potevano essere messe in pericolo. Il sistema avrebbe espulso “la mela marcia”.

Ora come ora non si può cambiare più nulla.

Essere calciatore oggi è certamente più vantaggioso per la salute rispetto ad esserlo negli anni 70-80, decadi in cui lo sport è passato dal semiprofessionismo al professionismo più spinto, con gravose ricadute sulla salute dei calciatori. Non parliamo solo di doping. In una recente intervista il miglior allenatore della storia, nemmeno tanto ironicamente ha affermato che “lo sport fa male!”.

 Ma è il sistema che impone certe scelte. Chi vuol farne parte deve pagare dazio. O meglio scommettere. Chi chiede certezze e sicurezze ad ogni respiro sceglie di non vivere.

Estratto da leggo.it il 21 gennaio 2023.

Dopo la morte ravvicinata di Vialli e Mihajlovic, il mondo del calcio teme che integratori e farmaci assunti per tenere sempre alte le prestazioni in campo abbiano delle responsabilità nello sviluppo di patologie che portano alla morte.

 C'è anche la testimonianza di un numero uno del calcio italiano, Marco Tardelli, che in un'intervista al Corriere della Sera conferma che i farmaci si prendevano con una certa frequenza. «Lo sport professionistico di alto livello chiede all’atleta prestazioni estreme, ovvio che poi quel corpo, messo a dura prova, possa risentirne».

[…] Il 68enne, ex-giocatore della Juventus e della Nazionale, ammette di aver preso l'ormai famoso Micoren. «Quando giocavo io, anni 80-90, non c’era quella attenzione alla farmacologia di adesso: il giocatore è più seguito a livello medico, assistito anche sotto l’aspetto psicologico», dice l'ex-calciatore […]

 Il timore di tanti ex calciatori è che un tempo ci fosse un abuso di farmaci. «Se vogliamo fare lo sport che fa bene alla salute, si fa la corsetta, la passeggiata. Ma non è certo questo il caso dello sport professionistico...I tempi di recupero erano stretti, si doveva giocare e quindi è possibile che abbia abusato di qualche farmaco». 

[…] «ci fidavamo del medico della società. Non avevamo la conoscenza e la consapevolezza attuale».

 [Spero] […[ di essere fortunato, tutto qui. Non credo che ci sia un legame diretto tra le medicine prese e la morte prematura di certi sportivi. Nessuno ha mai spiegato questa relazione. Come si fa a sostenerlo? Certo che centenari nello sport non si vedono».

Dagospia il 21 gennaio 2023. Riceviamo e pubblichiamo:

 Caro Dago,

si dà il caso che negli anni '80 gareggiassi anch'io, a livello nazionale, in uno sport diverso dal calcio, e confermo che c'erano atleti che prendevano il cardiotonico Micoren di solito prima delle competizioni per abbassare i battiti e raggiungere più tardi la soglia della fatica, così come con la stessa leggerezza assumevano quotidianamente i primi anabolizzanti (dicono che glieli somministravano, ma non sapevano e non chiedevano? mah) per aumentare rapidamente la massa muscolare uniti a cortisonici per "coprirne" la presenza nel sangue, tuttavia era NOTO A TUTTI che fosse doping, una pratica vietata per ragioni sia mediche sia sportive.

Non ne ho mai fatto uso perché mio padre, ex olimpionico degli anni 60 e genuino sportivo ha sempre osteggiato queste pratiche ed io ho sempre tenuto alla mia salute più che alle vittorie, ma ho visto con i miei occhi coetanei mingherlini "lievitare" da un all'altro con balzi enormi nelle prestazioni, tanti che, proprio come nel calcio e in tanti altri sport, una volta affermati ancora orbitano in ambito federale o si sono riciclati come commentatori tv.

La mia impressione è che si parli di Micoren e non di anabolizzanti o di ormoni vari perché è comodo così, ma si largheggiava con entrambi questi ultimi ed i pochissimi che avevano il coraggio di denunciare queste pratiche venivano emarginati dalle stesse federazioni sportive, nel calcio Zeman, nell'atletica Donati e potrei continuare. Va detto che il Micoren tra gli effetti collaterali non aveva forme tumorali, l'abuso di anabolizzanti invece sì.

Lettera firmata

Da fanpage.it il 23 gennaio 2023.

L'improvvisa morte di Gianluca Vialli a soli 58 anni per un tumore al pancreas sembra aver scoperchiato un preoccupantissimo vaso di Pandora su tutte le sostanze dopanti che venivano date ai calciatori professionisti in Italia nello scorso secolo. In seguito alla prematura scomparsa dell'ex calciatore di Sampdoria e Juventus, molti suoi colleghi hanno pubblicamente rivelato di avere paura per la propria salute a causa dei tanti "aiutini" presi nel corso della loro carriera.

 Il primo è stato Dino Baggio, a cui poi sono seguiti tanti altri protagonisti della Serie A negli anni '80 e '90 come Florin Raducioiu, Massimo Brambati, Alberto Di Chiara (intervistato da Fanpage.it) e da ultimo anche il campione del mondo di Spagna '82 Marco Tardelli, e ognuno di essi ha svelato parte di ciò che succedeva negli spogliatoi dei club del massimo campionato italiano in quegli anni dipingendo un quadro abbastanza inquietante.

Un quadro che assume contorni ancora più preoccupanti dopo l'ultima testimonianza sul tema fatta dall'80enne Lamberto Boranga che, oltre ad essere stato portiere di numerose squadre di Serie A, B e C tra gli anni '60 e gli anni '80, ha anche le competenze per parlare di doping nel calcio e dell'effetto che quelle sostanze possono avere sugli ex calciatori in quanto medico specializzato in medicina dello sport, cardiologia e medicina interna.

