Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2023

LO SPETTACOLO

E LO SPORT

OTTAVA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

INDICE PRIMA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Artista.

Il rapper, il trapper oppure del sottogenere dei «gangsta».

L’hip-hop.

L'Autotune.

Si stava meglio quando si stava peggio.

Laureati.

Gli Stadi.

Imprenditori ed Agenti.

Gli Autori.

I Parolieri.

Il Plagio.

Le Colonne Sonore d’Italia.

Le Fake news.

Le Relazioni astratte.

Le Hollywood d’Italia.

Revenge songs.

Achille Lauro.

Ada Alberti.

Adele.

Adriano Celentano.

Adriano Pappalardo.

Ainett Stephens.

Alain Delon.

Alan Sorrenti.

Alba Parietti.

Alberto Fortis.

Alberto Marozzi. 

Al Bano Carrisi.

Al Pacino.

Aldo Savoldello: Mago Silvan.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Ale e Franz.

Alec Baldwin.

Alena Seredova.

Alessandra Martines.

Alessandra Mastronardi.

Alessandra e Valentina Giudicessa.

Aleandro Baldi.

Alessandro Baricco.

Alessandro Benvenuti.

Alessandro Bergonzoni.

Alessandro Borghi.

Alessandro Cattelan.

Alessandro Cecchi Paone.

Alessandro e Leo Gassmann.

Alessandro Haber.

Alessandro Preziosi e Vittoria Puccini.

Alessia Fabiani.

Alessia Marcuzzi.

Alessia Merz.

Alex Britti.

Alex Di Luca.

Alexia.

Alfonso Signorini.

Alvaro Vitali.

Amadeus.

Amanda Lear.

Amara Rakhi Gill.

Ambra Angiolini.

Amedeo Minghi.

Amleto Marco Belelli, il Divino Otelma.

Andrea Bocelli.

Andrea Delogu.

Andrea Pucci.

Andrea Roncato.

Angela Cavagna.

Angela White.

Angelina Jolie.

Angelo Branduardi.

Angelo Duro.

Annalisa.

Anna Chetta alias Linda Lorenzi.

Anna Falchi.

Anna Mazzamauro.

Anna Tatangelo.

Anna Valle.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonella Marino.

Antonino Cannavacciuolo.

Antonio Banderas.

Antonio Diodato.

Antonio Albanese.

Antonio Ricci.

Ariete si chiama Arianna Del Giaccio.

Arnold Schwarzenegger.

Articolo 31.

Arturo Brachetti.

Asia e Dario Argento.

Barbara Bouchet.

Barbara D’Urso.

Barbra Streisand.

Beatrice Fazi.

Beatrice Rana.

Beatrice Venezi.

Bebe Buell.

Belen Rodriguez e Stefano De Martino.

Beppe Convertini.

Beppe o Peppe Vessicchio.

Biagio Antonacci.

Bianca Balti.

Bob Dylan.

Bobby Solo: Roberto Satti.

Brad Pitt.

Brenda Lodigiani.

Brendan Fraser.

Brigitte Bardot.

Britney Spears.

Brooke Shields.

Bruce Willis.

Bruno Gambarotta.

Bugo.

Candy Love.

Carla Signoris.

Carlo Conti.

Carlo Freccero.

Carlo Verdone.

Carlotta Mantovan.

Carmen Russo.

Carol Alt.

Carole Andrè.

Carolina Crescentini.

Cate Blanchett.

Caterina Caselli.

Catherine Deneuve.

Catiuscia Maria Stella Ricciarelli: Katia Ricciarelli.

Cecilia Gasdìa.

Celine Dion.

Cesare Cremonini.

Capri Cavanni.

Charlize Theron.

Cher.

Chiara Claudi.

Chiara Francini.

Chiara Mastroianni.

Christian Clay.

Christian De Sica.

Christina Aguilera.

Christopher Walken.

Chu Meng Shu.

Cinzia Leone.

Cirque du Soleil.

Clara Serina.

Claudia Cardinale.

Claudia Gerini.

Claudia Koll.

Claudia Pandolfi.

Claudio Amendola.

Claudio Baglioni.

Claudio Cecchetto.

Claudio Lippi.

Claudio Santamaria.

Clint Eastwood.

CJ Miles.

Colapesce e Dimartino.

Colin Farrell.

Coma_Cose.

Corrado Tedeschi.

Costantino della Gherardesca.

Costantino Vitagliano.

Cristiana Capotondi.

Cristiano De André.

Cristiano Malgioglio.

Cristina Comencini.

Cristina D’Avena.

Cristina Scuccia.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Dado.

Dalila Di Lazzaro.

Daniel Craig.

Daniele Luttazzi.

Daniele Silvestri.

Dargen D'Amico.

Dario Farina.

David Lee.

Den Harrow.

Dennis Fantina.

Diana Del Bufalo.

Diego Dalla Palma.

Diego Abatantuono.

Diletta Leotta.

Donatella Rettore.

Dredd.

Drusilla Foer.

Ed Sheeran.

Edoardo Bennato.

Edoardo Costa.

Edoardo Vianello.

Edwige Fenech.

Elena Di Cioccio.

Elena Santarelli.

Elenoire Casalegno.

Eleonora Abbagnato.

Eleonora Daniele.

Eleonora Giorgi.

Elettra Lamborghini.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Valentini.

Elodie.

Ema Stockolma.

Emanuela Fanelli.

Emanuela Folliero.

Emanuela Trane: Dolcenera.

Emma Marrone.

Enrica Bonaccorti.

Enrico Bertolino.

Enrico Beruschi.

Enrico Brignano.

Enrico Lo Verso.

Enrico Ruggeri.

Enrico Silvestrin.

Enrico Vanzina.

Enza Sampò.

Enzo Braschi.

Enzo Ghinazzi, in arte Pupo.

Enzo Iacchetti.

Ernia.

Eros Ramazzotti.

Eugenio Finardi.

Euridice Axen.

Eva Elfie.

Eva Henger.

Eva Menta e Alex Mucci.

Eva Riccobono.

Eva Robin’s.

Ezio Greggio.

Fabio Concato.

Fabio De Luigi.

Fabio Fazio.

Fabio Rovazzi.

Fabrizio Bentivoglio.

Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli.

Fabrizio Bracconeri.

Fabrizio Corona.

Fabrizio Moro.

Fanny Ardant.

Fedez e Chiara Ferragni.

Ferzan Ozpetek.

Ficarra e Picone.

Filippa Lagerbäck e Daniele Bossari.

Fiordaliso.

Fiorella Mannoia.

Fiorella Pierobon.

Fioretta Mari.

Francesca Alotta.

Francesca Michielin.

Francesca Neri.

Francesca Reggiani.

Francesco Baccini.

Francesco De Gregori.

Francesco Facchinetti.

Francesco Guccini.

Francesco Leone.

Francesco Nuti.

Francesco Pannofino.

Francesco Renga.

Francesco Salvi.

Francis Ford Coppola.

Franco Nero.

Francois Ozon.

Frank Matano.

Frankie Hi Nrg Mc.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gabriele Salvatores.

Gabriella Golia.

Gabry Ponte.

Gaiè.

Gazzelle, all’anagrafe Flavio Bruno Pardini.

Gegia (Francesca Antonaci).

Gene Gnocchi.

George Benson.

Geppi Cucciari.

Gerry Scotti.

Ghali.

Gianna Nannini.

Gigi e Andrea.

Giampiero Ingrassia.

Giancarlo Giannini.

Giancarlo Magalli.

Gianluca Colucci: Gianluca Fru.

Gianluca Grignani.

Gianmarco Tognazzi.

Gianni e Marco Morandi.

Gigi D'Alessio e Anna Tatangelo.

Gigi Folino e il Gruppo Italiano.

Gigliola Cinquetti.

Gino Paoli.

Gino & Michele.

Giorgia.

Giorgia Surina.

Giorgio Mastrota.

Giorgio Pasotti.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanni Caccamo.

Giovanni Muciaccia.

Giovanni Pietro Damian: Sangiovanni.

Giovanni Scialpi.

Giuliana De Sio.

Giulio Rapetti Mogol.

Giulio Scarpati.

Giuseppe Tornatore.

Gli AC/DC.

Gli Inti-Illimani.

Gloria Guida.

Guendalina Tavassi.

Guillermo Mariotto.

Guns N' Roses.

Gwyneth Paltrow.

Henry Winkler.

Harry Styles.

Helen Mirren.

Heather Parisi.

Eva Herzigova.

Eva Longoria.

Iaia Forte.

Gli Skiantos.

I Baustelle.

I Cccp Fedeli alla Linea. 

I Cugini di Campagna.

I Gialappa' s Band.

I Guzzanti.

I Jalisse.

Il Volo.

I Maneskin.

I Marlene Kuntz.

I Metallica.

I Modà.

I Negramaro.

I Pooh.

I Righeira.

I Ricchi e Poveri.

I Rolling Stones.

I Santi Francesi.

I Sex Pistols.

Ilary Blasi.

Elena Anna, Ilona Staller: Cicciolina.

Irene Maestrini.

Isabella Ferrari.

Isabella Rossellini.

Isotta.

Iva Zanicchi.

Ivan Cattaneo.

Ivana Spagna.

Ivano Fossati.

Jack Nicholson.

Jane Fonda.

Jennie Rose.

Jeremy Renner.

Jerry Calà.

Jo Squillo.

John Malkovich.

Johnny Depp.

Johnny Dorelli.

Joss Stone.

Jude Law.

Julia Roberts.

Justine Mattera.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Kanye West.

Kasia Smutniak.

Kate Winslet.

Ke Hui Quan.

Kevin Costner.

Kevin Spacey.

Kira Noir.

Lady Gaga.

Laetitia Casta.

La Gialappa’s Band.

Lalla Esposito.

Lars von Trier.

Laura Chiatti.

Laura Freddi.

Laura Morante.

Laura Pausini.

Lavinia Abate.

Lazza.

Lella Costa.

Lenny Kravitz.

Leo Gullotta.

Leonardo DiCaprio.

Leonardo Pieraccioni.

Levante.

Lewis Capaldi.

Lia Lin.

Licia Colò.

Liliana Cavani.

Lily Veroni.

Lina Sotis.

Linda Evangelista.

Lino Banfi.

Linus.

Lisa Galantini.

Little Dragon.

Lizzo.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Cherubini: Jovanotti.

Loretta Goggi.

Lory Del Santo.

Luc Besson.

Luc Merenda.

Luca Argentero.

Luca Barbareschi.

Luca e Paolo.

Luca Medici: Checco Zalone.

Luca Miniero.

Luca Ravenna.

Lucia Mascino.

Luciana Littizzetto.

Ludovica Martino.

Ludovico Peregrini.

Luigi Lo Cascio.

Luisa Corna.

Luisa Ranieri.

Luna Star.

Madame.

Maddalena Corvaglia.

Madonna.

Mago Forest, alias Michele Foresta.

Mahmood.

Malena, all’anagrafe Filomena Mastromarino.

Malika Ayane.

Manila Nazzaro.

Manuel Agnelli.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marco Bellocchio.

Marco Bocci.

Marco Columbro.

Marco Della Noce.

Marco Ferradini.

Marco Giallini.

Marco Masini.

Marco Mengoni.

Marco Predolin.

Marco Risi.

Margherita Buy.

Maria Giovanna Elmi.

Maria Grazia Buccella.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Sofia Federico.

Maria Teresa Ruta.

Marina Suma.

Mario Biondi.

Mariolina Cannuli.

Marisa Laurito.

Marisela Federici.

Martin Scorsese.

Mascia Ferri.

Massimo Boldi.

Massimo Ceccherini.

Massimo Ciavarro.

Massimo Ghini.

Massimo Ranieri.

Matilda De Angelis.

Matilde Gioli.

Mattia Zenzola.

Maurizio Battista.

Maurizio Ferrini.

Maurizio Milani.

Maurizio Potocnik, in arte Reeds.

Maurizio Seymandi.

Maurizio Vandelli.

Maurizio Zamboni .

Mauro Coruzzi alias Platinette.

Mauro Pagani.

Max Felicitas.

Max Laudadio.

Max Pezzali e gli 883.

Megan Daw.

Megan Gale.

Mel Brooks.

Melissa Stratton.

Memo Remigi.

Micaela Ramazzotti.

Michael Caine.

Michael J. Fox.

Michele Guardì.

Michele Placido.

Michele Riondino.

Michelle Hunziker.

Michelle Yeoh.

Mika.

Milena Vukotic.

Mina.

Minnie Minoprio.

Miranda Martino.

Mita Medici.

Monica Bellucci.

Morgan.

Myss Keta.

Mr. Rain.

Nada.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Natasha Stefanenko.

Naomi Campbell.

Neri Parenti.

Nicole Doshi.

Niccolò Fabi.

Nina Moric.

Nina Zilli.

Nino D'Angelo.

Nino Formicola: Gaspare di Zuzzurro e Gaspare.

Nino Frassica.

Noomi Rapace.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Omar Pedrini.

Omar Sharif.

Orietta Berti.

Ornella Muti.

Ornella Vanoni.

Ozzy Osbourne.

Pamela Anderson.

Pamela Prati.

Pamela Villoresi.

Paola Barale e Raz Degan.

Paola&Chiara.

Paola Gassman e Ugo Pagliai.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Turci.

Paolo Belli.

Paolo Calabresi.

Paolo Conte.

Paolo Rossi.

Paris Hilton.

Pasquale Petrolo in arte Lillo; Claudio Gregori in arte Greg.

Patty Pravo.

Patti Smith.

Peppino di Capri.

Peter Gabriel.

Pico.

Pier Francesco Pingitore.

Pierfrancesco Favino.

Pier Luigi Pizzi.

Piero Chiambretti.

Piero Pelù.

Piero Pintucci. 

Pilar Fogliati.

Pino Insegno.

Pino Scotto.

Pio ed Amedeo.

Playtoy Orchestra.

Povia.

Pupi Avati.

Quentin Tarantino.

Quincy Jones.

Raf.

Renato Pozzetto.

Renato Zero.

Renzo Arbore.

Ricky Martin.

Rita Pavone.

Ringo.

Robbie Williams.

Robert De Niro.

Roberta Lena.

Roberto da Crema.

Roberto Vecchioni.

Rocco Hunt.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Rocío Muñoz Morales e Raoul Bova.

Roman Polanski.

Ron: Rosalino Cellamare.

Ronn Moss.

Rosa Chemical.

Rosalba Pippa: Arisa.

Rosanna Fratello.

Rosario e Giuseppe Fiorello.

Rupert James Hector Everett.

Sabina Ciuffini.

Sabrina Impacciatore.

Sabrina Salerno.

Samuel L. Jackson.

Sandy Marton.

Sandra Milo.

Sara Diamante.

Sara Tommasi.

Scarlett Johansson.

Sean Penn.

Selen.

Selva Lapiedra.

Serena Grandi.

Sergio Caputo.

Sergio Castellitto.

Sergio Rubini.

Sergio Vastano.

Sergio Volpini.

Sharon Stone e Michael Douglas.

Shakira.

Simona Izzo.

Simona Tabasco.

Simona Ventura.

Simone Cristicchi.

Syusy Blady e Patrizio Roversi.

Sofia Scalia e Luigi Calagna, Sofì e Luì: Me contro Te.

Sonia Bruganelli e Paolo Bonolis.

Sophia Loren.

Stanley Tucci.

Stefania Orlando.

Stefania e Silvia Rocca.

Stefania Sandrelli.

Stefano Accorsi.

Susan Sarandon.

Susanna Messaggio.

Sylvester Stallone.

Sveva Sagramola.

SZA, vero nome Solána Imani Rowe.

Taylor Swift.

Tananai.

Terence Blanchard.

Teresa Mannino.

Teresa Saponangelo.

Teo Mammucari.

Teo Teocoli.

Tiberio Timperi.

Tim Burton.

Tinto Brass.

Tiziana Rivale.

Tiziano Ferro.

Tom Cruise.

Tom Hanks.

Tommaso Paradiso.

Toto Cutugno.

Tullio Solenghi.

U 2.

Uccio De Santis.

Ultimo.

Umberto Smaila.

Wanna Marchi.

Will Smith.

Woody Allen.

Valentina Lodovini.

Valeria Golino e Riccardo Scamarcio.

Valeria Marini.

Valeria Rossi.

Valeria Solarino.

Valerio Scanu.

Valerio Staffelli.

Vanessa Gravina.

Vasco Rossi.

Vera Gemma.

Veronica Maya.

Victoria Cabello.

Vincenzo Salemme.

Viola Valentino.

Vittoria Belvedere.

Vladimir Luxuria.

Zucchero Fornaciari.

Yuko Ogasawara.

Xxlayna Marie.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Sanremo 2024.

Sanremo. Sociologia di un festival.

La Selezione…truccata.

I Precedenti.

Il FantaSanremo.

Gli Inediti.

I Ti caccio o non ti caccio?

Gli Scandali.

La Politica.

Le Anticipazioni. Il Pre-Voto.

Quello che c’è da sapere.

I Co-conduttori.

I Super Ospiti.

Testi delle canzoni di Sanremo 2023.

La Prima Serata.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

La Quinta ed Ultima Serata.


 

INDICE SESTA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Certificato medico sportivo.

Giochi Sporchi del 2022.

Quelli che…il Coni.

Quelli che…il Calcio. La Fifa.

Quelli che…La Uefa.

Quelli che…il Calcio. La Superlega.

Quelli che…il Calcio. La FIGC.

Quelli che…una Compagnia di S-Ventura.

Quelli che…i tiri Mancini.

La Furbata.

Quelli che…il Calcio. Gli Arbitri.

Quelli che…il Calcio. La Finanza.

Quelli che…il Calcio. I Procuratori.

Quelli che…il Calcio. I Tifosi.

Quelli che…il Calcio. I Figli d’Arte.

Quelli che…il Calcio. La Politica.

Quelli che…il Calcio. Gli Altri.

Quelli che…il Calcio. Lionel Messi.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…il Calcio. Le Squadre.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…il Calcio. Le Squadre.

Il Calcioscommesse.

Quelli che…I Traditori.

Quelli che…Fine hanno fatto.


 

INDICE NONA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I 10 proprietari più ricchi nello sport.

Quelli che…I Superman.

Quelli che…è andato tutto storto.

Quelli che…la Palla Canestro.

Quelli che…la pallavolo.

Quelli che il Rugby.

Quelli che ti picchiano.

Quelli che…il Tennis.

Quelli che…il pattinaggio.

Quelli che…l’atletica.

Quelli che…i Motori.

Quelli che…la Bicicletta.

Quelli che…gli Sci.

Quelli che…il Nuoto.

Quelli che…la Barca.

Quelli che…l’Ippica.

Quelli che… il Curling.

Il Doping.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

OTTAVA PARTE



 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

LA SAMPDORIA.

LA LAZIO.

LA ROMA.

IL SASSUOLO.

IL BOLOGNA.

IL PARMA.

IL PIACENZA.

LA REGGIANA.

IL PERUGIA.

LA TERNANA.

LA FIORENTINA.

IL NAPOLI.

LA SALERNITANA.

L’AVELLINO.

IL FOGGIA.

IL BARI.

IL TARANTO.

LA SAMBENEDETTESE.

IL PESCARA.

LA REGGINA.

IL PALERMO.

IL CAGLIARI.

LA SAMPDORIA.

Da gazzetta.it il 24 luglio 2023.

Lutto nel mondo del calcio, inglese e non solo, per la perdita di Trevor Francis. L'ex attaccante britannico, che aveva 69 anni, è morto a Marbella, in Spagna, colpito da infarto. Ha giocato anche in Italia per cinque anni: arrivato alla Sampdoria nel 1982, ci è rimasto quattro stagioni compresa la vittoria della Coppa Italia del 1984-85 da capocannoniere della manifestazione (9 gol) ma con sole 67 presenze per i tanti infortuni, per poi passare nel 1986-87 all'Atalanta. 

Prima di arrivare in Italia, era diventato una leggenda con la maglia del Birmingham City, con cui aveva debuttato a 16 anni, con 15 gol in 22 partite al primo anno. Ci resterà per otto stagioni prima di trasferirsi - per la cifra record per i tempi di 999.999 sterline - al Nottingham Forest, con cui ha vinto due coppe dei Campioni nel 1978-79 e nel 1979-80, la prima con un suo gol in finale. Arrivato in Italia dopo un anno al Manchester City, dopo l'Atalanta ha chiuso la carriera tra Rangers Glasgow, Qpr e Sheffield Wednesday: nelle ultime due tappe è stato giocatore-allenatore, avviando una carriera in panchina di 15 anni che ha toccato anche Birmingham City e Crystal Palace. Con la nazionale inglese ha giocato 52 partite, tra cui il Mondiale '82.

Lutto nel calcio, morto Trevor Francis. Giocò nella Sampdoria e nell'Atalanta. Leggenda del calcio inglese e, negli anni ’80, attaccante della Sampdoria per quattro stagioni e dell’Atalanta per un campionato, è morto a Marbella (Spagna) per un infarto. Orlando Sacchelli il 24 Luglio 2023 su Il Giornale.

I nostalgici del calcio anni Ottanta sicuramente ricorderanno bene Trevor Francis, elegante attaccante inglese classe 1954. In Italia giocò cinque stagioni nella Sampdoria ed una nell'Atalanta fra il 1982 e il 1987. Francis è morto a Marbella, in Spagna, colto da un infarto fulminante. Già 12 anni fa era stato colpito da un attacco cardiaco e per questo gli era stato applicato uno stent.

La Samp lo ha ricordato con un messaggio su Twitter postando una sua foto in campo con la maglia numero 9 della Sampdoria e con un cuore spezzato: "Rest in peace, Trevor". I tifosi blucerchiati meno giovani ricorderanno ancora il coro che accoglieva l'inglese: "Trevor walks on the water" (Trevor ammina sulle acque). Rimase sempre legato alla Samp, tornando allo stadiio Ferraris diverse volte, sempre accolto con affetto e gratitudine dai suoi ex tifosi.

Nato a Plymouth (sud ovest dell'Inghilterra), Francis si fece le ossa nel Birmingham City, debuttando in prima squadra a soli sedici anni. Fu una partenza col botto: quindici gol in ventidue partite. Otto le stagioni a Birmingham, con 279 partite disputate e 118 reti messe a segno. Nel 1979 il trasferimento al Nottingham Forest per un milione di sterline, cifra record per quei tempi. Fu l'apoteosi, con la conquista di ben due coppe dei Campioni consecutive, anche se la seconda non lo vide protagonista, bloccato per mesi da un fastidioso infortunio. Passato al Manchester City nel 1981, continuò a mostrare le proprie qualità, anche in Nazionale (Mondiali '82 in Spagna).

Finito il Mondiale si trasferì in Italia, alla Sampdoria. Al suo terzo anno vinse la Coppa Italia e segnò, nella competizione, nove reti. Purtroppo gli infortuni non lo aiutarono, tanto che in quattro anni in blucerchiato, giocò solo 68 gare (segnando 17 gol). Nel 1986 passò all'Atalanta disputando 21 partite e segnando un solo gol. Tornato in Gran Bretagna, andò a giocar nel Glasgow Rangers, in Scozia, e dopo un anno fece ritorno in Inghilterra, al Queen's Park Rangers, dove per un anno fece l'allenatore e il calciatore.

Portò avanti questa duplice attività - metà giocatore, metà tecnico - fino al 1994 con lo Sheffield Wednesday. Si tolse delle belle soddisfazioni, arrivando in finale in FA Cup e in Coppa di Lega, perdendole entrambe con l'Arsenal, e arrivando terzo in campionato. A 40 anni decise di appendere gli scarpini al chiodo e di proseguire come allenatore. Nel 2001 raggiunse la finale di Coppa di Lega con il Birmingham, perdendola con il Liverpool. Un triste episodio macchiò la sua carriera: durante una partita fu espulso per aver picchiato un suo giocatore in panchina.

Era "un calciatore leggendario e una persona estremamente gentile", scrive sui social la sua famiglia, parole condivise da quanti lo hanno conosciuto, non solo nel campo sportivo. Se avesse avuto meno problemi fisici avrebbe potuto fare molto di più di quanto ha fatto nel calcio. "Era così fragile che poteva rompersi un piede scendendo dal letto", disse di lui Don Revie, ct dell’Inghilterra che nel 1977 lo fece esordire in nazionale. Ma nonostante questo "tallone d'Achille" Trevor fece vedere di che pasta era fatto, giocatore di tecnica sopraffina che in campo mostrava cosa volesse dire avere piedi buoni (e cervello).

Nel 1994, poco prima dei 40 anni, si era ritirato, dopo aver giocato 632 partite realizzando 235 gol. Niente male per un giocatore considerato troppo fragile.

L' ORGANIZZATORE DELLA PARTITA "THE LEGEND GIANLUCA VIALLI" QUERELA PER DIFFAMAZIONE SELVAGGIA LUCARELLI IN SEGUITO ALLE SUE AFFERMAZIONI. Dagospia venerdì 8 settembre 2023. COMUNICATO STAMPA

A seguito delle osservazioni della giornalista Selvaggia Lucarelli, pubblicate sul suo profilo Facebook, Alessandro Arena, organizzatore della partita "The Legend Gianluca Vialli", che si terrà a Reggio Calabria, domenica 10 settembre, alle ore 21, nello Stadio Oreste Granillo, ha presentato ieri pomeriggio querela contro la giornalista ritenendo le sue frasi non veritiere, offensive, tendenziose, diffamatorie e lesive dell'immagine della sua Associazione, creando, altresì, un danno al buon esito della partita.

"Non è affatto vero che i calciatori scelti, facenti parte del progetto 'The Wine Of Champions' per la partita, come ha scritto Selvaggia Lucarelli,  percepiranno un compenso di 150 mila euro. Voglio sottolineare, altresì, che 'The Wine Of The Champions' ha contribuito economicamente per una parte dei costi. Calciatori, artisti, cantanti, i quali parteciperanno all'evento, non percepiranno alcun un compenso" ha dichiarato Arena, il quale ha aggiunto: "Desidero precisare, in modo marcato, che non abbiamo ricevuto dal Comune di Reggio Calabria e dall'Area Metropolitana compensi relativamente all'organizzazione della partita, ma solo patrocini non onerosi. 

Siamo un' Associazione no profit, la quale, attraverso eventi a scopo benefico, al netto delle spese per l'organizzazione, devolve interamente il ricavato a favore della realizzazione delle finalità dichiarate, come sempre, in questi anni, è stato fatto. Ciò può essere dimostrato. E non è affatto vero che non si può organizzare un memorial per commemorare la figura di un calciatore o di un artista senza l'autorizzazione dei familiari o di chi li gestisce.

Per quanto riguarda la raccolta fondi, desidero rimarcare che essi saranno destinati all'aiuto a favore dei bambini autistici. Da circa due anni, infatti, stiamo occupandoci, in maniera molto seria, dell'autismo. Mio figlio, che ha 7 anni, è autistico.  Abbiamo indicato, inoltre, il 5 per mille sul nostro sito per motivare gli imprenditori ad aiutarci a realizzare il  progetto, denominato WE AUT, teso a  realizzare un' oasi, al cui interno vi sia una struttura e un grande giardino.  

È un progetto che richiede tempo ed anche fondi.  Rimango a disposizione per un confronto con la giornalista Lucarelli al fine di sciogliere le sue perplessità in merito al nostro impegno umanitario. Ribadisco, inoltre, che ogni nostro evento è finanziato da fondi di benefattori. I dubbi della giornalista Lucarelli non sono assolutamente certezze.  E' certo, al contrario, che Selvaggia Lucarelli, le Istituzioni e chiunque voglia, potrà verificare l'attendibilità di ogni mia singola azione e parola".

Facebook. Selvaggia Lucarelli 7 settembre alle ore 13:45: Mi imbatto in questo evento che si dichiara benefico (una partita di calcio a Reggio Calabria) e che utilizza il volto di Vialli. Patrocinio del comune di Reggio, sostegno dell’Arcidiocesi, organizzato da “La Nazionale Azzurri” di Alessandro Arena (un musicista) con la collaborazione di Nicola Elia Alvaro, agente sportivo. Aderiscono tantissime persone tra calciatori e vip vari. Il comunicato stampa parla di Candela, Pippo Inzaghi, Giuseppe SCULLI, Pardo, Petrelli, Facchinetti, Materazzi e così via. (Pardo e Facchinetti mi dicono che alla luce delle cose sapute non andranno) L’evento è rilanciato da una società di scommesse sportive. Ma cos’è questa associazione Nazionale azzurri? A guardare il sito un’accozzaglia di cose. Un’organizzazione no profit che organizza partite a scopo benefico per un progetto destinato a bambini con autismo , WE OUT. Poche informazioni, dicono di voler costruire una struttura ricreativa, appunto, per bambini con autismo. Sul sito della Gazzetta c’è un articolo di un anno fa che racconta come tale struttura sarà operativa a Roma a fine 2022. Al momento non esiste alcuna struttura. Il sito no profit (!) raccoglie anche donazioni e cinque per mille, ma vende pure viaggi ai Caraibi. E già qui… Tra gli sponsor una concessionaria d’auto di Catanzaro. Chiamo amici di Vialli, nessuno sa nulla. Chiamo l’ufficio stampa del sito, che è la moglie dell’organizzatore Alessandro Arena. Si chiama Pamela Antonio Luna. Sono le 11,50 del mattino. Quando sente chi sono: “Perché m’hai chiamato a me? Io non parlo mai coi giornalisti”. Le spiego che sulla sua bio c’è scritto “ufficio stampa di Nazionale azzurri”. Allora replica: “Sì ma lei mi sta chiamando a mezzogiorno, io a mezzogiorno sto con mio figlio autistico”. Le spiego che sono le 11,54 e che è un orario di lavoro. Le chiedo se esistono bilanci dell’organizzazione e che progetto starebbe finanziando chi dona. Risponde che hanno fatto tre eventi (partite) ma che prima servono i soldi. Le spiego che prima serve un progetto. Al che mi dice che hanno avuto tanti appuntamenti con politici, sindaci e personaggi famosi e “sta pregando Dio per prendere una decisione finale” sulla città o regione dove sarà. Dico che sulla gazzetta c’è scritto che la struttura esiste già a Roma. No, non esiste, dice, ma Roma le piacerebbe tanto. Chiedo chi siano i politici e personaggi che hanno incontrato. “Lo dirà mio marito, è andato al comune, ha parlato con tante associazioni. Ma noi siamo a Monza quindi stiamo valutando perché non è che possiamo spostarci con facilità”. Segue un delirio, si innervosisce. “Lei parla di soldi come se chissà che stiamo raccogliendo! C’è un contabile, non pubblichiamo bilanci perché non siamo obbligati a farlo. Comunque mica sto chiedendo la carità, sto offrendo uno spettacolo, mica vado col cesto a chiedere elemosina. Ogni personaggio di questi che chiamo serve 150 000 euro per farlo venire”. “ Al che salto dalla sedia. Paga ospiti e calciatori che giocano per beneficenza? “Lei mi vuole istigare, io ho studiato il mestiere che lei fa, con me non riesce!”. “Non ho bisogno di spiegare questo progetto. Noi come famiglia sappiamo quello che viviamo. Il problema è che l’italiano è così invidioso che quando vede che altre persone che fanno del bene si accaniscono per stronzate mentre l’Italia cade a pezzi. Ribadisco che vorrei che facessero vedere il progetto visto che chiedono soldi e pure il 5 per mille. Che ci sono poche righe e nessun aggiornamento. Al che mi dice che mi richiamerà suo marito tra un’oretta, lui ha la conferenza stampa dell’evento. Al momento non mi ha chiamata nessuno. Mi dicono che anche nel comune di Arzignano, dopo la partita, qualcuno avesse chiesto chiarimenti sulla destinazione dei fondi. Ma forse non è neppure necessario. È necessaria una legge. Povero Vialli. Povera beneficenza seria.

LA LAZIO.

Igli Tare.

Paul Gascoigne.

Zeman.

Vincenzo D’Amico.

Ciro Immobile.

Gian Marco Calleri.

Sven Goran Eriksson.

Dino Baggio.

Umberto Lenzini.

Igli Tare.

Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport - Estratti venerdì 17 novembre 2023.

Primatista assoluto di sopravvivenza a Claudio Lotito, Igli Tare si apre come mai in passato. Diciotto anni con - e contro e di nuovo con - il proprietario presidente senatore virologo avvocato esperto di tutto non sono uno scherzo, costituiscono un record difficilmente battibile. 

«Tre stagioni da giocatore e il resto da direttore» precisa «ho il rimpianto di non avere avuto, quando giocavo, la testa del manager, quella che fa capire tanto di più e, soprattutto, mostra le cose che ti sei perduto... Lotito è una grande mente, ha una determinazione e una forza di volontà pazzesche. Sono il suo pregio, ma anche il maggior difetto. Io gli sono grato per tutte le cose che ho imparato. Questa lunga storia è il mio orgoglio. Alla Lazio ho dato tutto me stesso, per lei ho addirittura rischiato la vita». 

 Dici sul serio? 

«Ho avuto grossi problemi di salute, anni fa. I medici mi suggerirono di allontanarmi, di pensare a me stesso e a salvare la pelle. Niente, non sono mai uscito, non ho mai voluto staccare. Per fortuna tutto si è risolto nel migliore dei modi, la società mi è stata vicina».  

Lasciarla a inizio giugno, una tua scelta? 

«Mia, di Lotito, che importa? Hanno detto che mi aveva mandato via, bugie. Io ho preso la decisione e lui l’ha condivisa, gli andava bene di cambiare percorso, interlocutore e fare altro. Un anno fa, a inizio stagione, gli anticipai che a giugno avrei chiuso, che quella appena cominciata sarebbe stata l’ultima. Chiesi solo di uscire con onore, con dignità. Così è stato. Come per un matrimonio che si consuma naturalmente».  

Si parlò anche di scazzi con Sarri. 

«Niente di più falso. Sarri non è mai stato un problema, ma una soluzione. Il suo carattere non era una novità. Mi ero informato prima di prenderlo, sapevo tanto e volevo che fosse lui ad allenare la Lazio. Prima della penultima partita dello scorso campionato, a Empoli, volle parlarmi. Siamo stati insieme tre, quattro ore. Ha usato parole di miele, di cuore, spero, mi ha riconosciuto un sacco di meriti».  

(…)

Pioli. 

«Grande uomo e grande allenatore. Ho avuto modo di apprezzarne il carattere, le capacità tecniche, l’onestà, appunto, la qualità umana. Stefano è sincero. Mi dispiacque l’esonero il secondo anno, lui stesso ha ammesso che è stato il dolore professionale più forte, gli piacevano l’ambiente e il progetto, un grande progetto. Per sua stessa ammissione, soffrì di meno quando fu costretto a lasciare la Fiorentina e l’Inter».  

L’eventuale affiancamento di Ibrahimovic potrebbe giovargli? 

«Stefano ha bisogno di confrontarsi con sincerità, senza retropensieri». 

Inzaghi. 

«Mio fratello. Diciotto, o forse vent’anni insieme. Credo che le nostre mogli ci conoscano meno bene. Un rapporto profondo, il nostro. Simone lo trovai nel 2009 al campo, allenava i Giovanissimi nazionali, pensai che avrebbe fatto una splendida carriera e lo dissi anche. È un predestinato». 

Cinque scelte tue. 

«Decidevamo insieme, io e Lotito. Ovviamente erano mie le prime segnalazioni».  

Hai portato decine di giocatori: quali hanno soddisfatto le aspettative? 

«Felipe Anderson, Milinkovic-Savic, Luis Alberto, Lucas Leiva, Klose, Lulic. Ma anche Brocchi, il mio primo acquisto. Sono molto legato a Cristian, da affetto autentico, un uomo onesto, perbene».  

(…)

A proposito di Immobile, non se la sta passando bene. 

«Quando stabilì il record di gol, gli dissi “Ciro, ti renderai conto di quello che hai fatto soltanto quando tutto sarà finito”. Lui è il più grande cannoniere della storia della Lazio. La sua umiltà è forza e insieme debolezza. Ha bisogno di sentire quotidianamente la fiducia di chi gli sta intorno. Qualche anno fa visse un periodo simile, io lo caricavo con una battuta, sempre la stessa: “chiama Ciro e manda a casa suo cugino”. Il centravanti della Lazio è un ruolo pesante, ma ho una stima illimitata nei suoi confronti, solo la sua onestà gli farà capire quando sarà il momento di chiudere».  

Il tuo futuro è ancora in Italia? 

«Sono cittadino del mondo, aperto a tutto. L’Italia è casa, a Roma io, la famiglia e i miei figli continueremo a vivere». 

Misurandoti ripetutamente con l’altra parte della città. 

(Ride). «La Roma ha una storia importante e una tifoseria pazzesca, ma mai bella come quella laziale. La nostra coreografia nell’ultimo derby era emozionante».  

Mourinho alla Roma te lo saresti mai aspettato? 

«Del calcio non mi sorprende più niente e nessuno. Mourinho è un bene, il numero uno della comunicazione mondiale. Nessuno sa gestire i momenti, le situazioni di calcio, come lui».  

Mou e Allegri sono criticatissimi per la qualità del gioco che esprimono. 

«La loro storia è inattaccabile, parlano i risultati. Contano i primi posti, dei secondi non si ricorda mai nessuno».  

La verità: ti sei mai negato a Lotito? Al telefono, intendo: ha mai trovato occupato? 

«Mi chiamava alle 2 di notte. “Stai dormendo?”. È successo qualcosa? rispondevo, e lui parlava per delle mezze ore».  

Da solo. 

«Quasi».  

In diciotto anni quante volte sei stato vicino ad andartene? 

«Sono state più le litigate che i momenti di pace. Ma lui ha una forza straordinaria, dimentica nel giro di dieci minuti».  

Si diceva che foste in affari. Soci, insomma. 

«So anche chi metteva in giro queste porcherie. Io e Lotito non abbiamo mai avuto società, mai affari insieme, nessun business. Dicevano dell’Albania. L’unico suo rapporto con l’Albania ha a che fare con il compleanno dei miei quarant’anni. Organizzai una festa a Tirana e lo invitai. Lui non poté venire perché aveva un impegno di lavoro, ma per rispetto si presentò il giorno dopo». 

Paul Gascoigne.

Gascoigne sparì per 24 ore (per recuperare un pallone). Nel 1990 "Gazza" si allena con il Tottenham: quando una palla finisce nel boschetto oltre la recinzione si offre di recuperarla. Tornerà soltanto il giorno dopo. Paolo Lazzari il 29 Luglio 2023 su Il Giornale.

Nord di Londra, 1990. Un giorno come tanti, per il Tottenham Hotspur Football Club. Al centro d'allenamento la palla scorre in mezzo al campo, contesa da frotte di calciatori intenti a disputare la partitelle di metà settimana. Alcuni indossano casacche fosforescenti, mentre quegli altri sono i maggiori indiziati per un posto da titolare nel prossimo match. C'è Gary Lineker, che vuole rifilarne almeno un paio alle spalle del portiere di riserva e resta sempre competitivo allo spasmo. Ci sono gli esperti centrali Terry Fenwick e Gary Mabbutt. E poi una distesa di giovani promesse e ragazzi che hanno già svezzato il loro talento. Tra questi ciondola, la maglietta stazzonata infilata soltanto per metà dentro ai pantaloncini, Paul Gascoigne.

Gioca negli Spurs da un paio d'anni, dopo il triennio aureo disputato a Newcastle. Terry Venables, il mister, stravede per lui. Del resto, "Gazza" è il tipo di giocatore che chiunque vorrebbe in squadra per quella sua fisiologica capacità di frangere le partite: mezzi tecnici ben oltre la media, l'incoscienza calcistica al potere, Paul è in grado di progettare numeri che divelgono le friabili certezze delle difese altrui. Però il prezzo per tutta quella abbondante innaffiata di genialità - per gli assist, i gol, le aperture di gioco visionarie - è monumentale. Venables lo sa bene e si stringe nelle spalle ad ogni nuova smattata del suo gioiello. Dentro e fuori dal campo. Ma certo fatica a immaginare che quell'irresistibile attitudine alla boutade spinta sgorghi anche in casa, durante un allenamento.

Succede tutto in una manciata di istanti. Palla rinviata che si alza a campanile. Traiettoria alla viva il parroco. Una parabola che, dopo essersi imbizzarrita, si deposita direttamente nel folto boschetto che cinge il training ground della squadra. Poco male, uno dirà. Chissà quanti palloni deve avere a disposizione il Tottenham. Eppoi ci andrà qualche inserviente, a recuperarla. Venables, di fatto, non si scompone. Dispone che si continui a giocare. Gazza però la pensa diversamente. "No ragazzi, vado io a recuperarla". Perché quella dinamica lo ingolosisce troppo. Perché il genio è notoriamente tempismo.

Corricchia dunque, Paul, verso la rete di recinzione. La scavalca e si inoltra tra le fronde, per andare a riprendere il pallone. Allenamento che si ferma appositamente. Venables perplesso, ma comunque si tratterà di un paio di minuti, pensa. Invece nemmeno per idea. Ne passano cinque e Gascoigne non ritorna. "Ma non la trova"? Mugugnano i compagni. Dieci minuti dall'inizio della missione di recupero. Nessun segno di Gazza. La squadra inizia a preoccuparsi. Scavalcano a turno per andare a vedere cosa stia facendo, ma di lui - come del pallone - non c'è traccia. Evaporato.

Passano i minuti. La seduta si ferma definitivamente. Le lancette che scorrono diventano presto ore. Mobilitazione generale. Apprensione alle stelle. Parte un fiume di telefonate a parenti e amici. "Ma avete visto Paul Gascoigne?". Nada. Nessuno sa dove sia. Il Tottenham cerca di non far trapelare la notizia. La tensione diventa quasi esasperante. Viene avvertita anche la polizia, che risponde di dover attendere almeno 24 ore prima di dichiararlo persona scomparsa.

Il giorno seguente il Tottenham torna ad allenarsi con la testa pesante. Devono farlo, ma pensano tutti a Gazza. I più pessimisti ipotizzano che possa essere stato rapito. Altri abbozzano un possibile omicidio su commissione. La squadra è distrutta. Dopo i carichi atletici torna il momento della consueta partitella. Palla che si muove mesta da una parte all'altra del campo. Poi però qualcosa si muove anche tra le frasche a bordo campo. E dopo un istante Gascoigne emerge, scavalca la recinzione e, con il pallone sotto braccio, corre da mister Venables esclamando: "L'ho trovata".

Compagni con le lacrime agli occhi, mister e società furenti. Ma il genio, è ben noto, non accetta le briglie della banalità. Gazza se la ride compiaciuto: un numero fuori dal campo come un gol sotto l'incrocio.

Zeman.

Zemanlandia pura, quando la Lazio ne fece 8 alla Fiorentina. Il 5 marzo del 1995, all'Olimpico, la squadra biancoceleste dilagò contro la Fiorentina di Toldo, Batistuta e Rui Costa: uno dei manifesti migliori della filosofia del tecnico boemo. Paolo Lazzari il 6 maggio 2023 su Il Giornale. 

Faustino Asprilla li ha appena castigati una giornata fa. Un due a zero di quelli contundenti e il pullman biancoceleste che sfila via mestamente, il Tardini che si dissolve in lontananza, come i sogni di gloria calcistica che parrebbero sul punto di sgretolarsi.

Perché la Lazio modello 1994/95 sa asfaltare il Milan (4-0), ma poi si smarrisce con il Torino. Seppellisce con sette reti il Foggia, quindi si incarta contro il Bari. Non sembrano esserci regole scolpite, con questa squadra qua. In panchina c'è un signore boemo dall'aria perennemente perplessa. Fuma come un turco e si gratta sovente la nuca. Sergio Cragnotti, il patron, l'ha ingaggiato dopo aver contemplato lo scintillio del suo Foggia, spostando Dino Zoff nel ruolo di presidente.

E quando prendi Zdenek Zeman lo sai, anche se lui in quella faglia temporale lì è sempre calcisticamente giovane: 4-3-3 dogmatico, spregiudicatezza come filosofia che riempie di senso le giornate, prodotto da consumarsi preferibilmente a stomaco vuoto e in carenza di paturnie cardiovascolari. Perché lo strapazzo emotivo è assicurato. Perché una cosa su questa Lazio comunque si sa: segna tanto, imbarca molto.

Davanti il trio fatidico è composto da Beppe Signori (sarà capocannoniere del club a fine stagione, con 17 centri), Pierluigi Casiraghi e Roberto Rambaudi, appena giunto dall'Atalanta retrocessa. Il primo e il terzo sono pupilli del boemo. Poi c'è Paul Gascoigne, all'ultima stagione romana. Dietro è arrivato il ruvido argentino Chamot e i pali li copre Marchegiani. Svolazzano dietro le punte Fuser e Venturin, Di Matteo e l'olandese Aron Winter. Nelle aree avversarie si può contare anche sul croato bionico Alen Boksic. Si affacciano inoltre in prima squadra terribili virgulti come Nesta e Di Vaio.

La stagione, si diceva, è un groviglio di saliscendi. Quella squadra alla fine arriverà seconda, sintomo che il vecchio adagio da circolino "se la palla ce l'hai te è già difendersi" funziona. Ma darà per tutto il tempo compresso del campionato l'impressione di essere un ordigno sul punto di esplodere, deflagrando i contendenti, ma innescando a volte anche il fuoco amico.

Nel suo senso più sfolgorante, il manifesto zemaniano appare forse il 5 di marzo. I biancocelesti aspettano all'Olimpico la Fiorentina, dopo avere appunto patito una sconfitta contro il Parma. Quasi 45mila persone appollaiate sugli spalti non sanno esattamente cosa aspettarsi. Ma se l'imprevidibilità è la cifra connaturata a questa ineffabile creatura pallonara, allora oggi deve per forza succedere qualcosa. E infatti succede, con modalità esagerate.

Premessa doverosa. Di fronte ci sono Gabriel Batistuta (finirà con 29 centri in stagione), Manuel Rui Costa, Ciccio Baiano, Toldo. Non esattamente una combriccola parrocchiale. Alla lunatica Lazio del condottiero boemo però frega niente. Quattro giri di lancette. Boksic scappa a sinistra e mette in mezzo: 1 a 0 obliterato da Casiraghi. Mezz'ora equilibrata, poi raddoppia Negro. Ancora ci sta. Altri cinque minuti e Cravero infila il tris su rigore.

Lazio luccicante, ma il meglio deve ancora venire. Casiraghi la spinge dentro a inizio ripresa, poi serve Boksic per la cinquina. Zeman gongola internamente in panchina, ma non muove un muscolo. Impassibile. I suoi stanno soltanto eseguendo il solito copione da utopia materializzata.

Ora accorcia la Viola, animata da un rigurgito d'orgoglio: Rui Costa e Bati. Quella parvenza di rientro in gara viene tuttavia sbriciolata da altri due gol di Casiraghi (fanno quattro, oggi) e dalla rete del ragazzino della primavera Marco Di Vaio. Ecco: 8-2. E se sembra abbastanza singolare già così, diventa ancora più surreale se pensi che alla giornata successiva questi qua perderanno a Napoli, poi asfalteranno il Genoa, quindi pareggeranno contro la Cremonese.

Un indecifrabile roller coaster emozionale. Può affossarti, certo. Ma che botta di vita quando funziona.

Vincenzo D’Amico.

CALCIO: MORTO VINCENZO D'AMICO

Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

Latina 5 novembre 1954. Ex calciatore. Fantasista, con la Lazio vinse lo scudetto del 1974. Giocò anche con Torino e Ternana. Dopo piccole parentesi da allenatore ora è commentatore tv (Rai).

• «La più grande soddisfazione di calciatore? Facile dire lo scudetto, il primo della Lazio, ma ero talmente giovane che non l’ho capita bene. Allora preferisco dire 1982, quando evitai alla Lazio la retrocessione in C: all’Olimpico perdevamo 2-0 con il Varese, ma feci tre gol e... ci ritrovammo in serie B».

• Ha raccontato di essere stato sorvegliato durante il suo periodo alla Lazio: «Non ero sposato né fidanzato, vivevo solo. Un compagno di squadra mi rivelò che nell’appartamento di fronte al mio si nascondevano l’allenatore in seconda e un vicepresidente, che mi controllavano dallo spioncino. Allora io entravo da solo e a mia volta stavo dietro la porta e aspettavo che se ne andassero. Poi scendevo in garage e facevo salire la persona che avevo lasciato giù in macchina. La cosa durò un mese. Poi, un bel giorno, mentre loro se ne stavano uscendo aprii la porta e gli feci cucù».

• «Un talento puro. Eravamo compagni di stanza e passava tutto il tempo al telefono, ogni giorno una ragazza diversa» (Renzo Garlaschelli).

Morto Vincenzo D'Amico, campione d'Italia con la Lazio nel 1974, poi dirigente e commentatore tv. Ex centrocampista offensivo e bandiera della Lazio, con cui si era laureato campione d’Italia nel 1973-74, dopo aver smesso di giocare aveva fatto l'allenatore, il dirigente sportivo e, negli ultimi anni, il commentatore in tv. Era malato da tempo. Orlando Sacchelli l'1 Luglio 2023 su Il Giornale.

Ascolta ora: "Morto Vincenzo D'Amico, campione d'Italia con la Lazio nel 1974, poi dirigente e commentatore tv"

Mondo del calcio italiano in lutto. Vincenzo D’Amico, campione d’Italia con la Lazio nel 1973-74 (con Giorgio Chinaglia) è morto oggi. Avrebbe compiuto 69 anni il prossimo 5 novembre. Malato da tempo, lo scorso maggio aveva pubblicato un post in cui rendeva noto che stava lottando contro la malattia oncologica che lo aveva colpito un paio di anni fa.

Dopo diciotto lunghi anni di carriera come calciatore, aveva tentato una nuova vita come allenatore, nel settore giovanile, e poi come dirigente sportivo. In seguito si era visto spesso, in diverse tv, come commentatore sportivo, mettendosi in evidenza per acume tattico, nelle analisi, pacatezza e simpatia.

Centrocampista offensivo, con il "vizietto" del gol e degli assist, D'Amico in campo era molto apprezzato anche per il piede, ben educato, e la bravura nei calci di punizione. Per lui 358 presenze con le maglie di Lazio, Torino e Ternana, e 61 gol messi a segno.

L'esordio giovanissimo e lo scudetto a 20 anni

D'Amico esordì con la Lazio non ancora diciottenne, il 21 maggio 1972, nella partita casalinga contro il Modena. Dopo pochi mesi, il 5 ottobre, un terribile infortunio ai legamenti del ginocchio capitatogli durante un'amichevole lo costrinse a saltare tutta la stagione. Dopo il recupero tornò con più voglia e forza di prima e Tommaso Maestrelli, allenatore della Lazio, lo inserirì tra i titolari, dandogli un preciso compito: rifornire di assist il super bomber biancoceleste, Giorgio Chinaglia. Fu una grande stagione, per la Lazio (scudetto) e per D'Amico, che mise in fila 27 presenze e due reti. Il brutto infortunio era solo un ricordo. Gli anni successivi non si confermò agli stessi livelli. Dopo aver aiutato la Lazio a salvarsi, nel 1979-80, fu ceduto al Torino. Campionato di luci e ombre, poi il ritorno alla Lazio, finita nel frattempo in Serie B. Prima la grande fatica per salvarsi, in una stagione che vide segnare ben dieci gol, poi l'anno successivo la grande cavalcata e la conquista della Serie A. Chuse la carriera nella Ternana, in C2, dove giocò con la fascia di capitano per due stagioni. 

Quel calcio di Chinaglia per rimproverarlo

17 marzo 1974, a San Siro si gioca Inter-Lazio. Supersfida tra due bomber, Giorgio Chinaglia e Roberto Boninsegna. Non apprezzando il suo atteggiamento in campo a un certo punto il bomber della Lazio rifilò un calcio nel sedere a D’Amico. Più tardi D'Amico smentì, in parte: "Fu solo un incitamento".

Il ricordo commosso di Lotito

Il presidente Claudio Lotito e tutta la S.S. Lazio "apprendono con estremo dolore e profonda commozione la notizia della scomparsa di Vincenzo D’ Amico, protagonista indiscusso dello Scudetto 1973/74. Leggenda biancoceleste - sottolinea il club in una nota - e coraggioso capitano nei momenti difficili della Società, Vincenzino, come tanti lo hanno sempre continuato a chiamare, ha fatto innamorare i tifosi di diverse generazioni con le sue magie in campo e il suo infinito attaccamento alla maglia. D’ Amico ha giocato nella Lazio dal 1971 al 1980 e, dopo un anno al Torino, dal 1981 al 1986: mai ha fatto mancare passione, impegno e dedizione ai colori biancocelesti. Il presidente Lotito, a nome di tutto il Club, rivolge alla sua famiglia e ai suoi cari le più sincere condoglianze. Non ti dimenticheremo mai, Vincenzo!".

Da ilnapolista.it lunedì 3 luglio 2023.

Bruno Giordano racconta Vincenzo D’Amico in un’intervista a Il Messaggero. L’eroe dello scudetto della Lazio del 1974 è morto due giorni fa: era malato da tempo di tumore. 

«Non avete idea di quanto fosse forte D’Amico, il mio fratellino».

«Quante ne abbiamo passate insieme, non posso neanche dire che fosse un semplice amico perché ci vedevamo quasi tutti i giorni, proprio come fratelli. Prima in campo e poi fuori, nemmeno quando decise di andare in Portogallo, a Madeira, ci siamo allontanati. Appena atterrava a Roma, andavamo a cena, ovviamente anche con Giancarlo. Era una persona speciale, in tutto. Come in campo. Adesso vorrei che gli venisse riconosciuto il valore che Vincenzo aveva come giocatore perché non tutti lo hanno capito». 

Giordano lo mette un gradino appena sotto Maradona.

«Credetemi, soltanto Diego era più forte di lui e quando glielo dicevo non si arrabbiava. Riconosceva la grandezza di Maradona, ci mancherebbe, ma dal punto di vista tecnico anche D’Amico era un mostro. Non si arrabbino i talenti di quell’epoca, Antognoni, Causio, Sala e Beccalossi.

Lui aveva una classe incredibile, non gli mancava niente, neanche il carattere perché non era soltanto un guascone. Pensate a un ragazzo di 19 anni, che si affaccia nella Lazio, e forse nella squadra più folle di sempre, e si impone a tal punto da diventare titolare e protagonista dello scudetto. La società non era così forte da poter sostenere lui e un gruppo così strano, altrimenti avrebbe fatto un’altra carriera e avrebbe avuto una considerazione maggiore». 

Al Torino D’Amico non ci sarebbe andato se fosse dipeso da lui, racconta Giordano.

«Un anno solo, poi scappò. Avrebbe smesso se non lo avesse ripreso la Lazio. Fu messo alle strette e accettò il trasferimento perché quei 300 milioni avrebbero aiutato il club a sopravvivere. Lui era nato biancoceleste, era nato per giocare solo nella Lazio, di cui è stato una bandiera che non potrà mai essere ammainata, nemmeno dopo la morte. Rappresentava un calcio di altri tempi, senza malizia, fatto d’amore e di generosità.

Credetemi: lui non ha solo vinto uno scudetto, i suoi successi sono stati la salvezza in serie B, la promozione immediata, la conquista della fascia di capitano. A quei tempi, erano trionfi, soprattutto per noi che dopo il ’74 abbiamo iniziato a soffrire. Teneva tutto in piedi Maestrelli, nemmeno il più bravo allenatore del mondo dal punto di vista tecnico avrebbe conquistato quel titolo e mantenuto la squadra unita in mezzo alle liti e alle divisioni. Tommaso era unico e irripetibile, come ogni elemento di quella squadra».

Giordano racconta un aneddoto:

«Eravamo a Caserta, prima della partita Vincenzino era furibondo perché Maestrelli gli aveva sequestrato lo stipendio e lui sosteneva che non sarebbe andato avanti per troppo tempo con 300mila lire. Ad un certo punto finì il caffè e si mise a palleggiare con la tazzina, che non è mai caduta. Che talento, che uomo folle e meraviglioso». 

Una domenica, racconta Giordano, accadde qualcosa di incredibile durante Lazio-Napoli, la partita del rientro del centravanti dopo uno stop di cinque mesi.

«Agnolin fischiò un rigore, decisi di andare sul dischetto perché avevo bisogno di fare un gol. Ma sei sicuro? Te la senti? D’Amico mi venne sotto per calciare, io sbagliai ma l’arbitro fece ripetere l’esecuzione: Vincenzo mi disse ancora lascia fare a me… invece tirai un’altra volta e sbagliai di nuovo. 

Agnolin disse che il rigore andava ripetuto e allora si presentò il mio capitano: niente da fare, terza esecuzione fallita e naturalmente su quel ricordo siamo andati avanti per anni a prenderci in giro: l’errore è stato il tuo, perché era l’ultimo tiro, quello decisivo. Quanto coraggio aveva: una volta giocò con sette punti sul sopracciglio, che Ziaco gli mise durante l’intervallo. A quei tempi bisognava essere eroi per continuare e lui lo era».

Vincenzo D’Amico, chi è l’ex giocatore della Lazio che ha annunciato di avere un tumore. Storia di Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 7 marzo 2023

L’annuncio della malattia Vincenzo D’Amico, 68 anni, campione d’Italia nel 1974 con la grande Lazio di Tommaso Maestrelli e Chinaglia, bandiera biancoceleste per 16 anni (dal 1971 al 1986 con solo una breve parentesi nel Torino) con ben 336 presenze e 49 gol, poi noto commentatore televisivo in particolare per la Rai, ha annunciato su Facebook di lottare contro un cancro. «Mi dicono che i malati oncologici – ha scritto D’Amico – tirano fuori forze inaspettate! Io ci sto provando!». Non ci sono altre notizie, se non l’affetto di tantissimi tifosi che stanno testimoniando la vicinanza all’ex calciatore. Che, infatti, è stata immediata. Genio e sregolatezzaTalento indisciplinato, sempre. Sia sul terreno di gioco sia nella vita. Centrocampista dalle attitudini offensive, D’Amico doveva sentirsi libero, senza catene, senza regole. Talento cristallino, tanto come mezzapunta quanto come ala. Abile uomo assist, era un ottimo tiratore di punizioni. Il calcio nel sedere da ChinagliaDurante una partita a San Siro contro l’Inter, D’Amico si prese un calcio nel sedere da Chinaglia perché l’attaccante non apprezzava il suo atteggiamento in campo (libero, spesso senza rispettare schemi o tatticismi): «Calcio? Ma no, fu solo un incitamento», disse D’Amico, che poi sul compagno avrebbe aggiunto: «Di Chinaglia la cosa che più mi fa male è che ne parlino senza averlo conosciuto. Si ricorda ancora il gesto a Valcareggi (il «vaffa» al c.t nei Mondiali del ‘74) ma la gente non sa perché Chinaglia fece quel gesto. Io lo giustifico, in Nazionale c’era realmente un clan. Giorgio aveva solo un problema: doveva fare gol altrimenti non era contento. Era una persona di una bontà fuori dal comune». Le lacrime Nella stagione 1979-80 D’Amico è stato visto piangere a Roma. La squadra era appena retrocessa in serie B (a tavolino a causa del calcioscommesse), ma le lacrime non erano dovute a quello. O almeno, non solo a quello. La Lazio, in gravissime difficoltà economiche, decise infatti di venderlo al Torino. Lui sì, la Lazio la salvò eccome (dal fallimento). Il ritorno. E quella tripletta...Un solo anno lontano dalla Lazio, poi D’Amico ritorna a vestire la maglia biancoceleste, salvando la squadra addirittura dalla serie C. Lo fa nella stagione 1981-82, realizzando una tripletta all’Olimpico contro il Varese di Eugenio Fascetti. Una dimostrazione incredibile d’amore per i suoi colori del cuore. La lite con BearzotNon riuscirà mai a indossare la maglia della Nazionale maggiore, anche a causa di incomprensioni di natura tattica con il commissario tecnico Enzo Bearzot e per la concorrenza di Franco Causio e Claudio Sala. D’Amico viene convocato per la prima e unica volta nel settembre 1980, in vista delle partite contro Lussemburgo e Danimarca, senza tuttavia mai scendere in campo; a causa di ciò, nel dicembre successivo attacca il c.t., colpevole secondo lui di averlo escluso senza spiegazioni.La carriera da opinionista Dopo il ritiro avvenuto nel 1988 con la Ternana (in serie C2), parallelamente all’attività di dirigente, D’Amico iniziò quella di commentatore sportivo in varie emittenti locali fino a quando, nel 1999, passò alla Rai come commentatore tecnico, partecipando a diverse trasmissioni tra cui Stadio Sprint.L’omaggio a Re CecconiTempo fa D’Amico ha ricordato Luciano Re Cecconi, suo compagno ai tempi della Lazio, morto a Roma il 18 gennaio 1977 (QUI la sua storia). «Mio figlio (avuto con la moglie Elena, ndr) ha di secondo nome Luciano proprio per Re Cecconi. Comunque quella non fu una sparatoria, ma un omicidio...».

Ciro Immobile.

(askanews il 17 luglio 2023) - Ciro Immobile passa al contropiede. Il legale del bomber della Lazio ha presentato una denuncia per lesioni gravissime in relazione all'incidente del 16 aprile scorso che ha visto coinvolte l'auto del calciatore ed un tram della linea 19. Il difensore di Immobile, l'avvocato Erdis Doraci, ha spiegato che la querela è stata presentata a tutela del suo assistito e delle bambine figlie dell'attaccante. 

"Questa è una vicenda che, per buon senso, doveva restare in ambito civilistico ma così non è stato - ha sottolineato il legale -Nell'incidente i miei assistiti hanno riportato ferite otto volte superiori, in termini di prognosi, a quelle dell'autista.

Tutti e tre, ma in particolar modo le due bambine, hanno subito lesioni importanti ai fini della querela, con prognosi del solo pronto soccorso rispettivamente di 20 per Ciro, 30 e 50 per le bambine". 

In seguito a quanto avvenuto in piazza delle Cinque Giornate, nel quartiere romano di Prati, l'autista del mezzo pubblico aveva deciso di presentare una querela. Gli accertamenti, sinora, degli inquirenti della Polizia Locale e dei carabinieri non hanno ricostruito in modo chiaro la responsabilità rispetto all'incidente. 

Estratto dell’articolo di Alessia Rabbai per fanpage.it il 17 luglio 2023.

Il conducente del tram coinvolto nell'incidente con il suv di Ciro Immobile ha denunciato l'attaccante della Lazio per lesioni stradali. Ad anticipare la notizia Il Messaggero. Il sinistro risale al 16 aprile scorso alle 8 in piazza delle Cinque Giornate. 

Un incidente che ha avuto un esito di dodici feriti: il tranviere e otto passeggeri, il calciatore e le sue due figlie. Una denuncia quella del dipendente dell'azienda che gestisce il servizio di trasporto pubblico in città, che arriva dopo la richiesta di risarcimento danni da parte di immobile ad Atac. Una vicenda che sembrava essersi conclusa senza colpevoli, ma che ora potrebbe finire in Tribunale.

Inizialmente pareva che l'incidente […] si fosse concluso con un concorso di colpa, in quanto dai rilievi svolti dagli agenti della polizia locale di Roma Capitale non sono emerse responsabilità attribuibili all'uno o all'altro conducente.

La mattina dell'incidente Ciro Immobile era alla guida del suv insieme alle sue due figlie quando, per cause non note, si è scontrato con il tram. Alla guida del mezzo […] c'era un uomo di cinquantasei anni che è rimasto ferito, soccorso e trasportato al Policlinico Umberto I, dove ha ricevuto le cure del caso e e una prognosi di una settimana. 

Successivamente i conducenti si sono accusati l'un l'altro: Immobile sosteneva che il tranviere fosse passato col rosso, mentre quest'ultimo ha detto di essere convinto che fosse verde e che il suv stesse procedendo a velocità elevata. […]

Ciro Immobile sull'incidente: «Sono passato con il semaforo verde e andavo sotto i 50 all'ora». Dubbi su tre testimoni. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 20 aprile 2023

Secondo l'avvocato del calciatore della Lazio «un teste ha detto che era fermo al rosso quando il mio assistito è transitato sul lungotevere: è la conferma che aveva il via libera». Accertamenti sulla posizione del tram 

Alcuni testimoni dell’incidente stradale nel rione Prati in cui, domenica scorsa, è rimasto coinvolto il bomber laziale Ciro Immobile potrebbero non essere attendibili. E per questo motivo i vigili urbani incaricati delle indagini per far luce sulla dinamica dello schianto del suv Land Rover del calciatore contro un tram della linea 19 con alcuni passeggeri potrebbero sentirli di nuovo. In caso le contraddizioni nei loro racconti dovessero rimanere, i testi in questione — almeno tre — rischiano la denuncia per false dichiarazioni. 

Si complica, insomma, la ricostruzione di quanto accaduto alle 8.20 in piazza delle Cinque Giornate, dove dodici persone — fra le quali Immobile, le due figlie minori, il macchinista del convoglio, M.V., 43 anni, e otto viaggiatori — sono rimaste ferite, per fortuna con prognosi inferiori ai 10 giorni. Tranne lo stesso attaccante della Lazio, che ha riportato la frattura composta dell’XI costola destra e la figlia di 10 anni, trattenuta in osservazione in ospedale e poi dimessa ieri. 

«Immobile è passato con il semaforo verde e lo ribadisce con forza ancora una volta», sottolinea il legale del calciatore, Erdis Doraci, che nei giorni scorsi ha svolto con un professionista una perizia sul funzionamento dei semafori in quella piazza. «Uno dei testimoni ha riferito di aver assistito al passaggio dell’auto del mio assistito sul lungotevere delle Armi mentre si trovava fermo con il semaforo rosso su ponte Matteotti. Questo vuol dire, secondo la sequenza delle luci nel luogo dell’incidente, che sicuramente Immobile è transitato con il verde e che il semaforo che impegna il tram, ovvero quello successivo, era rosso».

Una posizione chiara, sebbene di contro ci sia quella del macchinista del convoglio Atac per il quale le sue luci (una coppia di semafori a distanza di quasi cento metri l’uno dall’altro), su viale delle Milizie e ponte Matteotti, quando è partito erano invece verdi. A bordo alcuni passeggeri hanno dichiarato che effettivamente il tram si è fermato all’incrocio, ma potrebbero essere anch’essi sentiti di nuovo per capire, in mancanza di video dell’incidente, a che altezza si fosse attestato il 19: al semaforo in viale delle Milizie, dal quale un tram impiega circa 13 secondi per raggiungere il punto d’impatto, o fra le due luci tramviarie, e allora il tempo di percorrenza fino al luogo dell’incidente è pressoché dimezzato. Al vaglio anche il racconto di chi avrebbe visto il macchinista, fermo al rosso, alzarsi dal suo posto di guida per aiutare una passeggera a obliterare il biglietto.

Altri accertamenti infine da parte dei vigili urbani del I Gruppo Prati sulla velocità effettiva dei veicoli al momento dello schianto, sulle loro condizioni e sulla possibilità che ci sia stato un guasto. Fra le ipotesi investigative quella che Immobile possa essere sopraggiunto all’incrocio con la luce gialla (che dura appena tre secondi) a una velocità superiore ai 50 all’ora previsti in quel punto. «Non è vero, andava entro i limiti — sostiene ancora il suo avvocato —, l’impatto c’è stato perché si è trovato davanti il tram all’improvviso. Il convoglio si è spostato non per la violenza dell’urto, ma perché colpito in una parte debole, vicina alla cabina di guida che lo ha sospinto fuori dai binari, in quel punto larghi appena quattro centimetri. Senza contare che vogliamo sapere se domenica scorsa i semafori funzionassero effettivamente o se sia stato segnalato qualche inconveniente».

Mario Landi per ilmessaggero.it il 17 aprile 2023. 

«Ricordo di aver passato il semaforo col verde e l'auto che sopraggiungeva a grande velocità». 

Questo il racconto ai colleghi dell'autista del tram 19 che […] si è scontrato con l'auto guidata da Ciro Immobile a bordo della quale c'erano anche le due figlie del calciatore. 

L'autista ricorda di essersi fermato alla fermata e di aver aiutato una passeggera a vidimare il biglietto. Poi sarebbe ripartito con il verde. «Subito dopo è arrivata una bomba a tutta velocità, sono svenuto e mi sono risvegliato in ospedale».

L’auto di Immobile intorno alle 8:30 di mattina si è scontrata con il tram numero 19 che stava attraversando Ponte Matteotti - che collega il quartiere Flaminio con quello di Prati - nelle vicinanze dello stadio Olimpico. 

Un impatto dal quale l’auto dell’attaccante è uscita distrutta: gli airbag sono scoppiati e i vetri andati in frantumi. Fortemente danneggiata anche la cabina di guida del tram con cui l'auto di Immobile si è scontrata: il mezzo è uscito dai binari e si è inclinato. Al momento dell'incidente il tram era carico di passeggeri: cinque di loro, oltre all'autista, sono stati portati in ospedale. 

Ma è giallo sulla dinamica. […] Il calciatore, intercettato sul luogo dell'incidente, ha puntato il dito contro il tram sostenendo che fosse passato con il rosso. Al momento però non c'è alcuna conferma […]. Forse un'errata intepretazione del semaforo perché al contrario,  […] a provocare il sinistro potrebbe essere stata l'alta velocità dell'attaccante […]

Estratto dell’articolo di Rinaldo Frignani per corriere.it il 17 aprile 2023. 

La ruota anteriore destra del Defender si è quasi staccata dall’asse. La parte anteriore del pesante suv della Land Rover non esiste più: la vettura è finita a una ventina di metri di distanza, su ponte Matteotti, mentre il muso del tram 19 ha addirittura scavalcato uno sparti-traffico: il convoglio pesa 18 tonnellate senza passeggeri, solo il blocco ruote almeno sei. 

Bastano questi numeri per avere un’idea di cosa è successo, e di quanto si è rischiato, ieri mattina in piazza delle Cinque Giornate, a Prati, nell’incidente che ha coinvolto il bomber della Lazio Ciro Immobile, 33 anni, in auto con le figlie Michela e Giorgia, di 10 e 8, e nove persone […] che si trovavano sul mezzo pubblico  […]. Fra loro anche il macchinista dell’Atac, di 45 anni, dimesso in mattinata dal Policlinico Umberto I con sette giorni di prognosi.

Il macchinista: «Sono passato con il verde»

«Sono passato con il semaforo verde - racconta - all’improvviso quella macchina ci è venuta addosso come un missile. Sono stato sballottato nella cabina, non ho capito più niente e sono svenuto. Ma il mio pensiero fisso è sapere come stanno quelle due bambine, le figlie del calciatore».

[…] Il calciatore: «Il tram è passato con il rosso»

«Il tram è passato con il rosso», sostiene fin dai primi istanti l’idolo dei tifosi laziali, che come il macchinista Atac, per atto dovuto, è stato sottoposto all’alcoltest e al drugtest. Gli agenti della polizia municipale hanno sequestrato i veicoli coinvolti che saranno sottoposti a perizie tecniche. 

Le telecamere di vigilanza non sarebbero utili: quelle che ci sono non funzionano. Al vaglio il sistema di sincronizzazione dei semafori, che sulla piazza funzionano a rotazione. Non si esclude che il tram abbia avuto il via libera e che il calciatore si sia ritrovato all’incrocio dopo essere passato con il giallo. Ma è solo un’ipotesi tutta da confermare. Fra i testimoni c’è un automobilista che ha raccontato di aver visto «Immobile passare l’incrocio da lungotevere delle Armi e cercare di evitare il tram, ma non ci è riuscito».  […]

(ANSA il 18 aprile 2023) Il semaforo presente all'incrocio in cui domenica scorsa è avvenuto a Roma l'incidente stradale che ha coinvolto l'auto guidata dal capitano della Lazio, Ciro Immobile e un tram è "perfettamente funzionante". A chiarirlo, in relazione ad alcune notizie di stampa, Roma Servizi per la Mobilità che in una nota "smentisce nel modo più categorico qualsiasi malfunzionamento". 

"Come hanno evidenziato le verifiche subito effettuate, l'impianto era ed è in piena efficienza. Le risultanze tecniche dei controlli sul funzionamento saranno messe a disposizione della Polizia locale", prosegue la nota. Lo schianto violentissimo è avvenuto intorno alle 8.30 di domenica mattina, tra il Suv, un Land Rover Defender, con a bordo il capitano della Lazio e le sue due giovani figlie, e un tram della linea 19, nella zona di piazza Cinque Giornate a Roma, all'incrocio con Ponte Matteotti tra i quartieri Prati e Flaminio. L'incidente ha provocato, complessivamente, 12 feriti, per fortuna nessuno in modo grave.

Estratto dell’articolo di Alessia Marani per ilmessaggero.it il 18 aprile 2023.  

Per me è davvero possibile che sia il capitano della Lazio Ciro Immobile con il suv, che il conducente del tram 19 siano passati entrambi con il verde». Ad affermarlo è il 52enne Marco S., tassista da vent’anni sulle strade della Capitale. Con base fissa o quasi a piazza Mazzini. Quel tratto tra piazza delle Cinque Giornate e Ponte Matteotti lo avrà attraversato migliaia di volte sulla corsia preferenziale. Eppure, giura che da almeno due tre giorni, prima dello scontro di domenica, evitava di passarci, «perché il semaforo non funzionava, c’erano delle anomalie evidenti che riguardavano le tempistiche». 

Marco lei è stato il primo a instillare il dubbio nella chat dei tassisti sul funzionamento dell’impianto ricevendo conferme dai colleghi. In che consisteva?

«L’anomalia che personalmente ho riscontrato riguardava il semaforo che regola la viabilità sulla preferenziale riservata a mezzi pubblici, disabili, Ncc e a noi tassisti». 

Si spieghi meglio...

«Un primo malfunzionamento consisteva nel segnalare il rosso per un lunghissimo tempo. E questo mentre erano intermittenti il rosso e il verde per chi proveniva dal lungotevere Oberdan. Quindi ho visto colleghi inchiodati davanti a me per minuti interminabili e qualcuno alla fine attraversare ugualmente l’incrocio con molta cautela pur di passare. Si stava fermi anche per venti minuti. Poi, però, succedeva anche qualcosa di opposto». 

Ossia?

«Che il verde durava appena due o tre secondi, poi ridiventava subito rosso. E così tu ti trovavi ad avere impegnato regolarmente l’incrocio ma di trovarti in mezzo alla strada con il rosso, mentre chi proveniva dal lungotevere Oberdan vedeva il segnale di via libera di fronte a sé e non frenava». 

(...)

Quindi, cosa può essere successo secondo lei domenica mattina?

«Oggettivamente rispetto alla dinamica dell’incidente, non essendo presente, non posso dire nulla. Però ho sentito le parole di Immobile che proveniva dal lungotevere e ho letto quelle del tranviere che arrivava dalla preferenziale ed entrambi sembravano molto determinati nel sostenere di essere passati con il verde. Visto quello che ho sperimentato io e anche altri miei colleghi che hanno risposto in chat, che possa essere accaduto realmente non mi stupirebbe. Anche se credo sia molto difficile dimostrarlo». 

(...)

Estratto dell’articolo di Elisabetta Esposito per gazzetta.it il 18 aprile 2023.

Domenica è stato il giorno della grande paura, quella che ti si incolla alle ossa e si riflette negli occhi, quella che ti riempie la testa, quella che non ti fa sentire il dolore. Ieri, per Ciro Immobile, è stato il giorno della consapevolezza. L’attaccante della Lazio, che nella mattina di due giorni fa ha distrutto il suo suv scontrandosi a velocità sostenuta contro un tram sul Lungotevere, ha capito quanto sia stato fortunato e ora questa fortuna la vuole afferrare, anzi abbracciare, più che può. 

Per questo ieri ha fatto più volte su e giù tra il reparto solventi in cui è stato trasferito dopo l’iniziale ricovero in quello di osservazione breve del Policlinico Gemelli e quello di terapia intensiva pediatrica dove si trova Michela, 10 anni, la più grande delle due figlie che erano in auto con lui al momento dello schianto. Giorgia, 8 anni, è stata dimessa ieri dall’ospedale Bambino Gesù. Indossa il collare, ma sta bene. Per Michela c’è qualche preoccupazione in più, legata a un leggero versamento al fegato, quindi resterà in osservazione ancora qualche giorno. Già oggi però dovrebbe essere trasferita in un normale reparto pediatrico. Gli ultimi controlli hanno dato esiti confortanti e questa è la notizia che più aspettava Immobile.

(…)

Alessandro Pinto per gazzetta.it il 18 aprile 2023.  

Paura domenica mattina a Roma per l'incidente tra il tram della linea 19 e la Land Rover Defender guidata da Ciro Immobile. Otto persone ferite con traumi più o meno leggeri, il macchinista dimesso con una prognosi di sette giorni, mentre per Immobile, invece, è andata leggermente peggio a causa un trauma distorsivo della colonna vertebrale e la frattura composta della XI costola destra che lo costringono ricoverato al Gemelli. 

Fortunatamente non ci sono state conseguenze gravi per nessuno, anche grazie alle caratteristiche dei mezzi coinvolti: un tram ed un fuoristrada che supera le due tonnellate di stazza come il Land Rover Defender.

Dal 1948, Land Rover Defender è uno dei fuoristrada più iconici del panorama automobilistico mondiale. L'ultima generazione non fa eccezione, per quanto decisamente rinnovata nel look e nella meccanica in osservanza alle norme anti-emissioni e sulla sicurezza. Il telaio a longheroni con carrozzeria separata è stato sostituito da un telaio monoscocca in alluminio denominato D7x e derivato dalla piattaforma Jaguar-Land Rover condivisa con altri modelli del gruppo, come la Discovery e la Range Rover Sport. Il telaio monoscocca in alluminio è tre volte più rigido rispetto al passato, oltre a permettere di montare sospensioni multi-link indipendenti più morbide senza pregiudicare la stabilità di marcia.

Come il telaio, presentano rinforzi strutturali nei punti sensibili per preservare l'integrità anche in caso di urto. Il peso di Land Rover Defender oscilla tra le 2,3 e le 2,6 tonnellate, in base alle tante motorizzazioni disponibili: il 2.0 4 cilindri turbobenzina da 300 Cv, due diesel 2.0 litri 4 cilindri da 200 o 240 Cv, la versione ibrida mild-hybrid con motore 3.0 V6 a benzina da 300 Cv, oltre alla plug-in da 400 Cv.

La sicurezza a cinque stelle di Land Rover Defender è stata certificata dal massimo punteggio ottenuto nei crash-test eseguiti dall'istituto Euro-Ncap. In particolare, il Suv/fuoristrada britannico ha dimostrato una elevata capacità di protezione degli occupanti, sia adulti che bambini, nelle prove di assorbimento dell'urto frontale e laterale (...)

Estratto dell’articolo di Rinaldo Frignani per roma.corriere.it il 18 aprile 2023.

Visibilità limitata dalla presenza di uno spiazzo con cipressi proprio al centro della piazza. Una sola telecamera di sicurezza accesa soltanto di notte, per sanzionare camion e pullman che imboccano il sottopasso verso il centro. Un intreccio di semafori sincronizzati in sequenza, con l’impianto sul lungotevere delle Armi nel quale il giallo dura poco più di tre secondi. Un tempo giudicato congruo secondo le regole del Codice della strada, ma che nel caso dello schianto di domenica mattina dell’auto di Ciro Immobile contro il tram della linea 19 potrebbe aver giocato un ruolo decisivo.

(...) 

Suv di Immobile a 80 all'ora

L’incidente che ha visto coinvolti il bomber della Lazio e altre 11 persone rimaste ferite con lui è al centro delle indagini dei vigili urbani del I Gruppo Prati che stanno valutando una serie di fattori. Il primo è la velocità tenuta dal calciatore: il sospetto è che fosse superiore ai 50 all’ora previsti in quel tratto di strada. Infatti, secondo i calcoli del sito cityrailways, il Land Rover Defender di Immobile correva a 80 all’ora. Gli accertamenti riguardano anche la condotta di guida dell’attaccante 33enne nell’impegnare l’incrocio, soprattutto per stabilire se il semaforo fosse verde, come sostengono il bomber e il suo legale, Erdis Doraci: «Il tram è passato con il rosso».

(...) 

Semaforo giallo solo 3 secondi

Un dettaglio importante perché nel primo caso - come abbiamo registrato ieri -, muovendosi con il verde, un convoglio Atac sui binari impiega circa 13 secondi (poco più di due dei quali soltanto per mettersi in movimento da fermo) per arrivare sul punto dello schianto e in quel momento il semaforo per chi proviene dal lungotevere è ormai rosso da altrettanti secondi. Nel secondo invece il tempo di percorrenza del tram è dimezzato: se per ipotesi Immobile è transitato con il giallo - una delle piste seguite fin dall’inizio delle indagini - potrebbe aver avuto meno di tre secondi prima di ritrovarsi in mezzo all’incrocio con il rosso e il mezzo Atac davanti. 

Perizie sui cellulari

Ma questa è solo una delle ricostruzioni al vaglio della polizia municipale, che è anche in attesa delle risultanze delle perizie che saranno effettuate sia sulla rete di semafori di piazza delle Cinque Giornate sia sui veicoli coinvolti nello schianto. Senza contare quelli sui telefonini di entrambi i conducenti - si tratta comunque di un atto dovuto, come l’alcoltest - per capire se siano stati utilizzati proprio nei momenti che hanno preceduto l’incidente.

Estratto dell’articolo di Rinaldo Frignani per roma.corriere.it il 3 maggio 2023.

Un video di qualche secondo che dimostra come l’impianto semaforico di piazza delle Cinque Giornate, a Prati - ieri sera peraltro in tilt -, sia interessato da improvvisi malfunzionamenti causati da problemi tecnici non meglio specificati. A fornirlo ai vigili urbani è stato un tassista che lo ha girato, dimostrando - secondo la sua versione dei fatti - che quell’incrocio è pericoloso proprio perché le luci per gli automobilisti e quella per il conducente del tram non sono coordinate fra loro. 

Potrebbe essere la svolta nell’accertamento delle responsabilità nell’incidente del 16 aprile scorso con 12 feriti, fra i quali il bomber della Lazio Ciro Immobile, le due figlie di 10 e 8 anni, il macchinista di un convoglio Atac della linea 19 e otto passeggeri. Nessuno di loro in modo grave, tanto che lo stesso attaccante biancoceleste è subito ritornato in campo. 

Proprio nella serata di martedì alcuni tram sono rimasti bloccati nella stessa piazza per un problema tecnico sulla linea. Sono state attivate linee sostitutive con i bus e sono stati svolti accertamenti sul funzionamento dei semafori. Non è escluso un contatto laterale fra due tram della linea 19 che si sono poi fermati all’altezza della piazzuola centrale. 

Fin dalle prime battute subito dopo lo schianto molto violento del suv Land Rover del calciatore contro la cabina del tram, entrambi i conducenti hanno confermato in diverse occasioni di essere passati con il verde. A rafforzare le loro posizioni anche un automobilista che aveva riferito di aver assistito all’incidente fermo con la sua vettura con il rosso su Ponte Matteotti (e Immobile allora avrebbe avuto il verde) così come i passeggeri del 19 che avevano detto di aver visto muoversi il convoglio con il verde. 

(...)

Estratto dell'articolo di Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 19 maggio 2023. 

«Ho detto la verità, sono passato con il verde», risponde così l'attaccante della Lazio Ciro Immobile dopo che i vigili urbani del I Gruppo Prati hanno chiuso i rilievi sull'incidente che l'ha visto protagonista su Ponte Matteotti. Non è stato possibile accertare di chi fosse la responsabilità: se del bomber o del macchinista del tram. Così l'incidente, avvenuto alle prime ore di domenica 16 aprile, resta senza "colpevoli". 

Ma del resto non spetta ai vigili diventare giudici, si limitano a "fotografare" quanto accaduto e lasciare poi intendere come sia avvenuto quell'incidente. Non sono stati in grado, tuttavia, di definire cosa sia successo e ora la "palla" passa alle assicurazioni.

Con il rischio che la vicenda sfoci in una causa civile, da un giudice chiamato alla fine ad esprimersi. Perché se Immobile, come trapela, non dovesse accettare il concorso di colpa o se dovessero pervenire richieste di risarcimento danni che né Atac né l'attaccante intendono saldare, si arriverà inevitabilmente in tribunale. Con una seguente trafila che potrebbe durare non mesi ma addirittura anni. 

Di fatto il lavoro dei caschi bianchi in mancanza di elementi terzi utili si è fermato senza poter lasciare ipotizzare anche soltanto un errore da parte di uno dei due conducenti. Che continuano a ribadire la loro versione ovvero quella di essere passati - entrambi - con il semaforo verde.

Ci sono poi i testimoni, tre, che per la posizione di Immobile hanno detto ai vigili di averlo visto passare con il semaforo a suo favore ma lo stesso macchinista dell'Atac ha riferito la stessa versione. Impossibile fare affidamento sulle telecamere: pur essendocene una sull'area, quell'impianto non ha registrato nulla. La chiusura dei rilievi è per la parte dell'attaccante della Lazio «una notizia, come tutte quelle succedute dal primo giorno dell'incidente, che non fa altro che confermare quanto sostenevo in tutte le dichiarazioni - spiega l'avvocato di Immobile, Erdis Doraci - Ciro passava con il verde e non era distratto vista la reattività che ha evitato lesioni più gravi.

Detto ciò, continuo a pensare a questo punto che anche il macchinista passasse col verde. L'operato degli agenti è correttissimo, in linea con le disposizioni di legge che impongono neutralità in caso di mancanza di elementi oggettivi incontestabili. 

L'incidente quindi, per fortuna, continuerà ad essere una questione civile da risolvere tra le parti e le Assicurazioni coinvolte». L'unica cosa certa, come ha accertato Agenzia per la Mobilità è che il semaforo, quella mattina, funzionava. E allora di chi è stata la colpa? Di uno dei due? Di entrambi? Di fatto l'episodio non ha avuto un rilievo penale perché fortunatamente non ci sono state vittime né feriti con prognosi lunghe. Può essere stata la velocità? I vigili questo non l'hanno escluso per via dei danni sia del veicolo di Immobile che del tram, uscito addirittura dai binari.

(…)

Estratto dell'articolo di Lorenzo D’Albergo per repubblica.it il 17 aprile 2023.

[…] Nella lunga sequenza di incidenti che negli anni ha avuto per protagonisti i calciatori di Roma e Lazio, ci sono episodi di tutti i tipi. Tanti da poter stilare una classifica, in cui i giallorossi sono nettamente in testa. Si parte, in ordine cronologico, dal 2000. 

Francesco Totti, il tamponamento sul Gra e la telefonata alla mamma

È il 18 luglio quando Francesco Totti, in coda sul Grande raccordo anulare, rimane coinvolto in un tamponamento a catena all'altezza dell'uscita Cassia. […] Totti aveva da poco riavuto la patente, sequestrata sei mesi prima per un sorpasso in corsia d'emergenza, sempre sul Gra. L'incidente si chiuse con la chiamata a mamma Fiorella: "Tranquilla, non mi sono fatto nulla".

La Ferrari distrutta di Zebina e Candela

È invece del 17 settembre 2002 l'incidente in cui rimasero coinvolti i francesi Zebina e Candela. Guidava il primo, ma la Ferrari distrutta era intestata al secondo. […] 

Zigzag sul Gra, la multa di Vincent Candela e Montella

A bordo della stessa auto, il 15 gennaio dello stesso anno, avevano collezionato una multa da 327 euro e una doppia sospensione della patente lo stesso Vincent Candela e Vincenzo Montella. […] facevano zigzag in corsia d'emergenza sul Grande raccordo anulare. 

Lamborghini contro muro, Keita Balde positivo al alcol test

Si arriva, poi, direttamente al 2014. Un anno partito con l'incidente di Keita Balde, attaccante della Lazio: alle 4,30 del mattino del 20 ottobre, uscito da un concerto di Snoop Dogg all'Eur, il biancoceleste finiva contro un muro a bordo della sua Lamborghini Gallardo. Neopatentato, risultò positivo al test dell'alcol. […]

Lo schianto della Smart di De Rossi  (guidata dal ladro)

Dello stesso anno, siamo al 14 dicembre, lo strano incidente occorso a Daniele De Rossi. Perché la Smart finita contro un muro a villa Borghese, in via del Muro Torto, era la sua. Ma alla guida c'era il ladro che aveva appena soffiato la vettura al romanista in corso Vittorio Emanuele.

Travolge Panda con l'Audi, El Shaarawy ai servizi sociali

Del 2016 è invece l'incidente di El Shaarawy. […] colpì una Panda con la sua Audi dopo un sorpasso azzardato. Il conducente dell'utilitaria finì in ospedale con una tibia rotta e l'attaccante della Roma, […] finì ai servizi sociali.

Tamponamento sulla Laurentina, l'addio alla Porsche di Perotti

L'anno successivo[…], toccò invece a Diego Perotti dire addio al suo bolide. […]una Porsche rimasta coinvolta in un brutto tamponamento sulla Laurentina.

Bruno Peres e lo schianto a Caracalla ubriaco

Anno 2018, quello di Bruno Peres. […] una Lamborghini. […] Il terzino brasiliano […] si mise al volante ubriaco e si schiantò in viale delle Terme di Caracalla: denuncia per guida in stato d'ebrezza, multa da 800 euro e ritiro della patente. 

Ora è la volta di Ciro Immobile e dell'incidente tra il suo suv e il tram numero 19. […]

Gian Marco Calleri.

Estratto da gazzetta.it l’8 marzo 2023.

È morto, all'età di 81 anni, Gian Marco Calleri, ex presidente di Lazio e Torino. Nato a Busalla il 10 gennaio 1942, dopo la carriera da calciatore, in Serie B con Novara, Monza e Lazio, si dedicò all'attività imprenditoriale e nel 1986, assieme al fratello Giorgio e al finanziere Bocchi, acquistò il club biancoceleste.

 Con lui al comando la Lazio ottenne nel 1986-87 una clamorosa salvezza in B nonostante i 9 punti di penalizzazione, si risanò e tornò nella massima serie. Calleri cedette quindi la Lazio a Cragnotti nel 1992. Due anni dopo, rilevò il Torino lasciando il club granata nel 1997. L'anno successivo Calleri si rivolse all'estero acquisendo il Bellinzona, ceduto nel 2001.

Sven Goran Eriksson.

Sven Goran Eriksson compie 75 anni: le donne, Mihajlovic, il no a Berlusconi. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 05 Febbraio 2023.

Con la Lazio vinse lo scudetto nel 2000: ha allevato una generazione di allenatori (da Mancini a Mihajlovic, ma anche Simeone, Lampard) e ora è dirigente del Karlstad BK, in Svezia

I 75 anni di mister Eriksson

Sven Goran Eriksson compie 75 anni. Oggi è un dirigente del Karlstad BK, club della sua Svezia, dopo una lunga vita in panchina. Ha iniziato al Degerfors e poi all’Ifk Goteborg (vincendo la Coppa Uefa nel 1982) e in Italia ha guidato la Roma (1984-1987), la Fiorentina (biennio 1987-1989), la Sampdoria (1992-1997) e la Lazio (1997-2001). E proprio con i biancocelesti (era l’epoca di Sergio Cragnotti presidente) nel 2000 ha vinto il secondo scudetto nella storia del club con cui si è tolto l’etichetta di perdente di successo (a Vienna con il Benfica nel 1990 perse contro il Milan di Arrigo Sacchi la finale di Coppa dei Campioni). Detto addio all’Italia, Eriksson ha allenato — tra Nazionali e club — Inghilterra, Manchester City, Messico, Costa d’Avorio, Leicester, Guangzhou, Shanghai, Shenzen e le Filippine.

Le tante donne

Oltre a scudetti e coppe, Sven Goran Eriksson è diventato celebre per le relazioni — tra scappatelle e amori importanti — con tante donne. Dal rapporto tribolatissimo, e finito a carte bollate, con l’avvenente avvocatessa romana Nancy Dall’Olio — «pretendeva troppe attenzioni» e alla fine il tecnico non ne poteva più — alla biondissima presentatrice svedese Ulrika Jonsson. E poi altre fiamme: il Daily Mail gli attribuisce storie con la segretaria della Federazione inglese Faria Alam, l’ex ginnasta romena Roxy, una hostess della Scandinavian Airlanes, una receptionist del Grand Hotel di Stoccolma. Ma anche l’attrice Debora Caprioglio e una docente universitaria italiana di nome Graziella.

L’invenzione del turnover e l’eredità tecnica

È stato uno dei primi a ricorrere al turnover e a creare una nuova generazione di allenatori. Da Roberto Mancini a Sinisa Mihajlovic, scomparso a causa della leucemia il 16 dicembre 2022. Fino a Sandro Nesta, Frank Lampard, Sergio Conçeicao, Diego Pablo Simeone e Steven Gerrard. In carriera ha vinto 18 trofei. Ma soprattutto ha influenzato generazioni successive di allenatori come pochi altri nel calcio moderno. Aveva i suoi dogmi tattici: difesa a quattro, pressing aggressivo, spinta sugli esterni. Ma anche la chiara identificazione di un leader tecnico per reparto: Vierchowod-Gullit-Mancini in blucerchiato, Nesta-Nedved-Salas nell’anno dello scudetto con la Lazio.

Lo sceicco che gli costò la panchina

Nel 2006 Eriksson fu licenziato dalla Federazione inglese che chiuse anzitempo la sua esperienza da c.t. dell’Inghilterra. L’allenatore, infatti, era stato avvicinato da un falso sceicco (il giornalista scandalistico Mazher Maahmood) e convinto a dire — mentre una videocamera nascosta registrava tutto — che avrebbe immediatamente abbandonato la guida della Nazionale se l’imprenditore arabo davanti a lui avesse comprato l’Aston Villa. Dieci anni più tardi Mahmood fu condannato per falsa testimonianza e ostruzione della giustizia.

Il dolore per Sinisa Mihajlovic

Grandissimo il suo dolore per la scomparsa di Sinisa Mihajlovic, il 16 dicembre scorso: «Ma ci pensate? A 53 anni avrebbe potuto fare ancora tantissime cose — aveva raccontato al Corriere—. Il mondo del calcio poteva arricchirsi ancora per 15-20 anni. Che dolore grande perderlo. Fa male, molto male. Non pensavo. Credevo vincesse ancora. Perché lui voleva sempre vincere. In allenamento, in partita, nella vita. Sempre. Ma mai con l’inganno, mai passando sopra agli altri. Un campione vero. Lo so, queste sono frasi scontate, ma Sinisa era proprio così. Cosa posso dire di più? Un leader, un campione un grande uomo, un amico».

Il no a Silvio Berlusconi

Nella lunga carriera da allenatore, Sven Goran Eriksson ha detto anche di no a Silvio Berlusconi: «Ho avuto un incontro segreto con lui. Nel cuore della notte, sono tornato a casa e nel parcheggio mi aspettava una vettura che mi ha portato all’appartamento di Berlusconi. È stato grandioso. Berlusconi mi ha guardato e visto che stavano sostituendo l’allenatore, mi ha chiesto se ero interessato. Ma era chiaro che non ero interessato», ha raccontato lo svedese.

Il consiglio ad Abramovich: «Compra il Chelsea»

Il tecnico svedese ha anche avuto un ruolo determinante nella storia recente del Chelsea, pur non avendo mai allenato i Blues. La prima volta che incontrò Roman Abramovich lo scambiò per un autista. Era il 2003 e il magnate russo si era rivolto a lui per una consulenza. È stato, infatti, l’allenatore svedese (all’epoca c.t. dell’Inghilterra) a consigliargli di acquistare il Chelsea. «Quando ci siamo incontrati a Les Ambassadeurs (un casinò di Londra, ndc), mi sono trovato davanti tre uomini. Uno di loro era vestito in modo adeguato alla circostanza d’affari, il secondo così-così e il terzo pensavo fosse l’autista che aveva accompagnato gli altri due, visto com’era conciato. Ovviamente, Roman era proprio quest’ultimo...», ha rivelato.

Il sosia in Messico

Nel 2008 la Federazione messicana lanciò un allarme. Nel paese si aggirava un sosia di Sven Goran Eriksson, all’epoca c.t. del Messico. «I club del calcio messicano sono stati avvertiti di questa situazione affinché non si lascino sorprendere da questo individuo», aveva reso noto la Federazione. La decisione di avvisare i club era arrivata dopo che la televisione messicana aveva intercettato il falso Eriksson, mentre arrivava allo Stadio Olimpico Universitario per parlare con il tecnico dei Pumas di Unam, Ricardo Ferretti.

La minaccia di Sir Alex Ferguson

Nel 2019 Sven Goran Eriksson raccontò un episodio con protagonista Sir Alex Ferguson, ex tecnico del Manchester United. I due litigarono a causa di Wayne Rooney, che Eriksson voleva convocare malgrado si fosse rotto un piede poco tempo prima, mentre Ferguson voleva che restasse fuori dai 23, tanto da ribadirlo personalmente allo svedese in una telefonata dai toni accesi e coloriti: «Saranno state le sette o anche prima, ma con lui era sempre così quando era arrabbiato e mai una volta che dicesse “Ciao Sven, come stai?”. Urlava subito e pensavo sempre volesse uccidermi. E in effetti quella volta mi disse: “Ti ammazzo, sei finito, non convocare Rooney, perché sto per ucciderti”, ma io rappresentavo l’Inghilterra e dovevo prendere posizione, così gli risposi “Fot..i, cosa ti sta succedendo?”. Ma lui continuava a urlare. Allora gli ho detto: “Alex, io convocherò Rooney. Ora ciao e buona vacanza”», il racconto.

Dino Baggio.

Da ilnapolista.it il 17 gennaio 2022.

A Tv7 l’ex calciatore Dino Baggio ha parlato della morte di Vialli e del doping nel calcio.

 “Bisognerebbe investigare sulle sostanze che abbiamo preso in quel periodo. Il doping c’è sempre stato. Bisogna capire se certi integratori col tempo hanno fatto male. Ho paura anch’io, sta succedendo a troppi calciatori”. Dino Baggio, ex centrocampista di Juventus, Inter, Parma e Lazio, ha parlato della scomparsa di Gianluca Vialli, lanciando preoccupanti timori. Baggio ha giocato con Vialli ai tempi della Juve, dal 1992 al 1994 e con la Nazionale. “Bisognerebbe risalire a quello che abbiamo preso in quei periodi – ha dichiarato ai microfoni di Tv7 -, bisognerebbe investigare un po’, sulle sostanze prese in quei periodi. Non so se sia dovuto a questo. C’è sempre stato il doping. Non si sono mai prese robe strane, perché c’è una percentuale che devi tenere. Però con il tempo bisogna vedere se certi integratori fanno bene oppure no”.

Dino Baggio lancia l’allarme sul doping: “Sta succedendo a troppi calciatori. Negli anni miei c’era il doping. Non prendevi robe strane, prendevi robe normali ma poi bisogna vedere se col tempo riesci a buttarle fuori o restano dentro. Poi tanti hanno parlato dell’erba dei campi e dei prodotti che utilizzavano che davano dei problemi”. Su Vialli e gli anni passati insieme: “Ho un ricordo meraviglioso di Gianluca, era un uomo spogliatoio e aveva voglia di far crescere i giovani. Ero in squadra con lui quando avevo 21 anni e spendeva sempre una parola buona nei nostri riguardi. È andato via troppo presto dalle nostre vite”.

Dino Baggio dopo la morte di Vialli: «In quegli anni troppa chimica. Ho il terrore di stare male». L’ex centrocampista di Juve, Inter e Nazionale: «I medici ci prescrivevano tanti integratori e i campi su cui giocavamo erano tutti trattati chimicamente». Andrea Pistore su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2023.

Dino Baggio, 51 anni (foto archivio)

«Vialli? Se n’è andato troppo presto, bisognerebbe indagare sulle sostanze che abbiamo preso in quel periodo». Dino Baggio non fatica a ritornare sulle paure che lo attanagliano da quando ha smesso di giocare. Il cinquantunenne padovano, ex centrocampista della nazionale (due i mondiali disputati) e della Juventus, che ha vestito le maglie di Torino, Inter, Parma, Lazio, Blackburn, Ancona e Triestina, e che con Gianluca Vialli ha conquistato una Coppa Uefa, proprio dalla morte dell’ex compagno ha tratto lo spunto per una riflessione su ciò che i medici facevano assumere agli sportivi negli anni novanta.

Baggio, lei sostiene che bisognerebbe investigare sulle sostanze che prendevate trent’anni fa, che cosa significa?

«In quel periodo venivamo sottoposti a controlli ogni tre giorni, quindi l’antidoping ha funzionato. I prodotti che abbiamo assunto erano tutti leciti, altrimenti saremmo andati incontro a maxi squalifiche. Quello che mi piacerebbe capire, con approfondimenti scientifici, è se quei prodotti a lungo termine possano averci creato problemi di salute».

Chi vi consigliava cosa prendere?

«Il medico della squadra, nessun giocatore poteva assumere alcuna sostanza senza l’approvazione del dottore che seguiva la squadra».

Pensa di essere stato “dopato” a sua insaputa?

«No, ma il doping c’è sempre stato in tutti gli sport e anche i controlli sono stati efficaci. Nessun giocatore aveva interesse ad assumere sostanze illecite perché il rischio di non giocare più era tanto».

Ci fa il nome di qualche medico con cui ha lavorato in quegli anni?

«No, il mio è un discorso generale e non è di sicuro la Juventus il bersaglio delle mie perplessità. Tutti gli sportivi prendono integratori perché bruci talmente tanto che devi recuperare in qualche modo e sono sicuro che tutti abbiano fatto uso di prodotti leciti, il problema è capire se alla lunga quelle sostanze possano averci fatto del male. E poi c’è un’altra cosa che mi preoccupa».

Dino Baggio e i suoi 50 anni: «Roby era un fratello, Vialli è l’esempio. Il mio sogno? Correre in auto» (24 agosto 2021)

Quale?

«I campi su cui giocavamo erano tutti trattati chimicamente, non si sa bene con quali sostanze. Questo mi fa riflettere. Venivano impiegati disinfestanti per tenere in ordine i terreni di gioco e non sappiamo cosa abbiamo respirato. I campi avevano degli odori particolari».

Oggi la situazione com’è?

«Di sicuro c’è una conoscenza molto più ampia rispetto a 30 anni fa. Si usano tantissimi prodotti naturali, i nostri erano chimici. Io ho cercato di eliminare tutto, mangiando solo prodotti sani di cui conosco la provenienza».

Ha paura?

«Vorrei capire esattamente gli effetti dei prodotti che i medici ci consigliavano. Non sto accusando nessuno ma ho il terrore di stare male e di fare la fine di alcuni colleghi. Penso alle morti per tumore e leucemia di Gianluca (Vialli, ndr) o di Sinisa (Mihajlović, ndr) ma non solo. Ci sono stati giocatori uccisi dalla Sla come Borgonovo o Signorini. Come mai queste malattie colpiscono tanti ex atleti?».

Di Gianluca Vialli che ricordo ha?

«Un ragazzo esemplare, professionista al 100% sia fuori, sia dentro il campo. Aveva un cuore d’oro e il più bel ricordo è quello della vittoria della Coppa Uefa. Un uomo spogliatoio, un trascinatore. È andato via troppo presto, poteva ancora dare tantissimo al nostro calcio. La vittoria degli Europei nel 2021 è soprattutto merito suo. La sua morte è un dispiacere enorme».

Dino Baggio, allarme doping. Dopo Vialli il calcio ha paura. L'ex centrocampista: "Servirebbe indagare, in quegli anni troppa chimica". Allerta lanciata pure da Lotito. Marcello Di Dio il 18 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Nessuna accusa alla cieca, ma una grande paura di fronte alla morte, prematura, di tanti suoi ex colleghi. L'ultima quella di Gianluca Vialli, suo compagno di squadra alla Juve trent'anni, di pochi giorni successiva a quella di Sinisa Mihajlovic. L'ex centrocampista Dino Baggio, 51 anni, oltre 300 presenze in serie A tra il 1990 e il 2004 e 60 con le Nazionali di Sacchi, Maldini e Zoff, in un'intervista tv si è detto preoccupato per i tanti calciatori della sua generazione scomparsi a causa di gravi malattie. In molti, sentendo le sue parole, avranno ripensato a quell'inchiesta sul doping che toccò la Juve dopo l'accusa di Zeman («fuori il calcio dalle farmacie»), portando sul banco dei testimoni lo stesso Vialli.

«Gianluca se n'è andato troppo presto, è stato terribile, ma il mio è un discorso generale e non è di sicuro la Juventus il bersaglio delle mie perplessità. Bisognerebbe indagare sulle sostanze che abbiamo preso in quel periodo, ho paura di star male anch'io...», le frasi di Dino Baggio. Preoccupato per la possibile correlazione tra sostanze assunte e appunto queste gravi malattie. «Il doping c'è sempre stato in tutti gli sport, io non ho mai usato sostanze proibite né mi sono state proposte, eravamo controllatissimi, dovevi passare dal medico sociale anche per curare una tonsillite...», ha detto ancora Baggio.

Troppa chimica in quegli anni, tra integratori e sostanze iniettate ai calciatori oltre ai diserbanti usati per la manutenzione dei campi di calcio. «Ricordo che l'erba del terreno dove giocavamo aveva un odore strano, non come quella del giardino di casa tua quando la tagli - la sottolineatura dell'ex centrocampista veneto -. Ecco, mi piacerebbe conoscere gli effetti a lungo termine di questi prodotti chimici sul mio corpo. Gli integratori non erano illeciti, ripeto, ma ora non si prende più quello che si prendeva negli anni '90».

La necessità di approfondimenti su alcune malattie troppo ricorrenti nel calcio era stata già sottolineata dal presidente della Lazio Claudio Lotito subito dopo la morte di Mihajlovic e negli ultimi, inutili, scampoli di resistenza al tumore di Vialli: «Potrebbero essere legate al tipo di stress, alle cure. Non c'è nessun discorso scientifico, ma ci dobbiamo chiedere perché sono così frequenti».

«Lasciate in pace Vialli, non sto pensando a lui come a un oggetto di indagine, ma come ha detto Dino Baggio ci sarebbero tante domande da fare... - ha detto il dirigente ed ex calciatore Walter Sabatini -. La moria di calciatori è lunghissima e i sospetti sono consistenti e giustificabili, legati ai metodi di una volta: non erano probabilmente sistemi di doping, ma un sistema di sostegno integrativo che portato a dosi eccessive. Ci si accorge dopo dei danni? Ci sono passato anche io quando avevo 18 o 20 anni, passavano i medici ti facevano punture e non sapevo quello che mi iniettavano, mi fidavo di loro. Per ora sono stato fortunato...».

Dal caso «madre» del viola Bruno Beatrice - «ucciso» da una serie killer di Raggi Roentgen per curare una pubalgia che gli provocò una leucemia linfoblastica acuta - centinaia sono state le morti misteriose nel calcio italiano. E nel 2005, ha ricordato Avvenire pochi giorni dopo la scomparsa di Vialli, l'ex giudice della Procura di Torino Guariniello che istruì il primo processo penale per doping nel pallone, affidò all'Istituto Superiore di Sanità la ricerca che venne effettuata su un campione di 24mila calciatori di serie A, B e C. La ricerca si chiuse con 350 giocatori morti per diverse patologie e l'allarme per l'incidenza raddoppiata di decessi per tumore al pancreas. Proprio quello fatale all'ex sampdoriano. In quello studio, inoltre, si denunciò per la prima volta anche l'incidenza della Sla (Sclerosi laterale amiotrofica). Male oscuro per il quale Vialli con Massimo Mauro aveva creato la Fondazione che reca i loro nomi al fine di finanziare la ricerca scientifica.

Umberto Lenzini.

Sor Umberto, il palazzinaro romantico che ricostruì la Lazio. Lenzini prese in pugno una squadra dissolta e pur scivolando spesso vinse il primo scudetto: per tutti i biancocelesti, per sempre, Il Presidente. Paolo Lazzari il 14 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Se ne stava per giorni interi appollaiato dietro le vetrine appannate dell’emporio. Quel posto traboccante e colorato riceveva un andirivieni incessante di clienti. I signori Lenzini, che poi erano i suoi genitori, si sfregavano le mani. Erano emigrati poverissimi dall’Italia e, adesso, gli armadi di casa gli usavano per premerci dentro montagne di verdoni. Abbastanza per lasciare il Colorado, che li aveva accolti così benevolmente, per la voglia di rivalsa verso un paese che non aveva mai scucito niente.

Con tutti quei soldi convertiti in lire, i Lenzini, avevano iniziato a comprare terreni nei dintorni di Roma, e a tirar su palazzi. Il piccolo Umberto, cresciuto in mezzo a una selva di gru e calcestruzzo, ancora non poteva saperlo ma quell’eredità avrebbe fatto la sua fortuna. Mentre i suoi si davano all’edilizia, lui si dilettava con il pallone tra i piedi, sbocciando gradualmente. Era un prospetto abile e guizzante, ma non sarebbe stato quello il maggiore dei flirt con il calcio.

Molti anni più tardi, con suo fratello Carlo, si mette in testa di acquistare un club di Serie A. I soldi in cassa ci sono e l’impresa non pare peregrina. A dire il vero, tra i due, quello più convinto è Carlo: dice che la maggior parte del cash la verserà lui, lasciando a Umberto lo scranno da presidente. Solo che un giorno, mentre si trova a bordo di un piroscafo che lo sta conducendo in America, un infarto se lo porta via. D’un tratto Umberto si ritrova da solo con un sogno nato gemello. Così la faccenda sarà più intricata, rimugina, ma non improponibile.

Allora, quando scocca il 1965, diventa il padrone della Lazio. Afferra, a dire il vero, una creatura incandescente: il club si sta avvitando, soverchiato dai debiti. Lo spogliatoio è inciso da una faglia profondissima. Lui però conquista con un savoir faire disorientante: se non gli vai a genio sbatte quei grossi pugni sul tavolo. Se possiedi un carisma tracimante, lo patisce e diventa più mellifluo. A Roma abita in un super attico in Piazza Carpegna: luce in abbondanza e bici necessaria per spostarsi da una stanza all’altra. All’Olimpico, invece, fa il giro del campo con un bicchiere di rosso in mano, ammansendo anche i tifosi più recalcitranti. Sempre con un sorriso sornione, calato sotto un naso ingombrante e, volendo risalire più su, due gigantesche borse violacee sotto gli occhi.

Lenzini ci sa decisamente fare: smazza biglietti omaggio come fossero canditi. Organizza e paga trasferte gloriose, premendo nei bus anche orchestrine che improvvisano fanfare sgangherate. Oltre il gran battage che agita intorno a sé, però, alleva un sogno concreto: vincere il primo scudetto del club. L’incipit racconta l’esatto opposto: al secondo anno di presidenza sprofonda in serie B. Risale prontamente dopo un biennio, ma è soltanto per fare la spola. Di nuovo penosamente risucchiato giù, nel giro di quattro anni.

La svolta giunge ingaggiando il pisano Tommaso Maestrelli, anni 49. Segni particolari: specialista in imprese improbabili, avendo issato il Foggia in A e la Reggina in B. La Lazio torna subito in serie A e si popola di calciatori rampanti. Felice Pulici tra i pali, un giovane D’Amico dal vivaio, l’illuminato Frustalupi nel mezzo e il vigoroso Re Cecconi al suo fianco. Davanti gioca Giorgio Chinaglia, garanzia di grane multiple per le difese altrui. Lenzini ci crede, ma la squadra si vede scivolare via il primato tra le mani all’ultima giornata, giungendo terza.

Si tratta, comunque, del preludio ad un successo imminente. Un anno dopo la Lazio di Lenzini solleva il primo scudetto in assoluto, addomesticando la rincorsa furente del Napoli e intiepidendo le pretese della Juve di Bettega e Zoff. Una squadra, quella, di cristallo. La rosa conta soltanto sedici elementi effettivi, ma per fortuna nessuno si fa male. Lo spogliatoio è diviso in clan. Chinaglia ne è tuttavia il leader indiscusso, tanto a parole quanto nei fatti, dal momento che distribuisce pedate solenni a chi non corre. La zona è il mantra di Maestrelli. La Lazio afferra le briglie del campionato e non le molla più per 17 giornate.

Lenzini, munifico, distribuisce premi e finalmente gongola. La sera dello scudetto porta tutti in un celeberrimo night del centro, per bere e sollazzarsi. Durerà poco. Quello scudetto resta il capolavoro intonso del Presidente, prima che tutto cominci a franare. Nel giro di pochi anni, Umberto deve fare i conti con la morte di Maestrelli e quella, terribile, di Re Cecconi. Poi arriva l’infamia del calcio scommesse e gli arresti che piovono in sequenza, mentre Chinaglia è già volato negli States. Una discesa negli inferi che culmina con la retrocessione d’ufficio in serie B. Quella Lazio magnificamente ricostruita dalle sue macerie, torna a sgretolarsi di nuovo.

Lenzini mollerà la sua creatura dopo un’entropia lunga 15 anni ed un immenso patrimonio dilapidato. Il sogno romantico del primo scudetto pretende un contrappasso eccessivo. Oltre lo sfacelo che segue la gloria, però, Umberto ha conseguito un altro successo: rimanere, per sempre, "Il Presidente" dei laziali.

LA ROMA.

Carlo Mazzone.

Dino Viola.

Falcao.

Agostino Di Bartolomei.

Giuseppe Giannini.

Damiano Tommasi.

Francesco Totti.

Carlo Mazzone.

E’ morto l’ allenatore Carlo Mazzone, aveva 86 anni. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Agosto 2023

I messaggi di commozione arrivano da tutta Italia, da giocatori e tifosi del passato e del presente che con lui hanno condiviso un pezzo di strada.

Si è spento all’età di 86 anni Carlo Mazzone, allenatore “storico” della Roma e di tante altre squadre di calcio arrivando a detenere il record di presenze di 792 partite in panchina nel massimo campionato di serie A . Nel 2019 gli è stata intitolata la nuova tribuna Est dello Stadio Cino e Lillo Del Duca di Ascoli Piceno, e nello stesso anno è stato inserito nella Hall of Fame del calcio italiano. Allenatore amatissimo dai tifosi e dai grandi campioni, da Francesco Totti a Roberto Baggio fino a Pep Guardiola e Andrea Pirlo, Carletto Mazzone lascia un vuoto enorme sopratutto a livello umano, nel calcio italiano.

Ha allenato dodici club, Ascoli, Fiorentina, Catanzaro, Bologna, Lecce, Pescara, Cagliari, Roma, Napoli, Perugia, Brescia e Livorno, alcuni dei quali a più riprese. Anche per questo oggi i messaggi di commozione arrivano da tutta Italia, da giocatori e tifosi del passato e del presente che con lui hanno condiviso un pezzo di strada. 

“Carlo Mazzone era un uomo genuino e verace, custode dei valori più sani dello sport. Un grande allenatore, amato da tutti perché ha rappresentato un calcio vicino al popolo e ai suoi tifosi. Mi stringo al dolore della famiglia e di tutti i suoi conoscenti. Ci mancherai Carletto”, scrive in un tweet il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

“Carlo Mazzone prosegue la sua corsa…nell’altra vita, lasciandoci i ricordi di un grande allenatore e del ‘suo’ calcio: appassionato, schietto, genuino e sano, con uno stile che non vorremmo mai definire di altri tempi, ma che facciamo fatica a ritrovare in questi. Ciao Mister!”, il tweet del ministro dello Sport, Andrea Abodi.

“La Figc si unisce al cordoglio del calcio italiano per la scomparsa di Carlo Mazzone, all’età di 86 anni. Nato a Roma il 19 marzo 1937, ha legato gran parte della sua carriera di calciatore all’Ascoli, dopo aver vestito anche le maglie di Latina, Roma, Spal e Siena”, scrive la Federcalcio sul suo sito. “Sempre con il club marchigiano iniziò ad allenare, portando l’Ascoli dalla Serie C alla Serie A (1974), prima di tornare a guidare i bianconeri dal 1980 al 1984. Mazzone è stato anche l’allenatore di Fiorentina, Catanzaro, Bologna, Lecce, Pescara, Cagliari, Roma, Napoli, Perugia, Brescia e Livorno, entrando nel 2019 a far parte della Hall of Fame del calcio italiano, istituita nel 2011 dalla FIGC e dalla Fondazione Museo del Calcio per celebrare giocatori, allenatori, arbitri e dirigenti capaci di lasciare un segno indelebile nella storia del nostro calcio“. 

“Carlo Mazzone rappresenta una icona calcistica che ha catturato il mio cuore – scrive Gigi Buffon sul suo profilo Instagram – La passione travolgente che riversava nelle squadre è stata davvero unica e irripetibile”. “A riprova del suo magnifico temperamento ho un aneddoto fantastico a margine di un Parma-Brescia finita 3-0. Sul punteggio di 1 a 0 ed a 15 minuti dalla fine ho fatto una tripla parata che ha salvato il risultato. A fine gara mi ha incrociato e in mezzo a una trentina di persone mi ha detto ‘A Buffon… ma che t’ho fatto?? Oggi me sembravi Lazzaro… che te rialzavi sempre!’. La notizia della sua scomparsa lascia un vuoto incolmabile, ma il suo impatto resterà per sempre vivo“

“Carlo Mazzone è stato un simbolo del calcio. Era il decano degli allenatori, con il record di quasi 800 panchine in serie A. Ha dato tantissimo a questo sport sotto ogni profilo, tecnico, sportivo e umano. La Lega Serie A si unisce commossa al cordoglio della famiglia e di tutti i tifosi italiani”, scrive in una nota il presidente della Lega di Serie A, Lorenzo Casini. 

“Ciao Mister. Ti vorremo sempre un bene immenso. Forza Roma!”, il saluto dell’As Roma. “L’Atalanta  esprime il suo cordoglio ai familiari per la scomparsa di Carlo Mazzone, avversario in campo di tante battaglie sportive”, scrive il club su Twitter. La famosa corsa sotto la curva di Mazzone era diretta contro la tifoseria della Dea durante il derby del settembre 2001, dopo il pareggio del suo Brescia a firma Baggio e il mantenimento della promessa di andare ad affrontare gli ultras dopo gli insulti a lui rivolti. 

“Sei e sarai sempre nel mio cuore. Grazie per tutto quello che hai fatto per me”. Sono le parole su Instagram di Francesco Totti per la morte di Carlo Mazzone, a cui Totti deve tanto, se non tantissimo. Un allenatore e un secondo padre, come ha sempre ricordato il numero 10 della Roma. Sotto la guida dell’allenatore trasteverino Totti ha cominciato a vivere la sua lunghissima favola con la maglia della Roma. Redazione CdG 1947

Biografia di Carlo Mazzone. Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

Carlo Mazzone, nato a Roma il 19 marzo 1937 (85 anni). Ex allenatore di calcio. Ha il record delle panchine in Serie A, 795 (strappato nel 2006 a Nereo Rocco, che era arrivato a 787). «Io sono come Trap, solo che i miei scudetti sono le salvezze». 

Vita

Difensore, cresciuto nella giovanili della Roma, dopo una stagione con il Latina in Prima divisione tornò con i giallorossi ed esordì in Serie A il 31 maggio 1959 (Fiorentina-Roma 1-1). Due sole presenze con la Roma. Poi una stagione con la Spal e nove con l’Ascoli (219 partite e 11 gol)

• «È sbarcato il 17 ottobre 1960 a Ascoli da giovane calciatore. “Ero un ragazzo, mi chiamò il presidente della Roma, Anacleto Gianni. ‘Carlo devi andare a giocare a Ascoli, ti servirà per crescere, poi torni alla Roma’. Non sapevo neanche dov’era Ascoli. Attraversai Piazza del Popolo, rimasi colpito dalla sua bellezza e tra me e me dissi: Ao’, ma qui è bello come a Roma”» (Guido De Carolis)

• «La mia maestra è stata la sfortuna che ha mi troncato la carriera di calciatore dell’Ascoli facendomi fratturare la tibia e cambiare mestiere restando nel mondo che amavo. Il male fisico mi ha insegnato tanto, da uomo e da calciatore. Ma la mia fortuna fu Rozzi, il presidente bravo, serio, intelligente e buono che fermò la mia disperazione dicendo: “Carlo, non ti preoccupare, guarito o no starai sempre con me”, e mi dette la guida della squadra in Serie C, con piena responsabilità, “Fai tu”, e io feci C,B,A, che bella avventura, che soddisfazione...”» (a Italo Cucci)

• «Il suo mondo (anche oggi) è Ascoli, la stessa città di un altro grandissimo sanguigno allenatore, il professor Carlo Vittori, il mentore di Pietro Mennea. E infatti i due per un certo periodo lavorarono addirittura insieme nel calcio. Ad Ascoli e alla Fiorentina: Mazzone allenatore, Vittori preparatore. Il datore di lavoro di Mazzone è Costantino Rozzi, un costruttore rampante che va in panchina accanto a Mazzone, sobbalzando a ogni tiro, e con i calzini rossi perché portano fortuna. 

L’Ascoli di quegli anni torna a essere una roccaforte medievale, Rozzi e Mazzone sono due signori feudali che comandano e hanno potere, e vincono, e stanno lassù dispettosi e spudorati tra i grandi. Ad Ascoli, con Mazzone e subito dopo, arriva gente come Anastasi, Brady, Bruno Giordano, Dirceu, Casagrande, Bierhoff. Mazzone è il signore di un’Italia sfacciata e ambiziosa che va da Ascoli a Catanzaro, da Bologna a Lecce, da Pescara a Cagliari, da Perugia a Brescia a Livorno. Un’Italia che testardamente pretende e ottiene la Serie A con lui» (Fabrizio Bocca)

• «Ha messo assieme soltanto due promozioni in Serie A (Ascoli 1974 e Lecce 1988) e una promozione in B (Ascoli 1972). La grande occasione arrivò nel triennio alla sua amatissima Roma, dal 1993 al 1996: ma era solo una Rometta (“M’avete dato una Formula 1, sì: ma con le ruote sgonfie”, disse poi) e il miglior risultato furono due quinti posti. Anche a Perugia, nel 2000, non vinse lo scudetto (come avrebbe potuto?) ma lo veicolò alla Lazio, paradossale per un ultrà romanista come lui, battendo la Juventus sotto il diluvio» (Francesco Zucchini)

• «Un uomo capace di unire e lasciare un bel ricordo in ognuna delle 12 squadre allenate in Italia. Un signore pulito, in un calcio spesso torbido. Un mago delle salvezze impossibili, un eccezionale scopritore di talenti. 

Fu lui a lanciare un Francesco Totti appena sedicenne nella Roma, fu lui a spostare Andrea Pirlo davanti alla difesa, regalandogli poi una straordinaria carriera. Fu lui a recuperare Roberto Baggio, a donargli gli ultimi eccezionali anni di calcio. Un allenatore amato dai più grandi, anche dal miglior tecnico del mondo, Pep Guardiola che mentre vinceva tutto il possibile con il Barcellona, non si è mai dimenticato di invitarlo.

Mazzone era a casa, pochi giorni prima della finale di Champions 2009 tra Barça e Manchester United. “Nonno, corri c’è Guardiola al telefono – mi dice mio nipote –. Chi è? Chiedo. ‘Mister, sono Pep’. Sì e io Garibaldi. E invece era lui che mi invitava alla finale a Roma”, raccontò anni fa Mazzone. Quello di Guardiola erano affetto e riconoscenza per gli anni insieme a Brescia» (Guido De Carolis)

• «Nel 2001 il destino di Mazzone incrociò quello di un giovane Pirlo. Succedeva a Brescia, tappa intermedia di una carriera ancora incellophanata, cinque mesi di parentesi tra le incomprensioni all’Inter e l’esplosione al Milan. Pirlo passa al Brescia alla fine del mercato di gennaio, Mazzone ricorda: “Lo arretrai e lo piazzai davanti alla difesa, gli spalancai un mondo nuovo. Era il suo ruolo, era lì che doveva giocare. Prima era un trequartista come tanti, diventò il regista più forte del mondo. Ma non per merito mio, eh”» (Furio Zara)

• È passata alla storia la sua corsa sotto il settore occupato dai tifosi dell’Atalanta, dopo il 3-3 del Brescia, il 30 settembre 2001. «E chi se lo scorda quel derby, poi proprio io che certe sfide ne ho affrontate tante, a Roma e non solo. E quel giorno nun me lo dimentico, magari ve sembro rimbambito ma nella mia capoccia ce sta’ tutto... 

Noi andammo in vantaggio con Baggio, forse festeggiammo troppo e infatti l’Atalanta ce ribaltò e se portò sul 3-1. In campo era una battaglia, ma me dava più fastidio sentire già a fine primo tempo dalla curva dei bergamaschi i cori beceri che mi trafissero er core: “Carletto Mazzone romano de merda, Carletto Mazzone figlio di puttana” e altro ancora. Non lo accettai, soprattutto pensando alla mia povera mamma che mi era morta giovanissima fra le braccia.

Me venne il sangue agli occhi perché non era solo un’offesa nei miei confronti, si volevano colpire i miei affetti. Dissi al mio vice Menichini: “Nun ce sto, nun ce vedo più, me stanno a fa’ impazzì de rabbia. Mo’ vado e li meno... Andai dal quarto uomo e gli dissi: “Stamme bene a senti’, tu devi scrive’ tutto sul tuo taccuino, perché mo t’avviso che sto fori de testa. Se pareggiamo scrivi tutto. 

Proprio in quel momento Baggio segnò il 2 a 3 e già lì fu difficile sta’ zitto. Mi rivolsi alla curva dell’Atalanta e mi scappo una frase: “E mo se famo il 3 a 3 vengo sotto lì da voi…”. Me l’aspettavo, me stavo già preparando. Al gol del 3-3 cominciai a correre verso quella curva con il pugno chiuso, più correvo e più urlavo “Mo arivo, mo arivo…”. Il mio vice Menichini provò a fermarmi ma ormai nun ce stavo più colla capoccia, avevano toccano i miei sentimenti più cari.

Mi trovai davanti alla rete, fu allora che capii e mi fermai. Poi andai da Collina e gli dissi: “Buttame fori, me lo merito. Però sui giornali mi trattarono come un vecchio rimbambito, e io col sorriso dissi che era tutta colpa del mio fratello gemello. E pure de Baggio che aveva fatto tre gol» (a Giulio Mola). Per quella corsa fu squalificato per cinque partite 

 • «Io ho sempre fatto un calcio che chiamo “di conseguenza”. Mi spiego: il grande cuoco dà il meglio di sé preparando il grande piatto con quello che ha. Se avevo gente che sapeva giocare, giocavamo. Se avevo gente di corsa, si correva... Non puoi fare il 4-4-2 a prescindere se non hai gli esterni d’attacco. Ma poi quelli che inventano il calcio sono altri...» (a Tuttosport)

• Ha interpretato sé stesso nel film L’allenatore nel Pallone 2 (regia di Sergio Martino, 2008). con Lino Banfi

• Nel 2019 l’Ascoli gli ha intitolato la Tribuna Est dello stadio Del Duca

• Sposato dal 7 luglio del 1963 con Maria Pia. «Una donna sempre allegra da cui ha avuto Sabrina e Massimo, il figlio che l’accompagnava ovunque in giro per l’Italia: da Lecce a Brescia, passando per gli anni alla Roma e fino all’ultima tappa al Livorno nel 2006. Poi Carlo è diventato nonno con i nipoti Vanessa, Alessio (di fatto il suo social media manager) e Iole. Infine Cristian, l’ultimo arrivato che l’ha reso bisnonno» (Guido De Carolis). Mazzone e la moglie vivono ad Ascoli, nel quartiere Monteverde.

Processi

Dal 1975 al 1978 sulla panchina della Fiorentina, è finito tra gli indagati per la morte del calciatore Bruno Beatrice, avvenuta nel 1987, a soli 39 anni, per una leucemia che secondo una perizia disposta dal pm potrebbe essere stata causata da una terapia con raggi Roentgen fatta al giocatore nel 1976 per curare una pubalgia (accusa: omicidio preterintenzionale). 

Difesa di Mazzone: «Arrivai a Firenze che avevo solo 38 anni, ero un tecnico emergente che i raggi Roentgen non sapeva neppure cosa fossero. Solo 20 anni fa ne ho conosciuta l’esistenza. Non ho mai interferito con le scelte dello staff medico, se lo avessi fatto non sarei stato un buon allenatore, a Coverciano ci insegnano la tattica non la medicina». Nel gennaio del 2009 la procura di Firenze ha archiviato il caso, caduto in prescrizione. 

Soprannomi

«Alla vigilia di una difficile sfida contro la Juventus, il giornalista romano Alberto Marchesi, suo amico, inviato del Corriere dello Sport, va in Calabria a osservare gli allenamenti del Catanzaro. Al termine della seduta va da Mazzone e gli dice: “Ma sai che siete proprio bravi. Secondo me con la Juve potete pure vincere”. Carletto si illumina e parte la battuta: “Magara!”. “Magara – spiegherà poi – in romano significa ‘magari’, ma un ‘magari’ che dici di fronte ad una prospettiva davvero bella”. Tornato a Roma, Marchesi scrive l’articolo per il Corriere dello Sport, e fin dalle prime righe chiama l’amico Mazzone “Er Magara”. Il Catanzaro bloccherà sullo 0-0 la Juventus e quel soprannome da quel momento in poi accompagnerà Mazzone per il resto della carriera» (Paolo Camedda).

Frasi

«La tecnica è il pane dei ricchi, la tattica è il pane dei poveri»

• «Come diceva mio padre, me devono solo impara’ a mori’»

• «L’angoscia, lo stress, quelli li conosco solo io»

• «“Amede’, quante partite hai fatto?”. “350, mister”. “E quanti gol?”. “Quattro, mister”. “E allora ’ndo cazzo vai”» (al terzino della Roma Amedeo Carboni, che aveva la tendenza ad avanzare troppo)

• «Battere la Roma? È mio dovere provarci. Ma è come uccidere la propria madre»

• «Guardi, uno che ha fatto Ascoli-Sambenedettese credo che, sul piano dell’intensità emozionale, abbia provato tutto» (a proposito del derby di Roma)

• «Sono sempre stato un cane sciolto. Avanti tutta, come un navigatore solitario. Mai avuto padrini, né sponsor. Mai fatto parte di lobby di potenti dirigenti, mai goduto del favore di giornalisti condiscendenti o di raccomandazioni» (in uno storico litigio in diretta tv con Enrico Varriale). 

Social

Inattesa popolarità sui social network grazie al nipote Alessio che dal 2021 gestisce i profili Instagram, Facebook e Twitter del nonno. «Ha festeggiato gli 84 anni postando una foto davanti a un cabaret di zeppole alla crema, il dolce per la festa del papà. Il web è impazzito. L’immagine, come usa dire, è diventata virale. 

Sor Carletto si è commosso: “Grazie a tutti per gli auguri, grazie per esserci sempre anche a distanza di tanti anni! Il bello di questa pagina è sentire il vostro affetto nei miei confronti! Non smetterò mai di ringraziarvi! Grazie. Vi voglio bene”» (Guido De Carolis).

La storia della corsa di Mazzone sotto la curva durante Brescia-Atalanta, nel 2001. Storia di Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera sabato 19 agosto 2023.

Carlo Mazzone , 19 agosto 2023. Aveva 86 anni e alle spalle una carriera impareggiabile da allenatore: suo il record di panchine in serie A. Ripubblichiamo l’articolo sulla storia di uno dei gesti che l’hanno consegnato alla storia del calcio: la corsa sotto la curva dell’Atalanta, nel 2001, quando allenava il Brescia. Sono passati più di due decenni – e tanto altro è accaduto – dalla corsa da centometrista di Carletto Mazzone in quel Brescia-Atalanta 3-3 del 30 settembre 2001. Una delle immagini epiche del nostro calcio, stampata in maniera indelebile di chi c’era. «Ho fatto 795 panchine in serie A e va a finire che verrò ricordato per quella corsa», disse il tecnico romano, innamorato del calcio e di Francesco Totti. «La rifarei. Perché i cori che l’avevano preceduta erano stati la cosa peggiore che si può sentire: la mamma è la cosa più importante», aggiunse in un’intervista celebrativa per il suo 80esimo compleanno, compiuti nel 2017. In quel pomeriggio di inizio autunno, la corsa di Mazzone riuscì a oscurare persino Pep Guardiola, in tribuna da giocatore del Brescia per assistere al derby lombardo, il più caldo. I fatti: l’Atalanta vince 3-1 e alla fine della partita mancano più o meno 15 minuti. Le Rondinelle accorciano con Baggio e Mazzone esulta. È teso e non vuole più sopportare gli insulti e le offese che gli piovono addosso contro la sua romanità, ma soprattutto contro l’amata mamma Jole scomparsa già da molti anni, dai tifosi bergamaschi. E invece di arrabbiarsi o rispondere con brutti gesti, dirà: «Se famo 3-3 vado sotto la curva». Tutti lo sentono, ma nessuno pensa che il Brescia possa portare a compimento la rimonta. Ma nessuno fa i conti con il 3-3 firmato ancora da Baggio. Detto, fatto. Accade l’incredibile. Carlo Mazzone fa uno scatto da centometrista (20 anni dopo, comparve anche in una meme nel quale l’allenatore superava al traguardo Marcell Jacobs e vince i 100 metri di Tokyo): «Ho provato a fermarlo, ma ho lasciato perdere», le parole dell’addetto agli ispettori di Lega Cesare Zanibelli, che presto desiste. Mazzone corre, non si ferma e non si fa raggiungere dal vice Leonardo Menichini e dal team manager Edoardo Piovani. Arriva sotto la curva dell’Atalanta e scarica lì, impavido, tutta la tensione che ha accumulato in quei 90 minuti più recupero. «Erano 20 anni che non facevo uno scatto del genere, sono arrivato con il cuore in gola. Le provocazioni erano tante. Mi è stata toccata mia madre e la mia città…», raccontò poi nel documentario «Come un padre». E il nipote — in un articolo apparso sulla Gazzetta dello Sport nel 2018 — ricordò: «Mi hanno raccontato che appena rientrato nello spogliatoio nonno telefonò a casa per tranquillizzare tutti. Poco tempo fa a San Benedetto l’hanno fermato tre tifosi dell’Atalanta per scusarsi e fargli i complimenti». Con l’avvento dei social è questa, forse, l’immagine del nostro calcio che circola di più, oltre 20 anni dopo.

Carlo Mazzone, un allenatore che rendeva umani gli errori: il suo calcio, da Totti a Baggio. Storia di Luca Valdiserri Corriere della Sera 20 Agosto 2023

«La tecnica è il pane dei ricchi, la tattica è quello dei poveri». Carlo Mazzone, morto ieri a 86 anni, quasi 40 dei quali vissuti da allenatore, ha avuto spesso a che fare con il pane duro. Le sue 792 panchine sono state figlie di una gavetta vera, non gli è stato regalato nulla. Però, ogni volta che ha potuto, ha intinto quel pane nel caviale del calcio più paradisiaco. Lo hanno spesso accusato di essere un difensivista, ma ha conquistato il cuore dei numeri 10 più raffinati — da Roberto Baggio a Francesco Totti — e ha dato qualche dritta a chi poi, con le idee e con i soldi, ha fatto davvero la rivoluzione del pallone: Pep Guardiola.

Carletto se ne è andato a 86 anni, proprio quando il campionato stava per cominciare. Le parole più belle non le ha dette un calciatore ma un musicista, Marco Conidi, grande tifoso giallorosso come Mazzone: «Forse sei voluto andare via prima di vedere un altro campionato così lontano dal calcio che hai insegnato tu, dove il rispetto e l’educazione erano tutto...Forse non volevi vederlo più questo calcio senza uomini, senza bandiere».

Francesco Totti ha esordito in serie A con Vujadin Boskov in panchina, su suggerimento di Sinisa Mihajlovic, ma è stato Mazzone a schierarlo per la prima volta da titolare in giallorosso: «Padre, mister e maestro. Eternamente grazie. Sei e sarai sempre nel mio cuore. Grazie per tutto quello che hai fatto per me». E Roberto Baggio, al Brescia, è tornato Divin Codino quando in tanti lo avevano scaricato: «Era un gigante di umanità. Per lui avrei fatto l’impossibile. Gli ho voluto bene perché è sempre stato un uomo puro. Con lui c’era un rapporto senza filtri di rispetto reciproco. Lui più di tutti aveva capito che persona sono. È andato oltre quello che gli avevano raccontato di me».

Mazzone ha girato l’Italia in panchina trentotto anni, di emozioni e risultati. Ha portato l’Ascoli in serie A; a Firenze ha dato la fascia di capitano a Antognoni e vinto un trofeo Anglo-Italiano; ha riportato il Cagliari in Europa dopo 21 anni di assenza; ha vinto una Coppa Intertoto con il Bologna; ha inventato Pirlo regista al Brescia; è stato il primo allenatore dell’era-Sensi alla Roma e ha lanciato Totti, che vale più di uno scudetto. La vittoria che più gli era rimasta nel cuore è stata il derby contro la Lazio del 27 novembre 1994: un 3-0 contro Zeman, che veniva presentato come il calcio moderno contro il suo calcio antico. Ai laziali, però, quando era sulla panchina del Perugia ha fatto un grande regalo: battere la Juve nel pantano e decidere il campionato 2000. «Ci voleva un romanista per far vincere lo scudetto alla Lazio», disse il sor Carletto. Anche i siti laziali, ieri, erano pieni di ricordi e ringraziamenti.