Il suo racconto fatto in un'intervista rilasciata ad Open rivela infatti come già dagli anni '60 l'abuso di sostanze dopanti per migliorare le prestazioni in campo era una pratica molto diffusa: "Ai nostri tempi si prendevano in continuazione pasticchine e pasticcone" dice infatti il classe '42 nato a Foligno che esordì in Serie A nella stagione '66-'67 con la maglia della Fiorentina. Prima degli anabolizzanti (arrivati negli '80) era il Micoren la sostanza che veniva data regolarmente ai calciatori per aumentarne le capacità respiratorie: "Si tratta di un analettico respiratorio, in grado di aumentare l'atto respiratorio, aumentando così la resistenza – spiega infatti Boranga –. Ma il vero problema è quanto si sceglieva di acquisirne: alcuni giocatori prendevano anche 10 pasticche tutte insieme. Sta lì il punto. Di Micoren c'erano anche le gocce, se ne mettevano 10 sulla zolletta di zucchero. Il problema anche lì e che molti calciatori ne prendevano oltre 20 e 30. Quando giocavo a Brescia ho visto compagni che ne prendevano una valanga" ha quindi denunciato l'ex portiere e medico che ha poi ricordato come "l‘utilizzo smodato può avere effetti nocivi anche dal punto di vista epatico e del pancreas".

Ma dopo, con l'arrivo di nuove sostanze dopanti (non inserite al tempo nella lista di quelle vietate dall'antidoping), la situazione è andata addirittura peggiorando: "Lo stesso meccanismo riguardava anche la creatina: se è accertato che 3 grammi al giorno migliorano l’attività muscolare, 20 grammi cominciano a fare lo stesso effetto di un anabolizzante.

 Poi negli anni ’80, più o meno anche negli anni stessi di Vialli, arrivarono i corticosteroidi, molto usati: un gruppo di ormoni steroidei sintetizzati nella corteccia del surrene, diventati doping soltanto tempo dopo. Sono farmaci che attivano anche la parte del fegato e del pancreas. Il cortisone è un antinfiammatorio potente, che si somministra in maniera intra-articolare senza grossi effetti nocivi. Ma se si somministra intra-muscolo, come spesso succedeva, entra in circolo in maniera molto più pervasiva. Senza dimenticare il problema delle quantità" ha difatti aggiunto Lamberto Boranga finendo di dipingere l'inquietante quadro di ciò che avveniva negli spogliatoio delle squadre italiane tra gli anni '60 e la fine degli anni '80.

 Lo stesso 80enne ha poi svelato le dinamiche che c'erano dietro le somministrazioni di sostanze dopanti ai calciatori con la responsabilità che, secondo quanto raccontato da chi ha vissuto la vicenda in prima persona prima come calciatore e poi come medico, sarebbe stata dei preparatori atletici e delle società. "Alla base c'era l’incapacità del medico di tenere sotto controllo la situazione.

 Poi erano gli stessi calciatori che una volta percepiti gli effetti positivi di dosaggi standard sceglievano di prendere quantità del tutto arbitrarie e non certo al ribasso. Il medico viene nello spogliatoio, ti dice ‘questo ti fa bene', tu sei spesso ignorante, non hai un approccio di verifica anche delle controindicazioni e quindi assumi fin quanto pensi ti faccia bene. Ma in molti casi c’è da dire che erano i preparatori atletici il reale problema. Si ergevano a medici, aggirandosi nelle squadre quasi come santoni: ‘Questo fa bene, prendine un po’ di più' – ha infatti rivelato l'ex portiere e medico –. Spesso le società erano le prime a spingere affinché venisse dato ‘qualcosina' agli atleti. ‘Questi ragazzi li vedo un po’ spenti, diamogli qualcosa', era una delle frasi più tipiche" ha difatti chiosato Lamberto Boranga gettando ancora più ombre sull'abuso di sostanze dopanti cui molti calciatori si sono sottoposti tra gli anni '60 e la fine degli anni '80.

Estratto dell'articolo di Paolo Russo per lastampa.it il 23 gennaio 2023.

Rossi, Mihajlovic, Vialli, Saltutti, Beatrice, Benedetti, Bertuzzo, Rognoni, Zuccheri, Petrini, Viganò, Imbriani, Ferruccio Mazzola, Borgonovo, Zucchini, Aldo Maldera, Rosato, Musiello, Pinotti. La rosa completa di una squadra di calcio. Che c’era e non c’è più. Morti tutti tra i 36 e i 68 anni per Sla, tumore, leucemia, malattie rare e infarto. Come quello che nel 2003 si portò via a 56 anni Nello Saltutti, centrocampista della viola, la squadra che piange un “undici” tra titolari e riserve colpiti e uccisi dalla Sla.

 «Se avessi saputo che per tutta quella roba avrei perso amici, e rischiato di morire anch’io, non credo che potendo tornare indietro, rifarei tutto da capo. E mi domando, se valga ancora la pena che un giovane sacrifichi tutta la sua vita per un calcio del genere». Si chiude così l’ultima intervista a Nello, pubblicata su "Palla avvelenata", volume che corre parallelo all’indagine Guariniello sulle malattie e le morti sospette nel calcio.

Quando ero ancora nella Primavera già mi davano di tutto, l’infermeria del Milan era una cosa impressionante, e non so se sarà stato un caso, ma io da un metro e sessanta, in un anno ero passato ai miei 175 centimetri. Strano no?” riflette Saltutti. Che di cose ne racconta tante. Come la flebo a cui passava ore attaccato Bruno Beatrice, suo amico inseparabile nella Fiorentina, morto di leucemia linfoblastica nell’87.

«Durante il ritiro -racconta il buon Nello- Bruno era sempre sotto flebo, dal venerdì sera alla domenica; lo avevano convinto che con quelle avrebbe corso il doppio. Tanto per capirci, era uno che al naturale andava molto più forte di Davids, perciò gli chiedevo: ma che bisogno hai di farti iniettare tutte quelle schifezze? A noi dicevano: sono solo vitamine, prendetele e starete meglio. Ma chissà che ci davano invece…». […]

Sui casi di Sla, 34 quelli accertati, c’è uno studio condotto dal prestigioso Istituto farmaceutico “Mario Negri” effettuato su ben 23mila e passa calciatori di seria A, B e C, dalla stagione ’59-60 a quella 1.999-2000. Ebbene, i ricercatori hanno rilevato che una correlazione c’è, perché l’incidenza della malattia è due volte superiore rispetto alla popolazione che non tira calci alla palla di mestiere.