Era un uomo vero, che sapeva riconoscere gli errori che tutti commettiamo, rendendoli umani. Come la corsa folle del 30 settembre 2001, che gli costò 5 giornate di squalifica. Allenava il Brescia, perdeva 1-3 contro l’Atalanta e la curva nerazzurra lo scherniva. Poi il 3-2 e un pensiero in romanesco: «“Se famo er tre pari, je vado sotto la curva”». Pareggia Baggio, Carletto parte davvero. «Ma quello non ero io — dirà poi —. Era il mio gemello».

Chi era sor Carletto, i momenti cult di Carlo Mazzone

Lo chiamavano Er Magara perché alla vigilia di una missione impossibile con il Catanzaro contro la Juventus, un giornalista romano gi disse: «La tua squadra va forte, potete mettere in difficoltà la Juve?». Lui rispose: «Magari!». Poi il giornalista esagerò: «Potete pure vincere». E lì uscì il Mazzone vero: «Magara!». Che in romanesco è un magari moltiplicato cento.

Carlo Mazzone, 1937-2023

Da tempo era lontano da un calcio che non era più il suo. Un calcio senza riconoscenza, come Mazzone aveva capito quando Francesco Totti, il suo preferito, fu prima umiliato e poi praticamente costretto a smettere: «Non doveva finire così, non è stato giusto per chi ci ha fatto così tanto divertire». E anche noi, col Magara, ci siamo divertiti. Come in una corsa sfrenata contro l’ingiustizia.

Carletto Mazzone, il ricordo di Totti: "Un padre e un maestro. Grazie mister". Il tempo il 19 agosto 2023

Carletto Mazzone è stato per Francesco Totti "padre, mister, maestro. Semplicemente Carlo Mazzone". Questo il ricordo dello storico numero 10 della Roma nel giorno della morte dell'allenatore, all'età di 86 anni. "Eternamente grazie, mister", commenta oggi Totti. E dietro queste parole si celano motivazioni legate alle origini calcistiche del talento giallorosso.

Mazzone ha allenato la Roma tra il 1993 e il 1996 e proprio quando era alla guida del club di Trigoria lanciò in prima squadra Francesco Totti, che all'epoca era a un passo dall'essere ceduto alla Sampdoria. Ma oggi un altro big romanista ha voluto ricordare con affetto il verace mister. Si tratta di Bruno Conti, ala storica della Roma e campione del mondo di Spagna '82. "Buon viaggio Carletto, sempre nei nostri cuori". Ha scritto Conti, pubblicando sui social una foto di Mazzone allo stadio Olimpico con indosso la sciarpa giallorossa.

Carlo Mazzone, morto lo storico allenatore: aveva 86 anni. Nella Roma lanciò Totti in prima squadra. Estratto da ilmessaggero.it sabato 19 agosto 2023.

Il calcio piange la morte di Carlo Mazzone, allenatore anche della Roma. Aveva 86 anni. Conosciuto come Sor Carletto o Sor Magara, era il detentore di record di panchine in Serie A: 792 ufficiali, 797 considerando i cinque spareggi. Nel 2019 gli è stata intitolata la nuova tribuna Est dello Stadio Cino e Lillo Del Duca di Ascoli Piceno, e nello stesso anno è stato inserito nella Hall of Fame del calcio italiano. Amatissimo a Roma, squadra che ha allenato dal 1993 al 1996. I tre anni con i giallorossi furono caratterizzati da un settimo posto e due quinti posti. Durante la sua permanenza, lanciò in prima squadra Francesco Totti

G.B. Olivero per La Gazzetta dello Sport – 27 ottobre 2018 

Che bella invenzione i nonni. Uno sguardo a volte severo ma perennemente comprensivo; una parola adatta a ogni situazione; un sorriso che cancella le delusioni. Carlo Mazzone, oggi, è un nonno ma in realtà lo era anche quando allenava: «Tratto i miei nipoti come trattavo i calciatori: insegnando il rispetto e l’educazione». I calciatori se lo sono goduto per tanti anni, dal 1968 (debutto ad Ascoli) al 2006 (sipario a Livorno). Adesso tocca ai nipoti. Se volete scorgere la sagoma imponente di Mazzone dovete andare ad Ascoli o, in estate, a San Benedetto. Lo vedrete fare una passeggiata al mattino o lo incrocerete al pomeriggio mentre va al circolo per una partitina a carte con gli amici di sempre. Ma l’attività preferita è godersi la famiglia, a lungo lasciata… in panchina. 

Da 55 anni la moglie Maria Pia è l’inseparabile compagna di vita: la donna che spesso assorbiva un po’ delle tensioni del suo uomo. Da questo matrimonio sono nati Sabrina e Massimo. E poi i quattro nipoti: Vanessa e Alessio (rispettivamente 27 e 20 anni, figli di Sabrina), Iole (17, figlia di Massimo) e il piccolo Cristian (2, figlio di Vanessa). Non solo nonno, anche bisnonno. Tutta la famiglia abita ad Ascoli e da lì Mazzone non si muove rifiutando quasi ogni invito e dribblando le interviste: «Un po’ per non fare torto a nessuno e un po’ perché non vuole più sottrarre tempo a noi», racconta Alessio, la nostra guida nel mondo di un allenatore atipico e di un uomo schietto, leale, impulsivo, generoso. 

NIENTE TELEFONO- A qualche domanda, comunque, sor Carlettorisponde. Che poi nemmeno si tratta di domande: sono ricordi, viaggi nel tempo, immagini che si rincorrono, momenti che non si possono dimenticare. «Qualche giorno fa Guardiola ha parlato benissimo di me. Mi sono commosso. Per me Pep è come un figlio, seguo le sue partite in tv, faccio il tifo per lui: una persona rispettosa e meravigliosa che ha segnato la mia vita e la carriera». E che gli dedicò un pensiero stupendo quattro giorni prima della finale di Champions a Roma tra il suo Barcellona e il Manchester United (2009) 

«Squillò il telefono, andò a rispondere mio nipote. “Nonno, c’è Guardiola al telefono”. Io sbuffo, prendo la cornetta: “Pronto, chi è?”. E lui: “Mister, sono Pep”. “Sì, e io sono Garibaldi”. I miei amici di Ascoli mi fanno spesso degli scherzi, pensavo fossero loro. “No, mister, sono davvero Pep. Volevo invitarla alla finale”. “Pep, ma tu tra quattro giorni giochi la finale di Champions e pensi a me?”. “Sì, mister: penso a lei e la voglio in tribuna”. Ci andai. E lui vinse». A squillare fu il telefono di casa perché Mazzone non ha mai avuto un cellulare: quando deve mandare un messaggio a Totti o Baggio usa quello della moglie. A Natale, invece, parte la chiamata: «Anche Totti è come un figlio. Ho letto quello che ha scritto di me sul suo libro e mi sono venuti i brividi. Baggio era come Francesco: rispettoso, un grande uomo dentro e fuori dal campo. Se avessi potuto farli giocare insieme, avrei perso meno capelli. Quando li sento sono felice». 

VIDEOCASSETTE - Questa è una storia di calcio e di buoni sentimenti, di valori antichi e intuizioni tattiche: «In allenamento vidi che Pirlo avrebbe potuto esaltare la sua eccelsa tecnica arretrando la posizione. Quell’intuizione ha generato buoni frutti per me e per lui che è un ragazzo fantastico». Ragazzi, per Carletto sono ancora tutti ragazzi. Pure se loro hanno superato i 40 e lui ha festeggiato gli 80 nel marzo 2017 con una grande festa in famiglia. Per celebrare il nonno, Alessio ha aperto una pagina Facebook e Instagram a suo nome: «Così può ricevere i messaggi dei tifosi che gli vogliono bene. Ho pubblicato i video-auguri di Totti, Materazzi, Bonera e tanti altri. Al nonno piace stare in compagnia. Quando siamo tutti insieme, gli leggi negli occhi la felicità. Per tanti anni vedeva la nonna solo il lunedì perché lei non lo seguiva. E’ stata dura, anche perché nella giornata libera il nonno voleva rivedere le partite che faceva registrare. Mi hanno raccontato che c’erano tante videocassette a casa». 

QUELLA CORSA E LE SCUSE - Su youtube Alessio ha visto spesso la famosa corsa ai tempi del Brescia sotto la curva dell’Atalanta per rispondere agli insulti: «Mi hanno raccontato che appena rientrato nello spogliatoio nonno telefonò a casa per tranquillizzare tutti. Poco tempo fa a San Benedetto l’hanno fermato tre tifosi dell’Atalanta per scusarsi e fargli i complimenti. Che uomo, il nonno: con noi nipoti è sempre stato severo ma dolce e negli ultimi anni si è ulteriormente intenerito, ci concede qualcosa in più. Ha mandato me e la mia fidanzata Giulia a rappresentarlo all’addio di Pirlo: quella sera ho sentito racconti commoventi sul suo conto». 

Alessio ha giocato nelle giovanili dell’Ascoli, ma Mazzone non è mai andato a vederlo per evitare che qualcuno pensasse a una sua spintarella. In tv, invece, Carletto guarda tutte le partite: Serie A, Premier, Serie B, basta che il pallone rotoli. «E tifa per le sue ex squadre. A volte fa qualche commento tecnico, mi dice quali sostituzioni effettuerebbe». D’altronde, anche da nonno, Mazzone resta sempre un allenatore. E l’ultima frase che ci regala è anche uno splendido ritratto di se stesso: «Io sono sereno, mi godo la vita e i nipoti. Per me allenare era una grande passione; rendere felici i tifosi era una missione. Ho dato tutto me stesso, è stata una bellissima avventura». 

ORIGINALE Amedeo Carboni era un terzino della Roma che amava sganciarsi. In una partita del 1994-95 lo fece troppe volte e Mazzone sbottò: "Amede’, quante partite hai fatto?". "350, mister". "E quanti gol ?". "4, mister". "E allora ‘ndo caz... vai!!!". 

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 Francesco Persili per Dagospia – 07-11-2022

"Questo è il mio allenatore? Ma è matto?". Guardiola non credette ai suoi occhi quando vide Carletto Mazzone correre sotto la curva dei tifosi dell’Atalanta dopo il 3-3 del Brescia. All’allora direttore sportivo delle Rondinelle, Gianluca Nani, seduto in tribuna accanto a lui, l’attuale tecnico del Manchester City disse: “Ma le partite in Italia sono tutte così?”.

Si ride e ci si commuove con il docu-film su Prime Video di Alessio Di Cosimo, “Come un padre”, che racconta vita, carriera, incazzature e battute del “Sor Magara”, al secolo Carlo Mazzone. “La corsa sotto la curva dell’Atalanta? Erano 20 anni che non facevo uno scatto del genere, sono arrivato con il cuore in gola. Le provocazioni erano tante. Mi è stata toccata mia madre e la mia città…” 

Guardiola, a ripensare agli anni di Brescia con lui, Pirlo, Roberto Baggio, pennella: “Fu una lezione d’umiltà, che nella vita serve tanto. A Brescia si vinceva poco, ma quando si vinceva si godeva veramente". Calcio dai piedi buoni e valori umani. Le magie del “Divin Codino” e il premio salvezza devoluto al figlio di Vittorio Mero scomparso in un incidente stradale. 

Nella tutela e valorizzazione del talento calcistico Mazzone resta un punto di riferimento. Ha accompagnato l’esplosione di Totti (“Sapeva come gestirmi, se ci fosse stato lui, ancora sarei in campo”), reinventato Pirlo centrale davanti alla difesa, rilanciato Baggio e Signori, che ricorda quando si presentò negli spogliatoi del Bologna: “Ahò, 24 teste non riesco a capirle, famo che voi cercate de capì la mia”. 

Dopo la prima rete di Beppe gol in maglia rossoblù alla Roma, gli mormorò: “Per la prima volta so’ contento che un laziale fa un gol contro la Roma”. Il fedelissimo Enrico Nicolini: “Ogni anno Mazzone ha vinto lo scudetto dell’onestà”. Su di lui nemmeno una nuvola, un’ombra, un sospetto quando la serie A fu attraversata dallo scandalo scommesse: “Amava ripetere: ‘Posso dire di tutto a tutti ma non tutti possono dire di tutto a me”. Nel finale avvelenato della stagione 99-00, la vittoria del suo Perugia all’ultima giornata contro la Juve consegnò lo scudetto alla Lazio. Lui gonfiò il petto e piazzò la stoccatina: “C’è voluto un romanista per far vincere un campionato alla Lazio”.

“Difensore scivoloso, difensore pericoloso”, Marco Materazzi ricorda i moniti di Carletto e vede delle analogie tra il “Sor Magara” e Mourinho: “Entrambi creano un ambiente speciale in cui tutti sono pronti a buttarsi nel fuoco”. Il segreto per andare d’accordo con lui? “Vuoi essere il miglior amico mio? Gioca bene”.

Cappioli demolisce il luogo comune di Mazzone catenacciaro: “Ma che difensivista, al Cagliari attaccavamo come matti”. Nell’ultimo anno di Roma 3-4-3, e via andare. Solo un gol di Vavra ai tempi supplementari della partita di ritorno con lo Slavia Praga gli negò la semifinale di Coppa Uefa. Prima dell’addio alla sua Roma, si avvicinò negli spogliatoi a Di Biagio e gli sussurrò: “Ahò, non avemo vinto niente ma ammazza le risate che se semo fatti…”

Recordman di panchine, fu il primo a vedere Pirlo regista. Addio a Carlo Mazzone, l’allenatore papà di tanti giocatori. La ‘clausola’ di Baggio, l’esordio di Totti e l’accoglienza a Guardiola: “Io qui non ti volevo”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 19 Agosto 2023 

Fu uno dei primi giocatore-allenatore, lanciò Totti in prima squadra e si lanciò in una memorabile corsa sotto la curva dei tifosi dell’Atalanta nel derby ripreso dal suo Brescia, quello di Roby Baggio che nel suo contratto con il club dell’allora presidente Luigi Corioni fece mettere una clausola che prevedeva l’interruzione dell’accordo qualora il tecnico romano fosse stato esonerato. Il calcio e l’Italia piangono Carlo Mazzone, uno dei personaggi più schietti e carismatici degli ultimi decenni. Aveva 86 anni, se ne è andato nella sua città adottiva, Ascoli, dove viveva da tempo insieme alla moglie e ai figli.

Un allenatore primatista: Carletto ha allenato ininterrottamente per circa 38 anni (dal 1968 al 2006), stabilendo il record di panchine nella storia del calcio italiano, con 1.278 panchine ufficiali, di cui ben 792 partite (797, calcolando anche 5 spareggi) in serie A (altro record).

Un tecnico esperto di salvezze ma anche grande innovatore: fu lui a reinventare Andrea Pirlo nel ruolo che lo ha poi consacrato come uno dei migliori centrocampisti al mondo. Fu lui a lanciare Francesco Totti a 16 anni in prima squadra, vincendo anche le resistenze dell’allora presidente Franco Sensi che voleva acquistare, su indicazione dell’allora tecnico Carlo Bianchi, il finlandese dell’Ajax Jary Litmanen, cedendo Totti in prestito alla Sampdoria.

E’ stato un allenatore di provincia, esperto di salvezze e di quella cultura del lavoro giorno dopo giorno. Un allenatore che ha però ispirato Pep Guardiola, che Mazzone ebbe a Brescia per un breve periodo all’inizio del Duemila. “E’ stato un papà per me. Venivo dal Barcellona, dove ero stato capitano e bandiera e mi disse ‘Pep, io non ti volevo, non so che ci fai qua, ho preso Giunti dal Milan, ma tu sei molto fortunato, ti vorrò bene e ti farò giocare’“. Lo stesso Guardiola che nel 2009 invitò Mazzone alla finale di Champions League tra Barcellona e Manchester Utd e al termine della partita gli dedicò la vittoria.

Nato a Trastevere e cresciuto nelle giovanili della sua Roma, Mazzone esordì in serie A con la maglia giallorossa, poi venne ceduto prima alla Spal e poi in serie C (Siena). La svolta arriva con il trasferimento ad Ascoli dove, da difensore, giocò quasi nove anni, condizionati anche da un grave infortunio. Fu il presidente del club marchigiano, Costantino Rozzi, ad affidargli più volte la panchina a stagione in corso. E ad Ascoli il suo nome rimarrà per sempre legato alla prima storica promozione in Serie A, una delle prime in Italia a giocare un calcio totale ‘all’olandese’, come andava di moda in quegli anni ’70.

Indimenticabile il sesto posto conquistato in campionato alla guida del Cagliari e la celebre corsa sotto la curva bergamasca nel derby ripreso dal suo Brescia (3-3). Una corsa, anticipata con quel “se ve famo il terzo vengo sotto la curva”, per vendicare “le offese fatte a mia madre, a Roma quelle parole sono una cosa molto grave“. Oltre ad Ascoli, Cagliari, Roma e Brescia, ha allenato Fiorentina, Catanzaro, Bologna, Lecce, Pescara, Napoli, Perugia e Livorno.

Terminata nel 2006 la carriera di allenatore e stabilitosi nella sua Ascoli, ‘nonno‘ Mazzone nel 2008 appare in un piccolo cameo interpretando sé stesso nel film “L’allenatore nel pallone 2“, in cui dialoga a bordo di un treno con l’allenatore della Longobarda Oronzo Canà, interpretato da Lino Banfi.

Lo scorso novembre 2022 su Prime Video è stato diffuso il docufilm “Come un padre” di Alessio Di Cosimo (con la collaborazione di Iole Mazzone, nipote di Carletto). Un lavoro arricchito dalle interviste a tanti suoi ex giocatori come Roberto Baggio, Marco Materazzi, Pep Guardiola, Francesco Totti, Andrea Pirlo, Giuseppe Giannini, Giuseppe Signori, Dario Hubner, Gigi Di Biagio, Claudio Ranieri e i gemelli Antonio ed Emanuele Filippini. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista. 

Ciao Sor Carletto, quella corsa è stata l’ultima immagine romantica del calcio che abbiamo amato. Massimo Mattei su Il riformista il 19 Agosto 2023 

Carletto Mazzone era patrimonio di quel calcio che abbiamo amato e che non riesce più ad appassionarci. Per questo oggi in tanti lo stiamo piangendo, sui social in poco tempo stiamo vedendo una marea di affetto, una volta tanto non divisivo, e in tutti i gruppi whatsapp che abbiamo qualcuno ci manda la notizia che l’allenatore con più presenze in serie A se n’è andato. Perché lui era altro.

Da chi accetta contratti miliardari e va a giocare in campionati finti e da chi, perfino la panchina più importante la baratta sull’altare di un ingaggio faraonico.

Mazzone no. Eppure di panchine ne aveva girate tante lasciando in ogni città il buon sapore delle cose oneste e genuine.

Carletto Mazzone trasteverino, che è un po’ come essere romano al cubo, è stato uno scopritore di talenti (Antognoni, ma anche Totti esplose definitivamente con lui) e rigeneratore di uomini emarginati da un calcio che già stava cambiando (Roberto Baggio), non è stato soltanto quello del “se ve famo il terzo vengo sotto la curva” (per poi andarci correndo quando il genio la palla in rete la mise dentro davvero); ma quella corsa è stata l’ultima immagine romantica del calcio che abbiamo amato, quello che da ragazzini ci teneva incollati alle radioline e che ci faceva aspettare Paolo Valenti alle 18,10, Domenica sprint alle 20 e ci teneva svegli almeno fino alla moviola di Carlo Sassi. Perché poi ci mandavano a letto.

Bearzot, la partita a scopone sull’aereo al ritorno da Madrid, Paolino Rossi, Novantesimo minuto, Martellini che per tre volte con la voce commossa dice “Campioni del mondo” in una notte di luglio, Ciotti, Vianello, Maradona, lo scudetto dell’Hellas e della Sampdoria. Le battute di Boskov e le sfuriate del Sor Carletto. Un tempo che non c’è più, che sa di nostalgia è vero. Ma la nostalgia si ha per le cose belle.

Aveva ancora senso guardare le partite e appassionarsi anche davanti alla TV. Perché c’erano persone come Mazzone morto nel giorno che comincia il campionato e non poteva essere altrimenti.

Ciao Sor Magara, ti piangeranno tutti gli sportivi e tutte le curve, al di là dei colori.

Davvero. Ed ogni curva oggi vorrebbe vederti correre sotto per l’ultima volta.

Non capita a tutti. Ai grandi come te sì.

Massimo Mattei

Patrizio Bati per “La Stampa – Specchio” - Estratti lunedì 28 agosto 2023

Negli ultimi vent'anni ogni volta che Carlo Mazzone passava di fronte alla sede dell'Ascoli Calcio, Corso Vittorio Emanuele 21, toccava la targa di travertino della società affissa sul muro del palazzo. Era il suo modo per mostrare affetto e riconoscenza verso la squadra con cui - grazie a una geniale intuizione del Presidente Costantino Rozzi - aveva esordito, nel 1968, come allenatore in Serie C. 

Affetto e riconoscenza anche verso la città che l'aveva amorevolmente accolto e che lui, romano, aveva scelto di rendere sua dimora stabile dove far crescere i figli e ritirarsi a fine carriera: l'anno scorso il Consiglio Comunale di Ascoli Piceno aveva perfino deliberato - all'unanimità - il conferimento della cittadinanza onoraria. Cerimonia. Emozione. Sindaco. Pergamena. Applausi. 

Lacrime. Palmo di mano su targa di travertino. Era un gesto che faceva sempre, anche quando la sua andatura era diventata più lenta, ormai solo lontano ricordo della liberatoria corsa dalla panchina del Brescia (di cui, anche, era stato allenatore) alla curva dell'Atalanta, dopo il 3 a 3 di Baggio a siglare una insperata rimonta. 

A un'altra corsa di Carlo Mazzone ho, però, assistito personalmente. Una corsa di cui solo io, alcuni miei amici e, forse, qualche raro automobilista di passaggio siamo stati testimoni.

Anni Novanta, Carletto allenatore della Roma. La squadra, prima delle partite casalinghe, alloggia sempre all'Hotel Cicerone (quartiere Prati), a pochi minuti dallo stadio. Passando davanti all'albergo una di quelle notti in cui, da ragazzini, vagavamo per la città senza obiettivi (e ormai quasi rassegnati a tornarcene a casa), lo riconosciamo - sigaretta in bocca - fuori dalla porta girevole dell'Hotel Cicerone. 

Siamo in otto: cinque in una Lancia Delta e tre in una Opel Corsa. Galvanizzati dall'occasione di interagire con il Mister ci fermiamo cento metri più avanti e, affiancate le auto, cominciamo a elaborare un piano. Tra di noi: romanisti, laziali e non interessati al calcio. Marco, laziale, terzo anno di sociologia, dice che sarebbe un'ottima occasione per verificare - in condizioni sfavorevoli e lontano dalle telecamere - il vero attaccamento di Mazzone alla maglia giallorossa. I laziali ridacchiano. I romanisti accettano l'esperimento.

I disinteressati al calcio diventano interessati alla sfida. Bisogna agire in fretta, prima della fine della sua pausa sigaretta. 

La Opel Corsa torna verso l'hotel, dove Carlo si sta godendo gli ultimi tiri in compagnia di un quarantenne con la tuta della squadra, probabile membro dello staff tecnico.

Io e gli altri due occupanti scendiamo dall'auto, proclamandoci accaniti romanisti.

Pacche sulle spalle. Complimenti. Sorrisi. Raccomandazioni. In quel momento passa la seconda macchina, con dentro i nostri complici. Affacciati ai finestrini urlano forza Lazio suscitando l'ira nostra e di Mazzone.

L'uomo in tuta, conoscendo l'irruenza del Mister, gli propone di rientrare in albergo per ragionare insieme sul piano di recupero di due infortunati. Mazzone risponde sbrigativo che preferisce stare ancora qualche minuto fuori a chiacchierare con i suoi tifosi. Altre pacche sulle spalle. Altri complimenti. Altri sorrisi. Altre raccomandazioni. All'improvviso, ancora quella Lancia Delta. 

Stavolta, però, i nostri amici insultano in modo pesante la Roma e i romanisti. Un paio di noi provano ad inseguirli ma la luce dei fari si fa sempre più piccola, fino a sparire nel buio.

Sbollita la rabbia, Carlo sta per congedarsi. Cerchiamo di trattenerlo ancora, con qualche domanda-esca, sapendo che i primi due passaggi sono stati preparatori e che al terzo, ormai imminente, scatterà la trappola. Quaranta secondi, trenta, venti: il profilo della Lancia di nuovo all'orizzonte. Nessuna parola, questa volta. Nessun insulto. Nessuna provocazione seguita da fuga.

Accostano. Cinte alla mano, scendono tutti e cinque. Si dirigono compatti verso una stradina secondaria da dove, ricominciando ad insultarci, ci invitano allo scontro. Noi tre "romanisti" partiamo alla carica. Fino a che punto il Mister sarà disposto a difendere l'onore della squadra di cui è attualmente allenatore e di cui - da sempre - si dichiara accanito tifoso? 

Una frazione di secondo dopo, scatta anche lui. Sfuggendo alla presa dell'uomo in tuta che - senza riuscirci - cerca di trattenerlo. Scatta, non si sa se con l'intento di sedare la rissa o di prendervi parte. Comunque schierato in prima fila. L'arco della pancia che anticipa la giacca, i mocassini che pattinano sul marciapiede. In una corsa che preconizza quella di quindici anni dopo verso la curva atalantina. Ci prepariamo allo scontro, un gruppo di fronte all'altro.

Un calcio da parte dei presunti nemici vibra, a vuoto, per intimorirci. Nessuno di noi, Mister compreso, indietreggia di un passo! Dalle finestre ci urlano di aver chiamato i carabinieri, ottimo pretesto per dileguarci a esperimento già concluso e a rissa non ancora iniziata. Mazzone ha confermato pure ai laziali che, per difendere l'onore della Roma, è pronto ad affrontare anche provocatori di trent'anni più giovani

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Allenatore di Roma, Brescia e Bologna, nella Capitale lanciò Francesco Totti in prima squadra. CorriereTv su Il Corriere della Sera il 19 agosto 2023

Recordman di panchine in Serie A, Mazzone inizia la sua carriera da allenatore all'Ascoli, in Serie C, nel 1968, portando i marchigiani fino alla massima serie. Dopo l'avventura, durata sette anni con un ritorno dal 1980 al 1984 il tecnico romano guida negli anni seguenti con alterne fortune Bologna, Lecce, Pescara e Cagliari.  Dal 1993 al 1996 allena la Roma, la sua squadra del cuore. Nei tre anni in giallorosso lancia Francesco Totti in prima squadra Nel 1998, dopo le parentesi negative di Cagliari e Napoli (dove lasciò dopo 4 giornate), riparte dal Bologna che conduce fino alla semifinale di Coppa Uefa e di Coppa Italia. Poi arriva il Perugia e soprattutto il Brescia nel 2000, dove trova Roberto Baggio con cui forma un connubio indimenticabile, portando le 'rondinelle' fino alle porte della qualificazione in Coppa Uefa. Di lui si ricorda ancora oggi a distanza di circa 20 anni la corsa sotto la curva dell'Atalanta quando guidava il Brescia al termine di un combattutissimo 3-3. Le ultime esperienze di una carriera lunghissima lo riportano a Bologna dal 2003 al 2005. Mazzone chiuderà la sua carriera a Livorno in quel calcio di provincia dove tutto era cominciato quasi 40 anni prima.

Estratto dell’articolo di Davide Chinellato per gazzetta.it domenica 20 agosto 2023.

È stata una festa all’Etihad Stadium. Eppure nella voce di Pep Guardiola c’è una vena di tristezza. Il City ha battuto 1-0 il Newcastle, ha festeggiato nella prima partita casalinga della stagione i trofei del triplete, più la Supercoppa Europea vinta mercoledì ai rigori col Siviglia. 

Pep si concede un giro d’onore dello stadio coi suoi giocatori, ma c’è sempre qualcosa che lo rattrista. Il motivo lo mostra quando incontra i giornalisti dopo la partita: addosso non ha il completo nero che aveva in panchina, ma una t-shirt bianca con un amico disegnato sopra: Carlo Mazzone. Un amico che oggi ha perso.

"È un giorno molto triste per me e la mia famiglia - spiega Pep […] -. Mister Mazzone (lo dice in perfetto italiano, anche se parla inglese, n.d.r.) è stato il mio allenatore a Brescia e oggi purtroppo è morto. Mando un grande abbraccio a tutta la la sua famiglia, a sua moglie e ai suoi figli e nipoti". 

Poi Pep apre il libro dei ricordi, per un allenatore a cui, da quegli anni assieme a Brescia, è rimasto molto legato. "Quando sono arrivato in Italia per me è stato un periodo duro. E lui è stato come un padre - racconta, illuminandosi -. Il calcio italiano ha perso una leggenda, una persona che ha avuto un impatto enorme su tutte le persone con cui è stato a contatto […]. Mando un grande abbraccio a tutta la sua famiglia".

[…]  "Mi sono ricordato che Edoardo Piovani un anno fa mi ha mandato questa t-shirt - ha detto con un sorriso, guardando la maglia che ha addosso -. Ho pensato che questo fosse il giorno giusto per indossarla".

Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport domenica 20 agosto 2023.

“E morto Mazzone”. Secco, sintetico, definitivo come un ad- dio. E il messaggio che intorno alle 16 di ieri mi ha inviato Massimo Cellino, accompagnandolo con la foto in bianco e nero della presentazione al Cagliari nel ’91: Cellino giovanissimo, Mazzone sempre uguale a Mazzone, giusto un filo più magro. 

E morto Mazzone, il nostro Carletto, l’allenatore del Corriere dello Sport-Stadio, e che nessuno si offenda. Mazzone romano de Roma, calciatore a Latina, Roma, Ferrara, Siena, Ascoli; allenatore sempre nell’Ascoli di Rozzi, e a Firenze, Catanzaro, Bologna, Lecce, Pescara, Cagliari, Roma, Na- poli, Perugia, Livorno. Brescia l’unico sconfinamento.

Fatico a non parlare dei nostri tanti incontri: Carletto e stato una presenza continua, affettuosa. Ricordo quando, insieme a Filippo Galli, Gino Corioni e Vittorio Petrone, riuscimmo a convincere Baggio ad an- dare al Brescia. Non ci volle molto. Mazzone e stato l’allenatore che Robi ha amato di più, quello che ha capito anche l’uomo. Oppure quando in precedenza, dopo aver seguito il presidente Sensi e la moglie fino a Lugano, dove avrebbe incontrato Carlos Bianchi, telefonai a Menichini, il suo secondo, per informarlo che il presidente stava per cambiare allenatore. Mazzone mi richiamo dopo un secondo per dire che non ci credeva, che non era vero. Era turbato, angosciato: gli stavano togliendo la Roma.

E l’ultima intervista a Bologna, all’hotel Amadeus. La squadra, a gennaio, era a un passo dalla zona Uefa; gli parlavo d’Europa e lui: «Non e finita, mancano ancora troppi punti». Ebbe maledettamente ragione: a fine stagione l’unica retrocessione della sua storia, un fallimento mai elaborato, a nulla servirono le attenuanti (Calciopoli) ripetutamente elencate dal presidente Gazzoni.

Carlo Mazzone e stato tutto e tanto: sparate indimenticabili, battute fulminanti, passioni corrisposte. Ha insegnato calcio, ma anche vita. E stato moderno, in particolare nel rispetto degli obiettivi e delle caratteristiche dei giocatori. Totti e Baggio i figli più amati, ma anche Guardiola. «La tecnica e il pane dei ricchi, la tattica e il pane dei poveri», uno dei suoi classici. «Battere la Roma? E mio dovere provarci, ma e come uccidere la propria madre», perché lui era colore.

«Gestire Roberto Baggio e stata una passeggiata. Era un amico che mi faceva vin- cere la domenica». «Un giorno mi chiamo il presidente Sensi. “Carlo, mi consigliano di prendere Litmanen, che faccio?”. Gli risposi: “Perché buttare i soldi, abbiamo il ragazzino” (era Francesco Totti)». 

Per descriverlo ai più giovani potrei proseguire con le frasi cult: sarebbe divertente, strapperebbero un sorriso, ma risulterei riduttivo. Da ore scorrono le immagini della sua folle corsa verso la curva atalantina, inseguito da Edo Piovani, il team manager bresciano, era il 30 settembre del 2001: le offese alla madre («Mazzone figlio di puttana») al gol del pareggio di Baggio al 92esimo produssero la leggendaria risposta fisica. «Buttame fuori, me lo merito» disse alla fine rivolgendosi all’arbitro Collina.

Da anni Mazzone si era ritirato a Ascoli, il tempo gli aveva cancellato la memoria. Per tutti noi era diventato una domanda, in particolare ogni 19 marzo, il giorno del compleanno: “come sta, il Magara?”. O “Menaje”, l’invito ai suoi che gli avevano attribuito ma che aveva sempre rinnegato. La sua pelle era la Roma. In un mondo di tagli sartoriali e calzoni slim, Mazzone indossava la tuta e d’inverno - per anni - la cuffia a nascondere pelata e idee, come a dire: «Sto a lavora’, sono uomo di campo, io».

Quanto l’abbiamo amato.

Il lutto nel mondo del calcio. Sor Carletto e Roma: un tifoso giallorosso ricorda la leggenda Mazzone. Carlo Mazzone è stato un grande allenatore. Ma, soprattutto, era uno di noi, un pezzo di noi, il testimonial perfetto nell’ideale rincorsa al dogma dell’essere romano e romanista. Roberto Giachetti su Il Riformista il 22 Agosto 2023 

“Presidente Sensi, abbiamo il regazzino, non serve buttare i soldi per Litmanen”.

“Amedè, te quante partite e quanti gol hai fatto in serie A? 350 e 4 gol? Ecco allora vojo proprio sapé ndo c.. vai torna subito in difesa”.

Provate a chiedere a un tifoso della Roma (no meglio, chiedete a un tifoso qualunque) di cosa stiamo parlando e non ci sarà nessuno che non vi risponda subito “beh, vabbè, è Carlo Mazzone”.

Un nome e un cognome di quelli talmente rappresentativi di un’epoca sportiva che oggi, ricordandolo nel momento della sua scomparsa, tocca quasi fare uno sforzo “emotivo” per reimmergersi nell’atmosfera di un calcio nostalgico, romantico, autentico, di cui Mazzone fu uno degli indiscussi protagonisti.

Erano gli anni delle “Romette”, infarcite di onesti giocatori e prive di talenti veri. Era una “Rometta” quella che nel 1994 rifilò tre gol alla Lazio di Zeman in un memorabile derby (trasmesso peraltro in chiaro sulla Rai) che proprio perché in qualche modo sovvertì tutti i pronostici della vigilia resta lì, indelebile, come uno dei più belli che ogni romanista ricordi. Balbo Cappioli Fonseca di fatto è diventato una sorta di scioglilingua tramandato nel tempo e che, non a caso, reca la firma di un personaggio come Mazzone che nei tre anni di Roma portò la squadra due volte al quinto posto e una al settimo e quindi, uno direbbe, perché?

Perché a quest’uomo tutti noi romanisti abbiamo voluto cosi bene? Ok, quel derby. Sì, certamente il fatto di essere stato lui lo scopritore dell’immenso talento del giocatore più forte della nostra storia potrebbe anche questa essere un’ottima ragione. Ma non basta a spiegare perché a quest’uomo, come ha ben ricordato Antonio Conte, è riuscito il capolavoro di essere amato da tutti indistintamente, anche dagli avversari. Lo hanno amato persino i tifosi dell’Atalanta, sotto la cui curva, ai tempi di Brescia, Carletto sfogò la tensione accumulata per gli insulti all’indirizzo della genitrice e al suo essere romano liberando tutta la sua stazza in una corsa sfrenata, coi collaboratori che cercavano invano di trattenerlo, e lanciando i più coloriti improperi della tradizione nostrana che nemmeno Alberto Sordi e Tomas Milian e Carlo Verdone e Mario Brega tutti insieme avrebbero pronunciato tanto bene.

Fateci caso, il repertorio di parolacce della lingua del Belli e di Trilussa nella bocca di Carlo Mazzone non ha mai fatto rima con un giudizio di pura volgarità. In quel mondo quasi antico in cui Mazzone si è formato ed è cresciuto, tra le piazze di Trastevere, la sua veracità, i suoi modi spicci e sanguigni, la severità del formatore di talenti purissimi come lo sono stati Totti e Pirlo, la tigna nel voler rilanciare campioni affermati, come Signori e soprattutto Baggio, mi appaiono tutti dei tratti quasi consustanziali alla romanità nella sua versione migliore.

E mi sembrano queste sì, delle ottime ragioni tra le altre, per cui noi romanisti lo abbiamo amato così visceralmente, perché, al di là dei gusti personali o del giudizio sull’allenatore, Carlo Mazzone era uno di noi, un pezzo di noi, il testimonial perfetto nell’ideale rincorsa al dogma dell’essere romano e romanista che poi ha trovato in Claudio Ranieri, Francesco Totti, Daniele De Rossi – in ordine sparso – le incarnazioni segnatamente più importanti. E tuttavia pensare di ridurre il ricordo di Mazzone indugiando unicamente sul piano umano rischia di mettere in ombra, invece, le altre ragioni per cui dobbiamo celebrarlo. Dobbiamo farlo perché è stato certamente un padre per Totti, certamente un maestro per il maestro della panchina Pep Guardiola o per quello in mezzo al campo Andrea Pirlo.

Ma Mazzone è stato soprattutto un grande allenatore, come per la Roma e quindi per Roma, così con l’Ascoli dei record e quindi per Ascoli, dove adesso riposa. È stato Lecce, Bologna, Brescia. Conte, Signori, Baggio. Ha riconosciuto e valorizzato il talento, lo ha trattato mettendovi a servizio la squadra e mai il contrario, nella convinzione della eterna superiorità della tecnica, il pane dei ricchi, sulla tattica, quello dei poveri, come amava sempre ripetere. Non so se, parafrasando quello che gli diceva suo padre, Carletto abbia “imparato a morì”. Di sicuro a noi, tifosi e appassionati, qualcosa su come si possa vivere lo sport e quindi la vita, con passione entusiasmo e verità, da persona meravigliosa qual’era io credo proprio ce l’abbia insegnato.

Roberto Giachetti

Da ilnapolista.it martedì 22 agosto 2023.

“Al funerale di Carlo Mazzone, l’uomo del record di panchine in Serie A, non c’erano vertici della Federcalcio, ne della Lega, ne i campioni a lui più legati” 

Il racconto della cerimonia parla di un evento commovente e pieno di calcio, come sarebbe piaciuto all’ex tecnico. 

“C’erano Walter Novellino e Serse Cosmi, Vincent Candela e Beppe Iachini, Massimiliano Cappioli e Alessandro Calori, Roberto Muzzi, Giovanni Galli e Gianluca Pagliuca. E c’erano soprattutto le maglie da calcio. Le indossavano i bambini, quelli di Ascoli e i piccoli Dybala giallorossi in trasferta; ma le indossava anche chi bambino non e piu da molti e molti anni, come i “veterani del 1974” che ricordavano orgogliosi la promozione in Serie A dell’Ascoli guidato dall’allora 37enne Carlo Mazzone” 

Il presidente della Fifa, Gianni Infantino, aveva ricordato l’ex allenatore scomparso in una storia su Instagram 

“Sei stato un grande, un personaggio inarrivabile. Non sussurravi: urlavi, perché il tuo messaggio fosse forte e chiaro, anche quando correvi sotto le curve dei tifosi avversari”.

Dino Viola.

Dino Viola e la Roma: una lunga storia d'amore. Il presidente del secondo scudetto aveva sempre amato il giallorosso, anche prima di assumere le redini del club: cronaca di un sentimento irresistibile. Paolo Lazzari il 1 Luglio 2023 su Il Giornale.

Dino si aggancia ai respingenti del tram ogni pomeriggio. Poi sfila via fendendo la città, invisibile, silenzioso. La sua figura sottile si sgancia da quel passaggio gratuito soltanto in prossimità di Campo Testaccio. Scende già vestito per la partitella, scarpini un po' consunti ai piedi, indosso l'unica maglia giallorossa che il club gli ha fornito. Dietro ci vorrebbe scrivere "Viola", che poi sarebbe il suo cognome, ma non è ancora quello il tempo giusto, le casacche restano immacolate. Comunque quando gioca per i ragazzini di quella squadra lì, che poi sarebbe la Roma, è come se qualcosa lo facesse sussultare ogni volta. Toscano di nascita, romanista d'adozione.

Poi un giorno il suo amico Silvio Piola lo tira per un braccio. "Eddai, sei bravo, vieni a fare un provino alla Lazio". Dino Viola ci va pure. E lo passerebbe anche. Ma quella per lui è la metà sbagliata del cielo. Equivarrebbe ad ingerire una compressa di cianuro. No, non può accettare. Un rigurgito d'amore per la Roma lo costringe a declinare la gentile offerta. Un adolescente con i sentimenti già limpidi.

Certe volte le infatuazioni giovanili si distillano. Questa invece si propaga irresistibile. Dino pensa continuamente alla Roma. Rimugina sui sentimenti ancestrali che lo legano al club. Si sofferma spesso a fantasticare, pensando che magari un giorno potrebbe fare qualcosa anche lui per contribuire ad accrescerne la gloria. E nemmeno quando nella sua vita subentra un altro amore, quello per la moglie Flora - sposata nel 1942 - quella torcida interiore si dissipa. Anzi. Ad una manciata di giorni dalla luna di miele la convince a sciropparsi 40 km di bicicletta per raggiungere il campo del Livorno, dove gioca la formazione del suo cuore.

Viola nutre una passione viscerale. Lapilli emotivi che pervadono e ti disarmano. Continua a seguirla senza sosta, giurando a Flora che comunque lui ha due amori soltanto nella vita, lei e la squadra. E nel frattempo accorcia sempre di più le distanze dal posto che desidera abitare fin da bambino. Perché Dino fa il pilota collaudatore, ma l'atterraggio della sua vita dev'essere un posto differente dai campi dell'aviazione militare. Dev'essere la Roma.

Dapprima entra nel Consiglio d'amministrazione. Poi, con l'accavallarsi del tempo, riesce a scalare il suo sogno. Il 16 maggio 1979 acquisisce il pacchetto di maggioranza del club assieme al socio e amico di sempre Antonio Cacciavillani. L'impresa gli è riuscita grazie alle palanche che zampillano dalla sua azienda di macchinari di precisione per uso militare, ma appena si assesta dietro alla scrivania del club, capisce che deve dedicarcisi completamente e delega ad altri di curare gli affari di famiglia. Perché raggiunto un sogno, adesso Dino ne coltiva un altro: portare il secondo scudetto. 

Ci proverà cannando i primi tentativi, ma alla fine quel fervore verrà ripagato. Un settimo posto il primo anno, ma comunque la gente dagli spalti commenta benevola: "La rometta è finita, sta tornando la Roma". Percezione corretta. Quello di Viola è un maquillage irrefrenabile. Arriva un brasiliano che si chiama Paulo Roberto Falcão. Pensare che sarebbe pure una scelta di quarta mano, dopo le velleitarie suggestioni coltivate per Boniek, Rumenigge, Zico. Comunque Nils Liedholm pare soddisfatto. La stagione 1980/81 è quella dello "scudetto sfuggito per centimetri", come risolverà signorilmente la questione viola, dopo gli stracci che volano per gli arbitraggi pro Juve.

Appuntamento soltanto rimandato. Quel desiderio - che in fondo diventa più bello quando lo realizzi - diventa tangibile nel 1983. Vince lo scudetto con i Tancredi ed i Maldera, i Di Bartolomei e i Conti, gli Ancelotti e tutti quegli altri. Per lui è un ceffone al palazzo del potere, una spallata che crepa le torri d'avorio delle strisciate del nord. Di sogno in sogno, Viola lancia la volata per la conquista della Coppa dei Campioni, che sfuma con la più aspra delle modalità.

Dino scansa la delusione e moltiplica gli sforzi per il suo club. Acquista Cerezo, anche se non può perché si sono dissolti i termini della finestra di mercato. Fa sedere in panchina lo svedese Eriksonn, anche se non può, perché vige il divieto di tesserare allenatori stranieri. A sua moglie, dopo un ricovero urgente per un'ulcera, sussusserà dopo il risveglio in ospedale: "Meno male che non sono morto, ho da fare ancora tanto per la Roma".

Darà tutto quello che ha, fino alla fine dei suoi giorni, nel 1991. Una lunga storia d'amore. Quel bambino agganciato al tram non ha mai tolto la maglia giallorossa.

Falcao.

Paulo Roberto Falcao compie 70 anni. Storia di Redazione Sport su Il Corriere della Sera lunedì 16 ottobre 2023.

Il 16 ottobre del 1953 è nato Paulo Roberto Falcao, che oggi compie 70 anni. Uno dei più grandi campioni della nostra storia. Come Amadei, e come accadrà con Totti, anche Falcao fu l’ottavo Re di Roma. Ma di «Divino» c’è stato solo lui: Il suo soprannome non ha avuto eredi. Con i giallorossi vinse lo scudetto che mancava da 41 anni. Giocatore immenso, talento e forza fisica distribuiti in un corpo da sfilata di moda. L’incantesimo si spezzò la notte della finale di Coppa Campioni contro il Liverpool.

La pronuncia del nome Come si pronuncia esattamente «Falcao»? A Paulo Roberto lo chiedono subito, dopo lo sbarco a Roma il 10 di agosto del 1980, 43 anni fa, accolto da una folla festante . Il musicista brasiliano Jorge Ben ha una felice intuizione e costruisce su questo equivoco un curioso singolo. Il cantautore elenca tutte le pronunce che aveva sentito a proposito del connazionale fuoriclasse: «Faucaun», «Falzon», «Falcone».

La causa per l’affidamento del figlio

La sua burrascosa vita privata ha riempito per anni le cronache rosa del nostro Paese e non solo. Nel 2000 è stato al centro di un contenzioso con la ex moglie Rosane Damazio per l’affidamento del figlio, Paulo Roberto junior. La Damazio lo ha accusato pubblicamente di aver rapito il bambino e di averla ripetutamente tradita con molti...uomini. L’omosessualità di Paulo Roberto la causa — secondo la Damazio — della fine del matrimonio. In quegli anni Falcao è al centro di un’altra polemica giudiziaria relativa al riconoscimento di Giuseppe Frontoni, figlio di Maria Flavia Frontoni con cui il campione ebbe una tormentata relazione.

La leggenda della telefonata di Andreotti

Fra tanti interventi storici per lo sport italiano, si è inserita anche la leggenda di una telefonata, fatta da Andreotti, noto tifoso romanista, all’allora presidente dell’Inter, Fraizzoli nel giugno ’83. Attraverso il lavoro di Sandro Mazzola e Giancarlo Beltrami, Falcao aveva dato la propria disponibilità a trasferirsi all’Inter, dopo aver vinto lo scudetto con la Roma. Una storia di contatti che si era trascinata per mesi. Quando tutto era pronto, Fraizzoli avrebbe dovuto avviare la trattativa con la Roma (il giocatore era sotto contratto). Un giorno in lacrime, presenti Mazzola, Beltrami e la moglie, la signora Renata, raccontò: «Ho ricevuto una telefonata da molto, molto, molto in alto; Falcao non possiamo più prenderlo. E non chiedetemi perché. Tanto avete capito». Il «Divino» è rimasto a Roma, fino all’85, quando Viola (divenuto senatore Dc alle elezioni dell’83), ottenne la rescissione del contratto per il brasiliano, infortunato al ginocchio. Nel libro di Moana Pozzi Moana Pozzi in un suo libro annovera tra i suoi tantissimi flirt anche l’ex romanista a cui la pornodiva affibbia per le sue prestazioni un non lusinghiero 5 in pagella. All’alba dei 60, il ragazzaccio che faceva girare la testa alle donne ha trovato pace anche sul fronte sentimentale: dal 2003 è sposato con la giornalista brasiliana Cristina Ranzolin con cui ha avuto la terza figlia Antonia.

Lo scandalo molestie al Santos

Falcao, responsabile fino ad agosto scorso del coordinamento sportivo del Santos (ruolo simile al direttore sportivo in Italia) dice addio al club brasiliano. L’ex fuoriclasse è stato travolto da uno scandalo ed è stato costretto a salutare il club. In sostanza, all’ex giallorosso è piombata addosso una denuncia di molestie sessuali da parte di una receptionist del residence nel quale il brasiliano, viveva nella città di Santos, nel litorale dello stato di San Paolo. E in Brasile il reato di molestie sessuali è punito con la reclusione da uno a cinque anni.

Romolo Buffoni per “il Messaggero” - Estratti lunedì 16 ottobre 2023.

Mazinga, Goldrake e Jeeg Robot lo avevano anticipato di qualche anno, colorando le fantasie dei bambini della Generazione X. Ma i nati tra il 65 e l'80 tifosi della Roma, il 10 agosto del 1980 conobbero un ragazzo brasiliano di Xanxerê con i riccioli biondi, la fronte spaziosa e lo sguardo puntato ben oltre l'orizzonte, destinato a sedersi nel pantheon dei supereroi.

Quel ragazzo, Paulo Roberto Falcao, oggi compie 70 anni. Un compleanno che non potrà mai passare inosservato per chi ha a cuore le sorti della squadra giallorossa a cui il Divino cambiò il destino. Perché se Francesco Totti per la bellezza di un quarto di secolo ha incarnato il sogno del ragazzo romano e romanista arrivato a trionfare da capitano con la maglia della Roma, nei suoi cinque anni di permanenza nella Capitale Falcao, il ragazzo venuto dall'altra parte del mondo, scrisse il vecchio testamento del club di Trigoria prendendolo per mano e portandolo a conquistare lo scudetto del 1983.

LA SFIDA ALLA JUVE Tricolore vinto superando la Juve, in un duello che infiammò quegli anni di boom calcistico italiano. Una sfida che si giocò sui centimetri del gol annullato a Turone e di quello convalidato a Brio.  

(...) 

Falcao e quella squadra gigantesca formata da Di Bartolomei, Conti, Pruzzo, Tancredi, Nela, Maldera, in un pomeriggio di maggio allo stadio Marassi di Genova portarono dopo 41 anni di attesa i romanisti ad essere liberati "dalla schiavitù del sogno" come disse Viola, che a Roma lo portò a sorpresa al posto di Zico, acquistandolo dall'International di Porto Alegre seguendo il suggerimento dell'allenatore Nils Liedholm. Niente dribbling ubriacanti e colpi di tacco fatui: le "lame rotanti" e il "doppio maglio perforante" di Falcao erano il gioco a testa alta, con tocchi di prima, e il movimento senza palla che offriva ai compagni sempre un porto sicuro dove depositare il pallone.

La sua corazza era la maglia numero 5 che, prima di lui, in Italia era appannaggio esclusivo degli stopper, operai del pallone delegati a francobollare i centravanti avversari. Grazie a lui, Liedholm oltre al marcamento a zona brevettò la "ragnatela", una serie di passaggi fitti e corti che irretivano gli avversari. Una danza che li stordiva, fino alla capitolazione. 

LA RAGNATELA Se ai giovani questa descrizione ricorda qualcosa è perché c'è stato il Barcellona del tiki-taka, quello "illegale" messo su da Pep Guardiola, a riproporlo sbaragliando l'Europa. La Roma di Falcao (e di Liedholm) arrivò a un passo dal primo gradino del podio continentale, disputando la finale di Coppa dei Campioni all'Olimpico contro il Liverpool e perdendola però ai calci di rigore. In quella notte del 30 maggio del 1984 i mostri di Vega ebbero la meglio sul Divino, che non si presentò sul dischetto per cercare di battere Bruce Grobbelaar, il portiere-clown che ipnotizzò Ciccio Graziani e Bruno Conti. I tifosi, tramortiti dall'atroce delusione, gridarono all'alto tradimento. Qualcuno dimenticò o, meglio, mise nel conto il fatto che Falcao non era mai stato fra i rigoristi di quella squadra che, senza di lui, mai sarebbe giunta ai confini della stratosfera. Per qualcun altro, invece, l'amore si raffreddò irrimediabilmente. 

Ci pensò un ginocchio malconcio nella stagione successiva a rendere velocissimo e ancora più amaro l'addio: Paulo Roberto Falcao nell'estate del 1985 risalì sulla sua navicella spaziale e tornò sul suo pianeta, il Brasile, lasciando a Trigoria 22 gol in 107 partite; uno scudetto; due coppe Italia e quell'indimenticabile notte di sogni, di coppe e di campioni.

Quando Andreotti impedì la cessione di Falcao grazie al Papa. Il futuro ministro degli Esteri del governo Craxi ricorse ad un paio di astuti stratagemmi per scongiurare il passaggio dell’asso brasiliano all’Inter. Paolo Lazzari il 15 aprile 2023 su Il Giornale.

Ribolle l’estate del 1983. Quello che più ancora surriscalda gli animi italiani, più precisamente nella Capitale, è però il calciomercato. Anche perché Paulo Roberto Falcao – alias, l’ottavo re di Roma – si è lasciato andare ad una dichiarazione lapidaria da Porto Alegre, dove si trova in vacanza. La sinfonia, stonata per i cuori giallorossi, fa esattamente così: "Lasciare la Roma è stato un trauma". Coltre di depressione su mezza città. Ma com’è possibile che dica una cosa del genere? Dove se ne andrà?

Per capirlo bisogna stringere il campo su un ambrosiano doc. Si chiama Ivanoe Fraizzoli, è il patron dell’Inter e intende spingerla in alto con tutte le sue forze, anche perché la sua lunga presidenza sta per conoscere i titoli di coda. Capelli impomatati all’inverosimile, sguardo sempre vispo a dispetto di una carta d’identità sgualcita (è classe 1909), scribacchia quel nome luccicante su un foglio e lo consegna al dirigente Mazzola. "Vai Sandro, prendilo". E in effetti lui esegue, perché Falcao firma per i nerazzurri all’insaputa di tutti.

Solo che poi Fraizzoli, milanese autentico nella forma oltre che per la sostanza, decide di comportarsi da gentiluomo. Alza la cornetta, infila l’indice nella rotella e compone il numero di Dino Viola, proprietario della Roma, per informarlo che il fenomeno carioca ha l’accordo con loro. Dall’altro lato del telefono si spande un silenzio pesante come un grumo di cemento. Viola incassa, prende atto, ma non commenta. Nel momento stesso in cui aggancia, Fraizzoli comprende di aver commesso una colossale ingenuità. L’eccesso di garbo adesso può ritorcersi contro.

Touché. Trillano i telefoni di mezza Roma. L’affaire Falcao va gestito in fretta, ma per spuntarla serve l’artiglieria pesante. Il dossier passa di mano in mano, fino a quando a stringerlo sono i polpastrelli inumiditi dalla saliva di Giulio Andreotti, tifosissimo della Lupa. Vagamente ricurvo, gli occhiali calati in punta di naso, il futuro ministro degli Esteri del governo Craxi esamina le carte e poi le passa al fidato braccio destro Franco Evangelisti, romanista sfegatato pure lui. Il diktat è limpido: "A Fra', risolvi il problema". Si apre, a questo punto, un tourbillon di intrallazzi destinato ad assicurare la permanenza del campionissimo nella Capitale.

L’intricata operazione di moral suasion fa leva sui lati vulnerabili disseminati nell’accordo con l’Inter. Il primo e più evidente è sicuramente la mamma del calciatore, la senhora Azise, compita, osservante, in una parola religiosissima. Per raggiungere l’obiettivo ultimo – la vicenda è ormai assurta al grado di priorità nazionale – serve immergere il tutto in una abbondante tinozza di cinismo. Si scomoda, addirittura, il Santo Padre. Alla mamma di Falcao, infatti, viene fatto credere che Andreotti avrebbe direttamente parlato della questione con Papa Wojtyla, il quale avrebbe espresso tutto il suo rammarico per l’addio alla Roma, augurandosi in ogni modo che invece resti. Pare che la vicenda si nutra anche di un fondo di verità, debitamente addomesticata e sacrificata sull’altare dell’utilitarismo. Le cose, la raffica di condizionali resta d’obbligo quando si allude al sovrano dell’ambivalenza politica, sarebbero andate così: il sommo Pontefice incontra Andreotti e gli chiede se Falcao rimane. Giulio gli dice che probabilmente se ne va. Il Papa fa una faccia triste. Tutto qua. L’incontro, sapientemente rimodellato, finisce all’orecchio della Azise, che patisce un immediato dispiacere. Riavutasi, corre dal figlio per ammonirlo: "Non vorrai mica contrariare il Papa?".

Ma non basta. Per mettere in cassaforte la permanenza di Falcao serve un’altra gran mossa. Questa volta scende direttamente in campo Andreotti. Richiede uno scrupoloso dossier sulle attività di Fraizzoli, apprende che l’imprenditore rifornisce abitualmente tutti i ministeri con i suoi capi d’abbigliamento, quindi sorride sornione. Si fa comporre il numero e, subdolo come un rettile che non vedi arrivare, lo addenta: "Salve, ho saputo dell’affare Falcao. So anche che lei lavora molto con i ministeri, una commessa importante, mi dicono". Ora quello ammutolito è Fraizzoli. Capisce subito dove sta andando a parare il malandrino stratega. Si reca subito da Mazzola: "Strappa il contratto, Falcao non lo prendiamo più".

Andreotti congiunge tutti i polpastrelli e allarga i contorni delle labbra. Altro che Esteri: spuntarla per la Roma è tutta un’altra musica.

Agostino Di Bartolomei.

Di Bartolomei, il capitano triste che non voleva abitare nel presente. Leader della Roma di Liedholm, coraggioso, inflessibile. Ma per questo anche incapace di accettare uno scorrere del tempo che lo consegnava ad una vita diversa. Paolo Lazzari l’1 Aprile 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Il capitano imperturbabile di una Roma magica

 Quella finale maledetta

 La vita dopo il calcio, un dribbling fallito

 Un dramma lungo dieci anni

È mattina presto, ma fuori si spande già un confortante tepore. Le assi della veranda scricchiolano docilmente. L’alba si distende placida nella lussureggiante San Marco Castellabate, campagna amena del salernitano. Si mette a sedere che ancora indossa il pigiama e contempla un’ultima volta quel panorama. È riuscito a non svegliare la moglie Marisa, una hostess che aveva conosciuto l’anno dello scudetto. Fuori è da qualche ora il 30 maggio 1994: esattamente 10 anni dopo quella partita. Forse una pura coincidenza, forse no. Magari ripercorre mentalmente quel match per qualche istante. Poi Agostino Di Bartolomei preme il grilletto.

Il capitano imperturbabile di una Roma magica

Aveva lo scudetto cucito dul petto, Diba. L’avevano vinto guidati dal genio svedese Nils Liedholm. Al fianco di Pruzzo, Falcao, Bruno Conti, Ancelotti e via andando. Una comitiva formidabile. Ne era diventato il capitano. Sapeva essere ruvido, ma possedeva una tecnica nitida e trovava spesso il gol con le bordate da fuori, meglio se su punizione. Più di tutto, però, gli avevano consegnato la fascia per via delle sue doti morali. Era un leader silenzioso, Agostino. Inflessibile, coraggioso, imperturbabile. Gli bastava uno sguardo per trasmetterti tutti questi sentimenti. Portava il mento alto perché si sentiva il simbolo di un popolo che amava e dal quale era ricambiato. Così non c’era partita che potesse infondergli agitazione. Nemmeno una finale di coppa dei campioni. Lui non si disuniva mai.

Quella finale maledetta

L’aria tiepida di una sera che anticipa l’estate. Trenta maggio 1984. Stadio Olimpico di Roma. Settantamila cuori frementi. Un’intera città paralizzata dalla tensione che potrebbe anticipare la gioia più grande o infliggere una delusione pazzesca. Perfino i cugini laziali la guardano, anche solo per gufare. Una finale di coppa dei Campioni giocata in casa è già il frutto di un inedito allineamento celeste. Se poi batti il Liverpool di Ian Rush, la storia che viene a comporsi sfuma in felicità tellurica. Diba scende in campo con la dieci sulle spalle. Lo sguardo è fermo. L’espressione risoluta. Anche se gli rimbalza dentro tutto il peso di quelle migliaia di anime appese alla squadra. Ci sarebbero tutte le premesse per una serata memorabile. Ma è proprio quando ti sembra tutto apparecchiato che la storia si diverte a sottrarti lo sgabello. La Roma perde ai rigori. Un pugno alla bocca dello stomaco che non si riassorbe.

La vita dopo il calcio, un dribbling fallito

Delusioni, certo, ma anche botte di felicità abbacinante. La carriera di un calciatore del suo lignaggio è un ascensore emotivo rimasto incantato. Ti passa frullati di vita elettrica, da sorseggiare avidamente. Quando però il sipario si abbassa, la musica rallenta fino a sfumare in sottofondo e le luci si dissolvono gradualmente, la prospettiva cambia d’un tratto. È come ritrovarsi bloccati tra un piano e l’altro. Non sei al primo e nemmeno al secondo. Sei fermo esattamente nel mezzo, costretto in un guado che fatichi a riconoscere. Quella vita lì non la senti più tua. Troppa la distanza tra quel che c’è e quello che vorresti. Troppo intricato il dribbling che consente di passare da star a uomo comune senza pagare un gigantesco dazio. Storia che ci aderisce addosso da quando è iniziato il mondo. Diba sembra l’Aiace di Sofocle. Meglio la morte di una non vita.

Un dramma lungo dieci anni

Così è di nuovo il 30 maggio, ma del 1994. Diba apre uno dei suoi cassetti. Estrae una Smith & Wesson calibro 38 e sfila lentamente verso la veranda. D’un tratto tutta quella pressione che aveva sempre respinto gli collassa all’interno come un orrendo buco nero. Una voragine incolmabile. L’unico sollievo coincide con la scelta più drammatica. Punta la canna fredda contro il petto, all’altezza del cuore. Socchiude le palpebre. Preme il grilletto. Il colpo risuona sordo nella campagna, facendo levare gruppi di uccelli. Marisa si sveglia di scatto. La Roma giallorossa patisce una ferita insanabile. L’intero paese è atterito. Ci si inizia a porre il problema della tenuta psicologica degli ex calciatori, privilegiati fragili. Agostino intanto non c’è più. Troppo distante, quel presente, dai sogni abitati poco prima. Meglio non essere che vivere senza riconoscersi.

Estratto dell'articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 24 marzo 2023.

«Il 18 agosto dell’anno scorso io, Luca Di Bartolomei figlio di Agostino Di Bartolomei, sono diventato più vecchio di mio padre. Ho raggiunto e superato il tempo che lui ha vissuto, e ho avuto la forza di andare sulla sua tomba a San Marco di Castellabate, in provincia di Salerno, di fronte al mare, cosa che non faccio praticamente mai. Ed è stato un altro colpo di pistola, che non mi aspettavo».

 Come quello che il 30 maggio 1994 s’è sparato suo padre al petto, uccidendosi sul terrazzo della vostra casa di San Marco?

«Quello mi tolse il padre. Questo invece è riuscito a svegliarmi, a liberarmi da un senso di colpa che non doveva appartenermi ma mi ha accompagnato per quasi ventinove anni».

Perché un senso di colpa? Lei era solo un bambino di 11 anni quando suo padre si suicidò.

«Perché non sapevo come reagire a ciò che avvertivo come un rifiuto da parte di Agostino. Lui si è ucciso nonostante avesse me, oltre mia madre e mio fratello, e dunque pensai che dovessi avere anch’io una parte di responsabilità. Il suo gesto ha generato in me quel sentimento con il quale a un certo punto ho dovuto fare i conti, ma ha pure trasformato Agostino in un piccolo fenomeno collettivo per tante persone della sua generazione, in questo microcosmo che è Roma».

 Il capitano della Roma campione d’Italia del 1983, romano del quartiere popolare di Tormarancia che guidò la squadra a vincere il suo secondo scudetto e subito dopo arrivò alla finale di Coppa dei campioni, persa ai rigori il 30 maggio 1984. Che cosa c’è di collettivo dietro un suicidio avvenuto esattamente dieci anni dopo quella sconfitta?

«Credo che Agostino sia la rappresentazione del potenziale fallimento che interroga tutti, e di fronte al quale rimaniamo senza parole o senza fiato. Prenderne atto attraverso una persona mitizzata nel luogo più incontaminato della nostra infanzia, il gioco, considerato una sorta di eroe del mondo in cui siamo stati e ci fa sentire ancora bambini, è una circostanza che atterrisce, ma suscita anche tanta pietà».

Perché lo chiama Agostino, anziché papà?

«Perché fino ad ora l’incapacità di capire come vivere questa vicenda ha provocato una rabbia che ha eretto una specie di muro tra me e lui. Quasi invalicabile. Invece da simili esperienze bisognerebbe imparare ad avere la forza di accettare le proprie fragilità e non provare sempre a superarle spingendosi oltre; riempire ogni cosa di significati va bene, ma va bene anche non avere l’ansia di riempirle ad ogni costo perché altrimenti manca qualcosa».

 (...) Agostino è stata una persona di successo che da un quartiere umile è arrivata sul tetto d’Europa e poi è crollata, uccidendosi in quella stessa data dieci anni dopo, facendo un tonfo talmente rumoroso da andare oltre la sua vicenda personale.

 Trasformandola in collettiva. Quasi generazionale. In fondo la sua generazione, se non è stata più fortunata della mia ha avuto certamente prospettive migliori e più ampie di quelle che si dischiudono oggi; è come se per quelli della sua età sbagliare fosse meno giustificabile rispetto a coloro che sono arrivati dopo. Forse anche per questo il suo gesto interroga molti. Agostino è stato mio padre, ma è anche il fratello di tanti di voi».

In passato lei ha detto di voler credere che lo sparo nel decennale di «una stupidissima partita di calcio» persa ai calci di rigore fosse solo una coincidenza, non voluta. Ora sembra aver cambiato idea.

«È così. Ho accettato l’idea che ci si possa sentire manchevoli anche di fronte all’amore di un figlio e di una famiglia, che evidentemente non bastano a colmare le lacune del proprio animo». 

Quindi rievocare la sconfitta nella finale di Coppa dei campioni significava ammettere un fallimento personale?

«Direi di sì. Non ho certezze né prove, ma dovendomi basare su indizi penso che si debba accettare questo messaggio, farci pace e andare avanti. Smetterla di chiamarlo Agostino e farlo tornare papà. In fondo la mia rabbia verso di lui è derivata proprio dal suo considerarsi più Ago che papà; più il campione che aveva fallito l’appuntamento più importante della sua carriera del padre che poteva essere. Però sto capendo che le persone vanno amate come sono, non per come vorremmo che fossero. 

(...)

Suo padre s’è ucciso con una pistola che teneva in casa, insieme a un altro revolver e una carabina. Una passione per le armi, dice qualcuno, mentre lei è dichiaratamente contro la detenzione personale di pistole e fucili.

«Non so se fosse una passione o un’esigenza di protezione dettata dalla paura. Lui al Poligono non lo ricordo, ma immagino ci andasse. Di sicuro le armi le ha acquistate dopo aver subito una rapina e nel contesto delinquenziale degli anni Settanta e Ottanta che è stato parte della storia di Roma. Il possesso di un’arma aiuta a allontanare le insicurezze e le fragilità, che invece sono come le cuciture degli aerei: li rendono più forti perché più elastici. Le armi sono una risposta rigida: sì o no, sparo o non sparo, uccido o lascio vivere. Meglio le risposte flessibili. E meglio vivere, in ogni caso».

(...) Agostino è stato tenuto ai margini del mondo del calcio per responsabilità di entrambi. E con quel colpo di pistola sparato in quella data ha voluto lanciare un messaggio alla nostra famiglia ma anche al mondo dal quale si è sentito rifiutato. Non ha ammesso la propria fragilità, e ha dichiarato una sconfitta».

 Lei ha sempre detto di ricordare tutto di quel 30 maggio 1994. Vuole condividerne qualche frammento? (Luca Di Bartolomei resta in silenzio per lunghi secondi)

«Il 30 maggio è papà che scende dalla stanza dove dormiva con mamma e infila qualche moneta nella tasca dei miei pantaloni appesi alla ringhiera della scala; io lo vedo perché ero già sveglio, e quando entra in camera per salutarmi mi chiede se voglio andare con lui a Salerno. Io rispondo di no perché avevo una prova di latino a cui non volevo rinunciare. Poi mi vesto, preparo lo zaino, papà s’era seduto in terrazza al sole che batteva già alto, gli do un bacio. Vado a scuola. Dopo circa un’ora, con molto tatto, mi hanno avvisato di quello che era accaduto e sono tornato casa. Ago era già nella bara di zinco».

 Difficile perdonare.

«Molto. E alla fine dei conti, più che perdonare lui sarebbe bastato non colpevolizzare me stesso

Giuseppe Giannini.

Guendalina Galdi per il “Corriere della Sera” - Estratti venerdì 27 ottobre 2023.

Chi è Giuseppe Giannini ora? «Un aspirante intenditore di calcio». Così si autodefinisce oggi il «Principe» del calcio italiano degli anni ’80 e ’90, romano e romanista con il numero 10 sulle spalle, elegante in campo e genuino fuori. Un «Principe» che con la Nazionale avrebbe potuto ottenere di più e che, una volta chiuso con il calcio giocato, ha voluto provare ruoli ed esperienze diverse. Come chiamare Giannini adesso? Direttore? Mister? «Facciamo Beppe e basta. Sono “direttore” sì, ma è una parola che non mi fa proprio impazzire...». 

Si sente ancora «Principe»?

«A volte questo soprannome ha condizionato chi mi giudicava, ma se si pensa ai miei 22 anni di carriera è stato positivo. Non ce ne erano altri in giro. Mi piaceva. All’epoca davanti a me c’era Falcao che era “Il Divino”, io essendo arrivato dopo sono diventato “Principe”. Scelta azzeccata. Certo a guardarmi oggi...». 

Come si vede?

«Faccio fatica a rivedere vecchie immagini. Sono cambiato tantissimo e mi “rode” adesso che sono senza capelli. Mi dà un po’ fastidio sinceramente, quindi evito di guardarmi. La gente neanche mi riconosce per strada». 

Quanto le manca il calcio?

«Ormai ho smesso da talmente tanti anni che non ho più quel desiderio di tornare dove ero. Lo penso da qualche anno. Io se tronco qualcosa non torno indietro». 

(...) 

Lei è stato un giovane che ce l’ha fatta. Poi la carriera con la maglia numero 10, la più difficile da assegnare...

«Alla Roma l’hanno indossata da Di Bartolomei a Totti, oltre me. Giocatori che hanno lasciato qualcosa al calcio italiano. Ancora la “10” non si rivede in campo ma ritornerà perché ha un fascino senza paragoni. È un peccato che in questo momento non ci sia». 

Cosa le ha tolto il calcio?

«Non rifletto su quanto avrei potuto ottenere in più. Se fai così non vivi. O vivi male. In quel momento io ero quello, la Roma era quella, ho dato ciò che potevo dare».

Da giocatore avrebbe ceduto a un’offerta dall’Arabia Saudita?

«Ho sempre detto che avrei voluto chiudere la carriera a Roma ma non è potuto accadere per tanti motivi. Allora ho voluto iniziare a conoscere altre realtà e culture. Se avessi ricevuto una richiesta così l’avrei presa in considerazione come mi capitò con il Marsiglia, il Siviglia, con la Fiorentina l'ultimo anno ma che non accettai. Ora guardando le cifre e le età in cui Ronaldo e altri si sono spostati...». 

Un suo «grande rifiuto»?

«Io e Viola rifiutavamo qualsiasi offerta. In Nazionale ricevevo sempre i complimenti di Boniperti. Si avvicinava (era capo delegazione allora), faceva qualche battuta, diceva “Ti voglio alla Juve”. Per me finiva lì. Alla fine andai allo Sturm Graz pur di non restare in Italia. La situazione è cambiata quando è arrivato Sensi. Poi sono tornato al Napoli, ma solo perché mi chiamò Mazzone».

È stato Ct del Libano per due anni: rifarebbe quell’esperienza?

«Sì e la consiglierei. Sono stato bene a livello lavorativo, ne è valsa la pena. È stato un peccato non aver partecipato alla Coppa d’Asia per un gol. Mi avrebbero fatto una statua in piazza a Beirut se ci fossimo qualificati... è una città splendida anche se quando c’ero io era pericolosa, c’era un attentato dietro l’altro. Qualche volta ho temuto». 

Ci racconti.

«A volte quando passeggiavamo sul lungomare avevamo il timore che qualche macchina fosse piena di ordigni. Era normale pensarci visto quello che accadeva. Ma feci quella scelta in maniera consapevole. Volevo far vedere le mie competenze, farmi conoscere per poi magari andare in nazionali più importanti». 

La delusione più grande?

«La semifinale del Mondiale del ‘90 a Napoli non è paragonabile ad altro per importanza». 

Ha avuto poca fortuna con la maglia azzurra?

«Se penso a quella sera...basta una svista per segnare una carriera. Un conto è se arrivi in finale, un altro conto se perdi prima...». 

E con la Roma?

«I “se”, i “ma”... quanto contano nel calcio? Tornare indietro e pensare a cosa avrei potuto vincere non mi piace.Ho dato quello che potevo dare, ho ricevuto quello che potevo ricevere».

Aspettava una chiamata?

«Il primo pensiero, una volta smesso col calcio, è stato quello di tornare nell’ambiente in cui ho sempre vissuto per 15 anni. Da casa mia sarei arrivato sempre a Trigoria, anche bendato. Sono dodici minuti. Conosco ogni curva e ogni buca del tragitto. Il desiderio era di iniziare un percorso da dirigente o allenatore nella Roma. Non è stato possibile e ho guardato avanti. Ora sono contento qui al Monterosi». 

L’anno prossimo compirà 60 anni, con chi le mancherà festeggiare?

«Mi mancheranno gli auguri dei miei genitori. E quelli di altre persone con cui ho condiviso esperienze, penso a Vialli e a Mihajlovic che sono scomparsi da poco. E poi di qualche capo della tifoseria giallorossa che non c’è più e con cui ho condiviso trasferte, momenti belli e meno belli».

"Non doveva finire così": l'amaro addio al calcio del Principe Giannini. Nel duemila l’ex capitano giallorosso si congedò con una partita d’addio nella sua Roma, ma alcuni tifosi rovinarono tutto. Paolo Lazzari su Il Giornale il 25 Febbraio 2023

Allaccia gli scarpini, cosciente che quella è davvero l’ultima volta. Lo spogliatoio è un bacile di fenomeni. Giocherà un tempo con i vecchi compagni di nazionale e una frazione con la Roma formato amarcord. Sfilano, fra i molti, Baresi, Bergomi, Tacconi, Zenga, Schillaci e De Napoli. Poi ci sono quelli che portano la lupa incisa sul cuore. I Bruno Conti e i Prohaska. Tancredi, Voeller, Righetti, Maldera. C’è anche Odoacre Chierico, quello che gli ha affibbiato il soprannome fortunato che ancora gli sta incollato addosso. “Il Principe”, per via di quel portamento regale, di quel mento tenuto costantemente alto, dell’elegante capacità di leggere tra le smagliature calcistiche.

In panchina siedono, rispettivamente, Azeglio Vicini e Carletto Mazzone. Il primo lo ha fatto accomodare nel ventre del centrocampo azzurro già da giovanissimo. Il secondo è stato il suo ultimo tecnico alla Roma e ha spinto per averlo anche per un rapido inframezzo a Napoli. Migliaia di persone affollano l’Olimpico per omaggiare Giuseppe Giannini, il capitano. L’uomo da 318 partite e 49 gol. Il signore feudale della mediana giallorossa. Pare che ci siano tutte le premesse per una serata di gioia zampilllante. Non fosse per quel particolare non certo trascurabile.

Appena tre giorni prima, infatti, si è materializzata la iattura delle iatture. La Lazio ha vinto lo scudetto. È l’anno della delusione umida per la Juve, guarnita dalle pozzanghere del Curi di Perugia, concretizzata dall’improbabile siluro di Calori. C’è soltanto un altro club che può dirsi più avvilito per quel tonfo inatteso. Giubilano i biancocelesti per le strade della capitale. Schiumano acredine i romanisti.

Scende in campo, in questo vacillante salotto, il Principe Giannini. Fluttua verso il suo appezzamento emotivo, la mediana, con l’inevitabile sussiego, con quelle movenze aristocratiche. Primo tempo che fila via liscio. Uno a uno, squilli di Voeller e Carnevale. Mugugna intanto la Sud, convitata riottosa ad una festa che non riesce a diluire il fermento. Si levano i primi cori contro la società, rea di non avere fatto abbastanza per schivare lo sfacelo.

Nulla però farebbe ancora presagire il tribale tumulto che, da lì a poco, è destinato a deflagrare. Soverchiata dal risentimento, una nutrita frangia di tifosi rimugina pensieri tetri. Prima si levano cori contro la famiglia Sensi. Franco non c’è e se li sorbisce tutti la figlia Rosella. “Batistuta dov’è?”, abbaiano i tifosi. In realtà il fuoriclasse argentino arriverà nel giro di qualche settimana. Nel frattempo il pubblico è furente. Ripassa mentalmente in rassegna le immagini di tre giorni prima. L’insopportabile trionfo laziale. Intanto Nils Liedholm e Flora Viola, moglie dell’indimenticato Dino, premiano Giuseppe in campo.

Si apre, d’un tratto, una fenditura nei cancelli. Il lato è quello della tribuna Monte Mario. È questione di un amen. Migliaia di tifosi inferociti si riversano svelti verso il terreno di gioco. Non ce l’hanno con il Principe, ma sono accecati da sentimenti urticanti. Divelgono porte, bandierine, panchine e finanche zolle di campo. Giannini è atterrito, come chi lo circonda. Dovrebbe disputare la seconda parte di gara con l’amata maglia giallorossa, ma quel furore sabota la festa. Bruno Conti e Francesco Totti si stringono al suo fianco, tentando di sedare gli animi, senza successo.

Ci prova anche lui, impugnando un microfono: “Se non ve ne andate non possiamo proseguire con la nostra festa”, li implora sconcertato. Niente da fare. Quel secondo tempo non si giocherà mai. Le squadre sono costrette a rintanarsi negli spogliatoi, in attesa che la tempesta si sgonfi. Giannini è in lacrime. Mai si sarebbe aspettato questo dal suo stesso popolo. Da quella gente che lo aveva così intensamente amato. Si leva, tardivo e insufficiente, un raffazzonato striscione dalla curva: “Scusa”, la scritta che campeggia sopra. Lui prova ad appiccicare insieme due parole: “Scusate…sono emozionato, nervoso. Purtroppo per un eccesso d’amore, per uno sfogo della rabbia di questi giorni…vi ringrazio, non doveva finire così, ma con qualcosa di meglio”.

Soltanto un anno più tardi la Roma solleverà a sua volta lo scudetto. La ferita inferta dai rivali biancocelesti è rimarginata. Quella patita dal Principe, invece, fiotterà tristezza per sempre.

Damiano Tommasi.

Damiano Tommasi: «I colleghi sindaci mi compravano al fantacalcio. Il ruolo più difficile? Fare il marito». Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2023.

Ex mediano della Roma, padre di 6 figli e preside della scuola che ha fondato, è sindaco di Verona da 7 mesi per il centrosinistra: «In giunta vorrei uno come “Pendolino” Cafu. Il ruolo più difficile? Fare il marito di Chiara. Ma è anche il più gratificante»

Damiano Tommasi, 48 anni, con la fascia tricolore davanti a Palazzo Barbieri, sede del Comune di Verona. A destra: Tommasi con la maglia della Roma

Da “calciatore operaio” a “sindaco antidivo”, l’essenza non cambia. E strappargli questa intervista è stata quasi un’impresa. Damiano Tommasi, a 48 anni, non ha la minima idea di attaccare le scarpette al chiodo: ogni domenica mattina continua a giocare in Seconda categoria nella sua squadra di paese. Il resto della settimana la sveglia è puntata all’alba: «Prima di andare in Comune vado a scuola, dove faccio qualche supplenza ai bambini, perché specie nelle prime ore, a volte, c’è da rimediare a qualche emergenza».

Tommasi, lei ha più eteronimi di Fernando Pessoa: padre di sei figli, ex calciatore con oltre 300 presenze in Serie A, ex capo del sindacato calciatori, ora preside di un suo istituto scolastico e sindaco di Verona da sette mesi. Qual è il ruolo più difficile?

«Essere marito di una moglie. Ma è anche il più gratificante. Chiara l’ho conosciuta in classe a Ragioneria e non ci siamo mai più lasciati».

La prima cosa fatta appena ha messo piede in Comune, dopo aver battuto a sorpresa la destra in una roccaforte che pareva inespugnabile?

«Ho fatto mettere la bandiera europea sopra Porta Nuova, all’ingresso della città. Verona è europea, deve essere aperta al mondo. Manca la consapevolezza di poter ambire a grandi obiettivi. È come quando alla Roma arrivò Batistuta: era la garanzia che potevamo giocarcela contro tutti. Fu uno stimolo enorme per tutti noi a fare meglio. Così vincemmo lo scudetto. Noi siamo Verona, e ora arriverà questa consapevolezza».

Lei è devoto a don Milani: come ha declinato quegli insegnamenti per questa sfida politica?

«Ho conosciuto i suoi valori durante la mia esperienza da obiettore di coscienza. È stato fondamentale per imparare la scelta delle parole, nel rapportarsi all’altro. Mi ha insegnato a badare alla sostanza, togliendo il superfluo. Su queste basi è nata l’esperienza di Rete, il nostro contenitore civico e politico che ha messo insieme tante persone, anche diverse, ma sulla base di “password” condivise».

Tanti suoi ex compagni calciatori, dopo carriere dorate, puntano su Dubai, immobiliare, finanza e lusso in generale. Lei hai invece investito i suoi guadagni nella costruzione di una scuola bilingue intitolata proprio a don Milani, che va dall’asilo alla scuola secondaria. Perché?

«Diciamo che, con sei figli, siamo particolarmente sensibili al tema. Dopo la mia esperienza con la maglia del Levante in Spagna, siamo tornati a Verona, dove mia moglie e sua sorella decisero di aprire un asilo, che poi si è ingrandito piano piano».

Ma quando è dietro la cattedra preferisce di più matematica o italiano?

«Mi piace provocare i bambini, le loro idee e le loro soluzioni. Si può fare con entrambe le materie».

Parliamo di politica. Che ex compagno di squadra vorrebbe in giunta?

«Come modo di stare in campo penso a Marcos Cafu (alla Roma ribattezzato “Pendolino” per via della sua velocità lungo la fascia, ndr ). Cafu ha una storia personale importante, ha sempre giocato per vincere, con umiltà. Siamo stati sempre a fianco in tutti gli anni alla Roma: era il compagno che aveva sempre la parola giusta. Quindi saprebbe prendersi le sue responsabilità in giunta».

Alla sua prima assemblea con tutti i sindaci d’Italia come è andata?

«Eh, mi sembrava di essere in curva Sud (ride, ndr). Mi hanno fermato tutti, in tanti mi hanno raccontato che mi compravano al Fantacalcio».

Lei è l’unico volto vincente del centrosinistra da molto tempo a questa parte. Sente il peso di questa investitura?

«No. Non mi sento investito. Il mio impegno è concentrato sulla mia città. Sono veronese al cento per cento».

Chi l’ha convinta ad accettare quella che sembrava una “mission impossible”?

«Beatrice, mia figlia, 25 anni, ama le Scienze politiche. Vedere la sua passione mi ha stimolato. La mia proposta era alternativa agli ultimi 15 anni di questa città, oltre la sinistra e la destra. Sono qui perché lo hanno scelto i cittadini».

La destra, in campagna elettorale, seppur divisa faceva le piazze piene con i leader nazionali, mentre lei faceva passeggiate, fino a 10 km al giorno...

«Esatto. Ci hanno dovuto letteralmente inseguire su tutto». In più lei è riuscito a tenere dentro tutti, incluso il Movimento. Per il futuro è un’alleanza obbligata? «Il Movimento ha diverse cose in comune con il centrosinistra. Negli anni si è personalizzato troppo. È vero, ci sono differenze, anche profonde, ma qui a Verona non si notano: abbiamo puntato su ciò che ci univa, per cambiare la città».

Ma lei votava i Cinque stelle?

«La prima versione: gli Amici di Beppe Grillo».

Il reddito di cittadinanza lo avrebbe lasciato?

«È una misura sicuramente migliorabile. Spesso, però, si dimentica che questo strumento sostiene anche chi proprio non può lavorare. Una risposta a chi è in difficoltà è doverosa».

Sta facendo rimuovere tutti i divisori che il suo predecessore aveva fatto installare su tutte le panchine della città.

«Era un impegno preso in campagna elettorale. Finora si era parlato di Verona per questa misura contro i clochard, cioè di una cosa che non siamo».

Ci spiega la differenza tra essere di destra o di sinistra?

«Il primo rappresenta un ideale che porta a chiuderti. Mentre credo che il secondo ti spinga in giro per il mondo, con orgoglio».

Cosa pensa di Giorgia Meloni?

«Ha l’attenuante di essere romanista (ride, ndr ). Non dimentica da dove arriva, ha fatto la gavetta. La politica ha vissuto finora di grandi ascese e rapidissime cadute. A me impressiona che tutti i giorni ci siano dei sondaggi: la politica si deve fare in prospettiva, vediamo un po’ come andrà la premier».

Alle primarie del Pd voterà Stefano Bonaccini o Elly Schlein?

«Entrambi mi hanno sostenuto in campagna elettorale. Sono due figure che hanno fatto bene. Ma è una discussione interna al Partito democratico, su cui non entro».

È sorpreso per questo doppio inciampo di Totti? Prima il clamoroso divorzio da Ilary Blasi, poi il caso dei soldi per le scommesse...

«Trapattoni diceva: “Più in alto vai e più il vento tira forte”. Francesco ha una grandissima visibilità e responsabilità, peraltro davanti a più di una generazione. Questa responsabilità abnorme viene caricata su una persona umana, non su un robot, e ciò non va dimenticato».

Lei da grande che vuole fare?

«Prima devo diventarlo, poi vediamo».

Si ricandiderà a sindaco?

«Sono qui da nemmeno sette mesi. Prima vediamo se so farlo (sorride, ndr )».

Ma almeno ci dica che allenatore servirebbe per risollevare la squadra del centrosinistra, ora in piena zona retrocessione.

«Nel calcio si parte sempre da zero a zero, applichiamo questa consapevolezza anche alla politica, senza guardare ossessivamente i sondaggi. Mi è capitato di giocare in squadre che arrivavano da un filotto positivo, così come negativo: l’importante è dare tutto fin dal primo minuto. Secondo me, più che un mister servirebbe un ex ct della Nazionale, il profilo migliore per accomunare e valorizzare al massimo giocatori che vengono da percorsi diversi, per metterli tutti assieme con l’obiettivo di vincere. E sicuramente Lippi sarebbe un vincente».

Cosa c’è dopo la morte...

«Ho la certezza che ci gireremo e diremo: “Pensa che nessuno la stava pensando ‘sta cosa”».

Vorrebbe un campo da calcio anche lì?

«Magari ci sarà qualcosa di più bello».

Francesco Totti.

Estratto dell'articolo di Katia Riccardi per repubblica.it domenica 3 dicembre 2023. 

La fine della storia tra Ilary Blasi e Francesco Totti, da qualunque punto di vista la si voglia vedere, è la storia della separazione di una famiglia. Le case vicine, quella della madre, e poi le sorelle di Ilary, Melory e Silvia, una famiglia grande, di cognati e nuore, amici, cuginetti cresciuti insieme.  [...] 

Ad eccezione dei tre figli Totti, Isabel, Chanel e Cristian, che meritano il rispetto globale già solo per la dignità e la forza con cui dedicano post social in pari numero a madre e padre, Roma invece si è divisa, separata, tra chi riscopre Blasi grazie a un docufilm, chi ‘c’è solo un capitano’ e chi ripete a denti stretti che ‘sono cose che capitano’. C’è anche, ancora, un ristretto e silenzioso gruppo che spera in una riappacificazione. Lo dice anche la mamma di Ilary, Daniela Blasi, nel docufilm Unica. Non si sa mai magari. Ma è una frase in mezzo ad altre, una maglietta allo stadio.

In questi mesi di dubbi, notizie su siti e giornali, tentazioni, accuse, Rolex, borsette e scarpe, e bugie da scoperchiare come il contro soffitto di un soppalco, anche la famiglia reale della capitale si è scissa. Giorgia Lillo Lori, per esempio.  [...] 

È la moglie di Angelo Marrozzini, lui e Francesco Totti sono cresciuti insieme, hanno frequentato le stesse scuole elementari e medie. L’ex capitano è stato il loro testimone di nozze. Grandissimo tifoso della Roma, per Totti sempre presente alle partite, alle cene di famiglia, alla vita. Si dice che l’ex capitano gli abbia dedicato il suo 200esimo gol perché all’epoca il cugino era in coma a seguito di un grave incidente.  [...]

È lei ad accompagnare Ilary Blasi sotto casa di Noemi Bocchi una volta che i sospetti non sono più tali. Nonostante tutto non lo racconta ad Angelo, “gli ho detto che venivo da te perché arrivava il tipo a leggerci tarocchi”, spiega. Forse il marito altrimenti le avrebbe fermate. E invece le due donne vogliono vedere, andare fino in fondo o comunque in fondo a Roma Nord. Il racconto che fanno le due cugine amiche è esilarante, ma sono loro due a colorarlo così. 

Giorgia fino alla fine spera che sia tutta una follia. “Non potevo crederci, oh. Quando me l’hai raccontato..” dice con la gola chiusa, “se capitava a me una cosa del genere mi ricoveravano in clinica”. Blasi le sorride: “Vabè dai ormai lo sapevamo, siamo andate dirette”. E Giorgia: “Eh no, io fino alla fine ho sperato che magari la macchina di Francesco non c’era, che non era andato”. E invece. 

Poi le lacrime, la scena di Ilary che scappa e prende un albero in retromarcia e loro due come ragazzine che hanno fatto l’avventura, corrono via, tornano a casa, ridono, ma sanno che non sarà più quella di prima. Giorgia nel film è un personaggio incredibile, bellissima. Ilary unica ma non sola. A circondarla nel film ci sono altre donne.

Angelo invece nel film non compare, gli unici uomini sono il tassista che rappresenta i sussurri di Roma (“Tutti in città lo sanno che a Totti je piacciono due cose, i maritozzi con la panna e le donne”) e il fabbro che scassina la porta della spa senza sapere perché.

Gli amici ci sono in una scena, seduti a tavola, Blasi brinda a chi le è stato vicino “nel periodo più diffic.. pazzo di tutta la mia vita”. [...]

Da corrieredellosport.it domenica 3 dicembre 2023. 

Ilary Blasi: "Perché ho fatto il documentario su Netflix"

Ilary Blasi ha svelato a Verissimo il motivo che l'ha spinta a raccontare la fine del suo matrimonio nel docufilm Unica su Netflix: "Sono stata un po' a osservare, capire cosa era successo, a leggere, sentire tutti i vari punti di vista, le varie opinioni. Però di fatto era la mia storia. Come sai io ho sempre messo la faccia in tutto quello che ho fatto e anche questa volta mi sembrava giusto metterci la faccia" 

Ilary Blasi: "Con Totti nessuna crisi prima della separazione"

Ilary Blasi ribadisce a Verissimo che non c'era alcuna crisi con Francesco Totti prima della separazione definitiva arrivata nell'estate 2022. "A novembre 2021 io inizio a vedere mio marito strano. Tra noi due non c'era alcuna crisi, abbiamo fatto anche dei viaggi insieme, non c'era nulla di grave", assicura. Silvia Toffanin mostra poi alcuni video tratti dal docufilm Netflix Unica 

Ilary Blasi e l'assurda richiesta di Francesco Totti

Ilary Blasi commenta con Silvia Toffanin la richiesta di Francesco Totti: il calciatore ha chiesto all'ex moglie di lasciare il lavoro, cancellarsi dai social network e non vede più la sua migliore amica nonché parrucchiera di fiducia Alessia Solidani. "Francesco è sempre stato geloso nei miei confronti, non era una novità la sua gelosia. Però non mi sento di paragonare questa cosa alle tragedie di oggi. Lui è il papà dei miei figli. Magari era confuso, spaventato, forse era una via di fuga più facile. Ho sempre cercato un dialogo, una speranza, provarci prima di mettere fine ad un matrimonio" 

Ilary Blasi a Verissimo chiede scusa alla stampa

Quando Silvia Toffanin ricorda l'intervista in cui Ilary Blasi ha attaccato la stampa che ha spifferato della liaison tra Francesco Totti e Noemi Bocchi la bionda conduttrice fa ammenda: "Chiedo scusa ai giornali e ai giornalisti. Ma anche loro dovrebbero chiedere scusa a me: io ho reagito così perché avevo una versione dei fatti che ho raccontato. Ero convinta. Avevo creduto a mio marito, come sempre. Ero in buona fede". Interviene Silvia: "Anche io ci credevo, hanno detto che ci eravamo messe d'accordo ma non era così" 

Ilary Blasi e l'aiuto della figlia Isabel con il tradimento

"Dopo quella smentita tra me e mio marito la situazione era strana, si faceva fatica a dialogare", aggiunge Ilary Blasi a Verissimo per poi parlare dell'incontro con la piccola Isabel e i due figli di Noemi Bocchi. "Quando poi ho chiamato l'investigatore privato io già lo sapevo ma volevo le prove. Lui aveva una storia parallela che tutti sapevano tranne io e la mia famiglia. Reazione? Delusione da una parte, sollevata dall'altra. Libera". E poi: "Quando l'ho affrontato ha continuato un po' a negare e alla fine si è arreso" 

Totti e la reazione dei genitori di Ilary Blasi

"I miei genitori non si aspettavano una cosa del genere: per loro Francesco era il quarto figlio, il figlio maschio mai avuto. Sono delusi ma gli vogliono ancora bene", afferma Ilary Blasi. "Se mi sono sentita tradita da Roma? Sì e no. Alla fine chi ti dice una cosa del genere? Solo una sorella può".

Ilary Blasi e i presunti tradimenti di Totti

"Dal chiacchierato gossip su Flavia Vento a Noemi Bocchi sospetti altri tradimenti in questi venti anni?", chiede Silvia Toffanin. "Da quello che mi ha fatto capire Roma, forse. A me non sono mai arrivate voci concrete ma solo illazioni. Non ho mai visto foto o messaggi. Nessuna è mai venuta da me a dirmi questo. Probabilmente sì ma non ho nessuna prova", risponde Ilary Blasi.

Marco Giusti per Dagospia il 27 Novembre 2023

Ok. Mi sono visto “Unica”, docu-confessione o, se volete, Ilary’s version o Netflix’s version, sulla fine di una delle coppie più amate d’Italia, quella formata da Ilary Blasy e Francesco Totti, diretta da Tommaso Deboni, ma orchestrata da una vecchia volpe dello spettacolo come Pepi Nocera, che funziona anche da intervistatore invisibile. Cosa dire? Intanto. Troppe lacrime. Poi.

Non c’è molto da vedere e da sentire. Il raccontino di 15-20 minuti di Ilary in uno studio rigorosamente nero stesa su una poltrona e molti momenti con la famiglia, la mamma e le sorelle per allungare il brodo. Con la supervisione narrativa di una voce autorevole come Michele Masneri. Ma non c’è nessuno, diciamo, che parla dalla parte di lui. Andando alla polpa, insomma, poca o pochissima. Questa storia del caffè, che Ilary assieme all’amica Alessia vanno a bere a casa di un misterioso amico che abita vicino alla Stazione Centrale di Milano e che darà il via alla folle gelosia di Totti verso la moglie, mi sembra un po’ troppo esibita.

Come non crediamo che Ilary non sapesse proprio nulla del modello di vita di Totti. Insomma. Non è che si dicono cose non vere, penso che siano vere anche le lacrime, ma si dice una realtà forse un po’ aggiustata. In fondo stiamo facendo tv. E non possiamo ovviamente credere che Ilary e Pepi Nocera non lo sappiano. E, occhio, non siamo più sui canali Mediaset, dove Ilary fino a poco fa era una star. Però, figurarsi se non si crede al dispiacere, dopo vent’anni di matrimonio, e vent’anni di tv, della fine di una grande storia d’amore popolare come questa. Con un Totti che, a detta di Ilary, l’ha desiderata fino all’ultimo (“facevamo sesso regolarmente, anche più regolarmente di una coppia sposata da vent’anni”), anche nei giorni dei tradimenti.

Vedendo il film o la docu-confessione non capivo bene a cosa dovessi sentirmi interessato di più. Alla storia d’amore, all’“ha ragione lui? ha ragione lei?”, alla storia delle corna. Alla fine, a parte le lacrime, che Ilary scaccia con l’unghia, mi sentivo più interessato semmai alla storia dei rolex, delle borse e delle scarpe. Finalmente qualcosa di palpabile. O alle case dove abitano la mamma e le sorelle di Ilary. Tutte vicine a lei. Già pronto per una miniserie americana. Al fatto che Ilary riconosca a Dagospia lo scoppio del casino mediatico, senza citare mai Mediaset o ricordarci di quel che disse a Verissimo.

A parte la richiesta-capestro di Totti, se lasci tutto, il lavoro, la tv, i social e l’amica infedele…  Ma non è che, malgrado la coincidenza dello scoppio della giusta rabbia delle ragazze in strada dopo l’omicidio della povera Giulia Cecchetin, Ilary sia un esempio così luminoso di donna martoriata dal patriarcato o dal marito. E non racconta nessuna storia terribile del marito, a parte il tradimento con Noemi Bocchi, che non è certo una novità. E alla fine, insomma, se mi chiedo a cosa mi devo interessare rispetto a questa docu-confessione, vi rispondo che non lo so. Però. Certo. L’ho visto.  

Da leggo.it il 27 Novembre 2023

Fabrizio Corona ha seguito attentamente la vicenda della separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi e sostiene che la conduttrice non abbia detto la verità ma abbia solamente voluto mettere in cattiva luce l'ormai ex marito. Nelle sue ultime storie Instagram, l'ex re dei paparazzi ha voluto anche rinfrescare la memoria agli utenti social ribadendo che tutto ciò che, in passato ha sostenuto, ovvero i presunti tradimenti da parte di entrambi (motivo per cui lui e Ilary litigarono in diretta al Grande Fratello), era fondato.

Fabrizio Corona ha registrato delle storie al veleno contro Ilary Blasi: sostiene che non abbia affatto raccontato la verità nel documentario Unica. L'ex re dei paparazzi ha detto: «In questi vent’anni di relazione, di matrimonio, di figli, ci sono varie cose certe che non vengono riassunte in questa storia (Unica, ndr), che dice in parte il falso. Totti amava da morire Ilary e credo che la ami tutt’ora ma l’ha sempre tradita, sempre. 

Ilary, a poco a poco, si è innamorata di Totti ed è diventata famosa e ha cominciato a lavorare grazie a Francesco Totti a cui deve tutto. Dovendogli tutto, lo ha sempre perdonato e ha sempre fatto finta di non vedere. La seconda cosa certa è che Ilary ha cominciato a tradire Totti, il caffè non è solo un caffè, e prima del ragazzo del caffè, ce ne sono stati altri che vi racconteremo.

Qual è stato il vero problema? Che Totti, avendo una concezione patriarcale della relazione, una volta scoperto il tradimento di Ilary, non è riuscito più ad accettarlo e a poco a poco ha consacrato quella relazione che era già da prima iniziata con Noemi Bocchi nell’agosto del 2021. A poco a poco ha deciso di sostituire la vecchia famiglia con la nuova famiglia». 

Infine, Fabrizio Corona ha concluso dicendo: «Ilary ormai indipendente, che i sensi di colpa non li ha mai avuti veramente, è rimasta a guardare la fine del matrimonio studiandosi le carte per vendicarsi e per cominciare la sua battaglia mediatica. Questa storia è veramente complessa e ve la racconteremo sul sito Dillinger News e dalle pagine del nostro Instagram, pezzo per pezzo, nome per nome. Adesso giochiamo noi!».

"Venivano qui spesso". I testimoni smentiscono Ilary Blasi sul presunto amante. Spuntano nuove indiscrezioni sul presunto amante di Ilary Blasi, l'uomo citato nel docufilm "Unica" con cui la conduttrice avrebbe preso solo un caffè. Novella Toloni l'1 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Chi è l'uomo del caffè con Ilary Blasi

 La testimonianza dei camerieri

Nella serie "Unica", il docufilm di Ilary Blasi su Netflix, tutto ruota attorno a un caffè. "Uno solo", ha ribadito più volte la conduttrice nel racconto fatto sulla fine del suo matrimonio con Francesco Totti. Secondo le ultime indiscrezioni, però, di caffè ce ne sarebbero stati più di uno tra la Blasi e l'uomo misterioso, il cui nome nel docufilm non viene mai fatto. La testimonianza arriva da alcuni camerieri, che hanno servito i famosi caffè alla coppia proprio a Milano, a due passi dalla stazione; luogo citato dalla stessa Blasi nel suo docufilm.

Chi è l'uomo del caffè con Ilary Blasi

A svelare l'identità del giovane ci aveva già pensato - un anno fa - Fabrizio Corona. Mentre Totti e Ilary si preparavano a darsi battaglia in tribunale per la causa di divorzio, l'ex re dei paparazzi aveva rivelato il nome del presunto amante della conduttrice dell'Isola dei Famosi: Cristiano Iovino. Influencer con la passione per i viaggi, i tatuaggi e la Lazio, Iovino era finito al centro del gossip più caldo del momento e gli inviati di "Non è l'Arena" avevano provato a intervistarlo - senza successo però - per ottenere conferme sulla presunta relazione con Ilary. L'uomo era rimasto in silenzio ma attraverso i suoi avvocati aveva fatto sapere di essere estraneo ai fatti, parlando di "ricostruzioni false e strumentali". E a quel punto uscì fuori un secondo nome, quello di Alessio La Padula, che smentì a sua volta ogni coinvolgimento.

La testimonianza dei camerieri

A oltre un anno di distanza, e con l'uscita a sorpresa del docufilm "Unica", il nome dell'aitante influencer milanese è tornato alla ribalta della cronaca per quel fantomatico caffè, che Ilary Blasi avrebbe preso proprio con lui. Ma la verità potrebbe essere un'altra rispetto a quella raccontata dall’ex letterina su Netflix. A smentire le dichiarazioni di Ilary ci sono le testimonianze di alcuni camerieri del bar sotto casa di Cristiano Iovino, che hanno parlato di più di un incontro tra i due. A rivelarlo è il sito MowMag, che un anno fa si occupò della vicenda e inseguì - senza fortuna - Iovino fuori dalla sua abitazione in cerca di risposte. "I camerieri del ristorante che hanno visto tutta la scena di noi che inseguivamo Iovino, ci hanno dato la notizia: 'Cristiano e Ilary sono stati qui diverse volte, spesso'", riferisce il sito, ricordando che, nel docufilm, Ilary Blasi parla di un caffè preso nell'appartamento del misterioso uomo. "Invece quel giorno, quei camerieri, ci svelano - non sapendo di essere inquadrati dalla telecamera tenuta bassa - di incontri ripetuti, che sanno tanto di una relazione andata avanti per un po'", conclude il portale di informazione.

"Ha tradito anche Ilary". Corona fa i nomi degli amanti della Blasi. Attraverso Instagram Fabrizio Corona è tornato ad accusare Ilary Blasi di infedeltà, facendo il nome di uno dei presunti amanti della conduttrice. Novella Toloni il 27 Novembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Le parole di Corona

 I presunti tradimenti di Ilary

 "Ecco con chi Ilary ha tradito Totti"

Il racconto fatto da Ilary Blasi nel suo docufilm "Unica"? Falso, almeno in parte. A sostenerlo è Fabrizio Corona, che poche ore fa ha rilasciato pesanti dichiarazioni sulla conduttrice e sul suo matrimonio con Francesco Totti. "Ci sono cose certe che non vengono riassunte in questa storia (Unica, ndr), che dice in parte il falso", ha detto in un video post Instagram l'ex "re" dei paparazzi, dichiarando nuovamente guerra alla Blasi con la quale anni fa si scontrò proprio sul tema dell'infedeltà.

Le parole di Corona

Fabrizio Corona ha sempre sostenuto che Ilary Blasi sia stata infedele tanto quanto Totti all'interno del loro lungo matrimonio, ma non ha messo indubbio l'amore del Pupone per la consorte: "Totti amava da morire Ilary e credo che la ami tutt'ora anche se l'ha sempre tradita, sempre". L'ex "re" dei paparazzi ha invece messo nel mirino Ilary Blasi: "A poco a poco si è innamorata di Totti ed è diventata famosa e ha cominciato a lavorare grazie a Francesco Totti a cui deve tutto. Dovendogli tutto, lo ha sempre perdonato e ha sempre fatto finta di non vedere". Secondo Corona, insomma, la conduttrice avrebbe sempre saputo delle "scappatelle" del capitano della Roma ma avrebbe taciuto.

I presunti tradimenti di Ilary

Fabrizio Corona ha rivelato che nel corso della loro relazione anche Ilary Blasi avrebbe avuto relazioni extraconiugali, delle quali il Pupone però non sapeva nulla, almeno fino al fantomatico caffè. "La cosa certa è che Ilary ha cominciato a tradire Totti, il caffè non è solo un caffè, e prima del ragazzo del caffè, ce ne sono stati altri che vi racconteremo", ha raccontato su Instagram l'ex di Nina Moric, che poi ha parlato dei motivi che avrebbero portato all'addio: "Totti, avendo una concezione patriarcale della relazione, una volta scoperto il tradimento di Ilary, non è riuscito più ad accettarlo e a poco a poco ha consacrato quella relazione che era già da prima iniziata con Noemi Bocchi nell'agosto del 2021".

"Ecco con chi Ilary ha tradito Totti"

Prima di concludere il suo video, Corona ha lanciato altre accuse contro Ilary Blasi: "Lei ormai indipendente e i sensi di colpa non li ha mai avuti veramente. È rimasta a guardare la fine del matrimonio studiandosi le carte per vendicarsi e per cominciare la sua battaglia mediatica". Fabrizio ha parlato di una storia complessa, promettendo nuove scottanti rivelazioni che sono arrivate subito con tanto di nome e cognome di uno dei presunti amanti della Blasi: "Durante le riprese del programma Star in the star avrebbe avuto un flirt con il cantante e ballerino Alessio la Padula proveniente dal talent show Amici di Maria De Filippi". Già un anno fa Corona fece questo nome, ma Padula smentì tutto su Instagram così oggi Fabrizio è tornato alla carica: "Ho incontrato Alessio nella palestra di un famoso hotel a Poltu Quatu, e mentre scherzava e rideva, ironizzava sul tradimento di Ilary fatto proprio con lui". Tutto, sostiene Corona, documentato con prove audio.

Corona fa il nome dell'ex ballerino di Amici: "Blasi ha tradito Totti con lui". Libero Quotidiano il 28 novembre 2023

Fabrizio Corona torna a parlare della coppia Ilary Blasi-Francesco Totti. L'ex re dei paparazzi smentisce la versione della conduttrice sulla separazione dal fu capitano della Roma. Nel documentario sulla sua vita, Unica, la Blasi ha detto: "Totti non mi ha trovata che sco***o con un altro. Lui mi faceva sentire in colpa per un caffé". Eppure per Corona le cose non sarebbero andate così. "Ilary Blasi avrebbe tradito Totti con Alessio La Padula, ancor prima del ragazzo del caffè, di cui domani vi diremo nome e cognome, raccontando la storia che si cela dietro", è la bomba sganciata dall'imprenditore.

E ancora: "Ilary Blasi durante le riprese del programma Star in the Star avrebbe avuto un flirt con il cantante e ballerino Alessio La Padula proveniente dal talent show Amici. La notizia era stata data già da Fabrizio Corona nel 2022, ma il ballerino aveva smentito attraverso una storia Instagram". L'ex paparazzo avrebbe infatti un rapporto abbastanza stretto con La Padula e con i suoi conoscenti.

Qual è stato il vero problema per Corona? "Che Totti, avendo una concezione patriarcale della relazione, una volta scoperto il tradimento di Ilary, non è riuscito più ad accettarlo e a poco a poco ha consacrato quella relazione che era già da prima iniziata con Noemi Bocchi nell’agosto del 2021". Da qui l'accusa conclusiva al volto di Mediaset: "Ilary ormai indipendente, che i sensi di colpa non li ha mai avuti veramente, è rimasta a guardare la fine del matrimonio studiandosi le carte per vendicarsi e per cominciare la sua battaglia mediatica".

La letterina e il campione. “Unica” è la storia di Ilary, ma è anche uno scaldamutande di documentario. Guia Soncini Linkiesta il 25 Novembre 2023

Il docufilm Netflix sulla Blasi, ex moglie di Totti, non dice nessuna delle cose che fa venir voglia di sapere, l’unico pregio è che lei sa essere stronzissima e conosce l’importanza di regalare citazioni citabili. La speranza è che almeno ci sia un sequel al maschile con protagonista Pupone

«A riguardarmi, una cretina». “Unica” è a due terzi quando smette di essere il «non prendetevela: prendetevi tutto» di una città che al posto delle socialite di Park Avenue ha le vallette; quando non è più solo la storia arcitaliana d’una quarantenne che se sospetta che il marito la tradisca chiama la mamma in lacrime; quando diventa la storia di tutti gli adulteri.

La storia di tutte le smentite del fedifrago, e tu che ci credi, tu che decidi che sono pettegoli gli altri, mica cornuta tu, e tieni il punto e dici ma-che-ne-sapete-voi, solo che se sei Ilary Blasi coniugata Totti non vai a dirlo a cena con le cognate ma in tv.

È perfetto e inverosimile come sa sceneggiarlo solo la realtà che, dal programma con Gerry Scotti nel quale si sculettava in mutande, siano usciti due pezzi della classe dirigente del secolo successivo. È perfetto che le due Letterine rimaste famose abbiano sposato una Francesco Totti e una Piersilvio Berlusconi, e quando si è trattato di andare a dire «ma quali corna» in tv la prima sia andata dalla seconda.

Nella storia di tutti gli adulteri c’è anche il dettaglio che abbiamo vissuto se non tutte noi almeno una nostra amica (più spesso: decine di nostre amiche): la moglie che, a corna ancora smentite, scopre che la sua prole viene portata fuori, dal fedifrago, coi figli dell’altra donna. Tu a mia figlia la tua amante non gliela fai incontrare capitoooo.

Ilary passa “Unica” a fare l’unica cosa che facciano le donne di successo in questo secolo: a dirci che non è unica ma tale e quale a noi. A dire «metterci la faccia», a fare la vittima di sessismo che «lui lo chiamavano “campione” e me “ex Letterina”», a piangere: Ilary piange benissimo, sembra proprio una di noi cornute a reddito inferiore.

Netflix non pensa che io voglia vedere “Unica”: non me lo propone in nessun punto della pagina di apertura della app (definita da un critico americano «il più prezioso metro quadro che si possa affittare»: siamo pigri, clicchiamo su quel che ci propongono, mica insistiamo a cercare qualcosa per cui avevamo aperto la app, ammesso che quel qualcosa esista).

All’inizio penso che sia un limite – che diamine potrà mai voler vedere, un’italiana, il mattino in cui esce la versione di Ilary Blasi: veramente mi proponete “Suburra” e Zerocalcare e “Lidia Poët”? – poi mi viene il sospetto che si stiano tutelando.

Mi viene il sospetto che non vogliano rischiare che ci clicchi gente che qualche giornale straniero ogni tanto lo sfoglia, e sa come funzionano e sa che per fare più d’un articolo su qualcosa quel qualcosa dev’essere come minimo una guerra, e riderà in faccia a Netflix quando l’esperto italiano dirà senza ironia che il New York Times ha pubblicato «decine di articoli» sulla separazione Totti/Blasi (articoli pubblicati sul tema dal NYT: uno).

“Unica” è uno scaldamutande dei documentari: non mi dice nessuna delle cose che mi fa venir voglia di sapere. La premessa è che, prima del vero tradimento con Noemi Bocchi, Francesco Totti colpevolizza la moglie per aver preso un caffè con un tizio.

Il caffè Ilary l’ha preso, a casa di questo misterioso tizio, assieme ad Alessia, la sua parrucchiera (puoi togliere a una ragazza il costume da Letterina, ma non puoi farne una che non si scelga come amiche le sorelle, le cognate, la parrucchiera: non capisco cos’aspetti la sociologia a raccontarci lo schema sempre uguale degli arricchiti che frequentano solo il loro staff, staff perlopiù fatto di parenti).

Ci fanno vedere persino le schermate di WhatsApp, e sentire gli audio con cui viene concordato questo caffè, eppure non si capisce niente: chi è questo ragazzo? Dove l’hanno trovato? Dai messaggi scambiati con la parrucchiera, che gli chiede persino se sia italiano, è chiaro che vanno a casa sua a prendere un caffè senza averlo mai incontrato prima.

Una delle donne più famose d’Italia va a casa d’uno sconosciuto? È questo quel che succede quando ti circondi di parenti e parrucchieri invece che di consigliori che sappiano dirti cosa non fare?

Tutto questo nessuno ce lo spiega, così come non ci spiegano l’allontanamento di Totti dal cugino, cugino che era «come un fratello», e la cui moglie è una delle migliori amiche di Ilary. Quindi il documentario che sono riusciti a tenere segreto fin quando Netflix non l’ha annunciato ufficialmente (bravissimi: l’unico documentario che vorrei vedere è quello sull’impresa impossibile di tenere un segreto a Roma) è stato girato coinvolgendo la moglie d’un cugino di colui che meno di tutti doveva saperlo. Me lo volete spiegare, questo nodo? Macché.

A un certo punto Ilary e questa moglie di cugino e le altre vanno a Londra, dove finalmente possono girare per strada e Ilary può trasecolare perché la prendono per russa (e la vedete quarantenne e ripulita e con le unghie normali, cari passanti londinesi: aveste visto la french quadrata con cui si sposò ventiquattrenne, chissà per cosa l’avreste presa).

Giacché a Roma puoi miracolosamente tenere il segreto del documentario su Ilary, ma certo non puoi farlo portandola nei posti dove vi vedrebbero; sarebbe stato bello farla parlare di suo marito all’Olimpico, ma non si poteva fare: stiamo parlando della tizia il cui matrimonio in diretta televisiva segnò la fine d’un’epoca, anche se allora non lo sapevamo.

Nel 2005 mancavano tre anni alla diffusione di massa dei social, e cinque a Instagram: le nozze Blasi/Totti andarono in diretta su Sky, come si usava nel secolo scorso, come quelle della Diana Spencer che si poteva permettere un paese senza star system.

Per parecchio tempo è sembrato che la storia non finisse, o almeno non male come quella di Diana e Carlo, ma poi sono arrivati i Rolex, le borsette, la più ridicola trattativa di divorzio di queste sciamannate lande. La Blasi, che in “Unica” racconta di non aver ceduto subito alla corte di Totti perché non voleva essere «un nummmero», è diventata la rapitrice degli orologi del marito («Quindi praticamente non solo mignotta, pure ladra»: se c’è una cosa che emerge dal documentario è che Ilary Blasi conosce l’importanza di regalare citazioni citabili).

Totti è diventato quello che le aveva preso le Chanel (intese come borse). Nel frattempo su Instagram arrivavano il diciottesimo di Cristian, con un décor che faceva sembrare minimal i Casamonica, e la vita quotidiana di Chanel (intesa come figlia), le cui unghie fanno sembrare la madre una dilettante: Ilary è una Visconti di Modrone, in confronto alla seconda generazione di ricchezza dei Totti.

(Ma per fortuna non lo è, sennò non ci direbbe mai, raccontando dell’investigatore da cui fa pedinare il marito, che mentre quello la tradiva «il bello è che la sera prima mi cercava, sessualmente»: dio benedica le ragazze non particolarmente ben nate, perché da esse ci vengono le uniche storie che valga la pena ascoltare, quelle non particolarmente beneducate).

Ovviamente “Unica” è una biografia autorizzata, e quindi la carriera di Ilary, che inizia a condurre reality quando i reality muoiono, ci viene presentata come poco meno di quella di Raffaella Carrà, e come insanabile ferita all’ego del marito che contemporaneamente veniva pensionato dal calcio.

Ilary Blasi sa essere stronzissima, come ricorda chiunque vide in tv la sua tirata contro Fabrizio Corona; tirata che era, come un po’ è anche “Unica”, un interessante trattato sulle classi sociali: in quel caso, era uno scontro tra una burina ripulita e uno ben nato ma determinato a imburinirsi.

Ilary Blasi sa essere stronzissima, e ce ne ricordiamo quando rievoca l’addio al calcio del marito, una diretta televisiva che, ancora una volta, sostituiva la nostra mancanza d’uno star system, così disperante da farci accontentare dell’ultima partita d’un calciatore locale.

(Se Francesco Totti fosse uscito dall’utero romano, se fosse andato a giocare all’estero, se non avesse preferito essere un imperatore locale all’avere una vera carriera, Ilary Blasi sarebbe stata una Victoria Beckham? Non lo sapremo mai).

Ilary Blasi sa essere stronzissima, dicevo, e lo si capisce quando butta lì, in levare, come non fosse la frase che resta d’un’ora e venti di documentario, come non fosse l’immagine che d’ora in poi verrà associata a Francesco Totti sempre e per sempre, che per giorni, settimane, suo marito «era sul divano a vedere a loop l’addio».

È un’immagine più convincente di quella evocata dalla madre di Ilary, convinta che Totti sia un uomo raffinato, che spiega che all’inizio, quando lui aveva preso a frequentare la loro umile casa, era un po’ imbarazzata, pensandolo abituato ad ambienti più eleganti.

Speriamo che sia più vero l’identikit da ex povero di quello da ex principe, altrimenti non possiamo sperare nelle speculari rivelazioni dell’ex marito, in un prossimo “Unico” dal quale avere un’altra versione sui doppifondi in cui nascondere accessori di Hermès; ma, soprattutto, un’intervista in cui il marito ci sveli dove la moglie e la parrucchiera avessero trovato il misterioso tizio dell’inspiegabile caffè.

Ilary Blasi e Totti: «Volevo vedere con i miei occhi e avere delle prove, lui non l'avrebbe mai ammesso: ecco cosa è successo il 2 luglio». Renato Franco su Il Corriere della Sera venerdì 24 novembre 2023.

Su Netflix arriva «Unica», il docufilm in cui la conduttrice parla per la prima volta della fine della sua storia d’amore con Francesco Totti: «Una sera andiamo a cena e comincio a notare un marito diverso: da lì un disastro»

«Non potevo credere che l’uomo che è stato accanto a me per vent’anni, che ha sempre detto di amarmi, che giurava che senza di me non poteva vivere, avesse fatto una cosa del genere: mi sono sentita stupida, poi ho provato delusione, schifo, un po’ di rabbia»: Ilary Blasi racconta così, tra le lacrime, la fine del rapporto con Francesco Totti in Unica — il docufilm di Netflix prodotto da Banijay Italia dove la conduttrice accetta di parlare per la prima volta della fine della sua storia d’amore con l’ex capitano della Roma.

Il nodo centrale è il tradimento di Totti con Noemi Bocchi. Le famose foto rivelate da Dagospia che immortalavano l’attuale nuova fidanzata seduta allo stadio poche file dietro di lui, l’inizio del precipizio che porterà alla definitiva rottura.

Quando esce il nome di Noemi Bocchi, lei pensa a una bufala, del resto lui nega: «Giura davanti a me e davanti ai miei figli che era tutto inventato. Lo giura». Così quando Ilary va a Verissimo per lanciare l’Isola dei famosi non ha dubbi, attacca tutti, usa parole dure contro stampa e media: «Lui mi aveva rassicurato: puoi dire quello che vuoi, non ho niente da nascondere. E io sono andata lì come un kamikaze, a bomba: a riguardarmi una cretina».

I primi sospetti di Ilary cominciano quando Francesco Totti porta la figlia più piccola fuori a pranzo e la bambina torna casa con un mucchio di giochi nuovi. «Mi dice che sono dei regali, che ha conosciuto nuovi amichetti, mi fa i nomi e a quel punto mi ricordo dagli articoli di giornale che questa ragazza (Noemi, ovviamente) aveva due figli. Inizio a unire i puntini e faccio qualche chiamata per scoprire come si chiamavano i ragazzini: coincideva tutto. E prendo coscienza del fatto che è tutto vero».

La favola di Cenerentola e del Principe Azzurro sta venendo giù insieme a tutto il castello, ma Ilary vuole essere sicura: «Volevo vedere con i miei occhi e volevo avere delle prove, perché Francesco non l’avrebbe mai ammesso. La sera del 2 luglio dice che ha una cena. Io riesco a trovare il civico dove abitava la ragazza, arriviamo (si era fatta accompagnare da un’amica, Giorgia, moglie del cugino di Francesco) e c’era la macchina parcheggiata. Ho fatto una foto all’auto, ma sono stata zitta».

Per fugare ogni dubbio sull’infedeltà del marito infatti ingaggia un investigatore privato. «Ma l’investigatore si è fatto sgamare, siamo al tragicomico: quindi Francesco sa che io so. A questo punto gli dico: dai basta, so tutto. Lo metto all’angolo, ammette il tradimento ma ne parla come di una frequentazione leggera: era bravo a dire cazzate». Ilary non può accettarlo: «È stata un’umiliazione come donna e come madre».

Quella tra Francesco Totti e Ilary Blasi è stata una storia anche di Rolex e Chanel (le borse, i figli), ma era iniziata «per amore, non per soldi»: «Francesco l’ho difeso contro Spalletti e contro Corona, l’ho difeso perché ho sempre creduto a mio marito». Una rapporto sereno per 20 anni: «Mai grandi litigate, facevamo sesso regolarmente, forse anche di più rispetto a coppie che stanno insieme da tanto tempo».

Nota a margine. Il docufilm è una storia con tante donne protagoniste: Ilary ovviamente, ma anche la mamma, le due sorelle, le amiche sempre al fianco. Una storia che tra tanti retroscena ne svela uno più inquietante di tutti, quando Totti detta le sue condizioni per tornare ad avere fiducia in lei: «Non devo vedere mai più la mia amica Alessia, devo cancellarmi dai social e smettere di lavorare». Una parabola che rivela una mentalità che in questi giorni fa riflettere ancor di più: lui sempre chiamato l’ex capitano, lei definita con perfidia l’ex letterina…

Dai gossip al tribunale, dalla maglia «Sei unica» a due anni di liti: Totti e Ilary Blasi, cosa è successo. Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera venerdì 24 novembre 2023.

A febbraio 2021 le prime voci sulla crisi, le smentite e poi la separazione. Ecco che cosa è successo da allora a oggi

Ilary Blasi sarà pure «unica», invece le cause che la vedono in guerra con il suo ex Francesco Totti, da tre che erano, sono diventate quattro. Dopo quella di divorzio (prossima udienza il 24 gennaio 2024), la disputa sull’impianto sportivo della Longarina (restituito al Capitano) e il primo capitolo della saga dei Rolex (incentrato sul possesso dei preziosi orologi e risolto con un provvisorio affido congiunto), la conduttrice tv – che nel docufilm su Netflix si commuove per la crisi del suo matrimonio con Totti: («L’ho sposato per amore, non per soldi») - finite le lacrime, è tornata alla carica. 

Presentando una nuova istanza al tribunale civile con cui stavolta rivendica la proprietà dei Rolex e denuncia (ancora) la sparizione di abiti, accessori e gioielli. Prima udienza il 4 dicembre, stesso giudice, Francesco Frettoni, che non ha accolto le sue precedenti richieste. E via con la seconda stagione della serie che più appassiona i rispettivi sostenitori.

La fine del matrimonio dopo 17 anni

Un succoso spin-off della vicenda principale, ovvero la fine di un amore che pareva indistruttibile. Quello tra il Capitano e la Letterina più bella di tutte, 20 anni e quasi 17 di matrimonio, tre figli (Cristian, Chanel e Isabel), gol, dediche appassionate («Sei unica», appunto, scritto sulla maglietta mostrata dal numero 10 giallorosso dopo il pallonetto del 5 a 1 nel derby del 2002), foto al tramonto, estati a Sabaudia, quando non c’era Totti senza Ilary e viceversa.

La «bomba» di Dagospia

In quasi due anni è successo di tutto e di più. Da quando, il 21 febbraio del 2022, il sito Dagospia lanciò la bomba: «La favola Totti & Ilary alle battute finali? Durante una gitarella familiare al lago di Castel Gandolfo, sarebbe esploso l’ennesimo litigio tra l’ex capitano della Roma e la conduttrice del Biscione». Il giorno dopo Roberto D’Agostino pubblica la foto di Noemi Bocchi allo stadio Olimpico, seduta qualche fila dietro Francesco, presentandola come il suo nuovo amore. Segni particolari: una evidente somiglianza con Ilary, appassionata di padel e grande tifosa giallorossa. 

Prima la doppia smentita, poi le ammissioni

Il tempo di accusare il colpo e la conduttrice dell’Isola dei Famosi, per smontare il pettegolezzo, posta una foto di tutta la famiglia al ristorante, mentre Totti, cupo e spalle al muro, registra un video pubblicato sui social in cui accusa la stampa di diffondere false notizie senza curarsi della serenità dei minori coinvolti. Una doppia smentita poco convincente. In realtà, come ammetterà lui stesso mesi dopo («La nostra storia è iniziata dopo Capodanno 2022»), lui e Noemi già si frequentavano di nascosto. Ilary gli chiede spiegazioni, lui nega. E lei si avventura in un’intervista a Verissimo con cui rinfaccia ai giornalisti di aver fatto una gran brutta figura.

L'annuncio della separazione

A metà giugno – ma si apprenderà soltanto dopo – Ilary Blasi con un blitz porta via la collezione di Rolex del marito, del valore di oltre 1 milione di euro. L’11 luglio, con un doppio comunicato stampa (non si mettono d’accordo nemmeno su quello), Francesco e Ilary annunciano la separazione. Più fredda lei, più contrito lui. Il giorno dopo Ilary parte per la Tanzania e Zanzibar con la sorella Silvia e i ragazzi. Torna, riparte, torna, riparte, fino a fine agosto. Immortala ogni momento su Instagram. Scatti in bikini, stesa come una sirena sulla barca, in montagna, dalla nonna Marcella. Totti resta a Sabaudia. Noemi però viene avvistata al Circeo, poco lontano. Il suo ex marito, Mauro Caucci, da cui si sta separando, dichiara sarcastico: «Totti ha tutta la mia comprensione, io so bene cosa c’è dietro l’immagine di mia moglie».

Totti: «Non ho tradito io per primo»

 Gli avvocati preparano le carte bollate per la separazione Totti-Blasi. Alessandro Simeone per Ilary, Antonio Conte e Annamaria Bernardini de Pace per l’ex calciatore. L’11 settembre sul Corriere esce l’intervista-confessione del Capitano con Aldo Cazzullo. Con cui Francesco fa risalire l’inizio della crisi coniugale alla primavera del 2021 e ammette la love story segreta. Ma precisa: «Non ho tradito io per primo. Ho trovato messaggi compromettenti sul cellulare di Ilary, è stato uno choc». E racconta pure del “ratto dei Rolex”, che Ilary ha prelevato dalla cassetta di sicurezza cointestata con l’aiuto del padre Roberto. 

Il gelo tra Francesco e Ilary 

Lui, per rappresaglia, le ha nascosto cento paia di scarpe e costose borse griffate. Ritrovate, tempo dopo, negli sgabuzzini della mega-villa all’Eur da 1.500 metri quadrati, in cui a lungo continuano a vivere insieme da separati in casa. Comunicando il meno possibile, spesso soltanto via Whatsapp. I rapporti sono pessimi. A un certo punto lei farà cambiare la serratura di casa. Un detective sostiene di essere stato assoldato dalla conduttrice tv per pedinare e spiare Francesco Totti con Gps, camere a infrarossi, auto e moto civetta. Costo della parcella: 75 mila euro. Spuntano i nomi dei presunti flirt di Ilary.  Il più gettonato è Cristiano Iovino, personal trainer muscoloso e giramondo, pendolare tra Roma e Milano, che le sarebbe stato presentato dall’amica Alessia Solidani, la sua parrucchiera di fiducia dai tempi delle nozze all’Ara Coeli il 19 giugno 2005. 

La battaglia legale per i Rolex

La guerra borsette contro Rolex finisce in tribunale. Prima udienza il 14 ottobre 2022. Ilary intanto provoca: e si fa fotografare davanti a una boutique del marchio svizzero mentre mima il gesto di chi sgraffigna qualcosa. Francesco non si diverte per niente. Il 17 novembre, a Dubai per i Globe Soccer Awards, fa la sua prima uscita pubblica con Noemi, che al dito porta un vistoso anello di diamanti, con una gemma di 7 carati, valore stimato sui 300 mila euro. E si separa pure dall’avvocato Bernardini de Pace, affidandosi unicamente allo storico legale Antonio Conte.

Nella vita di Ilary entra Bastian Muller

Pochi giorni dopo appare all’orizzonte Bastian Muller, aitante imprenditore tedesco di 36 anni, nuovo compagno di Ilary Blasi. I due vengono fotografati a Zurigo, durante un weekend romantico. A Capodanno 2023 volano in Thailandia. Poi a Parigi, poi a Monaco di Baviera, in Brasile. Il “Vichingo” viene presentato in famiglia. Dorme nella villa coniugale, suscitando l’ira del Capitano, ma tant’è. Francesco fa le valige e si trasferisce in un attico di Roma Nord con Noemi e i suoi bambini, Sofia e Tommaso.

L'affido condiviso dei figli

 Ad aprile 2023 il giudice Simona Rossi emette i provvedimenti provvisori urgenti sulla separazione. Per il mantenimento dei figli Ilary riceve 12.500 euro al mese. Ne aveva chiesti almeno 24, sperava in 18, ne ottiene la metà. Le spese straordinarie (viaggi, svago, cure mediche) sono divise al 50 per cento. A parte quelle scolastiche, che per il 75 per cento dovranno essere sostenute da Totti. La super-villa dell’Eur (che ha costi di manutenzione stellari) è assegnata a Ilary e ai figli, per i quali però l’affido è condiviso. La prima udienza, il 20 settembre 2023, è solo tecnica. La seconda viene fissata per il prossimo 24 gennaio. I legali delle due parti hanno presentato voluminose memorie con prove, accuse, dossier, testimoni. Entrambi richiedono l’addebito per l’altro. Ilary punta il dito contro Noemi. Totti ribadisce che non è stato lui ad esserle infedele per primo. Ed è pronto a fare nomi e cognomi dei flirt di Ilary.

Longarina, il centro sportivo conteso

 La lite si sposta pure sul centro sportivo della Longarina, che ospita la scuola di calcio di Totti, gestito negli ultimi tempi da una società che fa capo a Silvia Blasi. L’ex 10 giallorosso pretende di rientrarne in possesso. La cognata, per ripicca, chiude i cancelli. Francesco ottiene lo sfratto forzoso. E procede al pignoramento dei beni della cognata per circa 190 mila euro di canoni di affitto non pagati. Lei presenta opposizione, non è ancora finita.

La battaglia infinita per i Rolex

 Il giudice che decide sulla sorte dei Rolex contesi alla fine stabilirà una sorta di affido congiunto. Ilary mesi dopo fa ricorso, sostenendo che fossero regali per lei, la corte di appello lo respinge. E le ordina di riportare indietro gli orologi, a disposizione di entrambi i contendenti. Si arriva ad agosto 2023. Dopo continui rinvii, a ottobre tre Rolex, tra cui l’esclusivo Daytona Rainbow, tornano a casa, in una nuova cassetta di sicurezza cointestata. Sono soltanto quelli, però. Secondo Totti ne mancano almeno altri 4/5. In realtà nella cassaforte ce ne sarebbero stati almeno 12. Non si sa bene che fine abbiano fatto. Non sono ancora ricomparsi. Ora Ilary ne rivendica la proprietà con una nuova causa. Nell’entourage di Totti qualcuno sospetta che stia cercando di prendere tempo. Il timore è che, per qualche motivo, non li abbia più.

E arriviamo a questi ultimi giorni. Mentre Netflix manda in onda il docufilm su di lei, Ilary vola a New York con Bastian, con cui festeggia un anno d’amore giusto giusto. Francesco, che è appena stato a ritemprarsi alle terme di San Quirico D’Orcia con Noemi e i figli acquisiti, si è riconciliato con Luciano Spalletti. Con Ilary invece sarà dura, ancora di più dopo la programmazione di «Unica». Nella sua più recente intervista a Veltroni il campione del mondo 2006 si augurava di trovare con l’ex moglie «un nuovo equilibrio». Ma per ora appare soltanto un pio desiderio.

Bernardini De Pace allo scoperto: "Perché non difendo più Totti contro la Blasi". Libero Quotidiano il 03 novembre 2023

Sulla carta, Annamaria Bernardini De Pace era l'arma (legale) segreta in mano a Francesco Totti per vincere la guerra in tribunale con l'ex moglie Ilary Blasi. Tra figli, eredità, borse e Rolex, si preannunciava uno scontro titanico a suon di veleni ma la regina degli avvocati divorzisti ha gettato la spugna già nel novembre del 2022: non sarà lei a difendere gli interessi dell'ex capitano della Roma e ora spiega per la prima volta il motivo. 

"È andata così perché c'era troppa gente intorno, io sono una prepotente e volevo comandare", ha commentato con un pizzico di ironia al settimanale Sette. Intervistato da Walter Veltroni per il Corriere della Sera, proprio giovedì lo stesso Totti aveva regalato parole inaspettatamente concilianti per la Blasi: "Noi due abbiamo passato venti anni insieme, con tanti momenti molto belli. Ora vorrei solo che trovassimo un equilibrio tra noi capace di proteggere i ragazzi che sono la più grande ragione, per ambedue, di amore". Forse insomma, dopo la rabbia successiva alla separazione, i due ex coniugi avrebbero intenzione di siglare la pace.

La Bernardini De Pace da tempo sostiene che in questo tipo di cause, oggi, la vera parte debole è l'uomo: "Sono loro le vere vittime. Quando ho cominciato a occuparmi del diritto di famiglia, nel 1987, le donne erano la parte debole: venivano trattate a qualsiasi livello sociale come baby sitter di lusso. Anche l’assegno che veniva dato loro era ridicolo, così a fine anni Ottanta ho sviluppato il concetto di tenore di vita che purtroppo l’anno scorso la Cassazione ha eliminato. Ma le donne nel frattempo hanno raggiunto gli uomini come capacità economiche – continua – Quindi no ha senso che vengano gratificate di qualcosa che possono fare da sole. Ora devo proteggere la parte debole. In questo momento ho il 70% degli uomini come miei clienti perché voi non avete idea di cosa sono diventate le donne. Prepotenti, arroganti, furbe".

Il primo obiettivo della divorzista-vip è pensare a bambini e ragazzini: "Ai miei clienti dico: voi grandi mi pagate, ma io difendo i vostri figli, non voi. Ho mollato un sacco di clienti rinunciando al mandato perché non rispettavano i loro figli". Di lei, aveva dato un commento durissimo Gabriele Muccino: "L'ho conosciuta bene. L'ho avuta come controparte in un divorzio orribile che ha rovinato un figlio e seminato veleno per 5 anni. Veleno che è rimasto radioattivo con strascichi mai più sanati. Un divorzio cadenzato da illazioni pericolose puntualmente riprese da Chi, un divorzio portato avanti a forza di denunce penali totalmente pretestuose e inventate: 8 in tutto. tutte archiviate senza fatica. Erano fumo, erano latrare di cani, armi per spaventarmi, erano la tattica e la strategia che questa nota avvocatessa romana adotta schiacciando vite di persone che si sono amate come fossero noci. I figli? Traumatizzati a vita".

Anna Maria Bernardini de Pace: «Volevo fare la mamma, dopo la separazione lavoravo pure la domenica. Oggi difendo più volentieri gli uomini: ecco perché». Maria Luisa Agnese e Greta Sclaunich su Il Corriere della Sera sabato 4 novembre 2023.

Due figlie da giovanissima, la separazione dal marito. L’avvocata divorzista più famosa d’Italia si racconta: «Le mettevo davanti alla tv. Ho ancora il senso di colpa. Oggi gli uomini sono il 70% dei miei clienti: le donne che incontro sono prepotenti, arroganti e furbe»

Temutissima e aggressiva come avvocata di famiglia («so che dicono che sono una strega”), Anna Maria Bernardini de Pace ha una storia di mamma a tempo pieno di due figlie molto amate: racconta della sua primaria vocazione materna nella casa di Ameglia, provincia di La Spezia, costruita tra il bosco e il mare, sede di uno dei suoi uffici. Qui hanno passato il primo lockdown, tutte insieme con le figlie e i nipoti: «Molte famiglie nelle stesse condizioni si sono sfasciate, per me è stato il periodo più bello della mia vita. Eravamo in nove e ci siamo anche scannati, ma li avrei tenuti lì per sempre».

Anna Maria Bernardini De Pace è nata a Perugia nel 1948. Sposata con Francesco Giordano dal 1970 al 1976, ha due figlie: Chiara e Francesca. È avvocata esperta in diritto di famiglia

È diventata mamma giovanissima.

«Sono rimasta incinta a 22 anni e Francesca è nata che ne avevo appena compiuti 23. Con mio marito era grandissimo amore, forse l’unico vero amore della mia vita, anche se ne ho avuti tanti. Ero così innamorata che, pur essendo molto libera e molto prepotente, mi ero messa nelle sue mani con il programma di avere 12 figli».

Agnese: Dunque, pur essendo la donna pubblica che tutti conoscono, non ha sofferto quell’ambivalenza fra maternità e carriera che oggi molte ragazze sentono.

«No assolutamente. Da quando ho conosciuto mio marito, all’università perché era il mio professore, immediatamente il mio sogno è stato quello di sposarmi con lui e l’ho fatto esattamente 9 mesi dopo. Lasciando l’università, e con gioia, perché me l’aveva chiesto».

Sclaunich: Quindi era pronta a fare la mamma e basta?

«Volevo fare la mamma e basta tutta la vita. Le mie figlie sono state in assoluto l’emozione più grande che abbia avuto. Sia le gravidanze, anche se difficili, sia il parto. Ho introdotto alla Macedonio Melloni il parto in piedi, la mamma attaccata alle sbarre del letto e la bambina fatta scendere, con le ostetriche che gridavano perché allora andava solo il parto sdraiata».

Sclaunich: Nella sua vita c’è un filo conduttore, mi pare: si è sempre molto fidata del suo istinto.

«Sempre, anche adesso che ho 75 anni. Sono convinta che noi donne abbiamo nella pancia - perché le decisioni nostre sono di pancia - una potenza superiore a quella del cervello».

Sclaunich: Quando sei incinta tutti dicono «devi fare questo e quello», però dicono anche «segui l’istinto».

«A me nessuno ha dato tante regole. Forse perché la mia esperienza di maternità era nata da piccola: ero la più grande con tre fratelli maschi, mia mamma insegnava e usciva la mattina presto per andare a scuola, vivevamo a Chiavenna, in Valtellina, dove mio padre era pretore, e anche lui usciva alle 8 e 30. Fin da quando avevo cinque anni portavo i miei fratelli all’asilo. Certo in un paese dove tutti ci conoscevamo era più facile, anche se mio padre mi aveva già insegnato a leggere perché io per la strada dovevo saper far fronte».

Agnese: È cresciuta con la maternità incorporata.

«Sì, i miei fratelli sono più figli miei che di mia madre. Quando finalmente ho potuto avere le mie figlie è stata un’esplosione di gioia fin dal momento in cui ho saputo di essere incinta».

Agnese: Se con questa sua propensione alla maternità non fosse riuscita ad avere figli?

«Non l’ho mai contemplato. Però da 40 anni faccio l’avvocato e tutti i praticanti che ho avuto, più di quattrocento, li ho trattati come figlie e figli. Quindi ho anche il senso della maternità non biologica. Per me normale è essere così, so che non potrei mai fare la politica. Per esempio io trovo Giorgia Meloni la vera femminista non tossica perché si mette al livello degli uomini: la apprezzo per questo, non ne sarei mai capace ma trovo che sia una forza che lei sia così».

Agnese: Sicura che possa essere quello il modello per le donne?

«Non lo so, ma la ammiro per questo. Io per essere esageratamente madre sono stata 5 anni da una psicanalista junghiana, che mi ha detto che sbagliavo a farmi coinvolgere troppo. Ero andata perché per il mio lavoro mi occupo di dolori familiari e non riuscivo più a distinguere il dolore dei clienti dal mio. Ho scelto una junghiana perché avevo sempre letto Jung come produttivo di aspetti benefici per il futuro, anziché come Freud indagatore degli aspetti malefici del passato. E lei ha subito notato in me questo esagerato esprimersi nella maternità, anche se poi mi sono fermata quando è finito l’amore. Per me è dall’amore che devono nascere i figli ed è con amore che devono crescere. Tanto che dico ai miei clienti: voi grandi mi pagate, ma io difendo i vostri figli, non voi. Ho mollato un sacco di clienti rinunciando al mandato perché non rispettavano i loro figli».

Agnese: È andata così nel caso Totti?

«È andata così perché c’era troppa gente intorno, e io sono una prepotente e volevo comandare».

Sclaunich: Ha detto che oggi difende più volentieri gli uomini perché sono il sesso debole.

«Oggi sono loro le vittime. Quando ho cominciato a occuparmi del diritto di famiglia, nel 1987, le donne erano la parte debole: venivano trattate a qualsiasi livello sociale come baby sitter di lusso. Anche l’assegno che veniva dato loro era ridicolo così a fine anni Ottanta ho sviluppato il concetto di tenore di vita che purtroppo l’anno scorso la Cassazione ha eliminato. Ma le donne nel frattempo hanno raggiunto gli uomini come capacità economiche e quindi non ha senso che vengano gratificate di qualcosa che possono fare da sole. Ora devo proteggere la parte debole: in questo momento ho il 70 per cento di uomini come miei clienti perché voi non avete idea di cosa sono diventate le donne. Prepotenti, arroganti, furbe».

Sclaunich: È arrivata al top della carriera e della realizzazione senza rinunciare a niente, alla fine?

«Ho rinunciato a tantissimo perché quando mi sono separata da mio marito è stato un grandissimo dolore, non avrei mai voluto rubare la famiglia alle figlie. Però mi sono detta: io sono un esempio per queste ragazze, che erano sui dieci anni, non possono crescere con me che accetto tutto per rimanere sposata. Ero una grande femminista perché combattevo, andavo a fare le dimostrazioni con Pannella, facevo cose forti per quegli anni».

Agnese: Ma con quel forte senso materno come è riuscita a lasciarle andare, poi?

«Mi costa ancora oggi, ogni volta che partono sto male. Sono stata solo mamma finché loro hanno avuto dieci anni: le ho allattate fino a quasi un anno, le ho cresciute e sono sempre stata con loro. Purtroppo mio marito era assente come padre e questo è stato uno dei motivi della separazione».

Agnese: Le sue figlie che mamme sono?

«Io me la tiravo sempre che ero stata una mamma brava e capace, il mio mito era la psicanalista francese Françoise Dolto che spiega come si debba essere con i figli in una posizione paritaria avendo però la severità dei comandi e delle regole. Ma le mie figlie verso i 17-18 anni sono diventate scatenate: discoteca, viaggi... Io dicevo di no, ma trovavano sempre il modo di uscirne: ho pensato che mai si sarebbero sposate e avrebbero voluto fondare una famiglia. Invece sono diventate poi delle madri che ti giuro, se penso che io quando ho ricominciato a lavorare ho fatto quello che non si dovrebbe fare: le ho lasciate sole a casa, da minorenni... E me ne vergognavo da morire».

Sclaunich: Se tornasse indietro, c’è qualcosa che farebbe in modo diverso per gestire l’equilibrio tra lavoro e figlie?

«Starei di più con loro. Mi sento ancora in colpa per averle lasciate sole, quando sono ritornata al lavoro non avevo nessuno che mi aiutasse. La domenica mi portavo il lavoro a casa e le piazzavo davanti alla televisione, in un’altra stanza».

Agnese: La sua psicologa junghiana che ne dice?

«Che sono stata una pazza ma siccome è venuto tutto bene, devo esserne contenta».

Sclaunich: Prima ha menzionato il senso di colpa. Non ho ancora conosciuto una mamma, me compresa, che non ce l’abbia. Ma i papà ce l’hanno?

«Ce l’hanno sì, non verso sé stessi ma verso i figli: ne avrei di esempi».

Agnese: Lei che è libertaria, che ha fatto le battaglie con Pannella, cosa pensa della maternità surrogata?

«Sono contraria, nell’interesse del bambino: mi fa orrore che un figlio venga cresciuto in una pancia per poi andare dall’altra parte del mondo, a maggior ragione se mantiene un rapporto con la madre originaria. Io sarei per cambiare la possibilità di adottare in Italia, che è gestita in modo vergognoso quando invece esiste la possibilità di partorire e lasciare il figlio in ospedale: già solo lì si dovrebbe poter adottare all’istante, dando la possibilità anche a single e coppie omogenitoriali. Per me, l’amore non ha sesso e non deve essere contaminato dall’idea della coppia del presepe. L’amore è amore. Non sapete quante mamme ci sono che non amano, non è vero che una mamma ha per istinto l’amore».

Sclaunich: Quindi cos’è che fa di una donna una madre?

«La responsabilità di esserlo. Responsabilità deriva dal latino responsum , quindi risposta: la risposta alla vita e se non gliela dai tu, un figlio è infelice per sempre. Penso alle mamme che non li seguono, che non dicono mai di no pur di toglierseli di torno. Tutti i no che ho detto alle mie figlie li ho sentiti come botte al mio fegato, ma l’ho fatto per far loro conoscere i limiti».

Sclaunich: Loro di questi no si ricordano? La ringraziano di averli detti?

«Non mi ringraziano, ma stanno dicendo gli stessi no ai loro figli. Per esempio mi avevano messo in croce perché volevano il motorino e ora una sta combattendo allo stesso modo. Le caramelle, invece, gliele davo sempre anche se non doveva essere una cosa sistematica. Avevo un mio modo di viziarle, perché a mia volta io non ero stata viziata: i miei genitori erano stati assenti, mia mamma aveva preferito la carriera diventando una delle prime donne avvocato e noi figli siamo stati in collegio. Io oggi sono felice di dare alle mie figlie tutto quello che vogliono, anche perché quando mi sono separata eravamo povere: se mi invitavano a pranzo chiedevo se potevo portare anche loro così almeno mangiavamo carne».

Sclaunich: Non immaginavo fosse così! Molto spesso noi donne seguiamo esempi di leadership al maschile, mi ha fatto piacere scoprire che si può essere leader anche mettendo avanti le proprie caratteristiche femminili, comprese quelle materne.

«Pensa che io non cucino mai, mangio spesso al ristorante. Ma se ci sono le mie figlie mi metto ai fornelli e nessuno si immagina che mentre sono al telefono per lavoro intanto sto preparando il ragù per tutti».

Francesco Totti: «Non ho accettato il distacco dal calcio. Spalletti? Fu unico. Con Ilary devo trovare un nuovo equilibrio». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 2 novembre 2023.

Parola di Francesco Totti: «I gregari sono più importanti dei numeri dieci. Mi manca mio padre, mi basterebbe vederlo anche solo 10 secondi al giorno. Un rimorso? Lo sputo a Poulsen»

Francesco Totti, tu sei stato un leggendario numero dieci. Ti dispiace sia un genere in via d’estinzione?

«Sono spariti perché ora è un altro calcio. È un’altra visione, un altro modo di giocare. Ora prevale il fisico sulla tecnica. Nel tempo in cui giocavo io c’erano sempre, in ogni squadra in Italia o all’estero, uno o due giocatori di altissimo livello. C’erano uno o due numeri dieci potenziali. Insieme facevano il numero venti. Saremo stati fortunati, ma il calcio era più bello».

Tutto è cambiato con Sacchi?

«Vedi, il dieci era un giocatore diverso dagli altri dieci. Era uno che doveva correre meno ma sfruttare ogni occasione di talento: un assist, un tiro al volo, un dribbling difficile. Doveva essere lucido, sempre fresco. Per questo il dieci tornava di meno. Sacchi portò tutti a rientrare in difesa. E questo fece sparire lo spazio tecnico per il dieci considerato come il fulcro della squadra, l’elemento di sorpresa. Il calcio si è fatto più organizzato, ma meno sorprendente».

A te chiedevano di tornare?

«No. L’unico era Zeman, che faceva un gioco alla Sacchi. Con il suo 4-3-3 era previsto che io tornassi. Per fortuna su quella fascia c’erano Candela e Di Francesco che correvano anche per me».

Quanto contano i «gregari» dei numeri dieci?

«Per me sono più importanti i gregari dei numeri dieci. Nei novanta minuti sono loro decisivi. Senza gli uni non ci sarebbero gli altri. Pensa a Platini senza Bonini, a Rivera senza Lodetti. Gregario è una bellissima parola, non solo nel ciclismo o nel calcio. Tutti siamo gregari di qualcosa o di qualcuno, nella vita».

Oggi vedi un numero dieci nel calcio mondiale?

«No, non esiste più. Si è estinto, quel ruolo. E infatti non trovo una squadra che mi entusiasmi. Ma ti ricordi il Real Madrid, il Barcellona, il Liverpool, l’Inter del triplete...».

Quali sono le doti che deve avere?

«Tecnica, ovviamente. Ma soprattutto la velocità di testa. Se tu capisci le cose prima degli altri, se vedi i movimenti dei compagni di squadra, se tocchi la palla una volta meno del necessario, tu hai già fatto il tuo, da numero dieci. Direi che questa è la caratteristica: vedere prima e fare prima. Io ero fortunato perché avevo Perrotta, Delvecchio, Di Francesco che sapevano e capivano come giocavo io e, a loro volta, sapevano dove avrei messo la palla. Lo sapevano prima, anche loro. Se uno ha talento, cioè anticipa il normale, tutta la squadra gira più veloce».

Chi era il più forte che hai incontrato?

«Per me, sentimentalmente, era Giannini. Mi piaceva perché era il capitano della Roma, era il mio idolo, giocava davanti alla difesa e sapeva guidare tutta la squadra. Volevo diventare come lui, da bambino. Tra quelli con cui ho giocato direi Zidane. Era completo, aveva tutto. Tutti forti, ma ognuno diverso. Prendi me e Del Piero. Uguali e opposti. Lui più veloce nel dribbling, calciava a giro. Io mettevo le palle di prima, senza pensarci, d’istinto. Ognuno aveva la sua dote che lo ha reso, anche nella memoria dei tifosi, unico. Unico perché irripetibile».

Sono spariti i liberi e i numeri dieci, c’è meno pensiero nel football?

«Erano i numeri e i ruoli più belli. Chissà, forse anche io avrei dovuto fare come Di Bartolomei o come Beckenbauer. Avrei potuto rinunciare a fare gol e mettermi dietro a impostare il gioco. Ma mi piaceva troppo segnare. E Spalletti, nell’ultima fase, mi ha consentito di spostarmi più avanti per farlo e raggiungere il mio record. Alla mia età — premesso che se fosse per me giocherei ancora — o vai più indietro, in campo, o più avanti».

Con quali allenatori ti sei trovato meglio?

«Per primo Mazzone, che ricordo con grande affetto. Poi Zeman e il primo Spalletti. Lo devo dire. È la verità».

Spalletti. Ha dimostrato, di nuovo, di essere un grande allenatore. Vuoi dire qualcosa che chiuda la polemica tra voi?

«Se lo incontrassi lo saluterei con affetto, mi farebbe piacere. Credo che tra noi ci sia un profondo legame. Anche perché quello che abbiamo passato insieme, quando arrivò da Udine, è per me, nella mia vita, qualcosa di irripetibile. Sia in campo che nel quotidiano. Io uscivo una o due volte a settimana con lui a cena. Luciano era una persona piacevole, divertente, sincera. Nella fase finale il nostro rapporto è stato condizionato dall’esterno, specie dai dirigenti o consulenti della società, e non ci siamo più capiti. Anche io ho fatto degli errori, ci mancherebbe. Credo che tutti e due, se tornassimo indietro, non entreremmo più in conflitto».

Come vedi la Nazionale?

«Conoscendo lui, che è uno degli allenatori più bravi, se non il più bravo in Italia, sapevo che avrebbe impresso una svolta. La squadra sa come stare in campo, si vede che giocano più liberi, che si divertono. I risultati verranno, è comunque una fase difficile per il calcio italiano. Spero solo che riusciremo a qualificarci per Europei e Mondiali. Otto anni senza partecipare ai campionati del mondo sono stati duri, per chi ama il calcio».

I dieci e i nove e mezzo di cui parla Platini. Tu?

«Io ero un falso nove. No, in verità ero un misto. Non ho mai fatto la prima punta. L’intuizione di Spalletti è stata quella di inventare, con il mio ruolo, una figura di calciatore moderno. Un numero nove che diventava la fonte del gioco dalla trequarti in avanti. Avevo doti fisiche, andavo incontro alla palla e aprivo per Mancini, Perrotta, Taddei. Oppure, davanti alla porta, riuscivo a tirare e segnare. Ero imprevedibile. Per le mie caratteristiche tecniche, ma anche per il ruolo che Luciano si inventò. Forse sono stato un prototipo di numero dieci moderno».

Quanto è pesata la morte di tuo padre? Ora sono tre anni.

«Tanto, era il mio punto di riferimento, era il fulcro della mia vita. Mi mancano il suo sorriso, lo sguardo, la sicurezza che era capace di darmi. Anche oggi, se lo vedessi solo dieci secondi al giorno, mi basterebbe per stare meglio. Pure se non ci dicevamo una parola, ci capivamo. Lui parlava poco. Io peggio di lui. Ma quei silenzi erano pieni. Lui veniva la mattina a Trigoria, portava cornetti, pizza per tutti. Magari non ci incontravamo, ma sapere che c’era mi dava serenità».

Del calcio cosa ti manca?

«Tutto. Il ritiro, lo spogliatoio, la maglietta, la sala massaggi. Cavolate? No, erano la mia vita. Mi manca il bar e il caffè con i compagni di squadra, il viaggio in pullman da Trigoria allo stadio. Mi manca la routine che ha fatto la mia vita per decenni. Quando è finita le giornate si sono svuotate. Dopo mi sono sentito solo. Ma ci sta. Finiva una cosa che mi piaceva, che era la mia vita. Io però non pensavo che mi facesse così male smettere quella vita programmata, quella passione che nella mia mente avrei potuto continuare a vivere. Non ho accettato il distacco dal calcio».

E il modo in cui la Roma ti ha trattato?

«Io ho passato trent’anni nella Roma. Ho portato rispetto a tutti, rinunciato ad altri ingaggi senza farlo pesare. Ho detto no al Real e altri perché volevo quella maglia, solo quella maglia giallorossa che è stampata dentro di me. Il modo in cui è finita la mia storia con la Roma, sì, mi è dispiaciuto. La verità è che quando nel calcio non servi più non c’è più rispetto. Se Maldini, Del Piero, Baggio, io siamo fuori dal calcio significherà qualcosa, no?»

Mourinho ha detto che ti avrebbe voluto nella Roma. Ti piacerebbe?

«Certo che, con un ruolo definito, mi piacerebbe, per le ragioni che ho detto prima. E mi piacerebbe con Mourinho, è il numero uno, lo stimo molto. Mi dispiace non essere stato allenato da lui, nella mia carriera. Ma non voglio tornarci su. Non voglio chiedere. Alla Roma sanno che se hanno bisogno di me, per cose serie, mi fa piacere dare una mano. Altrimenti, amici come prima».

Il distacco da Ilary. Eravate una coppia molto bella.

«Noi due abbiamo passato venti anni insieme, con tanti momenti molto belli. Ora vorrei solo che trovassimo un equilibrio tra noi capace di proteggere i ragazzi che sono la più grande ragione, per ambedue, di amore. So che non è facile, ma quello che c’è stato tra noi, per tanti anni, è stato importante. Se troviamo questo equilibrio noi due, i ragazzi staranno bene e si sentiranno protetti».

La scelta di Mancini? E quella di ragazzi di venticinque anni che vanno a giocare nei Paesi arabi?

«Ha sbagliato tempi e modi. È una sua decisione e va rispettata. Poi vai a capire le dinamiche interne tra lui e la Federazione. La differenza tra i nostri venti anni e questi sta tutta nei soldi. Ma in fondo se tu non sei tifoso della squadra di cui indossi la maglietta cosa ti dovrebbe impedire di accettare la migliore offerta? È un calcio senza sentimenti, con giocatori sempre con la valigia in mano. È tutto freddo, portano le cuffiette invece di parlarsi, nello spogliatoio. Noi quando arrivavamo al derby da quindici giorni prima pensavamo a quello che dovevamo fare: le magliette da mostrare se vincevi, il modo più elegante per incassare una sconfitta... E lo stesso facevano i laziali. Per me e per Nesta, che eravamo amici, era un’occasione per gli stessi sfottò che circolavano in città. Questo clima ti creava un’adrenalina dentro... Quando scendevi in campo, avevi voglia di spaccare il mondo. Ora cosa vuoi che gliene freghi del derby...».

Cosa è stata per te la maglietta giallorossa?

«Tutto. Passione, amore, paura, divertimento, emozione. Era il mio sogno da bambino. La mia vita è stata fortunata. Devo solo onorarla e ringraziarla. Ci ho messo del mio. Ma non sempre basta».

Se tu incontrassi te stesso bambino, c’è un errore che gli diresti di non fare?

«No, gli errori servono. Ti fanno crescere, ti aiutano a non farli più. Io mi rimprovero lo sputo a Poulsen che, nonostante le immagini televisive, per me non è successo. Non posso immaginare di avere sputato a una persona, è la cosa più assurda e più lontana dal mio modo di intendere il calcio e la vita».

Lippi quanto è stato importante per te?

«Quando arrivava Lippi stavi sull’attenti. Con lui ho avuto un rapporto speciale. Lui mi ha portato per mano ai Mondiali. Quando venne in clinica, dopo l’incidente che poteva compromettere la mia partecipazione, io non ci credevo, mi prese un colpo. E poi mi ha seguito, veniva a Trigoria, telefonava. È lui che mi ha dato la forza e la possibilità di vivere uno dei due giorni più importanti della mia vita da calciatore: il Mondiale del 2006».

L’altro credo di saperlo...

«Lo scudetto del 2001. Eravamo una squadra fantastica e la città impazzì. Dei giorni indimenticabili».

Cosa pensi dello scandalo delle scommesse?

«Non voglio dare giudizi moralistici. Ma ci sono regole, come quella di non giocare sulle partite di calcio, e quelle vanno sempre rispettate. Aggiungo che i ragazzi più giovani vanno tutelati e bisogna stargli vicino perché non si rovinino».

Esiste la depressione nel calcio. Tu stesso hai mai rischiato?

«Come la riconosci? Io non credo che abbia mai fatto parte di me. Può darsi che l’abbia avuta, ma non l’ho individuata. So di miei colleghi che l’hanno vissuta. Ma credo ci sia ovunque, in questo tempo».

È ormai tutto in prescrizione. Ti ricordi una gigantesca litigata nello spogliatoio?

«Una volta un litigio tra Panucci e Spalletti. Due tipi che prendono fuoco facilmente. Cominciano a discutere nel campo, poi appena finita la partita tutti a correre per evitare che si menino. Si sono affrontati nello spogliatoio e per separarli si è messo in mezzo Bruno Conti, che è piccolo piccolo. A Bruno, nel trambusto, è andata di traverso una crostatina che stava mangiando. Manca poco muore».

Cosa speri per il tuo futuro?

«Il mio sogno è di realizzare un altro sogno. Prima ne avevo uno, e sono riuscito a trasformarlo in realtà. Vorrei averne un altro, lo sto cercando. Ora vorrei solo vivere la vita con più serenità e tranquillità, dopo tutti i problemi che ci sono stati».

Da laroma24.it giovedì 31 agosto 2023.

Ecco le parole in chiave giallorossa di Roberta Pedrelli, la famosa ex di Mancini (un tempo calciatore della Roma, ora al Milan), 29 anni, mamma da nove mesi, appassionata di moda e di lingue straniere, con un passato da ballerina a Piazza Grande e a Buona Domenica e il sogno di approdare al Grande Fratello. 

Lo senti ancora Mancini?

“No, anche perché ci siamo lasciati bruscamente. Come ho già ripetuto più volte, mi ha lasciata lui, facendomi rimanere malissimo. È stata una grandissima delusione. Era come un figlio per i miei genitori e non si è mai degnato di andarli a salutare dopo la nostra separazione. Non è finita per una questione di tradimenti, lui è tornato con la sua ex, si è sposato ed è felice così”. 

Da quando vi siete lasciati non è più lo stesso in campo. Ci hai mai pensato?

“Evidentemente gli portavo fortuna… Scherzi a parte, non ho idea del perché abbia avuto questo calo. Non me lo so spiegare, ma lui ha sbagliato, sputando sul piatto dove ha mangiato, preferendo l’Inter”.

Con Ilary Blasi?

“Non ci siamo mai presentate. A questo proposito ci tengo a dire una cosa…”.

Prego.

“Quando Francesco ed Alessandro (Totti e Mancini, ndr) discussero, finendo per non parlarsi per alcuni mesi, si scrisse molto e a sproposito sui giornali. Qualcuno raccontò che andai a letto con Francesco e che la mia storia con Alessandro finì proprio per questo episodio. Niente di più falso. 

È vero, lo ammetto, litigarono per me. Un giorno Francesco fece una battuta in mia presenza, che io riportai successivamente ad Alessandro per essere sincera col mio ragazzo, e lui la prese malissimo. Non fu una cosa grave, sapete com’è Francesco? È romano, è una persona schietta e gli piace scherzare. Io e Francesco, però, non ci siamo mai sfiorati. Ci tengo a sottolinearlo, anche per Ilary che non sarà stata contenta di leggere una storia simile. E poi sai cos’è successo quando ci siamo lasciati io ed Alessandro?”.

No, cosa?

“Che Alessandro si è riavvicinato immediatamente a Francesco, dando così agli altri la sensazione che davvero ci fosse qualcosa sotto, e invece non c’era niente”.

Cassano era il migliore amico di Mancini ai tempi della Roma.

“Vero, ad Antonio voglio un bene dell’anima, anche se quando mi sono lasciato con Alessandro non l’ho più sentito. Gli danno sempre dell’ignorante, ma non è uno stupido. Anzi…”. 

Nel suo libro ha dichiarato di aver avuto seicento donne. Possibile?

“Beh, diciamo che a Trigoria e dintorni aveva i suoi movimenti...

(...)

Estratto dell'articolo di Giovanna Cavalli e Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” giovedì 3 agosto 2023.

E guerra sarà. Fino all’ultima velenosa ripicca, all’estremo rinfaccio: «Hai tradito per primo», «no sei stata tu». La separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi, che già non si presentava come delle più amichevoli, tutt’altro, sta per imboccare una via di non ritorno. 

Nei giorni scorsi la conduttrice tv (che in termini tecnici è la ricorrente), tramite i legali Alessandro Simeone e Pompilia Rossi, ha presentato al Tribunale civile di Roma una richiesta formale di addebito contro l’ex marito. Sostenendo che il loro matrimonio, durato quasi 17 anni, sarebbe finito per colpa di Noemi Bocchi, con cui l’ex 10 giallorosso l’avrebbe rimpiazzata.

L’atto è stato depositato e notificato alla controparte, che ha tempo fino al 10 agosto per rispondere. E lo farà. Gli avvocati Antonio Conte e Laura Matteucci, che assistono il Capitano (il resistente) starebbero preparando una dettagliata contro-richiesta. 

[…] 

Forse non negheranno che Francesco si sia innamorato di Noemi — fu lo stesso Totti ad ammetterlo nella celebre intervista al Corriere con Aldo Cazzullo: «La nostra storia è iniziata dopo Capodanno. E si è consolidata nel marzo 2022».

Metteranno nero su bianco anche una lista dei (presunti) flirt di Ilary. Con nomi e cognomi. Allegando i messaggini compromettenti scoperti sul cellulare della showgirl. («Non avevo mai spiato sul suo telefonino. Però quando mi sono arrivati avvertimenti da persone diverse, di cui mi fido, mi sono insospettito. Ho guardato. E ho visto che c’era una terza persona, che faceva da tramite tra Ilary e un altro»). 

Ovvero Alessia Solidani, fedele amica e parrucchiera di Ilary, che l’aveva pettinata anche per il giorno delle nozze all’Ara Coeli in diretta su Sky. 

Nel documento, che verrà consegnato in queste ore, si farebbe quindi esplicitamente il nome di Cristiano Iovino, il tatuato e palestrato personal trainer romano di cui tanto si è scritto la scorsa estate. E forse anche del fascinoso attore Luca Marinelli, amico di Melory Blasi, sorella di Ilary. Più altri di cui si è lungamente dibattuto su siti e giornali.

Il giudice del Tribunale civile Simona Rossi, che ha fissato la prima udienza per il 20 settembre, non subito, ma in seguito, potrebbe quindi decidere di convocare le persone chiamate in causa. Tra cui molto probabilmente Noemi Bocchi. Ma forse anche il prestante Iovino. […] 

Intanto però proprio ieri, nell’ormai epica contesa borsette contro Rolex, il collegio della VII sezione del Tribunale civile di Roma, presieduto dal dottor Cinque, ha respinto l’appello di Ilary Blasi contro l’ordinanza-sentenza del giudice Francesco Frettoni. Condannandola in più al pagamento delle spese legali per 4 mila euro. Una dura sconfitta.

L’appello è stato ritenuto infondato. I Rolex non sono considerati regali per lei. Anzi, il Tribunale le ha ordinato di riportarli con urgenza in una cassetta di sicurezza cointestata. Confermando il compossesso, finché altra causa non ne stabilirà la proprietà. 

Inoltre i giudici precisano che la stessa Blasi, nei verbali dell’istruttoria di primo grado, aveva ammesso di aver prelevato 6 o 7 Rolex. E quindi adesso non può sostenere di averne presi 2 o al massimo 4. Quelli erano e quelli deve riconsegnare, non uno di meno. […]

Blasi e Totti, il giudice scontenta Ilary: assegno da 12.500 euro per i figli (ne aveva chiesti 30 mila). Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 20 aprile 2023

Per la separazione tra Totti e Blasi il Tribunale ha deciso per l'affido condiviso e spese straordinarie (viaggi, svago, cure mediche) al 50%, a lui il 75% di quelle scolastiche. La villa resta alla showgirl 

In realtà Ilary Blasi sperava di averne il doppio: per il mantenimento dei figli la conduttrice dell’Isola dei Famosi aveva chiesto a Francesco Totti 24 mila euro al mese. E che tutte le spese straordinarie fossero accollate al suo ex marito. Per un totale di quasi 30 mila euro. Invece ne riceverà 12.500, appena più della metà. Questo ha deciso il giudice Simona Rossi, che ha emesso i provvedimenti provvisori urgenti sulla separazione tra la showgirl e l’ex 10 giallorosso. 

Affido condiviso: le spese per i figli

Stabilendo che le spese straordinarie (viaggi, svago, cure mediche) siano divise al 50 per cento. A parte quelle scolastiche, che per il 75 per cento dovranno essere sostenute dal padre di Cristian, Chanel e Isabel. La villa dell’Eur da 1500 metri quadri è assegnata a Ilary perché è lì che vivranno i ragazzi, per i quali però l’affido sarà condiviso, come richiesto da entrambi i genitori. I due più grandi potranno alternarsi tra le due case (Totti ne sta cercando una all’Eur dove trasferirsi con Noemi), per la più piccola, che ha 7 anni, invece il giudice ha stabilito che resti con la madre. Totti potrà vederla secondo un calendario stabilito dal tribunale. 

Accuse, dispetti, ripicche...

Abbastanza spesso, si suppone, considerando che Ilary sarà spesso a Milano per l’Isola dei Famosi per i prossimi tre mesi. Si chiude così la prima puntata del divorzio più mediatico degli ultimi tempi. Il rapporto tra i due Grandi Ex negli ultimi mesi è stato sempre più difficile. Con accuse, dispetti e ripicche a distanza. Come è successo lunedì sera, al debutto dell’Isola dei Famosi. La doppia frecciata di Ilary Blasi a Francesco Totti ha punto sì il destinatario, ma non più di tanto. 

Le ironie di Ilary Blasi in tv

La conduttrice del reality dei naufraghi, aprendo la prima puntata su Canale 5 (di lunedì 17 aprile, edizione numero 17, con 17 concorrenti, cabala non ti temo), al primo minuto aveva ironizzato così: «Dall’anno scorso le cose sono cambiate, non c’è più un uomo accanto a me». Pausa strategica (in cui tutti naturalmente hanno pensato al Capitano romanista). Dopo di che la precisazione: «Sto parlando di Nicola Savino». E infine la chiusa: «Per uno che va, c’è sempre uno che arriva…». Ovvero Enrico Papi, il nuovo opinionista. 

Francesco Totti non raccoglie la provocazione

Ma era inevitabile pensare all’alternanza, nella sua vita, tra l’ex marito Francesco e il nuovo compagno Bastian Muller, imprenditore tedesco, evocato anche alla fine dell’intervista a Verissimo di domenica 16 (“Ora Bastian così”). L’ironia di Ilary - una delle sue armi migliori nella vita e nel lavoro, ha diviso i social (chi apprezza, chi no) - ovviamente ha centrato il bersaglio. Non si sa se Totti stesse guardando la tv o se glielo abbiano riferito in tempo reale. Però non ha gradito, tantomeno riso. Si è dispiaciuto, certo, per quella che considera l’ennesima mancanza di tatto e di rispetto. Però non ha raccolto la provocazione – non la prima né l’ultima - se la lascia scivolare addosso. 

In sospeso la causa su borsette e Rolex

Convinto, pare, che sia soltanto una mossa per fare parlare del programma. E nonostante glielo abbiamo chiesto in tanti, ha deciso di non rispondere. Nemmeno con una battuta. Preferisce ignorare e fare finta di niente. Quanto alla vicenda dei Rolex di Francesco (il Capitano sostiene ed è pronto a provare che la collezione è sua e non un regalo per Ilary, che li ha presi dalla banca a sua insaputa e messi in un’altra cassetta di sicurezza) e delle borse e scarpe della showgirl (ritrovate quasi tutte in un ripostiglio della villa), anche qui il giudice Francesco Frettoni è tuttora in riserva. Sta valutando se sentire dei testimoni e quanti (la lista arriverebbe almeno a 24, più del cast di un reality) o se gli basta aver studiato la documentazione, corposa anche questa (solo la memoria difensiva di Totti conta 120 pagine). Probabile stesse aspettando le valutazioni della collega Rossi sulla causa principale. Idem per la disputa della Longarina. Come dice Ilary all’Isola: «Il meglio deve ancora venire». O il peggio, fate voi. 

DAGOREPORT il 18 aprile 2023

L’autogol del Pupone. Se Totti avesse chiuso sei mesi fa l’accordo consensuale proposto dal suo avvocato di allora, Annamaria Bernardini De Pace, e accettato dal legale di Ilary, Alessandro Simeone, oggi sarebbe già pronto per firmare il divorzio. 

Non solo. Come raccontano le amiche di Noemi, l’accordo Bernardini-Simeone era economicamente più vantaggioso per il portafogli dell’ex capitano giallorosso. Ma l’accanita Noemi lo bocciò perché lo riteneva troppo esoso (insisteva per 6 mila euro: 2 mila a figlio). A quel punto, dall’alto del suo magistero di scafata matrimonialista, la Bernardini girò i tacchi.

Le voci che circolarono sei mesi fa, al momento della rottura con l’avvocatessa, erano queste: Totti sborsava a Ilary 12 mila euro al mese (4mila per ogni figlio) e sulle spese straordinarie dei tre pargoli (rate scolastiche, costi imprevisti, eccetera) da suddividere 70% al padre e 30 alla madre. 

Invece, grazie alla vispa Noemi, l’importo che ogni mese Totti dovrà bonificare alla Blasi sarà di 12.500 euro con le spese straordinarie da suddividere in 75% e 25. Non basta: il giudice Benedetta Rossi ha deciso che i versamenti dovranno iniziare non da oggi ma da febbraio scorso, dal giorno che lui lasciò la villa coniugale all’Eur. Più autogol di così…

Giuseppe Scarpa per repubblica.it il 18 aprile 2023 

La villa all’Eur, un assegno da 12.500 euro mensili. E soprattutto la custodia dei figli. Il primo round del divorzio dell’anno va a Ilary Blasi. Francesco Totti quindi, letta la prima sentenza provvisoria formulata dal giudice civile, esce sconfitto dal confronto con l’ex moglie.

Alla conduttrice, come detto, va la casa coniugale. Cristian e Chanel, i figli più grandi, potranno vedere il papà quando vorranno, potendo muoversi autonomamente. Diversa la questione per quanto riguarda la più piccola di casa Totti. Per vedere Isabel, l’ex capitano della Roma dovrà rispettare il calendario dettato dal tribunale. 

C’è anche una parte economica: Francesco Totti dovrà versare 12.500 euro al mese a Ilary Blasi per il sostentamento dei figli. Una somma a cui vanno aggiunte le spese scolastiche: l’ex campione giallorosso e della Nazionale dovrà coprirle per una quota pari al 75%.

Così si è espresso il giudice, rigettando di fatto le proposte di Totti: l’ex calciatore chiedeva di tenere per se la casa e di poter tenere i figli per metà dell’anno. Sul fronte economico, il numero 10 aveva offerto prima 0 euro al mese. Poi 6 mila. Che alla fine sono diventati 12.500. E' un primo round anche per i super avvocati coinvolti in questa causa, da un lato Antonio Conte per l'eterna stella della Roma, dall'altro i legali Alessandro Simeone e Pompilia Rossi. 

Totti-Blasi, Ilary «vince» la mega villa all’Eur. Ma le costerà 30 mila euro al mese.  Giovanna Cavalli e Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 20 aprile 2023

A carico della conduttrice gran parte delle spese di gestione della casa che  include 25 stanze, due piscine, Spa, campi da tennis e da calcio

Voleva tanto la casa di famiglia e l’ha avuta. Perciò Ilary Blasi potrà disporre come più le piace della mega-villa all’Eur a cui aveva già cambiato le serrature. Però dovrà pure pagarne — almeno in parte — gli altissimi costi di gestione e si parla di 30 mila euro al mese, mica spiccioli. Proporzionati a una gigantesca proprietà da 1.500 metri quadri, valore stimato sui 18 milioni, con 25 stanze, campi da tennis e da calcetto, parco, Spa, due piscine, telecamere e sofisticato sistema di sicurezza, dotata persino di un macchinario per la separazione automatica della spazzatura. Un saldo a cui finora provvedeva quasi sempre Francesco Totti (a cui è intestata), che si fa carico anche del mutuo.

L'assegno di mantenimento per i figli

Non sarà più così. Nei 12.500 euro di mantenimento per i figli previsti nei provvedimenti provvisori d’urgenza emessi dal giudice Simona Rossi, della I sezione del tribunale civile — che ha fissato la prossima udienza per il 20 settembre 2023 — per legge sono compresi vitto, abbigliamento, babysitter, carburante e telefonia, ma anche il contributo per le spese domestiche. Quelle straordinarie, invece, sono divise al 50 per cento con l’ex 10 giallorosso che pagherà il 75 per cento di quelle scolastiche. Le ordinarie no. 

La super-bolletta del gas da 10 mila euro

E pare che una delle ultime bollette del gas, con i rincari, fosse di 10 mila euro, tanto per capirci. A cui si aggiungono gli altri consumi e gli stipendi di governanti, giardinieri, addetti alla sicurezza. «Adesso se li ritrova tutti lei sul groppone», riassume in romanesco una fonte molto ben informata.

Le richieste di Ilary Blasi

Anche per questo la conduttrice dell’Isola dei Famosi, nel ricorso, aveva chiesto 24 mila euro. E che le spese extra fossero tutte a carico dell’ex marito, per cui si arrivava intorno ai 28-30. Ha ottenuto meno della metà. E appunto la sospirata villa, almeno finché Isabel, 7 anni, non diventerà maggiorenne. Ma proprio i costi elevati potrebbero indurla a ripensarci e a spostarsi altrove. Lasciando la residenza a Totti, che proprio in questo spera.

Totti ora cerca casa all'Eur (con Noemi Bocchi)

Intanto il Capitano sta cercando casa all’Eur. Forse potrebbe tornare nel condominio di lusso in cui abitava prima, allargandosi all’appartamento accanto, visto che ci saranno anche Noemi Bocchi e i suoi due bambini. Di certo lascerà l’attico di Roma Nord per stare vicino ai figli, troppo scomodo fare avanti e indietro nel traffico. 

E il giudice ordina a Totti di tenere i figli il lunedì

Il giudice per Cristian (17 e mezzo), Chanel (16 a maggio) e Isabel, ha concesso l’affido congiunto, come chiesto dai genitori, con il collocamento presso la madre. E un calendario di visite, weekend e vacanze solo per la più piccola, a cui Totti si dovrà attenere. Si comincia subito. Da ora e fino al 23 giugno, ogni lunedì, così ha disposto il giudice Rossi, il padre dovrà tenersi a disposizione e prendersi cura dei ragazzi, visto che Ilary Blasi sarà a Milano, impegnata con il reality. 

Il caso dei Rolex e della borsette

Dopo questa prima manche della causa di separazione giudiziale, è molto probabile che seguano, a cascata, anche le due dispute accessorie: quella su borsette e Rolex e quella sul circolo sportivo della Longarina. I rispettivi avvocati — Antonio Conte e Laura Matteucci per lui e Alessandro Simeone e Pompilia Rossi per lei — sono allertati.

La famiglia Blasi sfrattata dal centro sportivo di Totti

Nel caso degli accessori griffati (ritrovati nei ripostigli della villa) e della collezione di orologi svizzeri di Francesco (che Ilary ha prelevato dalla banca e spostato in un’altra cassetta di sicurezza a lei intestata) il giudice Francesco Frettoni sarebbe sul punto di prendere una decisione : sentire o meno i testimoni. O procedere in base alla documentazione. Così come la questione del centro sportivo alla Longarina, creato e finanziato da Totti e negli anni poi passato in gestione parziale alla famiglia Blasi, che non ha ancora mollato la presa. A quel punto l’eterno 10 giallorosso ha intimato loro lo sfratto.

Da leggo.it il 6 gennaio 2023.

Bikini maculato e posa sexy. Chanel Totti si mostra nel suo splendore, a soli 15 anni, e i follower non restano indifferenti. In vacanza con tutta la famiglia, ma al posto di mamma Ilary Blasi c'è Noemi Bocchi, Chanel si sta godendo la crociera in America. Stavolta la tappa è alle Bahamas, come rivela la secondogenita dell'ex capitano della Roma che pubblica stories Instagram mostrando le belle spiagge e gli animali marini che sta ammirando. Ma il post che ha pubblicato sul suo profilo ha suscitato scalpore per la posa hot e il fisico in bella vista. «Ma perchè crescere così in fretta» si legge, «sei troppo piccola per fare questo tipo di pose» e così via.

 «E questa ha solo 15 anni.....» scrive un altro hater, «Quando Onlyfans?» si legge ancora. Sono tantissimi i commenti al veleno rivolti a Chanel, e si contano quelli più morbidi, tra cui: «Bellissima», «Non li ascoltare», «Il gol più bello di Totti».

 La chiacchierata Chanel

Poche ore fa, Francesco Totti ha voluto condividere una foto con i suoi tre figli durante la vacanza che sta facendo insieme a Noemi Bocchi. La foto, postata nelle stories, deve essere stata scattata proprio dalla compagna del Pupone  e per quello che è successo dopo sembra che la seconodogenita Chanel abbia deciso di prendere le parti della mamma Ilary Blasi. Lo scatto infatti è stato condiviso sui social da Christian ma non da Chanel. C'è chi ha interpretato questo gesto come un segno di solidarietà verso la mamma, visto che, è molto probabile che quella foto sia stata scattata dalla donna per la quale il padre avrebbe lasciato Ilary.

 Il relax

Intanto però Chanel si sta godendo le vacanze con la sua famiglia, lontano dalla madre che nel frattempo è volata Thailandia con il suo nuovo compagno di cui però continua non mostrare il volto nelle sue pagine social. Scegliendo di non condividere lo scatto Chanel sembra aver voluto indirettamente mandare un messaggio alla madre, che si sarebbe potuta infastidire per quell'immagine. Non è un segreto infatti che tra mamma e figlia ci sia un rapporto molto speciale.

Da leggo.it il 9 gennaio 2023. 

Francesco Totti e Noemi Bocchi sono da poco tornati da una lunga vacanza insieme ai figli di lui, ma continuano ad essere al centro del gossip e delle polemiche. Dopo le accuse dell’ex marito di Noemi, Mario Caucci, spuntano nuove ombre sulla 34enne compagna del campione della Roma. Una persona vicina alla Bocchi, che pare la conosca da diverso tempo, ha messo Francesco sull'allerta.

 «Noemi pur di ottenere ciò che vuole non guarda in faccia a nessuno, è cinica e non si fa troppi scrupoli», ha raccontato questa fonte anonima al settimanale Nuovo, «Ha obiettivi precisi, con l’ex ha sempre fatto la bella vita». Accuse molto simili a quelle fatte da Caucci. Ancora una volta Noemi viene descritta come una donna molto ambiziosa, a tratti opportunista, che avrebbe come unico interesse il vivere nel lusso.

Le continue accuse non sembrano scalfire però la nuova compagna di Totti che ha solo replicato alla lunga intervista dell'ex con una storia su Instagram in cui, con una musica da circo, ha scritto: «Grazie per questi 10 anni unici». Una frecciatina con cui ha voluto rispondere a Caucci con cui è in causa per maltrattamenti. Di pareri divergenti sembra essere invece Totti, che ha sempre speso belle parole per la Bocchi, così come il suo amico Nuccetelli e Tommaso Eletti, l’ex star di Temptation Island che frequentava la Bocchi con la stessa comitiva.

Estratto da liberoquotidiano.it il 17 gennaio 2022.

(...) Pupo, in una intervista al Quotidiano nazionale, ha confessato di aver avuto problemi di ludopatia, ovvero di dipendenza dal gioco, che peraltro che ha fatto perdere migliaia di euro. Le indiscrezioni su Totti sono uscite nel momento in cui sono arrivate le segnalazioni dell’antiriciclaggio. In particolare, l’ex Capitano è finito nel mirino della Banca d’Italia per alcuni sospetti movimenti di denaro, pare legati a casinò di Montecarlo, Londra e Las Vegas.

Pupo avrebbe giocato una partita a carte con Totti. E in quella occasione, ha detto il cantante, ha notato un dettaglio significativo: "Ho giocato a poker con Francesco Totti una sola volta, in occasione di un torneo di solidarietà organizzato per raccogliere fondi in favore dei terremotati dell’Aquila, che andò in onda su La7, ricordo che, guardandolo negli occhi, mi accorsi subito che il gioco lo appassionava molto", ha raccontato Pupo. "Totti, secondo me, è una persona buona, sensibile e generosa, caratteristiche che, purtroppo, sono quasi sempre presenti nei soggetti affetti da ludopatia", ha sottolineato.

 Pupo però si è detto convinto che nel caso in cui Totti fosse ludopatico potrebbe comunque superare la sua dipendenza dal gioco visto che anche lui ci è riuscito.

Giacomo Amadori François De Tonquédec per “la Verità” il 15 Gennaio 2023.

Nel circuito di Francesco Totti le auto devono essere proprio una passione. E non mancano le sorprese. La nostra storia riparte da D.M., l'amico poliziotto che tra luglio e ottobre 2016 ha ricevuto dal Pupone due bonifici per complessivi 160.000 euro come «prestito in amicizia con vincolo di restituzione entro 24 mesi». Soldi che in realtà non sono mai stati ridati all'ex capitano della Roma.

 Come gli ulteriori 80.000 euro inviati, nel novembre 2021, alla suocera dello stesso D.M.: un trasferimento «disposto da Francesco Totti con causale prestito infruttifero» e segnalato nell'agosto scorso all'Antiriciclaggio poiché i risk manager non conoscevano «i legami tra le parti». Ma D.M. ci ha spiegato di non aver avuto bisogno di quel denaro e che quei soldi non sarebbero usciti dal suo conto.

Nella segnalazione è indicato anche un bonifico estero da 27.000 euro per l'acquisto del telaio di un'auto da una ditta individuale italiana con conto in Belgio. Il titolare dell'azienda, secondo la banca dati della Camera di commercio, sarebbe gravato da protesti e pignoramento immobiliare.

 L'auto sarebbe una Porsche acquistata all'estero per essere immatricolata (nazionalizzata) in Italia. Si tratterebbe di una Porsche Cayenne S. Questo tipo di operazioni vengono controllate con particolare attenzione per evitare l'evasione dell'Iva. Certamente dietro all'acquisto di macchine fuori dall'Italia esiste un ricco mercato. Nei giorni scorsi avevamo scritto che D.M. nell'aprile 2021 aveva acquistato una Porsche Cayenne, probabilmente pure questa di importazione, che è stata rivenduta nell'ottobre scorso. Non è chiaro se sia la stessa al centro del bonifico attenzionato dalla banca.

Prima di disfarsi della Porsche, a fine settembre, il poliziotto aveva, però, messo in garage una Audi di grossa cilindrata seppur usata. Con noi D.M. aveva un po' balbettato a proposito della sua passione per le auto sportive: «La Cayenne? Vabbè, ma io quella ce l'ho. No, non ce l'ho, l'ho venduta ce l'ho, ma mica è per Francesco che l'ho venduta».

Nei mesi scorsi D.M. è stato avvistato anche su una Lamborghini Urus. E pure in questo caso il poliziotto ha barcollato: «È di Francescooo» ha esclamato inizialmente.

 Salvo poi fare un rapido dietrofront: «So' macchine praticamente sono delle persone che noleggiano è un noleggio, degli amici nostri hanno un noleggio e ogni tanto così». Ma adesso scopriamo che D.M. tra il 2020 e il 2021 aveva acquistato altre due Porsche successivamente cedute.

 Dunque un poliziotto con uno stipendio di poco superiore ai 2.000 euro al mese che vive in una bella villetta ad Anzio compra e vende bolidi da diverse decine di migliaia di euro. Nel maggio del 2019 aveva acquistato una Porsche che ha rivenduto nel giugno del 2020 a un autosalone con sede nella zona di Tor Vergata. Nel gennaio 2022 l'auto è stata esportata all'estero o rubata.

 Nel febbraio 2020, prima di cedere la prima Porsche, D.M. ne avrebbe comprata una seconda, rivenduta a un altro commerciante di autovetture nell'aprile del 2021, quando arriva il terzo esemplare della marca tedesca. Dai dati del Pubblico registro automobilistico risulta che dalla costruzione all'immatricolazione in Italia per queste fuoriserie è trascorso sempre un po' di tempo, il che lascia immaginare che possano essere tutte auto di importazione. L'ultima cessione è stata fatta a un salone a due passi dalla stazione Prenestina, Motocash.

Socio e amministratore unico è Massimo Torcolacci, che da questo mese controlla e amministra anche la Automotocash Srl. All'indirizzo dell'autosalone, specializzato anche nella compravendita di moto usate aveva la sede la Moto Incontro, di cui Torcolacci deteneva una quota del 33%. La vecchia società ha chiuso i battenti nel 2020. Ad accogliere i clienti nei giorni scorsi c'erano il titolare e un giovanotto che potrebbe essere l'amministratore unico. A ottobre avevano acquisito la Porsche di D.M. con il cosiddetto minipassaggio che costa circa 100 euro, poi, il 5 dicembre, è stato fato il passaggio ufficiale e la macchina è rimasta intestata all'autosalone.

Torcolacci nel 2016 era stato segnalato all'autorità giudiziaria dal compartimento Polstrada di Roma per riciclaggio di autovetture e nel 2015 dai carabinieri di Vico Equense per truffa. Ma l'imprenditore contattato dalla Verità replica: «La querela di Vico Equense è stata archiviata. Si trattava di una donna che aveva comprato una moto, dopo due anni le avremmo restituito la cifra che aveva pagato, ma lei voleva 5.000 euro di risarcimento. Ci stava facendo una sorta di estorsione e noi abbiamo denunciato lei».

 Nel procedimento per riciclaggio era accusato insieme ad altre due persone di aver tentato di «nazionalizzare» due veicoli di presunta provenienza illecita, noleggiati con falsa documentazione in Spagna. «Sono andato al processo come testimone perché la mia posizione è stata archiviata immediatamente» puntualizza anche in questo caso Torcolacci. «In 25 anni di questo tipo di lavoro può capitare qualsiasi genere di inconveniente» conclude l'uomo.

Una delle auto disponibili a noleggio della Motocash, una Ferrari Gtc4 gialla compare in molte delle foto scattate (sembra anche dalle forze dell'ordine) al funerale di Nicholas B., il giovane di origine rom che nel luglio scorso si è schiantato sul Gra a 294 chilometri orari con un'Audi R8 presa a noleggio (apparentemente da un'altra società), mentre l'altro passeggero stava girando un video probabilmente destinato alla pubblicazione su Tiktok. Su questo social anche dopo il funerale si trovavano i video con le folli corse del giovane.

 La famiglia del ragazzo sarebbe già nota alle forze dell'ordine perché coinvolta nello spaccio di cocaina e hashish nel quadrante sud di Roma e sarebbe legata ad alcune cosche della 'ndrangheta. Una circostanza smentita, però, dai legali dei genitori della vittima. «Molti dei noleggiatori, non le dico quasi tutti i noleggiatori di auto di grossa cilindrata per i funerali di quel ragazzo hanno fornito una o più macchine in forma di rispetto.

Poi magari sono state usate in modo un pochino esagerato, però» ci spiega Torcolacci a proposito della sfilata. Anche sul profilo Instagram di un altro personaggio controverso si trova traccia di una delle auto che la Motocash ha pubblicizzato attraverso i suoi profili social. È una Mercedes G63 Amg nero opaco, immortalata in una delle storie che Danilo V., il ventenne rapito (e poi rilasciato il giorno successivo) in un locale di Ponte Milvio, aveva pubblicato sul suo profilo Instagram poi disattivato. Danilo V. è il figlio di Maurizio, conosciuto come «il sorcio» uno dei boss dello spaccio di San Basilio, già oggetto di una gambizzazione qualche mese fa. Probabilmente per una coincidenza, Chanel Totti è andata nello stesso locale di Ponte Milvio proprio la sera del rapimento di Danilo. Dopo che questa circostanza è diventata di pubblico dominio i due ragazzi sono diventati follower l'uno dell'altra, salvo poi ripensarci.

Giacomo Amadori per la Verità il 7 gennaio 2023.

A Ilary Blasi alcuni articoli pubblicati dai media dopo lo scoop della Verità sulle segnalazioni dell'Antiriciclaggio sul suo ex compagno Francesco Totti non sono proprio piaciuti. In particolare le indiscrezioni in base alle quali «l'entourage di Totti» sospetterebbe che dietro alla nostra esclusiva e al relativo «nuovo scandalo» ci possa essere «lo zampino» della Blasi.

 Che avrebbe rifornito di notizie tanto succose un giornale con cui non ha mai avuto rapporti e che per la prima volta si è occupato delle presunte disavventure extracalcistiche dell'ex capitano della Roma.

E così l'avvocato milanese Alessandro Simeone, legale della showgirl, ha precisato con le agenzie che «la propria assistita nulla sapeva dei movimenti di denaro da e per l'estero evidenziati nell'inchiesta del quotidiano La Verità e segnalati come sospetti dagli organi competenti. È dunque impossibile che le notizie siano state fatte trapelare dalla signora Blasi, come malignamente ipotizzato nel tentativo maldestro di coinvolgerla in eventi a cui è estranea. D'altra parte, i conti oggetto di segnalazione erano di pertinenza esclusiva del signor Totti e la moglie, con la fiducia che contraddistingue ogni solido rapporto matrimoniale, non ha mai effettuato su di essi alcun tipo di controllo».

La Blasi è ritornata nelle scorse ore in Italia dopo aver trascorso il Capodanno in Thailandia.

Ieri un quotidiano sportivo si è sostituito all'ufficio stampa del Pupone e ha pubblicato un idilliaco articoletto di risposta alla nostra inchiesta. E ha scelto un titolo furbetto e acchiappa lettori: «Totti e il gioco d'azzardo, ecco la risposta del Capitano dal Messico». Risposta che in realtà non c'è. Ecco il seguito del «comunicato»: «Mentre continuano le indiscrezioni sull'indagine che lo riguarda, Francesco pubblica una foto al tramonto con i tre figli: "L'amore della mia vita"». L'ultima frase è una citazione della canzone di Arisa che fa da sottofondo al post.

Il testo prosegue: «Se la vacanza caraibica gli sia stata, davvero, rovinata, forse lo sa solo lui. Ma Francesco Totti, per il primo vero viaggio con i figli da papà separato, sta cercando comunque di mantenere il sorriso, dall'altra parte del mondo, per i suoi ragazzi. Ma di certo le notizie uscite ieri non gli hanno fatto piacere, per usare un eufemismo, perché hanno rappresentato l'ennesima bufera mediatica nei suoi confronti. Una bufera a cui, per ora, lo storico capitano della Roma non ha replicato ufficialmente: forse lo farà nei prossimi giorni, quando rientrerà in Italia, e intanto valuta il da farsi, anche dal punto di vista legale per tutelare la sua immagine. Nel frattempo, però, Totti sceglie di far parlare immagini e musica».

 In attesa delle spiegazioni «ufficiali» di Totti sulle operazioni finanziarie attenzionate dall'Antiriciclaggio, noi abbiamo deciso di portare avanti le nostre ricerche.

Da un conto su cui venivano versati gli stipendi dell'ex fuoriclasse, tra il maggio 2017 e il maggio 2018 è stata rilevata come critica l'emissione di cinque assegni bancari per 1,5 milioni di euro, tutti a favore della società che controlla il casinò di Monte Carlo. Sotto osservazione anche due bonifici datati luglio e ottobre 2016 disposti a favore di D.M. per totali 160.000 euro con causali «prestito in amicizia con vincolo di restituzione entro 24 mesi». Soldi che in realtà non sono mai stati ridati al Pupone. Come gli ulteriori 80.000 euro inviati, nel novembre 2021, alla suocera dello stesso D.M.: un trasferimento «disposto da Francesco Totti con causale prestito infruttifero» e segnalato nell'agosto scorso all'Antiriciclaggio poiché i risk manager non conoscevano «i legami tra le parti».

 Con noi il beneficiario dei finanziamenti ha negato di averne avuto davvero bisogno, ma ha anche escluso che quei soldi possano essere serviti per effettuare scommesse al posto di Totti attraverso alcune ricevitorie dei Castelli romani specializzate in scommesse sportive, poker e casinò online. Come abbiamo scritto ieri l'ex campione del mondo, essendo iscritto dal 23 marzo 2021 al registro federale degli agenti sportivi, non potrebbe in alcun modo puntare sul calcio e l'amico, lo ribadiamo, ci ha assicurato che questo non è accaduto.

 L'amico D.M., che nel 2022 ha incassato circa 87.000 euro di vincite sul proprio conto (20.000 sono arrivati anche su quello del suocero) e che sostiene di poter contare su 10.000 euro di entrate al mese grazie a stipendi e pensioni, lo scorso autunno ha venduto la Porsche cayenne acquistata nuova nell'aprile 2021. L'uomo non ci ha voluto spiegare se il motivo della cessione sia legata alla passione per il gioco, «vizio» che, però, aveva già smentito che avesse causato danni alle sue casse famigliari. L'autosalone sulla Prenestina che è diventato proprietario del bolide e che promette di comprare quattro ruote e motocicli «in contanti» ieri era chiuso.

 Ma sul profilo Facebook della società si può ammirare una foto risalente al gennaio del 2021 in cui i presunti titolari si sono fatti immortalare al fianco di uno degli ex calciatori della Roma più legato a Francesco, Vincent Candela. Dietro a loro campeggia proprio una maglia di Totti, il 20 della Nazionale, in versione opera d'arte. Per D.M. si tratta di un salone di amici. Lo stesso che noleggia la Lamborghini urus con cui D.M. è stato visto in giro. L'auto fa bella mostra di sé anche sul sito insieme a Ferrari, Maserati e Porsche.

Resta aperta la questione della grande quantità di denaro contante (centinaia di migliaia di euro) ritirato allo sportello da Totti e dal fratello Riccardo negli anni, prelievi attenzionati dai risk manager della loro banca. Infine non è ancora chiaro chi abbia ceduto e perché a un gioielliere di Monte Carlo, città molto amata dal Pupone per via del casinò, i due Rolex griffati Totti (uno sarebbe un regalo di Natale dell'ex presidente della Roma James Pallotta) rivenduti per circa 30.000 euro nell'estate del 2020.

Estratto dell’articolo di Niccolò Dainelli per leggo.it il 6 gennaio 2023. 

[…] «In merito alle illazioni mosse da alcuni organi di informazione, l'avvocato Alessandro Simeone, nell'interesse della signora Ilary Blasi, precisa - in una nota - che la propria assistita nulla sapeva dei movimenti di denaro da e per l'estero evidenziati nell'inchiesta del quotidiano La verità e segnalati come sospetti dagli organi competenti.

 È dunque impossibile - continua l'avvocato a nome di Ilary Blasi - che le notizie siano state fatte trapelare dalla signora Blasi, come malignamente ipotizzato nel tentativo maldestro di coinvolgerla in eventi a cui è estranea. D'altra parte, i conti oggetto di segnalazione erano di pertinenza esclusiva del signor Totti e la moglie, con la fiducia che contraddistingue ogni solido rapporto matrimoniale, non ha mai effettuato su di essi alcun tipo di controllo».

 Giacomo Amadori per “La Verità” il 6 gennaio 2023.

Chi trova un amico trova un tesoro. Per avere conferma citofonare D.M., compagno di zingarate di Francesco Totti, che ieri ci ha raccontato di aver ricevuto in prestito dall'ex capitano della Roma 160.000 euro (con due bonifici datati 8 luglio e 3 ottobre 2016) che non ha mai restituito e altri 80.000 nell'agosto scorso, questa volta inviati sul conto corrente della suocera, per non dare troppo nell'occhio.

 Nella versione di D.M. si tratterebbe di denaro che avrebbe ottenuto in un momento di difficoltà economica e non per altri motivi. Non certo, per esempio, per fare scommesse al posto di Totti. D.M. ci ha spiegato che la passione delle puntate, anche sul calcio, è sua e che le vincite per un totale di 87.000 euro in pochi mesi le ha fatte lui utilizzando i soldi della pensione dei suoceri.

 Ma l'intervista di questo quarantaseienne in presunta difficoltà ieri ha suscitato l'ilarità di chi conosce bene lui e la moglie A.M.. I due infatti non danno proprio l'impressione di passarsela male. Anzi l'uomo è stato avvistato più volte sotto l'ufficio della compagna, in zona Olimpico, a bordo della Porsche Cayenne che, almeno sino a qualche settimana fa, era intestata a suo nome.

 I nostri lettori arricceranno il naso nell'immaginare il povero D.M., bisognoso di ripetuti prestiti, che sgomma per le vie di Roma su un bolide da quasi 100.000 euro. E non solo su quello. Infatti sarebbe stato visto alla guida anche di una Lamborghini Urus gialla fiammante. «La Lamborghini? È di Francesco» ci ha spiegato ieri a caldo. Per poi correggersi parzialmente: «Degli amici nostri hanno un noleggio». La moglie viaggia, invece, su una Mercedes Glb 180 D del 2020.

Ma i due coniugi hanno anche molti soldi sui conti correnti e due villette adiacenti ad Anzio di 6,5 vani e 4,5 più alcune pertinenze. Come detto, i due hanno pure una buona disponibilità di liquidi. Quest' anno avrebbero fatto giroconti da 45.000 euro e 79.000 euro e avrebbero eseguito «traenze dirette» verso se stessi da 265.000 e 280.000 euro. Quasi mezzo milione di risparmi che D.M. ha giustificato così: «Sono sei anni che non tocchiamo gli stipendi, prendiamo 80.000 euro l'anno e poi abbiamo venduto la casa di mia suocera e ci sono arrivati 200.000 euro. Poi, siccome un periodo abbiamo litigato e non sapevamo come andava a fini', avemo deciso che dei soldi che c'avevamo facevamo metà per uno così abbiamo aperto due conti diversi».

D.M., per la precisione, ha parlato di 10.000 euro al mese di entrate tra emolumenti e pensioni dei suoceri e di 80.000 euro di stipendi annui che i coniugi accantonerebbero da brave formichine, vivendo con l'assegno di anzianità dei genitori della donna. L'unico fuori programma sarebbero gli acquisti con l'e-commerce della consorte: «Mia moglie spende circa 1500 euro al mese online». A.M., a partire dal gennaio 2022, è stata promossa quadro nella società Sport e salute (controllata dal ministero dell'Economia), l'ex Coni servizi, e lo stipendio è salito a circa 45.000 euro annui, più o meno 10.000 euro in più rispetto a quello del marito, dipendente del ministero dell'Interno.

Ma qualcosa non torna. Infatti, se è vero che i due coniugi portano a casa salari che corrispondono a quanto dichiarato da D.M., si tratta di emolumenti lordi che vanno decurtati almeno del 30%. Perché l'uomo avrebbe dovuto gonfiare con noi le entrate famigliari? Non ci è chiaro. D.M. ci ha pure assicurato che Francesco Totti non avrebbe bisogno di lui per scommettere, se volesse, sulle partite di calcio, non essendo più un giocatore professionista.

In realtà il Pupone resta un tesserato nel settore del pallone. Dal 23 marzo 2021 è iscritto al registro federale degli agenti sportivi domiciliati e, stando al nuovo regolamento, Totti può, quindi, operare nel mercato italiano, ma, ovviamente, non può scommettere. D.M. ci ha garantito, però, che i soldi che gli ha prestato l'ex campione del mondo non servirebbero per le puntate: «Io ce so' stato in difficoltà, purtroppo. Però adesso non ce sto più. Io sono un amico di Francesco da quindici anni e visto che io e mia moglie abbiamo avuto dei problemi, non mi vergogno a dirlo, gli abbiamo chiesto un prestito e ce l'ha fatto».

 Nonostante i presunti alti e bassi (per cui avrebbe ottenuto un finanziamento anche ad agosto) D.M. continuerebbe a scommettere nelle sale da gioco di un amico di Frascati, il trentaquattrenne C.M., investendo discrete sommette e portando a casa buone vincite.

Lui ha negato più volte che quelle puntate siano fatte per Totti, ma allora proprio non si spiegano quei prestiti infruttiferi a una persona con immobili, buono stipendio e una Porsche.

 D.M. giura di non aver restituito sotto qualsiasi forma i suoi soldi al Pupone, il quale era finito già al centro di segnalazioni per operazioni sospette per la gran quantità di contante prelevato allo sportello.

In una sos si ricorda che nel 2016 Francesco aveva emesso assegni bancari a favore del fratello Riccardo per complessivi 230.000 euro e che il consanguineo ne aveva chiesto il saldo in contanti dopo che, nel 2015, aveva effettuato due ulteriori prelievi allo sportello per un totale di 90.000 euro. Operazioni che sarebbero state «motivate con generiche esigenze personali in linea con l'alto tenore di vita». Nel 2015 lo stesso Francesco Totti era stato segnalato per il ritiro di 100.000 euro in contanti e il fratello Riccardo, nel 2012, per l'incasso di 170.000 euro complessivi.

D.M. ha spiegato che tutto questo cash servirebbe al Pupone per aiutare i molti amici e parenti in difficoltà. Sarà, ma qualcuno sospetta che quel denaro possa servire per giocare a poker e scommettere in ricevitoria senza lasciar traccia. Ovviamente non v' è certezza che queste ipotesi corrispondano alla realtà. L'amico ha escluso con forza che l'ex capitano della Roma frequenti bische «clandestine» o che possa puntare sulle partite di calcio.

 In ogni caso Totti sembra avere necessità di molto contante anche quando va in trasferta nell'amata Monte Carlo, dove ha un conto aperto e invia bonifici milionari. Per esempio 1,5 milioni tra maggio 2017 e maggio 2018 e 1,3 tra agosto 2018 e gennaio 2020. Ieri il sito Dagospia ha pubblicato le immagini di alcuni cronografi con questa didascalia birichina: «Nell'estate 2020 un gioielliere di Monte Carlo vendeva i Rolex d'acciaio griffati Totti a 15.000 euro: si trattava di due orologi, uno con un numero 10 nel cinturino e nel retro della cassa, dove è stata incisa anche una data, 9 dicembre 2013 (giorno della festa di Natale della Roma, quando il presidente James Pallotta fece il prezioso cadeau a tutti i giocatori, ndr).

Nell'altro, invece, si può vedere la scritta As Roma. Provenivano dalla collezione del Pupone, grande habitué del casinò del principato? Bene visto che per giocare al casinò non serve presentarsi con le valigie zeppe di contanti (basta la carta di credito) a che serviva e per cosa tutto quel denaro contante?». La solita domanda, per ora, senza risposta.

 Ieri abbiamo provato a contattare il titolare delle agenzie dei Castelli, senza fortuna.

Sappiamo solo che le vincite incassate da D.M. provengono dai negozi di scommesse Planetwin365 che è «il brand di punta di livello internazionale dei prodotti di betting e gaming del gruppo Sks365 Malta Ltd che sono autorizzati e regolamentati dall'Agenzia delle dogane e dei monopoli e dall'Mga maltese».

 L'azienda gestisce sia attività online che «terrestri», come pure le scommesse sportive, poker e casinò online. Ma D.M. con noi ha sempre negato di essere il puntatore ufficiale di Totti: «C'ho tutte le ricevute io! Ho scommesso io, sui Mondiali pure, e ho vinto io. Una volta 3.000, una volta 5.000 euro. Non potendomi paga' in contanti, mi fanno i bonifici. Capito? Fino a 1.999 me li darebbero cash, però, io me li faccio bonificare e quei soldi non li ho rigirati a nessuno».

Tutto questo gran chiacchierare sulle scommesse di Totti, in queste ore, avrebbe fatto aprire occhi e orecchie, al Comitato olimpico internazionale, essendo il campione «ambassador» ufficiale per le Olimpiadi invernali Milano Cortina 2026. Ricordiamo che il Cio aderisce all'Ipacs, la partnership internazionale contro la corruzione nello sport a cui aderiscono governi, organizzazioni intergovernative e organizzazioni sportive, tra cui il Coni.

 L'Ipacs contrasta anche le scommesse illegali e le frodi sulle scommesse. Ovviamente si tratta di problemi che, allo stato attuale, non coinvolgono in alcun modo Totti, ma la passione per il gioco d'azzardo dell'ex bomber è considerata molto negativa a livello d'immagine. Fari accessi anche a Sport e salute, società che ha un codice etico stringente sul tema del riciclaggio. E le sos svelate dalla Verità e riguardanti una loro dipendente non sono passate inosservate.

Da calciomercato.com il 5 gennaio 2023.

Nel post-gara più che il presidente della Roma, sembrava un bambino entusiasta. James Pallotta ha voluto attendere la squadra all’uscita dagli spogliatoi e ha salutato uno ad uno i protagonisti della bella vittoria sulla Fiorentina. Ha abbracciato Maicon, De Rossi e Destro.

 Come riporta Il Messaggero, ha pure richiamato bonariamente Totti che impegnato con i due figli non si era accorto della sua presenza. 'Che fai non mi saluti?' ha chiesto divertito l’imprenditore statunitense al capitano che con il piccolo Cristian che lo tirava per la giacca e Chanel che correva per la salita che porta poi all’uscita dallo stadio, ha trovato appena il tempo per abbracciarlo e rimandare l’appuntamento ad oggi. In serata in un noto locale di Testaccio andrà in scena la festa di Natale.

 Da pagineromaniste.com – dicembre 2013

Il Tempo – Serafini – «Totti ha detto che gli avrebbe fatto piacere se venissi meno spesso». Tranquilli, è soltanto uno dei soliti scherzi di James Pallotta, l’ultimo in senso cronologico prima di imbarcarsi nuovamente sul solito volo privato direzione Stati Uniti. Il presidente della Roma ha lasciato la capitale ieri di buon mattino e a Trigoria si sente già la sua mancanza. Sì, perché la presenza di Pallotta è diventata ormai un buon auspicio e fonte di serenità per la squadra, sempre più felice di sentire la vicinanza del proprio presidente. Quindi non fatevi ingannare dalle apparenze, come spiegato dal dg Mauro Baldissoni a margine della cena di Natale: «Purtroppo non possiamo portare con noi il presidente a San Siro. Ha detto ai ragazzi che vorrebbe passare più tempo con noi».

D’altronde il ruolo di portafortuna del patron romanista ha quasi sempre funzionato (la dura eccezione nel derby del 26 maggio scorso) nelle fugaci apparizioni all’Olimpico. Durante la cena organizzata dalla società, Pallotta ha voluto donare personalmente un orologio Rolex da circa 10mila euro a tutti i giocatori per un valore totale di 200mila euro che si aggiungono agli stipendi di ottobre appena pagati dalla società. (…)

Estratto dell'articolo di Daniele Autieri e Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” il 5 gennaio 2023.

Il rettangolo verde lo ha reso celebre in tutto il mondo.

Francesco Totti negli stadi di mezza Europa calava i suoi assi, le sue giocate. Adesso, però, la passione dell'ex stella giallorossa si è trasferita anche su un altro campo, il tavolo verde dei casinò. Ma in questo caso la fama del Pupone, più che ai colpi da maestro, è dovuta al volume delle puntate. Milioni di euro.

 Tanto che l'Unità di informazioni finanziarie della Banca d'Italia, l'Uif, ha fatto scattare diversi alert. I bonifici verso l'estero partiti dai conti correnti di Totti hanno messo in moto la macchina dell'antiriciclaggio. Tecnicamente si chiamano Sos. Si tratta delle segnalazioni per operazioni sospette. Tuttavia gli investigatori, dopo aver lavorato al caso, escludono che si possa trattare di riciclaggio.

 Totti, nella sua lunga carriera da calciatore, ha incassato ingaggi a sei zeri. Insomma non ci sono dubbi che i soldi siano suoi, le Sos partono per qualsiasi cittadino quando si trasferiscono grosse quantità di denaro, senza che questo rappresenti per forza un reato.

Tuttavia la vicenda dell'alert della Banca d'Italia sulle movimentazioni dei conti del "Capitano" apre un nuovo scenario che va oltre la questione del denaro e riguarda il capitolo della passione per il gioco d'azzardo del fantasista di Porta Metronia, una passione che sembra contagiare i campioni del calcio con l'aggressività di un virus.

La febbre del gioco ha conquistato anche Totti e in molte occasioni lo ha convito a prendere un volo di linea, quando non un jet privato da Ciampino per raggiungere Monte Carlo, sogno proibito dei frequentatori di Bingo.

Proprio a Monte Carlo conducono le tracce finanziarie di alcune operazioni segnalate dall'Uif alla guardia di finanza, ovvero una serie di assegni bancari accompagnati da un bonifico per un totale di 1,3 milioni di euro intestati alla Société financière et d'encaissement con sede a Monte Carlo e giustificati dalla causale: «finanziare le giornate che il noto personaggio ama trascorrere nella casa da gioco del Principato ».

 L'ultima di queste - secondo quanto ricostruito a Repubblica da fonti qualificate del Principato - risale al 20 dicembre scorso e segue una serie di soggiorni lampo insieme a Noemi Bocchi, che ha accompagnato l'ex numero 10 della nazionale prima allo stadio di Luis II a vedere la partita del campionato francese tra il Monaco e il Clermont, quindi a cenare al Crazy Pizza di Flavio Briatore.

 A parte le recenti trasferte con Noemi, l'ultima delle quali giustificata dalla partecipazione di Totti alla Padel Net Cup, un torneo di padel organizzato dal brand di criptovalute DigitalBits, la routine monegasca dell'ex fuoriclasse inizia di norma con una cena presso il ristorante Louis XV dello chef Alain Ducasse all'interno dell'Hotel de Paris dove Totti ha soggiornato più di una volta nella "Principessa Grace", una delle due suite più belle e costose dell'albergo, e dove ha festeggiato i suoi 38 anni insieme all'ex moglie Ilary Blasi. (...)

Memorabili le notti di gioco di Totti, anche pochi giorni prima della finale di Conference League della Roma lo scorso 25 maggio. Molte le serate trascorse insieme all'ex compagno di squadra e amico Radja Nainggolan, altro appassionato dell'azzardo di lusso.

 A metà tra cronaca e leggenda ormai è il furto di un assegno da 180mila euro subito nel 2018 che avrebbe dovuto coprire proprio i debiti da gioco del campione belga. Una passione contagiosa, la loro, tanto da aver attirato in un'occasione anche l'ex portiere della Roma oggi numero uno della Juventus, Wojciech Szczsny. I croupier del casinò raccontano però che il più sobrio fuoriclasse polacco si sia tirato indietro a metà della serata, stupito dalle puntate dei compagni di spogliatoio, capaci di far arrossire persino le cortigiane di Gervais.

Francesco Totti e i guai con l'Antiriciclaggio, l'amico che ha ricevuto i soldi: «Io gioco. Avevo problemi, mi ha fatto un prestito». Clarida Salvatori su Il Corriere della Sera il 5 Gennaio 2023.

Il Capitano, secondo quanto afferma D. M., lo avrebbe soccorso in un momento di difficoltà. «Se gioca i soldi guadagnati onestamente, fatti suoi»

«I soldi dei bonifici? Mi ha aiutato quando io e mia moglie avevamo dei problemi. Se Francesco gioca al casinò? Se gioca i soldi suoi, che ha guadagnato regolarmente, quella è una questione sua». Queste le parole di D. M. (in una lunga intervista telefonica rilasciata a La Verità), amico di Francesco Totti, finito nel mirino dell'Antiriciclaggio per una serie di versamenti ritenuti poco chiari sui conti riconducibili alla case da gioco di Londra, Monte Carlo e Las Vegas. Ma anche per dei pagamenti a una pensionata di Anzio, suocera proprio di D. M.. Alla domanda se quei soldi siano serviti a Totti per scommettere online nega: «Noooo. Sono amico di Francesco da quindici anni. E quando io e mia moglie abbiamo avuto dei problemi, non mi vergogno a dirlo, gli abbiamo chiesto un prestito di 160mila euro. Lo ha fatto con me ma anche con i cugini e altri familiari».

Poi l'ammissione e la difesa dell'amico. «So' io che gioco, c'ho un amico che c'ha sei sale scommesse ai Castelli, ma i soldi che mi ha dato Totti non li ho mai prelevati e mandati a nessuno. Avrei dovuto prelevarli o girarli con bonifici, no? Io non li ho mai spesi, non sono mai usciti dal mio conto e ormai sono passati anni». Tra le passioni del Capitano ci sono le bische? «Ma quali bische - aggiunge ancora D. M. -. Lui ha un forte amore per il casinò di Monte Carlo. Ancora di più per quello di Las Vegas». E riguardo ai tanti prelievi di contante: «È molto generoso eh. Francesco proviene da una famiglia umile. Ha pagato 100mila di cure mediche a una bambina. Francesco aiuta tutti. Soldi che non ha mai chiesto indietro. È persona d'oro. Poi se si gioca pure qualche cosetta, saranno affari suoi, no?».

Secondo D. M., Totti frequenterebbe il casinò di Monte Carlo da oltre venti anni. «Se vai a Monte Carlo è pieno di giocatori. C'è Mbappé, c'è mezza Roma, ci vanno tutti: Nainggolan, Pjani». Smentisce anche che per colpa di questo vizio, Totti litigasse con Ilary, da cui si sta ormai separando dopo 17 anni. «Assolutamente no. Al casinò ci andava sempre con la famiglia, con gli amici. Forse la segnalazione l'ha fatta partire la moglie? Adesso che hanno litigato?». La sua preoccupazione ora è per le conseguenze che questa storia potrebbe avere sulla sua amicizia con Francesco. «Così mi fanno litigare con lui. Totti è un amico mio, che ha guadagnato, ha pagato le tasse, non c'ha mai avuto un accertamento fiscale. E oggi gli devono fare male».

Negli ultimi due giorni, da quando è scoppiata la bufera della storia dell'Antiriciclaggio, non è ancora riuscito a sentire lo storico numero 10 della Roma: «In questo momento non riesco manco a parlare con Francesco, perché sta in crociera, la è notte. Gli ho mandato un messaggio: "Mi chiami? Qua è un macello". Ancora non lo ha letto». «Francesco è peggio di me - conclude -, siamo gente così ancora neonati di testa, ma nessuno è un bandito».

Segnalazione dell’antiriciclaggio: “I milioni di Francesco Totti usati per scommesse”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Gennaio 2023

Il nome di Francesco Totti comparirebbe nel giugno 2020, attraverso l'esame di due conti e operazioni legate a casinò di Montecarlo, Londra e Las Vegas. "Permangono forti dubbi in merito alla reale destinazione del denaro inviato alle varie case da gioco internazionali", scrivono gli esperti dell'Antiriciclaggio

Nella complicata separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi arriva un colpo di scena destabilizzante: il gioco d’azzardo e le scommesse. Il quotidiano “La Verità” ha riportato oggi alcune segnalazioni di operazioni sospette degli addetti all’antiriciclaggio (sos) – che da tempo stanno addosso all’ex campione – che raccontano di come il patrimonio familiare negli ultimi tempi sia stato duramente colpito da un’ingente fuoriuscita di denaro dai conti bancari di famiglia per approdare nel Principato di Monaco.

Una puntuale attività di controllo “svolta dalle competenti strutture centrali” della banca a cui Totti ha affidato per anni i propri guadagni. Lo scorso agosto, secondo la ricostruzione, risulterebbe un prestito infruttifero di 80mila euro verso il conto cointestato di una pensionata di Anzio e della figlia A.M. dipendente della società Sport e Salute (ex Coni servizi, controllata dal ministero dell’Economia). Nello stesso giorno, la somma sarebbe transitata verso il conto cointestato con D. M. marito della 50enne, dipendente del ministero dell’Interno, che sarebbe amico di Totti, e poi verso un conto personale dell’uomo. 125mila euro sono stati dirottati sui conti personali dei due coniugi. In loro favore poi sono stati negoziati assegni bancari per un valore di 445mila euro. “Attività opaca con controparti operanti nel settore del bet online”, scrivono dall’Antiriciclaggio.

Secondo quanto riferito da La Verità in questa attività dell’Antiriciclaggio, il nome di Totti comparirebbe nel giugno 2020, attraverso l’esame di due conti e operazioni legate a casinò di Montecarlo, Londra e Las Vegas. “Permangono forti dubbi in merito alla reale destinazione del denaro inviato alle varie case da gioco internazionali”, scrivono gli esperti dell’Antiriciclaggio . Tra queste la Malta limited terrestre, la Malta limited online e la Sa.Pa. Srl. Sono stati segnalati 15 trasferimenti per un totale di circa 87 mila euro.

Ma di segnalazioni ce ne sono anche altre. Una riguarda due conti del giocatore. Uno cointestato con Ilary Blasi e l’altro con Manuel Zubiria Furest, ex team manager della A.S. Roma. Ci sono anche altri bonifici nei confronti di società proprietarie di casinò di Las Vegas. Qui i funzionari parlano di cinque assegni bancari e un bonifico intestati alla Société financière et d’encaissement (Sfe) con sede a Monte Carlo. Pagati tra agosto 2018 e gennaio 2020. Per complessivi 1,305 milioni di euro, “apparentemente per finanziare le giornate che il noto personaggio ama trascorrere nella casa da gioco del Principato“.

Poi un altro bonifico da 300mila euro a favore della società United London services limited, collegata con il casinò di Londra e un altro da 200mila alla società Belco, apparentemente collegata con il casinò di Las Vegas. Non solo: l’Antiriciclaggio ha analizzato anche un accredito da 201mila euro eseguito dalla Mgm resorts international, un albergo di Las Vegas con annessa casa da gioco. E l’elenco è lungo.  I movimenti sospetti riguardano anche i tanti prelievi in contanti del fratello Riccardo Totti, o un altro conto utilizzato per le raccolte di beneficenza, dove avrebbero versato denaro con la causale sanzioni e multe diversi ex compagni di squadra (Antonio Rudiger, Thomas Vermaelen, Radja Nainggolan, Juan Jesus, Edin Dzeko ed Emerson Palmieri).

L’attenzione sui conti di Totti risale al giugno del 2020, quando è stato segnalato un fido da 2,5 milioni di euro per una ristrutturazione. Secondo quando segnalano dall’ Antiriciclaggio “permangono forti dubbi in merito alla reale destinazione del denaro inviato alle varie case da gioco internazionali” in quanto la Sfe di Monte Carlo “sembrerebbe svolgere anche un’attività bancaria“, e “non è quindi chiaro se il denaro inviato sia destinato solo al gioco oppure ad altro“. In un altro passaggio puntualizzano anche che “la stessa società è stata nominata in alcuni recenti scandali che hanno coinvolto personaggi politici”.

C’è poi anche un’altra segnalazione del 2018, che porta a circa 3 milioni di euro la cifra “attenzionata”, e di due bonifici per complessivi 160mila euro inviati al solito D.M. con causale “prestito in amicizia con vincolo di restituzione entro 24 mesi”. “Il cliente” (cioè Francesco Totti n.d.r.) , spiegano all’ Antiriclaggio i risk manager della banca segnalante “ha riferito che trattasi di pagamenti che lo stesso effettua per le sue giornate trascorse al casinò di Monte Carlo essendo appassionato del gioco d’azzardo“. Sarebbe quindi lo stesso ex calciatore ad ammettere di essere un accanito scommettitore, giustificando così la continua necessità di contanti. Trasferiti come prestiti infruttiferi agli amici e ai loro parenti o quelli ritirati negli anni precedenti allo sportello.

Redazione CdG 1947

Giacomo Amadori per la Verità il 4 Gennaio 2023 

In passato era stato attaccato da chi combatte la ludopatia per la sua compagna «10eLotto» e per quelle a favore di siti come «Mostbet» e «Partypoker»: quest' ultimo offriva ai giocatori 10 euro per sfidarlo online.

Francesco Totti, in una finta conferenza stampa, recitava allegro: «L'allenatore dice "passa, passa, passa", ma posso passare con una scala in mano? Sennò passo per scemo».

Anche quest' anno, per lui, les jeux sont faits. Francesco e la nuova compagna Noemi Bocchi, con relativa prole e amici al seguito, sono in crociera tra Miami e le Bahamas a bordo della Symphony of the seas, gigante dei mari armata dalla Royal caribbean. Una nave celebre, oltre che per i molti servizi extralusso (dal golf al simulatore di onde da surf), anche per il suo casino royale.

Il tour a Monte Carlo. L'ex idolo dell'Olimpico, pochi giorni prima di Natale, aveva visitato una casa da gioco pure sulla terra ferma e precisamente a Monte Carlo, località che aveva scelto a ottobre anche per la sua prima mini-vacanza ufficiale con la nuova fiamma.

Inoltre, il 24 dicembre, il Pupone era stato ritratto mentre sposta delle fiches su un tavolo verde durante una presunta tombolata in famiglia.

Tutti indizi che svelano la grande passione del fuoriclasse romano per il gioco d'azzardo, inclinazione che, secondo i ben informati, sarebbe stata tra i motivi di dissidio tra Totti e la sua (quasi) ex moglie Ilary Blasi.

Una febbre confermata da alcune segnalazioni di operazioni sospette (sos) degli addetti all'antiriciclaggio, i quali, al pari della Blasi, da tempo marcano stretto l'ex campione per il suo dispendioso hobby. Una minuziosa «attività di controllo svolta dalle competenti strutture centrali» dell'istituto di credito a cui il «10» ha affidato per anni i propri guadagni e che La Verità è in grado di svelare in esclusiva.

Una montagna di soldi. Dal lavoro di analisi emerge il massiccio investimento di risorse finanziarie nelle scommesse, un «vizietto» che avrebbe mandato a gambe all'aria l'economia domestica della maggior parte delle famiglie, ma non i conti dell'«ottavo re di Roma», sufficientemente robusti per sopportare tale passatempo.

Anche se va precisato che nell'ultimo periodo di carriera Totti ha ricevuto dalla As Roma emolumenti che oscillavano da un minimo di 17.000 a un massimo di 85.000 euro mensili e dal luglio del 2017 (quando ha smesso la carriera professionistica) il conto cointestato con la Blasi è stato quasi esclusivamente rimpinguato con periodici disinvestimenti.

Scatta l'«allarme» Ma partiamo dall'ultima sos giunta agli uomini di Bankitalia. Il documento risale all'agosto scorso e riguarda un «prestito infruttifero» da 80.000 euro inviato sul conto di una pensionata di Anzio dallo stesso Totti.

I risk manager specificano che il rapporto della signora è cointestato con la figlia A. M., dipendente della società Sport e salute (già Coni servizi) controllata dal ministero dell'Economia.

 Lo stesso giorno la quarantacinquenne romana A.M. gira il denaro sul conto condiviso con il marito, D. M., e questi sul proprio. L'uomo è un dipendente del ministero dell'Interno considerato in stretti rapporti con il Pupone, anche se, scandagliando Internet, si capisce che deve essere una persona che preferisce rimanere sottotraccia, evitando la sovraesposizione mediatica.

Spuntano le scommesse Questo conto è alimentato oltre che dagli stipendi dei due, «da bonifici domestici (tutti in favore di D.M.) rivenienti da società operanti nel settore delle scommesse online». Tra queste la Malta limited terrestre, la Malta limited online e la Sa.Pa. Srl. Quindici trasferimenti per un totale di circa 87.000 euro. Da questo rapporto, nel periodo sotto esame, circa 125.000 euro sono stati dirottati sui rispettivi conti personali dei coniugi.

I risk manager annotano anche l'acquisto di un telaio per auto in Belgio e 20.000 euro inviati al padre di A.M. da una delle società di gioco online già citate.

Movimento di assegni Non è finita: sui conti di D.M. e A.M. sono stati «negoziati» assegni bancari in favore degli stessi per un valore di 445.000 euro. I 265.000 euro destinati al quarantaseienne D.M. sono stati stornati «per requisiti incompleti». Secondo l'Antiriciclaggio ci troviamo di fronte a una «attività opaca con controparti operanti nel settore del bet online e rilevante attività di trasferimento somme con traenze dirette e bonifici». I coniugi non avrebbero fornito «adeguati chiarimenti e giustificativi» e avrebbero mostrato «un atteggiamento evasivo e non collaborativo».

 Le altre segnalazioni. Ma andiamo indietro con le segnalazioni. Questa volta a essere chiamato in causa per il gioco è direttamente Totti.

I funzionari nel giugno del 2020 si concentrano su due conti del giocatore, uno cointestato con la Blasi e uno con Manuel Zubiria Furest, ex team manager della Roma. Oltre a segnalare un fido da 2,5 milioni di euro per la ristrutturazione di un immobile, i risk manager mettono sotto osservazione cinque assegni bancari e un bonifico intestati alla Société financière et d'encaissement (Sfe) con sede a Monte Carlo e pagati tra l'agosto 2018 e il gennaio 2020 per complessivi 1,305 milioni di euro «apparentemente per finanziare le giornate che il noto personaggio ama trascorrere nella casa da gioco del Principato». Ma non solo lì. Infatti i bancari rilevano anche un bonifico da 300.000 euro «a favore della società United London services limited collegata con il casinò di Londra» e un altro da 200.000 euro «a favore della società Belco apparentemente collegata con il casinò di Las Vegas».

 La sortita negli Usa In entrata viene invece segnalato un bonifico da 201.000 euro eseguito dalla Mgm resorts international, un albergo di Las Vegas con annessa casa da gioco. Nell'elenco delle operazioni è indicato un altro «prestito infruttifero» da 30.000 destinato alla mamma di A.M. e due assegni da 30.000 euro ciascuno indirizzati alla Skydiamond per «saldare l'acquisto di alcuni gioielli», di cui però in banca non avrebbero ricevuto «copia della relativa fattura di acquisto». In più il primo assegno sarebbe rimasto «impagato e stornato per girata irregolare».

 Dov' è finito il denaro? Per gli esperti dell'antiriciclaggio «permangono forti dubbi in merito alla reale destinazione del denaro inviato alle varie case da gioco internazionali», visto che la Sfe di Monte Carlo «sembrerebbe svolgere anche un'attività bancaria» e «non è quindi chiaro se il denaro inviato sia destinato solo al gioco oppure ad altro». In un altro passaggio puntualizzano anche che «la stessa società è stata nominata in alcuni recenti scandali che hanno coinvolto personaggi politici».

 In una segnalazione del 2018 si riparla di altri assegni alla Sfe per un importo complessivo di 1,505 milioni di euro (che aggiunti agli 1,3 che abbiamo già citato fa quasi 3 milioni) e di 160.000 euro spalmati su due bonifici inviati al solito D.M. con causale «prestito in amicizia con vincolo di restituzione entro 24 mesi».

 «Mi piace scommettere». In merito al denaro versato alla Sfe, «il cliente ha riferito che trattasi di pagamenti che lo stesso effettua per le sue giornate trascorse al casinò di Monte Carlo essendo appassionato del gioco d'azzardo» precisano i risk manager. Dunque, volendo ignorare le altre congetture dei funzionari (che tirano in ballo Francesco e Riccardo anche per alcune dichiarazioni dell'ex vicecapo di gabinetto del Comune di Roma Luca Odevaine nell'inchiesta Mafia capitale), è lo stesso Totti che si sarebbe definito un accanito scommettitore. E forse a chi gioca d'azzardo a volte servono i contanti. Magari quelli trasferiti come prestiti infruttiferi agli amici e ai loro parenti o quelli ritirati negli anni precedenti allo sportello, con conseguente tiratina d'orecchi da parte degli impiegati. Nella sos del 2018 si evidenzia un prelievo in tre tranche da 80.000 euro.

I versamenti al fratello. In una del 2017 si ricorda che Francesco un anno prima aveva emesso assegni bancari a favore del fratello Riccardo per complessivi 230.000 euro e che il consanguineo ne aveva chiesto il saldo in contanti dopo che, nel 2015, aveva effettuato due ulteriori prelievi allo sportello per un totale di 90.000 euro. «Al riguardo precisiamo che, già in occasione di queste operazioni di prelevamento contante, motivate con generiche esigenze personali in linea con l'alto tenore di vita, il cliente era stato sensibilizzato a un minor ricorso al contante» è precisato nella documentazione visionata dalla Verità.

 Nel 2015 lo stesso Francesco Totti era stato segnalato per il ritiro di 100.000 euro in contanti e il fratello Riccardo, nel 2012, per l'incasso di 170.000 euro complessivi.

Una provvista, quest' ultima, che sarebbe stata garantita dall'ex capitano della Roma attraverso un bonifico da 100.000 euro e un assegno da 70.000. Nonostante la provenienza del denaro venga considerata lecita (lo stipendio del calciatore), gli addetti ai controlli antiriciclaggio sono insospettiti dalla giustificazione offerta per tutti quei prelievi in contanti: soldi «necessari a spese di viaggio e versamenti a enti benefici».

 I compagni di squadra. E proprio sulla beneficenza si è concentrata un'altra sos del 2018. Su un conto aperto dal solo Totti e su cui lo stesso ha caricato 200.000 euro frutto di un disinvestimento, alcuni ex giocatori della squadra giallorossa hanno inviato bonifici con la causale «multe» e «sanzioni»: Antonio Rudiger 41.000 euro suddivisi in sei bonifici di cui due da 12.000 euro l'uno; Thomas Vermaelen 17.500; Radja Nainggolan e Juan Jesus 10.000 a testa; Edin Dzeko 5.000; Emerson Palmieri 4.000.

 Si legge nella sos: «In merito ai bonifici in entrata disposti dai calciatori dell'As Roma, il cliente afferma che si tratta di multe che gli stessi professionisti pagavano e il cui ricavato veniva devoluto in beneficienza».

In effetti nel giugno del 2017 dal conto di Totti sono partiti due bonifici da 77.000 e 70.000 euro destinati all'ospedale pediatrico Bambin Gesù e altri 7.000 euro sono andati all'Associazione famiglie italiane dei sordi per il bilinguismo. Tutto a posto dunque? Non proprio. I risk manager hanno obiettato quanto segue: «Non è chiaro il motivo per cui questo denaro non fosse raccolto direttamente dalla società sportiva anziché dal calciatore stesso».

 La valutazione finale. Per questo e altri motivi la sos si conclude così: «I clienti in segnalazione sono clienti anche della controllata Fideuram Spa e San Paolo Invest Spa. Si è provveduto ad innalzare ad alto il profilo di rischio dei clienti». Rien ne va plus. Quello che è stato fatto non si può più modificare. Adesso nella complessa separazione tra Totti e la Blasi anche il gioco d'azzardo potrebbe finire con l'avere un ruolo. In fondo, come diceva Fëdor Dostoevskij nel suo Giocatore «non solo alla roulette, ma dappertutto gli uomini non fanno altro che togliersi o vincersi qualcosa a vicenda». Una regola che vale anche nelle aule di tribunale.

Dagonews il 29 Dicembre 2022.

Chi è stato a fare la prima foto della love story tra Totti e Noemi Bocchi? L’eroe del Dago-scoop è Ferdinando Mezzelani che racconta come è nato lo scatto che ha aperto "il romanzo delle corna" tra il "Pupone" e la Blasi finito anche sul "New York Times". 

Quella foto l’ho fatta per caso”. 

Correva il 4 dicembre 2021, all'Olimpico la Roma affronta l’Inter. Era la serata in cui l’ex Capitano giallorosso tornava allo stadio a vedere la Roma dopo 2 anni. Il fotografo Mezzelani è nella sua solita postazione, in attesa dei vip della tribuna d’onore.

Ho visto questa bella donna che assomigliava a Ilary e ho iniziato a scattare. Clic! Quando Dago, a febbraio, mi ha chiamato per dirmi se avevo mai visto Noemi, mi sono messo a cercare in archivio. 

Quando ho ritrovato quei vecchi fotogrammi, ho fatto un salto sulla sedia. Era lei. La fortuna è che non butto mai niente. Ho lavorato 20 anni in cronaca e la storia mi ha insegnato che in tribuna d’onore all’Olimpico passa il mondo. C’è di tutto, dal futuro capo dei servizi all’assessore che finisce indagato. E magari lo scopri, come nel caso di Noemi, dopo qualche mese”. 

A quella foto ne sono seguite altre, sempre all’Olimpico. “Noemi arriva sempre 5 minuti prima dell’inizio della partita”, spiega Mezzelani. “Non ho mai capito per quale motivo dovesse andare in settima fila, dove la partita, tra l’altro, si vede malissimo. Ma tanto a lei quel che accade in campo interessa poco, passa il suo tempo incollata al telefonino…”. 

Il fotografo spiega anche di non essersi meravigliato più di tanto per il fatto che nessun giornale gli abbia mai chiesto foto di Noemi. “Erano tutti terrorizzati”. 

Totti ha goduto di coperture da parte della stampa italiana. “A Tirana metà dei giornalisti presenti ha visto lui e Noemi giocare insieme al casinò ma si sono ben guardati dal pubblicare le foto o scrivere qualcosa in merito”. Timore reverenziale nei confronti del “Pupone”. Del resto per anni si è detto che a Roma di Francesco ce ne è solo uno e non fa il Papa…

Da “tag24.it” il 27 dicembre 2022. 

Danilo Valeri e Chanel Totti. A poche ore dal suo rilascio, dopo essere stato sequestrato, il 20enne Danilo Valeri è ritornato alla sua vita di tutti giorni e ha deciso di festeggiare riprendendosi in un video in cui viaggia a 200 km all’ora sul Grande Raccordo Anulare. 

Nello stesso ristorante dove Valeri fu rapito, insieme ad altre cento persone, c’era anche Chanel Totti, la figlia dell’ex capitano della Roma. La giovane aveva postato sul suo profilo Instagram una foto della serata. Anche lei segue sui social Valeri e ha seguito il ragazzo su Instagram dopo la storia a bordo della Mercedes che sfrecciava sul Gra ben oltre i limiti di velocità… 

Il 20enne di San Basilio è stato rapito la notte del 22 dicembre dal ristorante Moku a Ponte Milvio e tenuto in ostaggio per circa 12 ore prima di essere rilasciato. La principale ipotesi investigativa, per ora, ruota attorno ai precedenti del padre, Maurizio Valeri detto il “sorcio”, che nel maggio scorso venne gambizzato nell’ambito di una faida per il controllo dello spaccio nel quartiere San Basilio. Il 20enne sarà riconvocato dagli inquirenti e se non dovesse aiutare le indagini, rischierebbe il favoreggiamento.

Totti: «Ilary? Non ho tradito io per primo. Ho trovato i messaggi sul suo telefono, è stato uno choc». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 24 Dicembre 2022.

Francesco Totti racconta la rottura con Ilary: «Con Noemi stiamo insieme da dopo Capodanno. La crisi? Tutto è iniziato nel 2016, il mio penultimo anno da calciatore. E c’era una terza persona che faceva da tramite tra Ilary e l’altro». L’intervista esclusiva

Riproponiamo qui una delle interviste più lette del 2022, quella di Aldo Cazzullo a Francesco Totti, uscita sul Corriere del 12 settembre.

Francesco Totti, sa qual è l’argomento più cliccato e dibattuto in Rete nel 2022, più del Covid, della guerra, della regina…

«Si fermi. Questa storia per me non è gossip. Questa storia per me è carne e sangue. C’è di mezzo la mia vita. Ci sono di mezzo tre persone che amo più di me stesso: i miei figli, che voglio proteggere in ogni modo. E c’è un amore durato vent’anni. Tutto mi sarei aspettato, tranne che finisse così».

Resta il fatto che ne parlano tutti.

«Tutti, tranne me. Non ho ancora detto una parola. Avevo detto che non avrei parlato e non l’ho fatto. Ma ho letto troppe sciocchezze, troppe bufale. Alcune hanno anche fatto soffrire i miei figli. Ora basta».

Quali sciocchezze?

«Molte, in particolare una: che il colpevole della rottura sarei soltanto io. Che il matrimonio sarebbe finito per colpa del mio tradimento.

Non è così?

«Questo punto voglio chiarirlo: non sono stato io a tradire per primo. Poi tornerò a tacere. Qualunque cosa mi sarà replicata, starò zitto. Perché la mia priorità è tutelare i miei figli».

Lei e Ilary siete l’argomento dell’anno perché eravate bellissimi. Pareva una fiaba: il calciatore più amato, la star della tv.

«Le fiabe non esistono. Abbiamo avuto alti e bassi, come ogni coppia. Poi qualcosa si è rotto».

Quando?

«La crisi vera è esplosa tra marzo e aprile dell’anno scorso. Ma io soffrivo da tempo».

Perché?

«Tutto è iniziato nel 2016. Il mio penultimo anno da calciatore. Smettere non è facile. È un po’ come morire».

Lei aveva più di quarant’anni.

«Sì, ma giocavo in serie A da quando ne avevo sedici. E certe cose ti mancano. L’adrenalina, la fatica. L’ho anche detto, nel discorso di addio allo stadio: “ho paura, statemi vicino”. E i romanisti non mi hanno mai lasciato solo».

Lei in campo dava di sé un’immagine spavalda, quasi strafottente. «Mo je faccio er cucchiaio».

«Perché sapevo, in quella semifinale dell’Europeo, che il portiere dell’Olanda si sarebbe buttato a destra o a sinistra, e se facevo il pallonetto avrei segnato. Ma quel che mi aspettava dopo il ritiro, io non lo sapevo. E comunque il rigore che ricordo con più soddisfazione è quello ai Mondiali con l’Australia».

C’ero. Kaiserslautern, 26 giugno 2006. Ultimo minuto. Eravamo 10 contro 11, se lei avesse sbagliato non avremmo vinto la Coppa.

«C’era pure Ilary. Io segnai e inquadrarono lei, in mondovisione. Fu l’unica partita che venne a vedere in Germania, prima della finale».

Lei Totti mise in bocca il pollice, come un bambino.

«Come Cristian, il nostro primogenito. Aveva otto mesi. Ci tenevo: per la mia famiglia, per l’Italia, e per Lippi. Quando mi spezzarono la gamba, al risveglio dall’anestesia l’avevo trovato in clinica. Era venuto a dirmi: Francesco, ti aspetto e ti porto ai Mondiali».

Quando lei litigava con un altro allenatore, Spalletti, Ilary intervenne in sua difesa, lo definì «piccolo uomo».

«Fece tutto da sola. Voleva proteggermi, ebbe una reazione quasi materna. Di pallone non ha mai capito molto».

Lei lasciò il calcio.

«E dopo lasciai anche la Roma, dove avevo cominciato a lavorare come dirigente. La rottura con la vecchia proprietà fu traumatica: come dover abbandonare la propria casa. Ero fragile, mi mancavano i riferimenti, e Ilary non ha capito l’importanza di questo dolore. Poi è arrivato il 12 ottobre 2020».

Cos’è successo il 12 ottobre?

«È morto papà mio. Di Covid. E io l’ho visto l’ultima volta il 26 agosto. Sapevo che stava male, e non potevo fargli visita. Papà mio per me c’era sempre, non perdeva una trasferta. A me non faceva mai un complimento, ma con gli altri era fierissimo: Francesco è il numero uno, diceva. Poi ho preso il Covid pure io, in forma violenta: 25 giorni chiuso in casa, stavo per finire in ospedale. Insomma, per me è stato un periodo tremendo. Per fortuna c’erano i figli. Finalmente ho potuto stare più tempo con Cristian, Chanel e Isabel. Mia moglie invece, quando avevo più bisogno di lei, non c’è stata. Nella primavera del 2021 siamo andati in crisi definitivamente. L’ultimo anno è stato duro. Non c’era più dialogo, non c’era più niente».

E lei, Totti, non ha commesso errori?

«Certo. Quando si rompe, si rompe in due: 50 e 50. Avrei dovuto stare di più con lei, da solo. Invece nel week end organizzavo con gli amici. C’era anche Ilary; ma avrei dovuto portarla a cena, dedicarle più attenzioni».

Lei, Totti, aveva una storia con Noemi Bocchi.

«Non è così».

Dagospia ha pubblicato una foto in cui il 4 dicembre 2021 siete seduti poco distanti allo stadio.

«Noemi non era allo stadio con me. Siamo arrivati con auto diverse, avevamo posti diversi. Le pare che mi porto l’amante all’Olimpico? Un ambiente più intimo no? Comunque è vero che la conoscevo già. E la frequentavo come amica, con gli amici del padel. La nostra storia è iniziata dopo Capodanno. E si è consolidata nel marzo 2022. Ripeto: non sono stato io a tradire per primo».

Che cos’è successo?

«A settembre dell’anno scorso sono cominciate ad arrivarmi le voci: guarda che Ilary ha un altro. Anzi, più di uno».

E lei ci ha creduto?

«Mi pareva impossibile. Invece ho trovato i messaggi».

Lei spiava il telefonino di sua moglie?

«Non l’avevo mai fatto in vent’anni, né lei l’aveva mai fatto con me. Però quando mi sono arrivati avvertimenti da persone diverse, di cui mi fido, mi sono insospettito. Le ho guardato il cellulare. E ho visto che c’era una terza persona, che faceva da tramite tra Ilary e un altro».

Quando è successo?

«Me ne sono accorto in autunno, ma i messaggi erano di prima».

Chi era la terza persona?

«Alessia, la parrucchiera di Ilary, la sua amica».

E l’altro?

«Non mi faccia dire il nome. È una persona totalmente diversa da me, che appartiene a un mondo lontanissimo dal mio, e per fortuna. È stato uno choc. Non solo che Ilary avesse un altro; ma che potesse avere interesse per un uomo del genere. Eppure l’ha avuto».

Cosa dicevano i messaggi?

«Qualcosa tipo: vediamoci in hotel; no, è più prudente da me».

E lei come ha reagito?

«Mi sono tenuto tutto dentro. Non l’ho detto a nessuno, neppure a Vito Scala, l’amico che è al mio fianco da quando avevo undici anni. Io non sono uno che chiude un occhio, ma ho preferito far finta di niente. Ho mandato giù, per non sfasciare la famiglia, per proteggere i ragazzi. Soffrivo come un cane. Lei mi diceva: quest’anno rimango un po’ di più a Milano, torno meno a Roma, e io pensavo: ci credo, hai quest’altro… Ma speravo ancora che non fosse vero».

Totti, guardi che capita. Tutte le coppie sono esposte a tentazioni; a maggior ragione una coppia come la vostra. Sarà successo a Ilary. Sarà successo anche a lei. Non è che lei somiglia al classico maschio italiano, che si prende le proprie libertà ma si infuria se scopre quelle della moglie?

«Sono girate voci in passato. Su di lei e su di me. Ma erano appunto voci. Qui c’erano le prove. I fatti. E questo mi ha gettato in depressione. Non riuscivo più a dormire. Facevo finta di niente ma non ero più io, ero un’altra persona. Ne sono uscito grazie a Noemi».

Sa cos’hanno pensato tutti? Che Noemi ricorda molto la Ilary di qualche anno fa.

«Io non ci ho pensato proprio. Anzi, Noemi è l’opposto di Ilary, anche come carattere. Ma non mi piace fare paragoni».

Quando è cominciata la vostra relazione?

«Prima ci frequentavamo come amici. Poi, dopo Capodanno, è diventata una storia. Quando il 22 febbraio Dagospia ha pubblicato la foto allo stadio, quella scattata a dicembre, Ilary me ne ha chiesto conto».

E lei?

«Io ho negato. All’inizio non ho detto la verità, né a lei né ai figli; com’era inevitabile che fosse, visto che speravo ancora di salvare tutto. Ma a quel punto mi sono tolto un peso, e ho domandato a Ilary di quest’altro uomo. Anche lei sulle prime ha negato. Diceva di non averlo mai incontrato. Poi ha capito che sapevo, e mi ha raccontato che con quel tipo si erano visti solo per prendere un caffè. Abbiamo avuto un confronto a tre anche con Alessia, ed entrambe hanno negato. In realtà so che si erano conosciuti già nel marzo del 2021. E che lei ha frequentato lui e altri uomini un po’ troppo da vicino. Prima che nascesse la mia storia con Noemi».

Eppure con Ilary ancora poco fa vi siete fatti fotografare al ristorante, come se foste sempre una coppia. Avete provato a ricostruire il matrimonio?

«Un po’ ci abbiamo provato, ma non fino in fondo. Nessuno ha voluto tentare qualcosa di più. Diciamo che non è stato un grande tentativo. Io sapevo quel che aveva fatto lei, anche se non ho detto niente per non danneggiare la sua immagine, tanto più mentre stava facendo l’Isola dei Famosi. E lei probabilmente si era stufata. Perché in realtà il matrimonio era finito».

E avete annunciato la rottura. Con due comunicati separati.

«Avrei preferito un comunicato solo, firmato da tutte e due, per dire che avevamo provato a superare le difficoltà ma non ci eravamo riusciti. Ilary non ha voluto: perché era andata in tv a negare, ad assicurare che andava tutto bene; e non poteva rimangiarselo. Così ha scritto il suo comunicato, per sostenere che lei aveva fatto qualcosa per salvare il rapporto, e io no».

E siete andati per avvocati. Lei ha affiancato Annamaria Bernardini De Pace a un suo legale storico, Antonio Conte.

«Cercavo un accordo. Non volevo finire in tribunale. Così ho proposto: pensiamo prima ai figli, lasciamo la casa a loro, e noi ci alterniamo, facciamo tre giorni per ciascuno. Non volevo vedere i ragazzi con la valigia in mano, tra l’Eur e Roma Nord. Ma Ilary ha detto no. Allora le ho proposto di dividere la casa, in fondo è grande. Oppure di prenderne una tutta per lei. Niente da fare: in casa vuole restare soltanto lei, e basta. Poi non ci siamo più parlati, perché è partita con la sorella per la Tanzania. Una vacanza pagata da me».

Che sarà mai…

«Non è tutto qui. Con suo padre è andata a svuotare le cassette di sicurezza, e mi ha portato via la mia collezione di orologi. Non ha lasciato neanche le garanzie, neanche le scatole».

Gli orologi?

«Ci sono alcuni Rolex di grande valore. Sostiene che glieli ho regalati; ma se sono orologi da uomo… Mi rifiuto di pensare che sia questione di soldi. Semmai, è un dispetto».

E lei cos’ha fatto?

«E che dovevo fare? Le ho nascosto le borse, sperando in uno scambio… (Totti sorride) Ma non c’è stato verso. E non è finita».

Cosa c’è ancora?

«Mi ha fatto seguire da un investigatore privato. Persone a lei vicinissime mi hanno messo le cimici in macchina, e il gps per sapere dove andavo; quando bastava che me lo chiedesse. Altre persone si sono appostate sotto la casa di Noemi…».

In effetti «Chi» ha pubblicato la sua foto sotto la casa di Noemi.

«E dov’è lo scandalo? Ormai tutti sanno della nostra storia. Cerco di viverla con discrezione, sempre per non turbare i ragazzi».

Come sono i ragazzi?

«Li adoro, e mi adorano. Il mese scorso me li sono portati tutti e tre a Sabaudia. Cristian gioca a calcio: mezz’ala. Ha una grande passione, faceva su e giù tutti i giorni con Roma per allenarsi. Con le femmine mi sciolgo. Chanel ormai è un’adolescente, non è un’età facile, non voglio che soffra. Un po’ erano già abituati fin da piccoli a vedere mamma e papà uno per volta: eravamo entrambi molto impegnati con il lavoro, e i calciatori non hanno il week end libero... Isabel è ancora piccola, ma mi sa che ormai ha capito tutto. Anche perché a un certo punto lei me l’ha portata via».

Cos’è successo?

«L’accordo era: luglio con la madre, agosto con me. Poi Ilary si è preoccupata che Isabel sentisse la sua mancanza, ma io la tranquillizzavo: Isabel stava benissimo, e poi facevamo le videochiamate tutti i giorni. Invece lei è arrivata a Sabaudia e se l’è portata in barca in Croazia».

Sua madre Fiorella cosa dice?

«Nulla. Soffre in silenzio».

È vero che era contraria al suo matrimonio?

«Sciocchezze. Mamma ha sempre rispettato le mie decisioni. Al massimo, può aver provato la normale gelosia della mamma romana per il figlio maschio; che se le porti come nuora la Madonna, non le va bene manco lei…».

E adesso cosa succede?

«Non lo so. Temo che con Ilary finirà in tribunale. Spero ancora che si possa trovare un accordo e chiudere qui questa storia. Di sicuro, io adesso mi taccio. Non so se si è capito, ma questo pomeriggio mi è costato sei mesi di vita. Avrei preferito mille volte darle un’intervista per parlare di calcio e della Roma, che porto sempre nel cuore».

IL SASSUOLO.

Roberto De Zerbi.

Davide Frattesi.

Roberto De Zerbi.

Estratto dell'articolo di Salvatore Riggio per corriere.it lunedì 25 settembre 2023.

Missione non impossibile per Roberto De Zerbi che dopo aver conquistato la qualificazione in Europa League lo scorso anno, chiudendo la stagione al sesto posto (la sua miglior annata di sempre in Premier League) viaggia veloce anche in questa annata occupando la terza posizione della classifica, a tre lunghezze dal Manchester City di Guardiola. 

De Zerbi scelto con l’algoritmo

Roberto De Zerbi ha incantato la Premier con il suo Brighton al primo anno. Scrive il Mail che De Zerbi era in una rosa di tre allenatori per la successione di Graham Potter, era stato indicato dall’algoritmo prodotto da StarLizard. Dopo l’incontro, De Zerbi divenne l’unico candidato. Tanto da essere corteggiato dal Chelsea e dal Liverpool.

E anche l’Inter, oltre a Thiago Motta, per il dopo Simone Inzaghi aveva pensato a lui. Così come il Napoli. Inoltre, l’ex tecnico del Sassuolo ha ricevuto anche i complimenti del tecnico del Manchester City, Pep Guardiola: «Il Brighton è la squadra che costruisce meglio il gioco al mondo», aveva detto qualche mese fa l’allenatore catalano.

«Propongono uno stile di gioco a cui non siamo abituati». Valanga di complimenti anche da Jamie Carragher: «Il Brighton, in termini di qualità, ha il miglior possesso palla del campionato. È incredibile quello che sta facendo De Zerbi e come lo sta facendo. Spero che rimanga a lungo al Brighton perché mi piacerebbe continuare a guardarlo». 

L’ossessione per le sigarette

Forse non tutti sanno che le ossessioni di Roberto di De Zerbi sono due: il calcio e poi, per sua stessa ammissione, le sigarette. Sì, ne fuma un bel po’ e lo ha confessato in un’intervista al Daily Mail. 

«Il calcio è un hobby, un lavoro, una passione, è la mia vita. Il problema è quando non ci sono giochi. Adoro passare il tempo con il mio assistente guardando la Champions League, e per noi è un onore giocare in Europa League in questa stagione perché se vivi per il calcio e puoi giocare a metà settimana, è un onore, un piacere». L’altra ossessione? «Le sigarette». 

[…] 

L’amicizia con Guardiola

L’ossessione di Guardiola verso De Zerbi è ancora più antica, risale addirittura a quando l’allora allenatore del Sassuolo era stritolato dalle discussioni tra risultatisti e giochisti. Mentre era ospite all’edizione 2018 del Festival dello Sport di Trento stupì tutti nominando l’allenatore appena arrivato in Emilia da Benevento tra i tecnici che riteneva più interessanti. 

E dopo oltre cinque anni durante il quali maestro e allievo hanno avuto possibilità di incrociarsi, conoscersi e frequentarsi, la loro relazione è diventata sempre più ricca e profonda, di amicizia. E tra cene e sfide a bordo campo, i due hanno stretto una bromance da rom-com in nome del tiki taka. 

Il caffè col barbiere

Consapevole delle proprie capacità, resta però l’allenatore umile come quando ha iniziato. È un ragazzo amichevole che crea facilmente legami, sia con un barbiere di nome Mehmet che taglia i capelli in un negozio vicino al suo appartamento e con il quale prende regolarmente un caffè, sia con il personale, con il quale è popolare. «Penso di essere davvero fortunato nella vita perché il mio lavoro è la mia passione. Mi piace lavorare. Le persone che lavorano nel calcio hanno un grosso stipendio e per questo mi considero molto fortunato». 

De Zerbi da calciatore

De Zerbi, bresciano, da bambino ha iniziato a giocare nella squadra del suo quartiere, l’US Oratorio Mompiano. Le sue qualità tecniche non sono passate inosservate agli osservatori del Milan che lo ha voluto nel suo settore giovanile. Ha esordito da professionista nel 1998 nel Monza, in serie B. 

Dopo varie esperienze in serie C, si è messo in luce nella stagione 2004-2005 in B con l’Arezzo e ha poi giocato nel Catania, nel Napoli (con cui nel 2007 ha anche esordito in A), nel Brescia, nell’Avellino e anche in Romania con il Cluj. 

La carriera in panchina

Nel 2013-2014 De Zerbi ha iniziato la carriera in panchina, nel Darfo Boario. Ma è sulla panchina del Foggia dal 2014 al 2016, in C, che inizia a farsi conoscere a apprezzare in tutta Italia. Nel settembre del 2016 è stato chiamato ad allenare il Palermo in A, l’anno successivo ha guidato il Benevento ma è nel triennio al Sassuolo, dal 2018 al 2021, che si è consacrato come tecnico di spessore. 

Poi nella stagione 2021-2022 si è trasferito in Ucraina allo Shakhtar Donetsk. «Cerco di giocare contro tutti con lo stesso stile e lo stesso coraggio. In campo siamo tutti uguali e per vincere devi segnare un gol in più rispetto all’avversario. Non devi cambiare mentalità a seconda del rivale che hai davanti», il credo di De Zerbi. Che alcuni fa sembrò vicinissimo alla Liga, a Las Palmas. Ma non se ne fece nulla. 

La guerra e l’addio allo Shakhtar

Poi l’inizio della guerra nel febbraio 2022, i giorni di terrori passati chiuso in hotel a Kiev e l’addio doloroso allo Shakhtar. I giocatori stranieri riescono a lasciare il Paese ma restavano i calciatori ucraini. «Fra le 4 e le 5 siamo stati svegliati dalle esplosioni, è il giorno peggiore della mia vita. Siamo un gruppo con brasiliani, ucraini e noi italiani: non intendo tornare nel mio Paese prima dei miei giocatori», disse De Zerbi. E così fece, non senza difficoltà: per farlo rientrare si mobilitarono il ministro degli Esteri di allora Di Maio e il presidente della Figc Gravina. 

Il calciatore preferito di De Zerbi era Roberto Mancini, nonostante abbia avuto vicino al Milan gente come Franco Baresi, Paolo Maldini, Zvonimir Boban, Roberto Baggio: «Ma di quel gruppo ho portato con me la mentalità del collettivo più che la classe del singolo. Fu una fortuna incontrarli: la domenica vincevano, eppure il martedì si ripartiva da zero. A Milanello si respirava serietà, sacrificio a 360 gradi: quel Dna mi è restato» [...] 

Il rifiuto alla panchina del Bologna di Mihajlovic

Quando il Bologna esonera Sinisa Mihajlovic dopo quattro anni pensa subito a De Zerbi per sostituirlo. Ma arriva un no: Roberto pensava che la città, con cui Sinisa aveva stretto un legame particolare soprattutto negli anni della malattia, non lo avrebbe accolto bene. 

E, anche per rispetto a Mihajlovic, ha rifiutato l’offerta. Altro discorso sarebbe stato se il serbo si fosse dimesso. Un gesto particolarmente apprezzato dalla moglie di Sinisa, Arianna, che sui social scrisse: «Due grandi uomini. Spero che i giovani prendano esempio dagli insegnamenti di questi due giganti. Con i soldi non si può comprare tutto».

Davide Frattesi.

Estratto dell'articolo di Salvatore Riggio per corriere.it il 18 giugno 2023.

Tutti pazzi per Davide Frattesi, centrocampista del Sassuolo nato il 22 settembre 1999. L’Inter lo insegue da tempo, mentre Juventus, Lazio, Milan e Roma monitorano la situazione. Il Sassuolo ha già aperto l’asta, spiegando che le offerte più interessanti arrivano dalla Premier, ma il giocatore non vuole trasferirsi in Inghilterra. Adesso può anche diventare un punto fermo dell’Italia di Roberto Mancini. La Var gli ha annullato il gol del 2-1 nella semifinale di Nations League contro la Spagna di giovedì 15 giugno. E poi ha avuto anche un’altra bella occasione respinta da Simon, il portiere degli iberici.

Idee chiare

Frattesi adesso è pronto al salto dopo due stagioni al top in neroverde. «Ho detto al mio procuratore di chiamarmi solo se ci saranno proposte importanti», ha spiegato dal ritiro della Nazionale. «Nella mia scelta saranno decisivi il gioco del club e la tattica», ha detto. […] 

L’amicizia con Scamacca

Il suo migliore amico è Gianluca Scamacca, oggi al West Ham, corteggiato da Inter, Milan e Roma. I due hanno giocato insieme al Delle Vittorie, alla Lazio, alla Roma e anche al Sassuolo, l’anno scorso. Sono cresciuti entrambi nella borgata Fidene, periferia romana, e sono legati dal pallone, anche fuori dal campo. Tutto grazie alle tante partite alla Play. Insomma, sono inseparabili. 

[…] le passioni di Frattesi c’è pane e nutella. «In Svezia, in un torneo, segnò un paio di volte dopo essersi mangiato tre fette di pane e Nutella. Le avevo preparate per tutta la squadra. Scamacca era stato attento, lui si era abbuffato», il racconto di Emiliano Leva, primo allenatore di Frattesi alla Lazio.

Frattesi da piccolo non aveva solo il calcio in testa: giocava anche a tennis (due giorni a settimana, mentre al pallone tre) e tra gli sportivi il suo idolo era Roger Federer. Per Davide, arrivò poi il momento di scegliere. A far la differenza il fattore gruppo e l’importanza del rapporto con i compagni di squadra. 

Ai tempi della Roma aveva come idolo Kevin Strootman, spesso lo spiava in allenamento per rubare i segreti del centrocampista olandese. Tra i punti di riferimento anche Daniele De Rossi. 

A 7 anni era alla Lazio. Ci resta fino a quasi 15 anni. Finisce alla Roma, ma dopo tre anni è al Sassuolo. I giallorossi non lo riscattano e Frattesi gira in prestito ad Ascoli, Empoli e Monza. Ora è tornato a Reggio Emilia ed è protagonista con i neroverdi. 

Nel 2022 Frattesi è stato costretto a scusarsi pubblicamente dopo che alcune sue foto senza veli finirono sui social. Il centrocampista dichiarò di esser stato vittima di un attacco hacker. Ora sul proprio profilo Instagram ha 94.200 follower.

IL BOLOGNA.

Estratto dell’articolo di Marco Vigarani per corrieredibologna.corriere.it il 15 febbraio 2023.

A distanza di quasi due mesi dalla morte di Sinisa Mihajlovic, la vedova Arianna racconta il suo lutto. Lo fa con un post su Instagram in cui difende il sacrosanto diritto di vivere il dolore in modo personale. La fotografia la mostra sorridente a bordo piscina e la frase spiega tutto: «Faccio fatica a tirare fuori le mie emozioni.

 È il mio stile, il mio vissuto che nessuno di voi conosce. Preferisco sempre farmi vedere forte, truccata e ben vestita. In realtà il mio cuore piange specialmente quando sono sola. Questo è il mio modo di elaborare il lutto, non so se sia giusto o sbagliato ma questa sono io».

 Le critiche sui social e la replica della moglie di Mihajlovic

In una società schiava dei social network e del giudizio spietato basato sull'apparenza, la scelta di Arianna di mostrare in queste settimane anche il suo lato sorridente ha ricevuto più di una critica. Eppure in questi due mesi le fotografie e i ricordi del marito non sono mai mancati. L'ultimo risale appena a due giorni fa: un'immagine della coppia sorridente con la frase «Che giri fanno due vite» citando il testo della canzone di Marco Mengoni che ha vinto il Festival di Sanremo. E ancora la settimana scorsa Arianna aveva scritto: «Ogni notte per me è tempesta di pensieri».

(…)

 Da repubblica.it il 15 febbraio 2023.

Nel giorno di San Valentino una delle figlie di Sinisa Mihajlovic, l'ex allenatore del Bologna deceduto lo scorso 16 dicembre, ha pubblicato una fotografia con una dedica del papà di un recente San Valentino, già durante la sua malatti,a accompagnandola con alcune parole dal testo della canzone di Mr Rain presentata al Festival di Sanremo, "Supereroi".

"Perché siamo invincibili, vicini. E ovunque andrò sarai con me" ha citato Viktorija Mihajlovic.

 Nel biglietto pubblicato, Sinisa le aveva scritto: "Anche se non sono un tuo fidanzato, anche quello di papà è amore. E non ci sarà mai un uomo che ti amerà totalmente e senza condizioni come ti amo io".

IL PARMA.

Tino Asprilla.

Giampietro Manenti.

Alberto Malesani.

Hristo Stoichkov.

Tino Asprilla.

Estratto da corriere.it venerdì 10 novembre 2023. 

Dal Parma ai condom

Gol, capriole, donne e risate. Imprevedibile e divertente, salvato dal pallone. Tino Asprilla è nato a Tuluà, centro chilometri da Calì, 54 anni fa, il 10 novembre 1969. Per lui una vita da film tra calcio, armi da fuoco, narcotrafficanti, scherzi. Era nel Parma con un talento generale enorme, è passato dal Newcastle, con la sua Colombia come stella polare. Dopo il ritiro si è dato al mercato dei condom. Sì, questa è solo l’ultima attività, legata evidentemente alla passione più grande. Ma che fine ha fatto? Cosa fa oggi Asprilla? 

Nel 1993 Asprilla posa nudo per una rivista, la didascalia sotto la foto recita: «Quello che vedete qui sopra è il mio regalo per le donne colombiane. E spero che i mariti non ci rimangano male». 

Donne e sesso, anche prima delle partite. Come prima di una sfida contro il Napoli: «Il proprietario dell’hotel dove stavamo in ritiro era molto amico di Scala e aveva una figlia molto carina con cinque amiche che studiavano a Parma ed erano sempre lì. Una notte mi chiamano dicendo: “Vieni in questa camera’, sono andato. Non ricordo chi ci fosse con me, credo Crippa. Siamo stati fino alle 5 della mattina, ci siamo divertiti. Poi abbiamo giocato contro il Napoli e abbiamo perso 3-1. Non abbiamo dormito, abbiamo fatto festa tutta la notte, era impossibile vincere in quelle condizioni».

Asprilla ha anche salvato una vita, quella di José Chilavert. Il 2 aprile 1997 è ad Asuncion per Paraguay-Colombia, qualificazioni ai Mondiali di Francia. A fine partita litiga furiosamente con il portiere icona paraguaiano: uno sputo, pugni, rosso diretto per entrambi e lite che prosegue anche negli spogliatoi. Poi riceve una telefonata da Julio Fierro, narcotrafficante colombiano, uno degli uomini di Pablo Escobar. «Mi chiama e dice “Puoi venire qui al mio hotel?” —ha raccontato di recente l’ex attaccante del Parma —. Sono arrivato ed era con altre 10 persone, tutte ubriache e accompagnate da donne paraguaiane. Sono andato con Aristizábal e ci hanno detto “Abbiamo bisogno che tu dia l’autorizzazione perché questi due uomini rimangano qui ad Asunción, vogliono uccidere quel ciccione di Chilavert”. Gli ho detto che era pazzo. Quel che succede in campo finisce in campo».

Attore in film a luci rosse

Uomo dai sogni particolari, Asprilla: «La cosa più audace che ho fatto — ha raccontato in un’intervista a Cromos —è stata fare l’amore ad alta quota su un volo da Bogotà a Londra. Il mio sogno è farlo in un campo da calcio con le tribune piene: se la gente apprezza ti applaude altrimenti può lanciarti sassi e pomodori». Negli anni gli è stato chiesto più volte di partecipare a clip video e anche film a luci rosse. Anche di recente, nel 2017, quando a provocarlo è stata la pornostar colombiana Amaranta Hank. Asprilla ha sempre rifiutato

Vende preservativi

Nel 2014 l’ex attaccante di Newcastle e Parma si è trasformato in imprenditore: ha fondato la Tino Condones, una linea di preservativi. Promuove il suo marchio in uno spot con Valderrama con l’ironico slogan: «El Tamaño conta», ovvero «Le dimensioni contano». Un’idea nata per promuovere abitudini sessuali sane: «Consiglio a tutti i condom al sapore di guaiava. Quando ero piccolo avevamo nel nostro giardino un albero di guaiava e questo aveva un gusto e un sapore che s’addice tanto alle relazioni amorose». Oggi Faustino gestisce lo zuccherificio San Carlos, quello in cui suo padre ha lavorato per tutta la vita e ha la sua azienda di condom. Gira per il mondo, spesso torna a Parma ad incontrare i vecchi amici.

Giampietro Manenti.

Franco Vanni per repubblica.it - Estratti sabato 4 novembre 2023.

Fissa l’appuntamento al tavolo di un McDonald’s, periferia nord di Milano. «Qui la mattina non c’è nessuno, si sta tranquilli». Si presenta con un quarto d’ora d’anticipo, tuta di acetato nero e verde dell’Asd Serenissima di Limbiate. «Alleno i ragazzi dell’età di mio figlio più piccolo, il terzo. 

Ha 14 anni. La più grande lavora, quello di mezzo va all’università. Li ho avuti da tre donne diverse, sono stato un po’ sportivo, diciamo, con due di loro vado d’accordo». Campetti a parte, Giampietro Manenti non fa nulla. Se gli si pone la domanda di un tempo — «Scusi, ma lei che lavoro fa?» — risponde: «Avevo qualche soldo da parte, per il resto mi aiutano gli amici. Dopo quel che è successo a Parma, è cominciato il declino. Essere descritto come un delinquente ha creato diffidenza».

Manenti e il Parma a un euro

In questi anni il presidente più improbabile della Serie A è diventato un fenomeno social, un meme. Nel 2015 acquistò il Parma per un euro – anche se ha sempre contestato quella cifra, “molto più bassa rispetto a quella reale” – bypassando i controlli di Figc e Lega. Tre settimane dopo fu arrestato in un’inchiesta della procura di Roma sul riciclaggio. Si presenta meglio di allora, e non ci voleva molto. Non fosse per i capelli più radi, a 53 anni sembra più giovane rispetto alle fugaci apparizioni che lo hanno reso famoso. 

Una su tutte, un cult su Youtube: conferenza al Tardini, giornalisti che lo incalzano sulla consistenza dei suoi affari, lui che mastica la gomma, risponde male, svicola, snocciola le sigle del suo presunto impero, Mapi Ambiente, Mapi Energia, Mapi Channel, Mapi Group, con sede in una casa coloniale in Slovenia. Mapi, da Manenti Pietro. «Pesavo cento chili, venti più di oggi. Non dormivo la notte. Guidavo una Skoda nuova di pacca, ma dai giornali fu descritta come un catorcio. E dire che per il mio stile casual mi soprannominavano Marchionne.

Come provocazione, indossai una vecchia giacca di mio nonno. Mi mancava un dente, li stavo sistemando», ricostruisce ora, con un sorriso ordinato. Mapi è andata in liquidazione a gennaio 2022, al capitale minimo mancava un euro. E secondo le cronache dei tempi dell’acquisto del Parma, la Skoda non poteva circolare: multe non pagate, blocco amministrativo. Ma Manenti precisa: “In realtà a essere fermata era una Citroen C3”.

Chi è Giampietro Manenti

Prese il Parma «da capofila di una serie di imprenditori». I giornali scrissero che, pressato dai creditori, provò a scappare in Slovenia. Lui ripete la sua verità di allora. «Ero a Monaco di Baviera da possibili investitori. La proprietà precedente del Parma aveva lasciato solo debiti e portato via anche i materassi e le lenzuola. Di me si è scritto di tutto, ma sono una persona a posto. Ho studiato Agraria, lavorato in Eni e in Isagro. Parlo inglese, spagnolo e polacco, grazie alla mia compagna. Ho lavorato anche in Russia e Ucraina come consulente nella chimica».

Manenti e l’arresto per riciclaggio

E poi c’è il calcio. Manenti racconta di avere giocato da ragazzo «a livello semiprofessionistico», di aver provato a scalare il Brescia, il Bologna, e di essersi interessato al Genoa: «Avevo un piano per riqualificare lo stadio». Sì, ma con che soldi? «Facevo da tramite. Avevo la fiducia delle banche». Del Parma gli resta «una maglia autografata a mio figlio da Palladino, persona gentile». Fu arrestato per tentato riciclaggio con altre 21 persone. «Non so chi fossero, tranne un conoscente che voleva uno skybox per Parma-Juve. Lo portammo al Tardini per pagare con il pos 500 euro, ma non sapeva il codice della carta e lo allontanammo».

Secondo i pm Manenti, in cerca di soldi, si sarebbe affidato a una banda di hacker e clonatori di carte, che avrebbero promesso 4,5 milioni per salvare il Parma, poi fallito. «Dell’inchiesta non ho più saputo nulla. Il mio avvocato, al tempo già anziano, non esercita più. Nel 2016 la corte federale della Figc mi ha assolto da tutte le accuse. Intanto, però, mi sono fatto sei mesi ai domiciliari e 18 giorni a San Vittore, esperienza che non auguro nemmeno ai cani. Sono stato condannato solo una volta per aver menato uno che voleva estorcermi denaro».

(…)

Alberto Malesani.

Estratto dell’articolo di Stefano Semeraro per “la Stampa” domenica 13 agosto 2023.

Alberto Malesani, ovvero la favola del Chievo in Champions League e il miracolo del Parma delle tre coppe - Italia, Uefa e supercoppa - in 100 giorni. Di miracolistico in quei risultati, in realtà, c'era poco. Piuttosto un'idea di calcio diversa […] senza scendere a compromessi. Il prezzo da pagare è stata un'uscita precoce dal giro. Più subita che voluta. 

Malesani, il calcio le manca?

«Non tanto. Mi manca il lavoro sul campo […]».

Infatti lei è diventato produttore di vini, con la Giuva.

«L'azienda l'ho venduta. L'offerta era buona, e garantiva un futuro importante». 

La gente la ricorda con simpatia.

«Mi ricordano perché ho vinto. Se arrivi secondo o terzo, ti dimenticano in fretta. Poi qualche idea credo di averla avuta. La finale di Coppa Uefa con il Marsiglia è citata da tutti come l'esempio di un calcio all'avanguardia. […]».

[…] «Da imprenditore ho visto il mio vino dentro ristoranti importanti. Prima del calcio avevo creato un ufficio import export alla Canon Italia. Vengo da una famiglia di operai, sono stato operaio, geometra, impiegato. E da allenatore ho portato un piccolo borgo come Chievo dal nulla alla Champions league». 

Una favola ripetibile?

«[…] Le idee contano, certo, ma come dicevano l'avvocato Agnelli e il grande Silvio Berlusconi: se vuoi avere, devi spendere». 

[…] «Al Chievo […]Facevo di tutto. All'inizio distribuivo persino i biglietti agli amici, perché nessuno veniva al campo. Ma siamo arrivati a fare sold out per il derby con il Verona, per cui si scomodò anche la Cnn. Quelli sono successi».

[…] Poi c'è il capitolo esultanze.

«Le ho sdoganate. Quella del derby nacque da una scommessa con Gigi del Neri, gli dissi che se avessi vinto avrei corso sotto la curva del Verona. Io allenavo l'Hellas, eravamo sotto 2-0 e vincemmo 3-2. Era gioia, non uno sberleffo, l'avrei fatto ovunque. Ora vedo esultare per molto meno…». 

La conferenza stampa infuriata al Panathinaikos gira ancora su internet.

«Fu solo uno sfogo. Il vero Malesani non è quello lì. In Grecia fra l'altro mi trovai molto bene, la squadra la gestivamo io e il presidente: nessun direttore sportivo, niente procuratori…». 

Che cosa le ha fatto male?

«Vedere il Chievo ferito e abbandonato. C'è qualcosa di strano nel mondo in cui è stato fatto fuori, non hanno considerato la storia. […]». 

Quale squadra le sarebbe piaciuto allenare?

«La nazionale. E il Milan, di cui sono tifoso. Quello dell'epoca di Berlusconi e Galliani. A un certo punto le strade si sono anche incrociate. Ma non è successo» 

Che allenatori ammira? […]

«Ancelotti e Del Bosque. Hanno vinto tanto. […]Carlo ha vinto molto di più di tanti altri che sono molto reclamizzati, gli manca solo un Mondiale, gli auguro di cuore di vincerlo con il Brasile. Dopo Mancini, altro grande allenatore, meriterebbe la panchina azzurra».

Come allenatore Malesani ha dato il massimo?