Addirittura sei volte maggiore se si considerano solo i giocatori di serie A. Tra i quali l’insorgenza della Sla è peraltro molto precoce: 45 anni, anziché 65 com’è in media nella popolazione generale.

 Le cause più probabili sono un mix tra traumi cranici e predisposizione genetica, mentre è più difficile provare la responsabilità di certi fertilizzanti tossici utilizzati nei campi di gioco e dell’abuso di farmaci. Questi ultimi per via del fatto che su di loro i fari si sono iniziati ad accendere solo quando, in tempi più recenti, sono stati messi fuori commercio o inseriti nella lista di quelli dopanti.

Me le inchieste di questi anni, pur non arrivando a sentenza, ci permettono di ricostruire un armadietto degli orrori farmaceutiche e delle pratiche da apprendisti stregoni alle quali sono stati sottoposti i giocatori. […]

Estratto dell'articolo di Marco Grasso per il “Fatto quotidiano” il 26 gennaio 2023.

Le morti premature allarmano gli ex calciatori. Ma il mondo del calcio sembra non aver voglia di approfondire davvero l’argomento. L’ultimo studio epidemiologico sulla mortalità degli sportivi si basa ormai su dati di vent’anni fa. L’indagine, coordinata dalla ricercatrice dell’Istituto Mario Negri di Milano Elisabetta Pupillo, conferma l’insorgenza anomala di una malattia molto rara nella popolazione generale, la Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) […]

Un fenomeno già riscontrato da un’inchiesta di Raffaele Guariniello e dell’Istituto superiore di sanità. […] L’esito di quegli accertamenti, però, da allora è rimasto tabù[…] A scuotere il pianeta del pallone sono state le morti recenti di Sinisa Mihajilovic (leucemia) e Gianluca Vialli (tumore al pancreas). Da quel momento sono in tanti a uscire allo scoperto. […] La preoccupazione ricorrente riguarda l’abuso di farmaci o di sostanze usate abbondantemente per anni, finché non sono state dichiarate doping. […]

Ma cosa sappiamo davvero sulla correlazione tra la somministrazione di sostanze e la mortalità dei calciatori? A rileggerlo oggi, lo studio Pupillo fornisce molte informazioni interessanti, sebbene non giunga a conclusioni definitive sull’origine del fenomeno. Il dato di 34 casi di Sla, ricavato fra 23.586 calciatori professionisti italiani che hanno giocato fra il 1959 e il 2000, mostra un tasso di mortalità doppio rispetto alla popolazione generale.

Ma se si vanno a vedere i sottogruppi, viene fuori che nei calciatori di Serie A l’incidenza aumenta fino a sei volte. I più colpiti sono i centrocampisti, ruolo che richiede alte prestazioni fisiche; il doppio rispetto ai portieri e il 30% in più rispetto agli attaccanti. Il decennio più nero è quello fra il 1975 e il 1984: i calciatori colpiti sono 4 volte in più della media, il doppio rispetto ai dieci anni precedenti. Complessivamente i calciatori si ammalano giovani, a 45 anni, a fronte di un dato medio di 65[…]

[…] i dati anomali dei calciatori italiani sono omogenei al football americano e al baseball, mentre ciclisti e giocatori di basket hanno una mortalità di Sla simile a quella della popolazione generale. È un lavoro che fa anche Guariniello, che scopre che non ci sono dati altrettanto allarmanti nel rugby e nel ciclismo.

 […] Tra i fattori sospetti ci sono anche i traumi fisici e l’attività fisica usurante, così come l’impiego di fertilizzanti nei campi. “Occorrerebbe indagare, ma oggi non lo sta facendo nessuno – conclude Guariniello – La verità che non potremo dire niente che abbia un minimo di fondamento finché non si deciderà di condurre uno studio scientifico aggiornato.[…]”.

 Estratto dell’articolo di Leonardo Iannacci per “Libero quotidiano” il 26 gennaio 2023.

Anche lo sport può uccidere? Sì, la risposta è agghiacciante ma vera. […] Il panorama delle discipline racconta storie di decessi improvvisi durante l’attività sportiva.[…]

 Nel motorsport, i cimiteri di tutto il mondo sono pieni di lapidi che vanno dalla A di Ascari sino alla S di Ayrton Senna e Simoncelli, fino alla V di Villeneuve. Ma qui un decesso è nell’alea di rischio che un pilota, di auto o di moto, assume quando inizia. Stesso discorso per la motonautica, disciplina dove trovò la morte Didier Pironi, ex pilota della Ferrari in F.1, scomparso in un incidente durante una gara in mare.

Letali per l’incolumità degli atleti sono discipline come il football americano, la boxe e tutti gli sport di contatto. Ma anche il ciclismo, il basket e l’atletica, da quando abbonda il doping. Improvvisa e sospetta fu la morte nel sonno, a soli 38 anni, di Florence Griffith-Joyner, velocista statunitense dai muscoli misteriosamente gonfiati e dalle unghie simili a coltelli. Questa culturista venduta all’atletica vinse l'oro alle Olimpiadi di Seul 1988, poi volò in cielo.

Dossier ciclismo: pochi giorni fa il 40enne Lieuwe Westra, gregario di Nibali durante il trionfale Tour de France 2014, è stato trovato morto in circostanze misteriose. Ultimamente aveva ammesso di essere schiavo del doping che l’aveva portato a disturbi mentali e a forti depressioni. […] Tacendo su Marco Pantani, del quale sappiamo tutto e niente riguardo alla scomparsa, è lunga la lista dei ciclisti morti in gara ma per incidenti fatali: ricordiamo l’italiano Fabio Casartelli che, dopo l’oro vinto alle Olimpiadi di Barcellona 1992, perse la vita lungo la discesa del Colle di Porte d’Aspet affrontata a velocità folle durante il Tour de France 1995.