«Di sicuro ci ho provato. Ho trasmesso quello che avevo da trasmettere. Tanti non ci riescono: per paura, timidezza, pigrizia. Io ho sempre avuto il coraggio di farlo e la gente, anche i campioni, mi ha seguito». […] 

Se arrivasse un'offerta per allenare?

«La rifiuterei. Serve una vigoria psicofisica spaventosa che non ho più». […]

Hristo Stoichkov.

Hristo non si è fermato a Parma: il flop di Stoichkov in Serie A. Un Pallone d'oro in Emilia: nell'estate 1995 il campione bulgaro Stoichkov si trasferisce ai Ducali e subito genera grandissime aspettative, poi brutalmente tradite. Paolo Lazzari il 15 Luglio 2023 su Il Giornale.

Atterra caracollando con la sicumera tipica di chi è eccessivamente infatuato dei propri mezzi. E subito distribuisce la sensazione, per quanto ancora epidermica, che in quell'atteggiamento ci debba essere qualcosa di stonato. Eppure, come faresti a dirlo? La gente si sfrega i polpastrelli. La salivazione aumenta. Mica ci arriva tutti i giorni, un Pallone d'oro in Emilia. Le cose stanno così: se sei a Parma ed è ancora l'estate 1995, sai benissimo che in città c'è soltanto un trending topic. Ma davvero arriva Hristo Stoichkov?

Sì, davvero. Calisto Tanzi si è frugato. In totale fanno 12 miliardi delle vecchie lire. Abbastanza per strapparlo al Barcellona di Cruijff, specie perché con l'olandese lui ci ha litigato di brutto. Irrimediabilmente insolente e incline alla rappresaglia, il bulgaro. Ma in fondo segna a manetta - 81 gol in patria, con la maglia del CSKA, 76 con i blaugrana in cinque anni - e distribuisce assist con cadenze liturgiche. "Il Pallone d'oro mica te lo danno per caso", commenta il talentino Gianfranco Zola, accogliendo il bizzarro compagno. Il lanciatissimo Parma di quell'epoca aurea ora lucida il sogno scudetto.

Lui, che ha disputato un Usa '94 da astro sfrigolante, trascinando la sua nazionale al miglior risultato nella storia - il quarto posto - è convinto di essere stato asperso da una benedizione celeste: "In questo mondiale noi bulgari siamo figli di Dio". Niente di meno. Beccatevi questa. Hristo arriva insomma sentendosi il migliore. E, in quanto tale, ritiene che tutto gli sia dovuto per legge naturale. Ma l'umana tracotanza, fin dai tempi di Antigone, viene puntualmente cazziata. E Stoichkov non ne rimane indenne. Perché la questione è che in Serie A i difensori mica si spostano al suo passaggio. Nessuna deferenza verso il campionissimo. Nessuna sudditanza. Il bulgaro rimbalza penosamente sulle retroguardie altrui, dopo un inizio promettente.

Lui però è certo: "Vinciamo lo scudetto perché siamo la squadra più forte. Io posso tranquillamente giocare ovunque, anche dietro le punte". Nevio Scala, il tecnico, lo coccola allo spasmo: "Costa la metà di Baggio e Signori ed è più forte di entrambi", vaticina in ritiro. "Argh" è il termine onomatopeico che forse rende meglio la reazione a questa sbilenca previsione. Perché Hristo di soprannaturale mostra poco o niente in Italia. Anzi, risulta talmente inconcludente che pare che a Parma non ci si fermi proprio. A fine stagione collezionerà soltanto 23 presenze in campionato, punteggiate da 5 reti. Più due gol in coppa delle coppe. E una presenza in coppa Italia. L'equivalente di un flop monstre per uno che si presentava con il globo d'oro stretto sotto l'ascella.

Eppoi, oltre che indolente, Stoichkov appare anche irascibile. In Spagna aveva accumulato cartellini, ma almeno segnava. Qua non sfonda, e si inalbera ancora di più. Cade puntualmente nelle provocazioni. Abbaia alla stampa nel post partita. E oltre agli avversari, patisce anche il carisma dei compagni, in primis di Zola e poi del giovanissimo Inzaghi. In sintesi: una disfatta.

Se ne tornerà in blaugrana dopo un anno soltanto, non prima di aver vomitato strali contro il calcio italiano: "L'Italia è una parentesi chiusa, un periodo in cui mi sono annoiato mortalmente". Figuriamoci i tifosi sugli spalti. Hristo ha imboccato un declivio scosceso. La sua carriera proseguirà al ribasso, dissolvendosi gradualmente. Nessun miracolo. Nessuna resurrezione. A Parma, di certo, la moltiplicazione dei gol non è riuscita nemmeno un po'.

IL PIACENZA.

"The italian Job": il miracolo del Piacenza senza stranieri. Paolo Lazzari il 28 Gennaio 2023 su Il Giornale.

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Per otto anni di fila il club si affida ad una scelta autarchica: sempre dati per spacciati, sempre sopravvissuti

Scorrono la lista dei papabili, ma scuotono subito mestamente il capo. Quando il rintocco della nuova stagione già vibra in vicinanza, loro sono ancora alle prese con un mercato inceppato. L’euforia per una stagione trionfale, culminata con la promozione in Serie A, pare già dilapidata. Il 1993 potrebbe recare sventure multiple. Leonardo Garilli si inumidisce pollice e indice, poi emette la sua sentenza: "Direi di fare con quelli che abbiamo". Gigi Cagni, seduto dall’altro lato della scrivania, quasi viene colto da un colpo apoplettico. Affrontare il campionato più intricato al mondo in quelle condizioni? Servirebbe un miracolo.

Il Piacenza è salito su specie per gli abbondanti squilli del suo bomber Totò De Vitis. La società lo conferma e, visti i prezzi debordanti dei calciatori stranieri, vira su due giovani italiani: Massimo Taibi tra i pali, Marco Ferrante in avanti. Tutto qua. Piazza che mugugna. Garilli che tenta di gettare acqua sullo scetticismo strepitante: "Niente fumo negli occhi, abbiamo deciso di puntare sul gruppo che ci ha portato alla promozione". Lapidario e tutt’altro che persuasivo.

A ribaltare un destino apparentemente avverso ci pensa Cagni. Schiera un 4-3-3 di sostanza e acume: quando i suoi non hanno la palla il centrocampo diventa a cinque. Spazi intasati che nemmeno alle sei della sera sul grande raccordo anulare. Maccoppi, Polonia, Lucci e Cannarante sono quel che passa il convento là dietro. Nel mezzo spiccano Suppa e Moretti. Davanti Ferrante scalza in fretta De Vitis, che si dissolve col salto di categoria. Fa coppia con Piovani.

Sulla scelta autarchica del club si addensano da subito nubi cineree. La squadra imbarca acqua contro il Torino e la Samp. Im molti pregustano una lenta mattanza. Poi alla terza c’è il Milan. Figurarsi. Invece agli allibratori sanguinano i polpastrelli: 0 a 0, contro ogni logica. Un risultato che diventa portatore sano d’autostima. La stagione però è un intruglio di arrampicate e declivi scoscesi. Cagni si toglie qualche vezzo in Coppa Italia. Si rimette in careggiata in campionato, ma poi perde aderenza. All’ultima giornata si consuma una beffa lacerante: il Milan, già campione d’Italia, si imbottisce di riserve e perde contro la Reggiana. Clangore metallico. L’utilitaria tutta italiana sbatte e sprofonda di nuovo in B, per la gioia dei menagrami professionisti.

Non è un affitto lungo. Un giovane predatore d’area guida i lupi verso una pronta risalita: si chiama Filippo Inzaghi e di gol in campionato ne fa 15. Motivo per cui diventa immediatamente sacrificabile alle porte del nuovo valzer. Se lo aggiudica il Parma, pagandolo quasi 6 miliardi di lire. L’assalto alla diligenza prosegue con le cessioni del senatori De Vitis, Iacobelli, Suppa e Papais. Per evitare di assomigliare a un calesse, Garilli reinveste prontamente: dentro sette nuovi calciatori, tutti rigorosamente italiani. Spiccano, nel debordante mucchio di connazionali, gli attaccanti Nicola Caccia e Massimiliano Cappellini. A centrocampo Corini e Di Francesco promettono di sprimacciare i piani avversari, alzando il livello della contesa. Agitando bene prima dell’uso, ne esce una stagione effervescente: Caccia ne fa quattordici, mentre quelli intorno rinsaldano, avvitando i bulloni. È la prima, storica, salvezza in Serie A.

L’incipit del nuovo corso è scandito da due notizie folgoranti. Cagni molla il timone a Bortolo Mutti, mentre la legge Bosman sgretola definitivamente le frontiere pallonare. La società prende nota, ma fa comunque spallucce. Avanti senza indugio con gli italiani. Ci fossero stati i social, l’Athletic Bilbao (ancor più rigidamente identitario) ci avrebbe di sicuro fatto un reel. Certo, la cessione di Caccia al Napoli getta nello sconforto più dilagante, ma al suo posto arriva un giovane centravanti di provincia. Si chiama Pasquale Luiso, danza la Macarena quando esulta e l’hanno soprannominato “Il toro di Sora”. A fine stagione ne farà 14, esattamente come il suo predecessore. In mezzo al campo, invece, la partenza di Corini viene alleviata da Giuseppe Scienza, un altro direttore d’orchestra. La scomparsa del presidente Garilli, colpito da un infarto il 30 dicembre, atterrisce l’ambiente. Al suo posto subentra il figlio. La salvezza, quell’anno, è questione che si dirime all’ultimo: convulso spareggio in campo neutro (Napoli) contro il Cagliari di Mazzone, 3 a 1 con doppietta di Luiso e lupi ancora aggrappati al vagone di prima classe.

Seguiranno anni di assestamento, conditi dagli arrivi di gente come Stroppa, Rastelli e Vierchowod, oltre alla promozione in prima squadra di Simone Inzaghi (futuro miglior marcatore in A della squadra) e Alessandro Lucarelli. Ci saranno ancora, prima del tramonto di questa missione italiana, una retrocessione e una riemersione, grazie al provvidenziale ritorno del figliol prodigo Caccia.

Nel 2001 il Piacenza cede alle lusinghe straniere, acquistando Matuzalem e Amauri. È la fine del miracolo autarchico di un coraggioso club di provincia. Un esperimento senz’altro estremo, eppure azzeccatissimo. A guardarlo con le pupille di oggi, appannate dalla indecorosa pletora di giovani connazionali marcenti in panchina o nelle serie minori, viene quasi una botta di nostalgia.

LA REGGIANA.

Paulo Futre alla Reggiana: troppo bello per essere vero. Un fuoriclasse che aveva vinto la coppa dei campioni e sfiorato il pallone d'oro arriva a Reggio Emilia: il sogno più breve di sempre. Paolo Lazzari il 22 Luglio 2023 su Il Giornale.

Quanta gente a sciamare intorno al logoro stadio Mirabello. La notizia, del resto, si è propagata in fretta. Là fuori, premuti contro gli ingressi o spalmati sulle pareti di calcestruzzo, basculano generazioni trasversali. Pensionati strapazzati emotivamente. Adulti con gli occhi luccicanti. Ragazzini sognanti. Perché quando torni in Serie A dopo aver cannato tutti gli appelli possibili per sessant'anni, la prima cosa da fare è passare all'incasso di quella felicità che pareva non arrivare mai, e adesso sgorga solenne. Che debito con il destino, a Reggio Emilia. Che rivalsa in quell'estate di trent'anni fa. Adesso ci sono. Adesso la Reggiana sguazza, finalmente, nella jacuzzi del calcio italiano.

E, siccome davvero nessuno ha voglia di tornarsene in apnea, c'è che la società ha im mente di allestire una squadra notevole. Ambiziosa. Che di sicuro non si lasci irridere da quei cuginastri del Parma. Più facile se al timone c'è Franco Dal Cin, azionista di maggioranza, guru del marketing calciofilo, nonché scultore di colpi irreali, come Zico a Udine. Eccoci dritti al punto. Squadra solida per mantenere la categoria, d'accordo. Ma servono le sferzate di un fuoriclasse. Urgono per tessere trame salvifiche sul campo. Si fanno pretendere per ringalluzzire ulteriormente il morale delle truppe cammellate del tifo.

Tourbillon di nomi. Ma certo nessuno attenderebbe un simile esito. Perché Dal Cin, consumato predatore carsico, d'un tratto se ne esce con una suggestione che stranisce i suoi vassalli: "Perché non ci prendiamo Paulo Futre?". Feudatari ammutoliti. Ma come? Quel Paulo Futre che ha vinto la coppa dei campioni con il Porto? Quello che si è piazzato secondo alle spalle di Ruud Gullit nella classifica del pallone d'oro del 1987? D'accordo. Va bene tutto. Oggi sono passati sei anni, lui è apparso un tantino appannato tra Benfica e Marsiglia, ma stiamo pur sempre parlando di un fenomeno. Un ventisettenne. Non esattamente una cariatide calcistica.

Però Dal Cin fa spallucce. Futre è tutt'altro che un progetto onirico. Lui sa come ammansire anche i campioni più recalcitranti. Sa damascare ogni provincia. Così ad autunno scoccato - visto che all'epoca era prevista una finestra di mercato intermedia - piazza il colpo. La Reggiana arranca penosamente in campionato: nemmeno una vittoria nelle prime undici partite. Quando il suo presidente glielo comunica, mister Pippo Marchioro deve pizzicarsi i polsi. "Sì, abbiamo preso Paulo Futre". l

Faccia da divo di hollywood, lusitano nelle vene, un metro e settantacinque di cadenze intricate, finte disorientanti, colpi da jackpot con quel mancino telecomandato. E la dieci sulle spalle, ovvio. A Reggio lo accolgono come un messia, facendo una gran folla di fronte al palazzo comunale. Un'intera città si aggrappa alle sue intuizioni calcistiche per tirarsi fuori dalla poltiglia delle retrovie. Il giorno da cerchiare in rosso è il 21 novembre 1993: il debutto di Futre sarà in casa, contro la Cremonese di Gigi Simoni.

E subito l'astro portoghese non tradisce le aspettative. Gioca davanti con Padovano e Mateut (anche lui appena arrivato). In mezzo c'è Scienza, tra i pali Taffarel. Futre non delude il popolo che ha riempito il Mirabello. Si smarca, esibisce il suo campionario di movenze, manda al bar avversari, suggerisce per i suoi. Tutto con l'eleganza vellutata dei giocatori d'alto lignaggio. La Cremonese resiste solo per sessanta minuti. Poi Morello lo serve al limite dell'area, lui converge, finta e spedisce alle spalle di Turci con un rasoterra chirurgico. Ora i tifosi trasecolano per la gioia. Ma dura pochissimo.

Scappa via di nuovo Paulo, al crepuscolo del match. Minuto 83. Fluttua imprendibile sulla destra, quando il terzino avversario Pedroni lo stende. Lui cade male e si infortuna. Deve uscire subito. Ma quel che è peggio è il responso: infortunio al tendine rotuleo del ginocchio sinistro. Tradotto: stagione finita. Adesso la gente trasale. Lui, dal letto d'ospedale, si affanna per dire che è caduto male da solo, che Pedroni non c'entra. Sta di fatto che la sua prima stagione in granata si chiuderà lì, con sessanta minuti al debutto. La Reggiana si salverà ugualmente e un anno dopo potrà contare su di lui, ma Paulo gioca poco e non pare essere più lo stesso. Anzi, è proprio smarrito. La squadra sprofonderà di nuovo in B.

L'immagine crepata è quella del miracolo di provincia abortito. Un sogno troppo bello per pensarlo vero.

IL PERUGIA.

Quando Gaucci cacciò Ahn perché ci segnò ai mondiali. Il 19 giugno 2002, un giorno dopo essere stati sbattuti fuori da Byron Moreno e dal suo attaccante, il patron del Perugia dichiarò irremovibile: "Questo qui non ci rimette più piede". Paolo Lazzari il 3 Giugno 2023 su Il Giornale.

Avvampa irrimediabilmente. Furente. Indignato. Costernato. Ha nutrito una serpe coreana inconsapevolmente e, adesso, quella si è ritorta contro. Il 19 giugno 2002, ormai più di vent'anni fa, il suggerimento migliore per chiunque è evitare Luciano Gaucci. E dire che c'erano tutte le migliori premesse. Aveva anche invitato a casa almeno una ventina di persone, tra cui Luciano Moggi. Tartine, vini pregiati e maxischermo sintonizzato su Corea del Sud - Italia, ottavi di finale della rassegna iridata in terra asiatica.

Si era sfregato le mani, pregustando una vittoria disinvolta. Aveva buttato un occhio di quando in quando, mentre si asciugava le labbra con l'angolo di un tovagliolo di stoffa merlettata, certo che quella fosse una questioncella secondaria. Macché. Vieri e compagni soffrivano maledettamente. Byron Moreno perpetrava una sequela di surreali nefandezze. Uno a uno alla fine dei tempi canonici. Supplementari, con incisa al loro interno la farsesca regola del golden goal. Al 118' sbucava la testa di Ahn Jung-Hwan. Azzurri a casa. Tartine di traverso.

Luciano prima non ci crede. Poi si inviperisce. Ma come? Proprio lui. Il suo attaccante. Uno che in due stagioni in prestito al Perugia ha collezionato trenta presenze e cinque gol. La costante seconda scelta di Serse Cosmi, anche se il secondo anno gli hanno affibbiato la dieci sulle spalle. Aveva sussurrato di essere meglio di Nakata il giorno della presentazione, ma l'impressione era stata sempre quella di un giocatore vaporoso e smarrito per tutto il tempo. Salvo poi redimersi proprio quando non avrebbe dovuto. E Gaucci erompe, incontenibile. Grandina rabbia intervistato dalla Gazzetta. «Sono indignato! Lui si è messo a fare il fenomeno soltanto quando si è trattato di giocare contro l'Italia. Io sono nazionalista e questo comportamento lo considero non soltanto una comprensibile ferita al mio orgoglio di italiano, ma anche un'offesa ad un Paese che due anni fa gli aveva spalancato le porte».

Clamoroso benservito al coreano. Che - particolare risibile per Lucianone - tra parentesi avrebbe soltanto svolto il suo dovere. Hiddink ha puntato su di lui. Lui ha segnato per il suo paese. Tutto qua. Non per Gaucci, ovviamente, che schiuma livore da ogni poro. E ingombra i salotti calcistici con la sua esuberante intemerata. Come quando si collega con il processo di Biscardi, rincarando la dose: "Io non lo riscatto, perché non è una persona che si comporta bene avendo visto il pane bianco in Italia". Giubila e lo accarezza Aldo nazionale: "Grazie Luciano, ecco come si reagisce. Luciano Gaucci perde dei miliardi per non vendere Ahn che avrebbe un grande mercato, non lo riscatta, ma è coerente!".

Siamo all'avanspettacolo puro. L'ignaro Ahn non sa cosa l'aspetta. Per Gaucci è la causa dello sfacelo calcistico italiano e non può perdonarsi di averlo allevato. «Da noi si è sempre comportato da modesto comprimario e poi torna a casa e si mette a fare l'extraterrestre. Mi pento anche come presidente: noi lo abbiamo fatto crescere nel nostro calcio e alla fine ci accorgiamo che ci siamo rovinati con le nostre stesse mani. Io non intendo più pagare lo stipendio a uno che è stato la rovina del calcio italiano».

La sfuriata lavica gaucciana trova sostegno nelle pronte dichiarazioni di corredo di Cosmi, che comunque non vedeva l'ora di liberarsene. "Chiederò di non riscattarlo". Effetti personali premuti in fretta in valigia e tanti cari saluti. Il coreano ingrato lascia Perugia e vola in Giappone, al Shimizu S-Pulse. Tartine a volontà e gran rosso da sbocciare. Stasera sì, Gaucci festeggia.

Lorenzo Giarelli per il Fatto Quotidiano - Estratti sabato 11 novembre 2023.

“Non farò il sindaco, ma ho il dovere comunque di dare una mano”. La pazza idea del centrosinistra a Perugia, dove in primavera si vota per le Amministrative, ha il nome di Serse Cosmi, amatissimo allenatore che attraverso il calcio ha girato il Paese, lasciando i ricordi migliori proprio nella squadra umbra della sua città. Martedì sera Cosmi ha presentato PlayTime Perugia, progetto sociale ideato da Alessandro Riccini Ricci con cui nei prossimi mesi l’allenatore parteciperà a iniziative di dibattito, di cultura e di sport.

“Una rete dentro cui la città possa essere ascoltata”, per dirla con le parole dei promotori. 

A sentire parlare Cosmi c’era pure il segretario del Pd umbro Tommaso Bori, lieto di trovare il Mister a disposizione nell’ardua impresa di riconquistare la città dopo dieci anni di destra.

Serse Cosmi, è pronto a dare una mano?

Purtroppo vedo una città sdraiata, alla deriva. E noi abbiamo voglia di fare qualcosa per rivitalizzare la comunità. Mi è sembrato un dovere nei confronti di Perugia mettermi a disposizione, restituendo un po’ di quello che ho avuto. Non è la prima volta che mi do da fare per Perugia e lo avrei fatto a prescindere. Inevitabilmente, trovandoci in un periodo elettorale, questo viene caricato di significato, essendo poi chiara l’area politica a cui mi ispiro. 

In molti, anche nel Pd, la vorrebbero candidata. Glielo hanno chiesto?

Sì, ma non me la sono sentita. Prima di tutto mi sento ancora un allenatore e vorrei decidere io quando smettere. Poi credo che per fare il sindaco servano risorse che non ho. Preferisco dare una mano in altro modo. 

Con un impegno civico, magari con un centrosinistra unito?

Alla mia età (65 anni, ndr) mi sento in dovere di dare una mano. Faccio un paragone sportivo: l’area di sinistra (eliminiamo il centro...) somiglia a quelle squadre che anche quando possono vincere facile e sono sopra 3 a 0 fanno di tutto per pareggiare o addirittura perdere. E in questo la sinistra è allenatissima, non è questione soltanto degli ultimi anni. 

Ha mai sentito Elly Schlein o Giuseppe Conte?

No, non ci ho parlato e non voglio esprimere giudizi.

Lei ha lanciato una frecciata a Bandecchi, criticando chi da Terni vuole indicare la via ai perugini. Bandecchi a Perugia candiderà Davide Baiocco, un suo ex giocatore. Un derby.

Non ho nulla contro Bandecchi né tantomeno contro Davide, che è come un mio figlio. Il mio era una tentativo di spronare la città ad abbandonare questo spirito individualista e a ricostruire qualcosa insieme. 

Da sindaco si sarebbe garantito un’imitazione di Crozza, come vent’anni fa.

Già mi immaginavo la gag con la fascia tricolore. Adoravo quell’imitazione, e invece nel calcio manca auto-ironia. Andai a Mai dire gol e passai dei problemi. Nel calcio hanno sempre provato a togliermi la poesia che avevo dentro.

Si è sentito emarginato?

Ho capito benissimo che pure nel calcio bisogna saper fare politica. Il mio carattere ha fatto sì che mi trovassi spesso in situazioni di disagio: non amo i compromessi, e nel calcio ho visto arrivismo, incompetenza.

(…)

Estratto da sportmediaset.it il 18 febbraio 2023.

Il calcio dice addio a Ilario Castagner: l'ex allenatore del cosiddetto "Perugia dei miracoli" aveva 82 anni e da diverse settimane era ricoverato all'Ospedale Santa Maria della Misericordia. Nato a Vittorio Veneto (Treviso), aveva giocato da centravanti con le maglie di Reggiana, Legnano, Perugia, Prato e Rimini.

 Da allenatore gli inizi con l'Atalanta precedono il miracolo con il Perugia, prima promosso in Serie A e poi portato al secondo posto nel 1978-79 con una stagione senza sconfitte. Castagner in carriera aveva allenato anche Lazio, Milan in Serie B (raggiungendo la promozione in Serie A) e Inter prima di chiudere nel 1999 proprio al Perugia.

 A darne la notizia il figlio Federico, che su Facebook ha postato questo messaggio: "Oggi se ne è andato il sorriso più bello del calcio italiano. Grazie a tutti i medici e al personale sanitario dell'Ospedale 'Santa Maria della Misericordia' di Perugia che in queste ultime settimane si sono presi cura di lui. Ciao papà...". […]

Addio a Ilario Castagner, guidò il “Perugia dei miracoli”. Il Quotidiano del Sud il 18 Febbraio 2023.

Si è seduto sulle panchine di Milan e Inter ma il suo nome resterà per sempre legato al Perugia. Si è spento a 82 anni Ilario Castagner: a darne notizia, sulla sua pagina Facebook, il figlio Federico. “Oggi se ne è andato il sorriso più bello del Calcio italiano”, ha scritto ringraziando “tutti i medici e il personale sanitario dell’Ospedale ‘Santa Maria della Misericordia’ di Perugia che in queste ultime settimane si sono presi cura di lui. Ciao papà…”.

Una carriera da centravanti negli anni Sessanta fra Reggiana, Legnano, Perugia (dove vince la classifica cannonieri in C), Prato e Rimini, Castagner muove i primi passi da allenatore nel settore giovanile dell’Atalanta prima della chiamata, nel 1974, del Perugia.

Il tecnico originario di Vittorio Veneto lancia giovani come Renato Curi e Paolo Sollier e, a sorpresa, alla sua prima stagione vince il campionato di B. Nel massimo campionato la squadra non sfigura, anzi, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “Perugia dei miracoli”. Non mancano i momenti difficili, su tutti l’improvvisa morte nell’ottobre 1977 del giovane Curi, colto da infarto durante una partita contro la Juve, ma quel Perugia continua a stupire.

E nella stagione 1978-79 Castagner compie il suo capolavoro: la squadra chiude il campionato da imbattuta (impresa riuscita poi solo a Milan e Juve), con 11 vittorie e 19 pareggi, terminando al secondo posto, a tre lunghezze dai rossoneri campioni d’Italia. Dopo lo scandalo legato al Totonero, Castagner torna in B guidando prima la Lazio e poi il Milan, che riconduce nel massimo campionato facendo debuttare giocatori come Tassotti ed Evani.

Guiderà anche l’Inter, con cui arriverà fino alle semifinali della Coppa Uefa, e poi Ascoli (vittoria in Mitropa Cup), Pescara e Pisa, fino al ritorno a Perugia, che riporta dalla C1 alla serie A, esonerato poi nel corso della stagione 1998-1999 in quella che sarà la sua ultima stagione in panchina.

Al Grifone tornerà ancora qualche anno dopo, come presidente onorario dopo la gestione Gaucci, a riprova di un legame indissolubile, almeno fino ad oggi, quando la notizia della sua scomparsa gela lo stadio intitolato a Renato Curi, durante la gara con la Ternana.

Oggi è un giorno triste per lo sport. Ed è un giorno molto triste per la nostra città. Con Ilario Castagner se ne va una leggenda del calcio italiano”, il cordoglio del sindaco di Perugia, Andrea Romizi, che ricorda soprattutto l’uomo, “una persona rara, un gentiluomo d’altri tempi”.

La Lazio lo ricorda come “una figura cara agli appassionati di calcio, unanimemente associata a un modo serio, professionale e pacato di vivere lo sport” mentre Lorenzo Casini, presidente della Lega di A, lo definisce “un personaggio simbolo del nostro sport, un uomo mai sopra le righe, esempio e maestro per molti calciatori e allenatori”.

Ilario Castagner, morto l’allenatore del «Perugia dei miracoli». Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 18 Febbraio 2023.

L’ex allenatore aveva 82 anni, ha guidato anche Lazio, Milan e Inter, ma in Umbria rimase imbattuto sfiorando lo scudetto 1979. Il figlio Federico: «Se ne va il sorriso più bello del calcio italiano»

È morto a 82 anni Ilario Castagner, allenatore del «Perugia dei miracoli». Lo ha annunciato il figlio Federico con un post sui social network.

Quel Perugia, nel 1979, concluse il campionato da imbattuto, classificandosi al secondo posto in classifica a soli tre punti dietro al Milan e sfiorando il sogno dello scudetto. Esattamente un anno fa aveva perso il suo capitano, Pierluigi Frosio.

Il saluto del figlio Federico: «Il sorriso più bello del calcio»

«Oggi se ne è andato il sorriso più bello del calcio italiano — scrive il figlio Federico su Facebook —. Grazie a tutti i medici e al personale sanitario dell’Ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia che in queste ultime settimane si sono presi cura di lui. Ciao papà».

Castagner, che era nato a Vittorio Veneto (Treviso), è rimasto molto legato al Perugia, dove arriva a 18 anni, fortemente voluto da Guido Mazzetti al centro dell’attacco, quando la squadra milita in serie C. Fu proprio in quel periodo che conobbe Liliana Monacchia la compagna di una vita, perugina doc, con cui ha avuto tre figli, oltre a Federico, Francesco e Laura che gli hanno dato dieci nipoti. E in città era rimasto a vivere.

Ad avviarlo alla panchina era stato Corrado Viciani che lo volle come suo vice all’Atalanta in serie A. A Bergamo restò dal 1969 al 1974 alla guida delle giovanili prima di passare appunto al Perugia del presidente Franco D’Attoma nel 1974: prima la promozione in A e poi appunto il secondo posto nel 1978-79 dietro al Milan del decimo scudetto.

Gli umbri li ha poi allenati anche negli anni Novanta in due occasioni (famose le dimissioni dopo l'ingerenza del presidente Luciano Gaucci addirittura negli spogliatoi). In mezzo esperienze in grandi piazze, sulle panchine di Lazio (voluto da Luciano Moggi nel 1980 in serie B, dove rimase due anni senza centrare la promozione, venendo esonerato nel 1982), poi Milan (sempre in B, dopo la retrocessione per lo scandalo scommesse, con cui vinse il campionato, ma senza essere riconfermato in A) e Inter, dove restò per due anni. Poi, sempre in serie A, divenne allenatore dell’Ascoli e, dopo tre anni, scese di categoria e allenò Pescara e Pisa in B. Prima appunto di tornare a Perugia nel 1993 in C.

La sua morte è avvenuta oggi, 18 febbraio, giorno in cui allo stadio dedicato a Renato Curi, che lui allenò, si gioca il derby Perugia-Ternana, con la notizia che si è diffusa allo stadio e ha fatto precipitare nella tristezza i tifosi, che però hanno visto il suo zampino nella vittoria per 2-0.

Lutto nel mondo del calcio. È morto Ilario Castagner, addio all’allenatore del Perugia dei miracoli entrato nella storia. Antonio Lamorte su Il Riformista il 18 Febbraio 2023

Ilario Castagner era alla guida, in panchina, di quel Perugia che nella stagione 1978/1979 di Serie A non perse neanche una gara. Non era mai successo. È morto, l’allenatore passato alla storia per quel “Perugia dei miracoli” ma anche sulle panchine di Lazio, Milan e Inter. Aveva 82 anni. A dare l’annuncio il figlio Federico su Facebook. “Oggi se ne è andato il sorriso più bello del Calcio italiano”, si legge nel post. “Grazie a tutti i medici e al personale sanitario dell’ospedale ‘Santa Maria della Misericordia’ di Perugia che in queste ultime settimane si sono presi cura di lui. Ciao papá…”.

Castagner era nato a Vittorio Veneto, in provincia di Treviso, nel 1940. Aveva vestito da calciatore le maglie di Reggiana, Legnano, Perugia, Prato e Rimini. Sulle panchine dell’Atalanta era rimasto dal 1969 al 1974, alla guida delle giovanili, prima di passare al Perugia del Presidente Franco D’Attoma nel 1974.

Prima la promozione in Serie A, poi lo storico secondo posto dietro il Milan del decimo Scudetto: a soli tre punti dal tricolore. Era il 1980 quando Luciano Moggi lo volle alla Lazio, in Serie B. Dal 1982, sempre in serie B, passò al Milan retrocesso dopo lo scandalo del totoscommesse. Con i rossoneri centrò la promozione vincendo il campionato. Non venne confermato e passò all’altra sponda della Milano del calcio, l’Inter, dove restò per due anni. Ha allenato anche Ascoli, Pescara, Pisa, di nuovo il Perugia. A causa della rottura con il Presidente Gaucci avrebbe rassegnato le dimissioni dopo venti giornate chiudendo la carriera da allenatore.

Sempre al club umbro sarebbe tornato da direttore tecnico e presidente onorario, in ricostruzione dopo il fallimento della gestione Gaucci e la nuova presidenza di Vincenzo Silvestrini. Castagner è stato anche un apprezzato commentatore televsivo per Telemontecarlo, Mediaset Premium e Rai Italia. “La più evidente – rispeondeva in un’intervista nel 2018 sulle differenze tra il calcio attuale e quello passato – è la velocità del gioco, che costringe i calciatori ad avere altrettanti fotogrammi veloci nella propria testa, per avere una visione globale dell’azione, ad intuire un attimo prima dell’esecuzione la giocata giusta”.

Alla notizia della morte di Castagner annunciata questo pomeriggio allo stadio Renato Curi, in occasione del derby Perugia-Ternana, è partito un lungo applauso in onore dell’allenatore.”Oggi e’ un giorno triste per lo sport – ha scritto il sindaco di Perugia Romizi sui suoi canali social- ed è un giorno molto triste per la nostra città. Con Ilario Castagner se ne va una leggenda del calcio italiano. Un allenatore che ha scritto la storia di questo sport, l’artefice del Perugia dei Miracoli, il primo tecnico a chiudere un campionato di Serie A imbattuto, ma anche la figura di riferimento, paterna e carismatica, sempre pronto a correre in aiuto del ‘suo’ Perugia, come in occasione della cavalcata alla conquista della serie A del 1998. In mezzo pagine di grande calcio, vissuto, fra le altre, sulle panchine di Inter e Milan”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

LA TERNANA.

"IO MANESCO? SONO UNO CHE SI DIFENDE QUANDO GLI ALTRI ROMPONO I COGLIONI". Dagospia il 7 Settembre 2023. Da "La Zanzara - Radio24"

Bandecchi show a La Zanzara su Radio24: “Mussolini? Ha fatto anche cose giuste, fino alle leggi razziali che mi fanno schifo”. “Le bonifiche furono entusiasmanti, il lavoro, l’Eur, aiutava le persone bisognose. Prima le cose erano uno schifo. Sarei stato un fascista della prima ora, dopo le leggi razziali no”. “Rissa in Consiglio Comunale? Le parole spesso fanno più male delle botte, se uno mi insulta e mi dice buffone più volte, si merita anche una testata…”. 

“Stupratori? Bisogna fargli male, se serve anche la castrazione chimica…”. “Mi danno fastidio le donne che denunciano le violenze sette mesi dopo, oggi devi avere paura a fare un complimento a una ragazza”. “Oggi è pericoloso anche andare a letto con una…magari ti denuncia perché sono stato un’omaccione”.  “Lo stipendio da sindaco? Cinquemila e duecento euro al mese, adesso guadagno solo quello e non rinuncio”.

“Le mie aziende valgono tre miliardi, ho uno yacht da cinquantacinque metri, ma adesso mi sono rimasti solo i soldi che prendo da sindaco, non posso rinunciare. Chi lavora deve essere pagato”. “Il Perugia? Non lo volevo in serie C, ma era ingiusto togliere il posto a una squadra che aveva meritato…”. Poi si dichiara a favore della prostituzione legale: “Meglio i bordelli della strada, e poi ognuno del suo corpo fa quello che vuole”. E su droghe leggere e nucleare…   

Difende le guardie giurate ingaggiate dalla su Università per la sicurezza di Terni: “C’è un’esigenza reale di sicurezza, i vigili di Terni sono sotto di 87 persone. Da trent’anni tutte le Forze dell’Ordine sono sotto organico e Terni è immensa. Con tre volanti non la copri sicuro. Comunque il prossimo anno assumeremo sessanta vigili.

Milizia privata? Ma quando mai, sono istituti di vigilanza e se un ladro sta spaccando una fontana a martellate lo possono fermare. Possono controllare i nostri parchi, se c’è uno che violenta una ragazza possono intervenire. Sono l’unico politico d’Italia che dà i soldi ai cittadini e non li prende”. 

Bandecchi, lei è un uomo ricco. Prende lo stipendio da sindaco?

“Le mie aziende contano circa tre miliardi di patrimonio. La mia Università vale due miliardi e tre, quattro e con le altre aziende siamo intorno ai tre miliardi”. E lo stipendio da sindaco?

“Ne ho bisogno perchè non guadagno più quattro milioni ma cinquemila duecento euro al mese. Ci ho rimesso, fate voi il conto. Io lavoro, non rinuncio allo stipendio. Quando uno lavora si merita lo stipendio. Sono gli unici soldi che mi sono rimasti”.

Ma lei ha pure una barca: “Sì, e allora? Ho uno yacht da 55 metri intestato a un’azienda. Io do lavoro a più di duemila persone”. Se fosse ministro o premier che pena darebbe agli stupratori?

“Lo stupro è uno dei reati peggiori. Castrazione chimica? Serve fargli male. Gli stupratori non possono continuare a fare gli stupratori. Per me le ragazze ubriache si accompagnano a casa. La castrazione è un’idea, quello che lo fa una volta è un caso, quello che lo fa 150 volte non è un caso. 

Ci sono persone uscite di galera che hanno ricommesso il reato”. Ma Bandecchi dice anche: “Poi bisogna anche vedere se questi reati succedono veramente, a me danno noia le donne che si svegliano sette mesi dopo. Ai miei figli oggi non direi con tranquillità che possono dire a una donna che è una bella ragazza. E’ un rischio fare un complimento, ci vuole una delibera. Non si può neanche andarci a letto con una, dopo tre mesi lei dice che sono stata indotta perchè era un omaccione”. Lei è monogamo?

“Sì, e se mia moglie mi tradisse vorrei che non me lo dicesse.

Sono sposato da quaranta anni. Se ho mai tradito? Ho un amico avvocato che ha detto che se dovesse difendere mia moglie chiede un milione per il divorzio e gliene fa avere tre, se difende me vuole 20mila euro perchè tanto perde sicuro”. Una volta lei ha detto che la Finanza è come la Gestapo, conferma?

“Ho ancora 22 milioni sequestrati e non mi hanno fatto capire per quale motivo. La Finanza ha poteri che altri non hanno. Io sono sopravvissuto a questo sequestro e i miei dipendenti hanno continuato a prendere lo stipendio, altri al posto mio si erano già sparati alla testa.

Sull’accenno di rissa al consiglio comunale di Terni: “Io manesco? Sono uno che si difende quando gli altri rompono i coglioni. Mentre parlavo in Consiglio Comunale, dove la legge mi dà il diritto di esprimermi in modo democratico, mi hanno detto pagliaccio vieni qua. Mi hanno urlato che sarei stato il coglione di turno. Minacciato qualcuno di rompergli i denti? Ho detto attenzione che se ridi i denti volano via. Legittimo dare schiaffi? Ci sono tanti che si sono suicidati per le parole piuttosto che per uno schiaffo. Se uno mi dice buffone una volta non gli do una testata. 

Se insiste due giorni gliene do due di testate...”. E ancora: “Se uno non mi lascia parlare cosa ci vado a fare in Comune? Volevo menare quello di Fratelli d’Italia? Io gli ho solo detto di non rompere i coglioni. Sono stato indagato con venti persone che mettono le mani addosso a me e mi bloccano. Non si devono azzardare a fermare uno che non ha ancora commesso nulla”.

Bandecchi parla poi di Mussolini e del fascismo: “Non ho ammirazione, ma a volte ha fatto cose giuste. Era socialista, quando ha pensato di aiutare le persone assistendo quelli che morivano di fame, quando ha detto cerchiamo di sanare le paludi che non funzionano non ha fatto cose strane. Poi ha fatto cose schifose in un’altra epoca: le leggi razziali. Li lo trovo insopportabile. 

Se fossi vissuto in quell’epoca sarei stato fascista della prima ora, ma dalle leggi razziali non lo sarei stato più”. E continua sempre parlando di Benito Mussolini: “Bonifiche? Sono state entusiasmanti. L’Eur mi piace, mi piacciono anche i principi della sanità per tutti, perchè è un principio che ha cominciato a portare lui in quel tempo. Personalmente non so se avrei fatto la Marcia su Roma, ma so che a quei tempi le cose funzionavano da schifo, peggio di oggi. Se il Re avesse voluto impedire la marcia l’avrebbe fatto, hanno fatto una passeggiata”. Poi il Leader di Alternativa Popolare parla di Perugia: “Ci saranno le elezioni e vogliamo piazzare il nostro Sindaco. Io non volevo il Perugia in Serie C, non sono contento della C, li vorrei in Serie A con la Ternana. Però non potevano pretendere di andare in B buttando fuori una squadra che si era guadagnato la serie sul campo”. Vannacci?

“Sui gay ha detto cose da caserma. Se poi dice che si è stufato di vedere in televisione due uomini o due donne che si baciano e mai un uomo e una donna, ha anche ragione.

Però il Generale sbaglia dicendo che non sono uguali agli altri”. Legalizzerebbe la prostituzione?

“Sono per la prostituzione legalizzata, ma non sono mai stato a prostitute. Le ragazze non siamo riusciti a toglierle dalla strada, alcune sono in mano a delinquenza. Mi risulta che in Germania, Olanda e Svizzera ci sia la prostituzione e portano a casa quindici/ventimila euro al mese decidendo di fare ciò che vogliono. Del mio corpo potrò decidere io che farne o no?”. 

“Sono favorevole- prosegue – anche al nucleare. Io una centrale anche A Terni la farei subito perchè mi sono rotto le palle di comprare energia elettrica dalla Svizzera, dalla Spagna e dalla Francia. Le droghe? Mi sono fatto una canna volta da ragazzo, sembravo il bigotto che non voleva. Non siamo riusciti a eliminare nulla quindi sono per la legalizzazione”.

Estratto dell’articolo di Antioco Fois per repubblica.it sabato 2 settembre 2023.

Stefano Bandecchi, il sindaco che aveva auspicato cecchini contro il degrado porta in città i “suoi” vigilantes. Dopo avere sfilato sotto il palazzo comunale, a Terni ha preso servizio un plotone di guardie giurate private. Dieci autopattuglie, in livrea bianca con una pantera disegnata sulla fiancata, che di notte stazioneranno nei luoghi sensibili della città, contro microcriminalità e atti vandalici. La particolarità inedita è che i poliziotti privati saranno finanziati con 870mila euro da Unicusano, l’università telematica fondata dal primo cittadino. Per essere più chiari, i soldi per la sicurezza cittadina, come ha rimarcato lo stesso Bandecchi, “ce li mette il sindaco”.

“Le proprietà del comune di Terni sono luoghi più sicuri”, ha celebrato l’evento sui propri social il primo cittadino ed ex paracadutista, con un filmato della sfilata delle auto che si posizionavano nel parcheggio del palazzo comunale. “Ventiquattro occhi in più” a disposizione della sicurezza cittadina, che per un anno saranno puntati dalle 22 alle 7 su “cimiteri, fontane, borghi, palazzi storici, monumenti” e risponderanno alle indicazioni della centrale operativa dei vigili urbani, in attesa che l’amministrazione Bandecchi riesca a integrare l’organico della municipale con nuove assunzioni.

In pratica, oltre ad essere finanziati dal sindaco, i vigilantes saranno anche comandati dal sindaco. Bandecchi, infatti, aveva rimarcato che la polizia municipale dovesse rispondere direttamente ai suoi ordini, in forza della delega alla sicurezza che ha mantenuto per sé. Una sorta di milizia privata del sindaco, che avrà il compito di vigilare e segnalare alle forze dell’ordine spaccio di droga, furti o situazioni di degrado. 

[...] La sperimentazione [....] consiste in un progetto pilota per “una attività di ricerca - si legge nell’atto numero 78 dell’esecutivo - finalizzata ad analizzare l’impatto sulla sicurezza urbana e sull’ordine pubblico, attraverso iniziative di partecipazione da parte di terzi alla tutela dei beni e degli spazi pubblici”.

I “terzi” sono le guardie giurate, che saranno impegnate in un servizio di “vigilanza gratuito”, per una non meglio precisata ricerca universitaria interdisciplinare, mirata “ad acquisire dati scientifici”, [...]  

Vantaggi diretti per Unicusano? Nessuno, ammette lo stesso sindaco. “La mia università spenderà 870mila euro per fare questa ricerca - commenta Bandecchi a Repubblica - e il beneficio che avrà è praticamente zero. Lo stesso vale per me. Invece il beneficio per la città di Terni è mille”.

Sul possibile conflitto di interessi, di un sindaco che finanzia il controllo del territorio, Bandecchi allarga le braccia. “Non so se ci sia un conflitto di interessi, nel caso sposteremo il progetto a Roma o a Perugia”, replica il capo della giunta ternana, che assicura nessuna invasione di campo nei compiti delle forze dell’ordine. “Già da quando Roberto Maroni era ministro - dice - le guardie giurate possono contribuire al servizio della sicurezza, coordinandosi con la questura”. [...]

Le ipotesi di reato: minaccia, oltraggio a pubblico ufficiale e di interruzione di pubblico servizio. Bandecchi è indagato dopo la lite in Consiglio comunale. E, intanto, presenta un esposto. “Ci si deve rendere conto che le parole uccidono e avevo parlato con le autorità proprio per questo. Ora vediamo chi vince”, dice il sindaco che, come riportano i media locali, ha presentato, a sua volta, un esposto per le minacce di morte subite nei mesi scorsi. Bandecchi parla anche di insulti e minacce ricevuti via social. Redazione su Il Riformista il 31 Agosto 2023

Il sindaco di Terni Stefano Bandecchi è stato iscritto nel registro degli indagati dalla locale Procura nel fascicolo di inchiesta aperto dopo quanto accaduto nei giorni scorsi in Consiglio comunale, quando lo stesso sindaco si era scagliato contro l’esponente di Fratelli d’Italia Marco Celestino Cecconi, venendo bloccato dalla polizia municipale. Lo scrive oggi il Corriere dell’Umbria, specificando che si tratta praticamente di un atto dovuto.

Dopo il Consiglio le minoranze si erano infatti recate dal prefetto e gli esponenti di Fratelli d’Italia anche dai carabinieri, per segnalare quanto successo. Della vicenda, i parlamentari del Pd Walter Verini e Anna Ascani hanno invece interessato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. In particolare – secondo quanto risulta al Corriere dell’Umbria – nel fascicolo di indagine le ipotesi di reato al momento al vaglio sarebbero quelle di minaccia, oltraggio a pubblico ufficiale e di interruzione di pubblico servizio. Tra gli elementi da valutare ci sarebbe infatti anche la reazione del sindaco all’intervento di tre agenti della polizia locale presenti come prassi al Consiglio. Durante il dibattito c’era stato uno scambio di battute dai toni sempre più polemici tra Bandecchi e Masselli, assessore nella precedente Giunta e sconfitto nel ballottaggio per la guida di Palazzo Spada. “Mi devono chiedere scusa, perché quando parla un consigliere e a maggior ragione il sindaco, tutti gli altri devono stare zitti”, aveva, fra l’altro, commentato il sindaco dopo l’accaduto.

Il sindaco di Terni ha a sua volta presentato una querela in questura: “Ho presentato un esposto preciso – ha riferito – contro l’aggressione che ho subito in Consiglio comunale. Precisamente contro le parole rivoltemi da Masselli, sentite da testimoni, ovvero ‘pagliaccio vieni qua’. Dette sbeffeggiandomi e ridendo. E contro il consigliere Cecconi che si è alzato e ha iniziato a urlare, costringendo la presidente a richiamarlo più volte e me a dirgli di mettersi seduto. Per questo mi sono alzato, per farlo rimettere al suo posto. C’è stata una evidente interruzione dei lavori di un pubblico ufficiale, quindi un’interruzione di pubblico servizio”.

Interpellato dall’ANSA, il sindaco Bandecchi ha prima replicato con una battuta – “se mi hanno iscritto, non è la prima volta” – poi ha spiegato i passi giudiziari compiuti, spiegando di avere anche “sporto denuncia per le minacce di morte ricevute un mese fa (un fatto inizialmente descritto dal primo cittadino come un tentativo di rapina subìto a Roma il 25 luglio, ndr) ed erano minacce direttamente legate al mio ruolo di sindaco”. “Di questo – ha detto – avevo già informato il prefetto di Terni, il questore e il comandante provinciale dei carabinieri. Avevo parlato alla ‘nuora’ perché la ‘suocera’ intendesse, ma evidentemente non ha inteso e quindi ho denunciato tutto”.

“Quando dissi a tutti che non volevo sporgere denuncia per quelle minacce, spiegai che evidentemente qualcuno si era fatto ‘agitare’ dai continui atteggiamenti che Fratelli d’Italia ha nei miei confronti. Sono sette mesi, cioè dalla campagna elettorale, che pubblicano storie e leggende per cui dovrei essere un criminale, al punto da mettere in discussione quanto deciso liberamente e democraticamente dai cittadini. Da tre mesi poi il consigliere Cecconi mi prendere in giro con le sue dirette video, fomentando alcuni poveracci che poi gli vanno dietro. Ci si deve rendere conto che le parole uccidono e avevo parlato con le autorità proprio per questo. Ora vediamo chi vince”.

"Il Pd? Se ne possono andare a fare in c..." Terni, Bandecchi rincara la dose: “Non sono il cattivo, ho solo avvisato i consiglieri che se non mi fanno parlare gli fracasso la testa sul tavolo”. La replica: “Inadatto a fare il sindaco”. Redazione su Il Riformista il 28 Agosto 2023 

Il protagonista indiscusso di questo pomeriggio di fine estate è stato il vulcanico sindaco di Terni Stefano Bandecchi che durante la seduta del consiglio comunale di questa mattina ha decisamente perso le staffe. Dopo aver travolto una sedia e un consigliere si è scagliato contro un collega della minoranza con cattive intenzioni. Il video dello scontro tra Bandecchi e i consiglieri di opposizione di Fdi ha fatto il giro del web e in pochissime ore è diventato virale. Ma lui proprio non ci sta a passare per il cattivo di turno anche se le circostanze portano inevitabilmente a pensare il contrario. E nemmeno il placcaggio della polizia locale ha placato la furia di Bandecchi.

Nel suo profilo whatsapp non passa inosservata la testa di un lupo con i denti digrignati, per nulla rassicurante. “Mi sono avvicinato a Cecconi, è vero, ma certo non gli volevo dare due crocche…”, assicura all’AdnKronos, riferendosi allo scontro con il consigliere meloniano Marco Celestino Cecconi. “L’ho solo avvisato che se succede un’altra volta che non mi fanno parlare gli fracasso la testa sul tavolo”, aggiunge però subito dopo con un’espressione choc l’esponente di Alternativa popolare.

Su quanto accaduto stamattina dice: “Penso che le persone prima di parlare devono collegare il cervello, l’ordine dei lavori è che ci si prenota e poi si parla, parlano tutti, io ho ascoltato tutte le corbelleria del centrodestra, ma quando poi ho iniziato io a parlare, hanno iniziato a ridere, a inveire, a colpi di ‘pagliaccio’, ‘imbecille’, ‘non capisci nulla’, Cecconi si è pure messo a urlare come un matto, gli hanno detto di sedersi, ci sono i video, e io mi sono alzato per farlo sedere, per me chi si comporta così è un criminale, e come uno che fa una rapina, uno che violenta una donna… pensavano che gli avrei dato due crocche, ma non era la mia intenzione, gli ho solo detto che la prossima volta che parlo io deve ascoltare, altrimenti sono guai…”.

Le reazioni della politica

Ora però altri partiti come la Lega e il Pd accusano Bandecchi, con i dem che chiedono l’intervento del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, invitando il primo cittadino del capoluogo umbro a dimettersi: “Il Pd? Se ne possono andare a fare in c… – sbotta, chiedendo di scrivere anche questo – non sanno che dire neanche loro. Io di certo non mi dimetto, perché il mio unico torto è quello di fare politica, dopo 5 anni in cui ha governato il centrodestra, in cui si è solo rubato….”. “E del Pd non mi interessa nulla…”, dice poi l’ex parà della Folgore commentando la posizione del partito di Elly Schlein che per bocca di Anna Ascani e Walter Verini, parlamentari umbri del Pd, ha parlato di “comportamento indegno, da parte di un personaggio su cui pende, tra l’altro, una seria questione di incompatibilità e conflitto d’interessi”.

"Devono chiedermi scusa, volevo farli sedere". Terni, Bandecchi: “quando parla il sindaco devono stare tutti zitti, sono stato buono ma se rompono gli do due schiaffi davvero”. Richiesto intervento di Piantedosi. Redazione su Il Riformista il 28 Agosto 2023

A poche ore dalla bagarre che ha visto protagonista Stefano Bandecchi in consiglio comunale non mancano le reazioni di indignazione per l’atteggiamento definito “da picchiatore” del sindaco di Terni. Il diretto interessato a margine del suo show ha commentato all’Ansa: “Mi devono chiedere scusa, perché quando parla un consigliere e a maggior ragione il sindaco, tutti gli altri devono stare zitti. Non possono sbeffeggiarmi dicendomi delinquente o pagliaccio”.

“Quando mi sono alzato e mi sono diretto verso il consigliere Cecconi – ha spiegato – volevo soltanto farlo mettere seduto, infatti non l’ho nemmeno sfiorato”. “Le posso assicurare che sono stato buono – ha detto ancora Bandecchi -, se continuano a rompermi… diventerò cattivo e due schiaffi in faccia glieli do davvero. Fino a quel momento avevo ascoltato tutti gli interventi in silenzio poi quando è toccato a me parlare sono iniziate le interruzioni e gli sberleffi per altro su un tema, quello della carenza di vigili urbani, causato dalle precedenti amministrazioni e che io sto risolvendo con sessanta nuove assunzioni. So che la minoranza è andata dal prefetto a fargli perdere tempo, io invece sono qui a lavorare”, ha concluso Bandecchi.

Richiesto intervento del ministro Piantedosi

“Poco fa, come parlamentari dell’Umbria, abbiamo avuto un colloquio con il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. A lui abbiamo espresso la più profonda preoccupazione per le ferite e le lesioni alla convivenza civile e democratica prodotte quotidianamente a Terni dai comportamenti del sindaco Bandecchi. Gli episodi di questa mattina sono di una inaudita gravità: configurano reati, insulti all’istituzione e al consiglio comunale, resistenza a pubblico ufficiale, minacce. E fanno seguito a numerosi episodi che nelle scorse settimane hanno visto sempre protagonista questo signore, contro funzionari comunali, giornalisti, consiglieri di opposizione.

2Un comportamento indegno, da parte di un personaggio su cui pende, tra l’altro, una seria questione di incompatibilita’ e conflitto d’interessi. Bandecchi non può continuare a fare il sindaco: avere preso la maggioranza dei voti non lo autorizza a tenere questi comportamenti che offendono la città di Terni, le istituzioni, i consiglieri di opposizione, cui va la nostra solidarietà. Ringraziamo il ministro Piantedosi per l’attenzione dimostrata. Ci auguriamo che si prenda atto di questa insostenibile situazione e che si possano adottare tutti i provvedimenti utili a ripristinare un clima civile e democratico nella città”. Così, in una dichiarazione congiunta, i parlamentari umbri del Pd Walter Verini e Anna Ascani.

Terni, Bandecchi: “ti volano via i denti dalla bocca” poi vuole la rissa. Il sindaco placcato dalla polizia in consiglio comunale. Richiesto intervento del prefetto. Redazione su Il Riformista il 28 Agosto 2023 

Un rientro dalla pausa estiva esplosivo in consiglio comunale a Terni. Rissa sfiorata stamani tra il sindaco Stefano Bandecchi e i consiglieri di minoranza di Fdi. Uno show placato solo dall’intervento della polizia locale che ha evitato il contatto, in particolare con Marco Celestino Cecconi, capogruppo del partito.  Dopo ripetuti episodi che hanno visto il neo sindaco protagonista di attacchi nei confronti di giornalisti e consiglieri comunali, nella seduta odierna dell’assise municipale Bandecchi si è ripetuto, scagliandosi contro i banchi dell’opposizione.

La furia è scattata dopo un intervento dell’opposizione, che criticava l’operato della Giunta in tema di sicurezza urbana, dagli insulti il primo cittadino e coordinatore nazionale di Alternativa popolare si è fatto contro due esponenti di FdI come se volesse passare alle mani. Un botta e risposta sui conti comunali tra Bandecchi e il consigliere Orlando Masselli, già suo sfidante alla guida di Palazzo Spada.

Il sindaco ha più volte ripetuto a Masselli di “vergognarsi nel dire che oggi servono i soldi”, ricordandogli che era stato l’ultimo assessore al bilancio prima dell’arrivo dell’attuale maggioranza. Il sindaco ha continuato dicendo allo stesso Masselli di smettere di ridere, “altrimenti gli volano via tutti i denti dalla bocca”. Una frase ha fatto andare su tutte le furie Cecconi il quale ha richiamato animatamente Bandecchi a un atteggiamento e a un linguaggio più moderato. È a questo punto che la situazione è sfuggita di mano, con il sindaco che ha lasciato la sua postazione per andare verso il consigliere Cecconi, travolgendo anche una sedia. Fermato dagli agenti di polizia presenti alla seduta, Bandecchi è stato accompagnato fuori dall’aula consiliare e la seduta è stata sospesa.

Si sono subito recate dal prefetto di Terni Giovanni Bruno tutti i rappresentanti dei partiti di minoranza dopo che in consiglio il sindaco Stefano Bandecchi si è scagliato Celestino Cecconi, capogruppo di Fratelli d’Italia. La seduta dell’Assemblea si è regolarmente conclusa. Quindi le minoranze hanno chiesto un incontro al prefetto, subito accordato.

“Bandecchi non è in grado di fare il sindaco e se non si tratta di una questione di incompatibilità degli incarichi, è una questione di incompatibilità morale e di comportamento. Anche oggi in aula di Consiglio comunale l’ennesimo scempio, l’ennesimo teatrino di un sindaco che invece di confrontarsi, minaccia pesantemente (‘le volano via tutti i denti dalla bocca’), insulta e cerca di aggredire fisicamente un consigliere di opposizione che sta solamente facendo il suo lavoro nell’incalzare l’amministrazione a fare il proprio”: a denunciarlo è Devid Maggiora, segretario comunale della Lega a Terni. “Solo grazie all’intervento degli uomini della polizia locale è stato evitato il peggio. L’atteggiamento di Bandecchi oggi in aula è da censura” aggiunge.

Estratto dell'articolo di Paolo Grassi per “il Messaggero” l'1 giugno 2023.

 Il presidente di una società di calcio, può fare anche il sindaco della città? A quanto pare, no. C'è il caso di Terni, dove al neoeletto, Stefano Bandecchi di Alternativa Popolare, è stato comunicato ieri proprio questo. Lui, infatti, è anche presidente della Ternana. E così, decide di mettere in vendita la società […] 

Fino alle elezioni, Bandecchi escludeva, leggi e sentenze alla mano, l'incompatibilità. Ma la realtà, ieri, alla convalida della sua elezione, è stata un'altra. Per lui, si tratterebbe di una "scherzetto" della precedente amministrazione, di centrodestra.

«Per me […]non c'erano problemi. Ma evidentemente, la giunta uscente ha lasciato dei documenti in cui il segretario comunale afferma che, a suo avviso, la legge è restrittiva e se io prendo lo stadio cittadino in utilizzo scattano conflitti di interesse per i quali non basterebbe nemmeno che io lasciassi la sola presidenza. Abbiamo trovato una serie di documenti ai quali hanno lavorato intensamente sabato e domenica scorsi e che abbiamo dovuto firmare. Per me, è assurdo che uno che paga uno stadio e ci spende 1,3 milioni l'anno, abbia incompatibilità con il Comune. Perché non mi sembra che il Comune ci abbia dato soldi. Resto sindaco e punto sempre sull'Umbria, vendo la Ternana e avrò risolto il problema alla destra».

[…] «Riceviamo chiamate ogni giorno, da chi sarebbe pronto a prendere la Ternana. Sarà ceduta a soggetti di livello e pronti a investirci».

Dagospia 30 maggio 2023. INTERVISTA A STEFANO BANDECCHI A “LA ZANZARA”.

Bandecchi vince a Terni e poi a La Zanzara su Radio 24 si confessa: “Non sono fascista, ma Mussolini ha fatto cose buonissime come le pensioni e la sanità per tutti”. “Gay pride? Lo possono fare serenamente, glielo finanzio”. “Troppi stranieri a Terni? No, per me possono venire tutti i neri da ogni parte del mondo”. Droghe? Ho un fratello morto per droga, ma la cannabis se la possono fare”. “I bordelli? Sono una cosa da paese civile”. “Centrale nucleare a Terni? Io le farei ovunque…” 

Il neoeletto Sindaco di Terni Stefano Bandecchi ha parlato a La Zanzara su Radio 24: “Mi danno del fascista - dice Bandecchi - ma ho sempre detto che ho fatto il paracadutista nella Folgore, ma non sono automaticamente fascista. Mussolini? Ha fatto cose buonissime come le pensioni, la sanità per tutti… ma ha fatto anche grandi puttanate come le leggi razziali ed allearsi con Hitler. Mussolini era uomo di sinistra, gestiva l’Avanti, e i mostri vengono da sinistra”

Sul futuro come presidente della Ternana ha aggiunto: “Non mollo proprio niente, perchè devo mollare? Nessun conflitto d’interessi”. “Il Gay Pride? Lo possono fare serenamente, non ho problemi con i gay. Mi diverte - continua Bandecchi a La Zanzara - glielo finanzio anche. Un primo bordello in Italia a Terni? Ho sempre pensato che siano una cosa civile. Dicevo giorni fa, ad un amico di sinistra, che se è possibile l’utero in affitto si possono riaprire i bordelli. 

Anche perchè con l’utero in affitto lo stato dovrebbe assumere un milione di donne per far partorire un milione di bambini”. Bandecchi, poi, è sempre stato a favore dell’energia nucleare: “Farei centrali da ogni parte, non solo a Terni. Non so quale sia il problema, abbiamo l’appennino desertificato con paesi spopolati. Poi parliamo di centrali nucleari anche perchè sennò i nostri figli dovranno andare a fare i camerieri a qualcuno tipo la Cina. Da qualche parte qualcosa deve cambiare”. A Terni ci sono troppi stranieri? “

Assolutamente no - commenta Bandecchi. Sono stato il primo a parlare di Eurafrica. Per me possono venire tutti i neri da ogni parte del mondo. Mi interessano le cose vere, non la pigmentazione”. Lei legalizzerebbe la droga leggera?: “Sulle droghe bisogna stare attenti, ho un fratello che si è impiccato per droga. Le canne so che non contano una mazza, mi sconvolge di più un onorevole che si fa di cocaina piuttosto che uno che si fa una canna. La cannabis se la possono fare”. Come sconfiggere la violenza negli stadi?: “I violenti dagli stadi devono sparire, vorrei vedere meno reti e meno gabbie e più persone libere di portare un bambino. In Inghilterra nessuno fa lo scemo, ben venga quello che ha fatto la Thatcher. Lo stadio deve essere punto d’incontro, di serenità, nessuna squadra deve stare sotto ultrà estremi. A Terni in curva c’è gente per bene, sono mammolette al confronto di altri”. Poi Bandecchi parla della guerra: “Per me i russi hanno sbagliato, chi invade sbaglia, fanno bene a difendersi gli ucraini.  

Quando sarò a Roma tra quattro anni e mezzo farò i decreti giusti e ci mando anche i paracadutisti. Se potessi, ci andrei tranquillamente a combattere con gli ucraini”. Poi parla della caccia: “Caccia? Non sono per la caccia, ma vado al poligono per tenermi in forma, non per uccidere gli animali. Non faccio il padel ma vado a sparare”.

“Tasse un pizzo di stato? Sì alcune lo sono. Bisogna aumentare il pil delle città, come dell’Italia, non risolvendo le cose con le tasse”. E sul futuro come presidente della Ternana ha aggiunto: “Non mollo proprio niente, perchè devo mollare? Nessun conflitto d’interessi”.

Estratto dell'articolo di Vanna Ugolini per “il Messaggero” il 30 maggio 2023. 

Stefano Bandecchi, Alternativa Popolare, 62 anni, sposato con due figli e due nipotini, cittadino onorario di Terni, è il nuovo sindaco.

(...)

E cosa farà con la Ternana? Resterà presidente?

«Sì, perchè dovrei lasciare la presidenza? Berlusconi è stato presidente del Consiglio mentre aveva il Milan. Lascerò la presidenza se e quando venderò la squadra».

I seggi che erano le roccaforti del Pd hanno votato per lei.

(...) 

Da umbriaon.it il 29 maggio 2023.

Lo spoglio è ancora in corso ma i numeri non lasciano spazio a particolari dubbi: il nuovo sindaco di Terni per il quinquennio 2023-2028 è il livornese Stefano Bandecchi (Alternativa Popolare). Superato il candidato del centrodestra Orlando Masselli. Bandecchi (62 anni), presidente della Ternana Calcio, succede a Leonardo Latini (centrodestra).

(ANSA il 31 maggio 2023) La Procura della Federcalcio - apprende l'ANSA - ha appena aperto un fascicolo sulle dichiarazioni del patron della Ternana e neo sindaco di Terni Stefano Bandecchi. "Hanno rubato (riferendosi alla Juve, ndr), Gravina? Cambi spacciatore", queste le frasi incriminate. Il presidente federale poco prima si era espresso con toni distensivi ('Ritrovata serenità') sul patteggiamento tra il club bianconero e la Procura Figc. "Gravina - trapela - intende chiedere l'autorizzazione per adire le vie legali, a tutela della sua immagine e di quella della stessa Federazione".

Estratto da gazzetta.it il 31 maggio 2023.

"Gravina meglio che cambi spacciatore". Non usa mezze parole il presidente della Ternana Stefano Bandecchi, 62 anni, cittadino onorario di Terni e da ieri nuovo sindaco della città umbra. Dopo il patteggiamento della Juventus sul caso stipendi, intervenendo ai microfoni di TvPlay, Bandecchi ha sparato a zero sui bianconeri e sul presidente federale Gravina. "Lo sport deve adattarsi alla giustizia regolare, se è dimostrato che hai rubato vai in galera, punto e basta. Secondo me la Juventus ha rubato? Sì, le indagini dicono questo". 

E poi: "Con tutto il rispetto per Gravina penso che debba cambiare spacciatore, ha detto qualcosa di gravissimo per un uomo con una carica come la sua. Ha sbagliato, quello che ha detto non ha né capo né coda, forse voleva dire qualcosa di diverso. Non esiste nessuno di considerabile sopra le leggi, perché sennò - scusate - io domani vado a fare una rapina in banca e con quei soldi risolvo i miei problemi. Il mondo del calcio deve allinearsi di più con le problematiche di tutti i giorni". 

Un fiume in piena, Bandecchi: "Io voglio bene ai tifosi della Reggina, ma il Chievo aveva una situazione simile ed è stato fatto fallire. Il mondo del calcio continuo a capirlo poco, la Juventus ha debiti incredibili come Milan e Inter, è un mondo che fa vivere molto bene calciatori, allenatori, ma poi massacra i presidenti. Parlare con Gravina? Ci sono sempre discussioni, la Serie A prende molto più denaro di noi e ci sono discussioni incredibili tra A e B, in B abbiamo spese incredibili e infatti chi sale in A poco dopo scende, non c’è molto dialogo ad oggi". 

(…) 

da domani comincerò a rubare per poter risparmiare qualcosa, poi mi aspetto di essere assolto perché faccio tanti soldi e sono nel mondo del calcio.

Estratto dell’articolo di Ilaria Sacchettoni per roma.corriere.it il 31 maggio 2023. 

Gennaio scorso, durante uno scampolo di quella campagna elettorale nella quale Stefano Bandecchi - diventato oggi, lunedì 29 maggio, il neo sindaco di Terni - si muoveva a proprio agio. 

Si parlava di partiti e lui, il patron della Unicusano, finita sotto inchiesta da parte della magistratura romana, lasciava filtrare una generosità tanto bipartisan quanto tracciabile e con Alessio D’Amato reo di avergli ricordato i guai con la giustizia, Bandecchi tuonava: «È triste che l’opposizione italiana cada su queste “minchiate”. Uno come me l’opposizione lo deve solo ringraziare. 

C’è già stata un’indagine nel 2019 sul fatto che la mia Università ha sostenuto Tajani e Ciocca alle Europee. Si è svolta un’indagine dettagliata e il magistrato ha archiviato tutto perché conosceva le leggi. I soldi utilizzati per il finanziamento della politica erano stati prelevati dai conti correnti delle rette universitarie. Erano soldi privati, dunque i finanziamenti erano leciti». 

(…)

Ora dalla Procura è partito un incarico agli esperti per rispondere all’interrogativo «ente no profit o commerciale?». La soluzione nei prossimi mesi. Mentre il 22 gennaio scorso gli sono stati sequestrati beni per venti miloni di euro, fra i quali una Rolls Royce.

Estratto dell'articolo di Marco Franchi per il “Fatto quotidiano” il 5 giugno 2023.

Il 10 maggio 2006 è l’ultimo giorno ufficiale del terzo governo Berlusconi, quello di “fine legislatura” iniziato con l’uscita dell’Udc ad aprile 2005 e concluso con le elezioni del 9 e 10 aprile 2006. L’esecutivo era in carica per gli affari correnti, l’indomani si sarebbe insediato il nuovo premier, Romano Prodi. Quel giorno, in Gazzetta Ufficiale venne pubblicato il decreto della ministra uscente all’Istruzione e Università, Letizia Moratti, che forniva il riconoscimento ad altre 5 università telematiche (oltre le 11 già autorizzate nei 3 anni precedenti). Tra queste, l’Università “Niccolo Cusano” di Stefano Bandecchi, dove fino ai giorni nostri si sono laureati (in maniera del tutto regolare) almeno 50 politici italiani, tra cui l’attuale ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida.

Questa sera, su Rai 3, Report ripercorre l’ascesa imprenditoriale e politica del nuovo sindaco di Terni e presidente della Ternana. Bandecchi è indagato dalla Procura di Roma per evasione fiscale. È accusato di aver finanziato, attraverso la sua università, tutta una serie di attività commerciali – compresa la società di calcio della Ternana – utilizzando agevolazioni fiscali applicabili solo ad attività connesse all’Ateneo. Per tale motivo la Finanza aveva sequestrato all’Università quasi 21 milioni di euro. 

Bandecchi, come illustra il servizio di Luca Bertazzoni, è diventato negli anni il più grande finanziatore di Forza Italia alle spalle solo di Silvio Berlusconi.

(...) Oltre al suo stesso partito – Alternativa Popolare, fondato da Angelino Alfano, che ha ottenuto dall’Unicusano oltre 100 mila euro – a quanto dichiara a Report ha contribuito alle campagne elettorali del neo governatore del Lazio, Francesco Rocca (che ha restituito l’erogazione), a quella del suo rivale di centrosinistra, Alessio D’Amato e, con 30 mila euro, a Impegno Civico di Luigi Di Maio. “Finanzio anche Di Maio come finanzio anche altri – racconta lui stesso – come ho finanziato anche persone del Pd. Io sono un uomo centrista, sono un popolare, sono una persona che pensa che al centro sta la virtù”. A un certo punto si avvicina pure al Terzo Polo: “Renzi disse ok e Calenda disse che ero un fascista. Ma io non sono mai stato fascista”.

The new "Mister B". Report Rai PUNTATA DEL 05/06/2023 di Luca Bertazzoni

Collaborazione di Marzia Amico

Stefano Bandecchi è il nuovo Silvio Berlusconi?

Imprenditore, presidente di una squadra di calcio, ha radio e un canale televisivo ed è appena diventato sindaco di Terni. Stefano Bandecchi è il nuovo Silvio Berlusconi? L’inchiesta racconta la vicenda dell’università telematica Niccolò Cusano, di cui Bandecchi è fondatore e presidente del Consiglio di Amministrazione. La Guardia di Finanza ha sequestrato 20 milioni di euro all’ateneo per presunta evasione fiscale. L’università Niccolò Cusano avrebbe utilizzato i soldi provenienti dalle rette universitarie, e quindi esentasse, in attività prettamente commerciali: una di queste è la Ternana calcio. Partendo dalla ricostruzione dell’inchiesta della magistratura, il racconto si sviluppa analizzando il fenomeno delle università telematiche, una realtà sempre più consolidata in Italia, mostra il loro funzionamento e la loro nascita nel 2006, quando furono autorizzate dall’allora Ministro dell’Istruzione Letizia Moratti.

IL PEZZO DI CARTA Di Luca Bertazzoni Collaborazione di: Marzia Amico Immagini di Giovanni De Faveri, Andrea Lilli, Marco Ronca e Paco Sannino Ricerca immagini: Alessia Pelagaggi Montaggio: Igor Ceselli Grafica: Giorgio Vallati

GIOVANNI NERI - RETTORE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO – 23 APRILE 2023 – PARTITA NAZIONALE POETI VS NAZIONALE ATTORI BORIS Buonasera a tutti, sono Giovanni Neri e sono il rettore dell’Università Popolare degli Studi di Milano. Il nostro intervento oggi è semplicemente quello di esortare tutti voi a perorare questa causa anche con una piccola donazione. Grazie di essere venuti.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO In un campo a pochi chilometri da Ostia va in scena la sfida fra la Nazionale degli attori della serie tv Boris e la Nazionale poeti. A fare gli onori di casa è l’avvocato Giovanni Neri, Magnifico Rettore dell’Università Popolare degli studi di Milano, sponsor dei poeti calciatori.

LUCA BERTAZZONI Rettore Magnifico, piacere sono Luca Bertazzoni, sono un giornalista della Rai. Come sta?

GIOVANNI NERI - RETTORE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Molto lieto.

LUCA BERTAZZONI Volevo capire questa sponsorizzazione alla Nazionale poeti.

GIOVANNI NERI - RETTORE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Più che altro è una partnership, noi siamo legati a loro un po’ per le finalità e per la mission, dicevo, del nostro ateneo che è appunto quella di diffondere cultura.

LUCA BERTAZZONI Di poesia ce n’è anche dentro l’università vostra, no.

GIOVANNI NERI - RETTORE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Eh sì, qui c’è poesia.

LUCA BERTAZZONI Però volevo capire sono legalmente validi i titoli vostri

GIOVANNI NERI - RETTORE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Ma che c’entra questo con? Sì, è un’università di diritto internazionale e ci sono dei contenziosi aperti con...

LUCA BERTAZZONI Perché il Mur poi vi ha diffidato dicendo che state millantando.

GIOVANNI NERI - RETTORE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO No, in realtà non è proprio una diffida di natura, diciamo… Perdonatemi che devo lasciare lei.

LUCA BERTAZZONI Ci mettiamo un secondo tanto.

GIOVANNI NERI - RETTORE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Riprendiamo fra un attimo, vi spiace?

LUCA BERTAZZONI Ok.

LUCA BERTAZZONI No, Rettore, ma come? Rettore, scusi, Rettore, un secondo. No, è scappato.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Eppure, non tutti gli studenti che si iscrivono sono a conoscenza della controversia legale fra il ministero e l’Università popolare degli studi di Milano.

STUDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Mi volevo laureare in Giurisprudenza, c’erano delle buone recensioni, quindi un’università seria.

GIOVANNI NERI - RETTORE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO - CERIMONIA DI LAUREA - 14 GIUGNO 2022 Sta per avere inizio la cerimonia di consegna delle lauree dell’università Popolare degli Studi di Milano.

STUDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Io mi iscrivo nel 2021.

LUCA BERTAZZONI Che esami ha fatto e che voti ha preso?

STUDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Esami Diritto Costituzionale 28, Diritto del Lavoro 28, sono stato scarso in Diritto Privato Comparato del quinto anno che ho preso 20/30.

LUCA BERTAZZONI Ma lei li ha mai fatto questi esami?

STUDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO No, io non ho mai fatto un esame, facevo come delle interrogazioni.

LUCA BERTAZZONI Durata dell’esame?

STUDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Potevano durare 10, 15 minuti.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Dopo la fuga in macchina del Magnifico Rettore, il professor Grappeggia ci invita nella sede milanese dell’università telematica.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Io sono Presidente dell’Università Popolare degli Studi di Milano, sono il leader.

LUCA BERTAZZONI Lei è professore, giusto?

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Sì, insegno.

LUCA BERTAZZONI Cosa insegna?

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Materie umanistiche.

LUCA BERTAZZONI Io l’ho cercato, diciamo, nell’elenco dei professori universitari e non c’è.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO No, non sono professore.

LUCA BERTAZZONI “Professore”, diciamo, così si chiama.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO No, così, così no. Non lo accetto, Luca, non lo accetto.

LUCA BERTAZZONI No, così perché non risulta in nessun elenco.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Così cosa?

LUCA BERTAZZONI Allora pure io mi chiamo “professore” d’ora in poi.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Ma non ti permettere, ma cosa vuoi dire, Luca?

LUCA BERTAZZONI Mi ha contattato una persona che sostiene di aver, di essersi laureato con voi senza aver fatto neanche un esame.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Posso chiederti il nome?

LUCA BERTAZZONI Non posso dirglielo.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Allora facciamo un giochino, ti leggo nella mente. Posso andare un attimo di là?

LUCA BERTAZZONI Certo, prego

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Con permesso, arrivo subito. Dai, dai! Yes!

LUCA BERTAZZONI Che gioco vuole fare?

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Ho atti che viene a fare gli esami. Ha fatto dei bonifici? Sì, e abbiamo fatto le ricevute.

LUCA BERTAZZONI Lui sostiene che si è laureato in sei mesi.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Sì, si è laureato in sei mesi. Ma è logico che se mi arriva uno con una laurea, nella nostra giurisprudenza internazionale ti riconosco una serie di esami.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il libretto universitario dello studente, però, dice un’altra cosa: non risulta una precedente laurea, come sostiene il professor Grappeggia, ma solo quattro esami riconosciuti nel 2016. E poi, una serie di esami sostenuti nel corso di quattro anni, fino ad arrivare alla laurea del 2021, unico anno in cui c’è traccia dei bonifici.

LUCA BERTAZZONI Il primo bonifico che lei fa per questa università è datato?

STUDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO 2021. Sono partiti dall’anno 2016 per poter giustificare, poi, la laurea avvenuta nel 2021, io nel 2016 ancora non mi ero iscritto.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Siamo un’università internazionale, siamo affiliati con altre università.

LUCA BERTAZZONI Del Burkina Faso e della Costa d’Avorio.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Sì, perché? Perché devo sentire: “Mancano quelli del Congo, mancano quelli del Congo”, io li ho sentiti al ministero. Ma ragazzi, il mondo è cambiato, siamo nel 2023. È finita l’identità statica, l’immigrazione c’è, i barconi li vediamo. Ma avete un po’ di visione?

GIANGAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Questa università popolare che sarà, immagino, un’associazione qualunque, è affiliata all’Università di Ouagadougou, non lo so, un’università del Burkina Faso. Ed è affiliata anche all’Università di Bouakè.

LUCA BERTAZZONI Costa d’Avorio.

GIANGAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO “Quest’università vuole contribuire a costruire un mondo migliore” anche tramite una società inglese.

LUCA BERTAZZONI Di questa società inglese cosa scopriamo?

GIANGAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Ha tre sterline di capitale e non ha niente.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Università affiliate ad altre che hanno tre sterline di capitale sociale e vogliono, ambiscono, anche di cambiare e migliorare il mondo. Buonasera. Parliamo dell’Università popolare degli studi di Milano che però ha un contenzioso aperto con il ministero dell’Istruzione da quando è nata, ben 12 anni. Le università popolari hanno come mission divulgare la conoscenza, la cultura tra il popolo attraverso conferenze, dibattiti, libri, opuscoli. Il caso dell’Università popolare degli studi di Milano è un po’ particolare. Nasce con una presa d’atto da parte del sottosegretario all’Istruzione del 2011, governo Berlusconi, Guido Viceconte. Ecco, e secondo il ministero, essendo una presa d’atto, non un atto amministrativo, non potrebbe rilasciare titoli di studio scolastici né accademici sul territorio italiano. Di diversa opinione è l’Università popolare degli studi di Milano che dice: no, noi possiamo rilasciare titoli studi stranieri diversamente riconosciuti perché siamo affiliati a delle università del Burkina Faso e della Costa d’Avorio. Inoltre, abbiamo tra gli studenti molti che sono poi entrati nelle forze dell’ordine e molti anche nei servizi segreti. Ma che università è? Il nostro Luca Bertazzoni con la collaborazione della nostra Marzia Amico.

SIGLA LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La sede romana dell’Università Popolare degli Studi di Milano si affaccia sul mare di Ostia e non è nient’altro che lo studio del Magnifico Rettore, l’avvocato Giovanni Neri. Nel Senato Accademico spiccano Sua Altezza Antonino D’Este Orioles, gran maestro dell’ordine dei santi Contardo e Giuliano, il professor Vincenzo Mastronardi, ex docente della Sapienza nonché esperto del Consiglio Superiore di Sanità, e il professor Robert Milne, per oltre quarant’anni collaboratore di Scotland Yard e ora preside della Corporate University. Nei siti dell’università risultano inoltre due codici fiscali.

LUCA BERTAZZONI Questi codici fiscali sono validi per l’Agenzia delle Entrate ma non per la Camera di Commercio, non risultano.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Ma non facciamo mica commercio.

LUCA BERTAZZONI Eh, siete un’associazione?

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Associazione, assolutamente.

LUCA BERTAZZONI Quindi non possiamo sapere quali sono i vostri bilanci, per esempio

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Basta chiederli.

LUCA BERTAZZONI Eh. Come vanno?

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Fatturiamo sotto il milione di euro, siamo sui 900

LUCA BERTAZZONI Avete tanti studenti?

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Credo 4mila.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Sul fatturato dichiarato dal professor Grappeggia bisogna fidarsi, ma qualcosa non torna perché, per arrivare ai 900mila euro dichiarati, i 4mila studenti pagherebbero in media 225 euro a testa l’anno.

LUCA BERTAZZONI In tutto quanto ha pagato?

STUDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO 12mila euro. Questo è un bonifico di 6mila euro, addirittura è la fattura numero 428 del 2021, nonostante sia stata fatta agli inizi dell’anno. Questo è il diploma di laurea in cui c’è scritto “Università popolare dal 1901”, pergamena, velluto, Repubblica Italiana. Per me questa laurea è una laurea vera. Sono andato presso uno studio legale dicendo: “Guardi, io sono laureato in Giurisprudenza, vorrei iniziare il tirocinio”. Questo avvocato mi dice: “Guarda che la tua laurea non vale nulla perché non è riconosciuta dal Mur”.

LUCA BERTAZZONI Convenzione con lo Stato Maggiore del ministero della Difesa.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Certo.

LUCA BERTAZZONI Avete o avevate?

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Avevamo.

LUCA BERTAZZONI Quanto è durata?

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO 12-13 anni.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Questo è il documento che dimostra la convenzione fra l’Università e lo Stato Maggiore del Ministero della Difesa, che in una mail ci ha confermato di averla stipulata nel 2009 e poi disdetta qualche anno fa. Ma per un ministero che li ha formalmente riconosciuti, stipulando una convenzione, tanti altri non lo hanno fatto.

GIANGAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO È un contratto, uno scritto di tante pagine, forse alla fine si capisce che è un contratto di associazione perché dice che lo studente chiede lo status di socio non votante o di socio votante. Lo studente è studente, se è studente. Se è socio di un’associazione, è associato dell’associazione.

LUCA BERTAZZONI Lei nel contratto scrive: “Il titolo finale non sempre garantisce la spendibilità presso altro ateneo o il suo riconoscimento”.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Certo!

LUCA BERTAZZONI Cioè mette un attimo le mani avanti.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Ma cosa fareste voi? Gli dico: “Vuoi fare un concorso pubblico?”. Non ti garantisco nulla. “Vuoi essere preso da un altro ateneo?”. Faccio un passo indietro, anche se l’autorizzazione ce l’ho.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO L’autorizzazione di cui parla il professor Grappeggia è in realtà una presa d’atto ministeriale ottenuta dopo tanta fatica e tante porte chiuse in faccia.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Facciamo tre anni di istruttoria.

LUCA BERTAZZONI Al ministero.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Al ministero

LUCA BERTAZZONI Lei dopo tre anni riesce ad ottenere questo “ok” dal ministero, dal sottosegretario Viceconte. Lei come arriva a Viceconte?

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Dalla segreteria, dal Direttore Generale, dalla Gelmini.

LUCA BERTAZZONI Lei ha stretto la mano a Viceconte quando le ha dato l’ok?

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO No.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il dottor Guido Viceconte, oltre a essere un prestigioso gastroenterologo, è stato un parlamentare di Forza Italia per 25 anni.

LUCA BERTAZZONI Dottor Viceconte, buonasera.

GUIDO VICECONTE - SOTTOSEGRETARIO MINISTERO ISTRUZIONE 2010 - 2011 Ehi, ciao.

LUCA BERTAZZONI Come sta? Tutto bene?

GUIDO VICECONTE - SOTTOSEGRETARIO MINISTERO ISTRUZIONE 2010 - 2011 Che ci fai qua?

LUCA BERTAZZONI Cercavo lei.

GUIDO VICECONTE - SOTTOSEGRETARIO MINISTERO ISTRUZIONE 2010 - 2011 Perché? Che è successo?

LUCA BERTAZZONI È tornato a fare il suo lavoro.

GUIDO VICECONTE - SOTTOSEGRETARIO MINISTERO ISTRUZIONE 2010 - 2011 No, io faccio il medico.

LUCA BERTAZZONI Eh, il suo lavoro intendevo il medico, non più il politico. Però prima si era occupato, fra le varie cose, anche di università, no

GUIDO VICECONTE - SOTTOSEGRETARIO MINISTERO ISTRUZIONE 2010 - 2011 Sì.

LUCA BERTAZZONI È stato sottosegretario, si ricorda?

GUIDO VICECONTE - SOTTOSEGRETARIO MINISTERO ISTRUZIONE 2010 - 2011 Sì, come no

LUCA BERTAZZONI Lei però ha firmato questo foglio, se lo ricorda?

GUIDO VICECONTE - SOTTOSEGRETARIO MINISTERO ISTRUZIONE 2010 - 2011 Che cosa?

LUCA BERTAZZONI Università Popolare degli Studi di Milano.

GUIDO VICECONTE - SOTTOSEGRETARIO MINISTERO ISTRUZIONE 2010 - 2011 Ma non mi ricordo proprio, guarda.

LUCA BERTAZZONI Grazie a questa sua firma, no, che c’è qua, sostiene che può rilasciare titoli accademici per conto di un’università con sede nel Burkina Faso e una nello Stato della Costa d’Avorio.

GUIDO VICECONTE - SOTTOSEGRETARIO MINISTERO ISTRUZIONE 2010 - 2011 Guarda, non mi ricordo niente.

LUCA BERTAZZONI No, vabè, siccome è un atto importante che lei ha firmato.

GUIDO VICECONTE - SOTTOSEGRETARIO MINISTERO ISTRUZIONE 2010 - 2011 Ma che anno era?

LUCA BERTAZZONI 2011, lei due giorni prima di finire il suo incarico da Sottosegretario firma questo pezzo di carta.

GUIDO VICECONTE - SOTTOSEGRETARIO MINISTERO ISTRUZIONE 2010 - 2011 Io credo che tutto quello che ho fatto, l’ho fatto in maniera regolare. Però qui non mi ricordo

LUCA BERTAZZONI La firma la riconosce, questo soltanto?

GUIDO VICECONTE - SOTTOSEGRETARIO MINISTERO ISTRUZIONE 2010 - 2011 La firma è la mia.

LUCA BERTAZZONI Lei firma cose a caso o firma cose leggendole?

GUIDO VICECONTE - SOTTOSEGRETARIO MINISTERO ISTRUZIONE 2010 - 2011 No, cose a caso mai. Tu sei una persona pure simpatica, non mi far fare cose inutili.

LUCA BERTAZZONI Ma non è inutile, è un foglio suo, che ha firmato lei.

GUIDO VICECONTE - SOTTOSEGRETARIO MINISTERO ISTRUZIONE 2010 - 2011 Ciao, statti bene.

LUCA BERTAZZONI Arrivederci

GUIDO VICECONTE - SOTTOSEGRETARIO MINISTERO ISTRUZIONE 2010 - 2011 Mi ha fatto piacere rivederti.

LUCA BERTAZZONI Anche a me, però volevo capirci qualcosa in più.

GUIDO VICECONTE - SOTTOSEGRETARIO MINISTERO ISTRUZIONE 2010 - 2011 Ma non c’è niente da capire, guarda, è tutto regolare.

LUCA BERTAZZONI Tutto regolare? Il ministero poi li ha diffidati questi dal dire che possono rilasciare titoli.

GUIDO VICECONTE - SOTTOSEGRETARIO MINISTERO ISTRUZIONE 2010 - 2011 Io imbrogli nella mia vita non li ho mai fatti.

LUCA BERTAZZONI Per riassumere la posizione del ministero, si sono resi conto che quella presa d’atto firmata dall’allora sottosegretario Viceconte per loro è una presa d’atto e non un’autorizzazione. Voi dite: “Noi siamo un’università”.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Un’università nella modalità che ci hanno dato loro.

LUCA BERTAZZONI La modalità che vi hanno dato loro, però, dice, prevede che non siano validi i vostri titoli.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Ma dove è scritto? Fammelo vedere.

LUCA BERTAZZONI Il ministero mi ha detto che c’è una controversia in corso.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Il ministero può dire quello che vuole, lui lo dice e io li denuncio.

LUCA BERTAZZONI Ci sta questa multa di 50mila euro dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Oddio, oddio.

LUCA BERTAZZONI Spiccioli per voi, immagino. Però, loro sostengono che vi accreditate come un’università vera e propria e i titoli hanno lo stesso valore degli altri. Questo, cioè, io la riassumo come se fosse una pubblicità ingannevole.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Uno può pensare: “Sì, fate i furbetti”. Uno può pensare come gli pare.

LUCA BERTAZZONI Ma io non dico questo, sembra che ha la coda di paglia. Non ho mai detto che fate i furbetti, ho detto che giocate sull’ambiguità.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Volete farmi una revoca? Fatemi la revoca. Con 5mila studenti in giro per l’Italia…

LUCA BERTAZZONI Non si scherza.

MARCO GRAPPEGGIA - PRESIDENTE UNIVERSITA’ POPOLARE DEGLI STUDI DI MILANO Ma ragazzi, ma sai quanti sono in posti istituzionali? Nei Servizi Segreti quanti ne abbiamo? Al ministero della Difesa quanti ne abbiamo? La domanda è: “Puoi esercitare o non puoi esercitare”.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Già, bella domanda. Il sottinteso è “provate, adesso, a non riconoscere più un titolo che abbiamo assegnato a un uomo delle Forze dell’Ordine o a uno dei Servizi Segreti, che magari ha anche scalato e raggiunto incarichi apicali”. Ora, tra il ministero dell’Università e l’Università popolare degli studi di Milano c’è un contenzioso aperto da 12 anni, dopo che era stato, dopo che l’università era nata con una presa d’atto del sottosegretario all’Istruzione Guido Viceconte, governo Berlusconi, e non con un atto amministrativo. Per questo, il governo successivo, ministro Profumo, governo Monti, invia una diffida all’università: non potete rilasciare titoli accademici o scolastici sul territorio. Insomma, però, questo contenzioso dura da 12 anni. Perché dura così tanto? Perché non ci mettiamo una parola fine visto che nel frattempo, come ci ricorda il presidente dell’università, sono stati formati ben 5000 studenti che vantano questi titoli. È stata anche stipulata, nel frattempo, una convenzione con il ministero della Difesa: l’Università popolare degli studi di Milano inviava i propri iscritti a fare uno stage all’interno del ministero. E abbiamo chiesto: ma la convenzione prevedeva anche la possibilità, da parte del personale del ministero, di conseguire titoli dall’università? Ci hanno detto: no, non è così. Poi abbiamo anche però chiesto se il ministero, invece, riconosce i titoli di studio conseguiti presso l’università nell’ambito dei concorsi interni: ecco, su questo non ci hanno risposto, hanno detto che erano troppo impegnati nell’organizzazione della parata del 2 giugno. Quando ci risponderanno, daremo atto. Nel frattempo, insomma, passiamo, invece, a un’altra università telematica, la fucina dei cervelli politici: se ne sono laureati ben cinquanta, è l’Unicusano di Stefano Bandecchi, diventato appena sindaco di Terni, che utilizza quest’università come un pozzo senza fine a cui attingere soldi per le sue attività commerciali e anche per le carriere politiche, compresa la sua perché ambisce a diventare il nuovo Silvio Berlusconi. THE NEW “MISTER B” Di Luca Bertazzoni Collaborazione di: Marzia Amico Immagini di Giovanni De Faveri, Andrea Lilli, Marco Ronca e Paco Sannino Ricerca immagini: Alessia Pelagaggi Montaggio: Igor Ceselli Grafica: Giorgio Vallati

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Aspetta, no, aspetta. Lui è di Report e non possiamo dirgli niente.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A Terni va in scena il comizio finale di Stefano Bandecchi, candidato sindaco di Alternativa Popolare, il partito fondato nel 2017 da Angelino Alfano e ora nelle sue mani con tanto di finanziamento di 100mila euro da parte dell’Università Niccolò Cusano.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI - COMIZIO TERNI 26 MAGGIO 2023 Io che non avevo nemmeno la bicicletta, io che non ho mai avuto nulla nella vita e che ho costruito per conto mio prima sognando, poi realizzando e poi mantenendo. Bisogna votare per qualcosa di diverso e di nuovo, bisogna votare per Stefano Bandecchi. Grazie. “Bandecchi io sto con te perché io sono il futuro di questa città”: fate un applauso a lui e a tutti i bambini come lui. Ora diranno che Bandecchi come Mussolini fa queste cose, qui poi oggi è venuto anche Report signori, dov’è il mio nemico di Report? È là seduto, sta preparandomi la festa per lunedì sera.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO E invece a far festa è stato proprio Bandecchi, diventato a sorpresa sindaco di Terni, battendo il candidato di centro-destra.

LUCA BERTAZZONI È il nuovo Berlusconi da oggi, ufficialmente, no

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Berlusconi era Berlusconi, io sono io, ognuno ha la propria storia. Io ho cominciato da un comune.

LUCA BERTAZZONI Certo, no, però dicevo, la politica, la squadra di calcio, i mezzi di comunicazione, imprenditore…

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Sa quante persone… Mettiamoci un avviso di garanzia, eh

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il coro da stadio che accompagna il neoeletto sindaco di Terni Stefano Bandecchi, insomma, la dice lunga sui segreti della sua vittoria. A guardare bene anche ciò che è alla base dell’avviso di garanzia. È indagato, Stefano Bandecchi, perché ha utilizzato i soldi, avrebbe utilizzato i soldi incassati dalla sua università, le rette degli studenti che sono esentasse, invece di riutilizzarli in attività connesse all’università, li avrebbe utilizzati in attività commerciali e anche per fare carriere politiche, compresa la sua. Ora, non è così campato in aria il paragone e l’ambizione di voler diventare il nuovo Silvio Berlusconi, perché entrambi sono imprenditori di successo, poi posseggono tv, radio, squadre di calcio. Li accomuna soprattutto la passione per la politica. Bandecchi è coordinatore nazionale del partito Alternativa Popolare, quello che era stato fondato da Angelino Alfano nel 2017. Bandecchi l’ha rivitalizzato e poi lo ha finanziato in poco tempo di 100mila euro, soldi prelevati da Unicusano di cui è fondatore e anche presidente del Consiglio di amministrazione. Ora, la politica è stata fondamentale nel moltiplicare le università telematiche nel nostro Paese e un ruolo l’ha avuto proprio il ministro dell’Istruzione del governo Berlusconi, Letizia Moratti, che ha dato il via. Insomma, l’idea era quella di poter rendere accessibile la formazione e l’istruzione anche a coloro che per motivi di lavoro o per motivi di logistica non potevano frequentare. Solo che tra aprile e maggio del 2006 la situazione è un po’ scappata di mano: ha approvato ben cinque università telematiche, tre l’ultimo giorno, quando Silvio Berlusconi si era già dimesso. Sul filo di lana è stato approvato, è stata approvata anche Unicusano di Stefano Bandecchi. Ecco, per questo Bandecchi sarà eternamente grato a Silvio Berlusconi. È diventato il maggior finanziatore del partito di Forza Italia dopo il Cavaliere, 150mila euro, altri 100mila euro a Tajani. E poi, insomma, ha anche allargato lo sguardo alla Scuola di alta formazione politica del Cavaliere, ha stretto una convenzione con Unicusano e la sua università, negli anni, si è trasformata nella più grande fucina di cervelli politici del Paese. LUCA BERTAZZONI Presidente Moratti buonasera, sono Luca Bertazzoni di Report. Senta, noi ci stiamo occupando delle università telematiche, che lei istituì con decreto ministeriale nel 2003. Volevo farle due semplici domande: perché nel 2006, con il governo Berlusconi, che era già caduto, nell’ultimo mese, lei firmò l’autorizzazione per cinque università telematiche? Glielo posso chiedere solo questo? Perché firmò le autorizzazioni quando il governo era già caduto?

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO In Italia le università telematiche sono state istituite con un decreto firmato da Letizia Moratti nel 2003. Nei due anni successivi ne nascono cinque, la vera esplosione avviene però nel 2006 quando, come ultimo atto, il ministro Moratti firma l’autorizzazione per altre cinque.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI La nostra pubblicazione in Gazzetta è del 10 maggio del 2006, il giorno dopo si insediò il governo di centro sinistra e il ministro Mussi.

LUCA BERTAZZONI Che situazione trovò nel 2006?

FABIO MUSSI - MINISTRO DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA 2006 - 2008 Trovai 11 università telematiche in esercizio e altre cinque in via di riconoscimento.

LUCA BERTAZZONI L’ex ministro Moratti le approvò quando il governo Berlusconi era già caduto.

FABIO MUSSI - MINISTRO DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA 2006 - 2008 Era già caduto, sì. E quindi fermai il riconoscimento delle ulteriori cinque.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Mi ricordo di aver detto che Mussi era di Piombino, io di Livorno e che non ho mai visto uno di Piombino più cattivo di uno di Livorno perché Mussi disse che ci avrebbe fatto chiudere tutti.

FABIO MUSSI - MINISTRO DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA 2006 - 2008 Io non è che per principio ce l’ho con le università telematiche, però non bisogna esagerare, perché l’università non è solo un cursus per prendere un pezzo di carta.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il professor Antonio Vicino è stato presidente del Consiglio Universitario Nazionale, organo consultivo del ministero dell’Università e della Ricerca, che si occupa delle università telematiche.

ANTONIO VICINO - PRESIDENTE CONSIGLIO UNIVERSITARIO NAZIONALE 2019 - 2023 Il processo di accreditamento è un processo in genere abbastanza complesso. Io nei quattro anni di presidenza Cun ho sempre cercato di lanciare questo messaggio al decisore politico: mettiamo pochi paletti, ma non aggirabili.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Quando le regole sono confuse è il politico ad avere in mano un’ampia discrezionalità decisionale. Ed è a lui che si rivolge l’imprenditore.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – REGISTRAZIONE RIUNIONE OTTOBRE 2021 Io lavoro per questa università, che debba andare a trovare il signor Silvio Berlusconi perché poi se no questa università viene chiusa o che debba andare a trovare Salvini o che debba andare a trovare… Ditemi il nome di un comunista, per favore? Letta, perfetto: ci vado uguale. Oppure un Cinque Stelle.

LUCA BERTAZZONI Volevo capire se secondo lei è opportuno che lei, che di fatto ha un’università, finanzi a destra e a sinistra la politica, che è quella che poi, alla fine, decide anche molto banalmente sulle questioni delle università telematiche.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Lei ha ragione. La politica non dovrebbe essere finanziata dai privati, per me la politica dovrebbe essere finanziata dallo Stato: quando i partiti sono finanziati dai privati, i partiti sono costretti a fare qualcosa.

LUCA BERTAZZONI Lei ha finanziato Forza Italia, no, nel 2019, 2020 e 2021.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Penso sia un vanto di essere stato dopo la famiglia Berlusconi il secondo finanziatore di Forza Italia. Attualmente il ministro dell’Università chi è, scusi? La senatrice Bernini, una persona che io conosco perfettamente, una persona che io stimo. Pensi che è l’onorevole Bernini ad avermi presentato a Silvio Berlusconi. LUCA BERTAZZONI In un’altra intervista ha detto che era Tajani, però...

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI L’onorevole Bernini ha stimolato Tajani, il giorno che Tajani mi ha chiamato, la Bernini e Tajani erano insieme a Silvio Berlusconi.

LUCA BERTAZZONI Noi ci stiamo occupando di Unicusano, l’università telematica. Lei ha ricevuto nel 2019 un finanziamento per 100mila euro, volevo capire quali sono i suoi rapporti con Bandecchi.

ANTONIO TAJANI - MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE Tutto regolare, tutto fatto nel rispetto assoluto della legge come ho fatto in tutta la mia vita.

LUCA BERTAZZONI Quello è chiarissimo però anche Forza Italia, il partito di cui lei è coordinatore, ha ricevuto nel corso degli anni 150mila euro di finanziamenti. Io mi domandavo… tutto lecito

ANTONIO TAJANI - MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE Tutto lecito, vedi la legge, l’importante è rispettare la legge nella Repubblica Italiana.

LUCA BERTAZZONI Le domandavo semplicemente sull’opportunità morale oltre che politica di ricevere finanziamenti da un’università su cui voi legiferate.

LUCA BERTAZZONI Nelle scorse regionali del Lazio aveva finanziato per 60mila euro Rocca, il candidato di centro destra.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Gliene volevamo dare 60mila, gli avevamo fatto un bonifico da 10mila. Rocca ce lo ha gentilmente rimandato indietro perché ha detto che se la Finanza ha detto che eravamo dei criminali, eravamo dei criminali. LUCA BERTAZZONI E lei, però, poi, diciamo, dopo che è uscita questa notizia, ha detto: “ma io volevo finanziare anche D’Amato del Pd”.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Sì, è vero. Ma anche D’Amato non ha voluto i nostri soldi.

LUCA BERTAZZONI Poi nel 2022 si butta più su Di Maio e a Impegno Civico gli dà 30mila euro.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Finanzio anche Di Maio come finanzio anche altri, come ho finanziato anche persone del Pd.

LUCA BERTAZZONI Non ha mai voluto dire i nomi, ma perché? Per privacy?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Perché non li so a memoria.

LUCA BERTAZZONI Uno generalmente finanzia, diciamo, una parte politica, no. E invece perché lei no?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Io sono un uomo centrista, sono un popolare, sono una persona che pensa che al centro sta la virtù.

LUCA BERTAZZONI E lei, infatti, si voleva candidare a un certo punto per le scorse politiche con il Terzo Polo. Renzi disse…

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Renzi disse ok e Calenda disse che ero un fascista. Avevo una maglietta addosso, una maglietta dei paracadutisti, siccome io non sono mai stato fascista, non mi ero mai accorto che quelle frasi erano anche fasciste. Detto questo, però, le posso dire che ci sono tanti onorevoli che si sono laureati qua. Sì.

LUCA BERTAZZONI Tanti?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Credo molto più di cinquanta.

LUCA BERTAZZONI Molto più di cinquanta?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Hanno pagato tutti la retta, quindi…

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Uno dei politici che sicuramente ha pagato la retta a Bandecchi è l’europarlamentare della Lega Angelo Ciocca, famoso a Strasburgo per aver imbrattato con una scarpa il foglio del discorso in cui Moscovici bocciava la manovra finanziaria italiana.

LUCA BERTAZZONI A febbraio 2016 si è laureato e nel 2019 Bandecchi l’ha finanziata.

ANGELO CIOCCA - EUROPARLAMENTARE LEGA NORD L’università

LUCA BERTAZZONI L’università, scusi

ANGELO CIOCCA - EUROPARLAMENTARE LEGA NORD È un finanziamento di un’università privata…

LUCA BERTAZZONI …a un politico che si è laureato nella stessa università.

ANGELO CIOCCA - EUROPARLAMENTARE LEGA NORD Che finanzia uno studente in un percorso di ricandidatura, perché io ero un deputato uscente.

LUCA BERTAZZONI L’hanno finanziata in quanto politico, perché non è che finanziano tutti quanti gli studenti così, tutti quanti

ANGELO CIOCCA - EUROPARLAMENTARE LEGA NORD Secondo me è quello che fanno tutti gli imprenditori, cioè investono su un capitale che hanno conosciuto come studente.

LUCA BERTAZZONI Lei l’ha ringraziato Bandecchi dopo questo finanziamento?

ANGELO CIOCCA - EUROPARLAMENTARE LEGA NORD Io non ho ringraziato nessuno, nel senso che non c’è un motivo per il quale lui ha avuto un vantaggio da una mia attività. L’elemento di forza del finanziamento è finanziare uno studente.

LUCA BERTAZZONI Si è laureato nel 2016 e l’ha finanziata nel 2019.

ANGELO CIOCCA - EUROPARLAMENTARE LEGA NORD Ero iscritto come politico, ero studente come politico e quindi lui mi ha finanziato come studente e come politico.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Alla fine, il politico Ciocca ha ricevuto finanziamenti per 80mila euro, sicuramente più di quanto abbia pagato lo studente Ciocca. È andata peggio al ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida che, nonostante una laurea ad Unicusano, non ha ricevuto finanziamenti.

LUCA BERTAZZONI Perché ha scelto di laurearsi in un’università telematica?

FRANCESCO LOLLOBRIGIDA - MINISTRO DELL’AGRICOLTURA E DELLA SOVRANITA’ ALIMENTARE Io ho iniziato i miei studi alla Sapienza e ho fatto un lungo percorso di studio e di militanza politica anche alla Sapienza conseguendo anche, diciamo, discreti risultati in termini di media, dopodiché ho messo al mondo dei bambini mentre lavoravo e quindi, come tanti altri italiani ho fatto un’università…

LUCA BERTAZZONI ha preferito, diciamo, continuare la telematica

FRANCESCO LOLLOBRIGIDA - MINISTRO DELL’AGRICOLTURA E DELLA SOVRANITA’ ALIMENTARE ho fatto un’università che mi permettesse di laurearmi anche mettendo insieme i soldi per mandare avanti la famiglia.

LUCA BERTAZZONI Si è trovato bene e alla luce di quest’inchiesta…

FRANCESCO LOLLOBRIGIDA - MINISTRO DELL’AGRICOLTURA E DELLA SOVRANITA’ ALIMENTARE Io non conosco gli esiti di quest’inchiesta, mi sono laureato ben prima e non conoscevo il signor Bandecchi.

LUCA BERTAZZONI Si è trovato bene comunque all’Unicusano?

FRANCESCO LOLLOBRIGIDA - MINISTRO DELL’AGRICOLTURA E DELLA SOVRANITA’ ALIMENTARE Era una delle università più prestigiose fra quelle telematiche.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Talmente prestigiosa che ha allargato il campo anche a chi vuole entrare in contatto con la politica. A villa Gernetto, una delle tenute di proprietà di Silvio Berlusconi, ha sede l’Universitas Libertatis.

MARZIA AMICO Io chiamo per avere delle informazioni sul corso di alta formazione politica dell'Universitas Libertatis…

CALL CENTER UNIVERSITAS LIBERTATIS Per iscriversi è tutto online direttamente dal sito dell'Universitas Libertatis e l'erogazione del corso è tutta telematica.

MARZIA AMICO Quindi c’è una convenzione con l'università Niccolò Cusano?

CALL CENTER UNIVERSITAS LIBERTATIS Al momento c'è, la rinnovano mensilmente.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Berlusconi voleva ricreare una scuola politica, ho tutta una serie di lettere con lui interscambiate per dire facciamo questa cosa, anche perché io ho usato un nome che era suo da sempre, Universitas Libertatis, lui l’aveva proposta già dieci anni prima. Allora io costituii praticamente questa società, si chiama…

LUCA BERTAZZONI SB 2 Srl.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Bravissimo. Doveva entrarci dopo anche Berlusconi, poi le cose fra me e Berlusconi si sono un po’ raffreddate.

LUCA BERTAZZONI Dopo l’inchiesta?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Prima. Perché non stavo molto simpatico alla senatrice Ronzulli, e la senatrice Ronzulli allora ritenne evidentemente di dovermi allontanare dal gruppo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Tuttavia, Bandecchi continua ad avere un occhio di riguardo per il mondo azzurro di Forza Italia. CALL CENTER UNIVERSITAS LIBERTATIS Il corso ha il costo di 100 euro.

MARZIA AMICO Ma qui sul sito leggo che il costo è di 3000 euro l’anno.

CALL CENTER UNIVERSITAS LIBERTATIS No, può anche iscriversi tramite la modalità “studente azzurro” e il corso lo paga 100 euro.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Se uno vuole diventare studente azzurro, ma è chiaro che può essere un impiccio, voglio dire, lei potrebbe non voler diventare uno studente azzurro… Allora c’è una retta normale.

LUCA BERTAZZONI Da 3mila.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Da 3mila euro

LUCA BERTAZZONI Se no studente azzurro 100 euro, conviene.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Ma lei diventerebbe studente azzurro?

LUCA BERTAZZONI Io personalmente no, perché non ho più l’età, diciamo, per diventare studente azzurro.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Ma non è vero.

MARZIA AMICO Alla fine del corso quale titolo mi viene rilasciato?

CALL CENTER UNIVERSITAS LIBERTATIS È un attestato di frequenza. Trova tutto il materiale già sul corso, una volta che ha completato e visualizzato tutto il materiale, le appare questo test che è un test di autovalutazione che può fare quante volte vuole.

MARZIA AMICO Corso alta formazione politica, studente azzurro: richiesta di iscrizione inviata con successo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Durante il corso di formazione politica vari tutor si alternano per insegnare le strategie per diventare un candidato modello.

GABRIELLA ATTIMONELLI - PSICOLOGA Un personaggio politico ha la possibilità di diventare una celebrità, una star in politica. Ci sono anche le raccomandazioni, certo: ma nessun partito farebbe una lista di soli raccomandati.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO E poi si passa alla lezione sull’importanza del corpo nella politica.

SARA NEGROSINI - PSICOSESSUOLOGA Sono una psicologa, psico-sessuologa e psicoterapeuta ad approccio umanistico e bioenergetico. È bene aprire una conversazione con l’emozione della gioia facendo un sorriso sentito. Questa apertura, per esempio, di Putin ci dice: “ho paura di te”.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Finalmente arriva il momento dell’esame.

MARZIA AMICO Che cos’è un partito politico? È un’associazione con finalità sportive senza scopro di lucro? È un ente che rappresenta le parti in un rapporto di lavoro? È un’associazione fra persone accomunate da una medesima visione? Direi che è questa. Invia tutto e termina: completato.

LUCA BERTAZZONI C’è tanta gente iscritta?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI C’era tanta gente, ma poi le cose fra me e Berlusconi non sono andate bene, quindi gli iscritti sono scemati.

LUCA BERTAZZONI Ma quindi funziona ancora o no? Funzionicchia…

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Funzionicchia. Sta per essere chiusa e io non l’ho ancora chiusa per rispetto a Silvio Berlusconi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il rispetto che deve a chi gli ha consentito di esistere. Per questo ha finanziato negli anni Forza Italia, il suo coordinatore Tajani, ha allargato lo sguardo su Villa Gernetto, che è la sede dell’Universitas Libertatis, che è il Corso di alta formazione politica voluto da Silvio Berlusconi. Insomma, lì trovi dei, con cui Bandecchi ha stretto una convenzione, trovi tutor per formarti come candidato modello. Se ti iscrivi come studente azzurro, quindi come possibile iscritto a Forza Italia, paghi 100 euro, altrimenti 3000. E tra i tutor che ti insegnano a diventare il perfetto candidato modello c’è anche una psico-sessuologa, psicoterapeuta ad approccio umanistico e bioenergetico, cioè serve a insegnarti a usare il corpo quando scendi, poi, in politica. È un vecchio pallino quello di Silvio Berlusconi di avere un’università di formazione liberale, politica, sul modello delle Frattocchie del vecchio Pc ma di destra. Ecco, a questa scuola avrebbe dovuto anche partecipare con una lezione Putin, poi ha invaso l’Ucraina ed è saltato tutto. Tornando, invece, a Bandecchi abbiamo visto che ha cercato un po’ di finanziare tutti, non sempre gli è riuscito, perché vuole essere, dice, un punto di riferimento del centro. Singolare, però, è l’episodio del finanziamento del leghista Angelo Ciocca, che è stato, insomma, uno studente, si è laureato a Unicusano, poi si è candidato alle Europee nel 2019, Bandecchi l’ha finanziato, con i soldi di Unicusano, per 80mila euro. Ora, Ciocca dice: è il gesto, quello di Bandecchi, di un imprenditore che punta, investe, sulle qualità umane che è riuscito ad apprezzare ai tempi di quando ero studente. Però, Bandecchi il vero capolavoro lo compie quando utilizza i soldi dell’università, esentasse, autorizzati dalla politica, per scendere in politica. Insomma, in poco tempo finanzia con 100mila euro Alternativa Popolare, di cui è diventato coordinatore nazionale. Poi aveva acquistato anche la Ternana per aumentare la sua popolarità e quella dell’università e ci ha investito circa 30 milioni di euro per coprire le perdite. Il problema, secondo la Guardia di Finanza, è che quei soldi sono stati incassati dall’università esentasse, sono le rette pagate dagli studenti, e andrebbero investite nelle mission dell’università, insegnamento, ricerca, ricerca applicata all’economia del paese. Qui, invece, sarebbero stati investiti in attività commerciali e per questo dovrebbe pagare le tasse. Ora, Bandecchi, però, gestisce anche la televisione, le radio di Unicusano e queste appartengono alla mission dell’università. E che idea ha dell’utilizzo dei mezzi di comunicazione il politico e manager Bandecchi e, soprattutto, del rispetto dei lavoratori che idea ha?

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO L’università Niccolò Cusano è proprietaria di una radio e di un canale televisivo. E quando Bandecchi le ha comprate, aveva le idee ben chiare su come utilizzarle.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI – REGISTRAZIONE RIUNIONE DICEMBRE 2019 La televisione e la radio sono i miei due punti di forza. È come una pistola, io non la devo usare per forza, però tu sappi che io ce l’ho. Te la posso sparare addosso, non mi frega un cazzo e lo faccio. Voglio far paura agli altri, cioè, queste cose mi devono servire per dire: “Caro ministro, io non chiedo un cazzo. Però non mi tratti di merda perché posso diventare stronzo, fine!”. LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO L’interesse di Bandecchi per i mezzi di comunicazione è nato tanti anni fa in un piccolo studio radiofonico di Roma.

SPEAKER ELLE RADIO Elle Radio, diversa e originale.

EZIO LUZZI - EX RADIOCRONISTA “TUTTO IL CALCIO MINUTO PER MINUTO” Un cordiale saluto gentili ascoltatori di Elle Radio, entriamo in collegamento con Tonino Raffa.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Ezio Luzzi, storica voce della trasmissione “Tutto il calcio minuto per minuto”, era il proprietario delle frequenze da cui trasmette Radio Cusano Campus.

EZIO LUZZI - EX RADIOCRONISTA “TUTTO IL CALCIO MINUTO PER MINUTO” Bandecchi ha cominciato proprio qui, in questa emittente, che allora si chiamava Nuova Spazio Radio. Ci è stato dietro per mesi, voleva comprare la radio e alla fine gli ho detto: “guarda, la radio non te la posso dare tutta, semmai ti posso dare la frequenza”.

LUCA BERTAZZONI E poi che è successo?

EZIO LUZZI - EX RADIOCRONISTA “TUTTO IL CALCIO MINUTO PER MINUTO” Poi è successo che a un certo punto si è impossessato delle attrezzature e si è messo lì a trasmettere.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Dopo tanti anni e tante cause in tribunale la situazione fra Luzzi e Bandecchi non è ancora risolta.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Dopo che abbiamo fatto l’ultimo versamento che il tribunale ci aveva ordinato, noi abbiamo fatto firmare un documento che dice: “Non ti dobbiamo nient’altro”, ma sono iniziate altre trenta cause. LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nata nel 2014, Radio Cusano Campus si è ormai ritagliata uno suo spazio nell’etere con programmi dedicati principalmente all’economia e alla politica ma Bandecchi non è soddisfatto.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI – REGISTRAZIONE RIUNIONE OTTOBRE 2021 La radio e la televisione chiudono: voi da domani non avrete più un lavoro.

EX DIPENDENTE RADIO CUSANO CAMPUS A novembre del 2021 ci convoca Bandecchi in una riunione presso l’università nell’aula magna che si è svolta tra l’altro in filodiffusione.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI – REGISTRAZIONE RIUNIONE OTTOBRE 2021 Sono incazzato con tutti voi per lo schifo che avete fatto fino ad oggi, per aver distrutto un mio progetto fantastico. Io credo che tutto questo possa battere la Fininvest, la Rai e Sky perché io sono bravo. Io vinco, dove cazzo vado, vado, io vinco: sono sveglio, intelligente, cattivo. Io nel mondo dell’editoria sono una potenza, Berlusconi come imprenditore mi dice: “complimenti perché tu hai due coglioni così”.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Li ho licenziati la sera alle sette e li ho riassunti la mattina dopo perché non avevano voglia di lavorare e avevano perso lo spirito del lavoro.

LUCA BERTAZZONI Nell’arco della notte mi sta dicendo che ci ha ripensato e li ha riassunti?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI No, non ci ho ripensato, lo sapevano già. È un gesto per far capire che riparte un mondo nuovo.

EX DIPENDENTE RADIO CUSANO CAMPUS Ci licenziamo firmando una conciliazione sindacale con l’Ugl nella quale c’era scritto intanto che eravamo nella sede dell’Ugl

LUCA BERTAZZONI Non era vero?

EX DIPENDENTE RADIO CUSANO CAMPUS E invece ci trovavamo lì. Che avevamo avuto delle rimostranze nei confronti dell’azienda e non esiste una mia mail o di nessun altro che avesse mai scritto o detto una cosa del genere. E che rinunciavamo a eventuali cause per aver lavorato con contratti ovviamente non consoni. Ci davano dei soldi per ovviamente eliminare il pregresso che erano pari al nostro Tfr.

LUCA BERTAZZONI Cioè, avete rinunciato al pregresso in cambio del Tfr che era una cosa dovuta per legge…

EX DIPENDENTE RADIO CUSANO CAMPUS Comunque, era una cosa dovuta per legge. Alla fine, mi fanno un altro contratto peggiorativo, cioè andavo a lavorare più ore con uno stipendio uguale, ma solo grazie alla tredicesima spalmata, i bonus.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Ma oltre alle clausole scritte nel nuovo contratto ce n’è una che Stefano Bandecchi comunica a voce ai suoi dipendenti.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI – REGISTRAZIONE RIUNIONE OTTOBRE 2021 Potete rientrare tutti a lavorare, il presupposto è l’ubbidienza. Se non hai capito cosa vuol dire ubbidienza, non potrai fare un cazzo nella vita.

LUCA BERTAZZONI Perché avete firmato?

EX DIPENDENTE RADIO CUSANO CAMPUS Lì vivi in una bolla dove ci sono le leggi di Unicusano, le leggi di Bandecchi: e se lui la mattina dice che il cielo è rosa, il cielo è rosa anche se è blu.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI – CHAT CON I DIPENDENTI 13/01/2022 Buongiorno, voi avete un problema: il problema è che si possono perdere i posti di lavoro da un momento all’altro. Vuol dire che noi patiremo la fame, o meglio voi, perché io sicuramente, ad oggi, ho denaro per mangiare, bere e dormire per i prossimi mille anni. Detto questo, o vi date una smossa o d’ora in poi comincerò a mandare a casa senza se e senza ma tutti coloro che non fanno il proprio lavoro con coscienza.

EX DIPENDENTE RADIO CUSANO CAMPUS Per anni siamo stati inseriti in una chat aziendale nella quale solo Bandecchi può mandare messaggi vocali.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI – CHAT CON I DIPENDENTI 1/09/2021 Vi ho detto un miliardo di volte a tutti di vestirvi in maniera dignitosa e invece fate a gara a chi si veste più da coglione.

EX DIPENDENTE RADIO CUSANO CAMPUS Tutta una serie di vessazioni che, come delle goccioline, piano piano, piano piano, hanno scavato e hanno convinto me, così come anche altri, che al di fuori dell’Unicusano non c’era nulla.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI – CHAT CON I DIPENDENTI 12/03/2020 La mail che vi parla delle ferie è azzerata, quella mail non conta un beato cazzo. Quando sarà finito questo periodo di crisi, riparleremo delle vostre maledette ferie di merda, adesso vanno in ferie soltanto quelli che lo stabilisco io. Grazie e buona serata.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Oltre ai mezzi di comunicazione, l’università Niccolò Cusano è proprietaria anche della Ternana Calcio. In città c’è grande attesa per la partita contro il Benevento, ma soprattutto per il ritorno allo stadio di Stefano Bandecchi, che è anche presidente della squadra. Con la Ternana che galleggia a metà classifica del campionato di serie B, alla fine del precedente incontro casalingo perso contro il Cittadella, Bandecchi viene duramente contestato dalla curva.

TIFOSI TERNANA Pagliaccio! Sei un pagliaccio!

GIORNALISTA Presidente, ma è vero che ha sputato ai tifosi o no?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI - CONFERENZA STAMPA 25/02/2023 Sì, hanno sputato a me e io ho sputato a loro. Perché, secondo lei, la seconda volta che mi arriva uno stronzo che mi sputa io sto qui a farmi sputare? Ma che siete rincoglioniti? Signori, cominciamo a snebbiarci la mente: prima di essere ogni cosa, io sono un uomo come gli altri. Se mi sputano in tre, io non solo gli risputo, ma se non c’era la fossa, gli davo due pizze in faccia. Ma di che cazzo stiamo a parlà? Signori, con calma: a me non dovete rompere il cazzo. Non penserete mica che mando affanculo i tifosi perugini e non riesco a mandare affanculo i tifosi ternani. Signori, a Livorno soffia sempre il vento per me perché io sono nato stronzo. Ma stiamo a giocà? Ma qui ogni scemo viene qua, lascia 30 milioni e voi pensate di sputargli? Ma che cazzo di piazza siete? Sveglia, che dove cazzo vado vado, a me mi prendono con i tappeti rossi.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nel 2017 la famiglia Longarini, proprietaria della Ternana, è in gravi difficoltà economiche e la squadra rischia di non potersi iscrivere al campionato. In suo soccorso arriva allora l’Università telematica Niccolò Cusano.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI A me venne chiesto da parte di alcune persone importanti se potevamo interessarci…

LUCA BERTAZZONI Se poteva comprare.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Comprare è un parolone, perché noi ricordo sempre che abbiamo pagato un paio di milioni di debiti e non l’abbiamo comprata, cioè non abbiamo pagato questa squadra, l’abbiamo presa e l’abbiamo mantenuta.

LUCA BERTAZZONI Il giocattolino però costa, no.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Mah, il giocattolino costa l’ira di Dio.

LUCA BERTAZZONI 11 milioni di stipendi più o meno, no

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Forse di più.

GIANGAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Dal 2017 al 2020 questa Ternana Calcio ha perso 58 milioni di euro e l’università con i suoi soldi recuperati dagli studenti gli ha dato milioni di euro.

LUCA BERTAZZONI Lei in questi anni, ha messo, lei, Unicusano scusi, perché non sono soldi suoi, diciamo, ha messo 29 milioni di euro nella Ternana.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Ma secondo me sono sbagliati i suoi calcoli perché manca tutto il 2022. Andando avanti ci si mette di più. Quest’anno ci metteremo 16, 17

LUCA BERTAZZONI Ah, quindi cresce, tant’è che nell’ultimo bilancio c’è scritto che le previsioni per il futuro sono comunque negative e che l’azionista principale, cioè Unicusano, cioè lei, dovrà ancora intervenire per ripianare.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Unicusano, non io.

LUCA BERTAZZONI Ed è questo quello che le contesta quest’inchiesta fra le varie cose.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Quello che contesta quest’inchiesta è proprio una supercazzola, ma di quelle vere.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La supercazzola di cui parla Bandecchi è un’inchiesta della Guardia di Finanza che ha portato al sequestro di venti milioni di euro a Unicusano per evasione fiscale. I soldi investiti dall’università nella Ternana non rientrerebbero nelle tre missioni fondamentali di un ateneo.

GIANGAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO L’università deve insegnare, deve fare ricerca e deve applicare la ricerca all’economia del Paese.

LUCA BERTAZZONI Come le viene in mente, in quanto università, di comprarsi una squadra di calcio?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Ci viene in mente perché l’università, che sta sul mercato come tutte le altre università, aveva bisogno di questa notorietà.

LUCA BERTAZZONI Le contestano anche il fatto che lei abbia seguito la squadra in trasferta: 110 mila euro per aerei privati pagati dall’università.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Hanno sbagliato, nel senso che penso di aver speso molto di più. L’università è proprietaria della Ternana e io sono il presidente della Ternana e dell’università. Come ci devo andare, con Air One, a vedere la partita? O ci posso andare come mi pare?

LUCA BERTAZZONI Ma perché con i soldi dell’università?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Perché io vado a lavorare, sono qui e potevo stare a casa al mare, sono a vedere la mia squadra di calcio e ci vado con i soldi dell’università perché l’università deve finanziare quest’operazione.

LUCA BERTAZZONI Così si fa confusione fra le società.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI No, non si fa confusione. No, fa confusione solo chi non guarda i bilanci e chi non capisce questi passaggi.

LUCA BERTAZZONI Unicusano ha investito in questi anni milioni di euro esentasse.

GIANGAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Investito? Ma se perde glieli ha regalati, l’investimento è qualcosa che uno mette lì al fine di produrre reddito, di produrre ricchezza. In una società di calcio si versano a fondo perduto i soldi, quindi ha preso i soldi dell’università, li ha dati alla Ternana e su questi soldi non ha pagato le tasse.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI La nostra università non ha debiti e con le marginalità lo Stato italiano, in base all’articolo 41 della Costituzione, dice: “Ci fate quello che volete”. Meno che rubarli.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non li avrebbe rubati, ma li avrebbe sottratti al welfare, non pagando le tasse. Avrebbe, dunque, non contribuito alla sanità, all’assistenza dei più fragili, all’insegnamento, non pagando le tasse su quei proventi sottratti all’università e investiti in presunte attività commerciali. Ora, stendiamo un velo sull’idea che ha Bandecchi dell’utilizzo dei mezzi di comunicazione da utilizzare come un manganello da sventolare contro quei politici che gli mettono i bastoni tra le ruote. Stendiamo un velo anche sui contenuti di quei messaggi vocali che inviava ai lavoratori che ha licenziato una sera, riassumendoli la mattina con condizioni peggiorative di qualità di lavoro e anche economiche. Il tema, semmai, è un altro: che Bandecchi è stato appena eletto sindaco e ha annunciato già l’idea di candidarsi tra tre, quattro anni al parlamento. Ecco, immaginiamo che il politico Bandecchi porterà queste sue filosofie di vita nella politica nazionale. Ecco, in un contesto come questo ne avevamo bisogno? Poi, insomma, tornando ai soldi, la procura di Roma ha chiesto il sequestro di oltre venti milioni di euro perché Unicusano si sarebbe comportata come una holding di partecipazioni societarie commerciali e imprenditoriali. Cioè, sarebbe venuto meno il presupposto per il quale, quando uno studente paga una retta all’università, è esentasse. Ecco, qui invece Bandecchi le avrebbe utilizzate non solo per scopi politici ma soprattutto, accusa la Guardia di Finanza, per attività commerciali. Quali oltre la squadra di calcio e le carriere politiche?

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La sede centrale dell’Università Niccolò Cusano è a Boccea, quartiere periferico di Roma Ovest. Per arrivarci con la metropolitana si scende al capolinea, fermata Battistini, sponsorizzata proprio da Unicusano.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Questo è l’ingresso principale, poi si entra nel nostro ateneo.

LUCA BERTAZZONI Quanti studenti avete?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Noi oggi superiamo i 45mila studenti attivi. Questa come vede è un’aula magna di 600 metri quadri. Da qui praticamente a in fondo là sono 100 metri di segreterie. Questa è la nostra mensa, un orgoglio, il bar. Buongiorno, buongiorno. Questo è il tavolo dove mangio io.

LUCA BERTAZZONI Riservato.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Vede, in tutte le lingue.

LUCA BERTAZZONI Ci si perde qua dentro.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI In totale sono 54mila metri quadri.

LUCA BERTAZZONI Nel fatturato del 2020 c’aveva ricavi per 83 milioni, utili per 25. Insomma…

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Io in questa università prendo il mio stipendio, pago le tasse sul mio stipendio.

LUCA BERTAZZONI Quanto è? tre o quattro milioni?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Quattro milioni.

LUCA BERTAZZONI Cioè, se lo è dato lei?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI La delibera… No, me lo ha dato il Consiglio di Amministrazione, ma adesso lo aumento.

LUCA BERTAZZONI Quanto vale secondo lei oggi questa università?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Ha delle valutazioni che sfiorano i due miliardi e per certe cose li superano.

LUCA BERTAZZONI Se la vuole tenere, dico, lei, questa università?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Ma guardi, allora… Questa università non è propriamente mia, questi sono termini, diciamo, errati. L’università oggi appartiene, l’ha istituita la Società delle Scienze Umane. In parole povere la Società delle Scienze Umane appartiene ad una società che si chiama Ping-Pong e che è mia, punto.

LUCA BERTAZZONI Il giro è quello, chiarissimo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Dalle carte dell’inchiesta emerge che negli anni i fondi dell’università Niccolò Cusano sono stati utilizzati per comprare beni che non hanno nulla a che fare con l’attività dell’ateneo. Due di questi preziosi acquisti sono parcheggiati in garage.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI La Ferrari gialla e la Rolls Royce.

LUCA BERTAZZONI Le è stata contestata questa da 550 mila euro e la Ferrari da 510 mila.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Ho già detto di venderla perché mi sta già antipatica.

LUCA BERTAZZONI Le sta antipatica la Ferrari?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Vede, l’invidia è una cosa che non ho mai compreso. Io non l’ho mai guidata, guardi, non ci ho fatto neanche un giro sulla Ferrari gialla perché è elettrica e a me non piace.

LUCA BERTAZZONI Non le piace la macchina elettrica

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Invece la Rolls Royce io l’ho usata spesso. Questa è la terza Rolls Royce, nessuno ce l’ha mai contestata. Questa macchina non è intestata a Stefano Bandecchi, è intestata all’università Niccolò Cusano.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La Rolls Royce è il modello Phantom VIII: 6700 di cilindrata, 571 cavalli. Grazie agli interni in pelle rifiniti a mano è considerata la regina dell’eleganza fra le berline. Da capogiro le prestazioni della Ferrari: 0-100 in 2,5 secondi e 0-200 in 6,5. Velocità massima: 340 km/h.

LUCA BERTAZZONI Che ci fa un’università con la Ferrari?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Glielo spiego: ci va in giro qualcuno, il presidente, il vicepresidente, chi gli pare. Oppure è a disposizione degli studenti quando studiano automotive.

LUCA BERTAZZONI Ah, l’università dà la Ferrari agli studenti?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI No, non gliela dà. Gliela fa vedere, gliela mette davanti agli occhi. Lei mi può dire: che te ne fai?

LUCA BERTAZZONI Questo io le sto chiedendo.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Va bene, io l’ho detto, io voglio averla. L’altra domanda invece è: la posso comprare o non la posso comprare?

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il problema è che quelle auto non le ha comprate il privato cittadino Stefano Bandecchi, ma l’università Niccolò Cusano che, come tutti gli atenei, è esente dalle imposte sui redditi.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Le rette universitarie lo Stato le ha detassate per permettere al contribuente di spendere evidentemente il meno possibile, ma è colpa nostra? No.

LUCA BERTAZZONI Vi hanno fatto questo sequestro di 20 milioni di euro.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Quasi 21.

LUCA BERTAZZONI Loro sostengono che ci sia un’evasione fiscale perché voi agite come holding in realtà in partecipazioni diverse da quelle universitarie, quindi avete attività prettamente commerciali.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI La Guardia di Finanza deve anche imparare a leggere e scrivere, non si deve venire a laureare all’università Niccolò Cusano, dato che evidentemente ci considera pessimi. Quasi 4mila si sono laureati di loro qui e si vede.

LUCA BERTAZZONI È un messaggio che manda alla Finanza questo?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI No, io gli ho chiuso la convenzione. Per me sono gente che non godono del mio rispetto.

GIANGAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO L’università svolge un’attività sociale quindi è giusto che non paghi imposte, ma questa è un’università? Questa è la struttura del gruppo Unicusano, contiene decine di società. Ha una società a Cipro che si chiama Unicusano Global Alternative Investment che non è un’università, ma non sappiamo cosa c’è dietro. Una società in Cina che fa commercio all’ingrosso di alimenti preconfezionati che si chiama Pappa Pronta di Suzhou, una società in Russia che costruisce serre. Dopodiché c’ha un sacco di altre società: il trasporto aereo con Cusano Air, un’immobiliare, Ugo, la radio che perde il 20% del fatturato.

LUCA BERTAZZONI Qua c’è il reparto alimentare.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Il reparto alimentari. Che guadagnerà? No, perde. La Ping Pong, che fa corsi di formazione, si è incorporata una società che commercia animali vivi, boh

LUCA BERTAZZONI Perché dice lei?

GIANGAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Sicuramente l’amministratore ha una visione, io non l’ho capita questa visione. Se nota, perdono tutte.

LUCA BERTAZZONI Lei lo sa in questi anni quanto è uscito da questa università per finanziare queste società collegate?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Quanto è uscito?

LUCA BERTAZZONI 86 milioni.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Ma no, sono usciti di più perché se fossero usciti solo 86 milioni non avremmo finito di pagare queste due sedi. Mi fa capire?

LUCA BERTAZZONI Dice la Finanza che non dovevate investirli lì, in attività commerciali perché sono l’80% di quello che voi fate e allora diventate un ente commerciale, una società commerciale

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Quei soldi fanno nascere del lavoro perché noi abbiamo sempre collegato la terza missione ai nostri investimenti quindi io vedo un rispetto regolare della legge.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La terza missione è l’applicazione della ricerca universitaria nell’economia reale. Le società partecipate o possedute interamente da Unicusano si occupano di organizzazione eventi, di commercio di alimenti pre-confezionati e di cosmetici. Nelle casse di Naturalia Sintesi, acquistata nel 2019 per un milione di euro, nel corso degli anni l’ateneo ha versato un milione e mezzo.

LUCA BERTAZZONI Immaginerà il motivo per cui siamo qui, no.

DIPENDENTE NATURALIA SINTESI No, devo immaginarlo?

LUCA BERTAZZONI Perché questa Naturalia è di Unicusano, giusto, l’università.

DIPENDENTE NATURALIA SINTESI Sì.

LUCA BERTAZZONI Volevamo capire un po’ che cosa

DIPENDENTE NATURALIA SINTESI Cosa fa?

LUCA BERTAZZONI Cosa fa, esatto.

DIPENDENTE NATURALIA SINTESI Prodotti cosmetici.

LUCA BERTAZZONI Ho visto che Unicusano ci ha messo parecchi soldi nel corso di questi anni dentro

DIPENDENTE NATURALIA SINTESI Questo bisogna chiederlo a loro, io non conosco i loro investimenti.

LUCA BERTAZZONI Ma dentro c’è attività di fabbrica al momento o no?

DIPENDENTE NATURALIA SINTESI Sì.

LUCA BERTAZZONI Non è che ce la fa vedere, no?

DIPENDENTE NATURALIA SINTESI No.

LUCA BERTAZZONI Ci sono dei laboratori?

DIPENDENTE NATURALIA SINTESI Sì, che è un po’ il motivo di legame fra questa azienda e la Unicusano.

LUCA BERTAZZONI Eh, però l’inchiesta contesta proprio questa cosa.

DIPENDENTE NATURALIA SINTESI Sì, questo lo so, lo sappiamo tutti.

LUCA BERTAZZONI Cioè il nesso fra un’università e un prodotto cosmetico.

DIPENDENTE NATURALIA SINTESI Si vedrà chi ha ragione.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Ha due linee di produzione, una che fa creme anti age e una che fa integratori, esattamente…

LUCA BERTAZZONI Terza missione questa è secondo lei?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Certamente, ma scusi…

LUCA BERTAZZONI Anche Energy Sun?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Energy Sun è incorporata da Naturalia per la sua funzione.

LUCA BERTAZZONI Di centro estetico.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Eh sì, fa il centro estetico.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO L’attività della Energy Sun, di proprietà di Unicusano, si trova proprio a pochi passi dall’ateneo.

DIPENDENTE 1 ENERGY SUN La lampada.

MARZIA AMICO Ah, queste sono per la lampada?

DIPENDENTE 1 ENERGY SUN Sì, questa è la zona solarium. Quella è uguale all’altra, solo che non abbronza la schiena.

MARZIA AMICO E queste sono le cabine per la cera? DIPENDENTE 1 ENERGY SUN Sì, per l’estetica.

DIPENDENTE 2 ENERGY SUN Tienile sempre così corte come ce le hai adesso praticamente. Facciamo anche trattamenti del corpo.

MARZIA AMICO Tipo massaggi?

DIPENDENTE 2 ENERGY SUN Esatto, epilazione laser.

MARZIA AMICO Trattamenti per uomo?

DIPENDENTE 2 ENERGY SUN Sì, dalla cera al viso, al corpo. Noi abbiamo il primo trattamento corpo a 35 euro adesso.

MARZIA AMICO So che voi un po’ lavorate con la Niccolò Cusano.

DIPENDENTE 2 ENERGY SUN Sì, diciamo che è lo stesso proprietario.

LUCA BERTAZZONI Cuochissimo: imballaggio e confezionamento di generi alimentari.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Cuochissimo è anche proprietario di un altro marchio, si chiama Universo Pane. Noi abbiamo ingegneria agro-industriale, agro-alimentare, ma abbiamo anche ingegneria gestionale.

LUCA BERTAZZONI Rientra anche questo? Idem la società agricola Mangiaverde?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Si è piantato nella società agricola Mangiaverde 7mila mandorleti. Noi abbiamo sempre la solita ingegneria agroalimentare.

LUCA BERTAZZONI Sememio pure?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Sememio, certo. È proprietaria anche di 15, di 17 sementi fondamentali e noi come università ci siamo accaparrati queste sementi e le abbiamo messe là.

LUCA BERTAZZONI La Finanza dice: “l’università faccia l’università, punto”.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI La Finanza non può dire un cazzo perché non fa le leggi in Italia quindi la Finanza si deve limitare a fare il suo lavoro, giusto? L’università Niccolò Cusano fa solo l’università. Poi l’università ha fondato delle società, ho capito, che sono indipendenti dall’università.

LUCA BERTAZZONI Le contestano anche le sue spese personali: 1,9 milioni, no, di fondi dell’università.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI I soldi dell’università io non li ho mai spesi.

LUCA BERTAZZONI 1,1 milioni di euro in spese di aerei privati. Capodanno 2017 a Dubai: 135mila euro di aereo più 90mila euro di albergo per quattro giorni.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Io ho una società a Dubai, a Dubai ci vado come mi pare e spendo quello che voglio. Ma se vogliono i soldi miei…

LUCA BERTAZZONI A Capodanno? Ci è andato in vacanza, possiamo dirlo?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI No, non è così perché vede, scusi, a Dubai sono musulmani, hanno anche la vacanza ma fanno festa il venerdì. Allora, detto questo… Io voglio ricordarglielo, scusi.

LUCA BERTAZZONI Alle Bahamas l’anno dopo è la stessa cosa: 200mila euro di aereo più 68mila di hotel.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Mi fa piacere! Ascolti, sono stato anche a Miami, dove sempre ho degli interessi. Ora le voglio dire una cosa, cioè io avrei rubato questi soldi all’università? Ascolti.

LUCA BERTAZZONI Mi dica lei, mi dica lei, certo.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Voglio confessare: ho rubato questi soldi all’università. 1 milione e 800mila euro in 16 anni? Devo pagare una multa? Perché hanno preso 21 milioni all’università? Se sono io, che mi portino via in manette. La Finanza qui ha preso una grande toppata, ha speso un pacco di quattrini, sta nella merda e ha tirato fuori una serie di supercazzole anziché chiedere scusa. C’hanno rotto i coglioni in Italia dicendoci che il Pubblico Ministero lavora per tutti e due, d’accordo? E voglio che si sappia che ho ancora il microfono e che lo so bene. Quando il Pubblico Ministero lavora per tutti e due, allora dovrebbe vedere le carte di tutti e due, no, e non rispondere che se noi gli diciamo, se noi gli diciamo che si stanno sbagliando neanche guarda le nostre carte perché la Finanza ha fatto un’ottima indagine, ‘sto cazzo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Diciamo che nella biblioteca dell’università Unicusano manca un libro: Il Galateo di Giovanni Della Casa. Ora, fa impressione vedere che cento milioni di euro incassati dall’università, che sono poi le rette degli studenti incassate esentasse, siano stati, almeno secondo le accuse della Guardia di Finanza, investiti in attività commerciali. Ora, secondo le carte, sarebbero state le attività commerciali l’80% delle immobilizzazioni finanziarie dell’università. Ora, però, se si va a vedere bene queste attività, sono praticamente quasi tutte in perdita. Dunque, Bandecchi non è che abbia dato poi così prova di essere un amministratore virtuoso. L’unica cosa che funziona, che va a gonfie vele, è Unicusano. E infatti, basta vedere i dati: 83 milioni di ricavi nel 2020. E poi gli iscritti: sono passati da 738 del 2006 ai 26mila dell’anno accademico del 21/22. E Bandecchi dice che gli studenti attivi in questo momento sarebbero 45mila. Insomma, un numero impressionante. Unicusano contribuisce alla formazione della classe dirigente del nostro Paese. Oltre cinquanta politici laureati, ci sarebbero anche 4000 uomini della Guardia di Finanza, ci ha detto Bandecchi, con la quale aveva aperto una convenzione, l’ha interrotta, però, dopo l’inchiesta perché non gli è piaciuta l’indagine, ha detto: hanno lavorato male. Ora, se questo è vero lo deciderà, ovviamente, la magistratura, ma se fosse vero, Bandecchi dovrebbe fare anche mea culpa perché, insomma, li ha formati la sua università. E come? Come funzionano i corsi e come funzionano gli esami? Tra trenta secondi, dopo il golden minute.

GOLDEN MINUTE STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Questa università è partita con tre corsi di laurea e poi piano piano ha aperto gli altri anche seguendo poi una logica proprio di sviluppo. Con ingegneria abbiamo ottenuto direi il massimo fino a oggi dell’eccellenza.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nata nel 2006, la Niccolò Cusano è oggi una delle più importanti università telematiche in Italia e offre corsi di laurea in aree di studio che vanno dalla giurisprudenza alla psicologia, all’economia. Tutte le lezioni dei professori sono registrate e messe on line sulla piattaforma dell’università.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Da tutto il mondo chiunque si può collegare, può interfacciarsi con i nostri professori.

LUCA BERTAZZONI Quindi lo studente può scegliere se venire in presenza o se da casa.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Lo studente una mattina può venire in presenza e una mattina può restare a casa o può andare anche in vacanza alle Maldive.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Ma come funziona realmente l’eccellenza di cui parla Bandecchi?

VIGILANTE UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO I ragazzi vorrebbero delle informazioni per iscriversi. Anche lei si deve iscrivere?

MARZIA AMICO È la stessa esigenza.

MARZIA AMICO Salve, buongiorno.

TUTOR UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO Prego, andiamo.

MARZIA AMICO La seguo.

TUTOR UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO Il costo della magistrale è di 4mila euro annui: non ci sono tasse d’esame, non deve acquistare nessun libro. Tutor, video ricevimenti: è tutto incluso nella retta.

MARZIA AMICO voi che fate, io volevo fare scienze politiche?

STUDENTE 1 UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO Ingegneria. Se paragoniamo ad altre università l’impegno è minore.

STUDENTE 2 UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO È meno tosta di magari altre università.

STUDENTE 3 UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO Se tu devi studiare hai i riassunti sul sito già fatti dal professore: slide e riassunti, studi da là.

STUDENTE 4 UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO mettono a disposizione sulla piattaforma per ogni esame una dispensa.

MARZIA AMICO Non sono tante pagine.

STUDENTE 5 UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO No, non ti fanno studiare cose che poi non ti chiedono all’esame.

STUDENTE 6 UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO Parlando con la tutor: “facciamo questa domanda e questa domanda”.

STUDENTE 7 UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO Non è come La Sapienza, non è come Roma Tre. Io lavoro, ho dato già 5 esami in un anno e ho la media del 28. Studiato… Non è che mi sono ammazzato.

MARZIA AMICO Come sono gli esami?

STUDENTE 8 UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO Devi stare tranquilla perché trovi una situazione molto soft rispetto all’università pubblica.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Se i titoli rilasciati dalle università statali e da quelle private hanno lo stesso valore legale, i principi costitutivi hanno logiche molto diverse.

EX PROFESSORESSA UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO Le università telematiche nascono come imprese commerciali che contano su quanti studenti hanno, ovviamente godendo di un privilegio concesso dallo Stato, cioè quello di concedere titoli con valore legale.

LUCA BERTAZZONI Lei ha insegnato tanti anni ad Unicusano, che situazione ha trovato?

EX PROFESSORESSA UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO La dittatura del consumatore perché insomma questi studenti avevano l’atteggiamento di chi dice: “io ho pagato e voglio il servizio”. Il servizio è il titolo e in qualche modo gli veniva garantito. Per cui secondo loro non potevamo bocciare.

LUCA BERTAZZONI E lei insieme al corpo docenti non ha segnalato questa cosa?

EX PROFESSORESSA UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO Inviammo anche al ministero vari rapporti su tutte le irregolarità che avvenivano all’Unicusano e ci accorgemmo che al signor Bandecchi era immediatamente arrivata notizia di queste comunicazioni al ministero e quindi significa insomma che avevano rapporti abbastanza stretti con questi funzionari del ministero.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A controllare la validità dell’offerta formativa di tutti gli atenei, telematici e tradizionali, è l’Anvur, Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca.

GIUSEPPE DE NICOLAO - PROFESSORE INGEGNERIA INDUSTRIALE UNIVERSITA' DI PAVIA Tutti gli atenei sono sottoposti a visite di accreditamento periodico.

LUCA BERTAZZONI E riesce, diciamo, secondo lei, l’Anvur a vigilare?

GIUSEPPE DE NICOLAO - PROFESSORE INGEGNERIA INDUSTRIALE - UNIVERSITA' DI PAVIA Allora, questa, diciamo, è una bella domanda.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Paolo Miccoli, professore ordinario di Chirurgia Generale dell’Università di Pisa, entra nel consiglio direttivo di Anvur nel 2015, scrivendo un documento programmatico molto particolare.

LUCA BERTAZZONI Sostanzialmente copiò buona parte del tema, no, che presentò per la sua candidatura.

PAOLO MICCOLI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE UNIVERSITA’ TELEMATICHE 2018- 2020 No, non è esatto. Io non copiai il tema.

LUCA BERTAZZONI L’errore, diciamo, che lei si rimprovera è stato quello di non aver virgolettato alcuni passaggi, 4 o 5 passaggi presi da altri studi?

PAOLO MICCOLI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE UNIVERSITA’ TELEMATICHE 2018 – 2020 Sì.

LUCA BERTAZZONI In quegli anni diciamo 7 università telematiche su 11 hanno avuto un giudizio “condizionato”, che vuol dire?

PAOLO MICCOLI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE UNIVERSITA’ TELEMATICHE 2018 – 2020 Alcune di queste telematiche venivano accreditate con riserva, vale a dire che venivano ri-valutate pochi anni dopo per dare loro il tempo di adeguarsi.

LUCA BERTAZZONI E poi, infatti, nel 2020 6 di queste 7 hanno avuto un giudizio positivo.

PAOLO MICCOLI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE UNIVERSITA’ TELEMATICHE 2018 – 2020 Esatto, avevano sanato le loro problematiche che erano soprattutto sull’assicurazione della qualità della didattica.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Con il professor Miccoli promosso a presidente del Consiglio Direttivo di Anvur Unicusano ottiene un risultato eccezionale.

GIUSEPPE DE NICOLAO - PROFESSORE INGEGNERIA INDUSTRIALE - UNIVERSITA' DI PAVIA Per quello che riguarda la ricerca, Unicusano per il settore dell’ingegneria industriale dell’informazione si colloca al secondo posto, mentre il Politecnico di Milano si colloca al quindicesimo e il Politecnico di Torino al trentasettesimo. Leggendo questi risultati e queste classifiche, verrebbe da pensare che venga consigliato di mandare i propri figli ad Unicusano piuttosto che al Politecnico di Milano o di Torino.

LUCA BERTAZZONI Lei è stato cinque anni in un ente che di fatto controllava la validità dell’offerta formativa delle telematiche, ora è presidente di un’associazione che rappresenta sette università telematiche. Non lo trova inopportuno questo?

PAOLO MICCOLI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE UNIVERSITA’ TELEMATICHE 2018 – 2020 Al contrario. Io credo che, proprio perché ho maturato questa esperienza importante in Anvur, io fossi una persona che poteva dare un contributo allo sviluppo ulteriore delle università telematiche, cerchiamo di dimostrarlo nei fatti che la qualità della didattica erogata è buona.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Talmente buona che per prendere una seconda laurea il tutor di Unicusano, senza nemmeno vedere il nostro piano di studi, ci dice che dobbiamo recuperare al massimo sette esami, da lui definite “carenze formative”. È la parolina magica perché le cosiddette carenze formative funzionano così.

TUTOR UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO Non c’è un voto, è test “superato” o “non superato”. Nel caso in cui non lo dovessi superare, comunque dopo 48 ore lo puoi ripetere per “n” volte in autonomia a casa.

MARZIA AMICO Ok. TUTOR UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO Tutte le materie hanno il manuale. Tu basta che lo hai scaricato, poi se l’hai letto o non l’hai letto sono problemi tuoi. Io ti consiglio, inter nos, nemmeno di aprirlo. Con le carenze formative io non ti vedo, tu puoi benissimo fare la carenza e cercarti su un altro dispositivo le risposte.

MARZIA AMICO Le sette carenze me le smazzo io a casa con… Non so, sono crocette?

TUTOR UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO Sì.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Superate le sette carenze con degli esami a crocette sostenuti dal divano di casa senza alcun controllo e con possibilità di ripeterlo un’infinità di volte, siamo pronti per la seconda laurea.

MARZIA AMICO Dopodiché arriva il bello. TUTOR UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO Dici: “ok, adesso devo studiare le materie della magistrale”. Hai sempre tutto il materiale, riassunti e mappe concettuali già sono tutte pronte.

MARZIA AMICO Preparate dal professore, quindi è questo…

TUTOR UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO È quello che vuole sapere. Tu da studente puoi scegliere se sostenere lo scritto oppure l’orale.

MARZIA AMICO Posso scegliere questa opzione per tutti gli esami?

TUTOR UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO Per tutte le materie.

MARZIA AMICO E non fare mai un esame orale?

TUTOR UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO Comunque, l’orale è più semplice, il professore ti aiuta.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È la filosofia di vita di chi, potendosela permettere, sceglie la scorciatoia nella vita. Ora, premesso che le università telematiche sono importanti perché consentono a chi non può permetterselo per motivi di tempo e di logistica, di frequentare l’università, di acquisire dei titoli ma andrebbe tutelata la qualità della didattica, altrimenti rimane solamente l’impresa commerciale. Queste università telematiche godono del privilegio concesso dallo stato di poter assegnare dei titoli che hanno un valore legale. Ora, gli studenti lo sanno bene, pagano per aver garantito il servizio e le università, ovviamente, vanno loro incontro, agevolandoli nella formazione ma anche nel superamento degli esami. Chi dovrebbe controllare è l’Anvur, l’agenzia nazionale di valutazione del sistema dell’università e delle ricerche. E, poco tempo fa, aveva giudicato critiche le situazioni, le condizioni di sette università telematiche su 11. Poi, dopo, le ha rivalutate e giudicate positive. Il problema è che tra un giudizio e l’altro, insomma, passano, nel periodo di valutazione, ben, dai due ai cinque anni. Ora, vedremo che cosa riscontreranno nel prossimo ciclo di valutazione che comincerà quest’estate, se riscontreranno quello che ha documentato con grande facilità, anche imbarazzante, la nostra Marzia Amico. Poi c’è un problema di opportunità: a capo di un’associazione che tutela gli interessi di sette università telematiche c’è lo stesso che era a capo dell’Anvur, che le valutava, lo stesso che ha posizionato Unicusano sopra i politecnici di Torino e Milano per quello che riguarda la ricerca della facoltà di ingegneria industriale dell’informazione. Ora, senza aspettare che si scomodino gli ispettori del ministero, insomma, l’abbiamo sentito dalle stesse parole degli studenti ma anche del tutor di Unicusano che la formazione e il superamento degli esami è più soft rispetto a quelli di chi si forma nell’università statale. Insomma, è il merito la prima vittima. È diventato carta straccia nel nostro Paese dove ci sono 11 università telematiche, tutte autorizzate dal governo Berlusconi, ministro Letizia Moratti. Poi uno stop c’è stato nel 2013 dalla ministra Carrozza, governo Letta, che ha vietato l’istituzione di nuove università. Oggi su 1.800.000 studenti che si formano in tutte le università d’Italia, il 10% si forma nelle università telematiche e curare, preoccuparsi della qualità della didattica è un problema di chi ha a cuore il futuro del Paese. Altrimenti, non facciamo altro che sponsorizzare, ecco, la logica della scorciatoia, queste università telematiche che continuano a incassare cifre incredibili e poi magari troviamo chi scende in politica utilizzando i soldi dell’università. Insomma, se volete, anche questa è una logica della scorciatoia. E a proposito di scorciatoie nella vita…

Occhio per occhio...Report Rai. PUNTATA DEL 10/07/2023

di Luca Bertazzoni Collaborazione: Marzia Amico

Immagini di Giovanni De Faveri, Carlos Dias, Marco Ronca, Paco Sannino

Report torna a intervistare Stefano Bandecchi

L’inchiesta racconta il conflitto di interessi che il Consiglio Comunale di Terni ha sollevato nei confronti di Stefano Bandecchi, fondatore dell’Università Niccolò Cusano e proprietario della Ternana Calcio, a seguito della sua elezione a sindaco di Terni: la presunta incompatibilità riguarderebbe il suo ruolo di presidente della Ternana Calcio, società che utilizza lo stadio di proprietà del Comune di Terni, di cui Bandecchi è sindaco. Bandecchi ha lasciato la presidenza della squadra, che però è di proprietà di Unicusano, controllata da aziende riconducibili a Bandecchi.

Torneremo a parlare delle condizioni dei lavoratori e degli ex lavoratori dei mezzi di comunicazione di Unicusano, che il fondatore considera “come una pistola da utilizzare contro i politici”. Dopo l’inchiesta di Report, una troupe di Tag24, il sito di informazione dell’Università Niccolò Cusano, è andata sotto casa di una presunta fonte dell’inviato a chiedere conto di alcune dichiarazioni. Un tutor che aveva raccontato come funzionano gli esami dentro Unicusano è stato sospeso dall’azienda per dieci giorni senza stipendio. 

OCCHIO PER OCCHIO… di Luca Bertazzoni Collaborazione: Marzia Amico Immagini di Giovanni De Faveri, Carlos Dias, Marco Ronca, Paco Sannino Montaggio di Igor Ceselli Grafica di Giorgio Vallati

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E ora passiamo dalla vecchia politica al nuovo che avanza, Stefano Bandecchi, il proprietario di Unicusano, ci eravamo occupati poche settimane fa, secondo la guardia di finanza avrebbe utilizzato le rette incassate dagli studenti esentasse per operazioni commerciali eludendo di fatto quella che è la mission dell’università. Insomma, poi abbiamo visto che avrebbe anche finanziato carriere politiche, la sua e quella di altri, con un modello, quello di berlusconi che vuole emulare a tutto tondo con squadre di calcio, tv, radio e conflitto di interesse, il nostro Luca Bertazzoni.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI - COMIZIO TERNI 26 MAGGIO 2023 Bisogna votare per qualcosa di diverso e di nuovo, bisogna votare per Stefano Bandecchi. Guarda che bello… Grazie. “Bandecchi io sto con te perché io sono il futuro di questa città”: fate un applauso a lui e a tutti i bambini come lui. Ora diranno che Bandecchi come Mussolini fa queste cose, qui poi oggi è venuto anche Report signori, dov’è il mio nemico di Report? È là seduto, sta preparandomi la festa per lunedì sera. LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO E invece a far festa è stato proprio Bandecchi, diventato a sorpresa sindaco di Terni, battendo il candidato di centro-destra.

LUCA BERTAZZONI È il nuovo Berlusconi da oggi, ufficialmente, no

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Berlusconi era Berlusconi, io sono io, ognuno ha la propria storia. Io ho cominciato da un comune.

LUCA BERTAZZONI Certo, no, però dicevo, la politica, la squadra di calcio, i mezzi di comunicazione, imprenditore… STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Sa quante persone in Italia…

LUCA BERTAZZONI Imprenditore…

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Mettiamoci un avviso di garanzia!

LUCA BERTAZZONI Presidente Moratti buonasera, sono Luca Bertazzoni di Report. Volevo farle due semplici domande: perché nel 2006, con il governo Berlusconi, che era già caduto, nell’ultimo mese, lei firmò l’autorizzazione per cinque università telematiche? Glielo posso chiedere solo questo? Perché firmò le autorizzazioni quando il governo era già caduto?

LUCA BERTAZZONI Lei ha finanziato Forza Italia, no, nel 2019, 2020 e 2021.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Penso sia un vanto di essere stato dopo la famiglia Berlusconi il secondo finanziatore di Forza Italia. Attualmente il ministro dell’Università chi è, scusi? La senatrice Bernini, una persona che io conosco perfettamente, una persona che io stimo. Pensi che è l’onorevole Bernini ad avermi presentato a Silvio Berlusconi.

LUCA BERTAZZONI In un’altra intervista ha detto che era Tajani, però...

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI L’onorevole Bernini ha stimolato Tajani, il giorno che Tajani mi ha chiamato, la Bernini e Tajani erano insieme a Silvio Berlusconi.

LUCA BERTAZZONI Noi ci stiamo occupando di Unicusano, l’università telematica. Lei ha ricevuto nel 2019 un finanziamento per 100mila euro, volevo capire quali sono i suoi rapporti con Bandecchi.

ANTONIO TAJANI - MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE Tutto regolare, tutto fatto nel rispetto assoluto della legge come ho fatto in tutta la mia vita.

LUCA BERTAZZONI Certo, quello è chiaro, è che io mi domandavo semplicemente sull’opportunità morale oltre che politica di ricevere finanziamenti da un’università su cui voi legiferate.

LUCA BERTAZZONI Poi nel 2022 si butta più su Di Maio e a Impegno Civico gli dà 30mila euro.

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Finanzio anche Di Maio come finanzio anche altri, come ho finanziato anche persone del Pd. Io sono un uomo centrista, sono un popolare, sono una persona che pensa che al centro sta la virtù.

LUCA BERTAZZONI E lei, infatti, si voleva candidare a un certo punto per le scorse politiche con il Terzo Polo. Renzi disse…

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Renzi disse ok e Calenda disse che ero un fascista. Detto questo, però, le posso dire che ci sono tanti onorevoli che si sono laureati qua. Sì.

LUCA BERTAZZONI Tanti?

STEFANO BANDECCHI - PRESIDENTE CDA UNICUSANO – PRESIDENTE TERNANA CALCIO – SINDACO DI TERNI Credo molto più di cinquanta.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La fucina dei cervelli politici. Ora Bandecchi è indagato. La guardia di Finanza ha sequestrato 20 milioni di euro perché ipotizza che Bandecchi avrebbe utilizzato le risorse provenienti dalle iscrizioni degli studenti esentasse alla sua università oltre che per acquistare la Ternana anche per imprese commerciali come i centri estetici. Invece di utilizzarli come sarebbe la mission dell’università per insegnamento, ricerca, ricerca applicata all’economia del territorio. Insomma, vedremo come andrà a finire. Poi però abbiamo anche visto che Bandecchi ha utilizzato questi soldi per finanziare le carriere politiche compresa la sua. 100 mila euro avrebbe finanziato il partito Alternativa popolare di cui è diventato presidente e coordinatore nazionale nel 2022, era il partito fondato da Alfano nel 2017. è sceso in politica, ha vinto le elezioni come sindaco di Terni, aspira al Parlamento nazionale, però, poi c’è stato il primo consiglio comunale e è spuntata fuori la questione del conflitto di interessi perché Stefano Bandecchi sindaco deve decidere sulla ristrutturazione dello stadio dove gioca la Ternana di cui Bandecchi è anche presidente. Ternana, che è di proprietà di UniCusano, dove anche lì Bandecchi è presidente del consiglio di amministrazione e di fatto anche proprietario della stessa università, e come tale ha inviato i suoi giornalisti a occuparsi del consiglio comunale, ma non del suo conflitto di interessi. Li ha mandati a verificare cosa stesse facendo il nostro Luca Bertazzoni. Già perché dopo la nostra puntata gli è andato qualcosa di traverso, non l’ha digerita e ha inaugurato una nuova rubrica sulla sua televisione, “Occhio per occhio, dente per dente". Oggetto di questa rubrica è Report, la cura direttamente Stefano Bandecchi, il nuovo moderato che avanza.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A Terni va in scena il primo consiglio comunale dell’era Bandecchi. Tra i tanti giornalisti presenti c’è anche la troupe di Tag24, il quotidiano on line dell’università Niccolò Cusano.

LUCA BERTAZZONI Buongiorno, facciamo la meta televisione. Aspettavate noi?

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 No, siamo qua per seguire il consiglio.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nonostante l’importanza della seduta in cui si discute della convalida degli eletti, primo fra tutti Stefano Bandecchi, i colleghi di Tag24 sembrano più interessati alla nostra presenza.

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 Ma voi che interesse avete a venire qua a Terni a seguire il consiglio comunale?

LUCA BERTAZZONI Facciamo i giornalisti, abbiamo fatto un pezzo su Bandecchi e continuiamo a seguire Bandecchi. THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 Ma perché certe interviste che avete fatto a Report le avete tagliate tutte?

LUCA BERTAZZONI Perché tu non li fai i tagli? Mandi l’integrale generalmente?

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 Sì, ma i tagli vanno fatti in una certa maniera.

LUCA BERTAZZONI Tu hai visto l’intervista integrale?

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 Sì.

LUCA BERTAZZONI Come hai fatto a vederla?

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 Ho parlato con il professore.

LUCA BERTAZZONI Ah, non hai visto l’integrale allora.

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 Il professore ha detto che l’avete…

LUCA BERTAZZONI Il professore ha detto… tu non hai visto l’intervista.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Per tutte le 6 ore della seduta ci troviamo puntati addosso telecamera, microfono e cellulare di Tag24. Eppure l’argomento del consiglio comunale è il conflitto di interessi di Stefano Bandecchi.

CINZIA FABRIZI - CONSIGLIERA COMUNALE TERNI - FRATELLI D’ITALIA L’incompatibilità sollevata dalla relazione del signor Bandecchi è una questione che riguarda tutti i cittadini.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Non è che posso stare qua un’ora a perdere tempo, come non lo può fare questo consiglio comunale che ha altro da fare perché i problemi di Terni sono altri, quindi se deve solo leggere quello che io ho letto 4 giorni fa come tutti per me è inutile, quindi io mi alzo e me ne vado.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A sollevare la questione del conflitto di interessi è stata la relazione del segretario comunale di Terni, non particolarmente apprezzata dal neo sindaco.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Io non ho più fiducia nel segretario e siccome me lo devo tenere per 60 giorni me lo terrò. Il segretario sta zitto e fa bene a star zitto secondo me, perché già di minchiate ne ha dette parecchie. E lo so che stiamo andando in diretta e sono felice. Mi scusi, chiedo perdono per le minchiate.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO I problemi per Bandecchi riguardano il suo ruolo di presidente della Ternana Calcio, società che utilizza lo stadio di proprietà del Comune di Terni, di cui Bandecchi è sindaco.

JOSE’ KENNY - CONSIGLIERE COMUNALE TERNI - PARTITO DEMOCRATICO Questo stadio è stato dato in concessione proprio alla Ternana Calcio per fare le sue partite e il problema è che adesso il proprietario della squadra che gioca in questo stadio e che ha avuto in concessione questo stadio è anche il sindaco della città di Terni.

LUCA BERTAZZONI Oltretutto questo stadio deve essere ristrutturato.

JOSE’ KENNY - CONSIGLIERE COMUNALE TERNI - PARTITO DEMOCRATICO Stefano Bandecchi si è fatto garante di questa ristrutturazione necessaria per lo stadio e vorremmo capire adesso chi rifarà la ristrutturazione.

FRANCESCO FILIPPONI - CONSIGLIERE COMUNALE TERNI - PARTITO DEMOCRATICO Chiedo al sindaco di rimuovere tutte le possibili incompatibilità che la frappongono potenzialmente al ruolo di sindaco di questa città.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Ad oggi il mio conflitto è risolto, non l’ho mai avuto per quanto mi riguarda, ma è risolto perché io mi sono dimesso da presidente dell’Università Niccolò Cusano e da presidente della Ternana. Se il presidente è d’accordo avete 10 minuti… Arrivederci.

MARCO CELESTINO CECCONI - CONSIGLIERE COMUNALE TERNI - FRATELLI D’ITALIA Grazie all’intervento del sindaco.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La mossa a sorpresa di Bandecchi arriva in aula proprio davanti agli occhi del neo presidente della Ternana, l’ex arbitro di serie A Paolo Tagliavento, noto per il famoso gesto delle manette che gli rivolse Josè Mourinho nel 2010.

LUCA BERTAZZONI Presidente quindi. No, non scappi. Da vicepresidente a presidente.

PAOLO TAGLIAVENTO - PRESIDENTE TERNANA CALCIO Beh, diciamo amministratore unico.

LUCA BERTAZZONI Cioè deciderà lei però adesso, ufficialmente.

PAOLO TAGLIAVENTO - PRESIDENTE TERNANA CALCIO Ovviamente sì.

LUCA BERTAZZONI Si rapporterà al sindaco Bandecchi quando dovrete parlare di questioni di stadio?

PAOLO TAGLIAVENTO - PRESIDENTE TERNANA CALCIO Assolutamente no, questa è un’autonomia nostra e sarà così.

LUCA BERTAZZONI Quindi voi… Cosa cambia nel rapporto? Adesso Bandecchi non mette più bocca sulla Ternana? PAOLO TAGLIAVENTO - PRESIDENTE TERNANA CALCIO È successo da poche ore, assolutamente no.

LUCA BERTAZZONI Non metterà più bocca… Ci crede lei?

PAOLO TAGLIAVENTO - PRESIDENTE TERNANA CALCIO Assolutamente sì.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Ma i documenti presentati in aula da Bandecchi non risolvono i dubbi dei consiglieri.

ELENA PROIETTI TROTTI - CONSIGLIERA COMUNALE TERNI - FRATELLI D’ITALIA Oggi abbiamo l’istruttoria del segretario generale che i dubbi ce li dà e non ce ne dà neanche pochi. Quindi io credo che sia necessario un approfondimento per capire se questi due verbali bastino a superare tutto quello che c’è scritto all’interno della prima istruttoria del segretario generale.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI A me qua non mi togliete come sindaco, come non mi toglierete come candidato forse in Regione e come non mi toglierete come segretario di un partito che tende ad arrivare a Roma. LUCA BERTAZZONI Ora si è dimesso e sostiene che così facendo ha risolto il suo conflitto di interessi.

JOSE’ KENNY - CONSIGLIERE COMUNALE TERNI - PARTITO DEMOCRATICO Il conflitto di interessi non è stato risolto perché la Ternana Calcio è controllata da Unicusano e anche il sindaco Bandecchi ha rassegnato le dimissioni come presidente di Unicusano, ma Unicusano continua ad essere controllata da altre società che fanno capo al sindaco Bandecchi.

LUCA BERTAZZONI Il conflitto di interessi a Terni.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Risolto.

LUCA BERTAZZONI Risolto. Lo dice lei.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI No, io mi sono dimesso dall’università Niccolò Cusano, lei avrà notato che lì c'è scritto “Società delle Scienze Umane”.

LUCA BERTAZZONI Che appartiene alla Ping Pong, che è sua.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Sì.

LUCA BERTAZZONI Quindi si è dimesso dalla carica di presidente, però la proprietà è riconducibile comunque a lei. Possiamo dirlo?

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI No, non possiamo dirlo perché l’università Niccolò Cusano è un ente pubblico non statale, esattamente un ente universitario, punto.

LUCA BERTAZZONI Che però appartiene alla Società delle Scienze Umane che determina tutta la politica economica, nomina il Presidente del Consiglio di Amministrazione, nomina tutto il Cda. Quindi dipende da una società.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Ma mi scusi, la segretaria del Comune che risponde a Fratelli d’Italia non lo ha scritto. Quindi siccome nessuno ha ancora alzato questo problema mi permetta di dire che è un problema degli altri.

LUCA BERTAZZONI Quindi lei pensa di averlo risolto così il conflitto di interessi?

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Ancora? Scusi, lei mi deve rispondere: “lei fino ad oggi l’ha risolto, se nessuno le rompe ancora i coglioni è tutto risolto”. Bravo, questa è la risposta giusta.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Sarà il prefetto a stabilire se il conflitto di interessi permane oppure no. Nel frattempo, Bandecchi ha finalmente iniziato il suo lavoro di sindaco di Terni, ovviamente con il suo stile.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI - VIDEO 13/6/2023 Sto aspettando il nome e il cognome del simpatico signore che si è pulito le scarpe nella fontana, a me fa piacere che abbia fatto questa cazzata, ma come minimo gli sequestriamo le scarpe e gli diamo fuoco. Poi non lo so se la legge ci autorizza a dargli anche due schiaffi in faccia.

LUCA BERTAZZONI Se l’è presa con un signore che si è lavato le scarpe nella fontana e ha detto che gli darebbe due schiaffi.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Veramente io personalmente se potessi agire come uomo normale gli ci spaccherei proprio la testa nella fontana.

LUCA BERTAZZONI Però un sindaco non dice: “ti darei due schiaffi”

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Da sindaco invece le dico semplicemente che ho mandato i vigili urbani a vedere chi era l’imbecille che si lavava le scarpe nella fontana.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Eppure qualche giorno dopo, sempre da sindaco, Bandecchi ha avuto un amichevole faccia a faccia con l’addetto stampa del Comune. Ma la vera priorità è la sicurezza: uno dei primi atti del sindaco Bandecchi è stata la rimozione di tre panchine nel corso principale di Terni.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Se ci sono sei persone che hanno bisogno di un’assistenza sociale e che si fermano evidentemente a culo ignudo e fanno pipì sulla panchina, allora gli leviamo le panchine facendo un danno a tutta la città, ma meglio non trovare le panchine che trovare le pisciate o cacate.

LUCA BERTAZZONI Lei dopo Terni… c’è questo slogan: “Terni, Umbria, Italia”. Qual è il suo obiettivo futuro in politica?

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI In politica il mio obiettivo è portare un centro democratico e pluralista.. La mia ambizione è quella di mettere Alternativa Popolare al centro dell’Italia come un partito forte che comunque potrà dare agli italiani benessere.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non abbiamo capito se nel manifesto politico di quel centro moderato che Bandecchi vuole portare con Alternativa Popolare al governo del Paese, c’è anche questo concetto di benessere: la rimozione di 3 panchine per sottrarle al bivacco di chi invece avrebbe bisogno di assistenza. è un gesto che ci ricorda quello dell’ex sindaco leghista Gentilini 1997, noto come “lo sceriffo”. Ora tornando invece al suo conflitto di interessi, Bandecchi si è dimesso da presidente della Ternana, si è dimesso anche dalla presidenza del cda dell’Università Cusano. Però rimane di fatto il proprietario dell’Unicusano anche attraverso delle società e Unicusano è di fatto la proprietaria della Ternana Calcio. Ora Bandecchi dice “Io il conflitto di interessi l’ho risolto, nessuno mi ha sollevato questo problema”. Spetterà verificare al prefetto, ma nel frattempo proprio in questi giorni ha annunciato la vendita della Ternana a Pharmaguida che appartiene all’imprenditore Nicola Guida e la domanda però è: può un’azienda che ha 60mila euro di capitale sociale, 360mila euro di utili sostenere economicamente una squadra di calcio come la Ternana che lo scorso anno ha speso 11 milioni di euro in stipendi e ha avuto perdite per 13 milioni? E infatti è spuntata in questi giorni la figura di Massimo Ferrero “viperetta”, ex patron della Sampdoria. Vedremo come andrà a finire. Invece tornando sul progetto politico di Bandecchi, del moderato Bandecchi, quanto sia moderato l’abbiamo anche toccato con le nostre mani quando poche settimane fa abbiamo realizzato un’inchiesta, abbiamo parlato del modo in cui trattava i suoi lavoratori, ne avevamo intervistato anche uno. Non l’ha presa bene e ha inaugurato sulla sua televisione Unicusano una nuova rubrica: Occhio per occhio, dente per dente, ospiti Report e le sue presunte fonti verso le quali è scattata una vera rappresaglia.

STEFANO BANDECCHI - CHAT CON I DIPENDENTI 5/6/2023 Buonasera a tutti. Allora signori, vedete, alla fine avete fatto voi una grande figura di merda. A me dispiace, io personalmente ne esco da questa trasmissione di Report tranquillo e sereno perché di me tutto il mondo pensa che sono uno stronzo e quindi non mi cambia nulla. Sono diventato solo un super stronzo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Questo è uno degli audio che Stefano Bandecchi ha inviato nell’ormai celebre chat con i dipendenti dell’università la sera in cui Report ha trasmesso l’inchiesta sull’ateneo telematico Niccolò Cusano, rivelando particolari inediti sulla gestione del personale che lavora nei media di proprietà dell’università. EX DIPENDENTE RADIO CUSANO CAMPUS Una singola persona nella stessa giornata conduceva un programma in radio, scriveva 3, 4, 5 articoli per questo sito internet e poi doveva condurre anche dei programmi televisivi con contratti non giornalistici, questo lo voglio sottolineare. Io, ad un certo punto, mi hanno fatto un contratto a tempo indeterminato, ma era per l’ufficio marketing.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO In un secondo audio Bandecchi punta il dito contro quella che secondo lui sarebbe stata la fonte di Report.

STEFANO BANDECCHI - CHAT CON I DIPENDENTI 5/6/2023 Ah, volevo aggiungere per gli amici di XXX, l’incappucciato che parlava di quattro cazzate: è veramente cretino. Potete dargli questo audio, arrivederci.

LUCA BERTAZZONI Lei dà del cretino ad un suo ex dipendente, “l’incappucciato che parlava di quattro cazzate”. Intanto perché fa il suo nome?

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Ho fatto il nome ed il cognome perché sono convinto che è lui. Lei ha l’immagine senza cappuccio? La vuole fornire all’autorità giudiziaria?

LUCA BERTAZZONI Credo non ci sia bisogno di fornirla all’autorità giudiziaria, ovviamente.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Ascolti, ma lei viene a fare il ladro in casa dei ladri? Allora io le voglio dire una cosa: quel signore, dopo che ha detto tutte queste cazzate…

LUCA BERTAZZONI Cazzate?

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Per me sono cazzate.

LUCA BERTAZZONI Però ci sono i contratti, c’è la conciliazione.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Ha ragione, ci sono i contratti e c’è la conciliazione. Allora vedendo i contratti, lui dovrebbe capire in maniera chiara che quello che dice sono grosse cazzate.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Eppure le grosse cazzate che Bandecchi attribuisce alla nostra fonte le abbiamo ascoltate dalla sua stessa voce negli audio che ha inviato sulla chat dei dipendenti.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI - REGISTRAZIONE RIUNIONE OTTOBRE 2021 La radio e la televisione chiudono: voi da domani non avrete più un lavoro.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Non solo, ce l’ha confermate anche nell’ intervista.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Li ho licenziati la sera alle sette e li ho riassunti la mattina dopo perché non avevano voglia di lavorare e avevano perso lo spirito del lavoro.

EX DIPENDENTE RADIO CUSANO CAMPUS Alla fine, mi fanno un altro contratto peggiorativo, cioè andavo a lavorare più ore con uno stipendio uguale, ma solo grazie alla tredicesima spalmata, i bonus.

LUCA BERTAZZONI Gli ha cambiato il contratto, sempre non giornalistico, e si è passati da 36 a 40 ore settimanali compreso il sabato e la domenica agli stessi soldi.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Sì, abbiamo fatto un contratto diverso: quello che doveva essere.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A confermare le parole di Bandecchi e del suo ex dipendente ecco il contratto in questione. Con l’obbligo di aderire alla sigla sindacale di destra: l’Ugl. Nonostante fossero fatti veri, due giorni dopo la puntata alle 7 e mezzo del mattino è scattata la rappresaglia contro la presunta fonte e due giornalisti di Tag 24 si sono presentati sotto casa.

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 Noi volevamo solamente chiederti perché sei andato a Report a rilasciare queste interviste? Come mai hai detto determinate cose su Stefano Bandecchi parlando di licenziamenti anche dalla sera alla mattina?

EX DIPENDENTE RADIO CUSANO CAMPUS Io a Report avrei parlato di cosa?

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 Sei andato a raccontare comunque tutti i fatti dei licenziamenti.

EX DIPENDENTE RADIO CUSANO CAMPUS Ma in quale momento, scusa?

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 Non eri tu la persona con il cappuccio che è stata intervistata? EX DIPENDENTE RADIO CUSANO CAMPUS Assolutamente no, non ero io. Tu mi hai riconosciuto?

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 Diciamo che abbiamo delle persone che ti hanno riconosciuto.

EX DIPENDENTE RADIO CUSANO CAMPUS Si sono sbagliate.

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 Quindi non sei tu una pistola nelle mani dell’informazione contro Stefano Bandecchi?

EX DIPENDENTE RADIO CUSANO CAMPUS Io non ho il porto d’armi, quello ce lo ha Bandecchi.

LUCA BERTAZZONI Tu sei il giornalista di Unicusano Tv, giusto?

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 Sì, lavoro per Tag24.

LUCA BERTAZZONI Posso chiederti come mai sei andato sotto casa di un collega come te?

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 Te lo dico tranquillamente, la direttrice ci ha chiesto di andare lì per vedere e trovare riscontri sul servizio che avevamo visto.

LUCA BERTAZZONI Siete andati lì accusandolo di essere la fonte di Report in base a cosa?

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 In base alle fonti che ci erano state riferite.

LUCA BERTAZZONI Vi hanno detto che lui era la fonte di Report?

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 Non sono tenuto a dirti le informazioni.

LUCA BERTAZZONI Era per capire.

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 Tanto lo so che state registrando.

LUCA BERTAZZONI Certo, ma non abbiamo problemi noi. È stato Bandecchi o la direttrice?

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 La direttrice.

LUCA BERTAZZONI Come ti viene di andare sotto casa di un collega a chiedere se lui era la fonte di Report?

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 Io sono semplicemente un redattore dipendente, se la direttrice responsabile mi dà l’indicazione di andare a fare un servizio lo faccio.

LUCA BERTAZZONI È stato lei a dire di andare sotto casa di questa presunta fonte?

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Sì, ma ce li faccio anche tornare. Abbiamo fatto un’indagine come la vostra.

LUCA BERTAZZONI Un’indagine sotto casa di un collega?

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Collega di che? Mio collega non è.

LUCA BERTAZZONI Lei è un pubblicista, quindi è un collega anche suo.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Ah, sì ha ragione. È un collega anche mio.

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 Ma tu come facevi a sapere che io sono stato da…

LUCA BERTAZZONI Ho visto il video, lo avete pubblicato. Anche se Bandecchi dice che il sito fa schifo qualcuno lo vede, no?

THOMAS CARDINALI - GIORNALISTA TAG24 Non penso che Bandecchi dica che il sito fa schifo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Forse il collega di Tag24 non era presente alla riunione in cui Bandecchi parlava così ai suoi dipendenti dei media di Unicusano.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI - REGISTRAZIONE RIUNIONE OTTOBRE 2021 Sono incazzato con tutti voi per lo schifo che avete fatto fino ad oggi, per aver distrutto un mio progetto fantastico.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Lei viene ad intervistarmi, lei va ad intervistare alcuni dei miei con le telecamere nascoste e lei che fa questo tipo di trasmissione si meraviglia che noi possiamo utilizzare gli stessi metodi?

LUCA BERTAZZONI Per andare a cercare le nostre fonti? La fonte deve essere tutelata e per quello si incappuccia. STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Fonti di che? Tutelati di che? Ma mica stiamo parlando di mafia. Questo signore…

LUCA BERTAZZONI Non voleva metterci la faccia.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI E allora deve stare zitto.

LUCA BERTAZZONI Due ore dopo essere andati alla caccia di questa presunta fonte, sempre gli stessi giornalisti sono andati nella redazione di Roma Today chiedendo al direttore se avevamo la stessa fonte.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Roma Today ha avuto uno scazzo incredibile con me mesi fa, se lo sono scordati? Li ho mandati tutti affanculo.

MATTEO SCARLINO - DIRETTORE ROMA TODAY Noi come Roma Today ci siamo occupati di Bandecchi a fine gennaio nei giorni successivi all’inchiesta della Guardia di Finanza e ovviamente abbiamo anche chiesto una replica.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A chiedere una replica è la collega Veronica di Benedetto, ma Bandecchi mal sopporta le domande.

VERONICA DI BENEDETTO - GIORNALISTA ROMATODAY - REGISTRAZIONE GENNAIO 2023 Ho ricevuto diverse denunce da parte di ex dipendenti e dipendenti di Unicusano sulle condizioni di lavoro, su condizioni non trasparenti di contratto.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI - REGISTRAZIONE GENNAIO 2023 Posso metterla in viva voce?

VERONICA DI BENEDETTO - GIORNALISTA ROMATODAY - REGISTRAZIONE GENNAIO 2023 Io vorrei che mi rispondesse lei però, non i dipendenti scusi.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI - REGISTRAZIONE GENNAIO 2023 Intanto faccia la domanda, poi decido io chi le risponde perché non è che lei adesso può dirmi anche chi deve rispondere.

VERONICA DI BENEDETTO - GIORNALISTA ROMATODAY - REGISTRAZIONE GENNAIO 2023 No, anzi sono gentile perché le sto dando il diritto di replica rispetto a cose abbastanza gravi che mi hanno detto.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI - REGISTRAZIONE GENNAIO 2023 Come è il suo nome scusi? Veronica Di Benedetto. Mi fate 3 articoli su Veronica Di Benedetto che non capisce un cazzo come giornalista? Lei è giornalista quanto me, pubblicista immagino.

VERONICA DI BENEDETTO - GIORNALISTA ROMATODAY - REGISTRAZIONE GENNAIO 2023 No, professionista.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI - REGISTRAZIONE GENNAIO 2023 Allora sarà una capra professionista, io invece sono un pubblicista miliardario.

VERONICA DI BENEDETTO - GIORNALISTA ROMATODAY - REGISTRAZIONE GENNAIO 2023 Va bene, mi fa piacere. Non ho finito comunque.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI - REGISTRAZIONE GENNAIO 2023 Io scrivo questi articoli su di lei e sulla sua incapacità di saper fare anche un’intervista. E per me da ora in poi se ne può andare affanculo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Questo succedeva a gennaio, ma la puntata di Report su Unicusano deve aver risvegliato l’antica antipatia nei confronti di Roma Today.

MATTEO SCARLINO - DIRETTORE ROMA TODAY Allora a due giorni dalla puntata di Report si sono presentati sotto il nostro ufficio due giornalisti che chiedevano di me. Avevano bisogno di qualcuno che denigrasse quello che era il lavoro fatto.

LUCA BERTAZZONI Sostanzialmente gli audio e le fonti sostenevano fossero le stesse.

MATTEO SCARLINO - DIRETTORE ROMA TODAY Fossero le stesse, esatto. E che addirittura noi le avevamo passato a Report, quando noi abbiamo appreso dell’inchiesta di Report nel momento in cui è uscita.

LUCA BERTAZZONI Secondo te sono andati alla ricerca delle nostre fonti?

MATTEO SCARLINO - DIRETTORE ROMA TODAY Assolutamente sì, in qualche modo per denigrarle. è assolutamente assurdo che un editore che è oggetto di un articolo utilizzi la propria redazione come un manganello per andare a punire, a spaventare.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO In realtà come Bandecchi intenda utilizzare i suoi mezzi di comunicazione lo aveva chiarito lui stesso ai suoi dipendenti.

STEFANO BANDECCHI - REGISTRAZIONE RIUNIONE DICEMBRE 2019 La televisione e la radio sono i miei due punti di forza. È come una pistola, io non la devo usare per forza però tu sappi che io ce l’ho. Te la posso sparare addosso, non mi frega un cazzo e lo faccio. Voglio far paura agli altri, cioè queste cose mi devono servire per dire: “Caro ministro, io non chiedo un cazzo. Però non mi tratti di merda perché posso diventare stronzo, fine!”.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Lei sta usando la sua telecamera come una mitragliatrice e io siccome non sono l’ultimo dei bischeri sulla faccia della terra sto usando contro di lei la stessa mitragliatrice.

LUCA BERTAZZONI Ma io non la sto usando come una mitragliatrice, è evidente questo.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Ah, ah. No, non è evidente.

LUCA BERTAZZONI A proposito di pistola puntata, lei il giorno dopo la puntata di Report ha inaugurato una rubrica “Occhio per occhio, dente per dente”.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Eh ma voi non siete venuti, è una rubrica fantastica.

LUCA BERTAZZONI Ma noi non facciamo gli ospiti in televisione, facciamo i giornalisti.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Scusi, anche io faccio il giornalista. Io non mi rifiuto di parlare perché sono sereno.

LUCA BERTAZZONI Lei è sotto inchiesta, noi no.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Lei è sotto inchiesta. In base alle nostre testate lei è sotto inchiesta. Perché secondo noi…

LUCA BERTAZZONI Cioè?

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Si sta già preoccupando?

LUCA BERTAZZONI No, sono tranquillissimo.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Allora quando faremo la trasmissione “Occhio per occhio dente per dente” verranno fuori quei debiti che evidentemente qualcuno si è scordato di pagare, verranno fuori quelle situazioni personali, sempre a che fare con il lavoro, personali come questa. E faranno vedere una storia di persone che evidentemente hanno più o meno da temere.

LUCA BERTAZZONI È una minaccia, no?

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Non lo so, io non minaccio nessuno.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bandecchi così gestisce i media dell’università che sono finanziati attraverso le rette degli studenti e sono esentasse e che dovrebbe invece Bandecchi investire nella mission dell’ Università. Qui sembra che sia uscito probabilmente fuori dai binari della mission perché ha inviato i suoi giornalisti sotto casa o nelle redazioni delle nostre presunte fonti. Per sapere cosa, poi? Cosa che già sapeva e che ci aveva già confermato nel corso delle precedenti interviste. Quindi rimane l’ipotesi dell’intimidazione. Del resto qual è la finalità con cui vuole utilizzare i mezzi di comunicazione? Insomma, radio e tv come pistole contro chi gli si mette di traverso e qui non deve neanche cercare la fonte e perdere tempo perché la fonte è lui stesso. L’abbiamo sentito in un audio. La logica, la filosofia dell’Occhio per occhio, dente per dente l’ha applicata anche nei confronti di quel tutor che avevamo intervistato e che ci aveva raccontato com’era semplice passare gli esami dentro Unicusano.

STEFANO BANDECCHI - CHAT CON I DIPENDENTI 5/6/2023 Voi, o alcuni di voi, hanno fatto una figuraccia: l’hanno fatta i professori che hanno parlato male di noi, perché evidentemente alcuni sono veramente delle persone pessime, e l’hanno fatta quei dipendenti che hanno raccontato le minchiate che io chiedo sempre di non dire alla gente. Comunque, sta di fatto che a livello di università avete fatto una bella figura di cazzo tutti.

LUCA BERTAZZONI La sera della puntata manda questo audio in questa famosa chat di dipendenti e dice: “avete fatto una figura di merda, l’hanno fatta quei dipendenti che hanno raccontato le minchiate che io chiedo sempre di non dire alla gente”. Cioè?

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI C’è un signore che ha detto una grandissima bugia forse per ottenere un risultato che era quello di immatricolare una persona. Cioè ha detto che superare determinate prove era facile e semplice, della serie “capisci a me”. Ora io non so se devo capire lui, ma non è mai stato chiesto a nessuna persona all’interno di questa università di dire una bestialità tale.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Quello che Bandecchi non ha mai chiesto di dire ai suoi dipendenti è che le carenze formative a Unicusano si possono superare così.

TUTOR UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO Io non ti vedo, tu puoi benissimo fare la carenza e cercarti su un altro dispositivo le risposte.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO E non ha mai detto al suo tutor di svelare quali sarebbero i trucchi per superare un esame. TUTOR UNIVERSITA’ NICCOLO’ CUSANO Tu da studente puoi scegliere se sostenere lo scritto oppure l’orale. Qui sceglie lo studente, quindi se tu li vuoi sostenere tutti scritti. Io non te lo consiglio perché comunque l’orale è più semplice, il professore ti aiuta.

LUCA BERTAZZONI È un suo dipendente che ci ha detto: “non ti controllo quando fai gli esami, non posso verificare”.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Ha ragione, il nostro dipendente infatti doveva essere licenziato. Invece per ora ha soltanto avuto dieci giorni a casa obbligatori senza stipendio e dopodiché ha avuto un’ammenda sul suo stipendio. Se poi non gli piacciono i nostri metodi si può licenziare. Comunque le altre 1500 persone, comprese quelle che stanno qua ora a riprendere, sanno che noi non autorizziamo a dire…

LUCA BERTAZZONI Siamo stati fortunati quindi o è stato sfortunato lei. Ne abbiamo trovato uno e ci ha detto così.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Ha ragione, li intervisti tutti. E se tutti diranno così allora domanderemo a quei 2mila studenti che se ne vanno da questa università perché non sono riusciti a fare esami o perché sono bocciati 7 volte come mai.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Ma non tutti se ne vanno per le difficoltà di cui parla Bandecchi. Dopo la nostra inchiesta ci ha contattato uno studente che da due anni è iscritto ad Unicusano.

LUCA BERTAZZONI Perché adesso si vuole iscrivere ad una università classica?

STUDENTE UNICUSANO Perché non penso che il servizio offerto da Unicusano, in relazione anche al prezzo a cui viene offerto, sia ragionevole con quella che poi è la qualità didattica.

LUCA BERTAZZONI Come giudica il livello degli esami che ha sostenuto?

STUDENTE UNICUSANO Quasi tutti gli esami sono fatti a crocette e in alcuni esami mi è capitato di riscontrare una grande semplicità in quanto le crocette poi fondamentalmente si possono già fare prima. Ci sono delle simulazioni che si possono effettuare prima di arrivare all’esame.

LUCA BERTAZZONI Quale è l‘impressione che ha avuto in questi due anni?

STUDENTE UNICUSANO Tutto il sistema è fatto in modo tale che anche se si va a sbagliare la prova una volta c’è poi un recupero e se poi anche al recupero si sbaglia tutto si risolve con un paio di domande a fine corso. Fondamentalmente non interessa che gli studenti raggiungano un certo tipo di preparazione, ma interessa semplicemente che tutti gli studenti passino con un voto minimo in qualche modo e che superino gli esami.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO L’università Niccolò Cusano ha ampliato i suoi orizzonti e da qualche anno è uscita dai confini nazionali.

GIANGAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Questa università degli studi Niccolò Cusano Telematica Roma controlla un college londinese, un’altra società in Inghilterra che si chiama Nciul Limited e poi ha anche un’università degli studi Niccolò Cusano in Francia.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI È una ecole in Francia, cioè una scuola privata di diritto francese che ha una convenzione con una università, in questo caso con l’università Niccolò Cusano: rilascia in Francia titoli italiani.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La sede francese dell’università Niccolò Cusano si trova nel quartiere latino di Parigi, a pochi passi dalla Sorbona.

MARZIA AMICO Buongiorno, ma qui non c’è nessuno?

FRANCESE 1 No, è tutto chiuso.

MARZIA AMICO Scusi, lei che abita qui, sa se questa università è sempre chiusa?

FRANCESE 2 Sì, sempre.

MARZIA AMICO Da quanto? FRANCESE 2 Da prima del Covid.

LUCA BERTAZZONI Ma funziona in questo momento?

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Sì, funziona pochissimo perché dopo il Covid in Francia è successo di tutto, quindi noi abbiamo rallentato. Abbiamo degli studenti che stanno terminando il loro percorso.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Uno di questi studenti ci racconta la sua esperienza con Unicusano in Francia.

EX STUDENTE UNICUSANO PARIS Nel 2019 mi sono iscritto alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università Niccolò Cusano in Francia. LUCA BERTAZZONI Quanti soldi hai speso in tutto?

EX STUDENTE UNICUSANO PARIS Per tre anni di studio ho pagato in tutto più di 9mila euro, ma l’università funziona molto male. Mi è capitato di saltare un esame perché non è mai arrivata la mail che mi avvisava della data d’appello, il sito non è aggiornato e non esiste un calendario degli esami. La cosa più grave è che al terzo anno di studi ho scoperto che il titolo non ha valore legale in Francia.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI Siccome i francesi non si sono accorti ancora di essere in Europa, loro ancora ritengono di dire che il titolo italiano non è equivalente al titolo francese.

EX STUDENTE UNICUSANO PARIS Mi hanno fatto frequentare un’università che non ha valore legale in Francia: questo non è stato corretto da parte loro.

LUCA BERTAZZONI Io però sul sito ho trovato che i diplomi sono riconosciuti nell’Unione Europea.

STEFANO BANDECCHI - SINDACO DI TERNI I diplomi di laurea sono riconosciuti nell’Unione Europea, è così. Lo chieda ai francesi: io le posso dare delle cause dove noi abbiamo vinto e delle cause dove noi abbiamo perso.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Delle cause in corso e del rischio di non veder riconosciuta la laurea in Francia sul sito dell’Università Niccolò Cusano non c’è traccia. Tra i motivi per cui vale la pena iscriversi è invece ben evidenziato che le lauree sono riconosciute dall’Unione Europea e dalla Gran Bretagna.

LUCA BERTAZZONI Hai provato a parlare con qualcuno dell’università per chiedere conto della tua situazione?

EX STUDENTE UNICUSANO PARIS Più volte ho chiamato in segreteria e mi hanno sempre detto che non c’era un referente con cui parlare, ma che bisogna mandare una mail. Ho scritto e mi hanno risposto che nella sede di Parigi non è proprio previsto il ricevimento di persone. A quel punto ho deciso di abbandonare l’università. Alla fine ho perso 9mila euro e non ho niente in mano.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Chissà se Bandecchi ora se la prenderà con i dipendenti parigini. Sempre che li trovi visto che le saracinesche sono chiuse da anni. Ora Bandecchi dice “è colpa della Francia che non riconosce il titolo italiano”. Però i paesi membri per regolamento si sono creati la possibilità di riconoscere i titoli anche degli altri paesi. Questo in nome della libera circolazione dei lavoratori e gli riconoscono i titoli per equipollenza cioè hanno lo stesso valore legale, oppure per equivalenza cioè i laureati possono svolgere le stesse funzioni delle lauree che hanno conseguito. Nel caso invece francese, visto che gli stati membri si sono però riservati la possibilità di decidere caso per caso, nel caso francese dicevamo ogni tanto si mettono di traverso sui titoli rilasciati da Unicusano. Bisognerebbe capire il perché. Però insomma, nel frattempo sarebbe il caso che Bandecchi aggiornasse il suo sito perché là c’è scritto che i titoli vengono riconosciuti in tutta Europa, e abbiamo visto che non è proprio così, questo anche per evitare delle spese inutili agli studenti che pagano, eccome se pagano.

LA FIORENTINA.

Vittorio Cecchi Gori.

Luigi Milan.

Giovanni Galli.

Eraldo Pecci.

Christian Riganò.

Cesare Prandelli.

Giancarlo Antognoni.

Giancarlo De Sisti.

Aldo Agroppi.

Gabriel Omar Batistuta.

Vittorio Cecchi Gori.

Marco Menduni per “La Stampa – Specchio” - Estratti domenica 12 novembre 2023.

A 81 anni si sente un leone: «Io non mollo: non mollo perché amo il cinema anche se quello italiano è andato in disgrazia». Vittorio Cecchi Gori è nella sua casa di viale Parioli a Roma e anche la dimora è collegata alla memoria del grande schermo: «Questo appartamento è il caposaldo della mia vita, lo comprò mio padre Mario nel 1962 dopo aver prodotto Il sorpasso». 

Del film diretto da Dino Risi e interpretato da Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant da sempre Cecchi Gori sogna un remake. E questo progetto mai accantonato si lega alle recenti parole di Pierfrancesco Favino e alla polemica a Venezia: «Fate interpretare gli italiani agli attori italiani». 

Dice ora Vittorio Cecchi Gori: «Ha qualche ragione ma non è sempre possibile quando bisogna fare produzioni che abbiano un appeal internazionale. Certo che se riuscissi a realizzare un nuovo Sorpasso non avrei dubbi sugli interpreti: lo stesso Favino e Luca Marinelli».

(...)

Cecchi Gori ha fatto il cinema. Ha fatto anche la televisione. «Un grande produttore, sperando io lo sia stato, sa che la comunicazione è sempre un compromesso. Fare il cinema è un’altra cosa. È un atto di creatività che non ha nulla a che vedere con tutto il resto, come un quadro, un romanzo. Però mi ci sono buttato dentro, alla tv. Ricordate il film Quinto potere di Sidney Lumet? Oggi sono sempre più convinto che la comunicazione sia il primo, non il quinto, potere del mondo. E la tv domina ancora». 

Inevitabile: il discorso vira verso Silvio Berlusconi. «Quando partendo da Telemilano riuscì a fondare le sue tv private che fino a un certo punto in Italia erano vietate, io ebbi la ventura di lavorare con lui e quello fu importante per il cinema, perché non c’era più un monopolio che obbligava a vendere a uno solo, che poi era la Rai».

Che cosa ha pensato il giorno in cui ha saputo che il Cavaliere era morto? «Mi è dispiaciuto. Veramente. Lasciamo perdere la politica, è stato un grandissimo imprenditore. E adesso mi vengono sempre in mente le cose belle vissute quando ci trovavamo insieme. Poi non ci siamo più visti. L’ultima volta è stato alla Casina Valadier al mio compleanno nel 2006. Poi sono arrivate le contrarietà». 

Non sono stati solo contrasti personali: «È la politica che bisogna eliminare nella vita. Nella mia vita mi ha fatto solo confusione e danni. Anche quando ho fatto il senatore. Io in politica non sono servito a niente, probabilmente. E che mi ha dato? Il rapporto con Berlusconi è stato bello finché anche lui non è finito in politica».

Le donne. I sentimenti. «Dopo sessant’anni vedo ancora Maria Grazia Buccella, mi viene a trovare. Oh, com’ero innamorato di lei quando ne avevo venti! Poi ho buoni rapporti con la mia ex moglie Rita Rusic. Il tempo spiana tutto. Valeria Marini la sento ogni tanto, con qualche altro amore che ho avuto ho perso i contatti». E oggi? «Quando varchi gli 80 anni avere un amore vuol dire avere la vita. Una simpatia ce l’ho, ma a questa età l’amore diventa affetto». Ride: «È meno… estroverso, via!».

Luigi Milan.

Luigi Milan è morto, l’ex attaccante della Fiorentina aveva 85 anni. Storia di Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera venerdì 8 dicembre 2023.

Il mondo del calcio è in lutto per la scomparsa di Luigi Milan, che domenica 10 dicembre avrebbe compiuto 86 anni. A darne notizia è stato il Museo della Fiorentina. L’ex attaccante ha indossato la maglia viola solo dal 1960 al 1962, ma giusto in tempo per entrare nella storia del club.

Fu uno dei protagonisti della Coppa delle Coppe del 1961, guidando la Fiorentina a un importantissimo trionfo. Il primo in campo europeo per il calcio italiano. Fu decisivo nella finalissima contro il Glasgow Rangers con tre gol, due a Ibrox (17 maggio ‘61) e uno al ritorno (27 maggio ‘61). Fu simbolo degli 11 leoni che sfidarono e vinsero contro gli scozzesi, alzando al cielo di Firenze lo storico trofeo mai più vinto.

Luigi Milan fu straordinario interprete del calcio degli anni ‘50 e ‘60: vestì le prestigiose maglie di Venezia, Udinese Fiorentina, Catania, Atalanta, Pontedera e Rovigo, ma la sua miglior stagione sportiva la raggiunse, appunto, in maglia viola. Con quel successo rimasto nella storia del nostro calcio. E non solo. Perché con la Fiorentina Luigi Milan conquistò anche una Coppa Italia, sempre nel 1961, contro la Lazio. E anche in quel match, Milan segnò il decisivo 2-0 che valse la seconda coccarda tricolore al club toscano. Tra il 1973 e il 1990 intraprese la carriera di allenatore con l’Olbia per poi sedersi sulle panchine di Prato, Massesse, Città di Castello, Cerretese, Potenza e Rondinella. I funerali si terranno sabato 9 dicembre, alle ore 15.30 a Firenze, presso la chiesa dei Sette Santi in Viale dei Mille.

Giovanni Galli.

Giovanni Galli e la morte del figlio Niccolò: «Un dolore da cui non si esce». Storia di Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera domenica 5 novembre 2023.

La perdita di un figlio è un dolore immenso, mai può affievolirsi nel corso di una vita intera. Per Giovanni Galli, ex portiere di Fiorentina, Milan (di Arrigo Sacchi) e Napoli, sono trascorsi 22 anni dal 10 febbraio 2001, giorno in cui suo figlio Niccolò, difensore del Bologna, dopo una formazione nelle giovanili dell’Arsenal, morì in un incidente in motorino mentre tornava a casa dopo l’allenamento. Aveva 18 anni. In suo nome, Galli ha istituito una Fondazione per aiutare i bambini bisognosi di cure. Il 22 maggio scorso — Niccolò avrebbe compiuto 40 anni — su Instagram Giovanni Galli scrisse: «Quando penso a Niccolò, a quando ci rivedremo, spero prima di tutto di poterlo riconoscere. Perché non lo so se nell’Aldilà ci si ferma all’età della morte o se si invecchia come quaggiù. Saremo due entità astratte? Saremo due corpi? Chissà. Io lo devo rivedere. Buon compleanno Nicco».

Il ricordo di Niccolò

Giovanni Galli è tornato a parlare del figlio e del dolore per la sua scomparsa in un’intervista rilasciata al Foglio. «Non se ne esce. È un percorso. Il percorso è quello di uno che improvvisamente inciampa su un gradino e cade per terra. Sei in ginocchio, strisci sul pavimento e devi decidere se rialzarti o continuare a camminare a quattro zampe. Per provare a rimetterti in piedi, hai bisogno di aiuto», ha detto l’ex portiere, oggi 65 anni. E ancora: «L’aiuto più importante te lo può dare solo la famiglia. Dovunque andassi, è stata sempre con me».

La famiglia Galli

Gli affetti familiari sono il salvagente al quale aggrapparsi: «Ho conosciuto Anna (la moglie, ndr) quando avevo 17 anni e lei 14. Non ho mai smesso di amarla. Carolina e Camilla (le altre due figlie, ndr) saranno sempre il mio orgoglio e la mia più grande consolazione. Oltre la famiglia, mi ha aiutato la fede». E ha concluso: «Niccolò? Il pezzo di strada fatto insieme è stato intenso, ma troppo breve. Magari riprenderà altrove, ma non so in quale dimensione. Rivedrò mio padre e mio figlio».

Eraldo Pecci.

CI STANNO PORTANDO NELLA GIUSTA DIREZIONE? Mariano Amici il 2 Settembre 2023

CONTINUIAMO A FAR MATURARE LE COSCIENZE.

Per entrare in riflessione leggete questo racconto emozionante di un’ Italia ormai scomparsa pubblicato da Eraldo Pecci

“A metà degli anni Sessanta c’era lavoro, crescita, ottimismo. La gente lavorando acquisiva certezze e benessere. Ci si costruiva la casa, si comprava prima la Vespa e poi la si cambiava con l’auto, il frigorifero, la televisione. E d’estate si cominciava a potersi permettere la vacanza in riviera. Noi abitavamo al mare e, visto che arrivava gente, ci organizzavamo per accoglierla. Quei tre mesi di lavoro erano detti “la stagione” ed era normale che si iniziasse a farla anche da bambini.

Io cominciai nel giugno del 1965 quando avevo da poco compiuto dieci anni. Barista con mio fratello Maurizio. Lui era “grande”, di anni ne aveva ormai quattordici. Orario di lavoro dalle 8 alle 13 e dalle 19 alle 22.30-23. Cento o centocinquanta lire al giorno, non ricordo bene, la paga. Mi sentivo utile e importante. Anche se mi ci voleva la cassetta vuota della Coca-Cola sotto i piedi perché altrimenti non arrivavo all’altezza giusta per fare i caffè o per disporre le cose sul bancone. Riempivo i frigoriferi tutte le sere prima di andarmene, controllavo le cose da ordinare ai fornitori, preparavo piattini, tazze, cucchiaini, bicchieri, zucchero, nei vassoi che i camerieri avrebbero solo dovuto portare per servire i clienti. Pulivo e lucidavo le mensole con su gli alcolici e gli amari, davo lo straccio e preparavo tè, camomille e perfino cocktail. Si iniziava da apprendisti e grazie all’aiuto e alla pazienza dei più grandi in poco tempo si apprendeva davvero.

Che bello era, ogni tanto, ritrovarsi con gli amici, che lavoravano a loro volta, a mangiare una pizza e pagare il conto con le mance guadagnate! Che bello era conoscere gente di ogni parte d’Italia e d’Europa! Imparare parole di altre lingue. Avere le chiavi di casa in tasca e l’impressione di non pesare sugli altri. E tutte le notti depredare il frigorifero e lasciare comunque qualcosa a Maurizio se rientrava dopo, come lui faceva con me se rientravo più tardi io. Qualunque fosse la sequenza, il mattino la mamma trovava regolarmente il frigo vuoto. Bei tempi, belle sensazioni.” -Eraldo Pecci (Ci piaceva giocare a pallone)

Christian Riganò.

Estratto dell’articolo di Claudio Bozza per corriere.it l'1 agosto 2023.

«Due cose so fare nella vita: i gol e il muratore. Così, dopo aver smesso di giocare, sono tornato a fare il mio mestiere: mi piace e ne vado orgoglioso». Il bomber lo incontriamo per caso in un cantiere di Firenze, a due passi dal Ponte Vecchio. Il caldo è soffocante. Da una parte c’è un ragazzone che sta togliendo l’intonaco, a colpi di mazzuolo e scalpello. Incrociamo il suo sguardo, come a dirgli che il suo è un volto conosciuto. Lui sorride: «Sì, sono io: Christian Riganò». 

Riganò, bomber di un calcio che non c’è più, ha segnato oltre 300 gol in 520 partite, ovunque: dalla seconda categoria alla serie A. Ha fatto tutta la gavetta, fino a sfiorare la Nazionale. Ma è rimasto sempre lo stesso ragazzo, che, a Lipari, faceva il manovale tutto il giorno e la sera andava ad allenarsi. Fino a quando, un giorno, il suo sogno di arrivare nel calcio dei grandi si avverò all’improvviso: «Ero al Taranto. Mi chiamò Giovanni Galli, chiedendomi di andare alla Fiorentina, che era finita in C2 dopo il fallimento di Cecchi Gori — racconta Riganò —. Alla prima telefonata riattaccai, pensavo fosse uno scherzo». 

Il fiuto del gol

Un metro e novanta, possente, era in grado di buttarla dentro in ogni modo. Un fiuto incredibile, e pensare che aveva iniziato come stopper. «E ora lo so, lei mi chiederà che ci faccio qui… Giusto?».

Giusto.

«Diciamo che avevo lasciato questo mestiere a tre quarti, nemmeno a metà — racconta il bomber —. Io sono questo: amo costruire e riparare le cose. Così, non avendo avuto chiamate per allenare sono tornato a fare il mio lavoro». 

Un carattere schietto, quello di Riganò, quinto di sette fratelli maschi: «Mio padre Vincenzo, che purtroppo non ha fatto a tempo a vedere che avevo realizzato il mio sogno, faceva il pescatore e mia madre ci ha cresciuti uno ad uno». Ma il bomber è uno di quelli che non le manda a dire: «Ho preso due patentini per allenare… Amo il calcio, ma si vede che non sono adatto per quello di oggi, fatto principalmente di sponsor, non accetto compromessi. Certo, se poi arrivasse la chiamata giusta sarei pronto a tornare in panchina». 

Il ritorno al lavoro

Due matrimoni e quattro figli, dopo aver attaccato gli scarpini al chiodo si è presentato il più inevitabile degli interrogativi per un calciatore: «E ora?». «Prevedo anche la sua prossima domanda — sorride Riganò —. Sì, ho guadagnato bene e ne sono felice. Nella mia intera carriera, però, ho incassato quanto molti giocatori di media fascia oggi guadagnano in due tre mesi. Così, poi, bisogna tornare a lavorare». 

(...)

Nel 2006 si trasferisce al Messina: 19 gol in 26 partite, terzo cannoniere del torneo dopo il campione del mondo Totti e Lucarelli.

«Ma la chiamata in Nazionale da Donadoni non è mai arrivata. Ancora non ho capito il perché».

La scritta

Su un muro a Firenze c’è ancora scritto: «Dio perdona, Riga-no!». Il bomber ci pensa e sorride orgoglioso. Oggi vive al Campo di Marte, a due passi dalla Curva Fiesole, e lui è un personaggio del quartiere, amatissimo: «Lo spogliatoio è la cosa che mi manca di più: lì si litiga e si scherza, è il cuore del calcio. Ho avuto l’onore di giocare contro Del Piero, Batistuta, Er Pupone… Però io sono di vecchio stampo, come al lavoro: datemi una terra e, con due colleghi, siamo in grado di tirare su una casa».

Cesare Prandelli.

Facebook. Parole al vento e non “solo” -AlessandroC. « Mia moglie Manuela è morta all'ora di pranzo del 26 novembre del 2007. Aveva 45 anni.

Quel giorno era un lunedì, fino alle dieci della domenica era lucidissima. Io e i miei figli durante le ultime ore siamo stati nel letto con lei. L'abbracciavamo, l'accarezzavamo, le parlavamo di continuo. Porto dentro di me le sue ultime parole. Ma non riesco a dirle, a farle uscire. È troppo dura» .

«Si era ammalata sette anni prima. Allenavo il Venezia. Un nodulo a un seno. Sembrava routine. Operazione a Brescia. Meno di due anni dopo un problema a un linfonodo. Nuova operazione, parecchie metastasi, chemioterapia. Un disastro.

Durante l'ultima ricaduta che ha avuto, allenavo la Roma, Manuela voleva tornare a casa, così abbiamo fatto un patto, le ho detto che se le cure fossero state invasive sarei stato ogni minuto al suo fianco. Era lei la mia priorità. La sua vita era la mia vita. Così ho dato le mie dimissioni e sono tornato a Orzinuovi.

Molti si sono sorpresi, per me invece è stata una scelta naturale. Il calcio a volte ha paura della normalità» .

«Sono originario di Orzinuovi in provincia di Brescia, lì c'è la piazza Vittorio Emanuele, una bella piazza con i portici. Manuela l'ho conosciuta là, al bar, una domenica pomeriggio. Giocavo in B con la Cremonese, tornavo dalla partita, avevo voglia di una cioccolata calda. Lei era con una sua amica, ci siamo soltanto guardati, ci siamo piaciuti subito. Il giorno dopo con una scusa sono andato a prenderla a scuola.

Avevo diciott'anni, lei non ancora quindici.

Non ci siamo più lasciati. Ci siamo sposati nel 1982. Ero alla Juve. I miei testimoni sono stati Antonio Cabrini e Domenico Pezzolla, mio compagno a Cremona. Ora fa l'ambulante, vende formaggi.

In trent'anni io e Manu abbiamo litigato una volta sola, colpa di una racchetta da tennis.

Manuela mi ha insegnato a usare le parole. Mi diceva: Cesare, la cosa più importante è sapere che cosa si vuole. Domandarselo e avere il coraggio di darsi le risposte» .

«Del calcio non mi piace l'esasperazione, le polemiche, i processi, l'arroganza, la stupidità, l'oblio. Quando giocavo io ci divertivamo di più, tra compagni di squadra ci si frequentava dopo le partite, gli allenamenti. Mischiavamo le nostre solitudini. Oggi i calciatori lo fanno molto di meno. Questo mondo ha dato lavoro a tanti, ma tanti si prendono troppo sul serio. Eppure fai un mestiere che ti piace, ti danno un sacco di soldi, sei un privilegiato. Vivi una vita che non è normale. Se ho una qualità è quella di saper scegliere i miei abiti mentali. Non posso assumere un modo di essere che non è il mio. Non riesco a fingere» .

"Da quando non alleno più sono tornato ad

Orzinuovi. Nella casa dei miei genitori che non ci sono più.

Da mio padre, che ho perso a 16 anni, ho imparato il rispetto per chi lavora, spero di averlo fatto mio. Da mia madre la fisicità dell'amore, il non vergognarsi di volere bene. Dimostrarlo con il cuore, la testa, le mani".

"Credo ci siano diversi tipi di amore. Quello per una donna, quello per i figli, quello per gli amici. Ho scoperto che molte persone hanno paura di amare, hanno paura di vivere l'amore. Perché in amore devi dare, devi essere altruista. Forse è più facile non amare. Siamo spesso prigionieri del nostro egoismo".

Cesare Prandelli. Fonte: la Repubblica.

Il coraggio di Cesare Prandelli e il ricordo di Nadia Toffa. Di Antonio Piazzolla il 20 Agosto 2019 su lagoleada.it

“Mia moglie Manuela è morta all’ora di pranzo del 26 novembre del 2007. Aveva quarantacinque anni. Quel giorno era un lunedì, fino alle dieci della domenica era lucidissima. Io e i miei figli durante le ultime ore ci siamo messi nel letto con lei. L’abbracciavamo, l’accarezzavo, le parlavamo di continuo. Porto dentro di me le sue ultime parole. Ma non riesco a dirle, a farle uscire. È troppo dura. Si era ammalata sette anni prima. Allenavo il Venezia. Un nodulo a un seno. Sembrava routine. Operazione a Brescia. Meno di due anni dopo un problema a un linfonodo. Nuova operazione, parecchie metastasi, chemioterapia. Un disastro.

Durante l’ultima ricaduta che ha avuto, allenavo la Roma, Manuela voleva tornare a casa, così abbiamo fatto un patto, le ho detto che se le cure fossero state invasive sarei stato ogni minuto al suo fianco. Era lei la mia priorità. La sua vita era la mia vita. Così ho dato le dimissioni e sono tornato a Orzinuovi. Molti si sono sorpresi, per me invece è stata una scelta naturale. Il calcio a volte ha paura della normalità.

Sono originario di Orzinuovi in provincia di Brescia, lì c’è la piazza Vittorio Emanuele, una bella piazza con i portici. Manuela l’ho conosciuta là, al bar, una domenica pomeriggio. Giocavo in B con la Cremonese, tornavo dalla partita, avevo voglia di una cioccolata calda. Lei era con una sua amica, ci siamo soltanto guardati, ci siamo piaciuti subito. Il giorno dopo con una scusa sono andato a prenderla a scuola.

Avevo diciott’anni, lei non ancora quindici.

Non ci siamo più lasciati. In trent’anni abbiamo litigato una volta sola, colpa di una racchetta da tennis. Se mi chiede se le ho messo le corna le rispondo di no. Se per tradimento invece intende la mancata condivisione di una scelta e di una idea, allora le dico di sì, che a volte credo di averlo fatto. Nell’educazione dei figli, per esempio.

Del calcio non mi piace l’esasperazione, le polemiche, i processi, l’arroganza, la stupidità, l’oblio. Quando giocavo io ci divertivamo di più, tra compagni di squadra ci si frequentava dopo le partite, gli allenamenti. Mischiavamo le nostre solitudini. Oggi i calciatori lo fanno molto di meno. Questo mondo ha dato lavoro a tanti, ma tanti si prendono troppo sul serio. Eppure fai un mestiere che ti piace, ti danno un sacco di soldi, sei un privilegiato. Vivi una vita che non è normale. Se ho una qualità è quella di saper scegliere i miei abiti mentali. Non posso assumere un modo di essere che non è il mio. Non riesco a fingere, a mordermi la lingua, a mettere su il disco dell’ipocrisia”.

Parole note, quelle di Cesare Prandelli che ha ricordato anche la giornalista Nadia Toffa:

“Un amico comune mi ha raccontato la battaglia di Nadia, che mi ha commosso e stretto il cuore. Così, senza pensarci troppo, sono andato a renderle omaggio. Non eravamo amici. Anzi, neppure la conoscevo, ci siamo incontrati e salutati un paio di volte, casualmente, favoriti forse dal fatto che siamo bresciani tutti e due. Sono andato alla camera ardente spinto dal suo coraggio. Nadia ha inviato un messaggio straordinario, soprattutto a quelli che soffrono: c’è la possibilità di vivere, magari non a lungo, ma con grande dignità e senza perdere il sorriso. Lei c’è riuscita. È stata un esempio di forza e combattività. Alla fine ero quasi imbarazzato per le emozioni forti che ho provato. Sono contento di essere andato a salutarla e di aver abbracciato la sua famiglia. Suo papà lo conosco da tempo, è una persona di grande umanità ed è un tifoso, quando mi ha visto era quasi sorpreso che fossi lì. Spero di aver lasciato qualcosa a lui e alla mamma. Perdere un figlio è disumano, la cosa più brutta che possa capitare a un genitore e non ci sono parole per colmare il vuoto che rimane dentro. Nadia era giovane, energica, sorridente, aperta alla vita. La sua storia, in mezzo a tante altre purtroppo, è la conferma che siamo fragili e a volte indifesi. Una riflessione che non facciamo quasi mai. Non so se il suo sorriso sia una speranza contro il male, ma il suo messaggio è importante. Nadia ha affrontato la malattia con coraggio, senza nascondersi, senza vergogna. Sapeva di non avere troppo tempo a disposizione, ma non si è arresa e ha offerto la sua sofferenza affinché fosse un esempio. Si è messa a nudo. Ha avuto la forza di raccontare tutto, senza paura e con grande dignità. Non ha mollato sino alla fine”.

Prandelli lascia il calcio: carriera, la moglie, ct Italia. Salvatore Riggio e Andrea Sereni su Il Corriere della Sera 13 marzo 2023.

Cesare Prandelli è stato calciatore alla Juventus, allenatore della Fiorentina dei Della Valle, ct della Nazionale. Il suo ritratto, dalla morte della moglie, alla nuova compagna, ai figli Carolina che lavora all’Onu e Nicolò che fa il preparatore nel Bologna

Prandelli lascia il calcio: «La panchina? Al parco»

Cesare Prandelli, 65 anni, ex c.t. azzurro, ha detto basta. Cala così il sipario sulla sua carriera di allenatore. La sua ultima panchina è stata quella della Fiorentina, lasciata due anni fa (marzo 2021): «La passione rimane, una grande passione. Sto molto bene, tutto il resto passa», ha spiegato durante un intervenuto questa mattina, lunedì 13 marzo, a Radio Anch’Io Sport su Radio 1. E ancora: «Un po’ di richieste arrivano sempre, ma al momento la panchina che sto sognando è quella in un parco con i miei nipotini per godermi la vita con loro. Basta allenare». Questa è la prima volta che Prandelli prende posizione sulla sua carriera e dice, senza mezzi termini, di non voler più allenare. Come detto, in passato ha allenato anche la Nazionale, arrivando secondo a Euro 2012 e uscendo ai gironi del Mondiale di Brasile 2014. Gli ultimi ai quali ha partecipato l’Italia.

Prandelli da calciatore

Cesare Prandelli è un uomo d’altri tempi. Non ama i social, non ha mai avuto un vero e proprio procuratore, va in giro con una Panda e chiacchiera al bar sotto casa. È stato pronto a sacrificare la propria carriera per amore della moglie Manuela. Quando ha compiuto 15 anni ha perso il padre e, rimasto con la madre e due sorelle piccole, è stato costretto a divenire l’uomo di casa. Poi il calcio. I primi anni con la Cremonese, l’Atalanta e la grande chiamata, la Juve. Sei stagioni in bianconero, perlopiù da alternativa ai centrocampisti titolari, in cui ha vinto tre scudetti e una Coppa dei Campioni, vivendo la tremenda notte dell’Heysel. Dopo la Juve è tornato a Bergamo, dove ha iniziato la sua carriera da allenatore.

Cesare o Claudio?

Cesare o Claudio? Quando nacque in casa ad Orzinuovi, provincia di Brescia, erano quasi tutti d’accordo sul nome da dare al piccolo: Cesare, come il nonno paterno. Non il padre, che voleva chiamarlo Claudio. Così all’anagrafe fu registrato come Claudio Cesare Prandelli. Da calciatore è sempre stato identificato come Claudio — anche nell’album delle figurine — poi, nel ’91, appese gli scarpini al chiodo e iniziò a seguire il settore giovanile dell’Atalanta. Da quel momento e per tutta la sua carriera da allenatore è stato conosciuto come Cesare.

I primi anni da allenatore: due dimissioni

Dopo gli anni nelle giovanili dell’Atalanta nel 1997 passa al Lecce. Si dimette dopo qualche mese, con 14 sconfitte in 18 gare. La sua squadra giocava bene ma non otteneva risultati. Semeraro, il presidente dell’epoca del club pugliese, non era d’accordo e gli telefonava ogni settimana per fargli cambiare idea. «Lo ringraziavo tutte le volte ma ormai la decisione era presa», raccontava qualche anno fa Prandelli a ultimouomo.com. Dopo il Lecce due anni al Verona, con annessa promozione e nono posto al primo anno in serie A. Si qualifica all’Intertoto (competizione che metteva in palio dei posti per la Coppa Uefa, ndr) ma la società rinuncia a parteciparvi. Così si dimette e accetta di tornare in serie B, al Venezia, riuscendo subito a centrare la promozione. Nel 2003 e nel 2004 è invece al Parma, con cui arriva quinto in serie A qualificandosi per la Coppa Uefa.

La morte della moglie e la nuova compagna

Nell’estate del 2004 è stato per poco meno di un mese l’allenatore della Roma. Era la sua prima panchina di una grande squadra, ma si dimise per i problemi di salute della moglie Manuela Caffi, a cui era stato diagnosticato un tumore. Per un anno si prese cura di lei, fin quando le sue condizioni non migliorarono. Così nel 2005 accettò l’offerta della Fiorentina di Della Valle. La moglie morì il 26 novembre 2007. Allo stadio Franchi ci fu un minuto di silenzio assoluto dedicato a lei. Oggi Prandelli ha una nuova compagna, Novella Benini, e con lei vive nella campagna toscana.

A Firenze l’esperienza più importante

In cinque stagioni a Firenze ha ottenuto grandi risultati, arrivando sempre ai primi posti della classifica in serie A (tre volte quarto) e portando i viola ad un passo dalla finale di Coppa Uefa (semifinale persa ai rigori contro i Glasgow Rangers nel 2009) e agli ottavi in Champions League, eliminati tra le polemiche arbitrali dal Bayern nel 2010. Firenze è restata nella vita di Prandelli anche per quanto umanamente gli ha dato.

Ct della Nazionale

Le dimissioni sono state una costante nella sua carriera. Quelle successive a Italia-Uruguay, Mondiale 2014, furono le più rumorose. Arrivava da un grande Europeo —nel 2012 —, perso in finale contro la Spagna dopo aver battuto l’Inghilterra ai quarti e soprattutto in semifinale la Germania, che due anni dopo vincerà il Mondiale. Nonostante questo, visto il fallimento dell’avventura brasiliana — ko contro Costa Rica e Uruguay dopo il successo con l’Inghilterra — decise dignitosamente di farsi da parte, contro la volontà della federazione. In 56 partite da ct della Nazionale ha sommato 23 vittorie, 20 pareggi e 13 sconfitte.

Le ultime esperienze negative

Le ultime esperienze, dopo la Nazionale, sono state difficili e spesso brevi. Pochi mesi al Galatasaray, in Turchia, subito dopo la fine del Mondiale poi, dopo due anni di inattività, 8 partite al Valencia, con dimissioni il 30 dicembre del 2016 per divergenze sul mercato. Il club spagnolo non la prese bene e gli fece causa per aver loro provocato un grave danno d’immagine. La vicenda si è conclusa solo nel 2018, con Prandelli che ha evitato il tribunale arrivando a un accordo economico con il Valencia. Nel mezzo un altro progetto finito male, negli Emirati Arabi, esonerato dopo meno di un anno dall’Al Nasr. Infine pochi mesi al Genoa, dal dicembre 2018 a maggio 2019: il club ligure centra la salvezza solo all’ultima giornata, Prandelli non viene riconfermato.

Quando scrisse: «È cresciuta un’ombra dentro di me»

Marzo 2021: Cesare Prandelli dice addio alla Fiorentina. Spiegò tutto in una lettera dolorosa e vera. Dopo quattro mesi e mezzo di lavoro appassionato si trovò a fare i conti con sé stesso e le sue fragilità. Furono 134 giorni vissuti sempre sul filo, che svuotarono Prandelli: «Nella vita di ciascuno, oltre alle cose belle, si accumulano scorie e veleni che talvolta ti presentano il conto tutto assieme. In questo momento della mia vita mi trovo in un assurdo disagio che non mi permette di essere ciò che sono. Per il troppo amore sono stato cieco davanti ai primi segnali che qualcosa non andava, qualcosa che non era esattamente al suo posto dentro di me». E ancora: «So che Firenze capirà e sono consapevole che la mia carriera di allenatore possa finire qui, ma non ho rimpianti e non voglio averne. Probabilmente questo mondo di cui ho fatto parte per tutta la vita non fa più per me e non mi ci riconosco più. Sicuramente sarò cambiato io e il mondo va più veloce di quanto pensassi». I primi segnali di difficoltà arrivarono dopo la sconfitta di Genova contro la Sampdoria il 14 febbraio 2021 e ancora, più forti, la sera della bellissima vittoria a Benevento (4-1, 13 marzo 2021). Prandelli si illuse di poter lottare contro i suoi demoni, ma poi contro il Milan arrivò la consapevolezza di fare dietrofront (21 marzo, k.o per 3-2). La rimonta prima fatta e poi subita, la tensione debordante sotto forma di tachicardia: «In questi mesi è cresciuta un’ombra dentro di me che ha cambiato il mio modo di vedere le cose. Sono venuto per dare il 100%, ma quando ho capito che non poteva essere così ho fatto un passo indietro», disse.

I figli Carolina che lavora per l’Onu e Nicolò preparatore

Prandelli ha due figli: Carolina e Nicolò. La prima lavora per l’Onu in Africa, a Mogadiscio: «La vedo poco. È una vita che ha scelto lei — raccontava emozionato al Corriere un anno fa —, sta realizzando i suoi sogni di ragazzina. Mi manca ma so che è felice». Nicolò invece è nel mondo del calcio: lavora nel Bologna, fa il preparatore, era nello staff di Sinisa Mihajlovic ed è rimasto ora con Thiago Motta (il contratto scade a giugno).

Estratto dell'articolo di Walter Veltroni per il “Corriere della Sera” il 2 luglio 2023.

Cesare Prandelli, come sta ora? Ha smesso di allenare all’improvviso...

«Sto bene. Avevo bisogno di staccare da quella vita frenetica, un po’ schizofrenica. È stato un momento stregato: gli stadi vuoti, una sensazione di solitudine che mi avvolgeva. Era tutto vuoto, tutto rimbombava troppo. Dovevo mettere un muro tra me e quel silenzio. Ora sto molto bene, seguo sempre il calcio, con passione. Ma non ho pensato neanche per un secondo di tornare ad allenare. Basta, fine». 

Ma le va di restare, con altri ruoli, nel mondo del calcio?

«Vorrei fare qualcosa ancora ma non l’allenatore. Mi sono reso conto che ero arrivato: generazioni diverse, gestioni diverse, programmi diversi. Ho avuto la sensazione che qualsiasi cosa proponessi ricevevo parole brutte e stavo sul cavolo a tutti. Sono fuori tempo massimo, probabilmente. Capita». 

Mi racconta come si è reso conto di questo disagio? Il momento preciso.

«Era durante un Sampdoria-Fiorentina, a febbraio del 2021, stavamo dominando la partita poi, verso il settantesimo, ha segnato Quagliarella per loro. In quel momento ho provato una spaventosa sensazione di vuoto. Mi è mancato il respiro per dieci secondi. Credo di conoscere il sapore dell’adrenalina ma una esperienza così non l’avevo mai provata. Un vuoto nero, un gorgo di nulla.

Forse il troppo amore per la Fiorentina, il desiderio di strafare, di portarla fuori dai guai. Ho parlato con le persone che sanno gestire queste situazioni di stress e mi hanno consigliato di staccare un po’. 

Mi hanno fatto questo esempio: è come un chirurgo che in sala operatoria interviene tutti i giorni ma arriva un familiare e lui si blocca. Il chirurgo non riuscirà più ad operare. Una sensazione così, di troppo affetto, di troppo amore, di troppa responsabilità mi ha tolto il respiro. Era il segnale». 

[...] 

«In questo momento della mia vita mi trovo in un assurdo disagio che non mi permette di essere ciò che sono». Sono le parole che lei ha scritto per motivare la sua decisione.

«Mi sono ammalato di troppo amore, non è retorica. In quegli stadi vuoti [...] avevo perso il riscontro diretto con le cose, sembrava una bolla marziana. E poi io voglio troppo bene alla Fiorentina, non posso vederla soffrire e tantomeno sentirmi responsabile di questa sofferenza. Mi sentivo come quando vedi tuo figlio che sta tentando una cosa e vorresti farla tu ma non sei in grado, perché non puoi farla. Questa è la sensazione che ho avuto. Vuoto e impotenza». 

[...] Quanto le danno fastidio due parole: procuratori e cuffiette?

«Conosco tanti procuratori, persone veramente perbene [...] Loro sono utili, ai ragazzi e a noi. Ma poi c’è anche un altro mondo che schiaccia tutto, non guarda in faccia a nessuno mosso solo da un gigantesco interesse economico. Loro fanno male ai calciatori, alle società, al calcio. Io non ho mai avuto procuratori, li ho presi soltanto quando sono andato in Spagna. [...]». 

E le cuffiette dei giocatori nello spogliatoio?

«La cosa imbarazzante è quando tu finisci l’allenamento, entri nello spogliatoio e tutti sono con il telefonino in mano. Non ci sono dieci minuti, un quarto d’ora in cui cerchi di analizzare, non so, la partita che hai perso, la situazione che non hai capito, tutto finisce lì. [...] hanno una concezione diversa del lavoro che deve essere accettata. È così, oggi». 

[...] Ilicic, Buffon, Sacchi. La depressione nel calcio ha fatto irruzione. È una reazione alla pressione?

«[...] Io non ho avuto la depressione, non c’era nulla di universale, era un malessere legato al mio lavoro. Risolto quello sono tornato sereno e positivo come sempre».

Chi, dei calciatori e dei suoi colleghi le è stato più vicino quando ha pubblicato quella lettera?

«[...] quello che mi ha sorpreso per la straordinaria umanità, è stato Antonio Conte. Poi anche Gasperini, Stefano Pioli». 

[...] C’è stato un altro momento nel quale ha privilegiato la vita rispetto al calcio, ed è stato quando è morta sua moglie.

«Mi sono sentito un privilegiato perché ho potuto scegliere. Tante persone hanno vissuto il mio stesso dramma e non avevano la stessa possibilità, dovevano continuare a lavorare dalla mattina alla sera. Avevamo fatto un patto, con Manuela: se avesse dovuto fare altre cure, più invasive, non l’avrei lasciata da sola. Ho fatto una cosa normale, ma forse oggi la normalità è un’eccezione».

Da allenatore della nazionale lei ha vissuto due momenti: uno straordinario, gli Europei del 2012, e uno più difficile, i Mondiali del 2014.

«Me li sogno ancora, però c’è da dire che è stata l’ultima volta che l’Italia si è qualificata ai Mondiali. [...] In quei quattro anni abbiamo cercato di capire dove poteva andare il mondo Federazione. Allora abbiamo cercato di fare delle proposte, ma abbiamo trovato molti ostacoli. Ci sono tante parrocchie che condizionano la scelta del presidente. I dati dicono che, fino ai vent’anni, noi siamo molto competitivi a livello mondiale, molto.

E poi no, c’è un vuoto e volevamo capire il perché. Alla fine torni sempre a come gestisci i bambini che iniziano a giocare a calcio, inizia tutto da lì. Se l’allenatore di un bambino di otto, nove anni, dieci anni, nota una gestualità e non capisce che è una gestualità da talento e cerca di immagazzinarlo in un sistema di gioco molto rigido, è normale che i talenti non escano. 

Ho visto delle partitine di bambini di otto, nove anni con il mio nipotino. Non vado più perché vorrei veramente parlare con il presidente federale e dirgli: “Ma voi sapete come stanno gestendo il calcio dei bambini?”.

(...)

Estratto da gazzetta.it il 13 marzo 2023.

 Sipario. Cesare Prandelli, 65 anni, ex c.t. azzurro, ha detto basta. La sua ultima panchina è stata quella viola, lasciata due anni fa (marzo 2021): "La passione rimane, una grande passione. Sto molto bene, tutto il resto passa", ha spiegato durante un intervenuto stamane a Radio Anch’Io Sport su Radio 1. "Un po’ di richieste arrivano sempre, ma al momento la panchina che sto sognando è quella in un parco con i miei nipotini per godermi la vita con loro. Basta allenare". […]

Prandelli: «Così ho scelto di non allenare più: mi è mancato il respiro. Il patto con mia moglie Manuela prima della sua morte». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 06 giugno 2023

L’ex allenatore della Fiorentina e della Nazionale: «Antonio Conte mi è stato vicino con un’umanità straordinaria. Ora sto bene, ma in panchina non tornerò più»

Cesare Prandelli, come sta ora? Ha smesso di allenare all’improvviso...

«Sto bene. Avevo bisogno di staccare da quella vita frenetica, un po’ schizofrenica. È stato un momento stregato: gli stadi vuoti, una sensazione di solitudine che mi avvolgeva. Era tutto vuoto, tutto rimbombava troppo. Dovevo mettere un muro tra me e quel silenzio. Ora sto molto bene, seguo sempre il calcio, con passione. Ma non ho pensato neanche per un secondo di tornare ad allenare. Basta, fine».

Ma le va di restare, con altri ruoli, nel mondo del calcio?

«Vorrei fare qualcosa ancora ma non l’allenatore. Mi sono reso conto che ero arrivato: generazioni diverse, gestioni diverse, programmi diversi. Ho avuto la sensazione che qualsiasi cosa proponessi ricevevo parole brutte e stavo sul cavolo a tutti. Sono fuori tempo massimo, probabilmente. Capita».

Mi racconta come si è reso conto di questo disagio? Il momento preciso.

«Era durante un Sampdoria-Fiorentina, a febbraio del 2021, stavamo dominando la partita poi, verso il settantesimo, ha segnato Quagliarella per loro. In quel momento ho provato una spaventosa sensazione di vuoto. Mi è mancato il respiro per dieci secondi. Credo di conoscere il sapore dell’adrenalina ma una esperienza così non l’avevo mai provata. Un vuoto nero, un gorgo di nulla. Forse il troppo amore per la Fiorentina, il desiderio di strafare, di portarla fuori dai guai. Ho parlato con le persone che sanno gestire queste situazioni di stress e mi hanno consigliato di staccare un po’. Mi hanno fatto questo esempio: è come un chirurgo che in sala operatoria interviene tutti i giorni ma arriva un familiare e lui si blocca. Il chirurgo non riuscirà più ad operare. Una sensazione così, di troppo affetto, di troppo amore, di troppa responsabilità mi ha tolto il respiro. Era il segnale».

Il calcio può fare male?

«No, far male no. Fa bene ai bambini che cominciano a giocare, che iniziano a sognare e hanno una grande passione. Ecco io vedo ancora il calcio come la somma di entusiasmo, passione, sogno».

«In questo momento della mia vita mi trovo in un assurdo disagio che non mi permette di essere ciò che sono». Sono le parole che lei ha scritto per motivare la sua decisione.

«Mi sono ammalato di troppo amore, non è retorica. In quegli stadi vuoti in cui ogni cosa era, insieme, amplificata e silenziosa, avevo perso il riscontro diretto con le cose, sembrava una bolla marziana. E poi io voglio troppo bene alla Fiorentina, non posso vederla soffrire e tantomeno sentirmi responsabile di questa sofferenza. Mi sentivo come quando vedi tuo figlio che sta tentando una cosa e vorresti farla tu ma non sei in grado, perché non puoi farla. Questa è la sensazione che ho avuto. Vuoto e impotenza».

Sempre in quella lettera ha scritto: «Questo mondo non fa più per me».

«Sì io mi riferivo alle nuove generazioni. Le nuove generazioni hanno un modo completamente diverso di intendere il rapporto tra singolo e gruppo. Il segreto del calcio è sempre stato quello di formare un gruppo, un gruppo che riesca ad avere lo stesso sentimento e lo stesso obiettivo. Probabilmente le nuove generazioni hanno un modo completamente diverso, non dico che è sbagliato. O ti adatti, ti adegui... Però io ho sempre lavorato basandomi sulle relazioni. Quando mancano l’allenare diventa solo un lavoro da calcolatore, freddo, in cui i dati sono preponderanti rispetto all’aspetto umano».

Quanto le danno fastidio due parole: procuratori e cuffiette?

«Conosco tanti procuratori, persone veramente perbene, capaci di rapportarsi correttamente e di interagire anche con gli allenatori. Loro sono utili, ai ragazzi e a noi. Ma poi c’è anche un altro mondo che schiaccia tutto, non guarda in faccia a nessuno mosso solo da un gigantesco interesse economico. Loro fanno male ai calciatori, alle società, al calcio. Io non ho mai avuto procuratori, li ho presi soltanto quando sono andato in Spagna. Voglio dirle questo: in teoria gli allenatori non dovrebbero avere i procuratori. Si apre altrimenti un grande conflitto di interessi. Per questo ho sempre voluto essere libero».

E le cuffiette dei giocatori nello spogliatoio?

«La cosa imbarazzante è quando tu finisci l’allenamento, entri nello spogliatoio e tutti sono con il telefonino in mano. Non ci sono dieci minuti, un quarto d’ora in cui cerchi di analizzare, non so, la partita che hai perso, la situazione che non hai capito, tutto finisce lì. Magari sono molto più seri e professionisti rispetto a noi, ma hanno una concezione diversa del lavoro che deve essere accettata. È così, oggi».

Mi racconta il momento preciso in cui ha deciso di smettere?

«L’ho capito la domenica mattina, la sera avremmo incontrato il Milan. La settimana prima avevamo giocato e vinto a Benevento. Dopo la partita ho detto “Sono stanco, sono vuoto”, pensavo fosse una situazione passeggera. Ma in settimana non era cambiato nulla, tutte le volte che arrivavo agli allenamenti avevo questo senso di disagio. La società mi è stata vicino, i collaboratori anche. Ero io che stavo male, nel profondo. La domenica mattina abbiamo fatto come sempre un allenamento pre-gara. Al mattino, in palestra, c’è stata una situazione, nulla di che, una carenza di concentrazione. Di solito agivo in un certo modo e la superavo. Quel giorno ho fatto due passi e ho sentito ancora quel disagio, sempre più forte. Mi sono riseduto e ho detto basta, è la mia ultima partita in panchina».

Ilicic, Buffon, Sacchi. La depressione nel calcio ha fatto irruzione. È una reazione alla pressione?

«Secondo me ognuno porta la propria testimonianza. Nessuna situazione è uguale all’altra. Io non ho avuto la depressione, non c’era nulla di universale, era un malessere legato al mio lavoro. Risolto quello sono tornato sereno e positivo come sempre».

Chi, dei calciatori e dei suoi colleghi le è stato più vicino quando ha pubblicato quella lettera?

«Tantissimi giocatori che ho avuto alla Fiorentina per cinque anni dal 2005 al 2010. Colleghi tanti, ma devo dire quello che mi ha sorpreso per la straordinaria umanità, è stato Antonio Conte. Poi anche Gasperini, Stefano Pioli».

Suo padre è morto quando lei era piccolo.

«Avevo quindici, sedici anni. Quando tanti mi trovano una persona solida, equilibrata, penso sempre che da ragazzo ero uno scapestrato, un teppistello. Ma quando ci siamo trovati a casa con le due mie sorelline e la mamma, senza papà, mi sono improvvisamente trovato ad essere responsabile di qualcuno. Quando sei responsabile di un gruppo di persone o solo dei tuoi familiari secondo me acquisisci delle capacità soprattutto di ascolto. Ormai la gente non ascolta più, sente distrattamente le parole degli altri e capisci, in una conversazione, che magari dicono, spesso di sé stessi, ma non comunicano».

C’è stato un altro momento nel quale ha privilegiato la vita rispetto al calcio, ed è stato quando è morta sua moglie.

«Mi sono sentito un privilegiato perché ho potuto scegliere. Tante persone hanno vissuto il mio stesso dramma e non avevano la stessa possibilità, dovevano continuare a lavorare dalla mattina alla sera. Avevamo fatto un patto, con Manuela: se avesse dovuto fare altre cure, più invasive, non l’avrei lasciata da sola. Ho fatto una cosa normale, ma forse oggi la normalità è un’eccezione».

Da allenatore della nazionale lei ha vissuto due momenti: uno straordinario, gli europei del 2012, e uno più difficile, i mondiali del 2014.

«Me li sogno ancora, però c’è da dire che è stata l’ultima volta che l’Italia si è qualificata ai Mondiali. Non sono una persona polemica, assolutamente, lo dico perché è così. In quei quattro anni abbiamo cercato di capire dove poteva andare il mondo Federazione. Allora abbiamo cercato di fare delle proposte, ma abbiamo trovato molti ostacoli. Ci sono tante parrocchie che condizionano la scelta del presidente, I dati dicono che, fino ai vent’anni, noi siamo molto competitivi a livello mondiale, molto. E poi no, c’è un vuoto e volevamo capire il perché. Alla fine torni sempre a come gestisci i bambini che iniziano a giocare a calcio, inizia tutto da lì. Se l’allenatore di un bambino di otto, nove anni, dieci anni, nota una gestualità e non capisce che è una gestualità da talento e cerca di immagazzinarlo in un sistema di gioco molto rigido, è normale che i talenti non escano. Ho visto delle partitine di bambini di otto, nove anni con il mio nipotino. Non vado più perché vorrei veramente parlare con il presidente federale e dirgli: “Ma voi sapete come stanno gestendo il calcio dei bambini?” Ci vogliono gli istruttori, invece sono tutti allenatori, i bambini di otto anni sono tutti impostati, passaggio avanti, passaggio dietro, non puoi fare più di due tocchi, quello avanti non può dribblare. Ma come non può dribblare? Se un bambino dribblava tutti, c’era l’allenatore che gli urlava di passare la palla. Bisogna ricominciare ad allenare il talento, non ad insegnare le tattiche».

Cosa le manca del calcio?

«Da giocatore mi manca l’allegria del gioco, il divertimento di andare al campo, fare le partite e sfidare gli altri, senza nessun tipo di responsabilità se non quella di far parte di un gruppo. Come allenatore mi mancano certi momenti in cui avverti che i giocatori ti ascoltano, ti seguono, stanno diventando una comunità, allegra e coesa. In quei momenti mi sentivo in pace con me stesso, mi sentivo molto felice di fare quel lavoro».

Giancarlo Antognoni.

Giancarlo Antognoni che fine ha fatto, ha 69 anni: il Mondiale, l’infarto, la Fiorentina, la moglie, Paolo Rossi. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 2 Aprile 2023

Antognoni, ex centrocampista di Fiorentina e Nazionale compie 69 anni l'1 aprile: la sua straordinaria carriera, tra successi, infortuni e rimpianti, e il difficile rapporto con la società viola. Fino all'addio del 2021. Il sogno di un incarico in Nazionale

Giancarlo Antognoni compie 69 anni

Festeggia oggi 1 aprile il suo 69esimo compleanno Giancarlo Antognoni, l’indimenticato capitano e bandiera della Fiorentina, campione del mondo nel 1982 e centrocampista che in Italia ha segnato un’epoca tra gli anni Settanta e Ottanta. Antognoni al termine di una lunga e vincente carriera, caratterizzata da infortuni anche gravi, è stato allenatore e dirigente, sempre per la Viola, fino all’inserimento nel 2018 nella Hall of Fame del calcio italiano, in qualità di «Veterano Italiano», testimone e promotore dei valori dello sport. Un eterno numero 10 ancora oggi ricordato con grande affetto, anche per alcune sue celebri frasi come, su tutte: «Puoi anche vincere due scudetti e due coppe dei Campioni ma poi che cosa ti rimane? Il tuo nome sugli almanacchi... Meglio essere ricordato come uno che non ha mai tradito Firenze e la Fiorentina».

Antognoni, la carriera nella Fiorentina

Nato il 1° aprile del 1954 a Marsciano, comune umbro in provincia di Perugia di appena 18mila abitanti, Antognoni si trasferisce in Piemonte a soli 15 anni per inseguire il mito del suo idolo calcistico Gianni Rivera. Nel Torino, che lo aveva acquistato, giocò solo un’amichevole con le giovanili prima di esordire in Serie D con l’Asti. Per 435 milioni di lire venne comprato nel 1972 dalla Fiorentina, con la quale esordì in serie A a 18 anni e per la quale militò per 15 anni, onorando la maglia viola fino al 1987, prima di concludere la carriera giocando in Svizzera con il Losanna per due stagioni. Con i toscani il record di 341 presenze nella massima serie (impreziosite da 61 reti, una Coppa Italia e una Coppa di Lega Italo-Inglese vinta contro il West Ham United), poi il massimo numero di partite giocate in Nazionale da un giocatore della Fiorentina, 73, con 7 gol segnati.

Antognoni campione del mondo

In azzurro Antognoni ha ottenuto alcune delle più grandi soddisfazioni della sua carriera. Dopo il quarto posto ai Mondiali del 1978 e agli Europei casalinghi del 1980, Antognoni viene riconfermato titolare anche ai Mondiali spagnoli del 1982, quando si laureò campione del mondo. Con qualche rimpianto, perché oltre alla rete annullata contro il Brasile per un fuorigioco inesistente, un fallo subito nella semifinale contro la Polonia gli impedì di giocare la finalissima contro la Germania Ovest. «Seguire la partita dalla tribuna stampa fu la più grande delusione della mia carriera sportiva, insieme alla partita di Cagliari che costò lo scudetto alla Fiorentina». Solo qualche settimana prima infatti la Viola perse lo scudetto, superata in classifica dalla Juventus di un solo punto.

Gli infortuni: l’arresto cardiaco e la doppia frattura

Tra i tanti incidenti di gioco, due in particolare rischiarono di compromettere la carriera del capitano viola. Il primo, nel 1981, fu uno scontro con il portiere del Genoa Silvano Martina che gli provocò frattura alle ossa craniche e temporanea interruzione del battito cardiaco. Si temette in il peggio, ma i soccorsi tempestivi riuscirono a sventare il pericolo. Martina si proclamò innocente, affermando l’involontarietà del gesto, ma la Procura della Repubblica di Firenze aprì comunque un’inchiesta per lesioni volontarie. In tribunale sarà lo stesso Antognoni, calciatore esemplare per la sua sportività, a scagionare Martina e la vicenda si chiuse con un non luogo a procedere. Poi nel 1984 il numero 10 viola subì un duro contrasto con il doriano Luca Pellegrini, circostanza che gli provocò la frattura scomposta di tibia e perone e lo costrinse a saltare l’intera stagione 1984-85.

I contrasti con le proprietà della Fiorentina

Mentre da calciatore la sua posizione è stata praticamente inattaccabile, per via dei grandi meriti sportivi e della totale devozione alla maglia che ha mantenuto nel corso di tutta la sua carriera, Antognoni ha conosciuto alterne fortune come allenatore e dirigente. In una tribolata stagione come guida tecnica insieme a Luciano Chiarugi, nel 1993 non riuscì a evitare la retrocessione in serie B dopo mezzo secolo di A. Nel periodo da osservatore, team manager e poi direttore generale si prenderà sempre i meriti dell’arrivo del portoghese Rui Costa sotto la gestione dei Cecchi Gori, Mario prima e Vittorio poi. Dopo un periodo di pausa, dettato da un rapporto conflittuale con la proprietà, tornò nei quadri dirigenziali del club, ma si dimise nel 2001 dopo l’esonero di Fatih Terim, entrato ormai in aperto e definitivo contrasto con le scelte del presidente viola. Fino a questo momento anche il rapporto con l’attuale proprietario Rocco Commisso non è stato idilliaco, dal momento che il ruolo proposto dalla società di prendersi cura del settore giovanile è stato visto dall’ex capitano come un ridimensionamento del suo ruolo. Queste divergenze hanno causato un nuovo addio nell’estate del 2021, con la sua amarezza condivisa persino a una cena con i tifosi.

Chi è la moglie Rita Antognoni

Sposata con Giancarlo Antognoni dal 1977, è la moglie Rita Monosilio a raccontare alcuni particolari della vita privata e del suo rapporto con il campione del mondo. «Mi ha fatto scoprire il calcio quando avevo 19 anni, l’età nella quale l’ho conosciuto. Penso sia tanto amato perché è sempre rimasto fedele ai suoi colori, anche se lo volevano importanti squadre come la Juventus, il Milan o il Real Madrid. Stare accanto a lui tuttavia non è stato facile, perché spesso mi ritrovavo da sola con i figli Alessandro e Rubinia, quando giocava in trasferta. I miei erano a Roma e a Firenze non conoscevo nessuno. Giancarlo continua però a essere molto romantico, mandandomi dei fiori senza un motivo o una ricorrenza precisa, ma solo per amore. Ha sempre mantenuto una grande attenzione anche per i nostri figli, generoso e premuroso in ogni occasione».

Antognoni e Paolo Rossi

Un altro che lo conosceva bene era Paolo Rossi, con il quale Antognoni aveva un rapporto molto stretto, anche nella vita. Ai funerali di Pablito il compagno di Nazionale lo ha ricordato così: «Dopo ogni suo gol in azzurro ero il primo ad abbracciarlo. Mi diceva sempre di servirgli il pallone buono, ma poi rideva, proprio come nei momenti difficili. Aveva la battuta sempre pronta da vero toscanaccio. Nonostante i successi non ha mai perso la dimensione di uomo semplice, umile e sempre pronto a darti una mano. Un’allegria contagiosa, poi ci sono anche tanti nostri momenti privati che preferisco tenere per me».

Prospettive future: la Nazionale?

Antognoni ha recentemente confidato in un’intervista il desiderio di un ruolo all’interno della Nazionale, mentre per il momento preferisce seguire la Viola dall’esterno. È stato molto preciso in più di una circostanza a descrivere la sua posizione attuale. In una nota ufficiale si era espresso così, in occasione del suo ultimo addio alla squadra tanto amata la scorsa estate. «Alla Fiorentina resterà sempre il mio amore incondizionato. Ho provato fino all’ultimo a valutare se vi fosse una qualche possibilità di proseguire insieme, ma la posizione del club non è cambiata. Mi dispiace, ma questo non toglie tutta la soddisfazione che le stagioni trascorse mi hanno dato. Un lavoro con la prima squadra che ho svolto con grande orgoglio». Calibrato come i lanci con i quali mandava in rete i suoi compagni.

Giancarlo De Sisti.

Picchio De Sisti, 80 anni da campione e nessun rimpianto. Tranne uno: «Che rabbia quello scudetto rubacchiato». Leonardo Bardazzi su Il Corriere della Sera il 13 settembre 2023.

Il trionfo da capitano nel '69 con la Fiorentina, campione europeo con la Nazionale, la mitica Italia-Germania 4-3 e la finale persa contro Pelè. Ma quel testa a testa dell'82 con la Juventus ancora brucia

Picchio De Sisti al Museo del Calcio con le maglie di Fiorentina, Roma e Nazionale

«La Roma mi ha portato un regalo qui a casa mia, da Firenze mi sono arrivate decine di telefonate di auguri: sì, sono felice. Tutto questo affetto significa che valgo qualcosa anche come uomo».

Giancarlo De Sisti, per tutti «Picchio» fin da quando, ragazzino, rincorreva gli avversari per i campi di Roma, oggi compie 80 anni: «Stasera festa in famiglia – dice – ho mal di schiena, e poi alla mia età meglio che a casa dove vuoi annà?»

De Sisti, tra Roma, Fiorentina e Nazionale ha avuto una carriera straordinaria. Quali sono i primi ricordi che le vengono in mente?

«Beh, Roma. Casa mia. Il gol alla Fiorentina, il mio primo in A, un amore grande per quei colori. E poi la Fiorentina stessa, con quel calore incredibile del tifo e un legame diventato sempre più forte in tutti gli anni passati lì. All’inizio non volevo andarci, volevo starmene vicino alla famiglia, alla fidanzata. Poi invece è nato qualcosa di grande, nove anni stupendi sotto tutti i punti di vista. Nel 1969 vincemmo lo scudetto grazie al mitico Petisso Pesaola, che ci faceva sentire forti anche quando non lo eravamo. Più avanti negli anni allenai una squadra formidabile con Graziani, Galli e Antognoni e sfiorammo lo sgambetto alla Juventus, che all’epoca era una corazzata. Che dire poi della Nazionale. Indossare l’azzurro è un orgoglio che ti resta dentro per sempre. Se giocare in serie A è stato bello, farlo per l’Italia è stato stupendo».

La vittoria dell’Europeo 1968, la finale persa con il grande Pelè, Italia-Germania 4-3. Quale di questi tre ricordi la fa emozionare di più?

«Italia-Germania è stata il massimo dei massimi. Esserci mi ha messo di diritto nella storia della Nazionale. Eravamo sfiniti ma non mollavamo, quante volte che lo siamo ricordato tra noi compagni. Purtroppo mancò il timbro finale, quella vittoria sfumata col Brasile. Ma Pelè meritava quel titolo e noi avevamo finito le batterie».

Ciccio Graziani dice spesso che «De Sisti avrebbe potuto fare una carriera super anche in panchina». Concorda?

«Nessun rammarico, ogni passaggio della vita va affrontato così com’è. Alla Fiorentina avevo una squadra super con Galli, Antognoni e lo stesso Ciccio. Nell'82 andavamo forte, la difesa era di granito. Ci rubacchiarono lo scudetto all’ultima giornata, sennò sai che festa. Eravamo punto a punto con la Juve, ma a Cagliari l’arbitro Mattei ci tolse un gol buono di Graziani: lì per lì fu una tragedia, mi sentii derubato. Vinsi anche un premio come allenatore capace di dare il miglior gioco alla propria squadra, poi nell'84 mi venne questo sub-ascesso dentale e mi dovetti operare al cervello. Persi il treno buono e alla fine lasciai. Il calcio però è sempre rimasto la mia vita, guardo partite, seguo la Roma e la Fiorentina. Certo, le partite dei miei tempi erano altra roba, un altro livello. Ricordo un Fiorentina-Milan meraviglioso: io contro Romeo Benetti in mezzo al campo. Sbagliai due rigori, mi volevo sotterrare. Il pubblico però mi incitava e mi applaudiva. Non gliela feci mai vedere, eppure lui, Benetti, a quei tempi era un grande. Vincemmo 3-2 nel tripudio dello stadio. Ancora oggi a ripensarci mi emoziono».

Stefano Cappellini per il Venerdì- la Repubblica il 5 marzo 2023.

 Se il centrocampista Giancarlo De Sisti giocasse a pallone oggi, il suo soprannome non sarebbe più Picchio. Perché a Roma, la città dove è nato nel 1943, picchio stava per trottola, in omaggio al suo moto in campo e alla sua statura non svedese, e vallo a trovare un pischello del 2023 che dica di un giocatore: pare un picchio.

Ma se parliamo di numeri, quelli non hanno tempo né gergo: 478 partite e 50 gol in serie A («E squalificato solo una volta, non per espulsione», racconta fiero al Venerdì), messe insieme con le sue due squadre del cuore, la Roma per cui tifava da bambino e la Fiorentina che ama, riamato, come una seconda pelle, 29 presenze e 4 reti con la Nazionale, campione d'Europa nel '68, vicecampione del mondo nel '70, uno scudetto e una Coppa Italia con la Viola, una Coppa delle Fiere e una Coppa Italia con i giallorossi. Poi c'è il numero 80, gli anni che compie il prossimo 13 marzo.

 Mister De Sisti, da dove partiamo per raccontare la sua vita?

«Dalle parole di mio padre Romolo che mi diceva sempre: poniti degli obiettivi ma non smettere mai di guardare chi è rimasto indietro. Perché si fa presto a non apprezzare quello che si ha. E per fortuna ha fatto in tempo a insegnarmelo, ho rischiato di non conoscerlo nemmeno».

 Per colpa della guerra?

«Per colpa dei nazisti. Dopo le Fosse Ardeatine fecero un rastrellamento nella borgata dove abitavo, al Quadraro. Mio padre, che era operaio alla Stefer, l'azienda dei tramvieri, fu caricato insieme ad altri su un treno diretto a Forlì, da dove sarebbero poi stati tutti trasferiti ai campi di sterminio. Si salvò perché molti, tra cui lui, si buttarono giù dal treno durante un rallentamento».

 Come si diventava calciatori nell'Italia sfasciata di quegli anni?

«Nel mio caso in parrocchia, l'unico posto dove i miei genitori potevano lasciarmi incustodito. Anche mamma Maria lavorava, era segretaria alla Centrale del latte, e non era contenta che io giocassi a pallone tutto il giorno.

Mi bucava il pallone con le forbici. E mio padre me lo ricomprava di nascosto».

 (...)

 Come arrivò nella squadra per la quale tifava?

«All'epoca non era mica come adesso. Uscivano gli annunci: si indica leva calcistica per i nati negli anni x e y, presentarsi già mangiati (il mister ride mentre lo racconta, ndr). Rischiai anche di non accettare perché mi era arrivata un'offerta da una squadra che giocava a Tor Marancia, la Omi, che stava per Ottica meccanica, mi offrivano 36 mila lire al mese. Sarebbero stati di grande aiuto in famiglia».

 Si ricorda il suo debutto in A nel febbraio del 1961, ancora minorenne?

«Certo, a Udine. Non andò bene, giocavo all'ala destra al posto di Alberto Orlando indisponibile, ma io ero più bravo a giocare in mezzo».

 Il suo maestro in quella Roma?

«Mi ritrovai nello spogliatoio con i miei idoli, ce li avevo tutti attaccati al muro in casa. Ma il maestro fu Juan Alberto Schiaffino, l'italo-uruguaiano.

Mi disse: guarda sempre negli occhi gli avversari che hai davanti e capirai in anticipo cosa stanno per fare. C'aveva ragione eh, avrò recuperato diecimila palloni con questo metodo».

 La Roma degli anni Sessanta aveva problemi di cassa. È vero che l'allenatore Lorenzo vi portò tutti al teatro Sistina per organizzare una colletta?

«Verissimo, servivano a pagare gli stipendi. Raccogliemmo circa 800 mila lire, che non bastavano. Non fu una cosa molto simpatica. Decidemmo di devolverli agli alluvionati del Vajont».

(...)

 Come fu lasciare Roma?

«Mi scappò la lacrimuccia, ero mammone, e dal 1961 ero fidanzato con la donna che è tuttora mia moglie. Il giorno stesso della cessione un messo della Roma andò a casa mia a riprendersi l'abito da trasferta, giacca e pantaloni. Ci rimasi malissimo».

Nel 1969 vinse il secondo e tuttora ultimo scudetto della Viola.

«Era la Fiorentina yé-yé, Pesaola allenatore. Conquistammo la certezza matematica dello scudetto vincendo a Torino con la Juve, non so se rendo l'idea».

L'anno prima lei era già diventato campione d'Europa con la Nazionale.

«Fu la prova che uno stellone mi accompagnava. La finale con la Jugoslavia si era chiusa in pareggio e non avevo giocato. Fu ripetuta la partita, il ct Ferruccio Valcareggi mi buttò dentro e vinsi da titolare».

 Anche nel 1970 ai Mondiali del Messico, mentre Sandro Mazzola e Gianni Rivera erano costretti alla famigerata staffetta, De Sisti era titolare fisso. Lei con chi stava tra i due?

«Erano fenomenali entrambi. Ricordo che un giorno, durante un allenamento in Messico, si presentò al campo Gianni Brera. Taccuino in mano, andava da tutti i calciatori e chiedeva: stai con Mazzola o con Rivera? Poi arrivò davanti a me e disse: a te non lo chiedo, tanto lo so già che sei amichetto di Mazzola. Era vero, avevamo fatto le Nazionali giovanili insieme».

Italia-Germania 4-3, la partita del secolo in semifinale. Poi il Brasile di Pelé vi asfaltò in finale.

«In quel Brasile c'erano almeno cinque fuoriclasse, era imbattibile».

 Alla Fiorentina diventa un idolo dei tifosi.

«A Firenze ero un re, ma l'ultimo anno, nel 1974, fu tormentato. Mi ero infortunato e non avevo un buon rapporto con l'allenatore Gigi Radice. Un giorno feci una cosa che non si fa. Gli dissi: io in panchina non ci vado, è già tanto se ci va lei».

Si racconta che con Radice arrivaste quasi alle mani.

«Sì, mancò poco, successe prima di una partita a Foggia. Era da poco nata la mia seconda figlia e io avevo chiesto a Radice di non farmi partire se non aveva intenzione di farmi giocare. Lui mi fa: parti, perché non ho deciso. Poi, la sera prima del match, ricordo che stavo vedendo un incontro di Nino Benvenuti, mi chiama e mi fa: non posso farti giocare. Scoppiò un parapiglia. Andai dal presidente Ugolini e chiesi di essere ceduto».

E tornò a Roma.

«Per scelta di cuore. Mazzola voleva portarmi all'Inter, mi avevano offerto aumento di ingaggio, villa e Mercedes. A Roma, però, c'era la mia vita. E poi mi voleva Nils Liedholm».

 Il Barone.

«Che uomo straordinario. Non si incazzava mai, il famoso self control, ma quando succedeva era una furia. Un giorno prese un giocatore e lo sollevò letteralmente in aria prendendolo per la maglia».

 Che aveva fatto?

«Prima di una amichevole con la Samp Liedholm disse una cosa del tipo: facciamo attenzione a tutti, anche a Spadetto. Un calciatore borbottò: seee, mo' conta pure Spadetto. Spadetto segnò. Tornati negli spogliatoi il Barone fece il finimondo».

 Poi nel 1979 il ritiro dal calcio giocato.

«Non ce la facevo più, i ragazzini correvano troppo più di me».

Sul calcio degli anni Settanta c'è l'ombra di un doping forsennato e pericoloso.

«Brutte abitudini ce ne sono sempre state e temo ci saranno. Di Micoren ne girava tanto, e anche ricostituenti. Però una cosa deve essere chiara: potevi rifiutarti e molti, me compreso, non li prendevano. Della Fiorentina degli anni Settanta si è parlato come fosse un ospedale da campo, non era così».

 Sapeva già che avrebbe fatto l'allenatore?

«Pensavo di no per tre motivi: ero stanco dei ritiri, non volevo più viaggiare in aereo, non sopportavo che chiunque ti potesse insultare. In Italia semo tutti allenatori».

 Poi però nel gennaio del 1981 la chiama la Fiorentina.

«Come potevo dire di no? Presi la squadra a metà anno e la riportai su. L'anno dopo sfiorammo l'impresa».

 Scudetto perso all'ultima giornata con la Juve.

«Mi avevano fatto notare che la Fiorentina aveva vinto uno scudetto nel 1956 e uno nel 1969. Era il 1982, pareva l'allineamento degli astri: uno scudetto ogni 13 anni. Arrivammo all'ultima giornata a pari punti. La Juve sconfisse su rigore il Catanzaro, dopo che sullo 0-0 Brio aveva fatto un colossale fallo in area su Borghi. Noi, a Cagliari, non giocammo bene ma annullarono un gol regolarissimo a Ciccio Graziani e finì 0-0. Fummo derubati. Infatti a Firenze nacque lo slogan famoso ancora oggi: meglio secondi che ladri. Se avessi vinto quello scudetto, sarei ancora al posto di Nardella».

Quello fu anche l'anno del drammatico infortunio alla testa di Giancarlo Antognoni, che rischiò di morire in campo.

«Dopo lo scontro con Martina, portiere del Genoa, non ricordo chi dei miei giocatori venne da me in panchina e disse: Antognoni è morto».

Nel 1984 la società le compra il brasiliano Socrates, il tacco di Dio. Puntavate allo scudetto, invece fu un disastro.

«Lo spogliatoio era spaccato e Socrates non aveva tanta voglia, fumava pure sul pullman verso lo stadio. Un giorno Eraldo Pecci lo afferrò per la barba mentre era steso sul lettino a fare massaggi: te sei preso un miliardo e non voi fatica'?».

 Che uomo era Socrates?

«Un contestatore nato. Ricordo che eravamo in ritiro a Pinzolo in Trentino e dovevamo giocare in amichevole a Novara. Lui non si capacitava e si mise vicino a me sul pullman per farmi vedere sulla cartina quanta strada dovevamo fare. Due ore a lamentarsi. Quando so' sceso gli ho detto: a' Socrate, me le hai fatte quadrate».

 Quell'anno fu lei a rischiare di morire.

«Successe all'inizio della stagione, sub-ascesso dentale, operazione al cervello, avrei dovuto fermarmi sei mesi. Andavo in panchina con gli psicofarmaci. Il presidente Pontello mi disse: ti affianco Valcareggi, ma io non me la sentivo, in squadra ci deve essere un capo solo e lasciai».

Le manca il calcio?

«Sarei bugiardo se dicessi di no, ma oggi la mia vita è fare il nonno dei miei sei nipoti. A loro dico sempre: se ti comporti bene, tutto torna indietro».

 Desiderio per gli 80 anni?

«Rimettermi dal mal di schiena e stare tra gli affetti. Sono stato fortunato. Da ragazzo di borgata a commendatore della Repubblica per meriti, sempre rispettando le regole. Nella vita contano tre cose: il sudore, la fortuna e la consapevolezza dei propri limiti. Io sono andato forte su tutte e tre».

Aldo Agroppi.

Estratto dell’intervista di Giuseppe Calabrese per repubblica.it il 5 febbraio 2023.

(…)

Lei è stato uno dei primi a parlare pubblicamente della sua depressione, poi anche altri l'hanno seguita.

"Mi fa compagnia da tanti anni, ancora ne soffro. La vita dell'allenatore è bella se vinci, ma se perdi diventa tutto difficile. Io ho pagato con la mia vita. La depressione è una malattia oscura, che ti logora dentro. Io la definisco il tumore dell'anima. Non la guarisci. Ho letto che Riva ne sta uscendo grazie ai figli. Ronaldo, quello vero, è stato due anni in clinica e ancora non ne è uscito e Iniesta ha detto che sta bene solo quando dorme, se riesce a dormire".

 E lei?

"Anche da giocatore avevo dei problemi. Ho fatto enormi sacrifici per emergere. Non ero un fenomeno e ho dovuto fare delle rinunce. Anche allora l'ansia di marcare giocatori forti mi consumava. La notte prima di una partita non dormivo mai, nessuno voleva stare in camera con me"

 Non ha mai trovato una via d'uscita?

"No. Ho avuto un'infanzia non facile, e forse questo ha inciso sulla mia formazione. Ho avuto un fratello che è morto a 20 anni, i miei genitori si sono separati presto e io sono cresciuto con i nonni. Chissà..."

Il calcio non l'ha salvata.

"Sa qual è la cosa che mi disturba di più? Quando mi dicono: hai avuto successo, hai giocato in Nazionale, perché sei depresso? Ecco, questa è la cosa più stupida che si possa dire, seppure carica di affetto. Lo so, non mi è mancato niente, ma se sono così non ci posso fare niente. Mi dicono: reagisci. Ma che sono scemo? Non provo a reagire? Certo che ci provo, ma non ci riesco e solo con i farmaci trovo un po' di sollievo. E quando finisce l'effetto, ne prendo ancora. Chi soffre del mio stesso male mi può capire, tutti gli altri possono solo intuire come si sta"

 E fare l'allenatore non l'ha certo aiutata.

"I calciatori, nella maggior parte dei casi, sono ignoranti, analfabeti e non capiscono quanto sia difficile il mestiere dell'allenatore. Spesso, invece di darti una mano, formano una cricca per metterti in difficoltà. Con il mio carattere avrei fatto a cazzotti tutti i giorni"

 I suoi anni alla Fiorentina non sono stati facili.

"In effetti ho sempre avuto problemi. La prima volta ero alla mia prima panchina di A, i tifosi erano arrabbiati con me perché non facevo giocare Antognoni. Avevo la polizia sotto casa, mia moglie non poteva andare a fare la spesa e i miei figli a scuola. E ogni giorno all'allenamento c'erano due ali di folla che mi volevano picchiare. Per fortuna c'era Passarella che mi difendeva. Eppure, nonostante tutto, quell'anno arrivammo quarti. Oggi saremmo in Champions"

 Nemmeno i suoi giocatori la amavano troppo

"Quelli che non giocavano. Un giorno Gentile fece un'intervista in cui disse che non lo facevo giocare perché io ero stato del Torino e lui della Juve. Allora quel giorno lo chiamai alla lavagna dentro lo spogliatoio e gli dissi: falla te la formazione per domenica"

 Campionato 1985-86 E la fece?

"Certo. Undici giocatori, come undici erano quelli che mandavo in campo io. Gli dissi: vedi, tu sei più bravo di me ma con questa formazione qualcuno dei tuoi compagni l'hai fatto incazzare di sicuro. E comunque quell'anno Gentile e Antognoni fecero 23 presenze su 30 partite"

 (...)

 La seconda volta alla Fiorentina è andata pure peggio, a fine campionato la squadra retrocesse in B.

"Sì, ma non con me. Infatti il giorno dopo la retrocessione Mario Cecchi Gori mi scrisse una lettera che ancora conservo. E' incorniciata in casa mia, e quando la leggo ancora mi commuovo. Era un grande uomo".

 Il rapporto con Vittorio Cecchi Gori, invece, non fu altrettanto sereno.

"La prima volta che arrivai alla Fiorentina c'erano Nassi, Piaceri, il presidente Pontello e il professor Baccani che mi proteggevano. La seconda ero solo. Con Vittorio non c'era feeling, Casasco, il direttore sportivo, aveva poco potere e i giocatori... Se sei bravo tecnicamente ma il cervello non funziona riesci a tirare fuori solo stupidità e arroganza. Io ero cotto, ma loro mi hanno bruciato. Non ero più io, è stato giusto fermarmi lì".

 Eppure era una buona squadra.

"Ha ragione, era buonissima. Con quella squadra non si può mai retrocedere, ma nello spogliatoio me ne fecero di tutti i colori. Glielo dica, se accettano facciamo un confronto e faccio tutti i nomi. Io non ero più un allenatore, ma loro erano scemi".

 Possibile che la società non sia mai intervenuta?

"Fu una stagione complicata. Prima il casino con Radice, poi il mio arrivo. Lo ripeto, c'erano giocatori che pensavano solo a cose che con il calcio non c'entrano. I soldi, le donne. Ma la maglia, a quella non ci pensavano. Io mi sono sgolato, glielo dicevo ogni giorno, insieme ci possiamo salvare, ma non è servito a niente. Una società senza peso e giocatori poco intelligenti, eppure fino all'ultimo ho pensato di potercela fare"

 Invece fu esonerato.

"Era inevitabile, non avevo più in mano la situazione. Lì ho capito che era arrivato il momento di farmi da parte. Mi sarei comunque ritirato a fine stagione, ma arrivò l'esonero e la mia storia di allenatore si è chiusa lì"

 (...)

Diciamo che il calcio in questi trent'anni è cambiato.

"In peggio, però. C'è poca qualità, i procuratori comandano e gli allenatori fanno i fenomeni. Vanno in panchina con la cartella, il computer, hanno staff di quindici persone, hanno pure lo psicologo. Altro che psicologo, per certi allenatori ci vorrebbe lo psichiatra. Ho sempre pensato che un allenatore può incidere al 20 per cento, il resto lo fanno la società e i giocatori. E' per questo che il prete vince".

Il prete?

"Sì, io Spalletti lo chiamo così perché parla sottovoce. È un allenatore di esperienza, ma può contare su una squadra di qualità e un presidente che è sempre presente. Ci sono le condizioni giuste per vincere. Però...".

 Però?

"Ogni tanto mi torna in mente un episodio, se vuole glielo racconto".

Prego.

"Spalletti allenava la Roma, non faceva giocare Totti e il pubblico lo contestava. Ricordo che in una partita, a tre minuti dalla fine, fece cenno al suo secondo di chiamare un giocatore dal riscaldamento. Il suo secondo è un bravo ragazzo, ma ha fatto una carriera da calciatore modesta. Si alza dalla panchina con in mano un bloccone di duecento pagine, e va a chiamare Totti. Si avvicina, apre il blocco e gli spiega i movimenti. Ora io dico, sei davanti a Totti, uno che ha giocato più di te, che è stato in Nazionale, e che è uno dei più forti giocatori italiani e gli devi spiegare cosa fare? Lo trovo offensivo. Ma questo è il calcio di oggi, devi far vedere che sei organizzato, che hai tutto sotto controllo. Il calcio oggi è una roba da ridere".

Gabriel Omar Batistuta.

Batistuta compie 54 anni: il gossip con la Ferilli, le caviglie a pezzi, la mitraglia. Pierfrancesco Catucci su Il Corriere della Sera l’1 febbraio 2023.

Il Re Leone ha legato il suo nome alla Fiorentina, ma ha vinto lo scudetto con la Roma. Poi i problemi fisici e la rinascita: «Chiesi ai medici di amputarmi le gambe»

Buon compleanno Batigol

La mitraglia servirebbe eccome a una Fiorentina che sogna qualcosa in più di un piazzamento a metà classifica in serie A e magari qualche soddisfazione in Conference League. Gabriel Omar Batistuta compie oggi 54 anni. E pensare che il Re Leone, l’uomo dei 183 gol in serie A con le maglie di Fiorentina, Roma e Inter, da ragazzino neanche era interessato al calcio. Meglio la pallavolo e il basket. Fino a quando, a 16 anni, un poster di Maradona regalatogli da un amico rappresentò l’illuminazione.