Fausto Coppi e Gino Bartali, pochi lo sanno, furono accomunati da un tragico destino: Giulio Bartali e Serse Coppi, i loro fratelli anch’essi ciclisti, perirono in seguito a due incidenti simili in gara. Serse, che aveva vinto da poco una Roubaix, si fracassò la testa durante una caduta in una Milano-Torino Atleti controllati da èquipe di medici di livello ma esposti alla falce del destino sono periti su un campo da calcio. Una delle esperienze più tragiche resta quella di Renato Curi mentre si giocava Perugia-Juventus, il 30 ottobre 1977. Il centrocampista della squadra umbra morì mentre inseguiva un pallone, stroncato da un arresto cardiaco.

Aveva 24 anni. Piermario Morosini morì durante un Pescara-Livorno: una malattia ereditaria, la cardiomiopatia aritmogena lo fulminò sul prato verde. Venne aperta un’inchiesta per il mancato uso del defibrillatore in campo. Prima di un Udinese-Fiorentina la stessa patologia ha portato via, ma in una camera d’albergo, Davide Astori.

 […] Lo sport di squadra che negli ultimi tempi ha registrato più vittime è stato il football americano: una disciplina dura, cruenta nella quale i contatti sono violenti e a poco servono le protezioni e i caschi indossati dagli atleti. […]

Ne aveva 27 Korey Stringer, campione dei Minnesota Vikings, quando spirò durante un drammatico training-camp con il sole a picco: gli scoppiò il cervello. Mike Webster, asso dei Pittsburgh Steelers alla cui guida vinse 4 Superbowl, morì per un’encefalopatia traumatica cronica dovuta ai ripetuti colpi alla testa, malattia poi denominata CTE, caratteristica anche di sport quali il pugilato.

 […] Il grande Muhammed Alì, come dimenticarlo, visse gli ultimi 30 anni della sua vita in preda al Morbo di Parkinson causato dalle tremende botte alla testa. […]

Morti tra calciatori: farmaci e doping, gli studi scientifici su tumori e Sla.  Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 19 Gennaio 2023.

Uno studio sulla Sla parla di un’incidenza tra i calciatori del doppio rispetto alla popolazione «normale», di sei volte se ci si limita alla serie A. Più difficile trovare correlazioni con l’uso di farmaci che all’epoca erano consentiti

Gli anni più luttuosi finora indagati sono quelli tra il 2010 e il 2015 quando morirono prematuramente, tra gli altri, Benedetti, Bertuzzo, Rognoni, Zuccheri, Petrini, Viganò, Imbriani, Ferruccio Mazzola, Borgonovo, Zucchini, Aldo Maldera, Rosato, Musiello, Pinotti. Tutti ex giocatori di calcio di serie A o B, tutti scomparsi per Sla, tumore o leucemia in età comprese tra i 37 e i 68 anni. La contabilità precisa e dolorosa delle morti precoci nel calcio professionistico italiano è registrata in un documentatissimo libro di Lamberto Gherpelli pubblicato dalle Edizioni Gruppo Abele: «Qualcuno corre troppo. Il lato oscuro del calcio» con una bella prefazione di Damiano Tommasi.

Farmaci e morti precoci

Delle possibili correlazioni tra uso e abuso di farmaci e malattie gravi nel mondo del pallone, tornate in prima pagina dopo la morte di Gianluca Vialli per l’allarme lanciato dall’ex vice campione del mondo Dino Baggio, si parla da tempo e sempre in occasione di un lutto. La serie infinita di decessi (11 tra titolari e riserve) nella Fiorentina con le morti a catena legate a Sla, tumori e leucemia è il più noto e indagato caso di studio.

I casi Sla

Sulla Sla, in realtà, le ricerche scientifiche più serie sul calcio offrono risultati molto disomogenei rispetto a sport come il football americano dove la correlazione pare dimostrata. L’articolo di Elisabetta Pupillo ed Ettore Beghi dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri (effettuato su un campione di 23.586 calciatori di serie A, B, C dalla stagione 1959-’60 fino a quella del 1999-2000) ha rilevato un’incidenza della malattia neurodegenerativa progressiva due volte superiore a quella della popolazione «normale» che diventa di sei volte se ci si riferisce alla sola serie A con un’insorgenza della patologia molto precoce (45 anni invece di 65) rispetto alla popolazione generale. Insomma, una correlazione all’apparenza netta e inquietante. I casi accertati con sicurezza sono 34, le cause più probabili sarebbero un mix di traumi al capo e predisposizione genetica e mentre è meno chiaro il contributo di certi farmaci parrebbe esserci un legame con i fertilizzanti tossici utilizzati in alcuni campi di gioco. Diversi però i risultati di uno studio commissionato dalla Fédération Française de Football all’Università della Sorbona su 6.200 professionisti che hanno giocato dal 1968 al 2015: tutti i dati di mortalità sono allineati a quelli della popolazione standard con un’incidenza più alta dei soli casi di demenza.

L’abuso di farmaci

Più complicato il discorso sul fonte dell’abuso di farmaci, dove l’identificazione dei prodotti (o delle pratiche) a rischio è cominciata solo nel momento in cui questi venivano messi fuori commercio o inseriti nelle liste dell’antidoping. In molti casi i giocatori hanno riferito di flebo, iniezioni o pasticche di sostanze di cui non veniva specificata loro la natura. Parecchi atleti (compresi quelli malati di Sla che hanno risposto ai ricercatori) spiegano di essere stati sottoposti a dosi massicce di Micoren uno «stimolante respiratorio» (crotetamide + cropropamide) fino a quando la sostanza è stata messa fuori legge dall’Agenzia Antidoping. Non risultano però correlazioni documentate tra l’abuso di questa sostanza e malattie gravi come pure nel caso della corteccia surrenale utilizzata sistematicamente come «ricostituente» fino agli anni Novanta. Nessuno, peraltro, ha mai avuto interesse a sviluppare studi in questo campo. Più delicato il caso del gangliosidi ottenuto da estratti di cervello bovino, il cui uso venne denunciato dal giocatore della Fiorentina Walter Speggiorin. Creati per curare le neuropatie, vennero presto ritirati dal commercio per i loro pesanti effetti collaterali.

Dai Raggi X agli steroidi

Un’altra (folle) pratica degli Anni Settanta oggi pesantemente sotto accusa era il bombardamento di raggi X per curare patologie come la pubalgia cronica, denunciata ad esempio da Gabriella Beatrice, figlia di Bruno, terzino delle Fiorentina morto a 39 anni di leucemia linfoblastica acuta. La correlazione tra abuso di steroidi (la forma di doping più diffusa dei tempi moderni) e i tumori è dibattuta da tempo, ipotizzata per le patologie alla prostata ma non al momento per altre forme tumorali.

Doping, Zeman: «Nel calcio non è cambiato nulla. Chi ha paura ora doveva pensarci prima». Maria Strada su Il Corriere della Sera il 6 Febbraio 2023.

Nel 1998 Zdenek Zeman denunciò il «calcio che deve uscire dalle farmacie». Dopo le morti di Vialli e Mihajlovic e le denunce di Dino Baggio, Tardelli e gli altri, ne parla alle «Iene»

Domani, martedì 7 febbraio, Zdenek Zeman tornerà a parlare del calcio e del doping nell'appuntamento con «Le Iene», trasmissione in prima serata su Italia 1. Nel 1998 il tecnico boemo aveva denunciato il calcio che «doveva uscire dalle farmacie».

In una intervista all'Espresso, Zeman — che prima di diventare allenatore era stato preparatore atletico — aveva espressamente parlato delle esplosioni muscolari di alcuni calciatori, e in particolare di alcuni della Juventus (erano gli anni del processo al medico Riccardo Agricola , che nel 2004 sarà condannato e poi assolto in appello nel 2005 dalle accuse di somministrazione di Epo e di frode sportiva): «È uno sbalordimento che comincia con Gianluca Vialli e arriva fino ad Alessandro Del Piero: io che ho praticato diversi sport pensavo che certi risultati si potessero ottenere soltanto con il culturismo», sottolineando il timore che certe pratiche possono non avere danni immediati ma «chi può escludere che le conseguenze per gli atleti non si manifestino a distanza di anni?».

Gli inviati della trasmissione sono andati a cercare Zeman alla luce della scomparsa di Gianluca Vialli — e prima ancora di Sinisa Mihajlovic — e delle dichiarazioni di molti ex giocatori che hanno espresso le loro paure in merito alle sostanze — legittime all'epoca — prese ai tempi in cui giocavano. Tra i primi a parlarne Dino Baggio, ex centrocampista della Nazionale e vicecampione del mondo negli Stati Uniti nel 1994 che, ai microfoni di Tv7, aveva lanciato un appello: «Bisognerebbe investigare un po' sulle sostanze prese in quei periodi, bisognerebbe vedere se certi integratori, con il tempo, fanno bene oppure no. Ho paura anche io perché sta succedendo a troppi giocatori». Una posizione confermata anche dall'ex Ds della Salernitana, ed ex calciatore, Walter Sabatini: «C’è stata una moria di giocatori lunghissima per cui i sospetti sono consistenti e anche giustificabili, legati anche a metodi adottati una volta».

Anche l’ex campione del mondo Marco Tardelli ha ricordato, nell'intervista al Corriere della Sera, i tempi del Micoren («un analettico respiratorio, in grado appunto di aumentare l’atto respiratorio», spiega Lamberto Boranga, ex portiere poi laureato in Biologia e in Medicina).

«Prendevamo farmaci senza discutere: io spero di essere fortunato, ma non vedo molti centenari nello sport», aveva spiegato Tardelli. Anche Massimo Brambati, ex difensore di Torino, Empoli, Bari e Palermo e ora procuratore, ha ricordato: «Ho timore anch’io, vent’anni fa lo dissi e mi arrivò una lettera della Figc che mi minacciava. C’erano allenatori che se non facevi la flebo, si arrabbiavano. Davano sostanze che all’epoca non erano però ritenute doping. Oggi quando sento determinate situazioni che accadono ai calciatori del mio periodo, mi affido a Dio...».

E proprio partendo da questi temi la Iena Filippo Roma intervista Zeman e Brambati. Il boemo tende a non lanciare sospetti sulle morti premature di Mihajlovic e Vialli («Le malattie arrivano a tutti»), ma sottolinea come in 25 anni dalla sua prima denuncia, «secondo me non è cambiato niente, purtroppo. Questi ragazzi che ci pensano ora ci potevano pensare allora, chiedendo cosa stessero prendendo e perché. Oggi è tardi».

Brambati rincara la dose, ricordando sì il Micoren e un'altra sostanza, l'Anemina, ma sottolineando anche che lo preoccupano «tutte le flebo che ho fatto prima delle partite, io non so esattamente cosa ci potesse essere, se non che mi dicevano che c'erano degli zuccheri o che c'era questa corteccia surrenale, bandita successivamente», sostanze che poi gli impedivano di dormire la notte.

Anticipazione da “Le Iene” il 6 febbraio 2023.

Domani, martedì 7 febbraio, in prima serata su Italia1, un nuovo appuntamento con “Le Iene”. Tra gli ospiti in studio: il cantante e youtuber Fabio Rovazzi, il karateka Luigi Busà e lo scrittore Mattia Insolia.