Le origini italiane

La famiglia di Batigol ha origini italiane: Domingo Batistuta (nato Domenico Battistutta), il trisnonno di Gabriel, era di Borgnano (una frazione di Cormons, in Friuli), mentre la trisnonna era Maria Zorzon di Brazzano, un’altra frazione del comune della provincia di Gorizia. A metà del XIX secolo emigrarono entrambi in Argentina, ma le loro tracce si persero per via dello smarrimento dei documenti. Osmar, il papà di Gabriel, aveva una macelleria ad Avellaneda mentre la moglie Gloria faceva la segretaria scolastica. Fratello maggiore di tre sorelle, quando Batigol cominciò a giocare a calcio non aveva un fisico esile, ragion per cui i coetanei lo prendevano in giro con il soprannome di «gordo» (grasso).

Nel cuore di Firenze e dei fiorentini

Arrivato in Italia nel 1991, a Firenze fu accolto con iniziale scetticismo. Ci resterà fino al 2000, vincerà una Coppa Italia e una Supercoppa, segnerà 205 gol tra campionato e coppe e lascerà un segno indelebile tra i tifosi. «Firenze è stata la mia seconda casa — ha raccontato di recente —. Sono andato lì quando non avevo neanche 22 anni. Sono andato via quando ne avevo 31. A un certo punto avevo più amici a Firenze che in Argentina. Ho capito la loro mentalità, cosa significa la Fiorentina per i fiorentini. C’è stata sintonia subito, mi sono sentito bene tutto. Ho sofferto per non essere riuscito a dare uno scudetto a questa maglia». Scudetto solo sfiorato nella stagione 1998-1999: la viola era campione d’inverno grazie alle sue reti (17 nelle prime 17 giornate), ma una serie di infortuni nel girone di ritorno condizionarono il campionato della squadra di Giovanni Trapattoni che chiuse terza dietro Milan e Lazio.

Il gossip con Sabrina Ferilli e l’esultanza «Irina te amo»

«Avevo deciso di restare zitto fino a venerdì, ma non ce la faccio più. Ho bisogno di parlare. Tutte queste voci sulla mia vita personale mi stanno distruggendo. Ho sentito dire che ho l’amante, che mia moglie mi ha sbattuto fuori di casa. Quante bugie… Pretendo rispetto da Firenze». Correva l’anno 1996, Batistuta stava vivendo una stagione complicata che aveva incrinato anche il rapporto con la città. Il gossip aggiungeva il carico da novanta a un equilibrio già precario: in città c’era chi giurava che avesse una relazione con Sabrina Ferilli e che approfittasse di ogni occasione per andare a Roma per incontrarla. Voci fuori controllo che gli fecero perdere la pazienza. Tanto che il 25 agosto 1996, dopo la doppietta al Milan nella finale di Supercoppa, prese la telecamera tra le mani e urlò la sua dichiarazione d’amore alla moglie: un «Irina te amo» con gli occhi spiritati che diventerà una delle fotografie della sua vita fiorentina.

Lo scudetto a Roma e la «discussione» con Montella per la 9

Lo scudetto lo regalerà alla Roma. Nel 2000 Franco Sensi lo portò nella capitale per 70 miliardi di lire e la sua prima stagione in giallorosso fu esaltante, soprattutto nel girone d’andata: 20 gol in campionato con la maglia numero 18 (la «sua» 9 era di Montella che, nonostante una lunga trattativa, non volle cedergliela). Nel ritorno qualche infortunio lo frenò, ma la Roma di Fabio Capello aveva ormai messo da parte un cospicuo vantaggio sulla Juventus che gestì senza troppi problemi nella seconda parte di stagione. Qualche problema fisico lo condizionò anche nelle stagioni successive, tanto che nel 2003 Sensi lo mandò in prestito all’Inter (ci resterà sei mesi) e qualche anno più tardi ricordò «di aver dato una fregatura» ai nerazzurri.

L’esultanza con la mitragliatrice

L’iconica esultanza con la mitragliatrice nacque a Firenze anche per merito del fisioterapista dell’epoca Luciano Dati con cui Batigol aveva legato molto, tanto da seguirlo (in maniera quasi clandestina) anche al Mondiale del 1998 in Francia. E proprio dopo quella sortita del massaggiatore, Batistuta cominciò a chiamarlo 007, nomignolo che Dati fece anche stampare sulla propria maglia con il 7 a forma di pistola come nel logo cinematografico della serie di film di James Bond. «Quando fai gol, mi spari» gli disse il fisioterapista a inizio stagione. Batigol non se lo fece ripetere due volte e a Vicenza, il 20 settembre 1998, esultò mimando il gesto di una mitragliatrice all’indirizzo dell’amico (che si buttò a terra e cominciò a ridere), esultanza ripetuta poi un’infinità di altre volte negli anni successivi.

I problemi di salute

Nel 2006 (dopo due stagioni a Doha) lasciò il calcio. Gli anni successivi furono molto complicati: l’intensa attività agonistica gli aveva usurato le cartilagini e i tendini delle caviglie, provocandogli forti dolori, tanto che — come raccontò in un’intervista agli argentini di Tyc Sports — chiese addirittura al suo medico di amputargli le gambe. Spiegò che era così frustrato da non avere la forza di alzarsi dal letto e non riusciva a camminare. Dopo alcuni interventi chirurgici e una lunga terapia, riuscì a superare il problema. È anche tornato a praticare sport, seppure in maniera blanda, e, oltre alla vecchia passione del polo, ha cominciato a giocare a golf.

Ballerino da Milly Carlucci

A dimostrazione che i problemi alle caviglie sono solo un (brutto) ricordo, nel 2019 Batistuta ha partecipato a una puntata dell’edizione italiana di Ballando con le stelle con la moglie Irina Fernàndez, conosciuta a 17 anni e sposata nel 1990 (la coppia avrà quattro figli, Thiago — che fa l’attore —, Lucas, Joaquín e Shamel). Il ballo, d’altronde, è sempre stata una passione e nel programma di Milly Carlucci Gabriel e Irina si sono cimentati in una cumbia scatenata, al ritmo di La vida es un carnaval.

La statua dorata

«Guerriero mai domo, duro nella lotta, leale nell’animo» erano le parole incise sotto la statua in cartapesta che il 5 novembre 1995 gli artigiani del Carnevale di Viareggio realizzarono per lui su commissione del Collettivo (uno dei gruppi organizzati del tifo viola). La statua gli fu consegnata prima di un Fiorentina-Lazio in cui Batigol segnò una doppietta. Era la sua partita numero 100 in serie A. Una statua di cui non esiste più nulla. Piazzata allo stadio Franchi, nel 2000 (l’anno del trasferimento alla Roma) fu dilaniata pezzo per pezzo.

IL NAPOLI.

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Aurelio De Laurentiis.

Walter Mazzarri.

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Luciano Spalletti.

Corrado Ferlaino.

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Il Razzismo.

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Il Segreto di un successo.

I Commenti.

I Momenti più belli.

Nel nome di Diego.

Finalmente lo scudetto.

Scudetto Napoli, la gioia De Laurentiis e la commozione di Spalletti. Scontri a Udine. Paolo Foschi, Monica Scozzafava e Redazione Online su Il Corriere della Sera il 4 maggio 2023.

Il Napoli di Spalletti va sotto con l’Udinese, poi pareggia grazie a un gol di Osimhen: vince così aritmeticamente il terzo scudetto della sua storia, con 5 giornate di anticipo. Al fischio finale tensione a Udine

 • Il Napoli è Campione d’Italia per la terza volta nella sua storia.

• La squadra allenata da Luciano Spalletti ha vinto lo scudetto dopo il pareggio di giovedì sera contro l’Udinese, gol di Victor Osimehn.

• L’urlo liberatorio al fischio finale si è levato dallo stadio Maradona, dove 50 mila tifosi hanno assistito alla sfida.

• La festa ufficiale sarà il 4 giugno, ultima gara di campionato.

• Il pagellone della stagione: lode a Spalletti, Kvara e Osimhen da 10

Ore 00:21 - La festa in diretta

Il centro è stracolmo di gente che canta e balla. Nelle vicinanze di largo Maradona si raccolgono i tifosi per festeggiare. Ma il primo coro e la prima dedica è per Diego. In migliaia cantano l’inno di Maradona tra sventolio di bandiere e fumogeni.

Ore 00:25 - Lorenzo Insigne: «La rivincita degli ultimi»

Napoletano, tifoso del Napoli, suo fantasista. Il rapporto quando vestiva la maglia azzurra non è stato sempre facile, ma da Toronto Lorenzo Insigne fa sentire tutto il suo amore per la sua squadra e la sua città. «Oggi è la rivincita degli ultimi, di quelli che non si arrendono mai — il post su Instagram —. Un gruppo fantastico che ha dimostrato di essere all’altezza di questo terzo scudetto. Grandi ragazzi con il cuore vicino a tutti voi. Napoli campione».

Ore 00:26 - Le lacrime di Spalletti: «Dedicato a mio fratello scomparso»

Lo ha vinto sul campo, come voleva. Non nel suo, e il finale è stato incandescente. Spalletti, il visionario, l’allenatore geniale, distende la fronte, libera il sorriso, abbraccia chiunque gli capiti a tiro. Molla i freni dopo una gara tiratissima, si rivolge a Napoli:«Questo traguardo è per te». alla fine arriva la dedica agli affetti più cari: «A mia figlia Matilde, alla famiglia, che è sempre lì a spingere. A tutti gli amici, a mio fratello Marcello». E a quel punto Spalletti, nominando il fratello scomparso 4 anni fa, si commuove e in lacrime lascia la postazione dell’intervista.

Ore 00:28 - Berlusconi: «La città se lo merita, complimenti»

Anche Silvio Berlusconi si unisce al coro di festeggiamenti per il Napoli campione d’Italia dopo 33 anni: «Una città in festa, una città che se lo meritava, complimenti, complimenti, complimenti. Una città incredibile che trascina anche noi dentro la sua gioia. Quindi anche noi diciamo: Forza Napoli, bravo Napoli, avanti tutta, questo deve essere l’inizio di una grande storia di vittorie! I napoletani, davvero, se lo meritano e noi siamo tutti con loro. Evviva, evviva, evviva! E lo dico col cuore, anche io che mi sono sempre considerato un napoletano nato a Milano».

Ore 00:29 - Il sarcasmo della Juventus

«Visti i tanti complimenti ricevuti in questi anni non potevamo esimerci...». Lo scrive ironicamente la Juventus su Twitter commentando lo scudetto conquistato dal Napoli e chiudendo la frase con una risata rappresentata da un’emoticon. E poi, il club bianconero aggiunge: «Congratulazioni al Napoli per la conquista del suo terzo scudetto!». Il tweet arriva dopo i battibecchi dei giorni scorsi: Massimiliano Allegri che si era arrabbiato alla fine della partita con il Napoli («Bellissimo, siete riusciti a vincere uno scudetto») e le parole dure di Aurelio De Laurentiis: «Ho vinto lo scudetto dell’onestà. Il ciclo vincente? Credo si sia aperto già tempo fa. Siamo stati vincenti per anni, avevamo potuto vincerne altri ed è come se li avessimo vinti ma l’irregolarità costante qualche volta ci ha frenati». Ora i complimenti ironici della Juventus.

Ore 00:31 - I complimenti dell’Inter

L’Inter è stata fra le prime società di serie A a complimentarsi col Napoli per la vittoria dello Scudetto. Questo il tweet dei nerazzurri: «Il Presidente Steven Zhang e tutto il Club si congratulano con il Napoli e con Luciano Spalletti per la conquista dello Scudetto. Congratulazioni Napoli, Campioni d`Italia 2022/23»

Ore 00:36 - L'Equipe: "La Resurrezione di Napoli"

Il quotidiano sportivo francese L'Equipe titola "La Resurrection", "La Risurrezione", dopo la vittoria del Napoli. «A 33 anni dal suo ultimo titolo - sottolinea il giornale - Napoli è campione d'Italia. 1987 - 1990 - 2023».

Ore 00:42 - De Laurentiis a tv Usa: «E ora la Champions!»

De Laurentiis ha definito l'acquisto del Napoli l'«esperienza più fantastica di ogni film che abbia fatto» e, rispondendo alla domanda di uno dei commentatori in studio, Marco Messina, se quelli fossero stati i 37 milioni meglio spesi della sua carriera, il presidente ha risposto: «Sì, sì, hai ragione». I conduttori della tv americana gli hanno chiesto quali fossero le sue aspettative, un anno fa, dopo la partenza di Mertens, Fabian Ruiz, Insigne, Koulibaly. «A fine maggio - ha risposto - alcuni giornalisti mi dissero `tu hai praticamente venduto tutti i giocatori, cosa farai il prossimo anno? E io dissi, ´vinciamo di sicuro lo scudetto' e loro si misero a ridere». Il presidente ha poi indicato qual è stata la chiave del successo: il ricambio di giocatori senza più entusiasmo e la costruzione di un gruppo. «L'anno scorso - ha spiegato - avevamo visto giocatori un po' svuotati, non avevano più entusiasmo. Così avevo bisogno di gente nuova. Non avevo bisogno di fare una squadra comprando quel giocatore, quello e quello ancora, io volevo che venisse creato un gruppo. Perché una squadra deve essere formata da un gruppo di undici giocatori più altri undici e avere tutti allo stesso livello, compresi i sostituti». L'ultima battuta è ancora sulla Champions. In studio gli hanno chiesto cosa prevede per il futuro del Napoli, e lui ha ribadito il suo sogno: «Se la Uefa non ci fermerà, come ha fatto l'arbitro nelle due partite (con il Milan ai quarti di finale, ndr), probabilmente il prossimo anno vinceremo la Champions League».

Ore 00:43 - De Luca: «Vittoria Scudetto motivo di orgoglio e di riscatto per Napoli e per il Sud»

«La vittoria dello scudetto da parte del Napoli è un risultato sportivo straordinario che passa alla storia del calcio italiano. È un riconoscimento per una squadra e un allenatore che hanno dimostrato sul campo una assoluta eccellenza. Facciamo a tutti loro i nostri complimenti». Lo scrive su Twitter Vincenzo De Luca, presidente della Regione Campania. «È una vittoria che si carica, come è evidente, anche di altri significati che vanno al di là del calcio. È un motivo di orgoglio e in qualche modo di riscatto per Napoli e per il Sud e per i tanti nostri concittadini che ci guardano da ogni parte del mondo», conclude De Luca.

Ore 00:46 - Scontri in campo al Dacia arena tra le tifoserie

Alcune decine di tifosi dell'Udinese sono entrati in campo con cinghie e bastoni correndo verso la folla di tifosi napoletani che a centinaia si erano stretti intorno ai propri beniamini. Sono seguiti tafferugli per alcuni minuti prima che le forze dell'ordine in tenuta antisommossa entrassero in campo e riuscissero a separare i pochi facinorosi dalla folla festante. Subito dopo un cordone di poliziotti si è messo in postazione davanti alla curva nord dove erano rientrati i supporter bianconeri impedendo loro di tornare in campo. Analogamente nell'altra metà campo, più lentamente, un più corposo numero di poliziotti si è schierato trasversalmente al campo a contenere gli entusiasmi azzurri, fino a far rientrare anche i tifosi del Napoli nella curva sud da dove erano scesi. Intorno alle 23.15 a circa mezzora dal fischio finale gli spalti della tifoseria bianconera si sono quasi completamente svuotati. Mentre dall'altro lato dello stadio i tifosi azzurri hanno ripreso a festeggiare con cori e sventolii di bandiera. Durante l'azione delle forze dell'ordine è stato chiesto più volte di tenere libero uno degli accessi al campo per consentire l'arrivo dei sanitari per soccorrere un paio di persone ferite o che avevano accusato un malore.

Ore 00:49 - Milano si tinge d'azzurro per lo scudetto del Napoli: fuochi d'artificio in piazza Duomo e caroselli d'auto

Anche a Milano è esplosa la festa per la storica vittoria dello scudetto da parte del Napoli. Dopo il pareggio con l'Udinese che ha incoronato i partenopei Campioni d'Italia sono iniziati i festeggiamenti con tanto di fuochi d'artificio fatti esplodere in piazza Duomo dove in tanti sono arrivati i tifosi del Napoli, come non succede nemmeno a Capodanno.

Ore 00:53 - Napoli campione d'Italia: delirio in città, migliaia di persone in strada

La grande attesa dei tifosi del Napoli, durata 33 anni dall'ultima conquista del titolo, si è conclusa giovedì sera,4 maggio, al triplice fischio finale di Udinese-Napoli. Agli azzurri bastava un sol punto per laurearsi campioni d'Italia per la terza volta ed è bastato l'1-1 colto alla Dacia Arena grazie al gol di Osimhen. A Udine erano attesi 15mila tifosi partenopei ma ne sono arrivati almeno 5mila di più A Napoli, invece, una città intera è esplosa di gioia al triplice fischio finale, con fuochi d'artificio in tutti i quartieri. Al Maradona sono arrivati invece tutti i 60mila annunciati per guardare il match dagli otto maxi schermi posizionati lungo il terreno di gioco. Tutto il mondo festeggia lo scudetto del Napoli. Anche Sophia Loren: «O sapev ca vinceva `o Napule, ma figurat.. (lo sapevo che vinceva il Napoli, ma figurati; ndr)».

Ore 00:54 - Nation: «È successo, primo titolo dopo era Maradona»

«È successo! Esattamente 33 anni e cinque giorni dopo che Diego Armando Maradona portò il Napoli all'ultimo titolo in Serie A, la squadra del Sud d'Italia ha finalmente conquistato il suo terzo scudetto». La partita pareggiata dal Napoli con l'Udinese apre il sito online del giornale argentino La Nation, dove la foto dello stadio di Udine in festa campeggia nell'Homepage. La partita nel paese latino americano, patria del campione storico del Napoli, è stata trasmessa in diretta da Espn-Star+ che al termine ha mostrato l'invasione festante di campo dei tifosi napoletani alla squadra e all'allenatore.

Ore 01:29 - Il prefetto di Udine: 8 feriti (non gravi) nella calca allo stadio

È di otto feriti non in gravi condizioni il bilancio della calca provocata alla Dacia Arena, alla fine della partita tra Udinese e Napoli, dai tafferugli in campo: lo ha riferito all’ANSA il prefetto di Udine, Massimo Marchesiello. «Da quanto abbiamo registrato - ha fatto sapere - non si tratta di feriti da scontri o da colluttazione, ma di traumi da caduta provocati dalla calca». Il direttore della Sores Fvg, Amato De Monte, ha confermato il bilancio spiegando che in totale il servizio di emergenza si è occupato di 15 persone prima durante e dopo la partita: non ci sono casi gravi salvo alcune fratture provocate da cadute dall’alto nel momento in cui i tifosi stavano entrando in contatto e c’è stata calca.

Ore 01:23 - Il sindaco Manfredi: «Lo scudetto ha mostrato la città, quella vera»

«C’è un messaggio positivo che va al di là del calcio. Io non credo sia stato lo scudetto del riscatto ma lo scudetto che ha mostrato la città, quella vera, organizzata, di competenze, di capacità e che ha raggiunto un risultato vincente»: così il sindaco Gaetano Manfredi parlando dalla terrazza di Palazzo Reale dopo il terzo scudetto conquistato dal Napoli. Dal punto di vista della sicurezza «finora non abbiamo avuto grandi criticità, siamo in contatto con le forze dell’ordine, è stato esploso qualche mortaretto, questo fa parte della festa. Il centro di controllo in prefettura ha rilevato minime criticità».

Ore 01:36 - Napoli: spari e petardi, cinque feriti

Cominciano a registrarsi purtroppo i primi feriti - cinque - dei festeggiamenti per il Napoli campione d’Italia. Secondo quanto apprende l’ANSA da fonti dell’Asl Napoli 1, due persone sono rimaste ferite da colpi d’arma da fuoco nella zona di piazza Garibaldi ed altre tre dall’esplosione di petardi. I primi due sono stati trasportati all’Ospedale del mare e al Cardarelli, mentre gli altri tre - tutti feriti alle mani - sono stati ricoverati al Vecchio Pellegrini.

Ore 01:37 - Udine, folla di tifosi davanti all’Hotel del Napoli

Centinaia di tifosi azzurri stazionano ancora davanti all’albergo Là di Moret di Udine, dove è alloggiata la squadra del Napoli per la seconda notte consecutiva. Adulti, giovani ma anche molti bambini sventolano bandiere e ogni tanto intonano cori per i loro beniamini, nonostante l’ora tarda. I giocatori sono usciti per qualche momento a ringraziarli e a fare qualche selfie insieme. Qualcuno ha acceso fumogeni in una atmosfera pacificamente festosa. Le forze dell’ordine non consentono comunque che la folla si avvicini troppo all’albergo, tenendola a distanza.

Ore 02:05 - L’ex moglie di Maradona: «Il cielo è in festa»

Claudia Villafane, ex moglie di Diego Maradona e madre di Dalma e Giannina, ha pubblicato una storia su Instagram per celebrare lo scudetto ottenuto dal Napoli. Un’immagine mostra un cielo azzurro con le scritte «Napoli Campione d’Italia» e «di sicuro state festeggiando, il cielo è in festa», riferendosi al campione scomparso quasi tre anni fa che aveva guidato la squadra azzurra alla conquista dei primi due titoli.

Ore 02:16 - Napoli: 4 feriti da arma da fuoco, uno è grave

Sono quattro le persone ferite da arma da fuoco stasera a Napoli, mentre erano in corso i festeggiamenti per la conquista dello scudetto. È quanto si apprende dalla Questura. Una delle quattro persone ferite è in gravi condizioni ed è ricoverata all’ospedale Cardarelli. La dinamica è attualmente in fase di ricostruzione.

Ore 02:39 - È morto uno dei feriti nei festeggiamenti

È morta una delle quattro persone ferite a Napoli da colpi d’arma da fuoco durante i festeggiamenti per lo scudetto. Lo si apprende dalla Polizia. Si tratta di un giovane di 26 anni che era stato ricoverato all’ospedale Cardarelli in gravi condizioni. La dinamica è in corso d’accertamento.

I Festeggiamenti.

(Adnkronos il 5 maggio 2023) - È esplosa la festa a piazza del Plebiscito illuminata d'azzurro per il terzo scudetto conquistato questa sera dal Napoli. Sventolano bandiere, si accendono fumogeni, mentre tutto intorno esplodono botti e fuochi d’artificio. Incessante il suono delle trombette. In tanti scattano selfie e foto ricordo per una serata impossibile da dimenticare. Una festa di piazza che i tifosi vogliono far andare avanti a lungo. «I campioni dell’Italia siamo noi», cantano. E immancabile il coro omaggio al Pibe de Oro «ho visto Maradona, ho visto Maradona, Oh mama innamorato sono».

Estratto dell'articolo di Maurizio Nicita per gazzetta.it il 5 maggio 2023. 

Fermate Victor Osimhen. Come in campo, così fuori il centravanti è il trascinatore nei festeggiamenti. Perché con la sua solita generosità si tuffa nella folla dei tifosi a fine gara, poi nello spogliatoio sale sui tavoli insieme al Chucky Lozano a guidare i classici cori “siamo noi, i campioni dell’Italia siamo noi”: sciarpe allacciate alle tempie a mo’ di pirati, eccoli i predatori dello scudetto. […]

Fa impressione vedere uno dal carattere tranquillo come Piotr Zielinski scatenato, ma del resto il polacco è quello più anziano in squadra che ha vissuto l’amarezza del 2018 quando, nonostante un campionato da 91 punti, il Napoli si vide sfuggire lo scudetto. Ora Piotr sa che è suo, se l’è meritato e intona il coro più ironico della tifoseria napoletana: “Vesuvio erutta, tutta Napoli è distrutta!”. […]

Bottiglie di spumante che innaffiano la cena, poi ecco il protagonista più atteso: Tommaso Starace, il magazziniere storico che dopo aver vinto gli scudetti con Maradona, ora festeggia il terzo con grande orgoglio. Al centro della sala da pranzo dell’hotel del ritiro, eccolo a ballare la famosa “A far l’amore comincia tu” di Raffaella Carrà, […]

Estratto del’articolo di Angelo Carotenuto per “la Repubblica” il 6 marzo 2023 

Da che nave è nave, scorgerne un profilo nei paraggi di queste coste ha sempre diffuso un certo stato d’ansia. […] Ora, scoprire che uno scudetto ha il potere di ribaltare l’ultimo incubo presente nell’inconscio collettivo cittadino, fa una certa impressione. […] c’è questa nave che a Mugnano va, e cantano a bordo i napoletani […]  

Senza la banda larga forse non l’avremmo mai saputo, oppure sarebbe stata tramandata ai posteri come uno dei leggendari eccessi dei napoletani, […] Nella notte che pareva un Capodanno moltiplicato per trentatré, anche stavolta sono sbucati nel buio i carri allegorici. Il primo scudetto ne fece arrivare uno in piazza Mercato, dove abitava e arringava la folla Masaniello, lo stesso posto in cui alla fine lo trafissero con gli archibugi e gli tagliarono la testa. Quella del drago, di testa, aveva i riccioli di Maradona, era lungo 20 metri e si muoveva con le gambe di un centinaio di persone, giurano gli archivi.

Una volta che a Udine tutto era compiuto, nel rione di Cavalleggeri - a una fermata di metro dallo stadio - è apparso invece un cavallo alato che trainava una pedana, sulla quale in trono sedeva il fantoccio di Maradona e, a fargli da guardia poco davanti, stava un manichino nero di sospetta provenienza da grande magazzino, spettinato e vestito alla Osimhen.  

Qui il mito della leggendaria fantasia sfuma in declinazione di spending review, aggiornamento dell’arrangiarsi: hanno adattato uno dei carri di solito usato dai fujenti nei riti per la Madonna dell’Arco. Niente, in confronto alla nave che attraversa l’asfalto (titolisti in agguato: il mare non bagna Mugnano), descritta come surreale, perfetta parte per il tutto della scenografia-scudetto.

Surreale sta per onirica, e nel giro di tre gradi di separazione, per felliniana. Giusto 40 anni fa, E la nave va vedeva salpare il piroscafo Gloria N dal molo n. 10 di un porto vagamente napoletano, avendo a bordo le ceneri della cantante lirica Edmea Tetua. La crociera avrebbe dovuto spargerle nel Mar Egeo. A Napoli Fellini veniva a cercare facce per i suoi film, come mostra Sorrentino in È stata la mano di Dio . Finirà per bocciare il povero fratello di Fabietto, gli pare un cameriere di Anacapri. Le cose surreali vanno così. Falso e vero si confondono. […]

Da napolitoday.it il 5 maggio 2023. 

Un asino (ciuccio nella lingua napoletana), simbolo della squadra, sfila tra le strade di Napoli per lo Scudetto conquistato in serata.

Estratto da rainews.it il 5 maggio 2023. 

Una sorta di pullman “travestito da imbarcazione” con decine di tifosi a bordo che intonano cori e sventolano bandiere. La festa di Napoli non ha limiti e questa pseudo barca ne è la dimostrazione. […]

Estratto dell’articolo di Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera il 5 maggio 2023.

È necessario consegnare l’anima a questa città e abbandonarsi, immergersi nell’impazzimento che dilaga sotto i lampi dei fuochi d’artificio, il golfo illuminato a giorno, una battente felicità di popolo adesso sceso nelle strade e nelle piazze, gli anziani ai balconi, i bambini sulle spalle dei papà, Diego che lassù, stanotte, è chiaramente molto più d’una stella. 

Guardate: è davvero difficile spiegare quello che sta succedendo qui. 

Non c’è racconto possibile. 

Ci sono solo immagini e rumori, le lacrime di chi ha ostinatamente aspettato 33 anni e gli abbracci esausti di chi torna da quel luogo di speranza diventato lo stadio collegato in streaming con Udine, il profumo della pizza fritta in via Speranzella, ai Quartieri, e l’odore acre dei fumogeni azzurri (...) e quel genio di Sorrentino che infatti sta filmando tutto, tutto quello che è successo e che succede, la squadra non s’è mai disunita e la realtà può non essere scadente, a Napoli: ma piena di bellezza e di forza, di amore e di grandiose verità.

Perché almeno una cosa certa si può scrivere: dopo decenni, questo è il primo scudetto italiano economicamente sostenibile in un calcio sempre più feroce e sleale, che falsa bilanci e resta sull’orlo della bancarotta. Il presidente Aurelio De Laurentiis ha programmato, organizzato, perseverato. Lucido, talvolta cinico e spietato, ma onesto e vincente. Ha saputo costruire con lentezza in una città che vive di eccitazioni e frenesie: partendo dalla serie C, nel 2004, e arrivando ad allestire una squadra che, quest’anno, per lunghi tratti della stagione, è sembrata francamente perfetta. 

Non è stato facile. 

Non è stato capito. 

Non è stato amato.

A Castel Di Sangro, la scorsa estate, la Digos gli consigliò di non andare allo stadio per assistere all’amichevole. E all’allenatore che aveva scelto per compiere l’impresa, Luciano Spalletti, era già stata rubata la Fiat Panda: «Te la restituiamo, basta ca te ne vaje». Città irrequieta, diciamo così. Troppo abituata all’arte dell’arrangiarsi e del tutto e subito e poi si vede, per immaginare cosa potesse celare l’ultimo, clamoroso mercato. 

Via — di botto — Insigne, Mertens, Koulibaly, Fabian Ruiz e Ghoulam; dentro Kvaratskhelia (sconosciuto), Kim (dileggiato: «Kim, Camel e Marlboro morbide: 3 pacchetti, 10 euro»), Ostigard, Ndombélé, Raspadori, Simeone e Olivera. C’è — anche e soprattutto — la mano del direttore sportivo Cristiano Giuntoli. A Corrado Ferlaino, l’ultimo grande presidente, fu necessaria quella di Dio. 

Fondamentale far apparire il più forte calciatore di sempre per riuscire a vincere due scudetti: Maradona, talento superdotato, fragile e commovente, che un’intera città ancora venera e non è un caso se chi viene a visitare la città, prima va a vedere il murales a lui dedicato, ormai diventato luogo di puro culto, e poi il Cristo Velato.

Intanto arrivano notizie dalla Dacia Arena: danze negli spogliatoi e calciatori che stappano spumante, Spalletti innaffiato e finalmente sorridente, lui che — a 64 anni e con oltre 550 panchine addosso — ha sempre quel ghigno amaro, quello sguardo un po’ così di uomo in lotta perenne, dilaniato dalle scosse elettriche di un carattere a dir poco complesso e da certi intuiti tattici di fascino furioso, da autentico maestro di calcio. 

(...) 

Negli ultimi giorni è stato molto citato il New York Times. Che ha tirato fuori questa frase: «Napoli non è più una città con una squadra di calcio. È una squadra di calcio con annessa una città». Complicato stabilire, dentro un frullatore di emozioni così forti, quanto il concetto sia vero: certo sarà interessante capire se la città, guidata da un gentiluomo della politica come il sindaco Gaetano Manfredi (lasciate stare che è tifoso della Juve, non è sera), saprà farsi trascinare dall’esempio virtuoso e trionfale della società calcistica. Però davvero può essere un’occasione per cercare di andare oltre Gomorra, dopo aver già strappato le cartoline con la pizza e il mandolino. 

Ci sarà tempo.

Anche perché adesso nel bar tutti cominciano a cantare «Un giorno all’improvviso/ m’innamorai di te… ». 

E tutti saltano, e si tengono per mano. Ed è vero che, certe volte, la felicità degli altri può essere la tua. 

È bellissimo stare qui, stanotte.

La festa e la follia. Napoli Campione d’Italia, festa e spari in città: un morto e tre feriti. Ragazza travolta sul marciapiede: è grave. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 5 Maggio 2023

Dopo 33 anni il Napoli vince il suo terzo scudetto della storia e, poco dopo le 22,30 di giovedì 4 maggio, scoppia la festa tanto attesa in città. Migliaia di persone in strada per celebrare il titolo di Campione d’Italia conquistato dalla squadra guidata da Luciano Spalletti con ben cinque giornata di anticipo.

Fuochi d’artificio e caroselli per tutta la notte. Ma anche tragedie: come tra piazza Carlo III e piazza Volturno, nel centro di Napoli, dove un ragazzo di 26 anni è stato ucciso con più colpi d’arma da fuoco. Si tratta di Vincenzo Costanzo, residente nel quartiere di Ponticelli, periferia est della città. La dinamica è in via di ricostruzione da parte di carabinieri e polizia. Il 27enne, già noto alle forze dell’ordine, è arrivato in condizioni disperate al pronto soccorso dell’ospedale Cardarelli dove è morto poco dopo in seguito alle gravi ferite riportate.

OSPEDALE DANNEGGIATO – Ferite oltre a Costanzo, altre tre persone: le loro condizioni non sarebbero serie. Secondo una prima ricostruzione i quattro sarebbero stati feriti tutti nella stessa zona, non è ancora chiaro se durante i festeggiamenti o nel corso di un vero e proprio agguato.

Dopo la notizia del decesso di Costanzo, persone ritenute a lui vicine hanno danneggiato il pronto soccorso del Cardarelli.

All’ospedale dei Pellegrini, invece, è arrivata una donna di Portici di 26 anni ferita alla caviglia, verosimilmente da colpo d’arma da fuoco. Assistita dai medici è stata dimessa con dieci giorni di prognosi.

Dinamica simile anche all’ospedale Villa Betania di Ponticelli dove nella notte due giovani di 24 anni e 20 anni, residenti nella zona,  sono stati feriti al gluteo destro da un proiettile (dimessi con 15 giorni di prognosi).

Sempre al Pellegrini un 49enne è stato medicato alla mano, forse per esplosione di petardo in zona San Carlo Arena.

AUTO TRAVOLGE PERSONE SUL MARCIAPIEDE: RAGAZZA DI 20 ANNI GRAVE- A Casoria, comune in provincia di Napoli, all’1,30 un’auto ha travolto quattro persone che stavano passeggiando sul marciapiede. L’incidente è avvenuto in via Pio XII. Per cause ancora in corso di accertamento un uomo a bordo di una Fiat Stilo impattava sul marciapiede adiacente il muro perimetrale esterno della caserma dei carabinieri investendo quattro persone.

L’uomo ha poi abbandonato l’auto per fuggire a piedi. Gli immediati accertamenti dei carabinieri che hanno analizzato le immagini dei sistemi di videosorveglianza ha permesso di rintracciare il responsabile e di denunciarlo. Si tratta di un 43enne di Casoria.

I quattro feriti – di età compresa tra i 20 e i 31 anni – sono state trasferite negli ospedali Cardarelli di Napoli, San Giovanni di Dio di Frattamaggiore e Villa dei Fiori di Acerra. Dei 4 solo una ragazza di 20 anni si trova ancora ricoverata presso l’ospedale di Frattamaggiore in codice rosso con trauma cranico ed emorragia celebrale in pericolo per la vita. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Estratto dell'articolo di Titti Beneduce per napoli.corriere.it il 5 maggio 2023.

Colpi di pistola sono stati esplosi poco prima dell'una di questa notte, tra il 4 e il 5 maggio, durante i festeggiamenti per lo scudetto vinto dal Napoli, nella zona di corso Garibaldi, all'altezza di piazzetta Volturno. I proiettili hanno colpito quattro ragazzi. Tutti sono stati trasportati d'urgenza in ospedale e tra questi un giovane di 26 anni, Vincenzo Costanzo, è morto al Cardarelli dopo le due del mattino.

[…]

In un primo momento tutte le ipotesi erano state prese in considerazione, incluse quelle di proiettili vaganti esplosi nel corso dei festeggiamenti e di una rapina finita male. Col passare delle ore tuttavia ha preso consistenza quella dell'agguato: Vincenzo Costanzo era figlio di Maurizio, omonimo del giornalista e esponente di primo piano del clan D'Amico, attivo a Ponticelli. Nel 2021 era stato condannato per associazione camorristica e droga a otto anni di carcere. Almeno sette i bossoli raccolti sul terreno.

La morte di Costanzo «è assolutamente slegata rispetto ai festeggiamenti, non è connessa ai festeggiamenti». Lo afferma il prefetto di Napoli, Claudio Palomba ai microfoni di SkyTg24. 

[…] 

In mattinata la polizia ha arrestato una donna per danneggiamento, resistenza a pubblico ufficiale ed interruzione di pubblico servizio. Dopo l'arrivo di Costanzo al Cardarelli, assieme ad altre persone, stava tentando di entrare nel Pronto soccorso inveendo contro gli agenti intervenuti e colpendo con calci e pugni le porte di ingresso.

Gli operatori, con il supporto del reparto mobile di Napoli, hanno allontanato le persone e bloccato una di esse che, dopo aver danneggiato le porte scorrevoli del Pronto soccorso, aveva aggredito i poliziotti tentando nuovamente di accedere alla struttura. G.P., 49enne napoletana con precedenti di polizia, è stata dunque arrestata. […]

Il Napoli è campione d’Italia: calcio, teatro e musica nello scudetto della città che ricomincia da tre. Maradona e i De Filippo, Troisi e Pino Daniele. La città festeggia con le sue leggende sportive e culturali. Da Ferlaino a De Laurentiis, da Bianchi a Spalletti, vincere qui è tutta un’altra storia. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 4 maggio 2023.

Le immagini del terzo scudetto napoletano sono tutte lontano dal campo di gioco e forse non è un caso se il campionato sia stato vinto con la squadra a Udine, a segnalare l’accessorietà del fatto sportivo e di una vittoria che qui si dà per acquisita da tempo.

I simulacri dei calciatori vivono per le strade della città da mesi e per mesi ci resteranno, con le sagome a grandezza reale allineate per le salite e lungo le migliaia di gradini che hanno consentito alla polis greca di arrampicarsi dalla riva oltre i 250 metri sul livello del mare della fortezza di Sant’Elmo, con le facce, i numeri di maglia, le bandiere dei loro paesi, diciotto compresa l’Italia.

In nessuna città del mondo la vittoria in campionato è altrettanto scandita dalla fusione con l’elemento culturale. Massimo Troisi annuncia il suo Ricomincio da tre dagli striscioni appesi fra una casa e l’altra a Montecalvario o al Vomero. Con lui ci sono i musicisti come Pino Daniele e, naturalmente, i mostri della recitazione, Totò, Peppino, Eduardo.

Sul pantheon politeista del napoletano regna lo Zeus venuto da Lanús, municipio della zona sud di Buenos Aires, e morto di usura e di tristezza il 20 novembre del 2020 a Tigre, cittadina per ricchi sulla foce del Rio della Plata a nord della megalopoli argentina.

Diego Armando Maradona è dovunque. Via Emanuele De Deo, che sale a perpendicolo da via Toledo sull’erta dei Quartieri spagnoli, culmina in una piazzetta ribattezzata a furor di popolo Largo Maradona, di per se stessa teatrale con l’enorme quinta del murale dipinto per l’altezza di quattro piani sulla facciata fino a quel momento grigia di un rione casbah riaperto al traffico turistico per uno dei tanti miracoli del Diez.

Turisti, appunto, turisti dovunque in una città che si gentrifica a vista d’occhio in quartieri come la Sanità dove, uno scudetto fa, non tutti i napoletani osavano mettere piede.

Ma i campionati vinti nel 1987 e nel 1990, più quello del 1988 lasciato al Milan fra dicerie mai del tutto chiarite, sono stati attribuiti al Pibe de Oro. Ingiustamente, si capisce. Un fuoriclasse può vincere da solo una partita, non un torneo lungo nove mesi. Il Napoli del presidente Corrado Ferlaino e di mister Ottavio Bianchi era uno squadrone con Salvatore Bagni, Ciro Ferrara, Bruno Giordano, Careca, Alemão, solo per nominarne alcuni.

E, non per scrostare l’affresco del mito, era un club spalleggiato finanziariamente da mister Banco di Napoli, Ferdinando Ventriglia, il banchiere democristiano che finanziò l’acquisto di Maradona dal Barcellona senza garanzie e grazie all’intercessione del sindaco di allora, il collega di partito Enzo Scotti. Avvitata in un crescendo di costi insostenibili, la Ssc Napoli sarebbe fallita e retrocessa in serie C quattordici anni dopo il secondo titolo italiano per essere ripresa da Aurelio De Laurentiis.

Nella città che fa della simpatia vera o rappresentata la sua bandiera, il carattere del proprietario della Filmauro ha trovato materia infinita per scontri, liti e polemiche. Nato a Roma dal produttore cinematografico Luigi, fratello dell’altro produttore Dino, Adl sfoggia l’accento della capitale e si permette di alternare dichiarazioni d’amore partenopeo a provocazioni blasfeme del genere “la pizza a Napoli fa schifo”.

Lo scudetto è prima di tutto merito suo. L’allenatore del miracolo è Luciano Spalletti, il toscano che si avventura nella lingua di Scarpetta, Viviani, De Filippo, ma forse sarebbe potuto essere, qualche stagione fa, Maurizio Sarri, figlio di un gruista dell’Italsider di Bagnoli.

Il direttore sportivo Cristiano Giuntoli ha meritatamente conquistato il suo posto nella galleria dei campioni d’Italia con acquisti che sembravano mattoni rifilati al mercato di Forcella e invece erano perle. Il difensore coreano Kim Min Jae è arrivato per 20 milioni di euro e oggi ne vale almeno 50. André Anguissa da 15 milioni è salito a 40. L’orgoglio del popolo georgiano Kvicha Kvaratshkelia è costato 11,5 milioni di euro e la sua quotazione attuale è di 85. Il centravanti Victor Osimhen, che si è inserito nel calcio italiano con qualche titubanza iniziale durante la stagione 2020-2021, ha smentito chi lo giudicava troppo caro a 71 milioni di euro e oggi vale oltre quota 100.

Ma l’aspetto calcistico è davvero minoritario nel terzo campionato vinto dal Napoli. Lo scudetto che ricomincia da tre è un pretesto di caos, rivalsa, allegria e, non per scrostare l’affresco del mito, un’occasione di guadagno con la contraffazione e di pressione sulla società da parte dei caporioni della curva, non appena la tregua della contestazione sarà finita e si dovrà rafforzare la squadra.

Ma questo è di là da venire. La festa è appena incominciata. Non finirà tanto presto.

Dagospia il 9 maggio 2023. LA MEJO FICO DEL GOLFO! STASERA IN PRIMA SERATA A “LE IENE” RAFFAELLA FICO FESTEGGIA LO SCUDETTO DEL NAPOLI CON UN BAGNO IN BIKINI (MOLTO SUCCINTO) – GLI ALTRI FIORETTI: ALESSANDRO SIANI ALLE PRESE CON UNA GIGANTESCA TEGLIA DI POLENTA; GIGI D’ALESSIO E IL GAVETTONE D’ACQUA GHIACCIATA, FRANCESCO PAOLANTONI E L’EX SINDACO LUIGI DE MAGISTRIS…

Da "Le Iene" il 9 maggio 2023.

Stasera, martedì 9 maggio, in prima serata su Italia 1, nel servizio di Filippo Roma tutte le divertentissime immagini dei pegni di Alessandro Siani, Gigi D'Alessio, Raffaella Fico, Francesco Paolantoni e Luigi De Magistris, promessi e realizzati per Le Iene dopo la conquista del terzo scudetto del Napoli calcio. 

Con qualche settimana d’anticipo sulla fine del campionato italiano, “Le Iene” avevano chiesto ai cinque napoletani celebri e super tifosi cosa sarebbero stati disposti a fare in caso della vittoria del titolo. I cinque hanno raccontato a Filippo Roma quali fossero i loro riti propiziatori per ogni partita e quali invece i fioretti a cui si sarebbero sottoposti non appena raggiunto il risultato sperato. Oggi, di fronte alle telecamere della trasmissione tv, hanno mantenuto la parola. 

Le immagini del servizio mostrano Alessandro Siani che, avendo promesso che avrebbe mangiato un chilo di polenta, è alle prese con una gigantesca teglia; Gigi D’Alessio aveva optato per un gavettone d’acqua ghiacciata, Francesco Paolantoni ha girato nudo per le strade di Napoli coperto solo da una sciarpa e da una pentola che conteneva pasta e patate; Raffaella Fico si era impegnata a fare un bagno in bikini e infine, l’ex sindaco Luigi De Magistris aveva promesso di stupire con un effetto sorpresa per onorare la sua squadra del cuore.

Dagospia il 6 maggio 2023. VIDEO FLASH - OGNI PROMESSA E' DEBITO: FRANCESCO PAOLANTONI SI ERA IMPEGNATO A MANGIARE PASTA E PATATE NUDO, SUL LUNGOMARE DI NAPOLI, SE GLI AZZURRI AVESSERO VINTO LO SCUDETTO - DOPO CHE LA SQUADRA DI SPALLETTI HA PORTATO A CASA IL TRICOLORE, IL COMICO NON SI E' POTUTO TIRARE INDIETRO ED E' STATO ACCOMPAGNATO DA "LE IENE", AUGELLO AL VENTO, A SPASSO PER LA CITTA' 

Estratto dell’articolo di Andrea Parrella per fanpage.it il 5 maggio 2023.

Scudetti di ieri e scudetto di oggi. Il Napoli torna a vincere il tricolore e riaccende entusiasmi vissuti la prima volta 33 anni fa. Al tempo, nel 1987, Marisa Laurito c'era, allo stadio con Renzo Arbore e Luciano De Crescenzo e poi alla festa in Tv celebrata in Rai. […] 

Marisa, sono ore a dir poco incredibili per questa città.

Esaltanti è dir poco. Io purtroppo sono a Roma perché impegnata per cose di lavoro ed ero a casa, è stato terribile vedere quello che accadeva in Tv, anche perché i due scudetti precedenti ero in campo. […]

Si pensa a una grande festa in città. Ha in mente qualcosa?

Adesso capiamo, il mio desiderio sarebbe organizzare qualcosa davanti al teatro Trianon, che dirigo, ma dobbiamo capire la fattibilità in termini di sicurezza e quindi dobbiamo parlare con le autorità. Vorrei evitare rischi. Intanto io domani sarò teatro per il concerto di Stefano Bollani (il 6 maggio, ndr) e farò la mia apparizione con il vestito da scudetto. Avevo promesso che mi sarei vestita con la bandiera del Napoli per un mese e lo farò. 

D'altronde le promesse vanno mantenute. Si era parlato di nudo, è vera questa cosa?

Ma non è vero niente, non l'ho mai detto. Dato che mi avevano parlato di Serena Autieri che intendeva spogliarsi e mi chiedevano cosa avrei fatto io, ho risposto che avrei vestito i colori del Napoli avvolgendomi in ,una bandiera e poi, dopo una pausa, avevo detto "forse sotto sarò nuda". Ma specificando sotto, nun se ver' niente (non si vede niente, ndr), anche perché non ho più l'età.

D'altronde non c'è un'età giusta per fare queste cose. Insomma era per ridere.

Certo, solo che molti non sono spiritosi ed è passata come una frase seria.

[…]

Il Razzismo.

Dagospia il 5 maggio 2023.Su Napoli vorrei ricordare l'indimenticabile passo tratto dal primo capitolo di “Fratelli d'Italia” di Alberto Arbasino: “Io poi a Napoli vorrei starci sempre il meno possibile. Mai combinato niente e sempre litigato con tutti. Una depressione, sempre. Veramente una città che non mi dice niente, non ha niente da darmi, virgola non mi importa niente, perciò trovo inutile venirci. Non so cosa farmene del sole Mediterraneo e dell'eredità classica e dell'Architettura normanna e delle semplici gioie della vita contadina e della pizza alla pescatora. Commedia dell'arte, per me, no grazie. Basta uscire per strada e veder la gente e i panni stesi perché mi venga subito una gran voglia di gambe lunghe fatte senza economia, mani pulite, pelle chiara, capelli chiari, color brodo, birra buona, formaggi olandesi, parlamenti efficientissimi, ristoranti al primo piano con tappeti spessi per terra, pannelli di legno o di cuoio alle pareti, il suo soffitto basso, il suo camino acceso, il burro li subito, fresco, vini del Reno meravigliosi, lini finissimi sulla tavola, nessun pezzo che non sia d'argento vecchio, camerieri abilissimi in frac, piatti elaborati molto cremosi, anatre all'arancio, tournedos alla Rossini, terrine, salmoni, crepes, tante salse dappertutto, tutti che parlano sottovoce e non si sentono punto neanche le macchine per strada”.

Estratto da leggo.it il 5 maggio 2023.

Il conduttore de La Zanzara Giuseppe Cruciani non è molto amato a Napoli. […] Ospite di Dritto e Rovescio su Rete 4 ieri sera, Cruciani non si è sottratto al suo ruolo di 'antipatico' ai tifosi azzurri, lasciandosi andare ad uno sfogo riguardo i discorsi sulla rivincita del Sud rispetto alle squadre del Nord.

«La loro retorica è insopportabile. Le società vincono come da altre parti perché hanno dei progetti sportivi. La retorica del sud che è come una rivincita con il nord è ridicola. Ha vinto il popolo di Napoli? Ma quale vittoria del popolo, ha vinto la società e non il popolo», ha detto Cruciani. 

E i commenti sui social non si sono fatti attendere: «Cruciani fa vomitare. È così lontano dal nostro mondo che non potrebbe mai capire. Retorica? Ormai è lui che fa sempre gli stessi discorsi pieni di livore per far parlare di sé perché altrimenti nessuno se lo fila», scrive un'utente. […]

Estratto dell’articolo di Giovanni Ruggiero per open.online il 5 maggio 2023.

È la serata della festa Scudetto a Napoli mentre su Rete4 va in onda Diritto e Rovescio. Per la trasmissione di Paolo del Debbio impossibile ignorare l’evento per una città spesso al centro delle discussioni in studio, soprattutto per l’attenzione storicamente dedicata al Reddito di cittadinanza e alle tifoserie di favorevoli e contrari. 

E mentre quindi in studio si provava a discutere della fine del sussidio voluto dal governo Meloni, almeno così com’è stato concepito e conosciuto finora, in collegamento da Napoli c’era il telecronista tifoso Raffaele Auriemma, spedito da del Debbio appositamente per le strade della città in concomitanza con la festa scoppiata dopo il pareggio della squadra di Luciano Spalletti a Udine.

Peccato però che il collegamento si rivela un flop: quando da studio parte il collegamento, Auriemma appare solo, circondato da un desolante vuoto, come se nulla fosse accaduto. […] 

Si arriva fino a tre collegamenti, tanto che il tutto comincia ad avere i contorni della farsa. Si deve quindi arrivare al quarto collegamento per riuscire a scorgere un gruppuscolo di quattro tifosi napoletani apparsi dietro Auriemma che mossi con un po’ di pietà gli si sono avvicinati per riempire il triste sfondo vuoto che lo aveva accompagnato prima di allora.

Eterni David contro spietati Golia abituati a ogni genere di vittoria. Scudetto Napoli, la pazza gioia che sta facendo impazzire i non napoletani. Francesca Sabella su Il Riformista il 4 Maggio 2023

Foto Alessandro Garofalo/LaPresse 29-04-2023 Napoli, Italia – Festa scudetto: un treno azzurro porterà i tifosi al Maradona Sul convoglio il disegno del titolo e due grandi scritte April 29, 2023 Naples Italy – News – In the photo: Scudetto party: a blue train will take the fans to Maradona On the convoy the drawing of the title and two large writings 

Stiamo facendo troppo chiasso. C’è un gran clamore su questa faccenda “Napoli Campione d’Italia“. Dipende dal fatto che il calcio oggi è per taluni solo quel grande affare che è e a qualcuno il business fallito per quest’anno non è andato giù, così se la prendono con lo straripante folklore partenopeo. Stiamo facendo troppo chiasso. Dicono. Dicono che se abbiamo tanto bisogno di festeggiare una vittoria calcistica è perché in fondo siamo degli sconfitti nella vita. Sempre ultimi, sempre il Sud del Sud, la periferia degli altri, gli inascoltati e così l’esultanza per una “cosa da nulla” si moltiplica all’infinito nel nostro immaginario. Dicono.

Ma si sa, i napoletani hanno, anzi abbiamo perché chi scrive è nata a Napoli, entusiasmi estremi, forse perché estreme sono le tragedie che la città ha vissuto e dalla quale è sempre uscita con le proprie forze, sola. Hanno detto altresì che siamo, come al solito, dei provinciali a enfatizzare così tanto uno scudetto. Altri lo hanno “vinto” per ben 36 volte di cui 9 consecutivi. Ho letto e sentito tanto sul tricolore che sta per arrivare: il terzo, solo il terzo, una fatica ciclopica, noi eterni David contro spietati, giganteschi Golia abituati a ogni genere di vittoria. Hanno anche scritto, chiunque e ovunque che proviamo un odio smisurato per le altre squadre. Ci piace “sfottere” questo sì, l’ironia ma anche l’autoironia ce l’abbiamo nel sangue, non resistiamo né all’una, né all’altra. E però se parliamo di odio forse, allora, dovremmo coniare un nuovo termine per definire quel sentimento che ci augura una morte per combustione vulcanica quasi ogni giorno.

Eppure, noi con quella eterna filosofia del riso che se ne sta spaparanzata nel nostro dna, magari anche volgare, a tratti spinta, abbiamo iniziato a invocare per primi il Vesuvio. E magia… ha portato bene! Allora è tutto vero, siamo esagerati, scontati, provinciali, spudorati, banali, folli, un po’ cialtroni (come la vulgata popolare pare ci desideri e ci pretenda) e pure frustrati. Lo siamo perché, ed è difficile raccontarlo, in questi vicoli che attraversano e spaccano la città, Maradona è come Dio, la maglia azzurra è una seconda pelle e oggi l’abito della festa più bella e la sconfitta sarebbe un lutto nel cuore, che pure accetteremmo però, come abbiamo accettato tutto quanto la Storia nostra e degli altri ci ha imposto nel tempo. Sì. È esattamente così. Ed è vero che stiamo facendo un chiasso enorme, da due mesi, mica da ieri. Ma è bella la città tutta vestita a festa! È tutta un cielo! È o non è uno spettacolo l’azzurro che inonda ogni quartiere? Diciamolo, lo è. E diciamo pure un’altra cosa: “È succiess” (è successo, ndr). È una delle tante frasi che campeggia sugli striscioni coloratissimi che si danno la mano da un balcone all’altro.

È da 33 anni che questa città lo aspettava. Lo scudetto. Bramato. Sacro. Venerato. Desiderato, e innominato fino a qualche tempo fa, un po’ per non sciupare il senso, un po’ per prevedibile scaramanzia. Amato sì, come la donna più bella, come l’amante che ti fa perdere la testa, che ti cancella la memoria degli affanni. E lo so, inciampare nella retorica e cascare sui luoghi comuni è facilissimo se si prende carta e penna e si scrive di Napoli e scudetto, ma per una volta lasciateci essere pure retorici. Solo per una volta. “Solo per te”. Per qualcosa che ci ha corretti nella nostra atavica abitudine a perdere. Questa spropositata celebrazione è per quel Dio del calcio che ci ha protetto e ci protegge ancora, per quel Diego Armando Maradona che risollevò una città dopo tutto il dolore e il dramma di un terremoto che ci valse l’appellativo di “terremotati” con quel suo nuovo significato nel senso più dispregiativo, ideato apposta, per quelli che invece erano protagonisti di una tragedia immane. E sì, abbiamo esagerato con le bandiere, sono a centinaia, migliaia. Abbiamo esagerato con slogan e scritte su altre migliaia di striscioni che avvolgono la città.

È la cifra di quel pathos di matrice greca che è inciso nel nostro codice genetico è ci fa omaggiare lo spirito dionisiaco della vita coniugato al culto dei defunti: “o no’ ‘e che ti si pers”. Tradotto per chi non mastica la nostra lingua: nonno, cosa ti sei perso. Perché il pensiero in questo evento storico va anche a chi non c’è più e non ha potuto assistere a questa affermazione da mitologia, la marcia trionfale e pazza di una squadra di giovani che sale sul tetto di Italia e di un popolo tutto che si arrampica sul gradino più alto del podio. Per una volta. I napoletani porteranno allo stadio due bandiere, una delle due è per quella persona cara che non c’è più e che si è persa lo spettacolo di una città in delirio, della pazza gioia, della grande bellezza, di questo scudetto. E la città si ama forte, si abbraccia. Un abbraccio come per dire: stringiamoci nel giorno del sogno. Non ci “disuniamo” noi. Abbiamo una storia da raccontare. E lo sappiamo bene che il sogno non è ancora diventato realtà e sappiamo pure che dal sogno ci sveglieremo e riprenderemo a confrontarci con quei problemi che nessuno mai ci aiuta concretamente a risolvere. Certo la festa è stata rovinata, quella di domenica scorsa, ma noi siamo pazienti, onesti nel nostro furore di voler festeggiare e così, rimandiamo, allunghiamo l’attesa, dilatiamo il tempo del piacere che ci divora, come baccanali non ancora completamente ebbre. “Amm aspettat 33 anni, che fa nu juorn e chiù”. Abbiamo aspettato più di trent’anni, cosa vuoi che sia qualche giorno in più.

Francesca Sabella. Giornalista napoletana, classe 1992. Affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Un calcio ai pregiudizi. Scampia e Secondigliano, nelle periferie di Napoli è lo scudetto dei bambini. Francesca Sabella  su Il Riformista il 5 Maggio 2023 

È tutto blu. La città si colora di azzurro, è azzurro mare, azzurro cielo, azzurro Napoli. E si tingono di azzurro gli occhi dei bambini di Scampia e Secondigliano. Nei loro occhi c’è lo scudetto e ci sono i sogni, quei sogni che nascono come fiori dal cemento e non si arrendono al vento della criminalità, del grigio delle case popolari, dell’odore insopportabile della colla dell’etichetta: camorra e Gomorra. Hanno vinto loro. La pazza gioia è per loro. La grande bellezza sono i ragazzini con il pallone tra i piedi, è una piazza spaccio che diventa piazza di speranza, si spacciano sogni, si guarda al futuro, si allacciano gli scarpini per iniziare la partita e ci si sente un po’ campioni, come quelli di Luciano Spalletti. La periferia c’è, esiste, e il grigio è solo sbiadito certo non sparito, ma oggi c’è anche altro. Si tirano calci alla sfera sognando di correre sull’erba del Maradona.

Tra Scampia e Secondigliano la tensione per la Festa del Tricolore è alle stelle, l’attenzione è altissima e gli sforzi per far sì che tutto fili liscio sono moltissimi. Nei due quartieri gli addobbi per il giorno magico del Napoli sono stati limitati, niente striscioni enormi e decorazioni troppo vistose (come invece appaiono in tutta la città). Via anche le bancarelle abusive che vendono bandiere azzurre e gadget per la festa. Sono stati incrementati i vigili urbani e chi vive sul territorio garantisce: arrivano subito e fanno chiudere i piccoli esercizi commerciali su strada.

Duplicati anche le forze dell’ordine sul territorio e niente maxischermi in piazza per seguire la partita: troppo pericoloso, la paura è di non riuscire a gestire l’entusiasmo e a contenere i festeggiamenti. È così che i due quartieri sempre additati di essere lo specchio di camorra e Gomorra si preparano ad accogliere il tricolore. Prudenza, attenzione… ma soprattutto sogni. Scampia e Secondigliano da sempre a rischio: ora il rischio è di sfornare nuovi campioni. A Secondigliano, le iscrizioni alla scuola calcio per dilettanti, guidata dal presidente Vincenzo Strino, sono triplicate: più di cento piccoli calciatori pronti a inseguire il sogno. Perché oggi il Napoli fa sognare e se è vero che qui non è un gioco, guai a dirlo, ma è malattia, passione, amore folle, in questi vicoli di periferia lo è ancora di più.

I ragazzini sono tornati in piazza a giocare a calcio, guardano gli eroi dello scudetto in Tv e vogliono essere come loro. Lo scudetto è vostro. È di chi è sempre in affanno, è dei bambini di Secondigliano e Scampia e di tutte le periferie della città, oggi i riflettori si accendono per la gioia. Oggi vincono i sogni. Oggi vince tutta la città, ma questi bimbi vincono un po’ di più. Le luci della ribalta si spegneranno e la festa finirà, dopo le magie degli azzurri ce ne dovrà essere un’altra: realizzare i sogni di chi è nato tra le vele e le palazzine popolari: dopo il vento azzurro, soffi il vento del cambiamento. Quello vero

Francesca Sabella. Giornalista napoletana, classe 1992. Affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Spalletti batte Gomorra: il Rinascimento napoletano. La vittoria della squadra di calcio non è il riscatto della città ma certamente una vittoria sociale, globale. Un traguardo sportivo che chiude un cerchio, quello di un rinascimento di Napoli. Marcello Altamura il 5 Maggio 2023 su Il Giornale.

C’è uno striscione a San Gregorio Armeno, la strada delle botteghe dei presepi celebre nel mondo, nel cuore del centro storico di Napoli: “Benvenuti a Napoli, città d’arte e campione d’Italia”. È la sintesi dell’effetto scudetto, un mare che, parafrasando Anna Maria Ortese, bagna Napoli. Anzi la sommerge, con uno tsunami positivo. La vittoria della squadra di calcio non è il riscatto della città ma certamente una vittoria sociale, globale. Un traguardo sportivo che chiude un cerchio, quello di un rinascimento di Napoli.

Dopo la pandemia, la città è rifiorita, diventando meta di turisti da tutto il mondo. Secondo uno studio di Confesercenti Campania, l’indotto turistico e commerciale legato alla lunga festa scudetto del Napoli arriva a oltre 3 milioni di euro per ogni fine settimana. Esauriti hotel e B&B, pieni ristoranti e bar. Ma soprattutto cambia l’approccio di chi viene in visita, magari per la prima volta, a Napoli. 

Alcuni anni fa, la città era considerata una sorta di far west, dove si doveva uscire con pistole e cinturone per difendersi dai pericoli a ogni angolo di strada. Colpa di una narrazione volutamente esagerata nei toni, volta a raccontare solo stereotipi per far soldi. E in effetti è proprio questo avversario, più che la Juventus, la Lazio o le milanesi, che ha battuto la squadra di Luciano Spalletti. Una vittoria della Napoli capitale culturale su Gomorra, la città della camorra e delle pistole. 

Certo, uno scudetto non è la bacchetta magica. E i problemi, spesso atavici, restano. Ma la vittoria della squadra di calcio può dare una spinta importante. Si impone il modello, economico ma anche sportivo e gestionale, di Aurelio De Laurentiis, il patron non napoletano che ha saputo però, in 19 anni, riportare il Napoli a uno scudetto partendo dalle secche della Serie C. Un modello chiaro, virtuoso: niente follie economiche, pochissimi debiti, gestione di una società snella. Una vittoria nella vittoria: battuto la convinzione, anche questa legata fondamentalmente a uno stereotipo, che a Napoli non si possa fare impresa, programmare in maniera seria, ma si debba sempre improvvisare, come in un’eterna commedia con Pulcinella in scena. 

Il Napoli, invece, ha dimostrato che, attraverso un percorso sportivo e societario chiaro, forse lungo e accidentato ma all’insegna della crescita costante, si può vincere. Anche con un club che, prossimo al centenario (fu fondato il 2 agosto 1926), ha vinto solo due scudetti e per giunta avendo in campo il più grande calciatore della storia, Diego Armando Maradona. Che è poi una presenza costante nel trionfo azzurro. Il campione, scomparso il 25 novembre 2020, è in ogni angolo di strada, nelle bandiere, negli striscioni. Come un simbolo, un nume tutelare del Napoli e di Napoli. Come in quello striscione struggente a via Carbonara, nel cuore antico della città, dove sono visibili solo gli occhi di Diego. Occhi che scrutano una città in festa, Una città che anche nel calcio conosce il suo rinascimento.

Il tricolore non è solo un trionfo sportivo, è anche una rivalsa contro i cori razzisti. PIETRO MASSIMO BUSETTA su Il Quotidiano del Sud il 5 Maggio 2023

SCUDETTO a Napoli! Il segnale della seconda locomotiva che parte? Se vogliamo cogliere una serie di elementi per pensare che finalmente anche il Sud é su una strada virtuosa possiamo trovarne parecchi. Lo scudetto non è solo una coppa che ritorna nella città partenopea dopo 33 anni. E di più, molto di più, come dice la comunicazione della Chiesa Cattolica per il 2 × 1000. É la rivalsa contro i cori razzisti “Vesuvio lavali con il fuoco” e “Acqua e sapone, usate acqua e sapone”. Contro: “Napoletano? Emigrante?” di Massimo Troisi. Contro una vulgata che vuole il napoletano, ma in generale il meridionale, uomo da mandolino e spaghetti, poltroniere e nullafacente, spesso “mariolo “, in ogni caso che vive di espedienti e al limite della legalità, come le maschere ben rappresentate da Totò e Peppino. Quell’occupabile che nella vulgata recente non vuole lavorare, ma che é in grado di farlo, ma non lo fa perché fondamentalmente è uno scansafatiche. Dimenticando i 30.000 che ogni anno vanno via dalla Campania per andare a lavorare al Nord e i 100.000 che dal Mezzogiorno emigrano pur di avere una prospettiva di vita.

Una parte del Paese incolta ha dimenticato la grande tradizione partenopea in molte scienze, da quella giuridica, a quella medica, a quella del notariato. Ha dimenticato le grandi eccellenze della Federico secondo. Lo scudetto ormai già nelle mani che dice il toscano Luciano Spalletti “Ce lo stiamo trezziando chiano chiano” ,come dicono a Napoli, e la rivalsa rispetto a tutti luoghi comuni. Anche perché le squadre che si sono battute hanno club blasonati che sembravano invincibili, e che appartengono a quei territori i cui amministratori e residenti hanno spesso mortificato la capitale del Sud. Nessuno dimentica la trasferta dei bergamaschi per dare manforte ai tifosi inglesi scesi per distruggere la Città.

Ma lo scudetto è solo uno degli elementi di una rivalsa che ha molte facce. La Citta è stata riscoperta e la sua immagine di irredimibilitá sta cedendo ad una visione più positiva. La soluzione della vertenza Whirlpool con l’acquisto della azienda grazie alla Zes campana, le tante aziende che si stanno localizzando fanno ben sperare. Il fenomeno turistico che invade la città sa tanto di una riscoperta di una città che é stata massacrata per anni nella sua immagine. Il ragazzo con la maglia della Juve che gira per Napoli, senza che nessuno lo attacchi sono il simbolo di una città accogliente, multiculturale, di quella città dal caffè sospeso che fa specie a tutto il mondo. Ma certo risalire la china del sottosviluppo non è né semplice né può essere veloce. Riportare una città da un rapporto occupati compresi i sommersi di uno a quattro a quello fisiologico di uno a due é una mission se non impossibile certamente complessa. E non può avvenire certamente con le sole forze locali, é necessario un impegno nazionale considerevole, per fare rinascere una città che ha tutte le caratteristiche per diventare capitale, come lo era quando competeva con Parigi e Londra.

Peraltro la Campania, antropizzata molto intensamente, con i suoi 6 milioni di abitanti, demograficamente la più grande regione del Sud, che da sola rappresenta poco meno di un terzo della popolazione complessiva del Mezzogiorno, deve trovare tante vie per poter sopravvivere e affermarsi nel panorama nazionale. Per questo è necessario che si pensi a individuarla come sede di un prossimo grande evento, di un’agenzia internazionale, e di pensare a investimenti dall’esterno dell’area che possano localizzarsi nella sua Zes, per riportare un manifatturiero che é diventato sempre meno consistente. Il futuro peraltro può diventare meno problematico se il collegamento ferroviario con l’alta velocità con l’area barese si realizzerà in tempi brevi. Un’attenzione maggiore poi del servizio pubblico, che dia l’informazione delle tante cose positive, a cominciare dalla stagione del San Carlo, e che la tratti alla stessa stregua di Verona per esempio, sarebbe un approccio doveroso che é sempre mancato.

Sembra tutto assolutamente naturale in un Paese come la Spagna, che ha valorizzato enormemente Siviglia, Malaga e Granada, ma che da noi diventa un approccio rivoluzionario. Il suo collegamento con l’alta velocità ferroviaria ha reso la città facilmente raggiungibile e questo certo gioca un ruolo importante, quello che manca a molte altre città del Sud a cominciare da Palermo e Bari. Avere però verso Sud un deserto produttivo incide enormemente sul ruolo di capitale di un’area che se fosse più ricca darebbe molta più forza. Questa la ragione per la quale una valorizzazione del Sud ha un effetto moltiplicativo rispetto a tutti i territori.

Sappiamo perfettamente che non dobbiamo lamentarci ma sbracciarci perché il futuro ce lo dobbiamo costruire con le nostre mani, soprattutto in un momento nel quale molte delle Regioni più ricche stanno tirando i remi in barca, dopo i grandi investimenti che sono stati fatti da tutto il Paese nelle loro realtà, per capitalizzare i ricavi solo per le loro popolazioni. Ma se lamentarsi non è positivo è opportuno chiedere con forza parità di trattamento, a cominciare dai diritti di cittadinanza e alla spesa pro capite statale analoga per ogni cittadino che nasce. In un paese che distribuisce le risorse in base alla spesa storica anche questo non è facile e prevede una lotta pesante.

NAPOLI LO SCUDETTO DELLA CAPITALE DEL MONDO CAPOVOLTO. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 5 Maggio 2023

Questo scudetto lo ha vinto una squadra di campioni con il migliore allenatore italiano e un imprenditore da oscar, ma insieme a loro lo hanno vinto una città fatta di donne e uomini di tutte le età, la forza organizzata del suo territorio e chi la governa guidando con un metodo nuovo il Rinascimento di Napoli produttivo e culturale.

Questa squadra campione d’Italia non esprime un business in mano a proprietà sconosciute che non hanno alcun legame con il territorio. Nella terza Capitale d’Italia che è la Capitale del Nuovo Mediterraneo, ricordatevelo, si coglie il valore della città organizzata che è oggi Napoli e che ha vinto lo scudetto di serie A del calcio italiano.

C’è un capitolo di emozioni anche personali che mi porta naturalmente ai due scudetti di Maradona, ma lo voglio tenere fuori da questo articolo che deve raccontare che cosa fa la differenza tra oggi e allora. Null’altro. Il calcio è diventato un business tutto legato alla comunicazione e alle piattaforme tecnologiche senza anima e senza patria. Addirittura senza senso. Per cui paghi per ascoltare e vedere (spesso male) il calcio ridotto a trenta secondi, più o meno quelli del goal, all’interno di centinaia di eventi seguiti contestualmente.

Viviamo immersi nel festival della mancanza di attenzione e di appartenenza di tutti, o quasi, ma poi succede che a Napoli vince una società che sa fare di conto, che è consapevole di che cosa è l’industria dell’intrattenimento. Soprattutto una società che vive in simbiosi con la città e ne esprime l’orgoglio. Questa è la forza di una città e della sua fede azzurra globale che attraversa i Continenti, ma viene prima degli eventi e determina gli eventi. Noi tutti, senza nemmeno accorgercene fino in fondo, ci muoviamo in una gabbia in cui la vita quotidiana delle persone, quella più complessa delle collettività, vengono tutte appoltigliate attraverso la raccolta di frasi brevi e sguardi rubati dentro un film che scrivono altri.

Una volta il calcio era il fenomeno popolare per eccellenza, oggi è una televisione, un computer, un telefonino, il goal e i suoi 30 secondi non sono e non possono essere una partita. Il calcio è un’altra cosa. Una partita non è il goal, ma la capacità di allenarsi e di mettere insieme le motivazioni, di fare gioco di squadra che produce quei trenta secondi che sono una parte della storia, non la storia. Sapete qual è il vero miracolo di questo terzo scudetto del Napoli nella sua lunga stagione calcistica? Che esprime come meglio non si potrebbe la nuova organizzazione e la nuova attrattività che oggi Napoli rappresenta nel mondo. C’è un desiderio di Napoli nel mondo che è l’espressione più alta del desiderio di Italia nel mondo che ha regalato al nostro Paese la stagione del governo Draghi e che ho sempre percepito nella intensa sobrietà con cui il bellunese Daniele Franco, ministro dell’Economia dell’epoca, era solito ripetere “dobbiamo restituire all’Italia la sua terza capitale” che è, appunto, la Napoli di oggi.

La storia di questo scudetto è la storia di una società che vince lo scudetto dei conti lasciando indietro di gran lunga società con proprietà oscure e conti in rosso. Questa storia dello scudetto del Napoli è la storia dello scudetto dei conti di una società che vive l’antico rapporto con il suo territorio e lo fa con una gestione di impresa efficiente che non deve rispondere alle ingordigie dei mercati ma al suo territorio e alla sua città. Ai nostri occhi questo scudetto, il lavoro di squadra di Spalletti e dei suoi campioni in campo, del primato economico di De Laurentiis e di quello organizzativo e di visione del sindaco Manfredi, l’attenzione culturale straordinaria che Napoli sta vivendo con il nuovo ministro Sangiuliano, tutto questo messo insieme e molto altro ancora, ci rafforzano sempre più nella nostra convinzione che Napoli è già e sempre più può essere fino in fondo non una periferia ma un centro.

Non più solo la terza Capitale d’Italia ma la Capitale del nuovo Mediterraneo che è il centro del mondo capovolto. Che ha come asse strategico globale non più quello Est-Ovest, dopo che i carri armati russi in Ucraina ne hanno spezzato i fili, ma quello Sud-Nord di un mondo capovolto che ha bisogno del nostro Mezzogiorno e dei quattro Mediterranei per alimentare l’indipendenza energetica dell’Europa e costruire la nuova manifattura del Mediterraneo. Che costituiscono insieme la più concreta possibilità di dare all’Europa intera crescita aggiuntiva.

Abbiamo voluto organizzare a Napoli, in collaborazione con la Commissione e il Parlamento europeo, il primo Festival Euromediterraneo dell’economia (Feuromed) proprio per ribaltare il paradigma del racconto di una Napoli e di un Sud che non pietiscono aiuto, ma di una Napoli e di un Sud che possono essere il motore di un nuovo Mediterraneo e di una nuova Europa che esce finalmente dalle sue paure e fa i conti con le armi dei russi e i soldi dei cinesi sull’altra sponda del Mediterraneo. Investendo come Europa sull’economia della pace e del dialogo religioso e civile contro l’orrore dell’espansionismo autocratico che allarga il solco tra ricchi e poveri.

La scommessa che abbiamo voluto lanciare con Feuromed è quella di dimostrare ancora una volta che la ricchezza di una nazione sono le sue persone e su di loro bisogna investire. Sono il capitale umano della nuova classe dirigente del nuovo Mediterraneo. Lo abbiamo fatto muovendoci nel solco di una proposta anticipatrice che appartiene al patrimonio delle visioni di Romano Prodi, grande Presidente della Commissione europea. Dobbiamo formare, e con Feuromed su ciò siamo già impegnati, una classe dirigente di giovani che sia in grado di guidare questo riposizionamento dell’Europa e del Mediterraneo che passa attraverso le grandi reti e le energie del futuro, ma allo stesso tempo attraverso i primati della sua manifattura di qualità, dell’agroindustria, dell’economia del mare. Tutto ciò parte da Napoli e dal nostro Mezzogiorno e dal capitale umano e dall’organizzazione che sapremo mettere in campo. Questo, per noi, significa la vittoria dello scudetto del Napoli.

Napoli, uno straordinario moltiplicatore economico. MASSIMO CORCIONE su Il Quotidiano del Sud il 5 Maggio 2023

COSE mai viste: la lunghissima vigilia di questo scudetto numero 3 a Napoli si è trasformato in uno straordinario moltiplicatore economico. Lo stadio Maradona pieno nonostante non ci fosse alcuna partita. Il pallone girava dentro un altro stadio, lontano più di ottocento chilometri: scherzi del calendario, l’ultima domenica di aprile la grande occasione era stata fallita proprio a Fuorigrotta. Il gol di Dia, un ex elettricista di origine senegalese che ora veste la maglia della Salernitana, aveva costretto al silenzio un popolo che aveva invaso strade e piazze già da due giorni. Tornarono tutti a casa, la festa era stata solo rimandata. Il vantaggio in classifica era troppo largo per lasciare spazio alla sorpresa nella quale non credeva più nessuno in Italia, neppure gli storici rivali, dalla Lazio alla Juventus, alle milanesi, alla Roma. Molti sono tornati, il moltiplicatore vale anche per i viaggi in treno e in aereo.

Sarà stato anche per la concomitanza con una stagione dei ponti particolarmente favorevole, sarà stato per quella voglia di scacciare definitivamente l’incubo Covid che ci aveva costretto tutti agli arresti domiciliari, ma tante presenze non si erano mai contate in città, durante una primavera mai così avara di sole. Il tempo è cambiato ieri, il segno più evidente che la grande attesa era prossima alla fine. Napoli si è impegnata al massimo: i murales alla Sanità si sono trasformati in fantastiche quinte, le scalinate che vivacizzano i percorsi nei vicoli della città sono diventati tricolori degradanti.

Un effetto cromatico assolutamente inedito: non fu assolutamente lo stesso spettacolo 33 anni fa, una vita è passata dall’impresa che chiuse l’età di Maradona, un’epoca che allora già appariva irripetibile. Quando il più forte giocatore del mondo arrivò a Napoli, il 5 luglio del 1984, lo stadio San Paolo si riempì proprio come è successo ieri. C’era Ferlaino a confezionare il grande sogno. Questa volta, anno 2023, Aurelio de Laurentiis ha fatto anche meglio: ha vinto spendendo molto meo dei suoi rivali: il monte ingaggi del Napoli è solo il quinto in Italia, l’estate passata la rinuncia a Koulibaly, Martens, Insigne apparvero una sfida un po’ superba. Il gioiello lo ha scopert0 in Georgia, ha un nome impossibile Kvaratscheila e dei piedi inimitabili. Il problema è stato solo far imparare il nome ai tifosi.

Ha avuto ragione lui, il campione di incassi al tempo dei cinepanettoni di Natale. Il produttore si è ripetuto, ha preso Luciano Spalletti, un regista che aveva solo sfiorato l’oscar dello scudetto italiano, e gli ha commissionato il film che tutti a Napoli avrebbero voluto vedere. Non al cinema, ma allo stadio. E la replica è arrivata. Si ferma così l’interminabile litania dei racconti delle gesta del Divino Diego. La storia va aggiornata, l’eroe oggi è Osimhen, il centravanti che i suoi avversari li lascia per strada. È diventato simbolo della nuova squadra, la mascherina che porta per proteggere il volto è diventata il gadget più gettonato nella grande festa. Le magliette ufficiali sono introvabili, arriveranno negli stores forse tra una settimana. Avrà lo scudetto, la differenza c’è e si vede.

 Estratto da corriere.it il 2 maggio 2023. 

Da Bergamo a Varese, passando per Torino e non solo. Se Napoli si prepara alla grande festa scudetto, attesa da oltre 30 anni, in alcune città italiane si esorta addirittura i tifosi azzurri a non scendere in strada a manifestare tutta la propria gioia per il trionfo della squadra di Spalletti. […] Sui social, per esempio, ha fatto molto discutere un volantino dal titolo «Bergamo non festeggia». 

Un documento da non ricollegare agli ultras dell’Atalanta, dal momento che non c’è nessun legame ufficiale con la Curva Nord nerazzurra […]: «In questa terra non possono essere tollerati festeggiamenti per la squadra partenopea — si legge — Ricordiamo ai ristoratori, baristi, pizzaioli che per festeggiamenti e pagliacciate varie riceveranno adeguate risposte alle loro attività anche a distanza di tempo».

Un messaggio simile arriva da Udine, dove la Curva Nord 1896 ha rilasciato un comunicato riguardo la prossima partita dell’Udinese alla Dacia Arena contro il Napoli, in programma giovedì 4 maggio: «Non abbiamo mai permesso a Juventini, Milanisti e Interisti di festeggiare nella nostra città. Allo stesso modo, a maggior ragione, non sono graditi né tollerati festeggiamenti di alcun tipo da parte dei napoletani. Udine è solo bianconera. Rispetto!». Un messaggio simile è comparso a Varese.

 […] «Varese tifa Varese. Festeggiamenti di altre squadre nella nostra città non sono graditi. In particolar modo quelli del Napoli», si legge nel messaggio scritto con un font molto diffuso tra le organizzazioni neofasciste. A Torino, invece, il gruppo ultras Primo Novembre 1897 ha minacciato serie ripercussioni su chi non se ne starà a casa: «A Torino ci sono solo due squadre che possono colorare le piazze. Già quando lo fanno i nostri i cugini per festeggiare le loro promozioni dalla B alla Serie A facciamo fatica a contenerci e a non scendere, ma è anche la loro città. Questa non è la vostra città, quindi evitate perché non ve lo permettiamo».

[…] Qualche settimana fa si era espressa anche la tifoseria organizzata della Salernitana: «Tra qualche settimana il calcio italiano vedrà, molto probabilmente, una squadra riscrivere la storia e rimettere in discussione la potenza dei club del Nord Italia. Napoli sta per vivere il suo sogno, com’è giusto che sia, ma questo non ci appartiene. Al raggiungimento di questo importante traguardo dovrà farla da padrona il rispetto nei confronti della città e di tutti i tifosi della Salernitana, ciò si dimostra riponendo eventuali sciarpe e bandiere azzurre nel cassetto e non certo sui balconi di Salerno. Ognuno festeggi a casa sua!»

Estratto da open.online il 5 maggio 2023. 

Milano e Torino sono destinazioni dell’immigrazione interna, e lo si vede bene nella serata in cui il Napoli diventa campione d’Italia per la terza volta nella sua storia. Nel capoluogo meneghino la piazza del Duomo si è riempita di tifosi azzurri che hanno lanciato fuochi d’artificio in un euforia che forse non si vede nemmeno a capodanno.

Intanto, nei viali principali della città le auto si riversano in strada e il suono del clacson riempie l’aria. E anche a Rozzano, in periferia, si vedono le stesse scene, con decine di auto con che suonano il clacson e da cui sventolano bandiere azzurre. Intanto, a Torino i luoghi dei festeggiamenti sono Via Roma e Piazza Castello.  […]

Estratto da gazzetta.it il 5 maggio 2023.

Gli ultrà dell'Udinese lo avevano detto alla vigilia: non festeggerete lo scudetto sul nostro campo. E dalle parole sono passati ai fatti. Alcune decine di loro infatti sono entrati in campo con cinghie e bastoni correndo verso la folla dei napoletani che a centinaia si erano stretti intorno ai loro giocatori. […]

Sono seguiti tafferugli per alcuni minuti prima che le forze dell'ordine in tenuta antisommossa entrassero in campo e riuscissero a separare i pochi facinorosi dalla folla festante. Subito dopo un cordone di poliziotti si è messo in postazione davanti alla Curva Nord dove erano rientrati i supporter bianconeri impedendo loro di tornare in campo. Analogamente nell'altra metà campo, più lentamente, un più corposo numero di poliziotti si è schierato trasversalmente al campo a contenere gli entusiasmi azzurri, fino a far rientrare anche i tifosi del Napoli nella Curva Sud da dove erano scesi.

Intorno alle 23.15, a circa mezzora dal fischio finale, gli spalti della tifoseria bianconera si sono quasi completamente svuotati. […] Ci sono stati infatti otto feriti tra i tifosi partenopei, due in ospedale: uno avrebbe riportato un trauma cranico ed un altro una frattura di una gamba e sarebbero stati trasportati all'ospedale di Udine. I due non sarebbero gravi. […]

 I napoletani hanno diritto di festeggiare dove vogliono. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 3 maggio 2023.

Caro Aldo, ho letto che a Udine, a Bergamo e a Varese alcuni gruppi di «tifosi» hanno diffidato chiunque a festeggiare lo scudetto del Napoli perché non sono tollerate manifestazioni di gioia da parte di tifosi del Napoli; ma stiamo scherzando? Roberto Bertolotti Siamo a Bergamo non a Napoli, quindi qua si festeggia solo l’Atalanta; tutto il resto avanza. Lucia Lorri

Il problema non è se sia giusto o meno che i napoletani festeggino bensì è la loro mancanza di rispetto. Perché gente che fa striscioni con le bandiere dell’Atalanta sui carri funebri dovrebbe essere libera di festeggiare a Bergamo? Massimo Bonacina

Cari lettori, Sono d’accordo con il signor Bertolotti. Trovo vergognosi i proclami pubblicati su Internet e firmati da sedicenti bergamaschi, udinesi, torinesi, varesini che intimano ai napoletani di non festeggiare nella «loro» città. A parte il dettaglio comico di Torino, dove almeno metà della popolazione ha un genitore o un nonno del Sud, va ricordata una cosa che dovrebbe essere ovvia: le città d’Italia appartengono a tutti gli italiani. Nessuno può parlare a nome degli altri. L’identità non coincide con il tifo. Non tutti i bergamaschi ad esempio tifano Atalanta, ce ne sono molti che tifano Inter, Milan, Juve, magari proprio Napoli, oppure non seguono il calcio. I napoletani hanno pieno diritto di festeggiare lo scudetto della loro squadra in qualsiasi città italiana o europea si trovino; e nessuno ha diritto a offendersi per questo. C’è un precedente illustre. Quando il Cagliari vinse lo storico scudetto del 1970, quello di Giggirriva, i sardi presero il controllo di Torino. Dirigevano il traffico, ordinavano liberamente nei bar: si erano presi la città. Un giovane leader del Sessantotto, Guido Viale, rimase colpito da quelle scene e lanciò uno slogan che fece sognare una generazione: «Prendiamoci la città». Si trattava, dal suo punto di vista, di «liberare» interi quartieri, che sarebbero stati gestiti non più da politici, burocrati, vigili, poliziotti, ma direttamente dal «popolo». Un sogno naturalmente destinato a rimanere tale. Dalle feste dei tifosi un conservatore può trarre anche l’insegnamento opposto: dai tempi di Giovenale, l’ordine si mantiene con il panem e i circenses. Purché festa sia.

Da ilnapolista.it il 29 aprile 2023.

Anche Paolo Sorrentino dovrebbe scendere in campo per documentare l’eventuale festa scudetto che partirebbe domenica qualora il Napoli fosse matematicamente certo della vittoria dopo la sfida contro la Salernitana. Il Corriere del Mezzogiorno infatti scrive 

“Paolo Sorrentino sta girando un film a Napoli e, in concomitanza con la festa scudetto, intende girare una serie di scene che potrebbe inserire nel suo prossimo lavoro. Ha chiesto al San Carlo la disponibilita ad allestire un «campo base» all’interno del teatro dal quale organizzare le riprese. Ma il teatro, per motivi di sicurezza, restera chiuso e il regista dovra ripiegare su una organizzazione diversa. Di certo una parte del girato sara realizzato presso la Fontana del Carciofo, simbolo dei festeggiamenti dei precedenti scudetti, e a «largo Maradona» ai Quartieri. Sorrentino e un grandissimo tifoso del Napoli. Una fede calcistica «trasferita» sullo schermo nella figura del cardinale Voiello”.

Andrea Cuomo per il Giornale il 29 aprile 2023. 

Una città sotto ipnosi, un vulcano sotto attacco

(…)

Alcuni gruppi di tifosi hanno annunciato l’intenzione di organizzare un’esplosione del Vesuvio scalando il vulcano fino al cratere e qui accendendo fumogeni tricolori. Un progetto chiaramente idiota, che l’ente Parco nazionale del Vesuvio ha preso comunque abbastanza sul serio da disporre, in coordinazione con la prefettura e la questura, «un massiccio presidio e la chiusura delle aree di accesso al cratere» per evitare un’invasione che «porterebbe a inevitabili episodi di degrado».

Ieri il centravanti Victor Osimhen ha ricevuto ieri una maschera con il tricolore da un negozio di ortopedia, mentre un’artista ha creato Pulcimhen, mezzo maschera e mezzo bomber. 

(…)

Estratto dell’articolo di Giulia Zonca per lastampa.it il 29 aprile 2023.

(…)

Iaia Forte, attrice simbolo della città che è ultra felice di condividere le scene con la fibrillazione: «Sembra di stare a Rio de Janeiro, siamo fortunati a metter su uno spettacolo dentro questa esplosione di gioia meravigliosa, mette allegria. Napoli è strana, sembra sempre cambiare ma è pure immobile, è la sua forza».

Edoardo Bennato addirittura rientra in anticipo dagli Usa per esserci, lui che ha ballato sul prato di San Siro con Maradona, «torno, torno non potrei fare null’altro» e cita la sua canzone “È goal” per definire lo stato d’animo collettivo: «Geometrie verticali e pronostici da rispettare, sbarramenti frontali ma che voglia di farli saltare».

Da ilnapolista.it il 30 aprile 2023.

Libero riceve minacce di morte per l’articolo sul reddito di cittadinanza e dà la colpa al Napolista

Libero ieri ha piazzato la festa scudetto del Napoli in prima pagina, scrivendo che è pagata col reddito di cittadinanza. Un articolo in cui il quotidiano riprendeva il servizio di Striscia la notizia (di Luca Abete) che documentava come a Napoli in alcune mercerie vengano acquistate bandiere del Napoli con la tessera di cittadinanza. Articolo per il quale sono fioccate minacce di morte. Oggi, Libero accusa Il Napolista di aver scatenato l’inferno, per il titolo del nostro pezzo: “Libero schiuma di rabbia“. 

Sul quotidiano, Alessandro Gonzato scrive:

“Qualcuno non ha capito. Rispieghiamo. Ieri abbiamo dato conto che nella Napoli ormai prossima al meritato tricolore c’è chi sta acquistando fraudolentemente bandiere e fumogeni col reddito di cittadinanza (tutto documentato da Luca Abete di Striscia la Notizia) ma la traduzione del sito Il Napolista è stata: “Libero schiuma rabbia per lo scudetto”.

Rabbia per cosa? Che poi è dall’inizio che il nostro giornale esalta la squadra di Spalletti, e poi non è che a Libero il calcio sia una ragione di vita. È stata stravolta la realtà, ma non quella che abbiamo descritto, e infatti nessun gentiluomo che sui social ha iniziato a insultarci e peggio ha contestato il contenuto dell’articolo. Hanno scambiato, diciamo così, la denuncia di una truffa ai danni dello Stato – quindi contro tutti gli italiani napoletani perbene inclusi – per un attacco calcistico intriso di razzismo, il che pur avendone viste tante ci ha lasciato basiti”. 

Ancora:

“Dal Napolista l’attacco si è propagato sui social fino alle minacce al sottoscritto, alcune di morte”. 

Minacce che Gonzato elenca:

“Un tale è arrivato a pubblicare su Facebook il mio volto contornato da un mirino. Un altro ha aggiunto il commento «Io l’avrei capovolta», la foto, a testa in giù come i fascisti. Da piazza del Plebiscito a piazzale Loreto”. 

Per concludere:

“Tutto normale? Un altro utente scrive: «Da napoletano spero che sia vero, significherebbe che vi abbiamo fregato due volte», messaggio edulcorato. Ne arriva un altro: «Continua a pagarci le tasse», e di messaggi così me ne arrivano decine. Giù di minacce e offese fino ai bis-cugini laterali. Dai guagliù, festeggiate, senza pazzià”.

Da ilnapolista.it il 30 aprile 2023.

Caro Libero, ti ringraziamo di tanta considerazione. Ora vuoi farci credere che quel bel richiamo in prima pagina “La festa scudetto pagata col reddito di cittadinanza” era un innocente ripresa di un episodio di cronaca documentato da Striscia la notizia. Nella sostanza è così, nella confezione francamente non tanto. Abbiamo qualche anno e ciascun giornale lavora per accontentare la propria platea di lettori. 

E la tua sta osservando quel che sta accadendo a Napoli in queste ore come si farebbe con un documentario del National Geographic sul mondo animale. Il calcio, consentici, non c’entra niente. Sappiamo bene, e lo abbiamo sempre documentato, che Libero si è appassionato (come tutti) al Napoli di Spalletti. Con l’ottimo Savelli e altri. Però proprio tu, che hai quel gigante di Vittorio Feltri in casa, non puoi giocare a buttare la pietra e nascondere la mano.

Non la facciamo lunga perché oggi abbiamo da fare, sempre che tutto vada per il verso giusto. Però una cosa ci teniamo a dirtela. In realtà, caro Libero, noi ti proteggiamo. Ieri avremmo potuto evidenziare una castroneria scritta dal vostro Luciano Moggi, e cioè che i selfie al murales di Maradona sono a pagamento (“Sarà una giornata di grande festa per questa città che ha già preparato striscioni e bandiere e che in un murales ha collocato l’immagine di Diego Maradona con il quale tutti, naturalmente a pagamento, potranno fotografarsi”), e vi sareste beccati l’ennesima shit storm. Non c’è alcun selfie a pagamento. Magari si potrebbe evidenziare che è un tempio dell’economia sommersa. Ma questo è un altro discorso.

I Protagonisti.

Il Presidente.

Cristiano Giuntoli.

Luciano Spalletti.

I Calciatori.

Il Presidente.

Estratto dell'articolo di Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 5 maggio 2023.

C’è una battuta, certo apocrifa, che qualcuno a Napoli attribuisce ad Aurelio De Laurentiis: il suo stadio ideale è composto da due tribune e da due maxischermi al posto delle curve, da cui i benestanti e benpaganti possono rivedere le azioni salienti. Di sicuro, sul suo profilo WhatsApp il neocampione d’Italia ha scritto: «La mia disponibilità di biglietti omaggio è esaurita per il resto della stagione. A pagamento li trovate nei canali ufficiali». 

Vincere uno scudetto a Napoli non è da tutti. Tanto più se lo si vince non con ma nonostante Napoli (dire contro Napoli sarebbe troppo): sia quella degli ultrà sia quella dei Vip che chiedono i biglietti omaggio.

(...)

Questo scudetto è considerato da una parte della città come poco napoletano. Non lo diciamo noi, ma un sito che si chiama Il Napolista . E non solo perché Aurelio De Laurentiis è romano di nascita e di formazione, e suo zio Dino era emigrato in America; anche se lui sostiene di sentirsi napoletano, perché «il più bel ricordo d’infanzia è il ragù con cui nonna Giuseppina condiva le candele o gli ziti fumanti». 

Questo Napoli campione d’Italia è nato nell’aperta ostilità della tifoseria. L’estate scorsa pareva che con l’addio di Lorenzo «il Magnifico» Insigne, Kalidou «K2» Koulibaly e Dries «Ciro» Mertens, gli azzurri avrebbero lottato per la zona Conference. Da quel georgiano dal nome impronunciabile non poteva venire nulla di buono; e pure mister Spalletti era circondato dallo scetticismo.

Tutta l’ascesa di De Laurentiis, del resto, è avvenuta senza assecondare mai la pressione della piazza; fin da quando i tifosi premevano per l’acquisto di Fabio Cannavaro, e lui non solo non lo prese ma si privò pure del fratello Paolo, reo dell’errore che era costato l’eliminazione in Champions con il Chelsea. 

L’estate in cui De Laurentiis comprò il club, mancavano pure i palloni e le maglie per gli allenamenti: il capitano Francesco Montervino andò a comprarli in un negozio di articoli sportivi a Paestum. 

(...)

Sostiene De Laurentiis che «il marchio veramente importante dell’Italia è questa città, ma gli italiani non l’hanno mai capito. Anzi, l’ha capito solo Garibaldi, quando portò tutte le ricchezze del Sud al Nord, scippando, ritardando e buttandoci in un caos totale».

A dire il vero, Garibaldi portò via con sé da Napoli appena qualche centinaio di lire racimolate a sua insaputa da un luogotenente, un sacco di sementi per il podere di Caprera, un sacco di fave di cui era ghiotto e uno scatolone di merluzzo secco. 

Su un punto però De Laurentiis ha ragione: Napoli è una città decisiva nel definire l’identità italiana. All’estero pensano l’Italia come un’immensa Napoli: il sole, il mare, la pizza. È giusto pensare anche al cinema di Totò, al teatro di Eduardo, alla grande musica popolare, all’arte di Mimmo Paladino, Mimmo e Francesco Jodice, Lello Esposito. E anche a quella di Matteo Politano, Giovanni Di Lorenzo e ovviamente Victor Osimhen, cui è stato dedicato un inno che pare un canto gregoriano.

In realtà, il legame con la città viene a De Laurentiis in particolare dal mito di Dino, nato a Torre Annunziata e morto a Beverly Hills, sempre praticando l’arte di arrangiarsi. «Mio zio partì da Napoli su un peschereccio, con Mario Soldati, Steno e Leo Longanesi. Prima erano stati a Capri: raccoglievano le bottiglie di gazzosa gettate dai militari americani, le riempivano in mare e le rivendevano per un dollaro con la scritta «acqua della Grotta Azzurra» — ama raccontare il presidente —. Poi sbarcarono a Palermo e fecero incetta di derrate: metà le riportarono a Napoli a coloro che le avevano ordinate, l’altra metà la rivendettero al mercato». Se ha un modello, è il primo Berlusconi. «Lo conobbi a Venezia, era il 1978. Portava i capelli lunghi e gli stivaletti coi tacchi, in mezzo a intellettuali che avevano mangiato un manico di scopa. Mi fu subito simpatico».

Il traditore, Higuain: «Fu una mia intuizione. Al Real stava in panchina. Lo pagai 38 milioni. Napoli gli ha dato moltissimo. È una città che ha un grande bisogno di amare. Autolesionista, incapace di vedere la verità. Sottomessa da secoli, sempre alla ricerca di un riscatto legato a qualcosa di impossibile; che diventa possibile con il calcio». Il grande amore, la moglie: è l’unico produttore cinematografico al mondo che sta con la stessa donna da mezzo secolo. «Sono ancora molto innamorato di lei. Dicono che sia un rude; in realtà sono un romantico». Una volta un regista chiese a suo padre: «Ma perché Aurelio è sempre incazzato, sgradevole, duro?». Luigi De Laurentiis rispose: «Tu non hai capito che, quando Aurelio manda qualcuno a fare in culo, si realizza».

"Ho rifiutato 2,5 miliardi". La confessione choc di De Laurentiis. Il numero uno del Napoli avrebbe rifiutato 1 miliardo di euro per il Napoli e 2,5 per il suo intero gruppo Filmauro. De Laurentiis ha poi blindato Osimhen: "Venderlo? Giammai". Marco Gentile il 5 Maggio 2023 su Il Giornale.

Aurelio De Laurentiis è un fiume in piena dopo la conquista dello scudetto, il terzo della storia del Napoli. Intervistato da Bruno Vespa nel corso del programma di Rai 1 "Cinque minuti", il numero uno del club campano ha ammesso di aver rifiutato parecchi soldi per il Napoli, un miliardo di euro, ma molti di più per il suo gruppo, Filmauro: "Una squadra vincente senza debiti? La si fa come si fa un film senza debiti. Mi hanno offerto un miliardo per il Napoli ma io l’ho rifiutato. E in realtà me ne hanno offerti 2,5 per il mio gruppo. E ho rifiutato anche quelli".

Osimhen e Spalletti blindati

De Laurentiis ha poi fatto sapere di voler blindare i suoi gioelli, Victor Osimhen e il mister Luciano Spalletti: "Vendere Osimhen? Giammai. Spalletti è un mito che inseguivo da almeno 10 anni. Finalmente l'ho portato a Napoli, ci ha riportato in Europa e ora vorrei fosse aperto un ciclo. Ho esercitato un'opzione che avevo, ora la parola è al rispetto di ciò che è contrattualmente stabilito. Napoli nasce da una sirena, da Partenope. Lui ha dichiarato di essersi innamorato di Napoli, è il primo scudetto dopo aver vinto in Russia. Oramai è un eroe, è entrato nella storia, è bene che lui ne goda".

I partenopei hanno fatto festa ma in realtà è da settimane che si aspettava solo la matematica per fare festa: "Stanno festeggiando da almeno un mese i napoletani - afferma il presidente -. Ne abbiamo fatto quasi un'abitudine, ma ora vedrete cosa succederà nella festa di domenica contro la Fiorentina, poi contro l'Inter. Le feste non finiranno mai". Chiusura con un pensiero sul "riscatto del Meridione" per questo tricolore: "Il Sud è una parte importantissima per un'Italia disunita. L'Italia è stata unificata poco fa, 150 anni non sono molti, nel 1200 eravamo l'Italia dei comuni e siamo rimasti tali. Se unificassimo il nord e il sud saremmo i primi del mondo".

Una grande stagione non solo in Italia

Ottanta punti in 33 giornate frutto di 25 vittorie, cinque pareggi e sole tre sconfitte, con il migliore attacco del torneo e la miglior difesa: ora al Napoli toccherà mantenere inalterate queste statistiche cercando di implementare il bottino di punti per rendere ancora più bella la sua stagione in campionato. Non solo, perché anche la Champions ha regalato grandi soddisfazioni con un girone passato in maniera brillante, da primo della classe, mettendosi alle spalle un certo Liverpool, Ajax e Rangers. Negli ottavi l'Eintracht superato brillantemente, nei quarti doppia sfida equilbrata con il Milan decisa dagli episodi ma che non intaccano minimamente il lavoro della banda Spalletti che è riuscito dove altri colleghi avevano precedentemente "fallito" l'obiettivo.

Cristiano Giuntoli.

Estratto dell’articolo di Giovanni Battistuzzi per “Il Foglio” il 5 maggio 2023.

Nel calcio ci sono mestieri che impongono di trovare soluzioni semplici a problemi complessi. Quello del direttore sportivo è uno di questi. Conta la capacità di analisi, conta la capacità di gestione del gruppo, conta l’abilità di immaginare strade alternative se quelle consuete diventano impercorribili. […] Il direttore sportivo del Napoli, Cristiano Giuntoli, ha sempre dovuto far di conto e tra addizioni e sottrazioni si è sempre trovato bene. […] Ha il piglio del cicloturista d’esperienza, quello che sa benissimo dove andare per pedalare tranquillo […].

Cristiano Giuntoli era un calciatore discreto, affidabile, buono per la serie C e la D, non un campione, ma uno capace di capire cosa andava fatto e di scegliere il momento giusto per farlo. Béla Guttmann la chiamava “efficacia della sensibilità analitica”. […] Cristiano Giuntoli. Se una cosa in tutti questi anni ha dimostrato è che questa “efficacia della sensibilità analitica” ce l’ha e in ampie dosi. 

[…] dopo il ritiro dal campo ha studiato a lungo a Coverciano, ha cercato di imparare il più possibile allo Spezia, poi è passato ai fatti. Il Carpi gli ha dato fiducia, lui ha ricambiato cercando di capire di cosa l’allenatore aveva davvero bisogno, cercando i giocatori più adatti al progetto tattico, fregandosene di nome, fama e procura.

[…] Dalla stagione 2009-2010, dalla D alla promozione in A. Sei anni di successi e spese contenute, di giocatori passati dal non essere nessuno a essere abili e arruolabili tra A e B. Aurelio De Laurentiis lo portò sotto il Vesuvio. Disegnò un Napoli a immagine di Maurizio Sarri prima, poi di Rafa Benítez, Carlo Ancelotti, fino alla perfezione raggiunta con Luciano Spalletti. Una squadra costruita in due anni con un esborso totale di  dieci milioni di euro (considerando il saldo tra acquisti e cessioni). […]

La scorsa stagione Cristiano Giuntoli e Luciano Spalletti parlarono a lungo tra il finire di giugno e l’inizio di luglio. […] Giuntoli […] portò Matteo Politano, Frank Anguissa, Axel Tuanzebe e Juan Jesus. […] Il Napoli finì terzo. Quest’estate accadde lo stesso. Alle partenze di Ciro Mertens e Lorenzo Insigne si aggiunsero quelle di Kalidou Koulibaly e Fabián Ruiz. Arrivò una sfilza di giocatori dai nomi strani, tipo Min-jae Kim e Khvicha Kvaratskhelia, dai trascorsi ondivaghi Tanguy Ndombélé e Giovanni Simeone, […] Giacomo Raspadori. Si riparlò di mercato fallimentare. E’ andata diversamente.

Da ilnapolista.it il 5 maggio 2023.

Chi ha visto arrivare questo Napoli? Non i tifosi, che a luglio hanno interrotto la presentazione della rosa di Spalletti, urlandogli di svegliarsi!”. Il Guardian celebra l’incredibile scudetto del Napoli, e lo fa anche ricordando da dove arriva. Nicky Bandini scrive che “questo scudetto è stato soprattutto uno sforzo collettivo”. E che in estate “la percezione era di una squadra alla fine di un’era. Lorenzo Insigne, Dries Mertens, Kalidou Koulibaly e Fabián Ruiz sono stati tutti autorizzati – in alcuni casi costretti – a lasciare, e non era ancora chiaro chi li avrebbe sostituiti”. 

E poi la storia oramai è nota: “Kvaratskhelia la grande rivelazione”, “la sua collaborazione con Osimhen è stata irresistibile. Il talento del nigeriano non era un segreto, ma le sue prime due stagioni da quando è arrivato dal Lille con un contratto record di 70 milioni di euro sono state interrotte da una lussazione della spalla e una frattura dell’orbita oculare. Un infortunio al tendine del ginocchio all’inizio di questa stagione, per fortuna, è stato più velocemente recuperato. Ha saltato sette partite eppure rimane il capocannoniere della Serie A”.

E anche il Guardian fa grande Giuntoli: “Il merito va al ds del Napoli, Cristiano Giuntoli. Ha agito con decisione per ottenere Kvaratskhelia, che era stato nei radar di diversi club prima dell’invasione, ma altrettanto essenziali sono stati altri acquisti che ha fatto quest’estate: il difensore centrale Kim Min-jae dal Fenerbahce così come gli attaccanti Giovanni Simeone e Giacomo Raspadori”. 

E “come raccontare la storia di questo trionfo senza menzionare l’orchestratore di centrocampo Stanislav Lobotka, gli infiniti assist di Piotr Zielinski o l’abilità telepatica di André-Frank Zambo Anguissa nel leggere le intenzioni di un avversario? Il Napoli avrebbe potuto vincere tutto senza l’infallibile costanza del suo capitano, Giovanni Di Lorenzo come terzino destro, o Hirving Lozano che si lanciava in avanti davanti a lui?”. 

Il Guardian è giustamente celebrativo: “i numeri da soli non potrebbero mai rendere giustizia a questa squadra. Il Napoli era spietato ma era anche magico da vedere: un mare di blu mutevole che inondava ogni varco che gli avversari lasciavano non sigillato”.

E “Spalletti è l’uomo che li ha uniti tutti insieme”, un allenatore che “pur essendo accreditato come uno dei grandi innovatori tattici di una generazione, non era mai andato oltre i due trionfi in Coppa Italia e una Supercoppa vinti alla Roma un decennio e mezzo fa”.

Luciano Spalletti.

Estratto dell'articolo di Francesco Gerardi per rivistaundici.it il 24 giugno 2023.

C’è una ragione se le leghe sportive professionistiche di tutto il mondo hanno dei dress code, e una di quelle ragioni sono gli uomini come Luciano Spalletti. L’ex allenatore del Napoli è uno di quegli uomini i cui outfit possono essere “elencati”, per così dire, ma non descritti. Indossa questo e quello ma non si veste così, per capirci. […] Non esiste una tendenza, al quale Spalletti aderisca. Se esistesse, si chiamerebbe Spalletticore, perché lui ne sarebbe il fondatore e il promulgatore, lo stilista e il modello. […]Vestiti forti per uomini forti, si potrebbe dire. […]

[…] Jeans ultraskinny, altrettanto attilatissimi maglioni scuri per l’inverno, vaporose camicie con fantasie tra il floreale e lo psichedelico per l’estate, giacche a clessidra possibilmente a quadrettoni, cappotti a tre quarti che paiono ricamati a mano dalla stessa persona che ha ricamato quei guanti di Bernie Sanders, T-shirt a girocollo che pur di evidenziare i pettorali ancora guizzanti sono ben disposti a esporre il ventre ormai cresciuto, lunghissime fila di adidas Copa Mundial – le scarpe da calcio con si è fatto vedere spesso in panchina negli anni napoletani – realizzate con ogni colore, tessuto, decorazione. 

E poi, ovviamente, una sezione intera della cabina, forse una vera e proprio sottocabina, dedicata all’immancabile slouchy beanie. È quel berretto che, a seconda delle dimensioni, casca un poco sul retro della testa o addirittura sulla nuca, che capita di vedere come decorazione sulle teste di tech mogul californiani (Jack Dorsey, ex Ceo di Twitter, era un fan) o di motociclisti à la Hell’s Angels (chi ha visto la serie Sons of Anarchy se li ricorderà come uno dei tratti stilistici di Opie). […]  

Attenzione: c’è una differenza enorme tra stranezza ed eccentricità. La prima è una condizione, la seconda una scelta. Spalletti è un eccentrico, cioè un’eccezione, cioè una persona che ha scelto consapevolmente di separarsi da quello e quelli che gli stanno attorno per rivendicare un individualismo – e alla fine non è forse questa la ragione per la quale con il Napoli, cioè con De Laurentis, è finita come è finita – che non fa più parte delle cose del calcio. 

È un glitch, Spalletti, in un software che ormai ha quasi raggiunto la perfezione, una macchina nella cui componentistica certe parti non sono più contemplate. Spalletti è eccezionale quando allena, ovviamente. E anche quando parla. E pure quando si veste[…]Forse Spalletti è punk, nel senso inesatto in cui usiamo questa parola dal ’77 in poi: fa quello che vuole, con l’unico scopo del divertimento suo e del prossimo, della rappresentazione sua e di quelli come lui.

[…] L’eccezionalità deve essere tale in ogni aspetto e in ogni momento, e Spalletti era l’uomo indispensabile a completare l’impresa eccezionale che il Napoli provava a compiere da anni. Non ci poteva riuscire Benítez, con lo stile impiegatizio e sudaticcio dei suoi completi quasi eleganti, né Sarri con i modi spicci dell’uomo che preferisce sempre e comunque la comodità della tuta. Certo la tuta l’ha portata per tutto il suo tempo in campo col Napoli anche Spalletti, è vero. L’uomo, d’altronde, è astuto e quando vuole sa come farsi amare ed era perfettamente consapevole che al Sarrismo qualche concessione, anche se solo accessoria, andava fatta.

Ma, fuori dal campo, Spalletti ha dimostrato perché questo scudetto alla fine lo ha vinto lui e non quegli altri: perché un eccentrico era quel che ci voleva, ci voleva uno dentro il campo non temesse di fare l’equivalente di indossare jeans ultraskinny fuori dal campo. E d’altronde il Napoli è la squadra che ha prodotto alcuni dei più surreali esempi di fashion design calcistico di sempre.

[…] mi chiedo cosa farà Spalletti questa estate. Si annoierà, forse. Si godrà il riposo, probabilmente. Userà il premio scudetto per aggiungere e rinnovare gli outfit, anche. Io me lo immagino in un pomeriggio d’estate, seduto in un bel luogo, a sorseggiare un buon drink, i posti e le cose che gli uomini di successo fanno d’estate. Me lo immagino che a un certo punto prende in mano il telefono, apre TikTok – dovrà pure ammazzare il tempo in qualche modo – e scopre quel trend che fa “You finally stopped wearing skinny jeans”. Me lo immagino indignato che apre il suo profilo e prepara i contenuti adatti a rispondere questo affronto, più che estetico, personale. Mi immagino così l’inizio ufficiale dello Spalletti-core.

Estratto da ilnapolista.it il 30 maggio 2023.

Adl non ha avuto coraggio di dire: ho sbagliato nel gestir il rinnovo del contratto con Spalletti. Non ha avuto il coraggio di ammettere: ho sbagliato anch’io. Gli scudetti li vince, prima di tutto, chi va in campo. Adl è arrivato a raccontare che Spalletti nemmeno conosceva i giocatori comprati. Il tecnico ha chiarito che non conosceva solo Anguissa, ma si è fidato di Giuntoli. Spalletti, a sua volta, forse ha omesso di estrinsecare la fatica a sostenere il rapporto con un presidente così caratterialmente pesante: basta vedere com’è finita con tutti gli altri tecnici. Ma almeno ha avuto il coraggio di dire: mi fermo io. Senza pensare al soldo.

Estratto dell'articolo di Antonio Corbo per "la Repubblica" il 30 maggio 2023.

[…] Come accade in molte separazioni, i motivi nei primi giorni, mesi o anni sono inconfessabili. Chi vive storie tormentate tende sempre ad uscirne bene. […] anche Luciano Spalletti e Aurelio De Laurentiis curano l'immagine, cercano la migliore dopo questo strappo cruento. […] c'è un involontario accordo: presidente e allenatore convergono senza essere d'accordo su tre punti. 1. Non dire perché hanno rotto. 2. Se possibile mentire. 3. Se bisogna dire bugie meglio scrivere una antologia di favolette.

"A volta ci si divide per troppo amore" è la dichiarazione di Spalletti dopo l'ennesimo premio al centro tecnico di Coverciano. Gli credete? Anche l'allenatore avrà letto fotoromanzi adolescenziali. È un classico: "Ti lascio perché ti amo troppo". Quante volte l'avete sentito, letto o addirittura detto? […] Spalletti va oltre. Aggiorna. "Voglio godermi mia figlia". 

È verosimile. Ma è probabile che la bambina di 12 anni preferisca rivedere il papà che torna da Napoli a Milano felice dopo una vittoria con i gol di Osimhen e Kvaraskhelia. Piuttosto che gonfio di livore per le tante cose che voleva dire e non ha detto, mentre prepara i bagagli per i vigneti di Certaldo e l'ozio estivo.

Mai così d'accordo, è De Laurentiis a lasciargli un termine, […]"sabatico". Lo ripete volentieri anche Spalletti . Elegante, no? Un anno di riposo, l'ha sentito nella trasmissione di Fazio in una serata da record di ascolti. Più che l'amore fa notizia il divorzio anche in tv, perché l'impennata di ascolti in "Che tempo che fa" ha tre motivi di attrazione. Sapere come Fabio Fazio si congeda dalla Rai, ora che il ciclone di destra travolge anche i migliori della televisione pubblica, è già molto intrigante. Figurarsi, si si mettono poi la ancora misteriosa lite nel Napoli che ha vinto lo scudetto ed il calcio che ha capi più fertili di gossip che di gol.

[…] Chi sa creare una bella storia meglio di chi ne ha prodotto centinaia in mezzo secolo di film?  Dice infatti De Laurentiis: "Luciano è venuto da me per dirmi: ho fatto il massimo. Non potrei fare altro. Voglio prendermi un anno sabatico. Lo so che sono legato per un anno al Napoli ma presidente ti chiedo di liberarmi. Ed io presidente che rispondo? Io che sono generoso gli dico: non c'è problema. Vai a fare quello che ti piace". Questa la sintesi. […] 

De Laurentiis e Spalletti si sono divisi dopo l'eliminazione del Napoli dalla Champions. L'allenatore risaliva anche alla intempestiva polemica contro Ceferin presidente Uefa. Gli arbitraggi ostili come possibile onda lunga dei malumori federali. Possibile? Forse. De Laurentiis avverte invece il peso dei 25 milioni di perdita secca per la mancata semifinale d Champions. In un clima di tensione, era già spuntato un segnale d'allarme.

Ventiquattro marzo 2023 a Castel Nuovo dove la Figc assegna all'allenatore del Napoli il premio Bearzot, XII edizione. De Laurentiis a domanda di Jacopo Volpi annuncia che "Luciano guiderà il Napoli anche l'anno prossimo". Luciano si nasconde dietro lo scudo di un silenzio impenetrabile. Neanche il filo di un sorriso, neanche una sillaba, un ghigno, niente. Repubblica due giorni dopo pone il dubbio: vuoi vedere che Spalletti ha altre offerte? Arriva una soffiata: attenti, anche se volesse andar via Spalletti è bloccato da una clausola che in via unilaterale dà alla società il diritto di proroga del contratto fino al 30 giugno 2024. La clausola ha effetto nel momento in cui il Napoli esercita il diritto di opzione, ma entro il 10 giugno 2023.

Il Napoli con largo anticipo comunica con Pec (Posta elettronica certificata) la decisione di prorogare il contratto. […] Con la Pec che non è mancanza di riguardo, ma un atto formale, Spalletti è inchiodato. Può strappare un premio extra, ma non di più. Si prova ora leggere nella mente di Spalletti, si va per intuito nel rispetto dell'umano sentire: è carico di tensione per uno scudetto vinto con grande applicazione, fatica sacrifici  e professionalità, sa che il presidente si aspetta stavolta anche la Champions, sa che non è facile ripetere l'impresa dello scudetto , sa che si gioca la reputazione se gli va male il campionato prossimo, […]

Non occorre l'intelligenza artificiale per tirare le somme: mi dimetto, me ne vado con lo scudetto italiano che mi mancava, fantastico scudetto di Napoli. Aggiunge: lo festeggerò con il mio popolo, come ama dire. Frase a effetto che piace. Ma non sposta la realtà. Starà fermo un anno. Chi sa parlare come De Laurentiis lo definisce "sabatico". Per un difficile divorzio a volta basta trovare la giusta. Sabatico.

Perché Spalletti ha scelto la famiglia: la figlia, la scomparsa dei nonni, la morte del fratello. Monica Scozzafava su Il Corriere della Sera il 30 Maggio 2023

Luciano Spalletti ha lasciato il Napoli dopo lo scudetto, la città gli conferirà la cittadinanza onoraria ma lui ora ha deciso di non allenare per un anno e stare con la famiglia

L’allenatore è di quelli tosti, l’uomo non ne lascia correre una. Luciano Spalletti a 64 anni ha vinto il suo primo scudetto, lo ha fatto con il Napoli che aspettava da 33 di anni. Un record dopo l’altro, una festa dopo l’altra. Un infinito abbraccio tra Lucio e la città. Al punto che l’assemblea comunale discute e approva la mozione di conferirgli la cittadinanza onoraria. Spalletti, com’è noto, ha deciso di andar via. I rapporti col presidente De Laurentiis, la difficoltà di relazionarsi con i vertici del club, ma non ultima «l’esigenza di stare accanto alla famiglia» ha detto lunedì a Coverciano mentre ritirava un premio. «Ho una figlia piccola, Matilda, devo stare con lei, allenare lei». Spalletti, cuore di babbo, ha incuriosito il mondo del calcio e non solo: per una volta ha scelto il suo privato come copertina di un evento. Vuole vivere la felicità, perché «chi lavora non ne ha il tempo» è il suo pensiero. Non è una favola, né un modo per addolcire il divorzio. Al di là di tutte le incomprensioni con il presidente che pure ci sono state, c’è un uomo che per sua scelta ha vissuto per due anni giorno e notte nel centro sportivo di Castel Volturno, si è nutrito solo di lavoro. Ha ottenuto il massimo ed è stanco. Vuole tornare a casa. 

Luciano Spalletti e lo scudetto del Napoli: i 5 segreti del successo

L’uomo ha stabilito la priorità (la famiglia, appunto) ed è prevalso sull’allenatore tutto campo e squadra. Una famiglia unita, che negli anni ha superato insieme disgrazie e difficoltà. Matilda aveva 5 anni quando ha perso i nonni materni, Piero e Giovanna Angeli, morti tutte e due nello stesso giorno a distanza di poche ore. I due erano i genitori di Tamara, la moglie dell’allenatore di Certaldo. La coppia, insieme da 50 anni, viveva a Lerici, in Liguria, dove Spalletti, all’epoca a Roma, si precipitò per stare accanto ai suoi affetti. Tre anni dopo un altro lutto e la famiglia messa di nuovo a dura prova, la morte del fratello, Marcello Spalletti. 

De Laurentiis, Spalletti e l’addio al Napoli: «Mi ha chiesto un anno sabbatico»

L’unica volta che Spalletti — che per sua stessa ammissione non riesce a godere fino in fondo della felicità — si è commosso in pubblico è stato a Udine, nel giorno dello scudetto. Partita finita, difese abbassate e il pensiero che va al fratello Marcello scomparso nel 2019 a 66 anni dopo aver lottato contro una lunga malattia. Non ce l’ha fatta, Marcello, proprio nei giorni in cui l’Inter «liquidava» Luciano. I ragazzini della polisportiva «Avane» di Empoli dove allenava sono stati i primi a fare un tweet di congratulazioni per lo scudetto del Napoli: «Orgogliosi di tutto quello che fai da sempre. Anche noi oggi insieme al nostro Komandante Marcello Spalletti siamo un po’ Campioni d’Italia». Lucio, dopo il pari decisivo a Udine, si è così di nuovo misurato con il dolore, vero e tangibile, per la morte del fratello. Non c’è mai un tempo di elaborazione per la perdita di un fratello. E allora dopo due anni intensi e faticosi a Napoli, lontano da quella famiglia per lui importantissima, ecco la necessità di tornare a casa, a Milano. Con Tamara, la moglie e Matilda, la figlia di 12 anni che troppo presto ha perso i nonni e anche lo zio. La famiglia, appunto. L’uomo che prevale sull’allenatore dopo una grandissima gioia come lo scudetto. Il campo resta la sua linfa. Lo ritroverà presto.

Le lacrime di Spalletti dopo lo scudetto e la dedica al fratello Marcello morto. Monica Scozzafava, inviata a Udine su Il Corriere della Sera il 5 maggio 2023.

L’allenatore del Napoli si commuove quando dedica lo scudetto: «A mia figlia Matilde, alla famiglia, che è sempre lì a spingere. A tutti gli amici, a mio fratello Marcello», morto quattro anni fa. 

Lo ha vinto sul campo, come voleva. Non nel suo, e il finale è stato incandescente. Spalletti, il visionario, l’allenatore geniale, distende la fronte, libera il sorriso, abbraccia chiunque gli capiti a tiro. Molla i freni dopo una gara tiratissima, si rivolge a Napoli: «Questo traguardo è per te». Ha tutti i giocatori attorno, nello stadio friulano i tifosi dell’Udinese (qui 117 panchine e la qualificazione ai preliminari di Champions) lo hanno offeso per tutta la durata della partita. Agli insulti lui risponde alzando le braccia: il calcio sa essere ingrato, il suo è anche lo scudetto della rivincita. Al triplice fischio di Abisso non si aprono le danze alla Dacia Arena, la festa è rovinata dall’invasione di campo: lo scudetto è servito in trasferta, il finale è rissa. De Laurentiis è a Napoli tra la sua gente: «Una gioia immensa», la sua gioia è incontenibile. Sciarpa azzurra al collo, dice ai tifosi del Maradona: «Mi avete sempre detto noi vogliamo vincere, lo abbiamo fatto tutti insieme. Lo rifaremo ancora, ci manca la Champions e la conquisteremo. Stasera ci vorrebbe Modugno per cantare: Meraviglioso».

L’interminabile attesa è finita, capitan Di Lorenzo urla: «Siamo campioni d’Italia» con l’ultima vocale ripetuta oltre l’inverosimile. Gli vanno incontro gli altri compagni: braccia al cielo, sorrisi, applausi come se non ci fosse un domani. L’euforia tocca picchi altissimi, nonostante la tensione. Lui, il grande vincitore Spalletti resta in campo. «La felicità è un attimo fugace» ripete, ed è talmente forte l’emozione che stavolta un po’ si lascia andare. È l’ottavo allenatore dell’era De Laurentiis in serie A, il primo a vincere. Risponde così, con la gioia esagerata, a quell’etichetta di uomo spigoloso che pure a Napoli si era portato addosso. «Il problema per quelli abituati a lavorare duramente sempre, come me — dice — è che non riescono a gioire totalmente nemmeno delle vittorie. Bisogna di nuovo lavorare». Quando vinse allo Zenit con una temperatura polare sfilò in campo a torso nudo. La sua prima volta a 64 anni in Italia è il traguardo della maturità e della commozione («ho dedicato tutto il mio tempo a questi ragazzi»), soprattutto quando alla fine arriva la dedica agli affetti più cari: «A mia figlia Matilde, alla famiglia, che è sempre lì a spingere. A tutti gli amici, a mio fratello Marcello». E a quel punto Spalletti, nominando il fratello scomparso 4 anni fa, si commuove e in lacrime lascia la postazione dell’intervista. Riavvolge il nastro e per una notte vive intensamente e senza limiti. Il bagno di spumante nello spogliatoio è un rito inedito per questo Napoli, viene ripetuto più e più volte mentre sui cellulari arrivano le immagini dal Maradona: una città impazzita.

Alla Dacia Arena festeggiano gli oltre 13 mila napoletani arrivati in mattinata, poi quando a tarda sera la squadra torna in hotel (rientrerà a Napoli in mattinata) anche lì è un via vai di amici friulani, si tira tardi e arrivano davanti all’ingresso un migliaio di tifosi. Spalletti fa fatica a ricomporre il puzzle del campionato che resta: ci sono altre cinque partite da giocare, vuole (ancora) il massimo, deve stravincere, lui è così. «Questa è una vittoria extralusso. Napoli è una città unica, inimitabile. Bellissima, passionale» aveva detto prima della partenza. Nella notte dello scudetto l’elogio è ancora più forte: «I napoletani lo sanno che è bella ma quanto lo sia veramente lo può dire meglio chi come me ne è ospite e ne resta folgorato». 

Lo scudetto dei partenopei ha nulla di estemporaneo, è il frutto della programmazione e della lungimiranza del club guidato da Aurelio De Laurentiis, del mercato oculato ed efficace del d.s. Giuntoli ma soprattutto della regia di un allenatore arrivato due stagioni fa tra lo scetticismo generale. Spalletti è felice due volte: «Ho scelto di venire a Napoli soltanto per vincere, qui ci sono stati allenatori importanti come Benitez, Ancelotti e lo stesso Sarri: hanno fatto bene, ci sono andati vicini. Non avevo scampo, a Napoli avrei dovuto puntare soltanto al massimo. Ci siamo riusciti». Non è tempo di togliersi sassolini dalle scarpe, Spalletti però ha annotato tutto sui quadernetti delle memorie: gioisce ma non dimentica chi gli ha fatto striscioni contro, chi si è presentato in ritiro, l’anno scorso, munito di pacchi di uova. Ora sul carro fa salire tutti, poi verrà il tempo delle domande. Una se l’è già fatta: «Posso ancora dare ai napoletani tutto ciò che meritano? Sarò alla loro altezza?». De Laurentiis non ha dubbi: «Proseguiamo con lui, è stato un bellissimo film». Ci sarà ancora tanto da raccontare.

De Laurentiis: «Osimhen? Non lo vendo mai. Spalletti? C’è un contratto». Monica Scozzafava, inviata a Napoli su Il Corriere della Sera il 5 maggio 2023.  

Il presidente del Napoli da Vespa: «Non cedo il mio centravanti. Voglio aprire un ciclo con l’allenatore, è un eroe. Ha un contratto e c’è una parola». Spalletti vuole un confronto: «Deve venire a parlare con me non con gli altri» 

Aurelio De Laurentiis ha preso la sua di scena, distante dal cuore della festa sportiva, lontano da Luciano Spalletti e dai protagonisti del terzo scudetto del Napoli. Il presidentissimo ha scelto la gente, ha voluto l’abbraccio dei tifosi al centro dello stadio Maradona, a loro ha parlato con il cuore: «Voglio vincere ancora, voglio la Champions con Luciano». Una missiva inviata a 850 chilometri di distanza, arrivata giovedì sera nel bel mezzo della celebrazione sul campo di Udine, dove le maglie volano per aria, il sudore dei calciatori esprime in maniera tangibile la fatica di una stagione culminata con l’evento che segna la storia del club. Sotto i riflettori Spalletti abbraccia la sua di gente: dedica la vittoria al fratello Marcello, scomparso quattro anni fa, stringe forte, fortissimo i protagonisti della «battaglia», si lascia travolgere dalla commozione e resta per una manciata di secondi avvinghiato al team manager Giuseppe Santoro, diventato in questi due anni anche suo uomo di fiducia e riferimento nello spogliatoio, che nel Napoli è cresciuto facendo gavetta e poi carriera, andato via per altre esperienze in Italia e Premier League e poi tornato al Napoli, contemporaneamente a Luciano, per vincere

Spalletti e De Laurentiis, ciascuno con la propria festa, uniti da un contratto in essere per un altro anno (il patron azzurro ha già esercitato l’opzione per il rinnovo e vuole che sia rispettato), in attesa di un faccia a faccia. Non hanno litigato, ma mentre Aurelio gli giura amore sotto il cielo di Napoli, Lucio nella bolgia di Udine rispedisce al mittente: «Deve dirlo a me, non agli altri». «C’è un contratto — replica ancora Adl ospite di Bruno Vespa — e poi c’è una parola data. Luciano è un eroe innamorato di Napoli, lo ha detto lui». Scintille, a distanza. Spalletti vuole che l’«amore» sia nell’espressione degli occhi del proprietario del club («ho rifiutato 1 miliardo, oltre a 2,5 per il gruppo») che nella voce commossa del post vittoria o davanti alle telecamere Rai. Perché alla base di una ripartenza deve esserci un progetto, riconfermarsi può essere più difficile di vincere, e la squadra con cui ricominciare dev’essere forte almeno come quella che ha stravinto il campionato. E non ha certezza di ciò.

Spalletti è tornato da Udine nel primo pomeriggio di ieri, l’uomo (finto) spigoloso fa selfie con i bambini che lo aspettano da ore a Castel Volturno, sorride forse anche di più rispetto alla notte del trionfo e, metabolizzato l’effetto («fugace») della felicità, dà soddisfazione alla gente che lo ha sostenuto, che lo ha difeso quando Napoli si era messa di traverso. Aurelio ha l’agenda piena, da Napoli si è spostato a Milano per l’assemblea di Lega, poi è rientrato per un’altra serata di celebrazione in famiglia. Sempre sul pezzo, però: la programmazione e la ricerca di nuove pedine funzionali al suo club (se Giuntoli cedesse alla Juve, per esempio?). La finestra sul mercato è sempre aperta — ripete spesso — e c’è da essere preparati rispetto a offerte indecenti. Potrebbero arrivare per Osimhen, corteggiato da mezza Europa («non lo vendo mai» promette però ADL), per Kim che ha un contratto con clausola. Spalletti è un punto fermo. «Contratto», insiste il patron. Rapporto, vuole l’allenatore. Vedersi, parlarsi. Decidere. Non accade da un po’.

I Calciatori.

Da corrieredellosport.it il 5 maggio 2023.

È un momento di grande gioia per il Napoli dopo la conquista del terzo scudetto. Nel corso della cena post partita, capitan Di Lorenzo ha parlato alla squadra dando vita a un discorso breve, ma da brividi. 

"Un successo che ci unirà per sempre"

Di Lorenzo ha preso la parola e ha sottolineato: "Attraverso il lavoro e il sacrificio siamo riusciti a raggiungere un risultato incredibile. Nel calcio può succedere di tutto tra chi resterà e chi andrà via, ma questo successo ci unirà per sempre. Forza Napoli!". Un discorso che ha fatto proseguire i festeggiamenti per l'importante risultato raggiunto dai ragazzi di Spalletti.

Di Lorenzo, il discorso del capitano del Napoli: «Questo scudetto ci unirà per sempre». Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 5 maggio 2023.  

Il capitano del Napoli e il discorso alla squadra dopo la vittoria dello scudetto: «Nel calcio c’è chi va via e chi resta, ma noi resteremo uniti». Osimhen scatenato, le lacrime di Kvaratskhelia nello spogliatoio 

Un discorso da capitano vero, davanti a tutta la squadra, nella notte più bella. «Questo successo ci unirà per sempre», dice Giovanni Di Lorenzo, uno dei leader del Napoli che vince il terzo scudetto, rivolto ai compagni. Siamo nella sala ristorante dell’hotel «Là di Moret», la tana scelta dalla squadra di Spalletti alle porte di Udine. Gli azzurri sono rientrati da poco, dopo aver ottenuto il punto che significa scudetto. Accolti, all’esterno della struttura, da un migliaio di tifosi in festa.

Una frase in cui c’è tutto il senso di squadra. Non importa cosa accadrà, è più importante il traguardo raggiunto, un legame che resterà. Prescinde dal futuro, da Osimhen che potrebbe cedere alla corte del Manchester United, da Kim e Kvara ambiti da mezza Europa, dallo stesso Spalletti che tentenna. «Attraverso il lavoro e il sacrificio siamo riusciti a raggiungere un risultato incredibile. Nel calcio, si sa, può succedere di tutto: chi va via, chi resta. Ma questo successo ci unirà per sempre. Forza Napoli!», urla Di Lorenzo, e con lui in coro tutti gli altri. Una notte magica. Osimhen è scatenato, capopopolo che salta e canta in piedi sul tavolo dello spogliatoio. Kvaratskhelia avvolto nella bandiera georgiana non trattiene le lacrime, da lui arriva Meret che lo consola, lo abbraccia. Uniti al traguardo. Ci sarà tempo per pensare al futuro. Anzi è già tempo di futuro: in casa Napoli sono in corso già le manovre per il dopo scudetto: chi resta e chi va 

Napoli campione d'Italia, le pagelle dei protagonisti. Kvaratskhelia (9) e Osimhen (9) sono i veri trascinatori della squadra. In difesa brilla Kim (8.5) autentica rivelazione della stagione. Spalletti (9) raggiunge finalmente il sogno tricolore. Antonio Prisco il 4 Maggio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Portieri

 Difensori

 Centrocampisti

 Attaccanti

Il Napoli è campione d'Italia per la terza volta nella sua storia. In testa sin dalla prima giornata, la squadra di Spalletti ha sgretolato tutti gli avversari, macinando vittorie su vittorie. Una marcia inarrestabile fino alla conquista matematica dello scudetto, arrivata a sei giornate dalla fine. Diamo i voti agli artefici di questa magnifica impresa.

Portieri

Alex MERET 7 - Si prende una bella rivincita dopo un'estate passata con la valigia in mano. La partenza sprint e l'ottima tenuta difensiva della squadra lo aiutano a ritrovare fiducia. Lui ci mette del suo, con prestazioni sempre al di sopra della media.

Pierluigi GOLLINI SV - Arriva a gennaio in prestito dalla Fiorentina. Una sola presenza con l'Atalanta, conclusa con un clean sheet. Troppo poco per essere giudicato.

Salvatore SIRIGU SV - Lascia il Napoli e va alla Fiorentina nello scambio con Gollini. Poi si fortuna gravemente. Un vero peccato aver lasciato a metà stagione proprio nella stagione scudetto.

Difensori

Giovanni DI LORENZO 8 - Capitano di mille battaglie. Cresciuto in maniera esponenziali nelle ultime due stagioni, difende e attacca praticamente con la stessa efficacia. Dopo Hamsik, Maradona e prima ancora Bruscolotti e Juliano, la fascia è sul braccio del giocatore giusto ancora per tanti anni.

Amir RRHAMANI 8 - Dai margini della rosa con Gattuso a pilastro difensivo insostituibile per Spalletti. Forte in marcatura e di testa. Sempre pericoloso sulle palle alte in proiezione offensiva. Un vero centrale moderno.

Min-jae KIM 8.5 - Sostituire Koulibaly in campo e nel cuore dei tifosi non era affatto facile, lui ci riesce subito. Mostruoso nelle letture difensive, praticamente non sbaglia una partita. Si impone come uno dei migliori difensori non solo della Serie A ma di tutta Europa.

MARIO RUI 7.5 - La stagione del rilancio. Il piccolo terzino portoghese torna ai livelli vissuti con Sarri. Il piede e la partecipazione al gioco sono da sempre il suo forte. Quest'anno elimina del tutto le disattenzioni difensive facendo una stagione super.

Bartosz BERESZYNSKI SV - Altro acquisto di gennaio. Una sola presenza in Coppa Italia nella sconfitta con la Cremonese. Davanti ha lo stakanovista Di Lorenzo, ecco perché non gioca mai.

JUAN JESUS 7 - Richiesta di Spalletti che lo conosce dai tempi di Roma. Con gli anni acquista esperienza e grande senso della posizione. Da prima riserva dei titolari si dimostra una pedina utilissima.

Leo OSTIGARD 6.5 - Chiamato in causa soprattutto nella prima parte della stagione, si dimostra un prospetto interessante. Troppo ampio il divario con i titolari, per poterli insidiare, almeno per questa stagione.

Mathias OLIVERA 6.5 - Dà il cambio a Mario Rui facendo sempre bella figura. Diligente, buona spinta e "garra charrùa" tutta uruguagia. Dalla prossima stagione pronto l'assalto alla maglia da titolare.

Centrocampisti

Stanislas LOBOTKA 8 - Altro elemento trasformato dalla cura Spalletti. Si ironizzava e non poco sulla sua forma fisica, smentisce i più scettici con una stagione strabiliante. Prende per mano la squadra, moto perpetuo, dai suoi piedi nascono tutte le azioni e che azioni.

Zambo ANGUISSA 7.5 - Conferma tutte le sue grandi qualità alla 2ª stagione in azzurro. Di fioretto o di sciabola dà sempre il suo contributo. Fosse più prolifico in zona gol sarebbe davvero perfetto.

Piotr ZIELINSKI 6 - Delude un po' le attese. In una squadra che gira alla perfezione ci si aspettava qualcosa in più. Troppi pochi gol per un giocatore col suo tiro. In altre annate aveva inciso di più.

Diego DEMME SV - Ai margini della rosa. Soltanto qualche apparizione, ingiudicabile.

Tanguy NDOMBÈLÈ 6.5 - L'alter-ego di Anguissa. Sempre pronto quando chiamato in causa. Dimostra di essere un centrocampista di spessore ma anche qualche difetto di tenuta mentale. Il prezzo alto del suo riscatto lascia più di qualche dubbio sul suo futuro a Napoli.

Gianluca GAETANO SV - Il gioiellino del settore giovanile gioca solo qualche spezzone di gara. Vincere lo scudetto a Napoli da napoletano resta una soddisfazione unica. A 23 anni sarebbe un delitto vivere un'altra stagione così.