 Tra i servizi della puntata: Filippo Roma è sul tema doping nel mondo del calcio. Nelle ultime settimane, infatti, molti ex giocatori hanno rilasciato dichiarazioni nelle quali hanno espresso le loro paure in merito a determinate sostanze prese ai tempi in cui giocavano.

Tra i primi a parlarne Dino Baggio, ex centrocampista della nazionale e vicecampione del mondo negli Stati Uniti nel 1994 che, ai microfoni di una trasmissione, ha dichiarato: «Bisognerebbe investigare un po' sulle sostanze prese in quei periodi, bisognerebbe vedere se certi integratori, con il tempo, fanno bene oppure no. Ho paura anche io perché sta succedendo a troppi giocatori».

 Poi l’ex campione del mondo Marco Tardelli che ha ricordato: «Prendevamo farmaci senza discutere. Io spero di essere fortunato.». Esperienza condivisa anche da un ex Azzurro di un’altra generazione, Sandro Mazzola.

Oggi Filippo Roma intervista l’ex allenatore Zdenek Zeman, uno dei protagonisti del mondo del pallone che ha avuto il coraggio di lanciare pubblicamente l'allarme sul doping, e raccoglie le dichiarazioni dell’ex calciatore di serie A Massimo Brambati, che si è reso disponibile a condividere apertamente le sue paure.

 Inviato: Alcuni calciatori hanno ammesso di avere paura. Cosa ne pensa?

Z. Zeman: Che è strano che si spaventano ora e non quando prendevano qualche cosa.

Inviato: Lei può escludere che i giocatori che ha allenato abbiano preso farmaci a sua insaputa?

Z. Zeman: Purtroppo, non posso escluderlo perché non si riesce a controllare tutto. Però almeno così i medici quando parlavo non davo indicazione.

 Inviato: Che ne pensa di queste tristi, recenti, morti? Mihajlovic, Vialli, molto giovani.

Z. Zeman: No, le malattie arrivano a tutti.

 Inviato: Lei tirò fuori la storia che «il calcio deve uscire dalle farmacie». Secondo lei oggi il calcio è ancora dentro le farmacie?

Z. Zeman: Secondo me non è cambiato niente, purtroppo. Questi ragazzi che ci pensano ora ci potevano pensare 25 anni fa, chiedendo cosa stessero prendendo e perché. Oggi è tardi.

Inviato: Di cosa hai paura?

 M. Brambati: Che ci sia correlazione tra quello che ho preso negli anni 80 e quello che è successo ultimamente.

 Inviato: Quando tu giocavi, che farmaci ti hanno dato?

M. Brambati: Il Micoren era un farmaco e lo prendevo praticamente tutte le domeniche. Ti aumentava la capacità polmonare. Qualche anno dopo è risultato proibitissimo ed è risultato doping.

 Inviato: Come te lo davano?

M. Brambati: Era una pillola che tu prendevi e ingoiavi mezz’ora prima della partita nello spogliatoio senza nasconderti. Te la dava il dottore, sapevi che la tua performance probabilmente sarebbe migliorata.

Inviato: Tu e i tuoi compagni chiedevate al dottore cosa vi stesse dando?

M. Brambati: No, ti dico la verità. Tieni presente, comunque, io avevo 19-20 anni e non facevi neanche troppe domande.

 Inviato: Che effetti ti dava il Micoren?

M. Brambati: Sostanzialmente ti dava più capacità polmonare.

 Inviato: C’era una differenza tra partite giocate col Micoren e partite senza?

M. Brambati: Io direi di sì.

Inviato: Finita la partita, invece, sentivi gli effetti negativi?

M. Brambati: Diciamo di sì. Ho spaventato anche mio padre una volta, dopo una partita. Quel giorno marcavo Maradona. E quando sono andato al bar a bere una cosa con lui, non riuscivo a tenere in mano la tazza perché tutto il liquido fuoriusciva, mi tremava la mano. Avevo l'occhio abbastanza vitreo e mio padre si accorse, mi chiese, però io non ebbi il coraggio di dire la verità, diciamo.

 Inviato: Il Micoren ti aiutò a marcare Maradona?

M. Brambati: Maradona non lo potevi marcare neanche con tre Micoren. Però c'era anche un altro preparato che ci davano, che si chiamava Anemina, era una pasticca che aumentava i riflessi.

 Inviato: Tu hai usato questa immagine che «vi davano il Micoren come fossero caramelle»

M. Brambati: Sì, perché sembravano delle Zigulì e io ne ho prese tante. È per questo che sono molto preoccupato, in funzione del fatto che ci possa essere una correlazione con queste medicine e tutte le cose che sono successe agli ex calciatori più avanti negli anni. Con Gianluca Vialli ho partecipato al Mondiale militare, quando vedi qualcuno con cui hai condiviso qualcosa morire ti vengono in mente queste cose. Mi preoccupano anche tutte le flebo che ho fatto prima delle partite, io non so esattamente cosa ci potesse essere, se non che mi dicevano che c'erano degli zuccheri o che c'era questa corteccia surrenale, bandita successivamente.

Inviato: Queste flebo quand’è che le facevate?

M. Brambati: O la sera prima della partita in albergo, o la mattina stessa della gara. E siccome ne ho fatte parecchie sono sicuramente molto preoccupato. C'erano delle condizioni ambientali molto particolari: 100% di umidità, 30 gradi, ti aiutavano a far sì che tu potessi ritornare a essere performante nel più breve tempo possibile.

 Inviato: E queste flebo che effetti ti davano?

M. Brambati: Era un effetto molto strano, ricordo che fino alle 5, alle 6 del mattino guardavo il soffitto perché non riuscivo a prendere sonno.

 L’ex giocatore racconta anche di quando ha provato a parlare pubblicamente del contenuto di quelle flebo.

M. Brambati: Mi è stato un po’ consigliato di tacere e di non parlarne più, di non dare seguito alla cosa.

Inviato: Da chi ti è stato consigliato?

M. Brambati: Dalla Federazione Italiana Gioco Calcio. Mi mandarono una lettera, diffidandomi a parlare ancora di queste situazioni, altrimenti avrebbero preso dei provvedimenti. Ma la pelle è mia e vorrei che qualcuno mi venisse a dire che non c'è nessuna correlazione tra quello che abbiamo preso e alcune malattie che si verificano spesso sui calciatori.

Da ilnapolista.it il 7 febbraio 2023.

Le Iene”, in un’intervista che andrà in onda nella puntata di stasera, hanno parlato di doping e della possibile correzione con le morti di alcuni calciatori, come Gianluca Vialli, con Zeman, ma anche con l’ex calciatore di serie A Massimo Brambati, che già alcuni giorni fa aveva parlato del Micoren, «Ho timore anch’io, vent’anni fa lo dissi e mi arrivò una lettera della Figc che mi minacciava. Io, in una società di cui non faccio il nome, prendevo prima ella partita il Micoren come se fossero caramelle.

 All’epoca non era proibito, dopo qualche anno è diventato proibitissimo. Prendevo anche l’Anemina, una sostanza non dopante, ma ne avvertivo l’effetto. Non sentivo la fatica, avevo i battiti accelerati e una maggiore prontezza di riflessi».

Di cosa hai paura?

«Che ci sia correlazione tra quello che ho preso negli anni 80 e quello che è successo ultimamente»

 Quando tu giocavi, che farmaci ti hanno dato?

«Il Micoren era un farmaco e lo prendevo praticamente tutte le domeniche. Ti aumentava la capacità polmonare. Qualche anno dopo è risultato proibitissimo ed è risultato doping»

Come te lo davano?

«Era una pillola che tu prendevi e ingoiavi mezz’ora prima della partita nello spogliatoio senza nasconderti. Te la dava il dottore, sapevi che la tua performance probabilmente sarebbe migliorata»

 Tu e i tuoi compagni chiedevate al dottore cosa vi stesse dando?

«No, ti dico la verità. Tieni presente, comunque, io avevo 19-20 anni e non facevi neanche troppe domande»

 Che effetti ti dava il Micoren?

«Sostanzialmente ti dava più capacità polmonare»

C’era una differenza tra partite giocate col Micoren e partite senza?

«Io direi di sì»

 Finita la partita, invece, sentivi gli effetti negativi?

«Diciamo di sì. Ho spaventato anche mio padre una volta, dopo una partita. Quel giorno marcavo Maradona. E quando sono andato al bar a bere una cosa con lui, non riuscivo a tenere in mano la tazza perché tutto il liquido fuoriusciva, mi tremava la mano. Avevo l’occhio abbastanza vitreo e mio padre si accorse, mi chiese, però io non ebbi il coraggio di dire la verità, diciamo»

Il Micoren ti aiutò a marcare Maradona?

«Maradona non lo potevi marcare neanche con tre Micoren. Però c’era anche un altro preparato che ci davano, che si chiamava Anemina, era una pasticca che aumentava i riflessi»

 Tu hai usato questa immagine che «vi davano il Micoren come fossero caramelle»

«Sì, perché sembravano delle Zigulì e io ne ho prese tante. È per questo che sono molto preoccupato, in funzione del fatto che ci possa essere una correlazione con queste medicine e tutte le cose che sono successe agli ex calciatori più avanti negli anni. Con Gianluca Vialli ho partecipato al Mondiale militare, quando vedi qualcuno con cui hai condiviso qualcosa morire ti vengono in mente queste cose.

Mi preoccupano anche tutte le flebo che ho fatto prima delle partite, io non so esattamente cosa ci potesse essere, se non che mi dicevano che c’erano degli zuccheri o che c’era questa corteccia surrenale, bandita successivamente»

 Queste flebo quand’è che le facevate?

«O la sera prima della partita in albergo, o la mattina stessa della gara. E siccome ne ho fatte parecchie sono sicuramente molto preoccupato. C’erano delle condizioni ambientali molto particolari: 100% di umidità, 30 gradi, ti aiutavano a far sì che tu potessi ritornare a essere performante nel più breve tempo possibile»

 E queste flebo che effetti ti davano?

«Era un effetto molto strano, ricordo che fino alle 5, alle 6 del mattino guardavo il soffitto perché non riuscivo a prendere sonno»

 L’ex giocatore racconta anche di quando ha provato a parlare pubblicamente del contenuto di quelle flebo.

«Mi è stato un po’ consigliato di tacere e di non parlarne più, di non dare seguito alla cosa»

 Da chi ti è stato consigliato?

«Dalla Federazione Italiana Gioco Calcio. Mi mandarono una lettera, diffidandomi a parlare ancora di queste situazioni, altrimenti avrebbero preso dei provvedimenti. Ma la pelle è mia e vorrei che qualcuno mi venisse a dire che non c’è nessuna correlazione tra quello che abbiamo preso e alcune malattie che si verificano spesso sui calciatori»

Da ilnapolista.it il 22 febbraio 2023.

Avvenire intervista Gianluca Anastasi, figlio maggiore di Pietro, la cui morte rientra tra le oltre 350 morti misteriose del calcio e tra i 34 calciatori morti di Sla. Quando però emerse la notizia della malattia di Anastasi, scrive Avvenire, non si parlò di Sla, ma di un cancro al polmone. A distanza di tre anni dalla fine del campione, scomparso nel gennaio del 2020, suo figlio Gianluca per la prima volta parla di quella misteriosa malattia che ne ha causato la morte.

Quando e come è entrata la Sla in casa Anastasi?

«Dopo dei controlli di routine, papà aveva male a una gamba. Un giorno ha cominciato a inciampare e mia madre si accorse che teneva sempre il collo storto: «Pietro raddrizzati, perché stai così?» gli ripeteva. Papà non se ne accorgeva neppure. Così siamo andati a Torino allo studio del prof. Adriano Chiò, un luminare della Sla, come ci avevano detto, il quale ci informò che stava curando altri calciatori, meno famosi di Anastasi, ma comunque gente che aveva dei trascorsi a livello dilettantistico. Il referto medico di Chiò fu una sentenza impietosa. Con nostra madre Anna, io e mio fratello pensammo di non rivelarlo a nessuno, tanto meno a papà».