Eljif ELMAS 7.5 - Jolly offensivo utilissimo soprattutto a gara in corso, quando entra per spaccare la partita. Spalletti si diverte a cambiargli posizione, esterno o tra le linee, qualche volta addirittura falso nove e lui risponde sempre presente.

Attaccanti

Matteo POLITANO 7.5 - Su e giù per la fascia destra. Con i suoi guizzi infiamma il pubblico del Maradona. Aggiunge qualcosa in più al suo bagaglio tecnico, con il solito movimento a rientrare sul mancino. Si prende la responsabilità di calciare rigori importanti.

Victor OSIMHEN 9 - Da diamante grezzo a leader indiscusso del gruppo e bomber implacabile. Lotta come un leone in ogni partita e su ogni pallone. Capocannoniere del campionato, trascina i compagni con i suoi gol. Per lui già suonano le sirene della Premier League.

Khvicha KVARATSKHELIA 9 - Impatto devastante. Dribbling, sterzate, assist e gol. Semina il panico nelle difese avversarie e manda in visibilio i tifosi con le sue giocate. L'unico modo per contenerlo è il raddoppio sistematico. Ma è difficile riuscirci anche così.

Hirving LOZANO 6 - Forse paga di testa il fatto di non essere più tra i titolarissimi. Entra nelle rotazioni, ma il suo rendimento non è entusiasmante. El Chucky, la bambola assassina, è un lontano ricordo.

Giovanni SIMEONE 7.5 - Il Cholito non risente assolutamente del salto in una big. Il ruolo di bober pronto a gara in corso lo esalta e lo galvanizza. I gol decisivi a San Siro e nella sfida al Maradona contro la Roma pesano tantissimo in ottica scudetto.

Giacomo RASPADORI 7.5 - I problemi fisici ne limitano l'utilizzo. Talento e classe da vendere. Ha tutto il tempo per ritagliarsi un ruolo da assoluto protagonista con questa maglia. Il gol vittoria contro la Juve mette il sigillo ad una stagione indimenticabile.

Luciano SPALLETTI 9 - Gli mancava solo il tricolore per entrare nel Gotha degli allenatori italiani. Costruisce una macchina perfetta, da vero maestro di calcio. Incanta in Italia e in Europa, mostrando un gioco moderno e spettacolare. Vincere lo scudetto a Napoli significa gloria eterna. I meriti di questo capolavoro sono tutti suoi.

Osimhen, l'eroe buono che ha stravolto il campionato. A mezzo servizio e ancora acerbo nelle prime due stagioni in azzurro, letale e dominante quest'anno: evoluzione di un centravanti inarrestabile. Paolo Lazzari il 4 Maggio 2023 su Il Giornale.

Quando aveva sceso la scaletta dell'aereo a Capodichino, fresco di imballaggio dal Lilla per 70 milioni di euro, l'accoglienza generale era stata tiepida. Zero gol in Germania, una quarantina in un paio di stagioni in Francia, d'accordo, ma comunque la spesa non pareva giustificata. E, al netto dell'infortunio alla spalla che misto al Covid lo aveva rallentato, la prima stagione in maglia azzurra di Victor Osimhen sembrava corroborare lo scetticismo: appena 10 gol in 30 presenze, non certo un bomber. Meglio era andato il secondo giro di giostra, con 18 reti in campionato che avrebbero potuto anche essere di più, se solo non si fosse frantumato zigomo e orbita oculare impattando contro Skriniar. Restava difficile ipotizzare, comunque, che il ragazzone di Lagos potesse trasformarsi nel risolutore capace di trascinare alla vittoria del terzo scudetto. Poteva immaginarlo, semmai, soltanto uno sparuto crocchio di sognatori azzurri.

E invece il mascherato nigeriano non ha soltanto segnato a manovella, aggiornando le statistiche pregresse e puntando dritto al luccicante bottino delle 30 segnature stagionali. No, il suo impatto sul campionato è stato molto più devastante. Con quel suo tribale aggirarsi per le retroguardie altrui, Victor ha trasmesso pensieri tetri e instabilità diffusa. In coppia con Kvara sono sembrati Batman e Robin per tutto il tempo. Eroi buoni e corretti, di cui la Serie A sentiva un gran bisogno. Ha segnato subito alla seconda, prima di un breve digiuno che in realtà dava lo slancio per infilarne una decina di seguito in altrettante giornate, da ottobre a gennaio, senza sosta. Il boost alla corsa scudetto del Napoli l'ha costruito in larga parte lui, in questo cruciale affastellamento di partite pre-mondiali.

E poi ha proseguito dopo la sosta imposta dalla rassegna qatariota, decisivo quando serviva, leader carismatico di una squadra balnearmente snobbata, idolo di una città intera in cerca di rivalsa dopo troppi patimenti diffusi. Ha segnato in tutti i modo Victor, ed è stata proprio questa, probabilmente, l'arma ancora più affilata di una semplice rete. Si è issato a due metri e mezzo d'altezza per andare a scaraventare il pallone in fondo alla porta dello Spezia. Ha fatto un gol senza senso contro la Roma, stop di petto e botta al volo. Ha anticipato praticamente sempre gli avversari che pensavano di averlo in pugno, sfoggiando una qualità tecnica che in precedenza era stata sacrificata sull'altare della ruvidezza. Ha battezzato angoli impervi da raggiungere irretendo con il destro ed il sinistro. La conquistata supremazia di Osimhen, quella che ha ridotto gli avversari ad una psicologica dimensione ancillare ancor prima di scendere in campo, è stata il passaggio più rapido verso la felicità madida del primo posto.

Così sono meritate tutte le torte che riproducono la sua chioma ossigenata. Tutte le canzoni composte in suo onore e che tempestano i tik tok adolescenziali. Le statuette di gesso e pure i cartonati. Victor ha mandato in deliquio mezza serie A con le sue sole movenze. Questo è anche il suo riscatto. Adesso una cosa è ancora più certa: non vale assolutamente i 70 milioni spesi. Da oggi chi lo volesse strappare al Napoli dovrà presentare quasi il doppio.

Estratto dell’articolo di Gabriele Romagnoli per “la Repubblica” il 5 maggio 2023.

Cordoglio a reti unificate. Chi un anno fa, a fine campionato, si fosse trovato in provincia di Napoli e avesse fatto zapping tra le incalcolabili trasmissioni sportive, a questo avrebbe assistito: un misto di rimpianto per il passato e sfiducia nel futuro. 

Opinionisti dalla carriera dimenticata, signorine generose e imitatori di Caccamo esprimevano disperazione sotto l’onnipresente totem di Maradona. L’occasione appena buttata andava a sommarsi alle illusioni di Sarri abbandonate in albergo. E De Laurentiis avrebbe venduto i “gioielli”: Insigne, Koulibaly, Mertens. 

Quando mai sarebbe ricapitato di vincere il campionato? Quando sarebbe tornato il Messia? Questa è la chiave. Lo scudetto a Napoli (prima ancora che al Napoli) richiede lo scarto dalla realtà. Si sostanzia nel miracolistico e allude al sacro. Ha bisogno dell’eccezionale alla regola.

Per questo adesso possiamo dire che come sempre è una spina dorsale a reggere un esito (Kim-Lobotka-Osimhen) ma senza l’annuncio dell’imprevedibile quel numero 3 non sarebbe uscito sulla ruota partenopea. E l’annuncio è stato Kvaratskhelia. Kvara chi? Non c’erano profeti in circolazione quando è atterrato all’aeroporto Capodichino. 

[…] Altri, più attenti e studiosi, segnalavano invece che i georgiani sono gli artisti del calcio est-europeo, giocolieri tra soldati e funzionari, uruguagi d’oriente atti a scompaginare piuttosto che rilegare. E questo Kvara provava circa 7 dribbling a partita, riuscendo nella metà dei tentativi. Come chi? Neymar.

Però. Appunto, però: in Russia, in Georgia, mica al Maradona o al Meazza. Ambidestro. Finché non lo cionca uno dei terzini di Serie A. Capace di accelerazioni micidiali e ripetute. Poi gli piazzano il raddoppio e ciao. Qualcuno si struggeva per il mancato acquisto di Deulofeu. Poi Kvara ha cominciato a giocare e il destino si è rivelato.  […] 

Devono scomodarsi gli aedi stranieri, ci vuole il timbro del New York Times, per dire. A quel punto “Kvaradona” è ufficiale: non può essere un’allucinazione dei vicoli. […] Quando tutti gli spazi davanti a lui si chiudono Kvara ha fatto spesso questo: ne ha aperto uno che non c’era. O meglio, nessun altro vedeva. Crea un accordo apparentemente telepatico. A metà del suo affondo un compagno si piazza sulla tre quarti per il dai e vai.

Se prosegue verso la bandierina, un altro indica con il movimento il punto in cui crossare e la palla lì arriva. La compilation delle sue migliori azioni circola in rete e viene continuamente aggiornata. […]

Estratto dell'articolo di Gigi Garanzini per “la Stampa” il 5 maggio 2023. 

Profuma di buono questo terzo scudetto del Napoli, anzi d'antico. Pur nella sua estrema modernità calcistica. Di buono, innanzitutto perché è uno scudetto sostenibile […] I bilanci in ordine, l'equilibrio economico finanziario perfettamente rispettato: una lezione in piena regola a buona parte del resto d'Italia – e d'Europa […] Un mercato capolavoro, con tante grandi firme in uscita e altrettanti carneadi in entrata. Carneadi per noi, Kim e Kvara, per dirne un paio: non certo per chi li seguiva e li covava da tempo. […] 

D'antico, perché […], la forza imprescindibile della squadra è nella sua spina dorsale: portiere, centrale difensivo (in altri tempi e in un altro football si chiamava libero) regista e centravanti. Allora. Il portiere sembrava una via di mezzo tra l'incognita e la scommessa. A giochi fatti una scommessa vinta, […]

Il centrale. Ce n'è uno in giro oggi più forte di Kim? Non si direbbe. Nemmeno Koulibaly, oltre il quale in un grande Napoli sembrava impossibile andare. Il regista. Ce n'è di almeno due tipi, com'è noto: quelli al cui servizio corrono gli altri, e quelli che corrono in proprio al servizio della squadra. Di questa seconda specie Lobotka è uno strepitoso prototipo: mai fermo, mai lontano dall'azione, sempre in sintonia con la cadenza da adottare in quel particolare momento, si tratti di accelerare piuttosto che di rallentare ricominciando il giro palla. Il centravanti. Quanti strappi in profondità suggerisce Osimhen in una partita? E che scelta di tempo ha nell'attimo fuggente dell'impatto aereo? Più la fisicità, più la tigna nell'andare a riprendersi il pallone quando già l'avversario al primo impatto sembrava averglielo portato via.

Più un sacco di altre qualità di cui il miglior Napoli era riuscito persino a fare a meno durante l'infortunio autunnale, «accontentandosi» di Raspadori o Simeone […] Intorno a quest'asse portante, che sa un po' di ripasso della grammatica d'una grande squadra, Spalletti ha distribuito tutta la sua sintassi. 

Corti, compatti, armonici. […]Nel panorama europeo di stagione solo il miglior City è stato all'altezza del miglior Napoli. Che ha segnato molti più gol di tutti e ne ha pure presi di meno. […] Ha giocato una strepitosa stagione Di Lorenzo, capitano tutt'altro che per caso, esterno difensivo e non solo ormai di caratura internazionale. Ha dato il meglio di sé Rahmani, in coppia con quel fenomeno di coreano, ha corso tanto e bene Anguissa. Perché, gli affondi e i colpi di Politano e/o Lozano?

E cos'ha rappresentato Kvara nella fase ascendente di stagione, se per lui abbiamo speso paragoni che oggi magari sembrano eccessivi ma presto torneranno buoni? Panchina ricca, infine, molto ricca se Olivera riesce a non far rimpiangere le assenze di un playmaker esterno come Mario Rui. Fermo restando che il multiforme Elmas è per distacco il miglior subentrante del campionato.

Estratto dell'articolo di Marco Ciriello per “il Mattino” il 5 maggio 2023. 

L'harmattan è un vento secco che spinge sabbia e polvere dall'Africa al Sudamerica, oscura il sole, riduce la visibilità, blocca i volti, e quando si alza è devastante: soffia a nordest e ovest, dal Sahara al Golfo di Guinea, e Victor Osimhen lo ricorda. L'harmattan Osi soffiando sui campi d'Italia ha portato il Napoli allo scudetto, scompigliando difese, attraversando aree di rigore e arrivando in porta, per poi uscire e tornarci, con larghe folate.

[…] E anche senza il pallone l'harmattan Osi soffia continuamente creando irritazione nei marcatori, esasperando i portieri, e costringendo i centrocampisti al ripiego, perché non sta fermo, mulinella per il campo, strappa palloni, interrompe le impostazioni, e se non proprio come il vento vero che porta alla pazzia, l'attaccante del Napoli comunque conduce all'esasperazione. […]

È questo Victor Osimhen: un vento che genera gol e tormenti. E che spesso soffiando in modo scomposto si infrange e rompe, si ferisce, divide, ma poi ritrova la sua naturale signorilità tornando a spazzare via tutto quello che trova: palloni, porte, portieri. Da vento si infila ovunque: passa sotto le gambe, sopra le teste, di lato ai corpi, e non si ferma mai. Tanto che a vederlo correre e avventarsi sul pallone, con il boato che ne consegue, viene in mente Pino Daniele che canta «E nun te ferma' / Viento, viento / Puorteme 'e voci / E chi vo' allucca'». Trase dint'e ll'aree e segna, nun te ferma'».

 Non è un caso che Osimhen a Lagos abbia avuto la strada come famiglia, dribblando nel traffico, evitando le auto, come adesso evita i difensori, e spinge i palloni in porta alle spalle dei portieri. Potenza, geometria e disinvoltura nell'inganno. Saccheggia le aree. Salta gli ostacoli. Indovina le traiettorie. L'harmattan Osi è una continua emozione giovanile che non sembra stancarsi mai.  

[…] In una semplificazione sentimentale Osimhen e dopo la sua maschera sono diventati il simbolo del terzo scudetto del Napoli. Gol e rappresentazione in maschera, l'emblema di questa stagione. […] Verrà ricordato a lungo proprio perché portatore di elettricità come pochi altri calciatori, non a caso l'unica contrapposizione calcistica possibile è con Erling Haaland.

Osimhen si è sintonizzato con i cuori napoletani, li ha fatti battere più forte, e trepidare ogni volta che si è fatto male, è tornato stropicciato dalle partite con la nazionale nigeriana, o si è lanciato in acrobazia pericolose, ammaccandosi. Ma il vento non ha paura di nulla, e non teme le botte, i muri, i canyon. […] 

La sua poetica è da calciatore scombinato, oscillante, ballerino, un saltimbanco dell'area di rigore, sbilenco e per questo imprendibile: sia quando salta per colpire di testa che quando taglia per calciare di destro. E questo suo essere imprendibile l'ha reso il simbolo di questo Napoli che ha cavalcato dove le altre squadre arrancavano, seguendo il ritmo e l'eleganza altra del suo capocannoniere. […]

Ma non si può chiedere al vento d'essere ordinato, il vento soffia e fa come gli pare. Nel suo assolutismo, nella sua disgregazione, nella sua intrattabilità sta il neapolitan style. […] Da individualista irresponsabile come era apparso è diventato collettivista indispensabile tra movimenti con palla e senza, ricettore di palloni di qualunque tipo corti, lunghi, alti, bassi e amministratore dell'attacco, che lo ha portato a interiorizzare, assimilare ed esplicitare la condizione di leader. Ora lo sa, ma non ha smesso di divertirsi. Il vento non può smettere. Né si è moderato. Anzi, ha aumentato il grado di aggressività, il suo calcio selvaggio si è fatto canone, linguaggio, gol e brividi. E ora è anche titolo.

I Commenti.

Estratto da startmag.it il 5 maggio 2023.

Dai gobbi ai ciucci. Se il trasformismo è la vera arte nascosta della politica (non solo italiana), vero denominatore comune tra i partiti, difficilmente può essere adottata in altri ambiti. Come il calcio, ad esempio. Dove la fede sportiva è sacra, significa appartenenza e identità. Eppure, a volte, proprio per l’incrocio con la strada dell’ars politica (che non è scienza, come diceva Bismarck) tutto può cambiare anche qui. E si finisce per tradire la squadra del cuore, quella tifata da bambino.

Una scelta di comodo che ha visto protagonista nelle ultimissime ore Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli. La città che ieri sera grazie all’undici azzurro e al pareggio di Udine si è ufficialmente laureata campione d’Italia, rompendo un dominio torinese e meneghino che durava dal 2002. Il titolo ai partenopei mancava, invece, da ben 33 anni. C’era Maradona, c’era la lira, c’erano i Mondiali in Italia, l’Urss era agli sgoccioli, come la Prima Repubblica. 

Manfredi ha giustamente atteso con tutta la comunità partenopea il taglio del traguardo, andando prontamente a celebrare il successo allo Stadio Maradona insieme al presidente del club Aurelio De Laurentiis. “Mi avete sempre detto che volevate vincere. E abbiamo vinto, tutti insieme”, ha urlato al microfono arringando come un vero capo popolo. Il primo cittadino di Napoli ha invece affidato a Repubblica le sue parole sul successo. “È la vittoria di una grande comunità. A pensarci, questo finale un po’ sofferto somiglia di più alla storia di Napoli e alla fatica che deve fare”, confessa a Conchita Sannino. Alla quale smonta gli stereotipi sulla città, promette nuovi investimenti attorno allo stadio e soprattutto…rinnega la sua fede juventina.

“Confessi, ora, davanti al titolo: il suo cuore di juventino ne è trafitto?”, gli chiede la giornalista in chiusura di chiacchierata. E Manfredi, ridendo: “No, lo ero da giovane. Ora Napoli, e il Napoli, vengono prima. E ce l’ho messa proprio tutta, non solo io ma il Comune, perché la città fosse all’altezza di una splendida squadra”.

Insomma, un dietrofront di fede calcistica. Non una questione esistenziale, certo. Ma seria nell’ambito dello sport, dove appunto valgono le appartenenze, i simboli, gli idoli. 

Manfredi, insomma, da juventino è diventato tifoso del Napoli? Sembra di sì. Compiendo un percorso inverso rispetto a quello fatto, per esempio, da Gonzalo Higuain anni fa. ‘O traditore, è diventato dopo il suo trasferimento in bianconero. 

Eppure, in tante occasioni passate e anche recenti, Manfredi aveva sempre messo su due piani diversi l’amore per Napoli e la sua vera fede bianconera. Al Corriere della Sera, conversando con Tommaso Labate nel novembre 2021 dopo la sua elezione, disse che “Juventus-Napoli e Napoli-Juventus non le guardo mai, neanche in televisione”. E ancora: “Sono felicissimo di essere diventato sindaco col Napoli primo in classifica”. A giugno di due anni fa aveva, invece, parlato così: “Non vado allo stadio da 30 anni ma da ragazzino tifavo per la Juventus. Lo sanno tutti perché io dico sempre la verità, dico anche cose che non mi convengono perché le persone non si prendono in giro. Ma io sono un grande tifoso di Napoli”.

“Premetto di essere stato sempre tifoso moderato. Vivendo a Nola, città appena fuori Napoli, sostenevo quella squadra che aveva i colori bianconeri, da qui un trasferimento di simpatia. Ma niente più”, ha detto a marzo al Fatto Quotidiano. Tre giorni fa, infine, a Sportitalia Manfredi ha aggiunto un altro elemento ancora: “Da bambino ero tifoso della Juventus ma non seguivo molto il calcio”. 

“Io sono il Sindaco dei Napoletani e mai come in questo momento sono tifoso del Napoli e vicino alla Squadra. Ho il piacere e dovere di tifare Napoli e la città che rappresento”. Più il dovere o più il piacere?

De Giovanni sul Napoli: quattro parole per lo scudetto (e non c’è miracolo). Maurizio de Giovanni su Il Corriere della Sera il 4 maggio 2023.

«Identità», «attesa», «storia», ma questa volta al posto del miracolo c’è un’intelligente, attenta e faticosa costruzione che ha certo componenti geniali e intuizioni straordinarie, ma che è frutto di una pianificazione scrupolosa 

Forse per spiegare l’attimo dopo il big bang bastano quattro parole. Per orientarsi all’interno di una festa popolare che durerà mesi, al confronto della quale il carnevale di Rio sembrerà Helsinki il due novembre, nient’altro che quattro parole.

Napoli campione d’Italia, la festa scudetto e le reazioni in diretta

La prima è «identità»

Questa è l’unica città che ha una squadra sola. Tutti gli appassionati, gli sfegatati, i prudenti e i malati si riconoscono in questa maglia. Non ci sono le dinamiche tipiche dei derby, le contrapposizioni interne, che pure esistono eccome, si sviluppano in una dialettica e anche in conflittualità che restano sotto la stessa bandiera; non è cosa da poco, se ci pensate, che non esista sullo stesso territorio un’altra tifoseria che soffre, invidia, gufa, ironizza e rema contro. Nel momento dell’acuta sofferenza, della risalita dall’abisso e naturalmente del trionfo, c’è un’unica disordinata, policroma e multiforme comunità che si riconosce come tale, anche perché incomprensibilmente sbeffeggiata e talvolta insultata un po’ dovunque. Essere tifosi di questa squadra significa anche essere tifosi, testardamente e in maniera spesso autolesionistica, di questa terra.

La seconda è «attesa»

Trentatré anni sono una vita intera. Un baratro di epoche, di usi e costumi, di canzoni e film. Un enorme numero di persone che c’erano allora e che purtroppo non ci sono più, e altrettante che allora non erano ancora nate o che muovevano i primi passi, inconsapevoli dell’esistenza del calcio, che adesso osservano sorridenti e felici gli eventi di cui hanno sentito raccontare, ma che non pensavano di poter mai vivere. Trentatré anni in cui la parabola è stata terribile, dalle stelle ai sotterranei delle stalle, aule di tribunale che si sostituivano al terreno di gioco, sentenze che hanno causato più lacrime di finali perdute. E la lenta, progressiva risalita, riempire gli stadi della serie C, quantitativi industriali di devozione e amore per interpreti sconosciuti del sottobosco del calcio, mentre tutti gli altri giocavano in Europa e riempivano i programmi sportivi. È attraverso la sofferenza che si costruisce la gioia.

La terza parola è «Storia»

Un meraviglioso racconto pulito e semplice, il consolidamento e il rafforzamento di una splendida idea. Innamorarsi di chi si ama già, da sempre. Una società che in maniera silente ma assolutamente inesorabile si è presa un posto di vertice nel sistema del football italiano, unica presente da quattordici anni nelle coppe europee, con riflessi dal punto di vista finanziario che hanno consentito una crescita tecnica di cui oggi, finalmente, si vedono i risultati. Quattro secondi posti e due terzi, negli ultimi dieci anni, è un dato che non consente di sorprendersi per un successo che finalmente arriva. E poi c’è un numero che resta sorprendente: su centodiciotto titoli assegnati dal campionato italiano, soltanto tre sono stati vinti a Sud della capitale, grandi isole incluse. Il meraviglioso Cagliari di Gigi Riva, nel Settanta, e i due dell’Argentino Gigante. Questo è soltanto il quarto. Se non è un evento eccezionale questo, ci si chiede quando si possa definire tale un traguardo.

Quarto e ultimo termine: «miracolo»

Da queste parti, da sempre, aspettiamo il miracolo. Una scorciatoia, un modo diretto e fortunato di raggiungere un obiettivo senza l’onere di programmare, di costruire, di affaticarsi. La Grazia, una benedizione superiore che arriva a pioggia e che coglie un fortunato, risolvendo una situazione spesso destinata inevitabilmente al peggio. Un raggio di luce che illumina un po’ a caso, che porta fuori dalla palude nella quale, troppo spesso, ci siamo infilati da soli.

Ebbene, in questo meraviglioso successo non c’è niente di miracoloso

C’è un’intelligente, attenta e faticosa costruzione che ha certo componenti geniali e intuizioni straordinarie, ma che è frutto di una pianificazione scrupolosa in cui, senza stanziamenti enormi o capitali stranieri, senza esercizi di potere occulto o reti di conoscenze e contatti costruite in decenni, si è arrivati in cima.

Forse è questo, il vero miracolo del Napoli. Aver dimostrato che anche da queste parti e come diceva Gene Wilder in Frankenstein Junior, si può fare.

Maurizio De Giovanni per “la Stampa” il 5 maggio 2023. 

Non guardate.

Non guardate Napoli, per favore.

Non guardate questa città adesso che è in festa, adesso che è azzurra in ogni minima parte. Non considerate questo momento di assoluta, insuperabile felicità collettiva, fatta di sorrisi e di abbracci e di canzoni, una specie di gigantesco flash mob con un milione di ballerini e di musicisti spontanei pronti a far scattare cori e balli di gruppo nelle stazioni della metropolitana, nelle piazzette e nei bar, e perfino nei negozi. 

(..)

Non vale la pena, sapete. Perché la festa non finirà così presto, dissolvendosi nel momento travolgente della matematica conclusiva. Certo, adesso è esplosiva perché è identitaria.

Non c'è napoletano che sarà escluso, non c'è ragazzo o vecchio che non si riconoscerà nell'urlo liberatorio che arriva alla fine di una storia di fallimenti e disperazioni, di illusioni e disillusioni, di incanti e disincanti durata 33 anni. 

Non guardate Napoli adesso, se non l'avete guardata nel 2018 quando non bastarono i 91 punti, e il gioco scintillante di Sarri. 

(...) 

Guardate piuttosto ai molti milioni di napoletani nel mondo, che oggi tireranno fuori dai cassetti una maglia azzurra, magari vecchia e con la scritta Buitoni, e idealmente si metteranno in viaggio. Guardate a chi a Buenos Aires, a San Pietroburgo o a Shanghai vedrà la partita in orari improbabili, e urlerà e si abbraccerà esattamente come fosse a Materdei o a Mergellina. Guardate lì, in tutte queste città. Come a Padova, a Novara, a Rimini o a Bologna. Perché questa, sapete, è la festa non di una squadra, ma di un'identità. È la festa di un popolo. E al di là di un bel momento di spettacolare confusione, durerà un sacco di tempo. Forse, durerà per sempre.

Roberto Saviano per il “Corriere della Sera” il 5 maggio 2023. 

Non è uno scudetto qualsiasi, credetemi. È uno scudetto vinto dal Napoli. È furore agonistico, gioia pura e trasversale a ogni fascia della società, a ogni quartiere. È nemesi. Soprattutto, è merito. Qualcuno dirà: è sempre così, chiunque lo vinca. E invece no: insisto. Uno scudetto vinto dal Napoli non è come uno scudetto vinto da un’altra squadra. 

D’accordo: è la mia squadra, la squadra della città in cui sono nato, ed è la squadra per cui ho sempre tifato, e quindi questa eccezionalità potrei vederla soltanto io (in verità insieme a milioni di altri tifosi), potrebbe essere giustificata dalle lenti particolari che indosso, le lenti della nostalgia, della saudade provocata da un allontanamento forzato.

L’unicità di questo scudetto potrei vederla, ancora, per un motivo semplicissimo: perché sono un tifoso, e ogni tifoso ravvisa qualcosa di assolutamente unico nella propria squadra. Ma io insisto ancora: non è questo. Almeno, non è solo questo. Fornirò qualche ragione che esula dal mio coinvolgimento personale, e altre che lo investono pienamente. 

Le solite tre Negli ultimi vent’anni, le squadre di calcio che hanno vinto il campionato sono state tutte del Nord, e sono state soltanto tre. Le solite: Juve, Milan e Inter. Fino al punto che sul tema scudetto si è posta una sorta di Questione meridionale.

Senza voler sottrarre meriti a nessuno e senza riferirmi ad alcun caso in particolare, voglio comunque osservare come lo scudetto sia una meta più docile da raggiungere quando sono in gioco, oltre ai calciatori, cospicui investimenti finanziari, articolati assetti societari e perfino politici. Sarebbe da stupidi negare che il Nord Italia è un luogo più ricco rispetto al Sud. Sarebbe miope non intuire che questa ricchezza si travasa nel calcio come in qualunque altro sport. 

(...)

Estratto dell’articolo di Andrea Parrella per fanpage.it il 4 maggio 2023.

A Napoli lo scudetto non è norma. Il racconto di una città immersa in un'atmosfera di gioia e attesa perenne per il trionfo nazionale dopo 33 anni è un mosaico con un campionario di tessere che vanno oltre lo sport, abbracciano ricordi televisivi, musicali, di cinema e cultura.

È un continuo richiamo obbligatorio a immagini riferite ai due precedenti scudetti, in particolare il primo, quando la Rai mise in piedi una grande festa televisiva condotta da Gianni Minà – memorabile l'intervista a Massimo Troisi – in cui ebbe un ruolo fondamentale anche Renzo Arbore. Maradona, Giordano, Renica, Garella, Ferrara, alla Rai per la festa del 1987 c'erano tutti gli eroi di quel primo tricolore.

Il conduttore ricorda quei giorni entusiasmanti a Fanpage.it, in una conversazione registrata nella domenica di illusione, quella di Napoli-Salernitana che avrebbe potuto regalare lo scudetto matematico e che invece è finita in pareggio. 

Arbore, mettiamo da parte la scaramanzia e, nelle segrete stanze di questa telefonata, diamo per scontato che lo scudetto sia cosa fatta. Cosa ricorda del primo tricolore e di quella festa televisiva?

“Quello speciale è rimasto nel mio cuore. Cantammo una canzone di Mario Abate, Core Napulitano, di cui adattai il testo inserendo la parola "scudetto". Riuscimmo a mettere insieme tutti i cantanti napoletani che erano lì alla sede Rai di Fuorigrotta. C'erano tutti, fu il primo scudetto e qualcosa di epocale, inimmaginabile, in un momento in cui la città era sempre sfortunata, no di certo quella di oggi.”

Quella celebre festa televisiva come nacque?

“Nemmeno lo ricordo. Qualcuno evidentemente mi interpellò, quelli erano anni in cui ero molto popolare. Allo stadio San Paolo, al tempo, c'era un gruppo di tifosi che si chiamavano Quelli della notte, i quali mi "rapirono" alle 13 del giorno della partita che festeggiava lo scudetto a Napoli. Non l'ho mai raccontato. 

Vennero a chiamarmi nell'albergo dove alloggiavo con una scusa, io scesi in camicia, mi stavo cominciando a vestire per andare allo stadio e loro mi portarono a San Giovanni a Teduccio. Là c'era una banda che intonava Quelli della notte e c'era una sfilata di maschere con tutti i calciatori.”

E la partita?

“Mi accompagnarono in tempo allo stadio, facendo tutti i sensi vietati. La vidi con Luciano De Crescenzo e Marisa Laurito. Di certo non potevo perdermela. Quella festa in diretta Rai resta un reperto incredibile. Alla serata erano presenti tutti i calciatori e tantissimi artisti. Sì, tutti i più noti al tempo. Da Peppino Di Capri, Teresa De Sio, Mario Merola, Nino D'Angelo, James Senese e tanti altri. Si sa che gli artisti napoletani raramente si riuniscono, mentre in quell'occasione tutti vennero a cantare quella canzone.” […]

“Alla fine degli anni Ottanta c'era questa forma di rifiuto?”

Io ho vissuto con Luciano De Crescenzo quegli anni bui caratterizzati dalla camorra, la criminalità, ma anche il rifiuto della cartolina. Si combatteva con l'idea della bellezza retorica della città, ma io ritengo che anche quella sia una cosa da celebrare. Ormai gli stessi napoletani la qualificano come città più bella del mondo e io che ho girato il mondo lo confermo senza dubbio. 

Al netto di quelle sacche micidiali che restano, Napoli resta la città più bella del mondo e questo scudetto è il suggello di una stagione straordinaria che va oltre lo sport. È anche oleografica se vuoi, ma una certificazione. Sorrentino, Garrone, De Giovanni, Mare Fuori, i 60 anni della sede Rai, è un momento incredibile e bisogna ammetterlo.

Ha citato Mare Fuori, anche in televisione Napoli ha una rilevanza assoluta. Cosa guarda?

Sono molto contento per il successo di Salemme, ingiustamente messo in disparte dalla critica in passato, così come mi piace anche Bar Stella, che ha preso una bella via. […]

Estratto dell'articolo di Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport il 5 maggio 2023.

Oggi è bello essere napoletani (anche per chi, come me, non lo è). Perché è il giorno del riscatto: l’ambito non è il sociale, riferimento banale, usurato, la solita palla. Questo (riscatto) è totalmente sportivo. C’è qualcosa di anomalo e terreno nel terzo scudetto, forse il più atteso e importante della storia del club, anche perché ottenuto senza la genialità marziana di Diego Maradona: c’è la certezza che si tratti di un successo senza ombre, né sospetti, senza se e senza ma. 

Stavolta il merito è universalmente riconosciuto: negli ultimi mesi ho (avete) sentito commentatori o tifosi di altre squadre ripetere che, al solito, il campionato è stato falsato dai giudici e dagli arbitri, ma non per il primo posto, che è intoccabile, non per il Napoli che sul campo ha affermato ripetutamente la propria superiorità.  

 Il numero 3 non è lo scudetto di un grande Napoli, bensì di un Napoli spiazzante in tutti i sensi: è figlio di un tentativo (riuscito, riuscitissimo) di ridimensionamento dei costi, di un taglio anche emotivo col passato, ma anche della volontà di restare competitivi, sempre lassù. È il risultato di un lavoro molto ben fatto: è competenza, esperienza, oltre la necessità. E rischio.  

Oggi è bello essere napoletani perché la festa risveglia il ricordo di chi non c’è più e questo successo l’aveva a lungo sognato, accarezzato e all’ultimo perduto.  

Da cosa vi siete persi si è passati a cosa vi siete vinti! Dolci iperboli. Ed è una gioia poterlo festeggiare e celebrare da direttore del Corriere dello Sport, il quotidiano sportivo più diffuso e amato in Campania e dai napoletani nel mondo. Un autentico privilegio umano e professionale avere accompagnato ogni giorno, in ogni momento, i ragazzi di Spalletti, averci creduto fin dalle prime uscite, dai giorni del ritiro estivo. 

In queste pagine altre firme chiariscono il significato tecnico e industriale del trionfo, l’adattamento libero, l’ambizione scoperta. Molti l’hanno già fatto: la rapidità con cui Osimhen, Kvara, Kim, Lobotka e compagni si sono allontanati dal resto del gruppo ha alimentato spiegazioni d’ogni tipo.  

Io, per l’occasione, ho aperto una lunga parentesi sentimentale, di suggestioni, emozioni, napoletana nel senso più pieno del termine. A Napoli sono legato da oltre trent’anni e centinaia di programmi televisivi e radiofonici, e incontri, e sapori, e volti, e sensazioni indimenticabili. La mia Napoli di non napoletano è stata - sì - Maradona, Bagni, Giordano, Bruscolotti, Ottavio Bianchi, Ferrara, Ferrario, Careca, Garella e in seguito Cannavaro, Cavani, Insigne, Hamsik, Grava. Ma è soprattutto una serie di personaggi che mi sono entrati nel cuore. 

Napoli, poi, non ho mai preteso di capirla: mi è bastato assorbirne l’energia. 

(…) 

Estratto dell'articolo di Giuseppe Antonio Perrelli per “la Repubblica” il 5 maggio 2023.

Lo scudetto del Napoli è un film già visto. Girato nel 1987, l’anno del primo titolo. “Quel ragazzo della curva B”, 65 anni, ha la voce che si arrampica sulle note della felicità. 

Nino D’Angelo, chi è il simbolo dello scudetto?

«Giovanni Di Lorenzo. Grande capitano e persona perbene. Ha recitato in un cameo nella serie tv “Uonderbois” che ho girato per Disney + . L’ho conosciuto e mi ci sono riconosciuto. Come me, come Napoli, è partito da lontano, dalla Serie C, ma ce l’ha fatta, è arrivato». 

E Osimhen? E Kvaratskhelia?

«Certo, importantissimi. Ma questa squadra non ha un Maradona: Osimhen è diventato Osimhen qui, a Napoli. Di Kvara non sapevamo neanche pronunciare il cognome.

È il titolo di piccoli eroi diventati grandi. Voglio organizzare al più presto una cena con questi ragazzi, mi piace stare in mezzo a loro».

Anche lei è un ragazzo, “Quel ragazzo della curva B”.

«Io in quella curva andavo a tifare sulle spalle di mio nonno: oggi festeggio lo scudetto, ma c’ero anche in Serie B, anche in C. Perché il calcio è una malattia. Con mia moglie Annamaria non litigo mai ma quando guardo dieci ore di partite lei dice: “Capisco il Napoli, ma pure tutte le altre?”. Sì, perché è la passione, non ti invecchia mai». 

Questa vittoria non ha confini.

«L’unico napoletano che ha giocato qualche minuto è Gianluca Gaetano. Ma che importa se parli inglese o francese? L’importante è che sei uno di noi. I giocatori sono diventati scugnizzi, parola nobile, io vengo dalla scugnizzeria. Infatti chi lascia Napoli, come Mertens, lo fa sempre con dispiacere». 

La scorsa estate se ne sono andati anche Insigne, Koulibaly, Fabian Ruiz, Ospina.

«All’inizio ero un po’ scettico: era un nuovo inizio, immaginavo ci volesse tempo. E chi se li aspettava così, Kim e Kvaratskhelia, subito pronti, subito fortissimi?». 

(...) 

Questo scudetto fotografa una città diversa da fine Anni 80.

«È lo scudetto dei giovani, di chi è stato costretto a emigrare per trovare lavoro, di chi ha visto come funzionava altrove ed è tornato. I figli hanno preso Napoli per mano e l’hanno fatta crescere. Il centro storico è pieno di turisti, non è più un posto di camorra, è arte e divertimento.

Certo, ci sono i criminali, ci sono i problemi. Però la città accoglie, apre le porte agli altri. Come la squadra con i calciatori stranieri. È una vittoria di tutti. Perché il Napoli è Napoli».

Da ilnapolista.it il 5 maggio 2023.

Il Corriere della Sera intervista l’attrice napoletana Luisa Ranieri. Il tema è lo scudetto del Napoli. La Ranieri racconta che suo marito, Luca Zingaretti, pur non tifando per il Napoli, quando vede giocare la squadra di Spalletti resta estasiato. 

«Tifa Roma, però quando vede giocare gli azzurri si arricrea». 

La Ranieri parla di Napoli città («Sta uscendo dal buio, lo scudetto è la ciliegina n’copp’ alla torta»), di Osimhen («È il simbolo della città, del riscatto. È il nostro nuovo dio, in questo momento»), di Spalletti:«A me piace, è pelato come mio marito, mi fa simpatia anche per questa sua paura di tirar fuori la felicità…È vero che non vive in città ma dorme dove si allena la squadra, ma credo che si sia innamorato del Napoli. Però non lo dirà mai».

Su Insigne: «Se n’è andato all’estero col suo tiro a giro. Non è stato perseverante, doveva restare, è stato punito, poverello». 

La Ranieri parla anche di De Laurentiis, in particolare del suo rapporto con gli ultras, che non lo hanno mai amato troppo.

«Aurelio ha una grande personalità, non è disposto a compromessi, per i napoletani è tosto da digerire».

Da fanpage.it il 5 maggio 2023.

Lo scudetto del Napoli e le reazioni dei tifosi al terzo tricolore della storia degli azzurri. A celebrare la squadra è anche il tifosissimo Vincenzo Salemme, l'attore e regista reduce dal recente successo in televisione con "Napoletano? e famme ‘na pizza", spettacolo con cui riflette su stereotipi e luoghi comuni riguardanti i partenopei. Proprio su questa scorta prende forma il suo messaggio successivo alla vittoria, che più che un commento ha i tratti del componimento poetico dal titolo "Vi prego". 

Vi prego, adesso non dite che lo scudetto è un’occasione di riscatto,

non dite che come festeggiamo noi non sa festeggiare nessuno.

Vi prego, non raccontate la nostra gioia

come fosse una buffa commedia.

Vi prego, non statevene aldilà del vetro a guardarci,

divertiti dal nostro clamore.

Vi prego, non siate felici della nostra felicità

come si è felici quando il meno attrezzato prevale sul forte.

Vi prego non fatelo, non siate così ingenui!

Se volete un consiglio, vi prego, invidiateci.

Perché noi siamo quelli più forti.

Perché noi siamo quelli che hanno avuto tanto,

anzi troppo.

Vi prego, lamentatevi perché siamo i favoriti,

i viziati, i troppo ricchi.

Di sole,

di mare,

troppo cuore, sapore, calore.

Vi prego, non pensate che questo Napoli sia sazio,

non pensate, con un errato senso di superiorità,

che questa squadra allegra e possente

abbia finalmente regalato la gioia a una città dolente.

Vi prego, non fate questo errore perché noi

siamo una città felice.

Da sempre.

State attenti, vi prego, non abbiamo per niente finito.

Noi siamo i campioni d’Italia

e abbiamo appena iniziato!

Da forzaroma.info il 5 maggio 2023.

Tra ieri e stamattina sono arrivati i messaggi social di Inter, Juve, Lazio, Milan, Fiorentina e Atalanta. La Roma - vista la situazione tra le tifoserie - per ora non si è espressa pubblicamente

La festa del Napoli ha occupato le tv e i siti internet di tutta Italia e sarà ancora lunga considerato che mancano ancora 5 giornate. Tra la notte di ieri e stamattina il club azzurro ha fatto il pieno di complimenti da parte dei club di serie A: da quello ironico della Juventus a quelli istituzionali di Inter, Lazio, Milan, Atalanta o Fiorentina. 

All'appello manca solo quello della Roma che ha scelto il silenzio social. I motivi non sono difficili da ricercare: il pessimo rapporto tra le due tifoserie acuito negli ultimi mesi e la presenza di Spalletti che per molti tifosi rappresenta ancora oggi la causa principale dell'addio doloroso a Totti. Per evitare forse commenti esagerati la Roma ha preferito così non esporsi. Eppure il Napoli un anno fa aveva fatto un tweet di complimenti ai giallorossi per la vittoria della Conference. Non si sono congratulate neanche Bologna, Sassuolo, Spezia, Verona, Cremonese e Sampdoria.

Juventus, post ironico sullo scudetto Napoli: «Non potevamo esimerci visti i tanti complimenti». Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 6 maggio 2023.  

I bianconeri si congratulano su Twitter senza rinunciare alle polemiche. «Visti i tanti complimenti ricevuti in questi anni non potevamo esimerci» 

«Visti i tanti complimenti ricevuti in questi anni non potevamo esimerci...». Lo scrive ironicamente la Juventus su Twitter commentando lo scudetto conquistato dal Napoli e chiudendo la frase con una risata rappresentata da un'emoticon. E poi, il club bianconero aggiunge: «Congratulazioni al Napoli per la conquista del suo terzo scudetto!». Il tweet arriva dopo i battibecchi dei giorni scorsi: Massimiliano Allegri che si era arrabbiato alla fine della partita con il Napoli («Bellissimo, siete riusciti a vincere uno scudetto») e le parole dure di Aurelio De Laurentiis: «Ho vinto lo scudetto dell’onestà. Il ciclo vincente? Credo si sia aperto già tempo fa. Siamo stati vincenti per anni, avevamo potuto vincerne altri ed è come se li avessimo vinti ma l’irregolarità costante qualche volta ci ha frenati». Ora i complimenti ironici della Juventus.

L'Inter invece è stata fra le prime società di serie A a complimentarsi col Napoli per la vittoria dello Scudetto. Questo il tweet dei nerazzurri: «Il Presidente Steven Zhang e tutto il Club si congratulano con il Napoli e con Luciano Spalletti per la conquista dello Scudetto. Congratulazioni Napoli, Campioni d`Italia 2022/23». Anche la Fiorentina si è voluta complimentare col Napoli per la vittoria dello Scudetto ottenuta questa sera a Udine. Questo il tweet del club gigliato: «Complimenti al Napoli per la meritata vittoria dello Scudetto». stesso tono per ol Torino:

L'Empoli ha celebrato così il titolo di campione d'Italia ottenuto dal Napoli del suo ex allenatore Luciano Spalletti: «Voluto, meritato, conquistato, complimenti Luciano!»

«Congratulazioni al Napoli per la vittoria dello Scudetto: un grande traguardo e un titolo meritato». Il Milan, che ha eliminato il Napoli dalla Champions League, si è complimentato così con gli azzurri per la vittoria del titolo di campione d'Italia. Il tweet della Lega Calcio ha unito la festa scudetto al ricordo di Pino Daniele: «Napule è Triculure». 

Da tgcom24.mediaset.it il 5 maggio 2023.  

Napoli si è meritata la vittoria del Campionato. Lo afferma Silvio Berlusconi in una nota. "Una città in festa, una città che se lo meritava, complimenti, complimenti, complimenti", si legge. "Una città incredibile che trascina anche noi dentro la sua gioia. 

Quindi anche noi diciamo: Forza Napoli, bravo Napoli, avanti tutta, questo deve essere l'inizio di una grande storia di vittorie. I napoletani, davvero, se lo meritano e noi siamo tutti con loro. Evviva, evviva, evviva! E lo dico col cuore, anche io che mi sono sempre considerato un napoletano nato a Milano".

(ANSA il 5 maggio 2023) Ampio risalto in tutti i media in Argentina per lo scudetto vinto dal Napoli, "il primo dopo l'era Maradona". In questo senso l'online del quotidiano La Nacion ha sottolineato che "E' successo! Esattamente 33 anni e cinque giorni dopo che Diego Armando Maradona portò il Napoli all'ultimo titolo in Serie A, la squadra del Sud d'Italia ha finalmente conquistato il suo terzo scudetto".

La partita pareggiata dal Napoli con l'Udinese è stata trasmessa in diretta da Espn-Star+ che al termine ha mostrato l'invasione festante di campo dei tifosi napoletani alla squadra e all'allenatore. Pochi minuti dopo varie tv hanno riproposto le scene di giubilo sia nello stadio Armando Maradona, sia nelle vie del centro del capoluogo napoletano, invaso dai colori bianco-azzurri, gli stessi della bandiera argentina.

Non poteva mancare anche un titolone del quotidiano sportivo Olé, che pure ha ricordato i 33 anni di 'digiuno', osservando che "il Napoli è in festa! Dopo 33 anni di astinenza, di aver dovuto ricominciare dalla serie C per i tanti debiti ed essere ritornato nella massima serie del calcio italiano, il Napoli si è consacrato campione della serie A". Esultante infine anche il titolo del principale quotidiano argentino, Clarin: "Napoli campione! Pareggiando con l'Udinese ha raggiunto il suo primo scudetto senza Maradona". Sotto il primo titolo del giornale online un secondo: "Napoli, fra il ricordo di Maradona e la convinzione che Diego lo ha reso possibile".

I Momenti più belli.

Scudetto Napoli 2023, i momenti più belli della corsa degli azzurri in serie A. Ciro Troise su Il Corriere della Sera il 4 maggio 2023.

Dalla vittoria alla prima giornata contro il Verona al percorso netto in tutta la stagione: la squadra di Luciano ha imposto il suo gioco (e i suoi gol) durante il torneo, con tantissime vittorie e qualche battuta di arresto, come contro Inter e Milan arrivate entrambe dopo una sosta: la prima per i Mondiali, l’altra dopo le qualificazioni della Nazionale agli Europei. Ecco i momenti chiave della stagione del trionfo.

La stagione capolavoro

Stagione capolavoro per il Napoli destinata a restare nella storia della Serie A. Un predominio che parte da lontano: già alla fine del girone di andata, infatti, il Napoli si ritrova con 12 punti di vantaggio sul 2° posto: nessuna capolista ha mai avuto un divario maggiore sulla diretta inseguitrice dopo la prima parte di stagione nell’era dei tre punti a vittoria in Serie A (dal 1994/95). Record anche per Luciano Spalletti allenatore più «anziano» a sollevare il trofeo in Serie A.

Napoli-Monza: 4-0

21 agosto 2022 La prima al Maradona dopo l’estate delle polemiche, tra contestazioni al presidente e un numero abbastanza basso di abbonati. A Verona c’era stato il primo scossone con il 5-2 degli azzurri alla prima giornata di campionato, a Fuorigrotta la conferma contro il malcapitato Monza di Stroppa. Kvaratskhelia bagna l’esordio casalingo con una doppietta, impreziosita da un tiro a giro dalla distanza che fa innamorare i napoletani, creando quasi una connessione emotiva con l’ex Insigne. Il primo assaggio della magia appartiene proprio ad un caldo pomeriggio di agosto, finisce 4-0, Osimhen continua sulla scia del gol avviata a Verona e anche Kim realizza il suo primo gol in maglia azzurra.

Lazio-Napoli: 1-2

3 settembre 2022 Le stagioni sono fatte di momenti-chiave, Lazio-Napoli di inizio settembre rappresenta una svolta della stagione degli uomini di Spalletti. Il Napoli veniva da due pareggi contro Fiorentina e Lecce e Spalletti alla vigilia ricorda in conferenza stampa la differenza in termini di esperienza e peso economico tra i partenti e gli arrivi. Gli azzurri contro la Lazio vanno sotto dopo pochi minuti per un gol di Zaccagni, intorno alla mezz’ora con un palo pazzesco di Kvaratskhelia rialzano la testa e costruiscono una rimonta esaltante. Va a segno ancora la nuova “doppia K”: Kim e Kvaratskhelia. Da quella vittoria inizia un percorso straordinario con tredici vittorie tra campionato e Champions League, prima del Mondiale il Napoli si ferma soltanto ad Anfield con una sconfitta ininfluente contro il Liverpool.

Milan-Napoli: 1-2

18 settembre 2022 È una vittoria simbolica, il Napoli passa a San Siro in casa dei campioni d’Italia e spedisce un messaggio alle concorrenti quando arriva la prima sosta del campionato. Il successo di San Siro è significativo anche per il modo in cui arriva, con dei momenti di sofferenza, senza Osimhen e trovando delle risorse che ancora non si erano palesate. Meret nel primo tempo è decisivo su Giroud, Kvaratskhelia costringe prima Calabria al giallo e poi porta Dest a fare fallo da rigore. Il Napoli sbanda, subisce il pareggio di Giroud, ad un certo punto rischia anche con Zerbin dirimpettaio di Theo Hernandez ma inizia a coltivare il valore della panchina, quando trova il gol-vittoria di Simeone.

Roma-Napoli: 0-1

24 ottobre 2022 Tra le tappe del viaggio azzurro c’è la vittoria all’Olimpico contro la Roma di Mourinho che, orfana di Dybala, imposta una partita dedita soprattutto alla fase di non possesso cercando poi soprattutto le scorribande di Zaniolo. Il Napoli ha pazienza, fa fatica a sfondare il muro della Roma e poi trova la vittoria con un meraviglioso gol di Osimhen: palla al bacio di Politano, Victor vince il duello con Smalling e batte Rui Patricio con un gran tiro. Per Spalletti una vittoria da ex, la prima in carriera contro Mourinho. È la prima rete decisiva per Osimhen in un big-match, la serata dell’Olimpico trasforma il suo percorso in maglia azzurra. Nella strada verso lo scudetto Roma-Napoli 0-1 è un altro segnale di forza.

Napoli-Juventus: 5-1

13 gennaio 2023 È il giorno in cui probabilmente il Napoli si è reso conto della sua forza. Il Napoli nel turno precedente aveva battuto la Sampdoria ma dopo il Mondiale era ancora in rodaggio, pesava ancora la prima sconfitta stagionale contro l’Inter a San Siro rimediata il 4 gennaio. Al Maradona il Napoli rifila una goleada alla Juventus, finisce 5-1 come nella Supercoppa del 1990, l’ultimo trofeo italiano di Diego Armando Maradona. Kvaratskhelia e Osimhen danno spettacolo, il Napoli tiene botta nella parte finale del primo tempo quando Di Maria accorcia le distanze. Dilaga nella ripresa, vanno a segno anche Rrahmani ed Elmas.

Napoli-Atalanta: 2-0

11 marzo 2023 Il Napoli ha avuto la forza di reagire subito nei momenti di difficoltà, dopo ogni passo falso ha sempre vinto. Dopo il ko contro l’Inter del 4 gennaio scorso, il Napoli ha costruito in campionato un percorso di otto vittorie consecutive, spezzato dalla Lazio di Sarri che il 3 marzo scorso ha vinto 1-0 al Maradona con gol di Vecino. Contro l’Atalanta di Gasperini il Napoli torna al successo, in una gara caratterizzata da una straordinaria rete di Kvaratskhelia che elude la resistenza di otto avversari e scaraventa un bolide sotto la traversa della porta difesa da Musso. Il gol del raddoppio è di Rrahmani sugli sviluppi di un calcio d’angolo. Le palle inattive rappresentano un altro punto di forza: sono 22 i gol nati da calcio piazzato.

Napoli-Milan: 4-0

2 aprile 2023 Il punto più basso, in campo ma ancora di più fuori. Il Napoli dopo la sosta accusa il primo fisiologico calo della stagione, tra la stanchezza per gli impegni delle Nazionali, i voli transoceanici, l’infortunio di Osimhen con Raspadori appena rientrato. Il Milan, che balbettava prima della sosta, invece, si riscatta, ritrova Leao, passeggia al Maradona, vince 4-0. La serata per i napoletani è bruttissima, con le risse in curva B in uno stadio silenzioso, consegnato ai cori dei milanisti nel settore ospiti. Il Napoli si riscatta nella gara successiva vincendo a Lecce, sugli spalti probabilmente proprio dall’inferno di quella serata nascono le condizioni per la pacificazione tra De Laurentiis e il tifo organizzato che diventa realtà un paio di settimane dopo.

Juventus - Napoli: 0-1

23 aprile 2023 È la partita-scudetto, quella del sigillo in attesa della certezza aritmetica che darà inizio alla festa di Napoli. All’Allianz Stadium, un luogo iconico, di sofferenza per il Napoli nel periodo dei nove scudetti consecutivi bianconeri, il Napoli reagisce anche alla delusione dell’eliminazione dalla Champions League. Nel primo tempo ha poche occasioni da gol, cresce nella ripresa, alla Juve viene annullato un gol di Di Maria per un fallo di Milik su Lobotka, poi va a segno Vlahovic ma Chiesa aveva portato il pallone fuori dal campo. Segna Raspadori al ’93, un altro gol nel finale dopo quello allo Spezia. A Capodichino, quando il Napoli rientra da Torino, la prima invasione azzurra, l’assaggio della festa per il tricolore

Ecco i momenti indimenticabili della grande cavalcata del Napoli. Luca Bocci il 4 Maggio 2023 su Il Giornale.

La stagione forse irripetibile del Napoli di Spalletti è vissuta di momenti davvero memorabili, dalle vittorie perentorie alle poche sconfitte inaspettate. Ripercorriamo gli episodi chiave di questa cavalcata trionfale che sono valsi ai partenopei il terzo scudetto

Tabella dei contenuti

 Il Napoli gela San Siro

 Napoli, ecco Kvaradona

 All'Olimpico ci pensa Osimhen

 A Bergamo il Napoli allunga

 L'Inter fa lo sgambetto al Napoli

 Juve, questo è un SuperNapoli

 Con la Lazio un passo falso

 Troppo Napoli per l'Atalanta

 Il Diavolo fa la voce grossa

 Raspadori, è quasi scudetto

 Dia rovina la festa scudetto

La gran festa si è fatta attendere più del previsto, la delusione dei tifosi partenopei di non poter festeggiare i propri eroi in casa rimarrà per sempre ma ora è finalmente il momento di celebrare come si deve l'impresa messa dall'undici di Spalletti. Una rincorsa durata più di trent’anni è finalmente finita, portando in una città malata di calcio il tanto sognato terzo scudetto. Col senno di poi, il trionfo del Napoli sembrava quasi inevitabile ma il cammino non è stato privo di momenti complicati, ostacoli da superare e polemiche. Una stagione iniziata con la tifoseria in subbuglio, una serie di arrivi sconosciuti ai più, si è rivelata una delle più grandi della storia della società azzurra. Tra un carosello e l'altro, tempo di ripercorrere insieme i momenti davvero indimenticabili, nel bene e nel male, che hanno consegnato ai partenopei lo scudetto della stagione 2022/2023 di Serie A.

Il Napoli gela San Siro

(18/9/2022) Non ci vuole molto per capire che questo potrebbe essere davvero l’anno buono per il Napoli. I partenopei si presentano a San Siro pronti ad imporre la legge del più forte sui campioni d’Italia in carica. Il Milan non ci sta e per ampi tratti mette alle corde gli ospiti, costringendo Meret a diverse parate clamorose. Il secondo tempo, però, vede Kvaraskhelia sempre più pericoloso, costringendo Serginho Dest all’errore. Sul dischetto si presenta Politano, Maignan intuisce ma la palla gli finisce sotto il corpo. Il Milan, però, c’è e pareggia con una grande azione finalizzata dal solito Giroud. Il Napoli ci crede e rende pan per pariglia grazie al Cholito Simeone. Il forcing finale dei padroni di casa si stampa o sulla traversa o sui guantoni di Meret.

Napoli, ecco Kvaradona

(9/10/2022) Le stagioni buone, quelle che portano ai trionfi storici, si vedono quando anche le partite storte riescono a mettersi a tuo favore. Pochi si immaginavano che l’undici di Spalletti si sarebbe incartato proprio allo Zini, contro la neopromossa Cremonese ma almeno fino al 75’ il Napoli non va oltre al rigore convertito da Politano. Quando Dessers trova il pari, la sensazione che il primo passo falso sia dietro l’angolo è molto reale. I cambi di Spalletti, invece, funzionano alla grande, rimettendo le cose a posto. L’incornata sul secondo palo di Simeone porta avanti gli ospiti, che poi dilagano grazie al guizzante Kvaraskhelia, finalizzato dal liberissimo Lozano. C’è anche spazio per il gol di Mathias Olivera. Il Napoli vince, convince e si diverte.

All'Olimpico ci pensa Osimhen

(23/10/2022) La trasferta all’Olimpico contro una squadra in forma come la Roma dello Special One è forse la prova del nove per un Napoli che ha ritrovato il talismano in attacco, quel Victor Osimhen che in giornata buona è capace davvero di tutto. I giallorossi difendono bene, riuscendo ogni tanto a colpire in ripartenza ma gli ospiti non sono quelli spumeggianti che stanno facendo sognare gli amanti del bel calcio. Poco alla volta, però, gli spazi si aprono, favorendo i partenopei. A deciderla ci pensa proprio Osimhen, che si libera della guardia di Smalling e mette una botta secca che si infila dove Rui Patricio non può arrivare. Undicesima vittoria consecutiva, il Napoli sembra davvero inarrestabile.

A Bergamo il Napoli allunga

(5/11/2022) Il Napoli si presenta al Gewiss Stadium con un’idea meravigliosa in testa: battere un’Atalanta in gran forma ed allungare sulle inseguitrici. Le cose, però, si complicano non poco: l’undici di Gasperini mette alle corde gli ospiti, passando in vantaggio su un rigore concesso per un fallo di mano di Osimhen. Lookman la mette proprio al sette ma il Napoli c’è. Per trovare il pari bastano appena quattro minuti: cross sul secondo palo di Zielinski, Osimhen si fa largo e la schiaccia di testa. In campo non c’è Kvaraskhelia ma il Napoli si conferma più grande della somma delle parti. A concludere al meglio l’ennesima ripartenza micidiale ci pensa proprio il nigeriano, che si inventa assist-man e fornisce ad Elmas un pallone delizioso, convertito al meglio. L’Atalanta ci crede e più volte sfiora il pareggio. Meret e la traversa, però, dicono di no. La Dea Bendata sorride, il Napoli allunga sulle inseguitrici. È proprio l’anno giusto.

L'Inter fa lo sgambetto al Napoli

(4/1/2023) Il Napoli torna dopo la pausa natalizia deciso a chiudere al meglio un girone d’andata da record. La trasferta a San Siro contro l’Inter si rivela però ben più complicata del previsto. L’undici di Inzaghi non è quello scintillante di coppa ma costringe i partenopei a difendersi per lunghi tratti. Il Napoli sembra incartato, sbaglia molto ed offre parecchie occasioni ai padroni di casa. Lukaku sfiora la traversa ma al 55’ l’Inter trova un contropiede perfetto: Dimarco mette un cross sulla corsa di Edin Dzeko e l’ex romanista non può proprio sbagliare. La reazione del Napoli non è quella di sempre e ci pensa Onana nel finale a salvare i tre punti. Prima sconfitta in campionato per i ragazzi di Spalletti, apparsi un attimo appannati. Sarà il momento della svolta?

Juve, questo è un SuperNapoli

(13/1/2023) Le speranze di riaprire il campionato passano tutte sulle spalle della Juventus, che si presenta al Maradona pronta a capitalizzare sul passo falso della capolista in quel di San Siro. Davanti ad un pubblico entusiasta non ci vuole molto per capire che il Napoli non ne vuole sapere di mollare l’osso. Osimhen la apre al 13’ ma rischia di subire il pari quando Di Maria colpisce il sette pochi minuti dopo. Nel finale, però, il Napoli approfitta degli spazi concessi dagli ospiti: Osimhen per Kvaraskhelia, è 2-0. La Juventus ci mette un paio di minuti per accorciare le distanze proprio con Di Maria ma il secondo tempo è un assolo partenopeo. In un quarto d’ora Rrahmani, Osimhen ed Elmas mettono un’umiliante “manita” alla Vecchia Signora che ha il sapore di una sentenza.

Con la Lazio un passo falso

(3/3/2023) Con un vantaggio più che rassicurante sulle inseguitrici, il Napoli sembra pensare più al sogno Champions. Quando la Lazio si presenta al Maradona, l’idea è che, nonostante tutto, i partenopei ne abbiano di più e che, di riffa o di raffa, riusciranno comunque a portare a casa un risultato utile. Le cose, invece, non vanno affatto secondo le previsioni. Dopo un primo tempo dimenticabile, la sblocca Vecino con una botta dalla distanza a fil di palo sulla quale Meret non può nulla. Il Napoli si rovescia in avanti e ci vuole una serie di miracoli di Provedel per negare il pareggio ai padroni di casa. Milinkovic-Savic sfiora il 2-0 su punizione nel finale ma la beffa non serve. Impresa della Lazio che vale la seconda sconfitta stagionale per il Napoli.

Troppo Napoli per l'Atalanta

(11/3/2023) Dopo il passo falso, il Napoli ha subito l’occasione di rifarsi davanti al pubblico amico ospitando un’Atalanta che ha una grande voglia di continuare la rincorsa alla Champions. Non ci vuole molto per capire che il compito dell’undici di Gasperini è una mission impossible. Il Napoli gioca alla grande ma ci mette parecchio per portarsi avanti. Ci vuole una vera e propria magia di Kvaraskhelia per trovare il vantaggio: il georgiano fa fuori mezza difesa per poi gonfiare la rete. Al 76’ poi Rrahmani approfitta di una mezza papera di Musso per trovare il raddoppio. Il Napoli torna a giocare da Napoli e le speranze delle altre si affievoliscono sempre di più…

Il Diavolo fa la voce grossa

(2/4/2023) Il trittico di partite tra le due rivali storiche del calcio anni ‘80 si apre al Maradona ma pochi si aspettano che di fronte al gran pubblico del Maradona siano gli ospiti a fare la partita. Un Milan irriconoscibile mette sotto i padroni di casa, trovando il gol grazie ad uno scavetto delizioso di Rafael Leao. Invece della reazione del Napoli, i rossoneri infieriscono con un bel gol di Brahim Diaz. Con i padroni di casa che spingono forte, le ripartenze del Milan diventano micidiali. Dopo il gol sfiorato da Giroud, Leao fa tutto da solo, trovando la doppietta personale. È davvero una serata di grazia, tanto che Alexis Saelemakers trova un gol pazzesco, scartando mezza difesa e depositandola sotto il corpo di Meret. Finisce con un pesante 4-0 ma è un Napoli troppo brutto per essere vero.

Raspadori, è quasi scudetto

(23/4/2023) Dopo la dolorosa uscita in Champions nel derby contro il Milan, il Napoli ha la palla buona per chiudere i conti con il campionato. La trasferta all’Allianz Stadium è però resa più complicata dalla voglia della Juventus di riprendersi il secondo posto. Spettacolo non molto, tanta intensità e poche occasioni, non è certo un Napoli scintillante. Nel secondo tempo gli ospiti sembrano ritrovarsi, con un paio di occasioni chiare per Osimhen, sventate però da Szczesny. Nel finale succede di tutto: prima Di Maria trova il vantaggio, che viene annullato dal VAR per un fallo in attacco. In pieno recupero, poi, la doccia gelata: la difesa si dimentica Giacomo Raspadori, entrato da pochi minuti. L’azzurro non si fa ripetere due volte l’invito: botta al volo che vale l’1-0. Tre punti d’oro che spengono le ultime speranze delle rivali. Ormai manca solo l’ufficialità.

Dia rovina la festa scudetto

(30/4/2023) Il copione sembrava già scritto: la grande festa di popolo da celebrarsi nel sancta sanctorum del tifo partenopeo, lo stadio intitolato all'eroe più grande di sempre, i punti mancanti da strappare ai poco amati vicini di Salerno, magari dandogli pure una spintarella verso la serie B. Il risultato più atteso, quello della sfida di San Siro, era arrivato e nessuno al Maradona dubitava che l'apoteosi sarebbe arrivata al 90° minuto. I ragazzi di Spalletti partono forte e nel giro di qualche minuto mettono Osimhen di fronte ad Ochoa. Il portiere messicano, però, è in giornata di grazia. Il Napoli non ha la cattiveria di un tempo e Paulo Sousa ha messo bene in campo i suoi. Tutto sembra compiersi al 61', quando Olivera la mette dove Ochoa non può arrivare. Tutto sembra a posto ma quando Kvaraskhelia non inquadra la porta all'80' qualcuno inizia a toccare ferro. Gol sbagliato, gol preso. Nemmeno tre minuti dopo, ecco la doccia gelata: Dia fa tutto da solo, mette un bel tiro a giro e Meret non ci arriva. Kvaradona avrebbe la palla buona per lo scudetto ma Ochoa dice ancora di no. A far festa sono solo i tifosi della Salernitana.

Il Segreto di un successo.

Investimenti e intuizioni, ecco i segreti dietro lo scudetto del Napoli. Il successo del Napoli viene da lontano, è il figlio di un modello societario virtuoso. Costruito negli anni da Aurelio De Laurentiis e avente oggi il miglior interprete nel ds Cristiano Giuntoli. Andrea Muratore il 5 Maggio 2023 su Il Giornale. 

Lo scudetto del Napoli viene da lontano. Ed è anche il premio al lavoro di una società che, sotto la guida del presidente Aurelio De Laurentiis, ha riportato nell'Olimpo del calcio italiano una piazza affamata di risultati. Se i due scudetti del 1987 e del 1990 del Napoli che ruotava attorno a Diego Armando Maradona erano stati i titoli del riscatto nazionalpopolare e populista di una squadra trascinata dal Diez al livello delle corazzate del Nord, quello del Napoli di Luciano Spalletti è il punto di arrivo di una corsa durata diciannove anni.

Plusvalenze e risultati

Era il 6 ottobre 2004 quando il Napoli targato De Laurentiis esordiva in Serie C1 dopo il fallimento battendo 1-0 la Vis Pesaro all'ultimo respiro al San Paolo, con gol di Massimiliano Varricchio. Da allora in avanti, soprattutto dopo il ritorno in Serie A concretizzatosi nel 2007, De Laurentiis e la sua società hanno portato gli azzurri nell'élite con programmazione e investimenti. Ha speso molto, il club guidato dal produttore cinematografico romano: 800 milioni di euro solo nell'ultimo decennio nelle sessioni di mercato e un miliardo di euro circa per gli stipendi nello stesso periodo. Ma spesso gli investimenti sono stati ripagati ampiamente da plusvalenze e risultati sul campo.

Nei primi anni dopo il ritorno in Serie A il Napoli fu guidato da uomini-simbolo poi divenuti la chiave di volta per eccellenti plusvalenze. Iniziò Ezequiel Lavezzi, il fantasista argentino acquistato per 5 milioni di euro dal San Lorenzo nel 2007 e venduto al Paris Saint Germain per 30 milioni cinque anni dopo. Alla stessa squadra parigina si trasferì l'anno successivo il bomber uruguaiano Edinson Cavani. De Laurentiis aveva investito nel 2010 17 milioni di euro per strapparlo al Palermo, ma lo cedette per ben 66 milioni di euro al club degli emiri qatarioti dopo che il Matador aveva segnato 104 gol in 138 partite contribuendo alla vittoria della Coppa Italia 2011-2012.

A sostituire Cavani fu chiamato Gonzalo Higuain, acquistato dal Real Madrid per 40 milioni di euro, in quella che fu la più onerosa trattativa della storia del Napoli. Investimento lautamente ricompensato dalla vendita del Pipita argentino alla Juventus per 90 milioni di euro tre anni dopo

Questi erano i racconti di un Napoli capace di muoversi tra le big ma presto o tardi destinato a separarsi dai suoi migliori talenti. Per la stabilizzazione l'uomo del destino è stato, in quest'ottica, Cristiano Giuntoli. Dopo la sua chiamata alla carica di direttore sportivo, il manager ed ex calciatore classe 1972 artefice del miracolo Carpi, guidato come dirigente dalla D alla Serie A nel decennio precedente, ha impostato in tandem con De Laurentiis una strategia di programmazione societaria molto ambiziosa.

Il modello Napoli che ha portato allo scudetto

Il Napoli non ha alle spalle una struttura tale da poter gestire vivai ramificati come quelli che hanno in Europa società come l'Ajax e l'Atalanta. La struttura stessa del club e della sua tifoseria, che sovraespone gli enfant du pays sotto il profilo delle aspettative, ha fatto sì che pochi, a parte lo storico ex capitano Lorenzo Insigne, abbiano avuto modo di emergere dalla Primavera ai ranghi dei titolarissimi. La strategia di Giuntoli è stata invece pragmatica e a metà strada. Acquisti di giocatori da campionati minori e dalla classe medio-bassa delle massime leghe europee si sono saldati a investimenti mirati su dei big capaci però di garantire, in prospettiva, rendimenti sul campo notevoli e una crescita delle prestazioni capace di stabilizzare ad alti livelli il club.

I giocatori in questione, inoltre, sono stati chiamati anche sulla logica della fidelizzazione alla maglia, sfruttando la tendenza di De Laurentiis e Giuntoli a chiedere ai neo-firmatari del club l'impegno a garantire al club la gestione esclusiva dei propri diritti d'immagine. Una scelta spesso ritenuta controversa, ma che ha creato un'identificazione del Napoli come collettivo al di sopra dei singoli.

Al Napoli "rivoluzionario" dei tempi di Maradona si è gradualmente sostituito un Napoli "piccolo-borghese" costruito aggregando i figli calcistici delle periferie d'Europa. Alla società anti-elitaria e dedita alla guerriglia sportiva contro le grandi del Nord si è sostituita la macchina costruita da un presidente romano e da un manager fiorentino trapiantato sulla Via Emilia, portata al successo dal "toscanaccio" Spalletti, giunto al primo scudetto della carriera dopo essere partito dalla provincia come allenatore. Una macchina condotta al traguardo con pragmatismo che definiremmo senza problemi ambrosiano, con investimenti oculati e sfruttando l'attrattività cosmopolita di Napoli, di cui ha contribuito a valorizzare notevolmente l'immagine.

I colpi "provinciali" di Giuntoli e De Laurentiis

Il Napoli di Maradona era la splendida armata guidata da un condottiero, quello di De Laurentiis, Giuntoli e Spalletti una squadra di alpinisti che scala in cordata e non intende la conquista del primo Ottomila, lo Scudetto, come un punto d'arrivo, ma come una partenza. "Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi", amava dire chi di alpinismo se ne intendeva come Walter Bonatti. Ebbene, la grande montagna del Napoli, il terzo scudetto, è stata scalata aggiungendo valore agli investimenti fatti.

Qualche esempio? I padroni del centrocampo del Napoli, Andrè Zambo Anguissa e Stanislav Lobotka, sono stati prelevati dal Fuhlam inglese e dal Celta Vigo spagnolo rispettivamente per 16 e 20 milioni di euro. Ora ne valgono oltre il doppio. Piotr Zielinski, Mario Rui e il capitano Giovanni Di Lorenzo sono stati acquistati dall'Empoli, "principessa" delle provinciali, per complessivi 26 milioni di euro e sono diventati colonne del club campano. Il portiere Alex Meret è stato "pescato" dalla Spal e il roccioso centrale Kim Min-Jae è arrivato dal turco Fenerbaçe dopo la dolorosa cessione di Kalidou Koulibaly al Chelsea.

Koulibaly, Insigne e Dries Mertens, miglior marcatore della storia del Napoli che alla città partenopea ha dedicato pure il nome del figlio Ciro, sono l'esempio di una squadra che non ha paura di troncare storie consolidate e "romantiche" per un pubblico caloroso ma che sa guardare avanti. La freddezza con cui il pubblico napoletano contestò De Laurentiis e Giuntoli l'estate scorsa dopo il drastico rinnovamento è esemplificato dallo striscione riportato da Salvatore Esposito su Il Fatto Quotidiano. " “Kim, Merit, Marlboro, tre pacchetti dieci euro. Pezzente non parli più, paga i debiti e sparisci”, recitava lo striscione della curva del Diego Armando Maradona contro De Laurentiis, su cui si scagliarono le intemperanze del "Movimento A16", formazione di tifo organizzato che prende il nome dall'autostrada Napoli-Bari, città della cui squadra il produttore romano è proprietario e in cui si invitava gentilmente De Laurentiis a riparare.

Uno scudetto "nordico"

"Del resto questo è un tricolore all’opposto di quelli conquistati tre decenni fa nella golden age di Diego Armando Maradona. È un titolo che non solo ha sorpreso e spiazzato la città, ma che è frutto di una programmazione attenta ai bilanci, uno scudetto nordico o milanese se vogliamo continuare nelle provocazioni", fa notare Esposito. "All’epoca, poi, gli scudetti furono vissuti come un riscatto dell’intero Mezzogiorno vessato atavicamente dal Nord e Maradona venne trasfigurato in un sovrano capopopolo come Masaniello", mentre "in questo Napoli ci sono giocatori di 18 nazionalità e parlare in dialetto non è obbligatorio". Lo scudetto della programmazione, dunque. Testimoniato dalla capacità della società di acquistare puntandovi tenacemente gli uomini simbolo del tricolore: Khvicha Kvaratskhelia e Victor Osimhen.

Osimhen è il colpo più costoso della gestione Giuntoli e della storia del club campano: nel 2020 De Laurentiis ha scucito al Lille ben 75 milioni di euro per aggiudicarselo. Anche in questo caso, difficilmente parleremo di un colpo che però si tradurrà in una minusvalenza, visto il contributo decisivo dato dal capocannoniere nigeriano al tricolore. Il tutto, peraltro, in una sessione di calciomercato ove il Napoli registrò un surplus di 45 milioni di euro. L'estate scorsa, invece, "Kvara" è giunto per 11 milioni di euro dalla piccola Dinamo Batuni della nativa Georgia. Risultando il prospetto più interessante e talentuoso del campionato.

La scalata del Napoli è giunta dunque alla sua prima vetta. Da quella partita con la Vis Pesaro sono passati poco meno di diciannove, lunghi anni. Nel frattempo, il club ha conquistato quattro secondi e quattro terzi posti in Serie A, tre Coppe Italia e una Supercoppa Italiana. Lo scudetto odierno non viene per caso e non è un accidente della storia, ma il trionfo di un progetto. E proprio per questo potrebbe essere solo l'inizio.

Nel nome di Diego.

Estratto dell'articolo di Giancarlo Dotto per “la Gazzetta dello Sport” il 5 maggio 2023.

Nel nome di Diego. Facile dirlo, impossibile non dirlo. Se si tratta di Napoli e dei napoletani, Diego non ha bisogno di trascinarsi dietro un corpo per continuare a esistere. Bizantini, normanni, aragonesi, austriaci, francesi, Borboni, turisti e garibaldini: nessuno ha invaso Napoli quanto Maradona. Le strade, i muri e i presepi hanno la sua faccia, la gente canta il suo nome, un figlio porta il suo nome, lo stadio ha il suo nome. 

Insieme per sempre, nella cattiva e nella buona sorte. Che sia l’abisso della Serie C o l’estasi dello scudetto. Oh mamma mamma mamma! Sai perché gli batte il corazòn? Un giorno hanno visto Maradona e innamorati sono. E, d’altro canto, vedi Napoli e poi vivi. Dove Diego fu autorizzato a credersi Dio, che fosse il piede o la mano non importa.

Luciano Spalletti lo sa bene. Lo ha capito dal suo primo vesuviano giorno.

Parlando in qualunque lingua possibile, coreano incluso, a ragazzi che ne avevano solo un vago e folcloristico concetto: evocare Maradona è l’unica preghiera laica che conta, se la divinità è lui. 

Lo ha evocato tutte le volte che serviva un infuso extra di energia, una tazza mega di suggestione. Maradona è morto da un pezzo, ma Napoli resta ai suoi piedi. 

Caso di fedeltà struggente. Di questi giorni, tra i vicoli della città vecchia e i Quartieri Spagnoli, la sua faccia si mischia e si confonde nello stesso azzurro con quelle di Osimhen e di Kvara, insieme a loro, in squadra con loro, valchiria decisiva della trionfale cavalcata.

Indubitabilmente. Questo scudetto è anche suo. Diego è stato ovunque. Nelle strade, in campo, nello spogliatoio. Sul collo bello taurino di Spalletti, anche quando parlava esoterico alla stampa. 

(...)  Diego c’è sempre. Non c’è festa, bagordo, anniversario, non c’è funerale, che sia quello di Aurelio Fierro o di Massimo Troisi, in cui il nome o la faccia del dio del calcio non spuntino prima o poi a ricordarti come stanno le cose a Napoli tra cielo e terra. C’è sempre stato Maradona in questi ultimi quarant’anni. 

Calciatore, icona, reduce e fantasma. C’era sempre, anche quando non c’era, a tifare la squadra anche quando tirava la cinghia nella suburra della C, e allo stadio ci andavano comunque in sessantamila portandosi dietro lo striscione «Aurelio, te putimm’ chiammà papà?» e gorgheggiando però il loro mai anacronistico canto, «Oh mamma, mamma, mamma…», eccetera. Perché anche la C è più decente se un giorno hai visto Maradona. Meritandosi, all’epoca, lo stupore impaginato del Times che, per una volta, ha altro da raccontare che una città «soffocata dal traffico, invasa dai rifiuti e afflitta dalla criminalità».

Tutti figli di Maradona, se non dello stesso sangue dello stesso sogno, e molti gli somigliano, “El Pibe” a 9 anni in un campo sterrato, il frangettone, magro come un chiodo, che li recita a memoria i suoi sogni: giocare un Mondiale e un giorno vincerlo. La sera più nera C’è stato sempre Maradona. Il più grande calciatore mai apparso sul pianeta e a Napoli, che è un pianeta a parte. C’era anche quella sera del 2 agosto 2004, le cinque della sera, quando la notizia del fallimento si diffuse in città con la velocità del lampo e la brutalità dello sfregio. Uno stupro. Talmente doloroso che quasi non provoca dolore. Il Napoli che non c’era più. Sparito. Dal calcio che conta e dal calcio che canta. 

C’era un mese dopo, Diego, quel 10 settembre, un afoso venerdì, il primo giorno di ritiro a Paestum. Il ritiro più surreale della storia. C’era il ritiro, ma non c’era la squadra. C’era il “Napoli Soccer”, una barzelletta, messo su alla bell’è meglio, un allenatore, Giampiero Ventura, un bravo direttore sportivo, Pierpaolo Marino, un mitico massaggiatore, Salvatore Carmando, l’avatar di Maradona, un magazziniere, Tommaso Starace, e quattro calciatori quattro, il Pampa Sosa, Montervino, Montesanto e il giovane Esposito, con i quali non potevi nemmeno improvvisare un’amichevole di calcetto. Non c’era una sede, non c’era una sedia, non c’erano le maglie, c’era solo un pallone sgonfio. E, intorno, solo rovine greche e calcistiche. C’era sempre Diego anche quando quella truppa eroica e brancaleonesca, da quella terra di nessuno, sarebbe andata a sfidare cagnacci astiosi dentro campi sabbiosi tra Chieti, Benevento e Gela.

C’era più che mai Diego sulla schiena e nelle gambe del Pampa Sosa, quel giorno al San Paolo della festa della rinascita, la promozione in B. El Pampa che fa un gol alla Maradona con la maglia di Maradona, la numero 10. L’ultimo del Napoli a indossarla. Fu Diego a fare quel gol per lui. 

Una palombella per l’appunto edenica. Il film della vita Partiva da lì, vallo a sapere, da un campo di Paestum alle falde del Vesuvio, la romanzesca storia del Napoli che, quasi vent’anni dopo, stravincerà lo scudetto. C’era per fortuna, in quelle rovine, Aurelio De Laurentiis, il Santo Produttore. Sa poco o nulla di calcio, ma ha il grande merito di capire che Napoli sarà il kolossal della sua vita. Emozioni che prima o poi diventeranno pepite e, di sicuro, un film. A partire da un Napoli vivo soltanto sulle carte federali e nella testa di De Laurentiis.

Poco più che un’astrazione. Lo zero perfetto per ricominciare. Con Aurelio c’è oggi l’allenatore giusto, uno che, a 64 anni, ha scelto lo stadio di Maradona per consegnarsi alla grandezza che merita. Con loro e i settantamila in calore (è il caso di dirlo?) c’è anche Diego, in ogni anfratto dello stadio che porta il suo potente nome. Immaginatelo come volete, scugnizzo e raggiante o magnifico e fermo, ieratico come una vacca sacra, in smoking o in mutande e infradito, a testimoniare il suo ennesimo trionfo. E prima o poi, potete giurarci, rispunterà lo striscione all’entrata del cimitero di Napoli: «Che vi siete persi...».

29 aprile 1990: l'ultimo scudetto del Napoli di Maradona. Paolo Lazzari il 29 Aprile 2023 su Il Giornale.

Bastava un pareggio contro la Lazio al San Paolo, ma arrivò una vittoria: 33 anni fa esatti gli azzurri sollevarono il loro secondo titolo, nello stesso giorno possono alzare il terzo

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 Bigon al timone di una squadra magnifica

 29 aprile 1990: il giorno del secondo scudetto

 Maradona reporter a fine partita

Il Paese intero freme per i Mondiali in arrivo. Le sue notti magiche - pardon, i pomeriggi - però il Napoli le ha già attraversate. L'azzurro pervade la città da settimane, senza bisogno di attendere la nazionale. Perché Diego Armando Maradona e i suoi scudieri stanno per afferrare il secondo scudetto della storia. Il 29 aprile del 1990, vale a dire esattamente 33 anni fa, basterebbe un pareggio al San Paolo, contro la Lazio, per ricucirsi sul petto quel titolo già conquistato tre anni prima. Arriva invece un successo, grazie alla girata di testa del giovane Baroni, che spedisce in rete una punizione con il contagiri del Pibe de Oro. Il Milan, grande antagonista di quell'annata, resta staccato di due punti. La città finisce in catalessi emotiva. La gioia è debordante. A volte il destino compie curvature imponderabili: oggi è di nuovo il 29 aprile. Oggi il Napoli può sollevare il terzo scudetto della sua storia.

Bigon al timone di una squadra magnifica

Archiviato il glorioso capitolo Ottavio Bianchi, l'eredità viene raccolta da un tizio dall'aria sottile e i modi gentili: si chiama Alberto Bigon e sta per compiere una nuova impresa. Il gruppo, già solido, viene ulteriormente rinsaldato dal patron Ferlaino con gli arrivi di Massimo Mauro dalla Juve e dei promettenti Gianfranco Zola (dalla Torres) e Marco Baroni (dal Lecce). Vanno ad affiancarsi ai Crippa, ai Careca, ai Carnevale, ai Ferrara. Il Napoli scappa subito e resta imbattuto per i primi sedici turni di campionato. Alle sue spalle però c'è un'avversaria che non intende deporre le armi: il Milan di Sacchi e Berlusconi, quello che tracima di talentuosi olandesi. Dopo una fase ascendente gli azzurri rallentano fisiologicamente e patiscono il sorpasso del diavolo. Ne esce fuori una rimonta finale venata di dramma. Alla quart'ultima i rossoneri vengono bloccati a Bologna e anche il Napoli pareggia a Bergamo, ma il giorno dopo gli viene consegnata la vittoria a tavolino per via di una monetina da cento lire lanciata dagli spalti contro Alemao. Seguono polemiche incandescenti, specie a carico del massaggiatore azzurro Salvatore Carmando, accusato di aver eccessivamente enfatizzato l'accaduto. Si decide tutto nelle ultime due gare. Verona si rivela di nuovo fatale per il Milan (sconfitto per 2-1), mentre i partenopei espugnano Bologna (2-4). Adesso basta un punto soltanto al San Paolo, contro la Lazio.

29 aprile 1990: il giorno del secondo scudetto

Domenica assolata, 23mila paganti e quasi 40mila abbonati. Lo stadio è un catino che ribolle passione. La Lazio arriva a Napoli senza più alcuna pretesa: condizioni ideali per la festa azzurra, ma il tourbillon del campionato ha insegnato che ogni parvenza di sicumera viene pagata a caro prezzo. Troppo desiderata però, quella felicità, per consentire che qualcuno la diluisca e borseggi i sorrisi già pronti. I ragazzi di Bigon scendono in campo sospinti dalle note di 'O surdato 'nnammurato', sparata a tutta dagli amplificatori. E la mettono in ghiaccio presto, con il la girata di testa di Baroni su piazzato pennellato di Maradona. Il Milan intanto demolisce il Bari, ma non serve, perché al San Paolo il risultato non si sposta più. Napoli campione, di nuovo e per la seconda volta nella sua storia. Ora una città intera è legittimata a sguainare i sentimenti. Pianti a dirotto, abbracci compulsivi, feste chiassose. Il déjà-vu di tre anni fa. Non sanno, come potrebbero, che ne serviranno altri trentatré.

Maradona reporter a fine partita

Imperversa un post partita gaudente nella pancia del San Paolo. "Bisteccone" Galeazzi, fradicio di champagne spruzzato ovunque, è in collegamento per la Rai quando ha un'epifania. Microfono a Maradona: "Vai, fai tu le interviste". L'asso argentino non se lo lascia ripetere e dimostra di sapersi muovere con notevole disinvoltura anche fuori dal campo. Raccoglie le sensazioni a caldo di Bigon, Alemao, Crippa, Carnevale e pure del massaggiatore Carmando. Un siparietto epico, che conquista in fretta il cuore degli italiani incollati a La Domenica Sportiva. Il mister dice che vuole restare, Carnevale sembra al passo d'addio, Diego conferma che vuole giocare la coppa dei Campioni. Era più di tre decenni fa. Oggi sta per succedere di nuovo.

Aurelio De Laurentiis.

La parabola di un monarca assoluto di nome Aurelio De Laurentiis.  Il presidente del terzo scudetto del Napoli si era convinto di essere l'unico artefice del successo della squadra. Doveva cambiare il calcio, ma per ora ha dovuto cambiare allenatore. Fabrizio Bocca su L'Espresso il 17 Novembre 2023

Disse: “Ho vinto lo scudetto e ora cambio il calcio”, Il calcio è rimasto sempre quello e intanto lui, Aurelio De Laurentiis, ha dovuto cambiare due volte l’allenatore del suo Napoli: prima ci ha messo un disastroso Capitan Fracassa francese, Rudi Garcia, e ora, dopo aver cacciato il primo, un suo vecchio allenatore, uscito dal giro da parecchio, che dopo aver collezionato fallimenti a raffica si era messo dentro un business di ville di lusso da affittare in Toscana - cioè gli era passata proprio la fantasia per il pallone - per ripresentarsi però, dieci anni dopo la prima esperienza napoletana, a Castel Volturno col suo classico capello cotonato e una frase diventata subito storica: «Sono molto stanco». Essendo uno specializzato in scuse quando si perde - rimase famosa una sua frase ai tempi dell’Inter: «Purtroppo a un certo punto si è messo a piovere» - i tifosi del Napoli avevano soprannominato Walter Mazzarri, l’ultimo designato da Aurelio De Laurentiis, “O’ chiannazzaro”, cioè quello che ai funerali piange a pagamento e a comando. Adesso l’uomo cui De Laurentiis ha affidato il compito di risollevare il Napoli miseramente e incredibilmente smarrito dopo lo scudetto è già stato bollato dai social: “Walter O’ Stanco”. E così anche stavolta Aurelio ha stupito tutti.

La parabola di Aurelio De Laurentiis, il presidente del terzo scudetto napoletano o meglio del primo scudetto senza Maradona, passa da Castel Volturno, dove si trova il centro d’allenamento della squadra campione d’Italia. Il nome, Konami Center, è pretenzioso, in realtà qui è tutto in affitto e addirittura ormai il Napoli non dorme nell’albergo attiguo e nemmeno ci va in ritiro prima delle partite al Maradona. I giocatori sono liberi e se ne tornano a dormire a casa loro. In compenso Aurelio De Laurentiis, visto l’andazzo negativo della squadra, da qualche tempo ci ha installato il suo quartier generale. Ormai un uomo solo al comando, praticamente un monarca circondato da parenti stretti: il figlio Edoardo è vicepresidente, la figlia Valentina responsabile del marketing, il genero Antonio Sinicropi club manager. A loro ha affidato le leve del comando del club.  

Ma dove sta De Laurentiis? Sta ovunque: Roma, Napoli, Capri, Castel Volturno, Los Angeles, fino a poco tempo fa il suo principale luogo geografico di riferimento. Si era detto tempo addietro di un appartamento comprato da De Laurentiis a Posillipo vicino all’antica residenza di Maradona, ma Aurelio una casa sua a Napoli non ce l’ha, mentre ad esempio ha almeno una dozzina di bellissimi appartamenti a Roma. E così quando scende a Napoli prende solitamente alloggio in una suite dell’Hotel Britannique a Chiaia. Vista mozzafiato sul Golfo. 

È questo forse il grande equivoco di Aurelio De Laurentiis: è romano, non è napoletano. Di questo lo accusano, di non sentire il Vesuvio dentro. Di Torre Annunziata erano il padre Luigi e lo zio Dino, storica dynasty degli anni ruggenti del cinema italiano. Lui lavorativamente e forse anche mentalmente è rimasto più romano che napoletano. E ai tifosi questo non è mai andato troppo a genio. Il grande cruccio del presidente è quello di non essere amato dai suoi stessi sostenitori, che invece dovrebbero ampiamente omaggiarlo e ringraziarlo per quanto fatto. Che a prescindere da antipatia o simpatia è oggettivamente tanto. 

Eppure il Napoli, Aurelio, ce l’ha ormai da quasi 20 anni (6 novembre 2004). Disse Christian De Sica: «Aurelio il Napoli se l’è comprato con Natale sul Nilo, che due anni prima aveva incassato 45 milioni». Intuì l’affare, il Napoli era fallito, e se lo comprò per una trentina di milioni, meno del valore di uno solo dei tanti calciatori che avrebbe poi acquistato: da Cavani a Higuain, da Kvaratskhelia a Osimhen. Pur arrivando dal cinema ed essendo sempre stato bollato come uno “paracadutato” nel pallone, per usare la terminologia di Mourinho, non si può dire più che non sia un uomo di calcio. Anzi, può dare lezioni di calcio a molti e addirittura ormai il pallone, nell’intero suo mondo di affari, è nettamente preponderante e supera ampiamente il cinema. Sfiora quasi il 90% del bilancio della Filmauro. Un vero ribaltone. Tant’è che nel 2018 DeLa si comprò anche il Bari, nominando presidente il figlio Luigi. Lo scorso anno il Bari sfiorò la promozione ai play off e se fosse salito in Serie A avrebbe dovuto obbligatoriamente venderlo, non essendo ammesse le doppie proprietà nella stessa categoria. Ma quando prese il grande club pugliese i tifosi del Napoli esposero lo striscione: «È da sempre che bari…». 

A 74 anni e dopo aver riportato lo scudetto a Napoli 33 anni dopo Maradona De Laurentiis si è trasformato in un monarca assoluto, illudendosi di essere lui e lui solo l’artefice del successo. Più di Spalletti e il manager Giuntoli che sono scappati via, più dei gol di Osimhen, vero e proprio uomo d’oro, che è rimasto trattenuto a forza ma ormai praticamente separato in casa e in attesa di andarsene anche lui in Arabia o chissà dove per essere sommerso di tutti quei soldi che a Napoli non potrà avere mai. Del famigerato rinnovo di contratto non se ne parla e in estate Aurelio ebbe a dire agli arabi che lo ammaliavano: «Con 200 milioni non ci comprate manco un piede e magari tra un anno me ne offrirete 500». Con Spalletti si sa le cose sono finite a carte bollate e si dice che l’ex allenatore del Napoli, ora ct azzurro, abbia un diario dei suoi rapporti non sempre idilliaci col presidente. 

Aurelio è narciso, egocentrico, iperprotagonista, ha sicuramente fiuto per gli affari e il copyright di un metodo di fare calcio tutto suo. Comunica attraverso i social, soprattutto X (752.000 follower), allenatori e giocatori li annuncia così, gli basta scrivere “Bentornato Walter” e il tweet viene letto un milione di volte. Ma non disdegna nemmeno, facendolo gestire dai suoi social manager, addirittura il giovanile e attualissimo Tik Tok. Su cui per altro a settembre si è consumata la rottura con Osimhen: a causa di un video in cui il giocatore veniva accostato a una noce di cocco. Il manager del giocatore accusò la società di razzismo, minacciò vie legali e costrinse a cancellare tutto.  

A Bruno Vespa, il DeLa, a maggio disse: «Mi hanno offerto un miliardo per il Napoli e due miliardi e mezzo per tutta Filmauro, ma non glieli ho dati». Aurelio è esagerato, teatrale, spettacolare, certamente un grande attore, vero uomo di cinema. Da quando (luglio 2011) a Milano lasciò la sala dei sorteggi della Lega di Serie A urlando a favore di telecamere per divergenze di calendario «Teste di c…, siete delle merde!» e fuggendo via dopo aver chiesto un passaggio a un tizio che transitava in scooter. Saltò dietro e via. Roba che manco Verdone… Fino a poche settimane fa, quando in occasione dell’ufficializzazione del nuovo contratto tv, ha   tolto il microfono in conferenza stampa all’ad della Lega di A De Siervo, che basito gli lasciò il banco: «Questo accordo è una sconfitta del calcio italiano, Sky e Dazn non sono competenti!». Contrariamente agli altri voleva che si desse il via al Canale TV della Lega di A. Tra i suoi alleati nel calcio il general manager della Fiorentina Barone - e infatti in estate evitò di strappare l’allenatore Vincenzo Italiano ai viola - e un tempo il presidente della Lazio Claudio Lotito, che però ora chiama “Lotrito”. 

In compenso adesso politicamente sta pappa e ciccia con Vincenzo De Luca, che sponsorizza per un nuovo mandato alla Regione Campania. Da notare che in questi anni De Luca ha fatto mettere, per opere varie, una ventina di milioni sul San Paolo. Così il DeLa non deve mettercene dei suoi e tanto meno impegnarsi per andare a costruire un nuovo stadio chissà dove. Con De Magistris invece fu rottura totale e con l’attuale sindaco Gaetano Manfredi per ora fa 0-0. 

Aurelio è intrigante e ingombrante, eccessivo, entra piedi pari nel calcio come ha fatto anche nel cinema. Lo diceva Massimo Boldi, uno dei protagonisti dei suoi cinepanettoni: «Mette bocca su tutto, anche sulle inquadrature». E infatti prima di cacciare Garcia, all’intervallo della decisiva partita persa con l’Empoli al Maradona, era entrato nello spogliatoio arringando la squadra, umiliando l’allenatore e di fatto esonerandolo a metà partita. » il suo metodo, assolutamente originale, ai limiti della stregoneria. Disse Carlo Verdone: «Oh, a casa sua ho trovato i corni rossi pure al bagno». 

De Laurentiis indagato dalla procura di Roma per falso in bilancio nell’acquisto di Osimhen. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Settembre 2023 

Queste compravendite, insieme ad altre 62 trattative concluse, sono state oggetto di segnalazione da parte della Covisoc alla Procura federale: da qui ha avuto inizio l'inchiesta sulle plusvalenze fittizie, perché ai tre prodotti del vivaio del Napoli in effetti non è stato attribuito secondo gli inquirenti un reale valore di mercato

La Procura di Roma ha iscritto nel registro degli indagati Aurelio De Laurentiis presidente del Napoli,  per rispondere dell’ipotesi di reato di falso in bilancio. Il procedimento è legato alle presunte plusvalenze fittizie sull’acquisto di Victor Osimhen dal Lillenel 2020. L’iscrizione di De Laurentiis a Roma è avvenuta dopo la ricezione degli atti da parte dei pm della procura di Napoli. La Guardia di Finanza nel giugno del 2022, su mandato dei pm napoletani, aveva sequestrato le documentazioni relative all’acquisto del calciatore nigeriano con perquisizioni svolte a Castel Volturno, Roma ed in Francia. 

Osimhen acquistato dal Napoli nell’estate del 2020 venendo pagato per oltre 71 milioni di euro, 50 dei quali pagati “cash” ai francesi del Lille. Una trattativa che ha generato quasi 20 milioni di plusvalenze sulle quali la Guardia di Finanza ha indagato per oltre un anno. Sotto i riflettori degli investigatori c’è la valutazione, 21 milioni e 250 mila euro, che venne attribuita a quattro calciatori del Napoli ceduti al Lille come parziale contropartira tecnica: il portiere Orestis Karnezis e i giovani – che all’epoca giocavano con la Primavera – Claudio Manzi, Luigi Liguori e Ciro Palmieri. A differenza di Karnezis (ritiratosi lo scorso anno dal calcio giocato ) stranamente nessuno dei tre giovani calciatori ha mai giocato nel Lille. Da qui i legittimi sospetti sulla plusvalenza, esaminati anche dalla giustizia sportiva che stranamente ha escluso illeciti da parte del Napoli. Sarà forse perchè ci sono non pochi magistrati federali tifosi del Napoli? 

Ma ci sono anche alcune operazioni passate effettuate in uscita dal Napoli che sono risultate più che sospette, come quella del brasiliano Carlos Vinicius che è stato acquistato nel 2018 da De Laurentis da un club portoghese di seconda divisione per poi essere ceduto l’anno dopo, senza aver mai esordito e giocato in Serie A, al Benfica per una somma pari a 17 milioni di euro !

Sul caso legato all’acquisto della punta nigeriana, si era anche espresso il New York Times, scrivendo: “Lo scambio in esame ha permesso al club di ridurre alcuni dei costi – almeno sulla carta – associati all’acquisto di Osimhen, uno degli arrivi più costosi nella storia del club. Cedendo i quattro giocatori minori al Lille e inserendoli nell’affare Osimhen, il Napoli è stato in grado di mostrare i 20,1 milioni di euro come un guadagno di milioni sui suoi libri contabili, una pratica nota come plusvalenza, che nelle ultime stagioni è diventata comune nelle trattative di trasferimento”. Secca fu la risposta di De Laurentiis, contattato dalla stessa testata giornalistica: “Non sono preoccupato perchè sono un guerriero“. 

Queste compravendite, insieme ad altre 62 trattative concluse, sono state oggetto di segnalazione da parte della Covisoc alla Procura federale: da qui ha avuto inizio l’inchiesta sulle plusvalenze fittizie, perché ai tre prodotti del vivaio del Napoli in effetti non è stato attribuito secondo gli inquirenti un reale valore di mercato. Nessuno dei tre calciatori è andato in Francia, hanno firmato i contratti a Castel Volturno e sono stati subito dopo girati in prestito a squadre di Serie C e D, perdendosi poi anche in categorie inferiori. Un “modus operandi” che, oltre ad aver contrariato gli stessi atleti, ha finito per accendere i riflettori degli organi sia della giustizia sportiva che di quella ordinaria.

Emblematiche le dichiarazioni del calciatore Palmieri in un’intervista: “Questa situazione ha pesato tanto sulla mia carriera e mi fa rabbia. Abbiamo scoperto che non era un’operazione fatta per noi, per il nostro futuro. Era per altro”. Per quanto riguarda il procedimento federale, nell’aprile 2022 il Tribunale della Figc il Napoli, non è riscontrato un vero e proprio sistema, quanto l’occasionalità di questo tipo di operazione. Tuttavia, sul piano della giustizia ordinaria il discorso è proseguito alla Procura di Napoli che ora ha trasferito tutto a Roma, in quanto il bilancio del Napoli Calcio è consolidato nella Filmlauro, la società della famiglia De Laurentis che fa profitti prevalentemente con il calcio, invece di occuparsi della sua iniziale attività cinematografica. 

Qualora la procura federale dovesse ricevere atti con nuovi elementi, non conosciuti all’epoca, potrebbe nuovamente deferire, anche per la stessa operazione, utilizzando l’istituto della revocazione, già impiegato ad esempio, per riaprire il processo contro la Juventus. Quali potrebbero essere? Ad esempio, la deposizione di qualcuno dei ragazzi coinvolti o l’esito di alcune perquisizioni.

Quali i casi in cui il procuratore federale può chiedere la revocazione ? Entro i 30 giorni da quando viene a conoscenza di fatti nuovi sono i seguenti, come riporta il Codice di giustizia sportiva: a) se sono l’effetto del dolo di una delle parti in danno all’altra; b) se si è giudicato in base a prove riconosciute false dopo la decisione; c) se, a causa di forza maggiore o per fatto altrui, la parte non ha potuto presentare nel precedente procedimento documenti influenti ai fini del decidere; d) se è stato omesso l’esame di un fatto decisivo che non si è potuto conoscere nel precedente procedimento, oppure sono sopravvenuti, dopo che la decisione è divenuta inappellabile, fatti nuovi la cui conoscenza avrebbe comportato una diversa pronuncia; e) se nel precedente procedimento è stato commesso dall’organo giudicante un errore di fatto risultante dagli atti e documenti della causa.

Insomma, fino a quando la procura della Federcalcio non riceverà i nuovi atti, non sarà possibile sapere se ci sarà spazio per un nuovo processo sportivo. Quindi la partita non è (ancora) definitivamente chiusa. Redazione CdG

Da ilnapolista.it il 26 maggio 2023.

Il quotidiano Il Domani, quasi in perfetta solitudine, dedica una pagina al patto tra De Laurentiis e ultras del Napoli. Il titolo è: “Il patto De Laurentiis-“Micio”. Si indaga su Napoli e ultras”. Una pagina molto ben fatta, a cura di Giovanni Tizian e Nello Trocchia due cronisti molto bravi e noti per il loro impegno civile. Micio è il soprannome di Gennaro Grosso uno dei sei ultras del Napoli arrestati per le violenze ai danni dei tifosi dell’Ajax e che era nella ormai famosa foto con De Laurentiis al Britannique. 

L’articolo è denso di notizie. La prima è che sui rapporti tra calcio e ultras sta indagando la Procura Antimafia. La seconda è che la Procura sta indagando «sul patto tra il Napoli e gli impresentabili delle curve».

In questo scenario si innestano anche le verifiche condotte col massimo riserbo dalla procura nazionale antimafia guidata da Giovanni Melillo, che coordina un gruppo ad hoc su tifo e clan assieme ai magistrati Antonello Ardituro e Cristina Palaia. Un’istruttoria che ha lo scopo di illuminare le zone d’ombra dei rapporti tra gruppi organizzati, contaminati spesso dalle mafie, e società calcistiche. Una pista investigativa che dal sud arriva fino al nord del paese.

Ma tornando alla foto. Il Domani si chiede: come mai De Laurentiis, dopo essere stato protagonista per anni del fronte dell’intransigenza, ha ceduto alle pressioni? 

Della questione se ne occupa anche il quotidiano inglese The Guardian che, partendo dalle cronache nazionali, riferisce di una mediazione alla quale avrebbero preso parte, con la finalità di distendere gli animi, anche «politici di alto rango come il ministro dell’Interno italiano, Matteo Piantedosi». Hanno lavorato a una soluzione conciliativa non solo le alte sfere, ma soprattutto quelle locali, come il sindaco, Gaetano Manfredi, e la prefettura.

Il Domani racconta chi è Gennaro Grosso. 

La pace raggiunta, però, la siglano personaggi del calibro di Gennaro Grosso, immortalato in uno scatto al Britannique insieme agli altri capi ultras accanto a De Laurentiis. Grosso “Micio” è uno dei capi del gruppo “Masseria”, sigla della Curva A dello stadio Maradona, arrestato nell’ultima inchiesta della procura di Napoli. 

Il quotidiano racconta il suo ruolo nelle violenze ai danni dei tifosi dell’Ajax.

Secondo la Digos «a quel punto, Grosso, inizia a dettare la linea operativa che è, chiaramente, quella di colpire sin da subito i tifosi dell’ Ajax ovunque vengano localizzati». Per investigatori e procura non c’è dubbio che sia Grosso il condottiero delle spedizioni. «Il tenore delle chat non lascia adito a dubbi sulla partecipazione diretta all’azione violenta di Grosso, che in posizione apicale organizza l’azione e subito dopo intima la ritirata».

Prosegue Il Domani: La leadership di Grosso è certificata non solo dagli scontri, ma dalla presenza alla riunione per siglare la pace con De Laurentiis: «Grosso assume un ruolo di rappresentante del gruppo “Masseria” sia in occasione del viaggio in Bulgaria del settembre 2022 sia in occasione dell’ “incontro di pace” con il Presidente De Laurentiis (al Britannique, ndr)», scrivono i magistrati nelle loro carte. Fonti investigative confermano che sono in corso verifiche coperte dal più assoluto segreto su questa sorta di patto con gli impresentabili della curva.

Estratto dell’articolo di Mario Gerevini per corriere.it il 24 maggio 2023

«Il calcio pesa per il 92%» sul totale dei ricavi del gruppo Filmauro mentre «le attività cinematografiche pesano per il 3%». È scritto nel bilancio consolidato della Filmauro, la holding capofila di Aurelio De Laurentiis che ha prodotto alcuni dei più grandi successi cinematografici italiani degli ultimi decenni. I dati sono al 30 giugno 2021 ma oggi la situazione sostanzialmente non è cambiata. Quanto vale il gruppo e quanto il solo Napoli?

I 2,5 miliardi che non si vedono

«Mi hanno offerto un miliardo per il Napoli ma io l’ho rifiutato perché in realtà me ne hanno offerti due e mezzo per il mio gruppo e ho rifiutato anche quelli», ha detto il presidente del Napoli neo-scudettato in tv da Bruno Vespa. Non è chiaro quanto formalmente gli è stata prospettata l’operazione ma per riferirne pubblicamente non dev’essere stata una chiacchiera al bar. Sono tanti 2,5 miliardi. Ed è una cifra astronomica il miliardo e mezzo al netto del Napoli: tanto capitalizza in Borsa, per esempio, l’intera Mfe-Mediaset.

[…] E allora facciamoci un viaggio dentro il gruppo De Laurentiis: ci dev’essere per forza qualche gioiello nascosto, di quelli da molte centinaia di milioni, oltre al “gioiellone” Napoli. La proprietà della capogruppo Filmauro è familiare ed è indiretta tramite la Cordusio Fiduciaria tranne un 10% intestato direttamente a Jacqueline Baudit, moglie di Aurelio De Laurentiis, 73 anni, il quale ha tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione […] 

[…] L’immobile di gran valore a qualche decina di metri dal Quirinale di sicuro è un pezzo pregiato. Lì, in via Ventiquattro Maggio di fronte al Comando dei Carabinieri Gruppo Roma, è insediato anche il quartier generale Filmauro. La nuda proprietà è dei tre figli Luigi, Edoardo e Valentina, con usufrutto ai genitori. Appartengono alla famiglia anche l’abitazione e i terreni (50mila mq) vicino a Orvieto e altri 12 immobili a Roma. Sono beni personali e residenze di famiglia che, a spanne, potrebbero valere una decina di milioni ma non fanno strettamente parte del gruppo imprenditoriale.

[…] Dentro il gruppo Filmauro, invece, sono “parcheggiate” decine tra Ferrari, Porsche e Mercedes, nuove ed usate «di particolare pregio», […] con un valore complessivo di quasi 20 milioni alla data del bilancio e destinate alla rivendita. Attualmente, però, nel catalogo online vengono presentate solo 4 Porsche d’annata. È una delle attività secondarie della holding così come la gestione di pub e ristoranti o la produzione di gelati con il marchio Steccolecco. Tuttavia sempre di “noccioline” si tratta e non certo di asset che spiegano i 2,5 miliardi.

[…] Il pezzo grosso è il Napoli e il miliardo offerto è una cifra che rientra nelle maglie (molto larghe) dei prezzi del calcio perché è una società sana in una piazza dalle grandissime potenzialità. Anche se non è vero che il club è senza debiti e ha i bilanci in utile. Il debito al 30 giugno 2022 era di 258 milioni, negli ultimi tre anni di convivenza con il Covid il Napoli ha perso 130 milioni; ha chiuso due bilanci in utile negli ultimi 8 anni e al 30 giugno 2022 il patrimonio netto era calato a 68 milioni dai 140 del 2021. Solo che il debito è “sano” e sostenibile, il club è sempre stato in grado autonomamente di far fronte alle perdite grazie alle riserve accumulate, senza necessità di ricapitalizzazione (una costante, invece, in gran parte dei top club). E quest’anno tra cammino in Champions e campionato, sarà un bilancio trionfale, con il valore della rosa esploso.

[…] Sono anni che il calcio è di gran lunga il principale business di De Laurentiis mentre la produzione e distribuzione cinematografica, dopo il boom dei cinepanettoni, è sempre più marginale. Dieci anni fa il Napoli totalizzava il 71% dei proventi di gruppo, nel 2018 l’87%, nel 2021 il 92% su 245 milioni di fatturato consolidato, quest’anno potrebbe superare il 95%. […] Con il cinema De Laurentiis fattura 6-7 milioni, con le altre attività residue una decina di milioni. Non si capisce ancora come quest’area di attività extra Napoli possa essere stata valorizzata 1,5 miliardi. 

[…]  al 16030 di Ventura Boulevard a Los Angeles, mezz’ora di auto da Hollywood, ha sede una controllata non consolidata nel bilancio Filmauro, la «Fast Lane Productions inc» con amministratore delegato Luigi De Laurentiis, il primogenito di 44 anni. Ma anche qui di patrimonio ce n’è ben poco dal momento che l’azienda è stata chiusa a novembre 2021. Resta il Bari che in serie B è in piena corsa per la A. In caso di promozione dovrà essere venduto […]. Grande piazza anche quella ma non è un top club da centinaia di milioni. […]

Estratto dell’articolo di Maurizio Molinari per “la Repubblica” il 12 maggio 2023.

Dopo lo scudetto, le riforme. Aurelio De Laurentiis […] 73 anni, rivendica il merito di aver progettato il terzo scudetto dal nulla, scrivendone la sceneggiatura proprio come avviene per i film di successo […] Assicura di voler tenere la squadra compatta per il prossimo campionato “aggiungendo altre stelle” e rivela particolari inediti della genesi dell’accordo con l’allenatore Spalletti. Ma il suo orizzonte ora si allarga all’intero sistema del calcio italiano. […]  le idee che ha per rinnovarlo: un campionato nazionale da aprile a ottobre; la riforma della legge Melandri per aiutare i club a cogliere le opportunità del mercato; una competizione annuale europea fra le sei migliori squadre di ogni Paese. E gli stadi come “luoghi dove far venire le famiglie” […] 

Presidente, complimenti per lo scudetto.

«[…] È uno scudetto che premia i napoletani, lo aspettavano da 33 anni […]».

Lei è noto per essere una sorta di visionario nel calcio: aveva immaginato la moviola in campo e abbiamo il Var, aveva posto il problema delle rose ampie e abbiamo la panchina lunga, cosa vede adesso all’orizzonte?

« […] i nostri ragazzi […] giocano. L’industria dei videogame è supermiliardaria […]

Tutto ciò li distrae dal calcio. E allora bisognerebbe […] immaginare un paio di lezioni al mese da un’ora, dove lo Spalletti o l’Ancelotti della situazione comincia a raccontare agli studenti, dalle elementari alle superiori, che cos’è una partita, che cosa significa un modulo, quali sono i ruoli dei giocatori. […] Questo farebbe riavvicinare i giovanissimi al calcio: diventerebbero alla fine tutti dei superesperti […]».

Servono anche rimedi interni al mondo del calcio?

[…] «Innanzitutto noi abbiamo un grandissimo problema con gli stadi: […] sono obsoleti, la partita si vede male, c’è la pista d’atletica, come a Napoli o a Roma. E poi, vogliamo portarvi le famiglie? Vogliamo far sì che allo stadio si possa rimanere tutta la giornata a divertirsi, a mangiare? Io allo stadio celebrerei i matrimoni e le prime comunioni. Magari la Chiesa si potrebbe inquietare, ma basterebbe montare un altare benedetto, noi lo abbiamo fatto in ritiro a Dimaro: quante volte è venuto il cardinale Sepe a officiare la messa e nessuno si è mai scandalizzato? Il campo di calcio è sottostimato e sottoutilizzato, potrebbe produrre dei benefici sul fatturato».

Lo stadio come luogo comunitario...

«Assolutamente sì. E poi abbiamo lo stadio virtuale: dobbiamo riuscire a riconquistare i giovani. E contrastare la pirateria, che ci ha ucciso: in otto anni ci ha portato dai 4 milioni e 300 mila abbonati che avevamo a un milione e 900 mila. […]». 

E poi c’è il tema della durata dei campionati…

«Io avrei un’idea. Perché giocare d’inverno con la neve, la pioggia, la grandine? Non potremmo cominciare in tutta Europa il 1° aprile? Non è un pesce d’aprile, ma una necessità. In 7 mesi fino a ottobre si potrebbero disputare campionati nazionali e Coppe europee. Da novembre a marzo restano 5 mesi per far riposare i signori calciatori, andare in ritiro, giocare con le nazionali. Se ho calciatori africani, perché a gennaio me ne debbo privare per la Coppa d’Africa? Uefa e Fifa sono assenti per egocentrismo ed egoismo. Per loro esistono solo le votazioni per essere riconfermati, ma non si pongono questi problemi. 

Alla finale di Champions a Parigi un anno fa c’è gente che ha rischiato di morire, bambini che urlavano, mamme spaventate […] Fifa e Uefa operano in posizione dominante e nessuno dice loro nulla. Dovrebbero sedersi al tavolo con noi ed essere rispettose dei nostri campionati, che per i tifosi vengono prima delle Coppe europee e delle nazionali.

Ho calciatori che vanno e vengono dal Sudamerica o dall’Asia in 48 ore e poi devono giocare da noi il giorno dopo: follia».

Il campionato d’estate sarebbe una rivoluzione del costume.

«Anche, assolutamente sì. Ma già adesso i tornei partono ad agosto, alcuni anche a luglio. E il tempo atmosferico si sta spostando, valutiamo anche questo». 

Cosa pensa della legge Melandri?

«Melandri ha fatto dei guai inimmaginabili. […] non ha avuto contezza del sogno americano trasferendolo nel sogno italiano. Nel cinema ci ha massacrato. Il nostro penultimo ministro Franceschini ci ha dato la dignità dotandoci di un fondo estremamente importante per rilanciare l’audiovisivo italiano. Melandri lo aveva ucciso. Nel calcio ha fatto una legge che strozza: per questo grandi società come Inter, Juventus, Milan, Roma non ce la fanno con i bilanci. […] Perché dobbiamo venire dopo Inghilterra, Spagna e forse Germania? È ridicolo. Non solo: queste leggi restrittive hanno prestato il fianco a chi ci voleva derubare, abbiamo delle cause in corso contro chi ci amministrava malissimo. Per colpa di cosa? Della legge Melandri. C’è sempre chi ci inzuppa il biscotto: ti dice che una cosa non è permessa dalle norme e poi la va a fare lui stesso sottobanco».

L’altra sua idea è di una competizione europea con le migliori squadre di ogni campionato.

«L’ho messa un po’ da parte, sennò si arrabbiano tutti. Avevo detto che bisognerebbe portare sul tavolo 10 miliardi, non i 4-5 che l’Uefa si appresta a garantire dal prossimo ciclo. Ho proposto due campionati europei. Uno per 25 federazioni minori che non possono permettersi gli investimenti dei Paesi più importanti. E uno con le prime sei squadre dei cinque grandi campionati, che dunque cambierebbero ogni anno, con partite secche, escludendo i confronti fra squadre dello stesso Paese.

Tutto il mondo le guarderebbe: quanto porterebbero in termini di diritti? E quanto valorizzerebbero i nostri allenatori e i nostri calciatori? Quando leggo le convocazioni delle nazionali io sto male perché i ct chiamano sempre i più vecchi, avendo paura di sbagliare. Ma dico: le nazionali sono un teatro mondiale, fatemi vedere i giovani, tirate fuori i più bravi. […]». 

Veniamo al suo Napoli: nessuno pensava che avrebbe potuto vincere lo scudetto.

Cosa la rendeva così sicuro di farcela?

«Con Ancelotti e Gattuso erano accadute delle cose che non mi avevano convinto, quindi mi sono finalmente liberato di tutti quei giocatori che io trovavo un po’ demotivati […] Sentivo bisogno di aria nuova. E avevamo già individuato da tre anni Kvaratskhelia in Georgia, ma era il periodo Covid, avevamo perso 258 milioni, ci chiedevano molti soldi. Poi lui ha cambiato agente e Giuntoli è stato molto bravo a portarlo a casa per 11 milioni.

Osimhen ha avuto la possibilità di recuperare fisicamente: molte volte l’abbiamo avuto a mezzo servizio. Quanto a Spalletti, lo seguo da quando era in Russia, tante volte l’ho chiamato per portarlo a Napoli. Un bel giorno sono andato a trovarlo a Milano al bosco verticale, lui è venuto molto timorosamente nel garage per non farsi vedere, con un cappuccio in testa, e mi ha trascinato nel suo appartamento. Gli ho detto: “Non so se andrò avanti con Gattuso, tu tieniti pronto”. Rispose: “Presidente, a giugno vengo ma adesso non me la sento”. 

Insistetti: “No, se io dovessi avere dei problemi e decidessi di esonerare subito Gattuso, tu mi devi promettere che ti rendi disponibile”. Mi diede la mano, poi non c’è stato bisogno di cambiare in corsa, abbiamo aspettato la fine della stagione. È arrivato in un clima abbastanza eversivo, perché nel frattempo a febbraio avevo mandato a monte i miei accordi con lo sponsor tecnico per diventare io sponsor di me stesso.

Avevo chiamato Giorgio Armani, un amico, che mi ha messo a disposizione il marchio EA7, e ho chiesto a mia figlia Valentina, che aveva sempre avuto voglia di cimentarsi nella moda, di darmi una mano. C’erano problemi con i trasporti e le spedizioni per il Covid, eravamo in ritiro, Spalletti era preoccupato: “Presidente, ma non è che alla prima partita andremo in campo con le maglie vecchie?”.

E adesso invece questa parte nuova del Calcio Napoli sta avendo un successo senza precedenti, fatturiamo tre volte più di quando avevamo lo sponsor tecnico. Io nel calcio lavoro per i tifosi, come nel cinema per gli spettatori[…]». 

Quindi quello che le dava sicurezza erano i campioni del Napoli?

«[…] Il capitano Di Lorenzo è un uomo straordinario, educatissimo, su cui si può sempre contare. E Spalletti è un condottiero, un grande affabulatore: tutti dovrebbero studiarlo, c’è sempre da imparare da lui». 

E adesso è sicuro di poterli tenere tutti al Napoli l’anno prossimo?

«Non solo: vorrei aggiungerne altri. Mi piacerebbe avere un americano, perché in America anche se il campionato vale poco ci sono grandissimi giocatori che risplendono in nazionale. E poi un giapponese, avendo già un coreano, visto che c’è un grande sviluppo del nostro calcio in Oriente e ci sono nuove entrate da considerare. Ma non vorrei mandare via nessuno dei nostri». 

Ma quando lei ha preso il Napoli, nel 2004 in Serie C, che sogno aveva?

«[…] Nel 1999 […] mi presentai ai giornalisti con un assegno della Bnl di 120 miliardi di lire per comprare il Napoli, lo strappai in due e dissi che lo avrei riunito dopo aver fatto la due diligence. Ferlaino mi fece causa, adducendo che gli avevo distratto la campagna abbonamenti. Tornai negli States. 

Nel 2004 in vacanza a Capri appresi dai giornali che il Napoli era fallito. Preparai 37 milioni in assegni circolari, e ricordo una grande litigata con il presidente del Tribunale. Io volevo solo poter andare alla Federcalcio e farmi riconoscere l’emblema del Napoli. Mi dissero che come regalo potevo ricominciare dalla Serie C: ah, grazie. Ho girato campi del Sud dove mi sputavano sulla testa e dovevo barricarmi per quattro o cinque ore negli spogliatoi a fine partita. Però lo trovavo molto divertente: “Sono venuto da Hollywood a farmi massacrare”. È stata una scuola di vita per capire il calcio e la territorialità. Lo sa che io non ho mai perso una assemblea di Lega? Molte proprietà non vengono mai».

La racconta come una storia americana: si riparte da zero e si ricostruisce per vincere.

«È stato un insegnamento di mio padre che mi ha fatto fare un po’ tutte le varie esperienze. Nel cinema devi essere capace di creare, realizzare e commercializzare.

C’è una frase che mi contraddistingue: ci sono gli imprenditori che vogliono fare impresa e ci sono i prenditori che vogliono fare presa. Se io dovessi fare i film che piacciono a me non avrei mai successo. Devo interpretare i gusti del pubblico».

Nel calcio qual è l’operazione che le ha dato più soddisfazione?

«Nel Palermo vedevo questo giocatore con i capelli lunghi all’ala destra: era Cavani. Mi dicevano: non è roba per noi. Chiamai Zamparini, mi disse: “Lo vuoi? Dammi 19 milioni”. “Te ne do 18”. “Guarda che prendo l’aereo e vengo lì”. Dopo due ore era nel mio ufficio. Ricordo che stavo dando Quagliarella alla Juve, giocavamo all’estero, sugli spalti c’era il caos fra i tifosi contro di me. Cavani segnò due gol e Quagliarella era già dimenticato. Un grande campione, Quagliarella, lo ha dimostrato anche alla Sampdoria, mi è dispiaciuto poi scoprire che aveva un grosso problema poi risolto».

E’ vero che pensa di trasferirsi a Napoli?

«Da quando sono nato vado a Capri. Vedevo Napoli attraverso gli occhi dei miei parenti: mio padre, mio zio, le sorelle di mio padre, tutte torresi, mio nonno, che veniva dall’Irpinia. Avevo un’immagine magica della città. Quando l’ho vissuta più da vicino, l’ho trovata estremamente diversa dai miei sogni. Ma siccome sono un sognatore, mi sono detto: Aurelio, vai per la tua strada, non ascoltare nessuno. Le difficoltà mi stimolano, mi rendono più operativo: se una cosa è facile, non c’è nemmeno gusto. Adesso ho trovato un questore straordinario, un sindaco fantastico, un prefetto formidabile: andiamo d’amore e d’accordo e filiamo dritti come un treno».

[…] Lei ha dei rapporti buoni con il mondo della politica e dell’economia. Ritiene che sia stato un errore liberarsi in anticipo di Draghi?

«Io sono sempre stato un grande estimatore di Draghi, mi ha chiamato per complimentarsi per lo scudetto. […] bisognerebbe cambiare la nostra Costituzione fondando una repubblica di tipo presidenziale».

[…]  C’è qualcosa che non sappiamo di Aurelio De Laurentiis?

«Tutti pensano che io sia molto serioso. Ma io ho fatto divertire tutti gli italiani con le mie commedie. Sono […]  sono un grandissimo casinaro. A vent’anni ero irriducibilmente tosto, mio padre invece era un dolcissimo diplomatico. Una volta andarono a dirgli: “Hai fatto un figlio che…”. E lui li bloccava: “Calma, Aurelio nella misura in cui riesce a romperti i coglioni si realizza”. Io origliavo dietro la porta. Entrai, me lo abbracciai e lo baciai».

Da ilnapolista.it il 30 aprile 2023.

Sul Fatto alcuni stralci del libro “Per i soldi o per la gloria”, di Domenico Monetti e Luca Pallanch, studiosi del Centro Sperimentale di Cinematografia. Un libro-intervista che racconta storie e leggende sui produttori italiani dal Dopoguerra alle tv private. Una raccolta di aneddoti su Visconti, Rossellini, De Sica, Fellini, e tanti altri. Tra cui anche il presidente del Napoli e della Filmauro, Aurelio De Laurentiis. 

Nel libro è ricordato un mancato accordo con De Laurentiis e il presidente della Coca-Cola. Il patron del Napoli sosteneva che l’azienda non sapesse fare la Coca Cola, passò mezz’ora a spiegarglielo lui, convinto di avere la ricetta giusta.

““Aurelio ha detto a questo signore: ‘Voi non sapete fare la Coca- Cola’. È stato mezz’ora a insegnargli come si fa la Coca-Cola secondo lui!””. 

E ancora, il racconto che riguarda Galliano Juso, che ha fatto otto film con Tomas Milian. 

“il primo è Squadra antiscippo, “nato casualmente: stavo girando a Napoli ‘Il trafficone’ e mi hanno rubato i soldi che dovevo versare alla troupe, 1 milione e quattrocentomila lire!”; ha scoperto Bombolo, “lo conoscevo perché vendeva i piatti per strada: ‘Oh, famme lavorà, so’ for te!’ ”; si è “inventato il titolo W la foca … che Dio la benedoca!. La Titanus si è vergognata di distribuirlo e ha tolto anche il suo marchio””. 

C’è anche un aneddoto che riguarda Tinto Brass. 

“Roberto Sbarigia lavora a Salon Kitty di Tinto Brass, e sul set a Berlino incappa nell’incidente diplomatico: “Siamo partiti da un albergo con tutti gli attori vestiti da SS, il giorno dell’anniversario della caduta del nazismo! Una figura di merda! Abbiamo dovuto chiedere scusa tramite l’ambasciata!””.

Estratto dell’articolo di Emilio Marrese per “la Repubblica” il 26 aprile 2023.

Il carnevale della napoletanità lungamente pregustato e preparato rischia di coprire una nuova verità assordante ed eversiva. Un fatto storico sensazionale senza precedenti che Napoli dovrebbe essere orgogliosa di rivendicare ad alta voce, ben sopra il frastuono della retorica tra petardi, caccavelle e putipù: per la prima volta in quarant’anni di calcio moderno, infatti, vince lo scudetto una società attenta ai conti senza firmare cambiali da bancarotta ma addirittura guadagnandoci almeno una cinquantina di milioni.

E senza avere le spalle coperte da un colosso industriale, una multinazionale, un fondo internazionale, un magnate o un mecenate. Altro che folclore: questo è il primo scudetto in attivo, il primo scudetto “sostenibile” — frutto maturo di programmazione, organizzazione, serietà, lucidità e perseveranza, anche sul campo — in un sistema calcio ormai insostenibile, perennemente sull’orlo del crac. 

Ed è successo proprio a Napoli, nell’immaginario collettivo capitale dell’improvvisazione e dell’arte di arrangiarsi, alla faccia di tutti gli stereotipi e i pregiudizi sull’incapacità endemica di fare impresa da quelle parti. Dove cantano le cicale, si è imposta la strategia della formica. 

[...] ’O miracolo stavolta è quello del bilancio. Non ha nulla di mistico, scriteriato, geniale, eccezionale come negli anni Ottanta quando il Napoli dovette arruolare il giocatore al tempo più forte del mondo, e poi sul podio assoluto dei più grandinella storia del pallone, per dare l’assalto al cielo. […] 

Quello di Aurelio De Laurentiis è un programma partito dalla Serie C nel 2004 e durato vent’anni, là dove venti minuti sembrano già un’ipoteca azzardata sul futuro. Avesse speso di più, avrebbero festeggiato prima: questo il capo d’accusa. […]

È uno scudetto che sfugge felicemente alla dittatura di quel luogocomunismo che incatena i napoletani ai soliti cliché, da loro stessi — venditori ambulanti ma anche intellettuali opinion maker — alimentati per rifilare al turista (o al lettore) l’immagine che si aspetta. […]

Massimiliano Gallo per ilnapolista.it il 31 gennaio 2023.

In cinque mesi De Laurentiis è passato dalla Digos all’acclamazione

Appena cinque mesi fa, a Castel di Sangro, la Digos consigliò a De Laurentiis di non farsi vedere allo stadio. Apparve solo all’ultima amichevole dopo un’estate trascorsa dietro le quinte. A Dimaro furono fischi. In Abruzzo il clima non era migliore. Imperversavano gli A16 che non sono un gruppo rock.

 Erano quelli del “vattene a Bari”. Se ad agosto ci fossero state le elezioni comunali, la lista A16 avrebbe preso almeno il 10%. In città era tutto un “Ciro, Ciro!”. Il Napoli veniva dipinto dai media come un club in disarmo, in smantellamento. Solo perché aveva finalmente detto addio a calciatori anziani in evidente declino. Calciatori che ancora oggi godono di uno storytelling del tutto fuori fuoco.

 Di domenica sera, del dopo vittoria sulla Roma, circolano video di tifosi del Napoli che acclamano Aurelio De Laurentiis. Mentre lui peraltro dalla macchina fa cenno di sgomberare per consentirgli di passare. Sublime. Anni e anni di “pappone” andati in archivio. La rivoluzione copernicana della piazza ci fornisce l’ennesima conferma della transitorietà delle nostre esistenze.

 È importante, è vitale ricordare dove, come e in quali condizioni ambientali è nato questo Napoli che sta dominando la Serie A. Perché il calcio non può essere solo cibo per cosiddetti tifosi che attendono di vincere per fare festa. Festa che a loro sarebbe dovuta non si capisce per quale motivo. A noi interessa l’aspetto politico del calcio e la comprensione dei fenomeni. A far festa sono bravi tutti.

Parlare di vittoria, ovviamente, è prematuro. Ma di dominio no. Soprattutto in tempi in cui la narrazione largamente dominante di Napoli è intrisa di luoghi comuni, di quella retorica bolsa che purtroppo da circa due decenni affligge la nostra città. A noi premono le ragioni politiche, perché tali sono. E questo dominio è quanto di più distante dalla narrazione spiccia di Napoli e dei suoi aedi.

Nasce, come ricordato da Giuntoli (la frase in esergo del Napolista), in antitesi al popolino (che a Napoli comprende anche professionisti, uomini di cultura, non è questione di censo). Questo dominio nasce in antitesi al populismo, come sfida al populismo, con scelte impopolari, visione aziendale, coraggio imprenditoriale. E soprattutto tanta, tanta competenza (non dimentichiamo le contestazioni a Spalletti). Perché il calcio è un’industria e le decisioni industriali non si prendono al bar o sui social.

 È questa la Napoli da esportare. La Napoli e il Napoli di De Laurentiis. Altro che cittadinanze elargite per i nomi dati ai figli. O metro che passano, quando va bene, ogni tredici minuti (come il vantaggio degli azzurri in classifica). Questo Napoli domina in Italia perché è fondamentalmente un estraneo nel tessuto cittadino. Ed è il motivo per cui il presidente è sempre stato avversato. E non solo dal cosiddetto popolino. Anzi. Oggi Napoli è un faro nel calcio italiano. Un esempio di come si possa fare impresa di qualità, di eccellenza, rispettando le leggi e i vincoli di bilancio. Come peraltro, l’anno prima, era accaduto al Milan. Chi non segue la massa, vince. A ogni latitudine.

Forse proprio da Napoli potrebbe partire la spinta per cominciare a raccontare il calcio in maniera diversa. A farlo come si racconta una grande industria, non come se fosse un baraccone per nutrire masse di beoti. A Napoli come a Milano, come a Roma. Prima avverrà questa profonda trasformazione, prima ci libereremo di notizie come quella di Zaniolo minacciato, o di De Laurentiis cui viene consigliato di non mostrarsi troppo. E prima capiremo che la Juventus di Agnelli invece di essere un capitolo luminoso della storia del calcio italiano, era solo un’ennesima tappa verso il disastro oltre che un momento di mancato rispetto delle regole.

Il popolo è bue per definizione ma viene anche nutrito da un sistema informativo distorto. Al momento il calcio italiano ci sembra in un vicolo cieco. Con gli juventini che quasi vent’anni dopo hanno dato torto a Nanni Moretti: l’attacco (virtuale) al Palazzo di Giustizia che lui aveva immaginato mosso dalla piazza berlusconiana, invece ha le tinte bianconere. Anche quel popolo, in fondo, è figlio e vittima della propaganda. È il caso che il calcio cominci a essere raccontato come una grande industria. E che le istituzioni tutelino sempre il sistema e non solo quando gli equilibri politici precedenti sono saltati.

Il siparietto, la pizza e la Champions. Telefonata tra De Laurentiis e tifoso del Napoli, il presidente scherza ma ribadisce la sua verità: “La città vi obnubila il cervello”. Redazione su Il Riformista il 31 Gennaio 2023

Una telefonata dai toni scherzosi dove però Aurelio De Laurentiis non le manda a dire e, tra una battuta e l’altra, ribadisce una serie di concetti sull’atteggiamento dei tifosi napoletani e non solo, togliendosi qualche sassolino dalla scarpa dopo le critiche degli anni passati e, soprattutto, della scorsa estate, quando le scelte societarie sono state criticate da buona parte dei tifosi e dei media. Adesso che va tutto bene, con il Napoli primo in classifica (+13 sulla seconda) e agli Ottavi di Champions, ADL non perdona, sintetizzando con una frase un lato caratteriale “debole” dei tifosi azzurri: “A voi Napoli vi obnubila (annebbiare, offuscare) il cervello, vi rincoglionisce”. Un audio diventato virale sui social quello diffuso dal supporter azzurro che ha telefonato al presidente del Napoli (che ha risposto pur non conoscendo il numero) e ha registrato la conversazione.

Novanta secondi di botta e risposta tra il tifoso azzurro che si congratula con De Luarentiis (“quest’anno lo vinciamo lo scudetto?”) e con il patron azzurro che si lascia andare a una serie di battute che, come ribadito da lui stesso sui social, sarebbero frutto di “ironia e provocazioni“. De Laurentiis infatti non è nuovo a situazioni del genere: dal Calcio Napoli fanno sapere infatti che più volte riceve chiamate da numeri sconosciuti, che spesso si rivelano essere tifosi azzurri, e quando ha tempo risponde e scherza.

Mai però avrebbe immaginato di essere registrato. Così dopo la pubblicazione dell’audio, lo stesso presidente del Napoli, via Twitter, ci tiene a precisare: “La telefonata che avete ascoltato – scrive sul suo profilo personale – tra me e un tifoso, che sta girando sui social e sul web, ovviamente è ricca di ironia e di provocazioni. Ci siamo divertiti un po’, ho detto tutte cose false tranne una: quella sulla Champions, alla quale teniamo molto”.

Ma cosa ha detto De Laurentiis nella telefonata con il tifoso?

Alla domanda “presidente quest’anno vinciamo lo scudetto”, DeLa replica con un pizzico (si fa per dire) di scaramanzia: “No, non lo vinciamo perché adesso metto un premio a tutti i giocatori di 100 milioni cadauno per non vincere lo scudetto perché i napoletani m’hanno rotto er cazzo“. Poi aggiunge: “Sì, perché siete di una tale stronzaggine che io, delle volte dico: ma è possibile che noi diciamo che i napoletani sono i più paraculi del mondo? Sono paraculi tutti i napoletani che hanno abbandonato Napoli. A voi Napoli vi obnubila (annebbiare, offuscare) il cervello, vi rincoglionisce”. Infine il solito stereotipo, già ribadito più di una volta in passato, anche su una delle specialità culinarie partenopee: “Sì perché voi la mattina vi alzate, guardate il sole, guardate il mare, ve magnate una pizza di merda, perché la pizza a Napoli è ‘na merda e ahhhhhhh tirate un bel respiro”.

Il tifoso prova a smorzare, “preside’, siete la vita mia, lo so che state giocando con i nostri sentimenti. Quest’anno vogliamo il tricolore”. E qui De Laurentiis replica con l’unica non-battuta della telefonata (almeno stando al suo tweet): “Vedrai, altro che tricolore, quest’anno se non vinciamo la Champions ve manno a fanculo tutti quanti”.

Walter Mazzarri.

14 anni dopo...Mazzarri ‘bis’ a Napoli, com’è cambiata l’Italia dal 2009 ad oggi. L'allenatore toscano arrivò la prima volta nel capoluogo partenopeo nel 2009. È tornato sulla panchina azzurra dopo più di un decennio. Nel frattempo, in Italia, in Campania e a Napoli, ne sono cambiate di cose. Non solo sui campi di calcio. O forse no? Andrea Aversa su L'Unità il 14 Novembre 2023

La prima cosa che viene in mente è lo stadio. Nel 2009 si chiamava San Paolo e non era stato ancora in parte ammodernato grazie ai fondi delle Universiadi. Proprio nell’ottobre di quell’anno Walter Mazzarri fu ingaggiato dal Presidente Aurelio De Laurentiis per allenare il Napoli. Sono passati 14 anni e il tecnico toscano siederà di nuovo sulla panchina azzurra. Mazzarri aveva lasciato il club nel 2013, quattro anni dopo il suo arrivo. Sono passati dieci anni. Nel frattempo, da allora fino al Mazzarri-bis, sono cambiate tantissime cose. Fuori e dentro il campo da gioco. Napoli e la Campania non sono più le stesse. L’Italia è governata da politici vecchi e nuovi.