Il figlio di Anastasi continua:

«Papà era emotivamente molto fragile. Dai controlli emerse anche quel cancro al polmone e se fosse stato solo quello si poteva ancora sperare. Andavo a trovarlo e condividevo con lui quella speranza, mentre tenevo per me il segreto della Sla. Piangevo di nascosto ogni volta che lo salutavo e me ne tornavo a casa mia, perché sapevo che contro quel morbo non c’era nessuna speranza di guarigione…».

Ma suo padre non immaginava nulla? Anastasi:

«Aveva qualche sospetto, poi quando negli ultimi due mesi di vita ha avuto la certezza che si trattava della Sla si è lasciato andare. Ha smesso di lottare, ha chiesto di non essere più assistito. Con la morte nel cuore siamo andati al comune di Varese, dove risiediamo, per confermare la sua volontà espressa in tempi non sospetti: la rinuncia all’accanimento terapeutico.

Una scelta dolorosissima, perché Pietro Anastasi amava profondamente la vita. Era un credente e praticante che alla domenica non mancava di andare alla Santa Messa, fino a che ha potuto. I malati di Sla in genere lottano stoicamente fino alla fine, come conferma anche la vicenda di Stefano Borgonovo.

Ma fu proprio l’annuncio della malattia da parte di Borgonovo a fargli fare quella scelta: «Se un domani dovessi ammalarmi di Sla non voglio curarmi più», aveva detto a nostra madre. Vedere quelle immagini di Stefano alla tv lo avevano scioccato e anche molto impaurito, perché era consapevole che Borgonovo non fosse il solo calciatore malato e che poi sarebbe morto di Sla. E il numero preoccupante di casi nel calcio lo impressionava».

Con la morte di Mihajlovic e Vialli, sono emerse le preoccupazioni di diversi ex calciatori che temono di ammalarsi per i farmaci presi in carriera. Anastasi aveva confessato queste stesse ansie?

«A noi aveva raccontato di aver preso farmaci per guarire da infortuni: antinfiammatori, sicuramente aveva preso il Micoren anche lui. Per quanto concerne la Sla si era fatto l’idea che potesse dipendere dai traumi, «chissà – diceva –, magari dipende dai troppi colpi di testa». Pur non essendo altissimo con i colpi di testa se la cavava, diversi gol li aveva fatti con l’inzuccata a "volo d’angelo"… Negli anni in cui giocava lui poi i palloni erano dieci volte più pesanti rispetto a quelli di oggi. Io e la mia famiglia sinceramente dopo la sua morte le abbiamo pensate tutte…».

(...)

Estratto dell'articolo di S.S. per "la Stampa" il 22 febbraio 2023.

Più vita, meno lavoro.

Stefano Borgonovo, la moglie Chantal: «È morto perché faceva il calciatore». Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 18 marzo 2023.

Chantal, la vedova di Borgonovo morto di Sla nel 2013:«Sono convinta che senza calcio non si sarebbe ammalato. Le morti di Vialli e Mihajlovic hanno riaperto vecchie ferite ma a nessuno interessa indagare»

Stefano Borgonovo avrebbe compiuto 59 anni ieri, venerdì 17 marzo. Morì a giugno del 2013 a causa della Sla. Da quel giorno altri ex calciatori hanno perso la vita a causa di questa malattia, come Pietro Anastasi nel 2020. Secondo uno studio epidemiologico, presentato ad agosto dello scorso anno al meeting annuale dell’American Academy of Neurology di Philadelphia, il rischio di un calciatore di ammalarsi di Sla è di 6 volte superiore alla media. «Sono convinta che se Stefano non avesse fatto il calciatore non si sarebbe ammalato oppure gli sarebbe capitato ma in età avanzata. Invece è morto giovane perché ha giocato a calcio», le parole di Chantal, vedova di Borgonovo in un’intervista rilasciata a Il Giorno.

Tornano alla mente le morti recenti di Sinisa Mihajlovic (leucemia, 16 dicembre 2022) e Gianluca Vialli (tumore al pancreas, 6 gennaio 2023). Non c’entrano con la Sla, ma Chantal ne è rimasta colpita. «Tragedie che hanno riaperto vecchie ferite, mi hanno indotto a ulteriori riflessioni, mi hanno ricordato momenti drammatici. La Sla in particolare ha colpito negli anni troppi calciatori, sia più giovani o adulti. Lo dicono le statistiche e le ricerche più recenti. Se Stefano avesse fatto un altro tipo di vita, non si sarebbe ammalato. Purtroppo il perché e il per come non lo sa nessuno. Sono anni che attendo delle risposte. Quando Stefano giocava tutto ciò che riguardava la gestione sanitaria era affidata al medico sociale, di cui mio marito aveva fiducia. Non ha mai preso volontariamente farmaci strani, assumeva qualcosa solo sotto il controllo dello staff sanitario se prescritto», ha aggiunto Chantal.

Dopo le morti di Mihajlovic e Vialli tanti atleti hanno rotto il muro dell’omertà raccontando le proprie paure, la vedova Borgonovo incalza: «Una cosa è sicura, erano della stessa generazione di Stefano o di quella successiva, quindi si conoscevano avendo fatto lo stesso lavoro. Il calcio è un ambiente molto ristretto. Certamente hanno riaperto una questione che, però, vedo si è richiusa altrettanto rapidamente. Di sicuro dà fastidio parlarne, non so se dipenda da interessi economici o da altro. Ma è giusto ricordare che tutte le indagini su queste malattie sono state fatte da ricercatori che non appartengono al mondo del calcio. Dovrebbe essere un dovere sociale capire e rassicurare, invece non interessa».