Il ‘primo’ Mazzarri: l’Italia dal 2009 al 2013

Quando Mazzarri nel 2009 divenne allenatore del Napoli in Italia c’era al Quirinale Giorgio Napolitano. In carica c’era quello che sarà l’ultimo governo – Berlusconi. L’ex premier è scomparso lo scorso 12 giugno. L’esecutivo aveva ottenuto la fiducia dopo che il centrodestra, guidato dall’allora Popolo delle Libertà, aveva vinto le elezioni l’anno precedente, nel 2008. Non esisteva Fratelli d’Italia e la Lega aveva ancora la denominazione geografica ‘Nord’. Nel Consiglio dei Ministri vi era una giovanissima Giorgia Meloni, oggi Presidente del Consiglio. C’erano Umberto Bossi (oggi solo parlamentare ), Raffaele Fitto e Roberto Calderoli. C’erano Anna Maria Bernini e Renato Brunetta (oggi al Cnel). Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini erano ministri, oggi sono all’opposizione tra le fila di Azione. Ignazio La Russa, oggi Presidente del Senato, era ministro della Difesa. Luca Zaia, da ministro dell’Agricoltura, è diventato tra i presidenti di regione più apprezzati alla guida del Veneto.

Nella squadra di governo spuntavano i nomi di Daniela Santanché (sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio), Alfredo Mantovano (sottosegretario agli Interni), Guido Crosetto (sottosegretario alla Difesa), Maria Elisabetta Casellati (sottosegretario alla Giustizia), Nello Musumeci (sottosegretario al lavoro e alle Politiche Sociali), Elena Roccella (sottosegretario alla Salute). Oggi sono tutti ministri. Nel 2011, si sarebbe definitivamente conclusa l’esperienza berlusconiana. La ‘famosa’ lettera inviata dall’Unione Europea a Roma divenne il ‘casus belli’ che determinò la caduta della maggioranza. A Berlusconi subentrò Mario Monti che diede inizio alla stagione dei ‘tecnici’ e dei governi a larga maggioranza. Dopo due anni, nel 2013, si tornò al voto con lo ‘tsunami’ del neonato Movimento 5 Stelle.

Il ‘primo’ Mazzarri: Napoli e la Campania dal 2009 al 2013

E veniamo al ‘locale’. Nel 2009 sedeva a Palazzo San Giacomo Rosa Russo Iervolino. È stata sindaco di Napoli fino al 2011, quando l’antipolitica e i fallimenti della sinistra hanno poi consentito a Luigi De Magistris, ex magistrato (in Italia i tempi per i pm in politica sono sempre stati maturi), di vincere le elezioni e di diventare primo cittadino. Lo è stato per due mandati. Una curiosità: l’attuale Presidente del Tennis Club della città, Riccardo Villari, all’epoca era sottosegretario ai Beni Culturali del governo-Berlusconi. Alla presidenza della Regione Campania c’era Antonio Bassolino, ex sindaco del capoluogo partenopeo e oggi Consigliere comunale. Nel 2010, alla fine del suo secondo mandato, fu sostituito da Stefano Caldoro che alla guida del centrodestra vinse le elezioni successive. Caldoro sconfisse Vincenzo De Luca che cinque anni dopo si è preso la sua rivincita, riuscendo poi a conquistare anche un secondo mandato alle elezioni del 2020.

Mazzarri ‘bis’: 2023

Il prossimo 25 novembre Mazzarri esordirà di nuovo come allenatore del Napoli. Ad attenderlo la difficile trasferta di Bergamo contro l’Atalanta. Poi le emozioni della Champions League addirittura contro il Real Madrid e infine il ‘ritorno a casa’: domenica 3 dicembre contro l’Inter in quello che oggi si chiama Stadio Diego Armando Maradona. Il campione argentino non c’è più e l’allenatore troverà una squadra in crisi ma campione d’Italia in carica. Al governo, dopo 10 anni di larghe maggioranze, c’è un esecutivo di destra (poco di ‘centro’), netta espressione del voto popolare. Sergio Mattarella è il Presidente della Repubblica. È al suo secondo mandato, proprio come Napolitano (nel suo caso è stata la prima volta nella storia del Paese), deceduto lo scorso 22 settembre. A Napoli, tramontata l’era De Magistris, è diventato sindaco Gaetano Manfredi. Alla Regione, appunto, governa De Luca: quest’ultimo, ‘incontentabile’ punta a un terzo mandato.

Forse, non è che le cose siano cambiate così tanto. In fondo, scriveva Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel Il Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi“. E guarda caso, la società e la squadra che hanno conquistato uno scudetto e per poco i quarti di Champions (che sarebbe stato un risultato storico), hanno fatto un salto indietro nel tempo. Servirà a risolvere i problemi? La risposta è nel prossimo futuro. Quindi, dopo 14 anni, bentornato e buon lavoro mister Mazzarri.

Andrea Aversa 14 Novembre 2023

Estratti da rivistaundici.com mercoledì 15 novembre 2023.

Walter Mazzarri è di San Vincenzo, un paese a circa un’ora di macchina da Livorno. Può sembrare un’informazione trascurabile o irrilevante, ma non è così: Mazzarri è uno che ci tiene ai dettagli. Nel 2011 lui, Mazzarri, che è di San Vincenzo, allenava il Napoli, mentre Massimiliano Allegri, che è di Livorno, ma Livorno-Livorno, proprio Livorno centro, il Milan. Nella conferenza stampa tenutasi il giorno prima della partita tra azzurri e rossoneri, il livornese disse che i giornalisti sbagliavano a definire suo concittadino quello di San Vincenzo: «Ma Walter è nato a qualche chilometro dalla città», diceva Allegri col tono di chi sa che la east coast is for boys, la Costa degli Etruschi is for men.

Mazzarri, che è di San Vincenzo e non di Livorno, e che ai dettagli ci tiene, il giorno dopo fu costretto a porre fine all’equivoco: «Lo dico ufficialmente: Mazzarri è nato a San Vincenzo, in provincia di Livorno. E non voglio essere di Livorno». Proseguì dicendo che Allegri, quando era all’Aglianese, voleva chiedere qualcosa a lui, Mazzarri, che all’epoca – oltre a essere sempre di San Vincenzo e non di Livorno – era già il vice di Renzo Ulivieri quando quest’ultimo allenava il Napoli. E quella fu la prima e ultima conversazione tra i due, che sono uno di Livorno e l’altro di San Vincenzo. 

(…)

In una meravigliosa intervista rilasciata al Corriere della Sera, Mazzarri ha raccontato i suoi giorni da formica mentre altri – magari nati e cresciuti a Livorno, chissà – cicaleggiavano a mezzo stampa e a favore di telecamera. In questi diciotto mesi si è fatto manager, Mazzarri, come lui stesso si definisce. Ville di lusso, target alti, clienti vip, tutti entusiasti: un trionfo, l’orgoglio dei suoi animali spirituali Aurelio De Laurentiis e Urbano Cairo. «Mi sono misurato con l’economia», dice col piglio di quello che l’ha pure sconfitta, l’economia. D’altronde, quando Ulivieri lo presentò a Ferlaino lo descrisse come un economista e poi come un bravo tecnico. La risposta di Ferlaino non è giunta fino a noi posteri ma la possiamo immaginare.

Mazzarri è uno attento ai dettagli e spesso viene frainteso dalla gente che ai dettagli non presta la dovuta attenzione. Questa gente dice che lui frigna, che lui rosica, che lui polemizza. Dopo una sconfitta casalinga (0-3) contro il Viktoria Plzen nei sedicesimi di finale di Europa League, Mazzarri spiegò la prestazione assai al di sotto delle aspettative del suo Napoli parlando di un «clima soporifero» al quale aveva contribuito in maniera rilevante «il compleanno di Cavani». Che è una cosa che se la dice Guardiola tutti i club poi metton su un dipartimento dedicato a tenere traccia di compleanni, anniversari e ricorrenze, con dentro statistici laureati magna cum laude nelle università della Ivy League e computer capaci di minare bitcoin a tutto spiano. E invece a Mazzarri tocca il sarcasmo, è costretto a vedere la sua attenzione per i dettagli pervertita in materiale comico da profili parodia come Alter Mazzarri e pagine umoristiche quali Le partite viste da Walter Mazzarri. La stessa gente che ai tempi del Watford lo prendeva in giro perché non sapeva l’inglese, facendo finta di non ricordare che Pochettino ci aveva messo due anni a imparare la stessa lingua.

Ci sono i dettagli, ai quali uno può prestare attenzione, e gli imprevisti, e a questi ci si può solo rassegnare. Se nel mezzo di una partita già difficile di per sé si mette pure a piovere, è giusto ricordare che il calcio è uno sport outdoor e perciò influenzato dai fenomeni atmosferici. I team manager, cioè i colleghi, dei motorsport lo fanno sempre. A loro il rispetto, a Mazzarri invece l’ironia: in casa contro il Verona l’Inter già non stava giocando bene, «poi è cominciato anche a piovere» e a nessuno piace prendere l’acqua. Uomo della pioggia, lo chiamarono dopo quella intervista post-partita. E siccome la cosa l’aveva detta mentre allenava l’Inter, cioè a Milano, uomo della pioggia divenne inevitabilmente rain man. Se Dustin Hoffman non fosse quel patrimonio del cinema che è, Mazzarri potrebbe pure sentirsi offeso dall’accostamento. 

Poteva pure andargli peggio, in quanto a soprannomi ed elemento-arché alla base del soprannome: alla fine l’acqua è vita e la vita non è così male. Anche se in certi momenti si mette d’impegno per farti perdere pazienza e faccia, questa vita. Quando Mazzarri era già vice-allenatore del Napoli al fianco di Renzo Ulivieri – e Allegri ancora faceva telefonate da Agliana, che non è manco Pistoia ma solo provincia di Pistoia – gli azzurri persero una bruttissima partita, giocata in casa contro il Ravenna: 2-4 il risultato finale. Quel giorno Ulivieri era squalificato, gli toccò starsene seduto in tribuna a prendersi i fischi e sorbirsi la contestazione.

Davanti alle telecamere, a parlare con i giornalisti andò quindi Mazzarri: «l’unica attenuante, che penso sia molto importante perché altrimenti non ci sarebbero altre spiegazioni per una prestazione del genere, è che mezza squadra era influenzata. Tuttora influenzata. C’eran quattro o cinque giocatori che hanno avuto la febbre in settimana, uno stamattina… addirittura c’era uno che ha giocato con la diarrea. Cioè, quindi, detta in parole crude, l’unica spiegazione che ci diamo tutti». Immaginate gliel’avessero dato quel giorno, il soprannome. 

(...)

Rudi Garcia. 

Estratto dell'articolo di Monica Scozzafava per corriere.it mercoledì 26 luglio 2023.

A Nizza c’è una prospettiva meravigliosa, Francesca Brienza, giornalista e conduttrice televisiva, sta per diventare mamma e ha scelto la residenza in Costa Azzurra per far nascere il bimbo (o bimba?) che segnerà un momento importante della sua vita con l’allenatore del Napoli Rudi Garcia. 

«Non partorirò qui per chissà quale velleità», precisa la giornalista romana con origini lucane. Francesca ha fatto le sue prime visite a Nizza. E lì è stata seguita. «Il motivo è pratico», dice. Brienza è una donna concreta, la sua vita privata e professionale non contempla troppi orpelli. Ferma, esigente, essenziale. 

(...)

Dieci anni insieme, come si tiene salda una coppia che è così impegnata su fronti vicini ma diversi?

«Conservando ciascuno la propria autonomia professionale. Sono appassionata d’arte, di storia e ho sempre viaggiato molto per lavoro, che nel mio caso coincide col piacere. Poi ho scelto di seguire Rudi, mai però trascurando me stessa, i miei interessi, i miei progetti. Ho commentato l’Europa League per una tv francese, spesso lui era in una città ed io in un’altra. L’amore è una parte bellissima della vita, ma non ci si annulla».

Ci si completa?

«Ecco, credo di sì. I nostri lavori sono complementari. Giornalista sportiva io e allenatore lui, il calcio ti dà e ti toglie anche tanto. Non esistono compleanni, anniversari, ricorrenze in cui si è sicuri di esserci. Non è facile comprendere certe distanze se non le condividi. E se non c’è rispetto».

Cosa è il rispetto?

«In un regime di coppia è accettare la diversità, farla diventare un valore. Rispetto è libertà condivisa». 

Quando ha conosciuto Garcia lavorava a Roma tv e lui era l’allenatore dei giallorossi.

«Sono passati tanti mesi prima che accettassi di prendere il primo caffè con lui, sono figlia di un maresciallo della Finanza, cresciuta con regole molto ferree. Per me Rudi era il mister… Poi qualcosa evidentemente è cambiato ma prima di incontrarlo fuori ho chiesto il permesso».

A chi?

«Al direttore della mia testata. Se a lui avesse dato fastidio probabilmente non avrei mai accettato quel caffè. Invece mi spiazzò e mi disse che, giustamente, non c’era nulla di male. Ne fui felice».

Cosa temeva?

«Che il direttore avrebbe potuto dubitare del mio rendimento professionale. Non lo avrei tollerato».

Dalle belle arti, alla cronaca allo sport: il giornalismo è polivalente?

«Sono naturali evoluzioni. Il cambiamento vero è cominciato quando da giornalista di cronaca ho cominciato ad occuparmi di calcio prima in radio e poi in tv con la Roma. Da tifosa giallorossa mi sembrò il massimo».

E l’imparzialità?

«Molti giornalisti non dicono mai per quale squadra tifano, come fosse un limite. Io invece mi sono sentita liberata nel dichiararlo».

Adesso a Napoli come la mette con la sua fede giallorossa?

«Mi godrò il derby del Sole come lo intendo io: una festa in famiglia. Resto tifosa della Roma, certo, sarebbe strano il contrario, ma negli anni ho seguito con trasporto anche tante squadre per lavoro, che mi ha insegnato a scindere, a gustarmi il bel calcio a prescindere dalla fede, e per vita privata supportando il lavoro del mio compagno. Farò quindi lo stesso con il Napoli e tiferò anche i suoi colori». 

Ha gestito anche la popolarità, si è dovuta proteggere?

«La privacy è un concetto molto controverso. Siamo noi a violarla per primi, utilizzando i social per mostrare qualunque cosa facciamo. Se non lo fai puoi anche essere criticata, se non mostri sembra che tu non viva. Io utilizzo molto i social per comunicare e documentare soprattutto i miei viaggi. Ma c’è un limite che non mi piace valicare».

Come coppia?

«Non ci siamo mai esposti perché non fa parte del nostro modo di essere. Poi ovvio, siamo personaggi pubblici, e su di noi c’è attenzione. Posso comprendere, ma fino a un certo punto. I social possono essere un boomerang, se ne fa un uso smisurato. Tra i ragazzi soprattutto si innesca la competizione che alla fine porta alla depressione. Ma anche all’insicurezza».

Si è mai nascosta?

«Non nascondo ma non ostento. Con la gravidanza è andata così. Molti hanno detto che la tenevo segreta, in realtà non mi sembrava interessante fare l’annuncio». 

Giornalista donna, calcio e fidanzato allenatore. Ne avrà sentiti di giudizi.

«Quando sono andata a Roma tv ero l’unica donna, partiamo da qui. Non mi importa dei giudizi, ma i pregiudizi si sconfiggono con il lavoro e la professionalità. Per commentare il calcio francese in tv ho studiato tantissimo la lingua: troppi errori, per come sono caratterialmente, non me li sarei perdonati. Noi donne dobbiamo fare più fatica. Ma tutto diventa più sfidante».

Quindi, il matrimonio?

«Dovevamo sposarci due anni fa, poi c’è stato il Covid e ci siamo fermati. Lo faremo, nel nostro stile». 

Lei è stata in Arabia dove Garcia ha allenato la squadra di Ronaldo, cosa pensa del calcio che a suon di soldi sta portando via i big europei?

«Chi dice che il calcio d’Arabia vale zero si sbaglia. Gli arabi hanno portato Cristiano Ronaldo e lui sta facendo da traino. Con i soldi loro possono fare tutto, ma non sempre chi ci va lo fa per diventar ricco. Ronaldo è l’esempio. Gli mancavano, i soldi?».

Francesca mamma a tempo pieno?

«Lavoro e famiglia sono parti complementari della vita. Nel migliore dei mondi è questo mix che rende felici e realizzati».

Luciano Spalletti.

Napoli campione, 'o miracolo del tecnico di Certaldo. Renzi racconta Spalletti, la pizza a palazzo Chigi (con taglio Imu) e il materasso a Castel Volturno: “Sono l’aggiustatore”. Redazione su Il Riformista il 3 Maggio 2023 

L’incontro in treno prima di iniziare, quasi due anni fa, l’avventura a Napoli, la pizza a palazzo Chigi per sciogliere i dubbi del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan (“perché non chiedi a Spalletti come mai non fa giocare Totti?”), le notti a Castel Volturno, centro sportivo del club di De Laurentiis, a dormire su un materasso perché “è il tempo che dedichi alle cose in cui credi il regalo più bello che puoi fare alle persone”.

Sul primo numero del nuovo Riformista, il direttore editoriale Matteo Renzi dedica l’apertura al Napoli e a ‘o miracolo di Spalletti che ha riportato il club di Maradona a vincere lo scudetto dopo 33 anni, riportando dopo oltre 20 anni il tricolore in una città diversa da Milano (Inter e Milan) e soprattutto Torino (Juventus).

Un racconto-intervista quello dell’ex premier che rivela diversi aneddoti e retroscena della vita, anche privata, del tecnico originario di Cartaldo, comune in provincia di Firenze. “Vedi, te tu eri un rottamatore, ma io sono stato l’aggiustatore, quello che dai rottami ha ricostruito le squadre mettendole in piedi e subito in grado di correre con la velocità dell’alta classifica” rivela Spalletti.

Con Renzi il primo incontro avvenne quando l’ex allenatore di Roma e Empoli era alla guida dello Zenit San Pietroburgo e portò la squadra russa a fare la preparazione invernale a Firenze. Poi la pizza a Palazzo Chigi per mantenere la promessa fatta a Padoan. “Quattro pizze e quattro birre al terzo piano – scrive Renzi – Il contenuto di quella cena – per me spassosa – lo sveleranno i protagonisti, se mai vorranno. Io so solo che uscendo dissi a Padoan: adesso che ho esaudito il tuo desiderio, mi devi liberare le risorse per tagliare l’IMU prima casa eh. E Padoan fu di parola. Quando l’ho ricordato a Luciano mi ha detto: “Ma sei sicuro che questo si possa scrivere?”. Diamine, Mister! Al massimo prendo un avviso di garanzia io, uno più uno meno che vuoi che cambi?”.

Renzi ricorda poi quando gli chiese come sarebbe andata con De Laurentiis. “Gli dissi a bruciapelo: “ma come andrà con De Laurentiis? Non è che litigate? Siete due caratteri forti”. Andrà, andrà. Deve andare. E alla fine è andata con lo scudetto e una città impazzita. Bisogna riconoscere, penso oggi, al vulcanico Aurelio di aver vinto lo scudetto con una gestione economicamente sana della società, tanto di cappello”.

E infine il momento in cui, secondo Renzi, è emersa la vera natura di Spalletti che è quella di educatore ancor prima che di maestro di calcio. “Tra un gol di Osimhen e un assist di Kvara, vado controcorrente e scelgo una fredda mattinata di fine gennaio. A Castel Volturno è in programma l’allenamento della squadra e un gruppo di ragazzini richiama l’attenzione dell’allenatore azzurro. Vogliono selfie e, autografi, battute. Ma Spalletti va giù duro: “Come mai non siete a scuola?”. E i ragazzi replicano: “C’è sciopero”. “E quando si recupera la lezione?” incalza il mister “Mai” rispondono i bimbi. “Come, mai? E quando ti dovrò allenare e non capirai cosa ti dico? Io quelli che non capiscono non li voglio”. Quel signore lì è Luciano Spalletti in purezza. Un maestro di calcio, sì, ma prima ancora un educatore”.

Corrado Ferlaino.

Corrado Ferlaino: «Mentre il Napoli festeggiava ero sulla tomba di Maradona. A 92 anni guido ancora l’auto e mi sono appena fidanzato». Monica Scozzafava su Il Corriere della Sera il 7 settembre 2023.

L’ex presidente: «Io mai in ferie né in pensione. Ho venduto Zoff perché lui non amava la città». Denaro e futuro: «Ho guadagnato tanto ma ho speso di più. Penso alla morte

però ho molti progetti»

Cinque donne e cinque figli, un numero indefinito di tradimenti e mai un rimpianto. «Alla fine le mie compagne capivano lo spirito di scappatelle che tutto sommato non avevano tanto senso, spesso sono stato perdonato» giura Corrado Ferlaino, 92 anni compiuti a maggio scorso e una nuova fidanzata. Il presidente più vincente della storia del Calcio Napoli — pantaloni di cotone bluette, camicia a righe azzurre e bianche e l’immancabile pull blu scuro appoggiato sulle spalle, unica cautela rispetto all’età — ci aspetta a «La Caffettiera» nel salotto di Napoli, in piazza dei Martiri, quartiere Chiaia. Sente familiare quello slargo dove s’impone lo storico palazzo che fu sede del suo Napoli, per 33 anni. «Non mi chiami presidente, però. Ero e resto un ingegnere ancora in piena attività» premette mentre saluta i tanti che lo ancora lo riconoscono e che ancora gli chiedono una foto insieme.

Come è arrivato qui, ingegnere?

«Con l’auto, come vuole che arrivi da Posillipo, dove abito? Si sta forse chiedendo se alla mia età ancora guido? Certo che sì, e do anche qualche accelerata se la strada lo consente. Sono stato pilota automobilistico, ho vinto qualche circuito». Sono le 10.30 di una domenica di inizio settembre, Corrado Ferlaino racconta che come sempre si è svegliato alle 6.30, ha fatto colazione e poi un’ora prima del nostro appuntamento si è messo in macchina. Al cameriere chiede un tè («non bevo caffè») si guarda attorno con quell’espressione circospetta di quando, ai tempi d’oro, in questa stessa piazza doveva schivare giornalisti e fotografi. Non ha mai avuto un rapporto sereno con la stampa.

Ha letto i giornali?

«Sì, il Corriere della Sera e il Mattino di Napoli. Leggo prima le pagine di politica. Poi arrivo a sfogliare quelle di sport. Un tempo facevo il percorso inverso. Lei cosa ne pensa di questo governo?».

Mi dica cosa ne pensa lei, piuttosto.

«Giorgia Meloni è l’immagine di donna compiuta, risolta. Mamma, compagna e grande lavoratrice. Posso essere d’accordo o meno con le sue idee ma le riconosco concretezza. È da sola, però. Salvini vuole fare Berlusconi ma non lo è e mai lo sarà. Tajani più o meno la stessa cosa. L’Italia ha perso un grande imprenditore e politico».

Lei è stato un imprenditore, proprietario di una società di calcio e un costruttore.

«Sono un ingegnere, anche molto capace. Ogni mattina vado in ufficio e lavoro fino alle 14. Non vado in pensione e neanche in vacanza. Mio padre mi ha insegnato che non si può delegare. Il primo cantiere l’ho visto che avevo 11 anni».

Un bimbo, praticamente.

«Mio padre costruiva in piazza San Leonardo al Vomero e io quando potevo evitare la scuola ci andavo. Non sono stato uno studente modello, però».

In che senso?

«Appena potevo facevo filone, anzi una volta non sono andato a scuola per un mese di fila. I professori chiamarono mia madre e lei a quel punto mi accompagnava tutte le mattine. La fregavo: entravo con lei e uscivo da un altro ingresso».

Ha sposato 5 donne.

«Eh no, tre sono state le convivenze. Due matrimoni potevano bastare. Costano sa, i matrimoni».

Cinque figli.

«Sì, Giulio e Tiziana dalla prima (Flora Punzo, ndr), Luca e Cristina dalla seconda (Patrizia Sardo) e poi Francesca, nata dall’unione con Patrizia Boldoni, una mezza scienziata. Spero possa vincere il premio Nobel. È a capo del dipartimento di Fisica quantistica all’Università di Innsbruck. Spesso vado a trovarla. Non faccio vacanze ma ogni tanto mi piace allontanarmi per qualche giorno. Parigi è la mia seconda casa».

Come mai?

«Città meravigliosa, poi io parlo bene il francese. È una specie di rifugio. Ci andai anche quando coinvolto nell’inchiesta Tangentopoli volevo sfuggire all’arresto».

Pensava di farla franca?

«Ma non avevo fatto nulla e infatti fui assolto. Ero vittima di una concussione ma in quel momento fuggire fu istintivo. I miei avvocati mi consigliarono di tornare e ammettere che avevo dato soldi a un politico, a quei tempi era la prassi».

Chi era il politico?

«Lasciamo stare».

Crede in Dio?

«Direi di no, ma se poi la Madonna e i Santi si dispiacciono? Nel dubbio dico di sì. Ma poi quando sarò dall’altra parte faccio una telefonata e lo dirò».

Ha paura della morte?

«Ci penso tutti i giorni. So che è una cosa che dovrà accadere. Ma ho ancora tanti progetti».

Ce ne dica uno.

«Un libro in cui raccontare chi sono stato e cosa ho fatto. Vorrei scriverlo per essere ricordato dai miei figli per quello che sono stato veramente. Per essere rispettato da loro».

Maradona, un suo figlio aggiunto.

«Per portarlo a Napoli da Barcellona ci vollero 13 miliardi, e tutto nacque per caso. Misi a soqquadro il Banco di Napoli. Il presidente dell’ente Federico Ventriglia mi accordò la fidejussione, salvo poi ripensarci perché in città c’era stata una sollevazione popolare. Provò a bloccarla, ma io fui più lesto. Ero già andato in banca a prendere il documento ed ero partito. Un’operazione che costò il licenziamento della persona che materialmente mi aveva consegnato il documento».

Iuliano fu lo stratega.

«Sì, da calciatore mi chiedeva un sacco di soldi, da dirigente imparò a risparmiare»

Quanta pena le ha dato Diego, al netto degli scudetti?

«Faceva uso di sostanze e io lo sapevo. Sono andato tante volte a casa sua perché non si presentava al campo. Dormiva e stava ridotto male, ma poi gli bastava un po’ di recupero e ci faceva vincere le partite anche se non si era allenato».

Promise di venderlo al Marsiglia poi si tirò indietro.

«Diego ha detto una grande bugia, non avrei venduto mai il migliore, nè i più bravi».

Ma ha venduto Zoff.

«Un portiere lo si trova sempre, e poi lui non amava abbastanza Napoli».

A maggio è andato in Argentina sulla tomba di Diego.

«La città festeggiava lo scudetto ed io ero in un giardino grande a Buenos Aires. Sono stato lì due ore, gli ho parlato. Abbiamo festeggiato insieme».

Guarda ancora le partite del Napoli?

«Sì ma solo il primo tempo, come quando ero presidente. Un po’ per scaramanzia, ma oggi perché ho due pacemaker e devo salvaguardare il cuore».

Quanto ha guadagnato nella sua vita?

«Molto, ma ho sempre speso di più».

L’ingegnere fa ancora qualche foto, si accorge che il conto del nostro caffè è stato già pagato. L’uomo, 50 anni si presenta. «Sono un piccolo industriale e da lei ho imparato tanto. Lei ha guardato avanti». Ferlaino ringrazia, si avvia verso l’auto e sorride.

Ottavio Bianchi.

Estratto dell'articolo di Gigi Garanzini per “La Stampa” il 26 aprile 2023.

Una chiacchierata ogni tanto, tra vecchi conoscenti diventati amici. Un'intervista ogni tanto tanto, l'ultima su queste colonne giusto tre anni fa. Ai tempi più duri del Covid, quando Ottavio Bianchi dalla casa di Bergamo alta raccontò la spaventosa sfilata di bare sui camion militari: e rimbalzò sui giornali di mezzo mondo. 

[…] per don Ottavio il tempo della scaramanzia è scaduto: ed è arrivato il momento di battezzare lo scudetto del Napoli. «Diceva Eduardo che essere superstiziosi è da ignoranti: ma non esserlo porta male. Con 17 punti di vantaggio la scaramanzia è alle spalle».

Chi l'avrebbe mai detto. Non uno, a cominciare da chi scrive, che avesse previsto alla vigilia il Napoli tra le prime quattro.

«Mi ci metto anch'io. Quelle cessioni eccellenti ci avevano portato fuori strada. E poi chi lo conosceva Kvara? Osimhen sì, ma come è lievitato quest'anno. E Kim? Sai che sentire la gente intonare Kim-Kim-Kim distingue subito Napoli da altre realtà di oggi, per competenza intendo. Dopodiché aveva ragione il tuo maestro Brera, il calcio è mistero senza fine, bello perché lo scudetto non l'hanno vinto, l'hanno stravinto. Anche grazie al fatto che nessuna delle concorrenti ha toccato la sufficienza».

Come si spiega?

«Per le altre non so. Io penso al Napoli, perché ci ho giocato con Sivori e ho allenato Maradona: alla mia non verdissima età sono ricordi incancellabili. È stato bravissimo Spalletti: così come la società, lo staff, la squadra, l'ambiente che tutti insieme hanno creato. Fai caso a come escono senza una smorfia i giocatori sostituiti: e all'entusiasmo con cui entrano gli altri, anche a 5 minuti dalla fine. Ma prima ancora bada a come il collettivo esalta il singolo, e il singolo è sempre al servizio del collettivo». […]

È un grande complimento. Che prima o poi, immagino, Spalletti ricambierà confessando di essersi ispirato a te nella gestione ambientale. Più il suo Napoli vinceva e più il suo atteggiamento era dimesso.

«Per forza, quando la squadra è andata in fuga è incominciato il Carnevale di Rio: e lui in panchina aveva l'aria sempre più scura e in sala stampa un fil di voce sempre più sottile. Se non vuoi correre il rischio di saltare per aria, devi sapere che alla guida del Napoli sei seduto sopra un vulcano». 

[…]

Oppure ricordare, a distanza di decenni che quel giorno, quel famoso 10 maggio dell'87, mentre tutti cantavano e ballavano seminudi in spogliatoio, a Giampiero Galeazzi che torreggiava su di te col microfono del dì di festa aspettando la frase da scolpire nella storia, dicesti con un mezzo sorriso di circostanza: "Sì, sono soddisfatto. Abbiamo fatto un buon lavoro". Vogliamo azzardare un paragone? Oppure prenderne tre di oggi da mettere nel Napoli di allora e due più Maradona di quel Napoli da regalare a Spalletti?

«No, questo no. Sono passati 36 anni, sono mondi diversi ormai. È cambiato tutto, dall'alimentazione alla preparazione, dalle rose agli staff al numero di sostituzioni. Anche nella maturità del pubblico e dell'ambiente che è superiore dopo tante stagioni ad alto livello: se allenassi oggi non avrei più bisogno di tenere la tensione alta come allora, perché c'è più maturità in tutte le componenti».

Abbiamo negli occhi il calcio di questo Napoli, parliamo del tuo. Leggo nella biografia che l'ispirazione è nata dal jazz. E mi metto sull'attenti perché il solo ad averlo detto prima di te si chiamava Enzo Bearzot.

«Il jazz è interpretazione individuale e momentanea su di un filo conduttore di riferimento. Penso a Miles Davis, a Gerry Mulligan, ma anche ad altri mostri meno sacri. C'è il virtuosismo, la capacità di godere dello strumento, e il talento di non ripetere mai alla stessissima maniera la stessa esecuzione.

Che è frutto solo del provare e riprovare, del variare seguendo un talento superiore, cercando sempre di andare oltre. E come fa a non venirmi in mente Maradona? Il modo in cui lui coltivava il suo talento. Chi dice, o ha scritto a suo tempo, che Maradona non si allenava dovrebbe una volta per tutte cambiare mestiere». 

Quanto ti è rimasto dentro Diego?

«Lo nomini e mi viene la pelle d'oca. L'allenamento, prima ancora della partita: l'attimo fuggente per godere in anteprima di tutti i suoi virtuosismi. E lui in quei momenti era il bambino più felice del mondo. L'ho amato molto, arrivando a farmi odiare per provare a salvarlo nel momento più difficile. Non dimenticherò mai il suo sguardo spavaldo e insieme rassegnato quando mi rispose: ma io voglio vivere solo col piede sempre sull'acceleratore».

Giuliano Giuliani.

La solitudine di Giuliano Giuliani, abbandonato (e dimenticato) dal calcio italiano. L'assurda storia del portiere del Napoli di Maradona, scomparso per l'HIV a trentotto anni: al suo funerale non si presentò nessun ex compagno. Paolo Lazzari il 5 Novembre 2023 su Il Giornale.

Pensare che quella mattina lì l'aveva stretta per mano, accompagnadola lungo il vialetto che conduceva a scuola. Quanto era imponente, malgrado la malattia che lo curvava irrimediabilmente. E quanto erano grandi quelle mani, che aveva usato per anni per fare altro, cioè parare palloni. Poi le dita si erano sfilate, Gessica era dovuta entrare a scuola e aveva slacciato un sorriso al papà, Giuliano Giuliani, che lo aveva ricambiato. Non potevano sapere che sarebbe stato l'ultimo.

Di quel mostro, l'Aids, lei non aveva saputo nulla per anni. Tumore ai polmoni, le aveva detto mamma. Come fai a spiegarlo a una bambina, quel sentimento lacerante? A pensarci, è quasi peggio che morire. Abbandonato da tutti. Da chi, fino a qualche mese prima, condivideva uno spogliatoio con lui. Dai dirigenti, dai tifosi, dai giornalisti. Dagli amici. Troppo potente il timore che il morbo riesce ad incutere. Devastante lo stigma che ne consegue.

E così Giuliano Giuliani se ne andava a trentotto anni, una mattina di novembre del 1996, avvolto da una coltre di consapevole e ripugnante silenzio. Moriva a Bologna, Giuliani, all'ospedale Sant'Orsola. Dall'alluce del suo piede freddo, poco più tardi, sarebbe penzolato un terribile cartellino: Hiv.

Probabilmente l'aveva contratta - non è però mai stato dimostrato - durante le feste di nozze di Diego Armando Maradona. In Argentina, nel 1989. La moglie era rimasta a casa. In seguito la donna aveva rivelato che la loro relazione era finita per un tradimento avvenuto in quel frangente lì. Poco importa, in fondo.

Rileva, molto di più, il torrenziale vuoto che ha riempito i suoi ultimi giorni. Eppure, quanta gente l'aveva circondato, quando stava bene. Era nato a Roma, nel 1958. Dopo gli inizi tra i pali dell'Arezzo e del Como, il grande salto. Il Verona neocampione d'Italia, per sostituire Garella, passato al Napoli. Avrebbe trascorso tutta la sua carriera a sostituirlo. Infatti poi lo sceglievano i partenopei: al fianco di Diego vinceva una coppa Uefa e lo scudetto del 1990. Dicono che lo avesse voluto proprio lui, Maradona, dopo che una volta Giuliani gli aveva neutralizzato due rigori.

Poi l'arrivo di Giovanni Galli, l'assurdo sbalzo emotivo che dallo scudetto conduce alla serie B con l'Udinese, tre anni passati in Friuli. Quanti compagni, in quel frullatore. Quanta ipocrisia, soltanto qualche mese dopo.

Troppo prematuri i tempi, in Italia, per maneggiare con cautela la piaga degli anni ottanta e novanta. Zero consapevolezza. Distanti anni luce dall'America di Magic Johnson e di tutte le altre icone impegnate nella prevenzione. La soluzione più agile era dunque un'altra. Fare il vuoto intorno a Giuliano. Fare finta di non averlo mai conosciuto. Coprire tutti gli specchi di casa per non morire in un altro modo, uno anche peggiore: di vergogna.

Paura folle e istinto di sopravvivenza: un cocktail letale. Al funerale, infatti, non si presentava nessuno. In seguito, di tutti gli ex compagni, soltanto Renica si sarebbe scusato con la ex moglie. Malato e dunque accantonato. Come ucciderlo due volte.

La sera Gessica non riusciva mai ad addormentarsi da sola. Doveva sempre stringere la mano del papà. Lui gliela teneva stretta, fino a quando il respiro di lei non si faceva più lento, morbido, e le palpebre cedevano. In quei momenti Giuliano poteva ancora sorridere. Una piccola lama di luce dentro un deserto di assordante buio.

Ramón Angel Díaz.

Ramón Angel Díaz, el puntero triste soltanto a Napoli. Paolo Lazzari il 20 Agosto 2023 su Il Giornale.

Enfant prodige al River Plate, poi quel litigio con Maradona, il flop a Napoli e il riscatto: un attaccante in cerca del sorriso

Dicono che a La Rioja ci sia un piccoletto che ammansisce anche i palloni più recalcitranti. Viene dentro il campo perché adora manovrare. Accarezza la sfera e poi torna rapido verso l'area di rigore, trovando spesso la mattonella giusta per lasciar partire certi fendenti laceranti per le difese altrui. E poi il padre l'ha chiamato Ramón sì, ma anche Angel, come tributo doveroso a Angel Labruna, il geniale attaccante del River Plate. Così Ramón Angel Díaz - questa è la sequenza completa - viene su con le stimmate del calciatore prodigio che sboccia ai piedi delle Sierras Velasco. Alto un metro e settanta appena, disinvolto quando si tratta di fintare, acuminato nel pensiero calcistico.

Se lo prende il River, ovviamente. Con il club e poi con l'Argentina Under 20, al fianco di Diego Armando Maradona, combina cose eccelse. O sufficienti, almeno, per entrare nelle pupille dei club di Serie A subito dopo il mondiale del 1982, dove a dire il vero i rapporti con El Pibe de Oro iniziano a naufragare, segnando di fatto la sua epurazione dalla Seleccion.

Il primo contatto con l'Italia ha le pareti lorde di passione di Napoli, città che sa sbuffare zaffate dal sentore sudamericano, ma non è comunque la stessa cosa. La nostalgia di casa diventa in fretta una compressa al cianuro. Díaz prova a calciarla via, ma quella torna più prepotente ogni volta. E anche i ritmi di vita, gli allenamenti, il cibo, le amicizie, gli affetti: tutto cambiato. Un passaggio che Ramón non riesce a gestire a soli ventritre anni. Così il suo battesimo italiano si tramuta in sogno infranto. In campo è amorfo al punto che sembra poltrire. Invece è semplicemente perso. Venticinque partite di campionato e soltanto due gol. In città gli affibbiano presto un soprannome sconsolato: El puntero triste.

Ma a volte serve arretrare per darsi la spinta. Il club lo parcheggia ad Avellino dopo una sola stagione. Potrebbe essere una situazione ispida, ma lui - in coppia con Geronimo Barbadillo o Bergossi - costruisce in Irpinia un inner circle formidabile. Qui, diluite le pressioni del debutto, sfodera tre anni folgoranti, manifestando un calcio di una seduzione struggente. A dire il vero ad un certo punto potrebbe anche rientrare a Napoli, ma l'acquisto di Maradona fa saltare tutto.

Ora che ha riconquistato la fiducia collettiva acquista galloni ulteriori. L'Avellino affronta difficoltà economiche non irrilevanti e decide di cederlo alla Fiorentina del conte Pontello. Il rendimento sul campo, malgrado una squadra che si piazzerà a metà classifica, farà proseliti tra i tifosi. Ma il rapporto con la società diventa fin da subito intricato: Pontello - recita la vulgata - l'ha preso per far impennare il valore del club. Vorrebbe infatti vendere la viola, ma non trovando acquirenti si ritrova un fenomeno da 700 milioni di lire a stagione a libro paga. Una situazione che lo condurrà al rovinoso licenziamento del suo ds Claudio Nassi e all'impugnazione del contratto siglato con il giocatore. Dribblato questo tumultuoso incipit, Ramón progetterà comunque un calcio luccicante anche a Firenze per un paio di stagioni.

Nell'estate del 1988 un'altra svolta: viene ingaggiato dall'Inter. Trapattoni lo piazza accanto ad Aldo Serena: è l'innesco di una detonazione da 34 gol - 22 Aldo, 12 Ramón - che assicurerà ai nerazzurri lo scudetto dei record. Sarà anche l'ultimo acuto italiano dell'ex attaccante triste, visto che la Beneamata gli indicherà comunque la porta a fine stagione: limite dei tre stranieri, spazio a Jürgen Klinsmann. Vestiti premuti in valigia dunque, per le ultime tappe della sua carriera. Ma con la sensazione tattile che quel broncio si è aperto in sorriso.

Antonio Careca.

Diventare Careca, l’amico geniale di Maradona. Centravanti di peso, ma anche svelto. Letale con entrambi i piedi e pure di testa. Sopra ogni cosa, una fabbrica ambulante di reti carioca. Paolo Lazzari il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Papà e il padre di Pelé

 Quel provvidenziale quasi omonimo

 L’esplosione al Guarani, la consacrazione al San Paolo

 Finalmente Napoli, finalmente Diego

 Molto più di uno scudiero

Alla tv danno questo show che fa letteralmente sbellicare mezzo paese. La gente si raccoglie davanti a quel fascio luminoso e per qualche istante mette in pausa i pensieri più sconfortanti, arrendendosi a quella botta di leggerezza gratuita. Il tizio è ridicolo, diciamolo subito. Un pagliaccio nel vero senso del termine. Una folta parrucca riccioluta a sormontare la testa calva. Il solito trucco pesante. Qualche volta la patata rossa aggrappata al naso. Quanto basta per grattare le pance. Mamma e zia ridono di gusto. Ballano, anche. Sì, Carequinha ci sa proprio fare. Ora si avvicinano al divano dove è appollaiato, alquanto divertito, il piccolo Antonio De Oliveira Filho. “Careca! Careca! Careca!”, iniziano a chiamarlo in coro, forse per via di qui capelli aggrovigliati. Il ragazzino si alza e si accoda, festante, a quella samba tribale.

Papà e il padre di Pelé

Ok, sappiamo come dobbiamo chiamarlo, ma a questo punto serve una sterzata. Si dà il caso che papà sia un calciofilo convinto. Ma non uno di quelli che se ne stanno con le natiche incollate su una qualche tribunetta di legno lì ad Araraquara, fazzoletto di terra nell’enclave paulista, puntando sul risultato finale per addentare la cena. Papà gioca, e anche bene. Ala guizzante. Destro, sinistro svelti. Il pallone scorre disinvolto. E poi sta in squadra con Dondinho. Che, per inciso, sarebbe il padre di Pelé. Non è questione di virgole. La grammatica del calcio segue regole stentoree.

Quel provvidenziale quasi omonimo

E poi c’è un altro tizio che entra in tackle in questa storia che inizia dalle assolate distese pauliste, ma che alla fine saprà di golfo e impregnerà di salmastro. Si chiama Creca, che è quasi uguale al suo soprannome, e di cognome fa Fiocchi. Nitide origini italiane. Vive dalle sue parti e hanno giocato insieme nel campionato amatoriale. E lui lo vede, che il ragazzino ci sa fare sul serio. Così lo monta in macchina e lo conduce fino a Campinas, centro d’arruolamento di acerbi fenomeni del Guarani. Si presentano in 800. Le gambe si fanno inizialmente tremolanti. Poi tutto viene giù liscio, naturale. Un paio di provini. Preso.

L’esplosione al Guarani, la consacrazione al San Paolo

Careca è talmente talentuoso che a 16 anni lo aggregano già alla prima squadra. Lui si svezza, cresce in statura e muscolatura, affina le sue doti balistiche. Il tempo di prenderci le misure. Iniziano a grandinare conclusioni verso lo specchio. Infilza tutti con estrema disinvoltura, a manovella. Gol di un peso specifico monumentale. Il pubblico di spella le mani. Il Guarani vince il primo e unico campionato della sua storia. La sua stella è troppo baluginante per rimanere compressa in una galassia minore. Lo acquista il San Paolo. Vince ancora il campionato, diventa in fretta capocannoniere e miglior giocatore del Brasileirao. Troppa luce. Non basta più nemmeno questo contenitore. Dall’altra parte dell’oceano si leva una raffica di proposte indecenti.

Finalmente Napoli, finalmente Diego

In quella torrida estate del 1987 il calciomercato è un tourbillon. Lo pretendono praticamente in mezza europa. Lo circuisce il Real Madrid, sirena difficile da scansare. Lo vogliono in Francia. Sta per prenderlo il Torino, ma solo perché il direttore Luciano Moggi lavora lì. Quando invece lo ingaggia il Napoli, come biglietto da visita si porta appresso proprio il brasiliano. Ferlaino si fruga ed estrae, munifico, 4 miliardi delle vecchie lire. Careca esulta. Non avrebbe saputo sperare di meglio. Tutto quel che desiderava adesso è lì. Giocare al fianco di Maradona. Si gioca un’amichevole celebrativa. Napoli contro San Paolo. Ultima gara con in brasiliani. Segna.

Molto più di uno scudiero

Nel Napoli di Ottavio Bianchi è la propaggine inevitabile per comporre la MA - GI - CA, il soverchiante tridente formato da lui, Diego e Giordano. Si accomoda nella squadra che ha appena vinto lo scudetto con sublime naturalezza. Con Maradona sviluppa un’intesa salda fuori e dentro il campo. Nella prima stagione in azzurro segna 18 gol, sospingendo una squadra rimpinzata dal vicino trionfo finché può. Punta versatile, mostra in fretta come qualsiasi difesa sia frangibile, senza mai risultare insipido. I suoi gol, anzi, sono spesso zaffiri che riscrivono la semantica delle emozioni, mettendo a reddito una classe pura, traslucida. Ne farà 73 in 164 presenze, da lì al 1993, l’anno in cui i cammini si dividono. Durante la strada infilerà in tasca una coppa Uefa - primo trofeo internazionale del Napoli - e un altro scudetto. Con Diego sviluppa un sodalizio poderoso, certificato dalle stesse parole del Pibe de Oro: “Antonio era un fenomeno e un amico. Uno dei migliori compagni che io abbia mai avuto”. Estro e gol a raffica. Un club privato nel cuore dei tifosi. L’amico geniale del migliore di sempre. Non male per uno che assomigliava ad un pagliaccio.

Andrea Carnevale.

Andrea Carnevale compie 62 anni: l’Udinese, Maradona, Paola Perego, la cocaina. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 12 Gennaio 2023.

L’infanzia difficile, i trionfi al Napoli, gli anni alla Roma, l’amore da copertina, i crolli nel doping e nel processo (assolto): una vita di alti e bassi, mai banale, che ha trovato oggi un porto tranquillo negli affetti e nel lavoro di capo degli osservatori all’Udinese

Discese e risalite

Felicità e paure, esaltanti alti e cadute rovinose. Andrea Carnevale e la sua vita spericolata, che racchiude tutto il possibile. L’infanzia difficile, con il pallone da scudo, i trionfi al Napoli, Diego Maradona, gli anni alla Roma e l’amore da copertina con Paola Perego. Poi i crolli, sfortunati più che colpevoli: la chance sprecata in Nazionale, lo stop per il doping e la vicenda cocaina. Oggi Andrea compie 62 anni ed è la mente dietro gli ottimi risultati dell’Udinese: capo degli osservatori nel club friulano, partito quest’anno alla grande in serie A grazie ai tanti talenti scovati e ora ottava subito alle spalle di Lazio, Atalanta e Roma. Il calcio è sempre stato al centro della sua vita. Ma partiamo dall’inizio.

Carnevale nasce a Monte San Biagio, un paesino di 6mila anime del basso Lazio, in provincia di Latina, da una famiglia di origini umili. Papà Gaetano, ex manovale delle ferrovie dello stato, mamma Filomena, casalinga, e sette figli (quattro ragazze Giuseppina, Rossana, Romana e Milena e i tre maschi Enzo, Andrea e Germano). All’improvviso, era il 1974 (Andrea aveva appena 13 anni), in un momento di follia Gaetano Carnevale uccide la moglie: tre colpi d’ascia mentre la donna faceva il bucato al fiume dietro casa, poi va al commissariato con l’abito buono e si costituisce. Una tragedia enorme, senza senso. Andrea è costretto a crescere in fretta, senza genitori: lascia la scuola ed inizia a lavorare. La mattina presto fa il muratore, o l’aiuto falegname, la sera gli allenamenti. Con il sogno di diventare calciatore. Ci riuscirà, testardo, nonostante un altro dolore: la fine del padre, nel 1983, suicida nel manicomio giudiziario di Aversa.

I trionfi nel Napoli di Maradona

Un sogno che si avvera. La chiamata del Napoli, nell’estate del 1986, proietta Carnevale nel calcio che conta. Dopo le esperienze nel Latina, Avellino, Reggiana, Cagliari, Catania e Udinese, arriva la grande chance, la squadra di Diego Armando Maradona. In azzurro Andrea vive il momento migliore della sua carriera: quattro anni in cui vince da protagonista due campionati, una Coppa Italia e una Coppa Uefa. È suo il gol che vale il primo storico scudetto del Napoli, al 29’ della partita poi pareggiata 1-1 contro la Fiorentina di Roberto Baggio. Oltre alle reti (47 totali in 152 presenze) è decisivo il suo ruolo per gli equilibri della squadra. «Leggeva i movimenti di Maradona e Careca, si spostava con loro. Tatticamente Carnevale è stato determinante», ha raccontato Ottavio Bianchi, l’allenatore di quel gruppo che riscrisse la storia sportiva della città di Napoli.

Nazionale, un amore ucciso da un «vaffa»

Nell’aprile del 1989 Carnevale fa il suo debutto (con gol) in Nazionale, nel 4-0 rifilato all’Ungheria in un’amichevole. Poi le notti magiche, le notti di Italia 90. Andrea arriva al Mondiale da campione d’Italia, titolare nella formazione tipo del c.t. Vicini: lui con Vialli (scomparso solo qualche giorno fa) in attacco. Ma niente va come previsto. Nella prima partita, contro l’Austria, fallisce qualche occasione di troppo. Con gli Stati Uniti, nella seconda gara di fila all’Olimpico di Roma, gioca solo 52 minuti. L’Italia è avanti 1-0, gol di Giannini, Vialli ha calciato sul palo un rigore. Vicini decide però di inserire Schillaci proprio al posto di Carnevale, che uscendo dal campo si fa sfuggire un «vaffa» che lo condanna. Il Mondiale (che l’Italia chiuderà al terzo posto) continua a seguirlo dalla tribuna, non va più neanche in panchina. Quella con gli Stati Uniti sarà la sua ultima partita in Nazionale.

Gli anni alla Roma e la squalifica per doping

Già prima dell’inizio del Mondiale Andrea decide di lasciare il Napoli e passa alla Roma per 6,8 miliardi di lire. Nelle prime gare in giallorosso (dove ritrova Ottavio Bianchi) è straripante e segna 4 gol in 5 partite. Poi deflagra una bomba. La sera di lunedì 8 ottobre 1990 viene comunicata la positività di Carnevale (e del giovane Angelo Peruzzi) alla Fentermina, risultato di un controllo antidoping effettuato dopo Roma-Bari del 23 settembre. Il farmaco incriminato è il Lipopill, usato ai tempi per scopi dimagranti. Il presidente Viola si dichiara «allibito», e accenna a un presunto complotto contro la sua società. Peruzzi e Carnevale all’iniziano negano, poi ammettono l’errore: «Ho sbagliato a non avvertire il dottor Alicicco (medico della Roma, ndr)» dirà Andrea. I due giocatori avevano preso il farmaco non per migliorare le loro prestazioni, ma per risolvere problemi di peso dopo una cena di squadra. La squalifica che ne consegue, un anno di stop, è una mazzata. Carnevale sarà assolto dall’inchiesta penale, ma al rientro in campo, il 20 ottobre 1991, non sarà più l’attaccante di prima. Negli ultimi due anni in giallorosso segna comunque 25 gol in 73 presenze, prima di chiudere la carriera in serie B, poco più che trentenne, tra Udinese e Pescara.

La storia da copertina con Paola Perego

A fine anni 80 Carnevale è tra i calciatori più conosciuti e chiacchierati d’Italia. Nel 1987, a Venezia per ritirare un premio, incontra la 21enne Paola Perego, giovane conduttrice tv in rampa di lancio. È subito amore. I due si sposano nel luglio del 1990, il giorno dopo la finale del Mondiale (motivo per cui Maradona, disperato per la sconfitta contro la Germania, non partecipa al matrimonio), e hanno due figli: Giulia (1992) e Riccardo (1996). Problemi e incomprensioni — la Perego di recente ha confessato di aver sofferto, anche in quel periodo, di attacchi di panico — portano dopo qualche anno (nel 1997) al divorzio, ma Andrea conserva un ottimo rapporto con Paola: «Tra di noi è rimasta un’amicizia, ci lega un affetto profondo», ha raccontato lei a Verissimo.

L’arresto per cocaina (assolto) e la sua vita oggi

Gli anni dopo il divorzio con la Perego per Carnevale sono difficili. Nel 2002 viene arrestato, con altre undici persone, in un’operazione antidroga e finisce agli arresti domiciliari. Una vicenda per la quale è stato assolto, uscendone pulito ma ferito. La rinascita, l’ennesima, grazie a Beatrice, il nuovo amore, sposata nel 2005 e con cui ha avuto un’altra figlia, Arianna, oggi 19enne. Poi il lavoro, all’Udinese della famiglia Pozzo. Da oltre 10 anni nella società friulana ricopre il ruolo di capo degli osservatori: ha girato il mondo e scovato talenti come Alexis Sanchez, Piotr Zielinski, Allan, e più di recente Beto, Bijol, Samardzic, Udogie. Andrea, uomo del sud, è ora felice a Udine. Con i figli lontani (vivono ancora a Roma), si sente spesso e ha un bel rapporto: Giulia lo ha fatto diventare nonno di Pietro, Riccardo fa il dj. Con la Perego e il suo nuovo marito sono come una grande famiglia allargata. A 62 anni nasconde dentro di sé i dolori ed è sereno. Finalmente.

LA SALERNITANA.

Le Inchieste.

Walter Sabatini.

Guillermo Ochoa.

Le Inchieste.

Estratto dell'articolo di Vincenzo Bisbiglia per il "Fatto Quotidiano” l'8 giugno 2023.

“Simulazione di titolarità” e “fondi esteri di provenienza non certa”. C’è un’indagine top secret della Procura di Roma che da oltre un anno lavora su “un possibile tentativo di truffa” nella vendita, a dicembre 2021, della società di calcio della Salernitana, fino a quel momento appartenente alle famiglie del senatore di Forza Italia, Claudio Lotito e del costruttore Marco Mezzaroma. 

Al momento non ci sono indagati. Sotto i fari dei pm, le proposte d’acquisto avanzate dal fondo Global Pacific Capital Management doo, con sede a Nova Gorica, in Slovenia, che si appoggia alla fiduciaria Private Value Asset Management Sa di Grono, in Svizzera.

A luglio 2021 le quote del club granata, da poco promosso in Serie A, erano confluite nel trust “Salernitana 2021”, allo scopo di cedere la società entro il 31 dicembre 2021, in quanto Lotito non avrebbe potuto iscrivere nella massima serie un’altra squadra a lui riferibile oltre alla Ss Lazio. Dalla pec dell’avvocato incaricato, Francesco Paulicelli, partono due offerte: una da 38 milioni in titoli obbligazionari e un’altra da 26 milioni cash, entrambe “riconducibili, verosimilmente, a uno stesso soggetto”, Stefano Marcolini, dg della fiduciaria elvetica e “beneficiario effettivo” di quella slovena, come si legge in una missiva che il procuratore della Figc, Giuseppe Chinè, invia il 7 febbraio 2022 al procuratore di Roma, Francesco Lo Voi. Per i trustee, però, le proposte non sono chiare e vengono respinte.

(...)

Tradotto: ci sono dubbi sulla reale titolarità delle società. La lettera finisce sul tavolo della Guardia di Finanza, che indaga anche sulle presunte plusvalenze fittizie tra Lazio e Salernitana e che riacquisisce il documento durante un sopralluogo in Figc il 5 aprile 2023. Come noto, la Salernitana finirà per 10 milioni di euro all’editore Danilo Iervolino, con l’entourage di Lotito che parlerà, infastidito, di una “operazione di svendita” del club granata. L’avvocato Paulicelli, contattato dal Fatto, spiega che a gennaio 2022 presentò esposti alle procure di Roma e Salerno per conto dei proponenti esclusi dai trustee: le società, infatti, si ritengono parte lesa.

Walter Sabatini.

Dagospia il 5 maggio 2023. Da Un Giorno da Pecora

Dove vorrei spargere le mie ceneri? “Il mio luogo ideale sarebbe il centro sportivo di Trigoria, ma non me lo permetteranno mai. Se me lo facessero fare sceglierei sicuramente quel luogo”. A parlare, ospite di Rai Radio1 a Un Giorno da Pecora, è l'ex ds di Roma e molte altre squadre Walter Sabatini, intervistato da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. La Roma che l'ha visto protagonista era in grado di vincere uno scudetto? “Sì. La notte dormo poco perché non sono riuscito a vincere uno scudetto con la Roma e non per non aver mai vinto un campionato in generale. Mi tormenta non aver portato a casa uno scudetto con i giallorossi - ha detto a Un Giorno da Pecora il ds - perché avevamo davvero una squadra fortissima”.

“Io ho portato il 'secondo' Spalletti alla Roma, e posso dire che è un uomo molto sofferto, anche più sofferto di me”. A parlare, ospite di Rai Radio1 a Un Giorno da Pecora, è l'ex ds di Roma e molte altre squadre Walter Sabatini, intervistato da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Cosa ne pensa, oggi, della vicenda che lo contrapponeva a Francesco Totti? “Spalletti faceva l'allenatore e aveva il diritto di fare delle scelte, Totti che è un'entità metafisica a Roma e ha trovato uno schieramento che rendeva le decisioni del tecnico uno psicodramma collettivo”. 

Lei da che parte stava? “Luciano ha esagerato in alcune cose che poteva fare più dolcemente, e invece è andato dritto per dritto, creandosi problemi anche personali, visto che minacciarono persino la sua famiglia”. Lei che viveva lo spogliatoio romanista tutti i giorni, li ha mai visti litigare? “Non hanno mai litigato loro due - ha detto a Un Giorno da Pecora Sabatini - anzi Spalletti quando mi parlava di Totti lo faceva solo per parlarne bene, non mi ha mai parlato male del capitano”. 

Se andrei a fare il ds al Napoli? “De Laurentis non mi vuole, non ha bisogno di uno come me, mi caccerebbe dopo due giorni”. A parlare, ospite di Rai Radio1 a Un Giorno da Pecora, è l'ex ds di Roma e molte altre squadre Walter Sabatini, intervistato da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Potrebbe tornare alla Roma? “No”. E alla Juve ci andrebbe? “Certo che ci andrei, vorrei andarci ma non mi vogliono. Ma magari mi vorranno presto”.  

Che cos'è per Walter Sabatini il calcio? “Non è un gioco, è una vera tragedia, ai tempi di Eschilo lo avrebbero rappresentato negli anfiteatri greci. Senza di me il calcio è molto più triste ed incompleto". Perché? "Perché io completo il capitale umano del calcio, ho una mia funzione in questo mondo. Nessuno può rendere questo sport meno triste, solo io posso farlo e attendo che mi chiamino per colmare questa carenza”. E cosa farà nel frattempo? “Mi chiameranno – ha detto a Rai Radio1 Sabatini – intanto avendo una vena artistica latente, visto che scrivo e dipingo, mi dedicherò a quello”.

Lei ha lavorato per moltissime squadre: qual è quella per cui ha sempre fatto il tifo? “ho fatto un tifo smodato per tutte quelle in cui ho lavorato ma da bambino ero milanista - ha spiegato a Rai Radio1 il dirigente - ho sempre avuto una simpatia per i rossoneri e ce l'ho ancora oggi. Il mio mito era Gianni Rivera...” Si dice che lei non abbia molti amici in questo mondo. E non solo “Posso dire di non essere amico di nessuno, l'amicizia è troppo impegnativa per me. Questo vale tanto nel mondo del calcio che nella mia vita. Non sono quello che manda gli auguri al compleanno, che palle...e questo vale anche per il mio compleanno, che è stato qualche giorno fa: non ho risposto a nessuno dei messaggi di auguri che mi hanno fatto”. 

Francesco Persili per Dagospia il 19 aprile 2023.

Mi sveglio con il rammarico di non aver vinto lo scudetto con la Roma”. Walter Sabatini, ex ds giallorosso, parla del suo libro in un incontro a porte chiuse (non per Dagospia) in un teatro romano. 

Brandelli di vita, frammenti di calcio furioso e fumoso e un chiodo fisso: la Roma. “Mi ha colpito e ferito. Per lei ho fatto l’acrobata del calcio. Stress, viaggi con il fuso orario saltato. Fumavo 60 Marlboro al giorno. Mi sono giocato i polmoni. Ma rifarei ogni cosa”. Le litigate con Paolo Fiorentino di Unicredit per finanziare l’acquisto di Lamela, i vaffa (in italiano) a Pallotta, Gervinho che il secondo anno si presentò “con una specie di tribù”, la “vicenda turpe” Totti-Spalletti: “A Roma non c’è nulla che funzioni normalmente. Ma io sono orgoglioso dei miei anni in giallorosso. Le 10 vittorie di fila con Rudi Garcia, gli oltre 200 milioni di plusvalenze “reali”. Non abbiamo mai fatte operazioni inquinate, il dg Mauro Baldissoni era molto attento…”.

Il colpo mancato? “Rabiot. L’avevamo preso ma ci fu un incidente con la madre. Le dissi di tutto…”. Al suo fianco c’era Ricky Massara, oggi direttore sportivo del Milan: “Un grande errore da parte della Roma esserselo lasciato scappare”. Mourinho? “La sua squadra non è spettacolare ma sa come e quando colpire l’avversario”. 

Il discorso si allarga. Sabatini, in versione Dottor Divago, scomoda Pippo Marchioro che storpiava il nome di bomber Zampagna, ricorda gli anni alla Lazio con Lotito (“Siamo andati in Champions con tarallucci e vino”) e fa un endorsement a Sarri (“Mi piace, grande fumatore”).

Fulmina i calciatori “teste di cazzo” e Miccoli, condannato a tre anni e mezzo per estorsione aggravata dal metodo mafioso (“Era fortissimo ma aveva questa testa…”). Passa, infine, a rivendicare la salvezza-miracolo con la Salernitana e la scommessa vincente con Verdi. 

La crisi del talento in Italia? “Non si gioca più per strada, le scuole calcio uccidono i ragazzini con la tattica. I giovani calciatori devono essere lasciati allo stato brado…”. Selvaggi e sentimentali, Javier Marias dixit, e anche un po’ rissaioli. Come Arnautovic: “Mi piace, lui è un rissaiolo nel senso che piace a me. Non uno che monta la gazzarra in campo ma che ha voglia di sradicare il pallone agli avversari”. Per questo preferisce il “virile” Kvara a Leao.

Ho una sana invidia nei confronti del ds del Napoli Giuntoli perché ha preso lui e Kim, giocatori fantastici presi in territori sconosciuti”. Parole al miele per Luciano Spalletti, architetto e demiurgo della squadra che sta dominando il campionato: “Mai visto giocare così a calcio. Il Napoli è difficilmente migliorabile”. E sulla cavalcata delle squadre italiane in Europa gonfia il petto: “La vituperata serie A ha prodotto risultati importanti. La Premier è gestita da manager, la nostra Lega è un cortile in cui si beccano i galli ma questo non significa che le italiane siano dietro alle inglesi, anzi. Il merito è dei nostri allenatori. Guardate, ad esempio, De Zerbi al Brighton…”

Bordate sulla Superlega (“Un progetto orrido”) e sugli agenti dei calciatori (“Sono potenti perché sono i club a renderli tali, ma vanno tenuti al loro posto”). Nomi da annotare sul taccuino: Baldanzi dell’Empoli e Pafundi dell’Udinese (“Per lui dieci milioni li offrirei”). Suggestioni letterarie: Garcia Marquez, Kafka, Camus e Joyce: "Ora voglio rileggere l’Ulisse”. E tutto il resto è vita e metafora, "luce sui tetti di Roma" e "rumore di bottiglie rotte", sesso (“negli anni di Roma lo facevo sempre fumando”) e sigaretta elettronica. “Le Marlboro non le posso più fumare…”. Sistemati i fantasmi del passato, c'è un ritorno nel calcio da preparare e un sogno, furioso e fumoso: “Vorrei avere i polmoni di un bambino…”

Francesco Persili per Dagospia il 15 aprile 2023

Cellino, Sarri, la Champions. Walter Sabatini, ex direttore sportivo di Lazio, Inter, Roma, irrompe a “Deejay Football Club”, il programma di Ivan Zazzaroni e Fabio Caressa su Radio Deejay, e parla a tutto campo. “Non mi chiamate guru, non lo sono…”. Si comincia dal libro che ha dato alle stampe per Piemme “Il mio calcio furioso e solitario”. Furioso o fumoso? “Fumoso no, furioso. Come sono io di spirito”.

 Un personaggio shakespeariano, sigaretta, barba incolta, dilaniato tra il tormento e l’estasi, sempre in bilico tra epica e tragedia, l’uomo del miracolo Salernitana definisce la sua fatica letteraria “involontaria”: “Stavo vivendo un momento di disorientamento totale, a luglio non sono abituato a non fare nulla e per esorcizzare il vuoto ho iniziato a dettare questi pensieri disordinati attraverso Whatsapp. Pian piano ha preso corpo e sostanza un libro che, forse, non è male”.

Sabatini non risparmia una stoccata a Cellino che a “Report” ha raccontato di aver bruciato un faldone con le fideiussioni false quando era presidente di Lega: “Un gesto inconsulto, lui è un tipo bizzarro, non so perché abbia raccontato queste cose”.

 Sulle squadre italiane in Europa: “Siamo forti, il calcio italiano è vituperato ma è competitivo, la serie A è di ottimo livello, formidabile. Le nostre squadre se la giocano con i top club d’Europa anche perché abbiamo i migliori allenatori in Italia. Non hanno bisogno di grandissimi calciatori. Sono maestri di tattica e bel gioco”.

Non solo il Napoli di Spalletti anche la Lazio di Sarri, “un esponente pregiato” della scuola dei tecnici italiani. Affronta temi che altri trascurano, come le condizioni del terreno di gioco, i calendari: “C’è una consistente poesia in questo e anche un fattore di nostalgia. Il calcio deve restare attaccato alle tradizioni. Una volta il campo era sacro. E i custodi urlavano se entravi sul terreno di gioco con le scarpe normali”.

 La favorita per la Champions? “Il Napoli. Anche se la lotta fratricida con il Milan non ci voleva…”. Anche in questa occasione non riesce a non parlare della Roma, “il mio grande amore, un frammento grandioso della mia vita. I ricordi più feroci sono legati ai giallorossi”. Infine, la promessa: “Torno presto. Come fa il calcio a stare senza di me?”

Estratto dell'articolo di Emanuela Audisio per "Il Venerdì di Repubblica" il 12 aprile 2023.

Il cacciatore di piedi ha scritto il suo primo libro: Il mio calcio furioso e solitario (Piemme). Walter Sabatini, 67 anni, umbro, ex giocatore, insolito direttore sportivo, tra i più famosi d'Italia […] si racconta. Del suo mestiere troverete poco: compra, vende, presta calciatori, scopre talenti nel mondo. Dei suoi traumi tutto.  Avviso ai librai: non mettetelo nella sezione sport. […]

 Scrive: non volevo essere quello che gli altri hanno raccontato.

" Vero. Niente caricatura di me stesso: il fumatore e il lettore incallito, l'uomo dei vizi, dei tre pacchetti di sigarette e dei 15 caffè al giorno, delle citazioni letterarie, lo sciamano del calcio, quello che non riesce a separare la vita dalla palla che rotola, che passa le notti al telefono, che non tralascia di aspirare niente Vi prego, non voglio essere una macchietta, anche se ho fatto di tutto per suicidarmi, senza successo. Il mio corpo è ferito perché non gli ho risparmiato niente, l'ho usato, ne ho abusato, ho vissuto tutto con lui: sesso, scontri, rabbie, viaggi.

Ma ho sopravvalutato le mie energie pensando di poter far tutto, anche con stress e polmonite, e anche dopo l'asportazione di un tumore. […] Sono stato due volte in coma, con la dottoressa che continuava a ripetere: lo perdiamo. Io invece volevo rischiare di vivere e puntare sulla mia bassa (per gli altri) percentuale di riuscita. Azzardare mi piace, ma le mie coronarie dimostrano che non sono un duro […]".

 […]

Però i direttori sportivi non scrivono di tramonti alla Pessoa.

"[…]Leggere aiuta, dilata i pensieri, consola, anche perché nessuno è soddisfatto della propria vita. Il libro è per mio figlio Santiago che ha 18 anni, l'ho scritto al cellulare, inviavo le frasi via WhatsApp a un'amica, l'avvocata Angelica Alessi, che le trascriveva al computer e mi rimandava il file. Mi è servito perché per la prima volta a luglio e ad agosto, mesi non di vacanza per chi fa il mio mestiere, mi sono trovato senza calcio di cui occuparmi. Avevo bisogno di ritrovarmi, ero in crisi d'identità[…]".

 Il gesto di violenza di suo padre Remo?

"Capitò una volta sola, io e mia sorella sentimmo urla provenire dalla cucina. Trovammo mia madre Lina, disperata, in lacrime. Lui l'aveva picchiata. Andammo subito in treno dai nonni, mio padre venne a riprenderci, provò a raccontare un'altra versione della storia, lo smentii, mi diede un buffetto, non so quanto amichevole[…]. Restò un episodio isolato, […]".

Suo padre lavorava alla Perugina e profumava di cioccolato.

"Sì, ma aveva avuto un incidente stradale, forse trascurato, che l'aveva cambiato, aveva spesso attacchi, crisi e depressioni. Da piccolo mi lasciava guidare la sua Seicento in cortile, un giorno aprii il cassetto del cruscotto e trovai una sua lettera indirizzata a mia madre dove si diceva che in caso fosse morto non doveva accettare aiuto da parte di nessuno. Ci rimasi male, voleva suicidarsi? Non ne parlai mai con lui, ma per me fu terribile. […]".

Poi arrivò la tragedia di Curi, suo compagno nel Perugia.

"Renato morì durante la partita contro la Juve, nell'ottobre 1977, tradito dal cuore. Aveva solo 24 anni. Iniziò a piovere, cadde a faccia in giù su una pozzanghera. Ero in panchina, gli altri credevano gli avesse ceduto il ginocchio, io no, capii subito, dal suo viso nel fango, rientrai nello spogliatoio sapendo che era morto. […] Quella notte per stordirmi mi ubriacai di whisky, scrissi anche una poesia, sulla ferocia dell'ingiustizia. Ci penso sempre: io sono vivo, lui no".

Vogliamo virare verso la vita?

"Non ce la faccio, mi sento colpevole di tutto, di ogni sconfitta, di qualsiasi cosa capiti attorno a me, anche delle macerie, di non aver portato lo scudetto alla Roma, di aver tolto un sogno alla gente, quella cosa che non successe mi pesa e mi marchia. Abbiate un po' di pazienza, rispondo. Chissà se tutto nasce dal giorno in cui dissi no alla merenda di mio nonno.

 Avevo 12 anni, mi allenavo sul campo della Nestor Marsciano, abbastanza lontano da casa, lui già vecchio e malato, era venuto a portarmela, io stizzito, la rifiutai, non volevo essere preso in giro dai compagni. Vidi il nonno andare via deluso e sconsolato, poco dopo morì".

Non è per senso di colpa però che spesso lascia gli incarichi.

"Nel libro parlo di esagerate interruzioni consensuali. Non sopporto chi insulta i miei uomini, anzi non lo permetto. Saputo, il presidente del Bologna, ha urlato: questa è una squadra di merda. Per messaggio gli scrivo che il responsabile sono io e che ci sta che me ne vada. Lui il giorno dopo concorda. Alla Sampdoria ho fatto quasi a botte con il presidente Ferrero perché inveiva contro l'allenatore Giampaolo dopo una brutta partita persa a Bologna.

A Perugia ho litigato con Alessandro Gaucci perché senza avvisarmi aveva mandato via un collaboratore. In otto mesi mi sono escluso da due grandi società, Roma e Inter. Tendo a essere una persona libera, anche se schiava di molti vizi; quando Adriano Galliani, molto simpatico, mi cercò per il Milan, non se ne fece nulla perché lui mi avvisò".

Di cosa?

"Che Berlusconi era il primo direttore sportivo del Milan, lui Galliani, il secondo, io Sabatini sarei stato il terzo. Grazie, risposi, resto alla Roma. Sempre più i presidenti vogliono fare il loro calcio, ma io sono un Ds vero, non si tratta di avere idee vecchie o nuove, ma di giuste priorità. […]".

 In coma farmacologico lei sognava il calcio.

"Sì, nel mio delirio ero arrabbiato perché non mi passavano la segreteria vaticana, sapevo che papa Francesco, da tifoso, stava cercando di rafforzare la squadra del San Lorenzo. E non vengono a chiedere consigli a me sul mercato argentino?".

Aspetta ancora una chiamata?

"Sì, sono fermo da un anno, ho crisi di astinenza, ma sono anche curioso di questo libro. Voglio sia un successo, non posso sopportare un fallimento. Avevo scelto un altro titolo: Ero nebbia, pubblico e pallone. È la mia immagine del calcio. L'importante è che mio figlio Santiago capisca. Lui è il mio guardrail, prova a salvarmi, ogni volta che mando a sbattere la mia vita".

Guillermo Ochoa.

 Estratto dell'articolo di Carlos Passerini,Monica Scozzafava per il “Corriere della Sera” il 20 Gennaio 2023.

[…] Per fare il turista, spiega Guillermo Ochoa, 37 anni, iconico portiere messicano ingaggiato dalla Salernitana a gennaio, c’è tempo. Dopo aver disputato il suo quinto Mondiale ha accettato una sfida complicata — è reduce da una settimana da brividi: ha preso 8 gol dall’Atalanta, l’allenatore Nicola è stato esonerato e poi richiamato — con convinzione assoluta: «Ne ho viste tante per abbattermi. Dispiace, certo. Ma il calcio è così. Quando cadi così male, ti rialzi e sei ancora più forte. Dopo aver perso 8-2 si può solo migliorare. Non crede!?».

Lei ci crede?

«Sono qui per giocare, voglio concentrarmi sull’obiettivo salvezza. La serie A è un sogno. Qui sento la stessa passione della mia terra per il futbol, che è vissuto come una religione. […]».

 […] La serie A come un sogno, dice. Eppure il nostro campionato non è più quello di trent’anni fa.

«Non sono d’accordo, la serie A è sempre la serie A. Solo che adesso ci sono anche altri campionati di alto livello, come la Premier, mentre prima c’eravate solo voi. I campioni oggi hanno più scelte».

 […]

Buffon è ancora il più forte al mondo?

«La categoria non importa. Gigi è una leggenda, infatti a 45 anni gioca ancora. Un campione infinito. Il mio mito d’infanzia. Se gioco in porta, è per lui».

 […] Di lei dicono che è il migliore ogni 4 anni, perché ai Mondiali para tutto, ma nei club non ha avuto una carriera di primissima fascia.

«Il mio problema è stato uno solo: il passaporto. Fino a tre anni fa ero extracomunitario e difficilmente le grandi squadre prendono un extracomunitario in porta, preferiscono tenere il posto per un attaccante. Ma mi hanno sempre cercato».

[…] È vero che punta al sesto, che sarebbe il record l’assoluto? Nel 2026 avrà 41 anni. Obiettivo o sogno?

«Tutti e due. Mi sento in forma, voglio provarci. Si giocherà nel mio Messico, oltre che in Usa e Canada. Sarebbe un finale di carriera splendido».

[…]

Quando si parla del suo, di Paese, spesso ci si sofferma sulla violenza. Col rischio che poi non si veda tutto il resto.

«È come per l’Italia, no? Pizza, mafia. Il Messico per chi non lo conosce è tre cose: tequila, narcos, Cancun. Un po’ è colpa delle serie televisive, che mitizzano la violenza. Amo il Messico[…]: voglio mostrare che il mio Paese non è solo sparatorie. Siamo una terra piena di storia e di arte. […]».

È vero che ha sei dita?

«Ancora con questa storia! È uno scherzo, in Messico il 28 dicembre si festeggia una cosa che è come il vostro pesce d’aprile, sui giornali e in tv tutti scherzano e dicono cose non vere. Il mio segreto sono le sei dita? Magari. Sono solo cinque, ma ben allenate».

L’AVELLINO.

Giorgio Perinetti, morta la figlia Emanuela: aveva 34 anni. Libero Quotidiano il 30 novembre 2023

Aveva 34 anni Emanuela Perinetti e nonostante abbia lottato con tutta se stessa, la malattia che l'aveva colpita ha avuto la meglio. Emanuela si spenta ieri in ospedale dove era stata ricoverata per l'aggravarsi delle sue condizioni. La giovane donna era una influencer, una figura molto nota nel mondo calcistico, dove si era fatta strada dopo la laurea in "Innovation Management" conseguita alla Luiss, specializzandosi poi nel tempo proprio nello sport. Ma Emanuela era anche la figlia adorata di Giorgio Perinetti, direttore tecnico della squadra di calcio dell'Avellino, ex dirigente anche di Roma, Napoli e Juventus.  

Perinetti ha vissuto da vicino il dramma della perdita di sua figlia, tornando a Milano nel pomeriggio per starle accanto. Il dramma consumatosi nella giornata di ieri si aggiunge al lutto affrontato da Perinetti dopo essere rimasto vedovo di Daniela Logiudice, deceduta il 5 giugno 2015 all'età di 49 anni. La scomparsa di Emanuela è stata appresa al termine del match Avellino-Juve Stabia, valevole per la coppa Italia di Serie C. 

È morta Emanuela Perinetti. Riccardo Luna su La Repubblica il 30 Novembre 2023

È morta Emanuela Perinetti, aveva 34 anni. Probabilmente l'avete letta qui, su Italian Tech o su Green & Blue; o l'avete vista sul palco dei nostri festival che moderava dei panel dedicati allo sport. Lo sport, e in particolare il calcio, erano la sua passione. L'avevo conosciuta nel 2009 quando lanciai Wired. Lei era a Seul, giovanissima, a fare un corso di specializzazione. Ai tempi Wired era una calamita irresistibile per i curiosi, gli innovatori, gli ottimisti. Emanuela rientrava in tutte e tre le categorie. Mi scrisse su Facebook e il suo modo di fare mi conquistò come poi ho visto conquistava tutti. Da allora mi aveva iniziato a chiamare "il mio direttore", anche se non lo ero ma in un certo senso lo sarei diventato molti anni dopo. Nel 2011 lasciai Wired per fare mille altre cose e lei tornò in Italia per applicare quello che aveva imparato in Corea del Sud, soprattutto sul marketing e il digitale, alla sua passione sportiva. Quando nella primavera del 2021 sono tornato in GEDI per lanciare Italian Tech abbiamo finalmente iniziato a collaborare; e la collaborazione si è fatta più fitta quando ho preso anche la direzione di Green & Blue. Era assolutamente convinta che lo sport dovesse fare di più sul tema della sostenibilità e mi aiutò moltissimo lo scorso aprile a montare la petizione "capitani per il clima", una raccolta firme per chiedere alla Lega calcio di far scendere in campo i capitani con una fascia dedicata al cambiamento climatico in occasione della Giornata della Terra. I capitani (Pessina, Berardi, Calabria) li chiamò e convinse tutti lei; e lo stesso fece con Del Piero, che per lei era solo Alex, e che solo per lei credo accettò di guidare la petizione. A giugno al Festival di Green & Blue ci incontrammo dopo tanto tempo e la vidi magrissima, pensai ad una dieta sbagliata, non potevo credere che stesse male, non con la sua vitalità, non con il suo buon umore. Abbiamo passato l'estate a mandarci messaggi sul nostro sogno di organizzare in Italia una partita di calcio carbon neutral. Lei aveva uno strano modo di mandare messaggi: erano solo vocali ed erano "a rate", ogni dieci secondi chiudeva e ne aggiungeva un altro e poi un altro. Era snervante. Ricordo che a settembre glielo dissi e lei mi raccontò per la prima e ultima volta della sua malattia e di come l'entusiasmo in tutto quello che faceva la aiutasse a tenerla a bada. Ricordo che fu attenta a ribadirmi che non mi voleva spaventare, non mi voleva commuovere: me lo diceva solo per affetto, perché tanto ce l'avrebbe fatta. Ero choccato, ma pensai anch'io che ce l'avrebbe fatta. 

Qualche sera fa speravo di rivederla. Allo stadio Olimpico giocava l'Italia e lei non si perdeva mai un match importante. Le scrissi: dove sei? E lei: "Con un cliente, per una volta gli ho dato la precedenza". Era strano. Ora che è arrivata la notizia della sua morte improvvisa, penso che quel cliente fosse la morte e che lei semplicemente non me lo avesse voluto dire per non spaventarmi e non commuovermi e perché avevamo ancora un sacco di cose da fare. Era una gran bella persona, Emanuela.

Viola Giannoli per la Repubblica - Estratti sabato 2 dicembre 2023.

«Non riesco a capire, non riesco a farmene una ragione, non è possibile andarsene così giovani». Il dolore di un padre che ha appena perso una figlia morta d’anoressia a 34 anni è il dolore di Giorgio Perinetti, ds storico della Roma, ora responsabile dell’area tecnica dell’Avellino. 

Emanuela Perinetti era una marketing manager, un’appassionata di sport, una delle italiane più influenti del digital italiano e una donna che da tempo soffriva di anoressia.

Nonostante questo “Manu”, così la chiamava il padre, aveva creato «un mondo di affetto e un tesoro di stima», espresso in decine di messaggi privati e di ricordi in rete: «Parole che si riferivano alla sua gentilezza, al suo spirito innovativo, alla sua voglia di fare». «Le avevo detto — ha raccontato alla Gazzetta papà Giorgio — di una promessa fatta alla mamma (morta nel 2015 per un tumore al seno) di vederla guarire, mi diceva che ce l’avrebbe fatta. Invece l’altro giorno, quando mi ha detto che aveva “parlato” con lei, ho capito che non c’era più nulla da fare».

Era in cura, Emanuela, «i medici hanno fatto il possibile, sono stati bravissimi, lei mi diceva che andava tutto bene per tranquillizzarmi», ha detto il padre. Ma una decina di giorni fa la manager è stata ricoverata per una caduta. Il suo corpo era troppo debole. Giovedì è morta.

E ora che non c’è più restano le parole laceranti del padre, ieri al funerale nella basilica di Sant’Eustorgio: «È un momento straziante, non abbiamo capito quanto fosse grave la situazione, non ce ne siamo resi conto. Com’è possibile lasciarsi spegnere così? ». Domande dannate e senza risposta: «Non sapremo mai le ombre che hanno creato un disagio così grande che non abbiamo saputo e potuto contrastare». «Ti chiedo scusa — ha detto, rivolgendosi a Emanuela, anche la sorella Chiara — per non aver capito che il modo giusto di starti vicino era quello degli ultimi tempi, prendersi cura e non respingere. E voglio dirti grazie perché anche oggi mi lasci con qualcosa: questa rete di protezione di persone fantastiche. Il freddo di dicembre, di questo in particolare, non mi farà sentire sola». 

(...)

Michela Marzano per la Repubblica - Estratti sabato 2 dicembre 2023. 

Com’è possibile spegnersi così, senza nessun problema economico, professionale o sentimentale? Giorgio Perinetti non si dà pace. Ha perso sua figlia, Emanuela. Che aveva 34 anni, era una manager dello sport e, apparentemente, aveva tutto. Apparentemente, appunto. Visto che soffriva di anoressia e, quando si scivola nella spirale infernale dei Dca , non c’è ragione che tenga, non c’è motivo razionale, non ci sono spiegazioni né giustificazioni né colpe né vergogne. 

(...) C’è un mostro dentro che divora e che obbliga ad affamarsi – se mangi ti anniento! urla il mostro, sebbene sia lui ad annientare; la fame non perdona, la fame consuma, la fame uccide. Chi soffre di anoressia muore di fame, sì, anche se il cibo è lì, a disposizione, basterebbe aprire la bocca e inghiottire, ma come si fa a buttare giù quella roba se dentro c’è una voce che intima di non farlo: dai, forza, resisti, ce la puoi fare, ancora uno sforzo, l’ultimo, domani, forse! anche se domani è di nuovo la stessa identica storia. Non. Puoi.

Anzi, peggio: non devi. Ma perché non devo? Si chiede chi precipita nell’abisso dell’anoressia. Peccato che le risposte tardino e che, pure quando arrivano, siano parziali, bucate, fallaci, approssimative. Poi, per carità, ci sono mille strade che si possono seguire per guarire, come si dice oggi, sebbene non sia affatto chiaro cosa significhi guarire. 

Quand’è che si guarisce? quando si riprende peso? quando papà e mamma smettono di soffrire per causa nostra? quando si riesce a ricominciare a studiare o lavorare? quando ci si fidanza o ci sposa? quando si diventa madri? Per carità, c’è la psicoterapia, c’è la psicanalisi, ci sono gli approcci integrati, cura del corpo e cura dell’anima, ci sono i gruppi di auto-mutuo-aiuto, ci sono i percorsi spirituali, e chi più ne ha più ne metta, ma si guarisce davvero? Una volta per tutte? Per sempre?

(...) Sfido chiunque abbia sofferto di anoressia a dirmi che quel mostro non l’ha mai più sentito, sfido chiunque a dirmi che non si è più sentito in colpa per aver detto (o non detto) e fatto (o non fatto) qualcosa – anche se con il cibo le cose vanno bene, mi giuri che hai smesso di controllare il resto: la pulizia della casa, i conti, il numero di passi, le vasche in piscina, gli articoli che scrivi, le mail cui rispondi, le parole, i pensieri, le opere o le omissioni? Vorrei consolare papà Giorgio, ma faccio fatica. 

È come se avessi di fronte mio padre che, in fondo, non l’ha mai capito come fosse possibile che la sua bambina, che aveva tutto, avesse tutto tranne la gioia di vivere. Dall’esterno non si capisce. E anche dall’interno, ve l’assicuro, non è facile. Perché razionalmente quel tutto c’è. Ma il mostro pretende il contrario. E quella bambina indifesa e triste che sono stata, talvolta cede ancora al mostro e crede a lui, piuttosto che all’oggettività delle cose e a sé stessa, nonostante abbia pian piano (e faticosamente) imparato ad ascoltarmi.

Emanuela Perinetti: qual ‘è la malattia che ha ucciso la giovane. Il papà Giorgio, storico Direttore sportivo oggi all'Avellino Calcio, ha raccontato la sofferenza della giovane: "Ho capito che era finita quando mi ha detto che aveva 'parlato' con la madre". Redazione Web su L'Unità l'1 Dicembre 2023

Ci sono stati oggi i funerali di Emanuela Perinetti, la giovane manager e influencer scomparsa ieri a soli 34 anni. A margine della cerimonia, il papà Giorgio – storico Direttore sportivo del calcio – ha raccontato alla Gazzetta dello Sport che, “Non riusciamo a capire, i medici hanno fatto il possibile. Da tempo stava lottando contro l’anoressia. Lei si preoccupava per me, e mi diceva che tutto andava bene“. Questo il ricordo del padre: “Da bambina mi aspettava dopo le partite, con gli occhi imploranti. Io dicevo: ‘torni a casa con la mamma oppure vieni col papà in pullman fino a Trigoria?’ Risposta scontata, veniva con noi e stava sulle ginocchia di Aldair e gli altri a giocare. L’altro giorno, quando mi ha detto che aveva ‘parlato’ con lei, ho capito che non c’era più nulla da fare. E da allora mi chiedo come sia possibile spegnersi così, senza nessun problema economico, professionale o sentimentale“.

Sono tantissimi i messaggi di affetto e cordoglio per la famiglia Perinetti. Questo è il comunicato dell’Avellino Calcio: “L’U.S. Avellino 1912 si unisce al dolore del proprio direttore dell’area tecnica Giorgio Perinetti, ed a tutta la sua famiglia, per la scomparsa della cara figlia Emanuela“. Ha scritto l’avvocato Giuseppe Tatarella: “Addio Emanuela Perinetti ti ho conosciuta quando ti eri appassionata alla politica fin da giovanissima, con gli occhi pieni di speranza e la tua intelligenza sempre stimolante, eri sempre presente e attiva con i ragazzi di Generazione Futuro. Ti ho visto crescere negli anni con la stessa passione per il tuo lavoro. Eri una persona di cuore e oggi i cuori di tanti sono costretti a darti un addio inaspettato e ingiusto. La terra sia lieve amica mia, ci mancherai tanto“. Il commentatore sportivo Xavier Iacobelli ha pubblicato sui social: “Emanuela Perinetti, non ci sono parole. Solo lacrime e dolore. Un abbraccio fortissimo a Giorgio Perinetti e ai suoi Cari. Una preghiera infinita per Emanuela“.

Ma non si contano i commenti e i post dedicati ad Emanuela da parte di amici, tifosi ed esponenti del mondo della comunicazione e del marketing. La giovane è stata descritta come una persona allegra, buona, determinata, forte e solare. La Perinetti aveva anche un profilo Instagram molto attivo con il quale aggiornava i suoi 16.200 follower sulle sue attività mantenendo con loro un contatto diretto. Diverse le foto e le storie condivise, numerose le interazioni del pubblico. Proprio sul social media proprietà di Meta, la famiglia Perinetti ha pubblicato una storia con le informazioni relative al funerale della 34enne.

Emanuela Perinetti: il profilo Facebook

Ma Emanuela Perinetti era molto attiva anche su Facebook. Il suo profilo è ricco di contenuti, soprattutto pubblicazioni di fotografie. Tantissime le interazioni. Dal giorno della sua scomparsa la bacheca della giovane è stata inondata dall’affetto di chi la conosceva, da parte di amici e colleghi ma hanno scritto anche molti utenti ‘comuni’. Questi ultimi colpiti dalla vicenda, hanno voluto esprimere la propria vicinanza all’influencer 34enne e alla sua famiglia.

“Per chi volesse salutare Manu, i funerali si terranno domani (oggi, ndr) alle ore 14.45 presso la basilica di San Eustorgio a Milano. Non ci sarà camera ardente. Si dispensa dai fiori, ma se vi fa piacere dedicate un pensiero a una fondazione che avete a cuore, come avrebbe voluto lei. Grazie mille, famiglia Perinetti“, questo il testo che ha accompagnato la storia postata dalla famiglia Perinetti sul profilo Instagram di Emanuela. Dunque l’appuntamento per l’ultimo saluto alla giovane manager è previsto domani a Milano.

Emanuela Perinetti: gli studi alla Luiss e la carriera

Era il 2018 quando Emanuela Perinetti è stata inserita nell’elenco delle 150 donne più influenti del digital italiano. L’influencer, esperta anche di editoria online, viveva a Milano ma la sua formazione professionale è avvenuta a Roma. Proprio nella capitale la 34enne si è laureata in ‘Innovation Management‘ alla Luiss, dove ha conseguito anche un master. Poi l’inizio della carriera nel settore del marketing e della comunicazione, in particolare in quello del management sportivo. La Perinetti è stata general manager della Sport Business Unit di Sports Dots (Prodea Group) nonché co-founder di Cucu Sports e Stadeo, società che aveva collaborato con Romagiallorossa.it.

Lunghi i post pubblicati da rispettivamente da Riccardo Luna e Martina Pennisi: “È morta Emanuela Perinetti, aveva 34 anni. Probabilmente l’avete letta qui, su Italian Tech o su Green & Blue; o l’avete vista sul palco dei nostri festival che moderava dei panel dedicati allo sport. Lo sport, e in particolare il calcio, erano la sua passione. L’avevo conosciuta nel 2009 quando lanciai Wired. Lei era a Seul, giovanissima, a fare un corso di specializzazione. Ai tempi Wired era una calamita irresistibile per i curiosi, gli innovatori, gli ottimisti. Emanuela rientrava in tutte e tre le categorie. Mi scrisse su Facebook e il suo modo di fare mi conquistò come poi ho visto conquistava tutti. Da allora mi aveva iniziato a chiamare ‘il mio direttore’, anche se non lo ero ma in un certo senso lo sarei diventato molti anni dopo.

Nel 2011 lasciai Wired per fare mille altre cose e lei tornò in Italia per applicare quello che aveva imparato in Corea del Sud, soprattutto sul marketing e il digitale, alla sua passione sportiva. Quando nella primavera del 2021 sono tornato in GEDI per lanciare Italian Tech abbiamo finalmente iniziato a collaborare; e la collaborazione si è fatta più fitta quando ho preso anche la direzione di Green & Blue. Era assolutamente convinta che lo sport dovesse fare di più sul tema della sostenibilità e mi aiutò moltissimo lo scorso aprile a montare la petizione “capitani per il clima”, una raccolta firme per chiedere alla Lega calcio di far scendere in campo i capitani con una fascia dedicata al cambiamento climatico in occasione della Giornata della Terra. I capitani (Pessina, Berardi, Calabria) li chiamò e convinse tutti lei; e lo stesso fece con Del Piero, che per lei era solo Alex, e che solo per lei credo accettò di guidare la petizione. A giugno al Festival di Green & Blue ci incontrammo dopo tanto tempo … Abbiamo passato l’estate a mandarci messaggi sul nostro sogno di organizzare in Italia una partita di calcio carbon neutral.

Lei aveva uno strano modo di mandare messaggi: erano solo vocali ed erano “a rate”, ogni dieci secondi chiudeva e ne aggiungeva un altro e poi un altro….Qualche sera fa speravo di rivederla. Allo stadio Olimpico giocava l’Italia e lei non si perdeva mai un match importante. Le scrissi: dove sei? E lei: “Con un cliente, per una volta gli ho dato la precedenza”. Era strano. Ora che è arrivata la notizia della sua morte improvvisa, penso che quel cliente fosse la morte e che lei semplicemente non me lo avesse voluto dire per non spaventarmi e non commuovermi e perché avevamo ancora un sacco di cose da fare. Era una gran bella persona, Emanuela“.

“Sono andata a ripescare le mail del passato, una vita lavorativa (e non solo) fa in quel cantiere-famiglia che era StartupItalia. Emanuela Perinetti, io e te, guidate da Riccardo Luna, avevamo di fatto fondato SmartMoney, insieme. Senza di te non ci sei sarei mai riuscita. Eri appena tornata dalla Corea del Sud dove avevi studiato e toccato con mano quello che io stavo imparando e vedendo solo germogliare in Italia: il Fintech. Ora è roba da libri di storia dell’innovazione. Le mail, dicevo: una domenica mi scrivesti che avevi da pochi giorni saputo della morte di tua mamma. Ti scusavi perché temevi che non saresti stata puntuale con le consegne degli articoli. Nella stessa mail, poche righe dopo, però, ti contraddicevi, promettendo che martedì avresti ricominciato a lavorare, a fare le cose che ti davano gioia, perché anche tua mamma avrebbe voluto così.

‘Forse scriverò anche più di prima!’, concludevi, con due punti esclamativi. Energia, argento vivo, voglia di vivere, di costruire, immaginare, divertirti. Eri incontenibile, oltre il dolore. Le nostre strade si sono separate poco dopo, entrambe avevamo la buona abitudine di non stare mai troppo ferme, ma quei punti esclamativi ho continuato a scorgerli nei tuoi aggiornamenti sui social: chi ti fermava, Manu. In quel mondo del calcio, che adoravi e ti invidiavo persino un pò. Trovavamo ogni tanto il tempo per un messaggio, il progetto di un caffè mai preso, gli auguri di compleanno, il ricordo di un’esperienza o un evento che avevamo condiviso. Non sapevo, non potevo immaginare e oggi stento a crederci. Chi ti ferma, Manu. Con due punti esclamativi“. Redazione Web 1 Dicembre 2023

Lutto nel mondo del calcio: Angelo Carella morto a 73 anni. L'ex attaccante di Lecce ed Avellino Angelo Carella ha militato in Serie A e diversi anni in Serie B. Jacopo Romeo su Notizie.it il 21 Aprile 2023

Il mondo del calcio è in lutto per la scomparsa del 73enne Angelo Carella. L’ex attaccante pugliese era stato uno dei protagonisti del pallone in Italia tra gli anni ’60 ed ’80: l’uomo era in cura da tempo per l’Alzheimer.

Lutto nel calcio: morto l’ex attaccante di Lecce e Avellino Angelo Carella

Angelo Carella avrebbe compiuto 74 anni da qui a poco, il prossimo 4 maggio, ma si è arreso alla malattia che lo aveva colpito tempo fa. L’ex attaccante di Serie A e Serie B italiana era da tanti anni in cura per l’Alzheimer ed è morto nella giornata di ieri a Bari. Il mondo del calcio lo ricorda con estremo affetto.

La carriera di Angelo Carella

Carella inizia la sua carriera nelle giovanili del Bari, poi con il passare degli anni, una volta entrato in prima squadra, aveva ottenuto anche una storica promozione in Serie A. In carriera ha militato anche nel Lecce, riuscendo nell’impresa di essere ammirato da entrambe le tifoserie più calde della Puglia, nell’Avellino e nel Catanzaro. Una volta appesi gli scarpini al chiodo, Angelo aveva inseguito il suo sogno di diventare un allenatore, tornando poi a Bari e mettendosi a disposizione del settore giovanile. Nel periodo in cui Carella era uno scopritore di talenti nel capoluogo pugliese, nelle giovanili del Bari esplodevano, tra gli altri, Antonio Cassano e Nicola Ventola.

Inutili i tentativi del cognato-medico che era a casa con lui. Addio a Mimmo Cecere, l’ex portiere stroncato da infarto mentre pranza con la famiglia. Redazione su Il Riformista il 2 Aprile 2023

E’ stato stroncato da un infarto mentre si trovava a casa dei genitori per trascorrere la domenica in famiglia. Mondo del calcio in lutto per l’improvvisa scomparsa di Domenico Cecere, 50 anni, ex portiere di numerose squadre del sud Italia che hanno militato nei campionato di serie B e serie C. Originario di Caserta, “Mimmo“, così come era chiamato da familiari e amici, si trovava a casa dei genitori nel vicino comune di Carinola quando è stato colto dal malore.

Inutili i tentativi di rianimarlo anche da parte del cognato medico con cui si trovava a pranzo. Cresciuto nel settore giovanile del Napoli, di cui è stato terzo portiere in serie A nella stagione 1991-92, Cecere ha vissuto la fase più importante della sua carriera a difesa della porta dell’Avellino dove ha disputato quattro stagioni ad alti livelli conquistando due promozioni in serie B (2002-2003 e 2004-2005 nelle finali playoff vinte contro il primo Napoli dell’era De Laurentiis e il Foggia.

Ha chiuso la carriera nel 2011 con il Messina, città dove era considerato un idolo, diventando imprenditore e gestore della pizzeria Vulkania di Piazza Antonello. Numerosi i messaggi di cordoglio sui social da parte dei tifosi.

Quando l'Avellino salvò l'Irpinia dopo il terremoto. Da Avellino una storia di speranza legata al calcio dopo uno dei terremoti più devastanti che hanno colpito il nostro Paese. Mauro Indelicato il 13 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Tra le macerie di Malatya, città turca poco più a nord dell'epicentro del terremoto dello scorso 6 febbraio, è stato trovato anche il corpo di Ahmet Turkaslan. Era il portiere della locale squadra di calcio, lo Yeni Malatyaspor. Un club della Serie B turca, campionato anch'esso sospeso come tutti quelli delle varie categorie sportive nel Paese. Aveva 28 anni e i compagni in questi giorni non sono riusciti a trovarlo.

La notizia della sua morte era nell'aria e poi purtroppo puntualmente è arrivata. Adesso il club ha chiesto di non proseguire più la stagione quando le autorità autorizzeranno la ripresa delle attività. Lo staff, la società e i giocatori non riescono a pensare agli allenamenti. Intorno a loro c'è il dolore della famiglia del portiere, ma anche di un'intera città che a distanza di giorni sta continuando a seppellire le proprie vittime.

I morti salgono a 16mila. Erdogan blocca Twitter ma poi lo ripristina

La storia di Turkasan e del Malatyaspor ricordano ancora una volta l'estremo rapporto che c'è tra il calcio e la popolazione. E, nello specifico, di come anche in una fase come questa il calcio può assumere la funzione di amplificatore dei dolori e delle speranze vissute da una specifica comunità.

Avellino–Ascoli, la partita che “salvò” migliaia di persone

Quanto sta accadendo in Turchia riporta con la mente ai tanti scenari simili vissuti nel nostro Paese. C'è però un episodio che più di ogni altro in Italia ricorda l'intreccio tra il mondo del pallone e una comunità che ha appena subito un grave danno. Occorre tornare indietro nel tempo, fino al 23 novembre 1980. Una data che, per chi è del sud, apre subito vasti fronti all'interno della memoria. Quel giorno, alle 19.34, in un'area compresa tra Campania e Basilicata si sviluppa il più forte sisma del dopoguerra nella nostra penisola.

Quella regione è nota con il nome di Irpinia e quella scossa rimane alla storia proprio come terremoto dell'Irpinia. Tra le province di Avellino, Potenza, Salerno, Caserta, Napoli, interi paesi vengono inghiottiti dal terreno e dalla storia. È il più grande disastro naturale dell'Italia repubblicana, ancora oggi una ferita aperta lungo la spina dorsale del mezzogiorno.

Ma quel giorno, fino all'orario del tremore, è una domenica come tutte le altre. Ad Avellino a pranzo sono tutti con le radioline accese: la Serie A si gioca tutta in contemporanea, c'è la sfida tra Juventus e Inter, ma anche la città campana quell'anno gioca nel massimo campionato. Chi non è riuscito a prendere un biglietto per andare al Partenio, tra un dolce e un altro seduto a tavola tifa per i lupi biancoverdi aspettando notizie dalla radio.

La partita di quel 23 novembre è quasi decisiva. Ad Avellino arriva l'Ascoli, diretta rivale per la salvezza. La squadra di casa ha solo due punti in classifica dopo sette giornate. Ma questo perché a inizio campionato la sentenza sullo scandalo Calcioscommesse, la stessa che porta in B Milan e Lazio, assegna agli avellinesi cinque punti di penalizzazione. In casa si deve quindi vincere, diversamente la corsa alla salvezza è solo un miraggio.

Il Partenio è come al solito una bolgia. Anche chi rimane a casa sente le vibrazioni di uno stadio in quegli anni vero fortino biancoverde. Fa molto caldo, nonostante sia novembre sembra quasi estate. I ritmi sono però molto elevati: dopo undici minuti, l'Avellino è in vantaggio con un autogol di Scorza. Dodici minuti dopo però arriva il pari dei bianconeri marchigiani. Juary, il brasiliano biancoverde, non ci sta e al 34' insacca per il nuovo vantaggio dei lupi. I quali poi dilagano con Ugolotti all'inizio del secondo tempo. Una partita dominata, ma con gravi disattenzioni difensive, tanto che l'Ascoli si rifà sotto con un destro violento di Scanzani. Si teme una beffa, ma un rigore trasformato ancora una volta da Ugolotti chiude i conti.

Una sfida stupenda, sei gol siglati e due punti per l'Avellino in tasca. La gente, uscita dal Partenio, non ha voglia di andare a casa. In Irpinia c'è una sorta di primavera anticipata, si preferisce quindi stare in giro con chi si è condiviso il posto in curva poco prima oppure ricongiungersi con gli amici loro malgrado costretti al pranzo in casa.

Mezza città è per strada tra un commento sulla vittoria e uno sul caldo anomalo di quella domenica, quando le lancette segnano le 19.34. Dirà pochi giorni dopo l'inviato del Tg1 Alberto Michelini, in un servizio trasmesso sul terremoto, che la vittoria dell'Avellino ha forse salvato centinaia di vite. In tanti, quando lo scossa inizia a far tremare l'intero sud Italia, sono ancora in giro con la sciarpa biancoverde al collo.

Lo "scudetto irpino", un miracolo partito dopo il terremoto del 1980

Avellino nel novembre 1980 assume l'aspetto che oggi hanno Kahramanmaras o Malatya. Città capoluogo o comunque importanti di una zona terremotata, vicine l'epicentro e con la vita quotidiana costretta a lasciar spazio all'emergenza. La città campana vede il proprio centro storico sventrarsi tremore dopo tremore, piange quasi cento vittime, diventa spettrale nelle sere successive a quel 23 novembre. Ma è anche un punto focale fondamentale per i soccorsi, uno snodo da cui partono mezzi, sacchi, scatole di cibo e medicine verso il cuore dell'Irpinia. Verso quel ventre molle del mezzogiorno colpito nell'oscurità di quella domenica di novembre.

Lo stesso stadio Partenio si trasforma: da fortino biancoverde, in pochi giorni diventa dimora per gli sfollati, nelle gradinate non ci sono i tifosi, ma i soldati dell'esercito che coordinano i soccorsi. E in campo, non ci sono i giocatori ma le tende che accolgono chi ha perso tutto.

Così come oggi nella Turchia meridionale, anche ad Avellino e in Irpinia in quel momento non sembra esserci spazio per il calcio. Troppo il dolore, troppo il senso di distruzione che serpeggia nell'animo di milioni di abitanti. Eppure, proprio da quel momento, iniziano a fiorire all'interno dello spogliatoio dell'Avellino i semi di un miracolo sportivo.

Il caso vuole che la squadra, nelle due domeniche successive al sisma, giochi in trasferta. Una partita è a Pistoia e un'altra è ad Udine. Racconterà il capitano di quell'Avellino, Salvatore Di Somma, che in quelle due trasferte non c'era testa per giocare. E infatti i biancoverdi perdono e sembrano dover dire addio a ogni speranza di salvezza.

Ma quel ciclo nella massima serie dell'Avellino non è destinato a finire così, proprio nel momento più tragico della storia della città. La squadra, al cui timone c'è il presidente Antonio Sibilia (imprenditore non certo lontano da “chiacchiere” e gravi sospetti giudiziari), è in A dal 1978. Ha già conseguito tre salvezze di fila ma non vuole mollare.

In panchina siede il brasiliano Luis Vinicio, uno a cui il nuovo calcio totale degli olandesi non dispiace affatto applicarlo in Italia. In porta, finita l'era di Ottorino Piotti, arriva un giovane di belle speranze: è Stefano Tacconi, un nome che non ha bisogno di presentazioni e che alcuni anni dopo sarà parte integrante della storia della Juve di Trapattoni. In estate dal Verona, per curare la regia di centrocampo, arriva Beniamino Vignola, anche lui futuro giocatore bianconero. La difesa è puntellata da capitan Di Somma. In avanti c'è il giovane Andrea Carnevale, l'esporto Mario Piga e poi il primo acquisto straniero dopo l'apertura del calciomercato ai giocatori provenienti dall'estero: si tratta del brasiliano Juary.

Sono loro a spingere l'Avellino quando i biancoverdi sono costretti all'esilio al San Paolo di Napoli. Qui il 28 dicembre la squadra blocca la Juventus sul pari. Poi arriva un punto anche contro l'Inter a San Siro, finalmente infine si rientra al Partenio. Il ritorno della Serie A ad Avellino segna il ritorno della normalità. La città è ancora devastata, tutto attorno è un cumulo di macerie, ma la gente può tornare, proprio come poche ore prima del sisma del 23 novembre, a scaldarsi tra le gradinate dello stadio.

Arriva una vittoria contro il Bologna, poi contro il Brescia, contro il Torino, contro il Perugia. Il pubblico vede nei biancoverdi un riscatto dalle ferite fisiche e morali del sisma. Squadra e città sono un'unica cosa, un'unione indelebile e quasi imbattibile. Assieme spingono verso una salvezza da ottenere con una lunga e interminabile rincorsa.

Rincorsa a cui manca, il 24 maggio del 1981, l'ultima spinta. Quel giorno all'Avellino manca solo un punto, da ottenere all'ultima giornata, per salvarsi. Ma al Partenio arriva la Roma. La stessa squadra che due settimane prima manca l'aggancio alla Juventus in testa alla classifica per il gol annullato a Turone nello scontro diretto. I giallorossi sono ancora in corsa per lo scudetto e credono nel tricolore. Lo mette in chiaro Falcao, il quale dopo cinque minuti segna il gol del vantaggio ospite.

Quello però, per l'appunto, non può essere il finale per un Avellino più forte anche del terremoto. E infatti al minuto 29 Venturini sigla il pareggio. Il Partenio esplode e poi trattiene, ancora una volta, il fiato. Il pareggio gli uomini di Vinicio riescono a gestirlo. Fino alla fine. Fino alla realizzazione del miracolo. Di quello "scudetto irpino" passato alla storia non solo calcistica della regione. La Serie A, in una città ferita dal sisma, rimarrà fino al 1988. La salvezza del 1981 ha però un sapore diverso. È quello della speranza, la stessa che oggi tramite il calcio potrebbe arrivare anche in Turchia.

IL FOGGIA.

Oronzo Pugliese, il "mago dei poveri" che ispirò Canà e sconfisse Herrera. Paolo Lazzari il 30 Settembre 2023 su il Giornale.

Frenetico in panchina, debordante nell'eloquio, motivatore eccelso di combriccole di provincia: il suo approccio al calcio era cinema puro

Corre come se avesse un demone alle costole, su e giù lungo la linea laterale. Praticamente a fine partita avrà fatto più chilometri lui di molti dei suoi ragazzi. Poi si precipita in sala stampa, dove annichilisce gli sventurati giornalisti con quel suo eloquio vorticoso e debordante, sempre teso a pungolare allo spasmo squadre dal bagaglio tecnico modesto, rivedibile. Perché Oronzo Pugliese è fatto proprio così: impetuoso, genuino, pragmatico. Uno spasso per i media del tempo, ma anche un formidabile prestigiatore di provincia.

Era nato a Turi nel 1910, Oronzo, nella Puglia più profonda. Il calcio l'aveva subito sedotto in modo irreversibile: tambureggiava sul muro della parrocchia da pargolo e sarebbe diventato giocatore dignitoso in seguito, seppur sempre attraversando contesti figli di una divinità cadetta. Poi però c'era stata quella svolta, una volta appesi gli scarpini. Si era scoperto che lui in panca ci sapeva fare alla grande. E allora aveva iniziato a guidare una sequela di squadre mezze sfasciate, glassate di provincialismo, munite di ambizioni ridotte. Puntualmente, le aveva trascinate ben oltre le attese ipotizzate dai diagrammi, subito dissipando i dubbi della gente. Spruzzava fiotti di speranza calcistica sui cuori malandati di chi non aveva vinto mai ed era sul punto di insorgere.

Poi lo aveva chiamato il Foggia di Domenico Rosa Rosa - per i più intimi Mimì - industriale del legno che mica ci stava a vedere la sua creatura ancorata agli abissi della serie C. Avrebbe allenato ragazzi che di cognome facevano Santopadre e Stornaiuolo, Corradi e Bartali e poi tutti quegli altri. Era una piazza depressa, disperatamente alla ricerca di un guizzo, di una nuova e più ambiziosa ragion d'essere. Oronzo non si era fatto pregare. Gestuale e strillante da bordo campo, torrenziale nelle arringhe pre partita, sempre elegante eppure semplice. "Mi dicono che sono un allenatore provinciale - sbottò una volta - ma che significa? Non ho una laurea in Giurisprudenza e o in qualche altra diavoleria, è vero. Ma una laurea in calcisticheria ce l'ho!".

Poderosamente persuaso dei suoi mezzi, era riuscito nella miracolosa impresa di far credere ai suoi - pressoché ovunque allenò - che potevano rendere almeno il venti per cento in più di quello che stavano facendo. Trascinò il Foggia in B, poi agganciò anche la serie A. Ed è qui che conquistò un'onorificenza che l'avrebbe accompagnato per sempre. Successe quando sfidò la monumentale Inter del Mago Helenio Herrera, quella dei Sarti, dei Facchetti, dei Burgnich, del primo triplete. Il suo Foggia la sconfisse per 3-2 e subito i giornali gongolarono.

"Il mago di Turi", titolò qualcuno. "Il mago dei poveri", disse qualcun altro. Nel frattempo gli assegnavano il Seminatore d'oro, il riconoscimento più alto che un allenatore potesse immaginare. Ci era arrivato armato di un convincimento che venerava ossequiosamente: i più deboli possono sempre battere i più forti. Alla fine si tratta di undici uomini contro undici uomini.

I tratti più esasperati del suo carattere ispirarono, molti anni dopo, la mitologica figura di Oronzo Canà, l'allenatore nel pallone impersonato da Lino Banfi. Anche se forse Pugliese avrebbe pensato che sarebbe stato preferibile un prestigiatore: la vera magia, in fondo, è quella di riuscire a fare tanto con molto poco.

IL BARI.

Pietro Maiellaro compie 60 anni: «Difesi Maradona dal mio compagno che lo picchiava. E lui: adesso lo meno io». Davide Grittani su Il Corriere della Sera giovedì 28 settembre 2023.

Il "poeta" di Candela riavvolge il nastro della sua carriera nel mondo del calcio, da Diego a Batistuta, dal "sì" sofferto a Matarrese ai viaggi senza patente

Pietro Maiellaro, che direbbe a suo figlio se lo sorprendesse a guidare senza patente?

«Non scherziamo! Lo prenderei a sberle… ».

Cominciamo con le bugie?

Breve pausa, poi ride. E poco dopo confessa. «Meh, quattro o cinque anni ho guidato anch’io senza patente, poi però l’ho presa. A 24 o 25 anni, non ricordo».

È vero che quando la fermavano diceva «… io sono Maiellaro»?

«Qualche volta è successo, perché negarlo. Ma sempre con simpatia, senza arroganza. Non mi appartiene».

Ci vuole un po’ prima che si sciolga del tutto e accetti il corpo a corpo di un’intervista in suo onore («addirittura», si schernisce), per celebrare i sessant’anni - li compirà domani - di un docile burbero dotato di uno straordinario talento. «Il poeta» lo chiamavano, ma anche «lo zar». Aveva piedi così bene educati al calcio («non al pallone», chiarisce) che i più grandi intenditori ancora non si spiegano perché non sia approdato in una big.

In realtà stava per succedere?

«Mi volevano Juve, Inter, Roma e molti altri club di serie A».

E poi?

«Con la Roma sembrava che dovessimo chiudere da un momento all’altro, poi non successe. Il giorno prima della firma col Bari ero nella sede della Roma, per chiudere coi giallorossi».

E invece nell’estate 1987 fu ceduto al Bari per 2,3 miliardi di lire, e Taranto (dove giocava) insorse. Cortei e manifestazioni di protesta, un po’ come quando Baggio passò dalla Fiorentina alla Juve. Se le ricorda quelle ore, belle e drammatiche?

«Sono stato 5 ore e mezza nella sede del Bari, non volevo firmare. Non ne ero convinto, in realtà volevo andare alla Roma. Poi mi parlò l’allora presidente del Taranto (Vito Fasano, ndr) in lacrime: “Sai Pietro, a noi i soldi della tua cessione servono per salvare il club, sennò non possiamo iscriverci al campionato”. Allora firmai, andando al Bari che poi è rimasto nel mio cuore, sia chiaro. Qualche giorno dopo sono dovuto tornare a Taranto, a prendere le mie cose dall’armadietto. Mi hanno nascosto nel baule di una macchina per non farmi riconoscere, perché la gente sotto la società era inferocita, protestava per la mia cessione. È stato un momento anche drammatico, come dice lei».

Quanti soldi ha guadagnato?

«Beh, ne ho guadagnati. Ma ne ho fatti anche guadagnare, gliel’assicuro».

Li ha spesi tutti o qualcosa le è rimasta?

«No no, mi è rimasta qualcosa» sorride ancora. Poi sospira: «Ma vide ‘a quist’».

Quanto?

«Sono stato e ancora sono una persona generosa, che ha speso tanto anche per aiutare gli altri».

Eppure a Candela – dove «lo zar» è nato il 29 settembre 1963 – da piccoli addomesticano all’arte del risparmio, alla filosofia della formica che durante l’estate mette da parte per quando arriverà l’inverno. Nato nel cuore subappennino, è a Lucera che ha cominciato a innamorarsi del pallone. «Per cortesia, non banalizzi anche lei. Del calcio… ». Ma è a Bari che Pietro Maiellaro deve tutta la sua fortuna, di uomo e professionista. Il 24 marzo 1991 da 40 metri segnò un gol (al Bologna) che rimarrà in eterno nella cineteca biancorossa (come quello di Cassano all’Inter) e in quella del calcio italiano. Era un campionato di A, l’ultimo con Diego Armando Maradona.

Com’è stato giocare contro di lui?

«Meraviglioso, chi ha giocato con o contro lui non può che ritenerlo un dono. Ti dava la sensazione che potesse fare qualsiasi cosa da un momento all’altro, giocava con libertà, aveva testa e piedi leggeri. Contro il Bari un mio compagno di squadra che lo stava marcando gli tirò qualche calcione di troppo, così feci finta di rimproverarlo: prima di rivolgermi a lui gli feci l’occhiolino, poi gli dissi di andarci “piano contro Maradona”. Ma Diego mi rispose “Pietro, no te preocupes, lui mena a me e io meno a lui”. Era un generoso, non si risparmiava».

E insieme a Gabriel Batistuta?

«Avevi il sentore che fosse un grande, ma al suo arrivo in Italia lo abbiamo aiutato molto. Io e i miei compagni di squadra lo abbiamo sostenuto nei momenti iniziali, quando gli mancavano i fondamentali e aveva difficoltà a fare le cose semplici. Poi è migliorato, fino a fare quello che ha fatto. Non l’ho sentito durante la malattia, ma mi ha citato nella sua biografia. Mi ha fatto piacere, perché eravamo legati».

Cosa aveva Pietro Maiellaro più degli altri?

«Spregiudicatezza. Non mi pesava giocare in A. Forse è stata la strada, da dove vengo e sono cresciuto».

E cosa crede le sia mancato, invece?

«Avrei dovuto essere meno credulone, dare meno credito a chi non lo meritava. Avrei fatto un’altra carriera».

Per esempio, sarebbe andato in nazionale?

«Le ho fatte tutte, le nazionali. Ma non la maggiore. A quell’epoca c’era il ct Azeglio Vicini: molta concorrenza ma anche molti equivoci, falsi campioni. E se dovessi giudicare da quelli che oggi vanno in nazionale, certamente un posto l’avrei meritato anch’io».

L’omosessualità nel calcio di allora?

«C’era, ma non se ne parlava. Era tabù, molto chiacchiere e sospetti. Ma era quasi vietato parlarne».

Pietro Maiellaro, osmosi contemporanea difficile da descrivere. Piedi alla Siniša Mihajlovicć e temperamento alla George Best, talento alla Baggio e visione alla Del Piero. Difficile andare avanti quando il nome che hai tende a trascinarti più nel passato che nel futuro, ma nel frattempo «il poeta» ha messo la testa a posto e definitivamente abbandonato l’eterno infantilismo dei calciatori. «Sono stato una peste, lo ammetto. Ma chi mi vedeva giocare diceva che “lo rimettevo al mondo, che lo riempivo di gioia”. I miei idoli erano Diego Armando Maradona ed Evaristo Beccalossi, oggi di maestri ne vedo pochi, pochissimi».

Quante donne ha avuto? Le ha contate come Cassano?

«Beh, diverse – si abbandona – ma è tutta acqua passata, mo’ però non mi fate litigare con mia moglie».

Com’è il calcio di oggi?

«Un gioco virtuale».

A proposito, se entrasse nella “Hall of fame” della PlayStation che ruolo sceglierebbe? E quale soprannome?

«Il ruolo mio di sempre, trequartista! Il soprannome? Figlio di z… ».

San Siro 1994, quando tutti conobbero il trenino del Bari. Fu l’attaccante Miguel Angel Guerrero ad importarlo nel Belpaese: divenne marchio di fabbrica indelebile dei galletti pugliesi. Paolo Lazzari l’8 Aprile 2023 su Il giornale.

Fare trentaquattro gol in campionato e sollevare il titolo evidentemente per alcuni equivale ad aver scherzato. Sicuramente non basta a Paco Maturana, il totem che siede sulla panchina della Colombia. Quando s’è trattato di redigere le convocazioni, lui ha tracciato un rigo netto sul nome di Miguel Angel Guerrero. No, non fa per i Cafeteros. E, in fondo, forse è andata anche molto meglio così, considerata la sorte sportiva e sociale inflitta a chi fece parte di quella infausta spedizione a Usa ’94.

E poi quella che ti pareva sfiga può trasformarsi in ulteriore riscatto se il tuo cartellino diventa più abbordabile, alla luce della mancata convocazione. Da Bari a Barranquilla, frizzante avamposto colombiano affacciato sul mar dei Caraibi, fanno quasi venti ore di volo. Il biglietto – sola andata – l’ha comprato Carlo Regalìa, illuminato ds dei galletti. L’Atletico Junior, detentore del cartellino, non può opporsi. Guerrero monta sulla scaletta dell’aeroplano deciso a riscrivere la storia della Serie A. E la parte migliore è che ci riuscirà.

In patria, dopo ogni segnatura – e sono state un mucchio – lui faceva partire una singolare esultanza. Tutti in ginocchio per terra, le caviglie del compagno davanti afferrate e l’irriverente simulazione di un trenino che diventa plastica realtà. È coltivando questo sogno lucido che Miguel Angel addenta l’Italia del pallone.

Come tutti i debutti, certo, serve un po’ per ingranare. Parliamo dell’esultanza, ovviamente, perché se dovessimo concentrarci sul suo incipit calcistico i giudizi sarebbero quantomeno balbettanti. Eppure il profetico pendolino di Maurizio Mosca aveva sentenziato un suo gol contro la Juve, in una delle primisse uscite de La Bari. Macché, rigore sbagliato. Ne canna un altro qualche partita dopo. Nasi che si storcono, ma perché non sanno. Non è questo il pezzo migliore del repertorio.

Dicevamo del debutto, ma di quello del trenino. Guerrero ci ha messo un sacco di tempo a farlo dirigerire ai compagni. Peggio del più intricato degli schemi. "Capire come dovevi muovere le gambe e le braccia in sincrono non era per nulla facile" dichiarerà in seguito Il Cobra Sandro Tovalieri. Con lui, prestati senza ritegno al giochino, ci sono i Bigica, i Protti, i Pedone, i Gautieri e tutto il resto della compagnia. Lo sfoderano già in una vittoriosa trasferta contro il Padova – uno 0 a 2 del 25 settembre 1994 – ma non se lo fila nessuno. Serve un amplificatore un po’ più potente.

Niente di meglio di San Siro per fare il lavoro sporco. E pensare che quando il Bari arriva a Milano, per giocare contro l’Inter, si ritrova a fare i conti con una beffa che afferisce direttamente al segmento dei trasporti. Un segno, evidentemente. Fusoliera del pullman in ebollizione. Tocca prenotare una decina di taxi, pigiare dentro i borsoni e sciropparsi il viaggetto verso la Scala del calcio in processione. Poco male: il destino ha in serbo la gloria imperitura che questo gruppo merita.

A dire il vero si penserebbe che i nerazzurri abbiano tutte le carte in regola per stritolare i galletti. I fatti raccontano altro. Gautieri sgasa sulla fascia e mette in mezzo. Svirgola maldestramente Zio Bergomi. Accorre, famelico condor, Guerrero: palla sotto l’incrocio e buonanotte a Pagliuca.

Sé, vabbè, mormorano gli interisti. Botta di siderale fortuna. Invece no. Bari tutt’altro che arrendevole. Anzi, continua ad attaccare. Anche se rischia, perché Dennis Bergkamp potrebbe rimetterla in pari. Quella però deve essere la giornata di Miguel Angel. È scritto nelle costellazioni calcistiche che campeggiano sopra al cielo di Bari, come su quello di Barranquilla. Centra il palo in pieno, il nostro. Sudori freddi lungo le schiene interiste, preludio inevitabile al raddoppio.

Altro sprint di un irrefrenabile Gautieri. Palla ancora nel mezzo. Incornata del Cobra: 0 a 2. Scocca il fatidico momento. Tutti per terra, a fare il trenino. Che viene benissimo, tra l’altro. Movimenti in sincrono che nemmeno in una nazionale di ginnastica artistica. Il pubblico li contempla trasecolato e ammutolito.

Ne scrivono a iosa, il giorno dopo, i principali giornali. Ne ripropongono le gesta le tv e ne parlano le radio. I riflettori giusti hanno sortito il loro effetto. Quella geniale celebrazione diventa ben presto oggetto di culto collettivo. Verrà ciclicamente riproposta dai successori di Guerrero e compagni, stampata su t-shirt, incisa su tazze e poster. Una fenomenale spruzzata di marketing. Con consegna a domicilio, in tutto il mondo. Il trenino che sbuffa diventa fenomeno globale. Il mittente però resta uno solo. Il timbro è di un ufficio postale di Barranquilla. Miguel Angel ora sorride: chissene frega dei gol (2 in stagione su 34 presenze), quando sei un asso della comunicazione?

IL TARANTO.

Estratto dell’articolo di Paolo Tomaselli per il “Corriere della Sera” giovedì 2 novembre 2023.

Allena da più di 30 anni, non ha mai superato il confine della C. Eppure Ezio Capuano, tecnico del Taranto, è diventato di culto sui social per le esternazioni senza filtri.

«Lo so, ma quando rivedo certi video mi vergogno, perché quello non sono io: è il mio gemello scemo». 

La tradisce la tensione?

«Purtroppo vivo il calcio pensando a chi non ha soldi per la pizza perché li spende per la partita». 

A volte si commuove.

«Quando la vivi così, piangi pure, perché il calcio non è altro che l’essenza di emozioni. È l’attesa della gioia, come il Sabato del villaggio di Leopardi: quando la gioia si concretizza, poi non esiste più». 

Con i calciatori com’è?

«Un allenatore deve essere come un padre e far crescere i giocatori: i miei figli li baciavo mentre dormivano, ma di giorno gli davo torto».

Le minacce di allenamenti all’alba sono rimaste tali?

«Sì. Sono autorevole e autoritario, ma niente follie». 

In spogliatoio la democrazia non funziona?

«L’allenatore è un totem: devi essere seguito e per riuscirci devi essere meritocratico, onesto nelle scelte. Ma non tutti sono diligenti». 

Cosa la fa arrabbiare?

«Gli orecchini al campo non ci devono essere, la musica nello spogliatoio non deve esistere. Un calciatore mi fa arrabbiare quando si allena male, quando non dà il meglio di se stesso e toglie la gamba in un contrasto».

 Un giocatore diffuse l’audio in cui lei urlava «vi squarto» che le valse il Tapiro d’oro. Come l’ha vissuta?

«Quello che accade in uno spogliatoio non può essere riportato. Per me fu un fatto grave, fui costretto a mettere fuori il giocatore».

Zeman dice che lei non ha mai avuto grandi squadre, ma si fa sempre seguire dai giocatori. È così?

«Un allenatore deve valorizzare al meglio il materiale che ha. In uno spogliatoio devi portare dalla tua parte trenta persone, che non ti devono temere, ma rispettare e ritenere bravo. E lo devi dimostrare ogni giorno, con coerenza. Se sbagli una volta non ti seguono più». 

[…] 

Spesso l’hanno chiamata per le missioni impossibili.

«Per questo mi sono paragonato a Santa Rita da Cascia, protettrice dei casi disperati. Ma anche a Robin Hood. Sono una specie di pronto soccorso: succede un incidente, chiamano me. Ho fatto imprese e vissuto degli esoneri».

Anche per immoralità?

«In un Puteolana-Tricase di 21 anni fa mi fu chiesto di favorire il Tricase, vincemmo la partita e fui cacciato. La mia storia è una storia di grande professionalità e sensibilità: vivo per far felice la gente». 

Qualche suo collega potrebbe risentirsi?

«Non lo so, io conosco la mia storia: non ho mai barattato una panchina importante per una categoria superiore». 

Rifiutò l’Empoli in B?

«Sono un uomo d’onore e avevo un triennale col Modena. Poi sono stato l’unico tesserato che non ha preso un euro nel fallimento».

Ma non è che ha paura di allenare più in alto?

«Sono un uomo di grande coraggio: convivo con la paura, ma non mi faccio attanagliare. Purtroppo è mancato ad altri il coraggio di darmi questa possibilità. Perché poi avere a che fare con Capuano non è facile. Capuano non lo puoi gestire». 

Ma chi è Ezio Capuano?

«Nell’intrinseco bisognerebbe conoscerlo. Nasco da una famiglia di cultura, anche a livello ecclesiastico, perché il fratello di mia madre è stato generale dei Domenicani.

Mio padre era professore universitario. Mio fratello è uno dei diabetologi più importanti, dirige l’azienda farmaceutica Lilly. Un altro fratello è stato manager della Menarini». 

[…]  

I complimenti via social di Allegri per la salvezza del Taranto come nascono?

«Conosco un po’ tutti e con lui c’è un grande rapporto, nato quando ancora giocava». 

Anche lui viene accusato di non dare spettacolo.

«L’essenza del calcio è risultato, il resto è aria fritta. Gioca bene la squadra che ha equilibrio. E un allenatore deve un essere bravo pittore: con i colori a disposizione deve fare un buon quadro. Ma nel calcio tutti possono parlare».

È vero che con Mourinho lei si definì «Mini One»?

«No, me l’hanno appioppato altri quel soprannome».

 […] 

 «Mio padre non voleva che facessi questo mestiere, ma veniva a vedere le partite di nascosto. Era orgoglioso, non dava mai un cenno, anche se era illimitatamente felice». 

Se non avesse allenato?

«Mi sarebbe piaciuto fare il giudice, perché avrei agito secondo principi sani, senza mai farmi influenzare».

Che rapporto ha coi soldi?

«Li ho bruciati, penso a far vivere bene la famiglia. Ho guadagnato tantissimo, senza dare mai valore al denaro». 

Ma il gatto nero nella gara decisiva per il Taranto dello scorso campionato?

«Non so chi l’ha buttato, ma in quella porta abbiamo preso tre pali. La vittoria è stata portare cinquemila tifosi. Al mio arrivo erano trecento». 

È il suo marchio.

«Friggo il pesce con l’acqua: mi interessa far crescere i giocatori, costruire». 

Perché cita spesso il manicomio di Montelupo?

«Era vicino a Empoli e ci lavorava il suocero di Montella, che accompagnavo a Montelupo. Quando vedevo cose assurde, gli dicevo “sei da manicomio di Montelupo”. Ma uso spesso anche Alcatraz. Perché nel calcio si vede di tutto».

Estratto dell'articolo di Alessandro Ferrucci per “il Fatto Quotidiano” il 17 aprile 2023.

Confronto maschio. “Chieda, chieda, non temo nulla”. Eziolino Capuano è il più celebre allenatore della Serie C, c’è chi lo definisce un piccolo Mourinho (non per l’altezza). Anni fa la sua fama ha travalicato il campo da gioco, quando un calciatore ha pubblicato un audio con le sue esternazioni dentro lo spogliatoio. Maschio, appunto. Tono duro, durissimo, termini in “rima”, metafore, accuse, polemiche, nessuna scusa, ma un Tapiro guadagnato (“mica è da tutti”). Da allora un solo rammarico: “La mia fama ha oscurato i meriti da allenatore”. 

Quest’anno ha salvato il Taranto dalla retrocessione. Soddisfatto.

Per certi versi è stata un’impresa: ho trovato una situazione che poi si è protratta per l’intera stagione, con il pubblico che non è mai venuto allo stadio; ma volevo Taranto e alla mia età la squadra la scelgo io.

È giovane.

Me lo posso permettere e non è presunzione; a Taranto c’ero stato 21 anni fa, un ragazzino, e mi ero ripromesso di tornare. 

[…]

Venni esonerato in maniera ignobile; (pausa) il valore mediatico che ho ricevuto, l’essere diventato un personaggio, da un lato mi ha reso pubblico, dall’altro mi ha penalizzato. 

[…] 

Più autorevole o autoritario?

Chi ha il comando deve possedere le due fasi, poi è più bella l’autorevolezza, ma in certi momenti sei obbligato a diventare autoritario. 

[…] 

È nato a Salerno.

La mia famiglia è lucana, poi mio padre, professore universitario, si è trasferito lì perché insegnava all’Orientale di Napoli. 

Si è applicato sui libri?

Ho una discreta cultura, però da ragazzo lanciavo la borsa da calcio dal secondo piano, poi salutavo i miei, ‘vado a studiare’, e invece correvo al campo. 

Suo padre cosa sognava?

Laureato come i miei fratelli: uno è diabetologo, tra i più importanti in Italia, l’altro è un dirigente. 

Laureato in cosa?

Mi vedeva avvocato o giudice. 

Per la salvezza ha ricevuto i complimenti di Allegri.

Mi conoscono tutti.

Bene.

Ho allenato pure in Serie A. 

In Belgio.

Ho rapporti con gli allenatori della mia età. 

Perché non è arrivato alla massima serie italiana?

Per il mio essere, il modo di pormi, di non accettare compromessi e non lo dico come forma di auto-celebrazione; a un presidente non fa piacere e neanche ai direttori. Ognuno deve restare nel proprio spazio. 

Fuori dallo spogliatoio di Eziolino.

Sono come Robin Hood, rubo al ricco per il povero; (pausa) questa è una bella frase. 

Chi è il ricco?

Il giocatore più fortunato, più forte e con più carriera davanti. Il debole è il ragazzino appena arrivato sul campo. 

Di un giocatore le interessa più la tecnica o la tenacia?

In assoluto la tenacia; la tecnica è fine a se stessa, fa parte della qualità; la tenacia rientra nell’indole, nel cuore, nella mente. Il giocatore non si costruisce nel rettangolo da gioco. 

Li controlla fuori dal campo?

Ho un rapporto un po’ strano con i miei: sono schietto e do indicazioni, se vengo seguito diventi un figlio, se non è così cerco di entrare nella mente, di capire; se non funziona allora ti abbandono. E se ti abbandono, se non ti rompo i coglioni, allora ti devi preoccupare seriamente. 

I suoi paletti.

Non voglio orecchini né musica nello spogliatoio e tutti vestiti uguali. 

Perché?

Rappresentiamo una città; non ti puoi presentare con l’orecchino come se andassi da Maria De Filippi. 

I tatuaggi?

A mio figlio li proibisco; (pausa) sono l’enfatizzazione dell’egocentrismo e il giocatore è molto egocentrico. 

Sono peggio i genitori o i procuratori?

I procuratori lasciamoli perdere; (pausa) per carità, ce ne sono di bravi, in altri casi mi si è rivoltato lo stomaco. 

E il genitore?

Non può accompagnare il figlio o seguirlo, se non con discrezione. Altrimenti deve portarlo all’oratorio dai Salesiani.

Capuano da ragazzino…

Ero un bel giocatore, con grande tigna, qualità e quantità; non mollavo di un millimetro. Poi a 17 anni sono stato costretto a rinunciare per un grave infortunio al gomito. 

Quell’attimo le ha stravolto la vita.

Lo ricordo alla perfezione: all’inizio nessuno capiva la gravità, ma dopo tre ore ero all’ospedale, in trazione. Da lì, a forza di operazioni, ho capito che era finta. 

E cosa ha pensato?

Di non dire addio al calcio e ringrazio Silvano Bini, allora deus ex machina dell’Empoli, e l’arbitro Pietro D’Elia di Salerno: sono diventato osservatore per la squadra toscana. E ho scoperto tanti giocatori. 

Chi?

Montella è un figlioletto. 

Com’era?

Un fenomeno, lo scriva; quando aveva 15 anni, dopo l’ennesima giocata, gli predissi il futuro: ‘Arriverai in Nazionale’. 

In particolare cosa l’aveva colpita?

L’osservatore deve avere l’approccio di un oncologo. 

Cioè?

C’è chi il tumore lo vede immediatamente e chi deve affidarsi alle analisi. Io lo scopro subito e difficilmente sbaglio; dopo 32 anni di carriera mi rompono i coglioni solo per Mertens (ex Napoli, per lui avrebbe giocato al massimo 7, 8 partite. Alla fine ha segnato più di Maradona). 

Insomma, Montella.

Ricordo suo padre, artigiano, e i sacrifici: gli davano centomila lire al mese per vivere a Empoli, e come lui pure Nicola Caccia; (ride) una notte, con Vincenzo, l’abbiamo passata chiusi in macchina perché in Val di Chiana si è fuso il motore. 

A 15 anni lontano da casa è un sacrificio.

Il vero giocatore deve affrontare i sacrifici; senza sacrifici non si conosce il parametro della sofferenza e senza quel parametro non arrivi in alto. 

A meno che non sei un fenomeno.

Quello è un dono di Dio, ma nella maggior parte dei casi sono degli scemi; potrei fare tanti nomi. 

Osi.

Qualcuno l’ha già capito. 

[…] 

La personalità è fondamentale.

Esistono due tipi di allenatori: quello che lavora per se stesso, seguito dai calciatori, per il 90 per cento ignoranti, quindi gli parla di possesso palla, di due tocchi, tre tocchi, tiki taka, partenza bassa, e tutti a dire ‘come gioca bene questa squadra’.

Non va bene…

Quell’allenatore pensa a mettersi in mostra. 

Invece.

Il vero allenatore si adatta ai giocatori a disposizione, cerca di costruire il giovane. 

E lei?

Sono razionale e intelligente e come un pittore realizzo un quadro secondo i colori che trovo; (pausa) questa le è piaciuta? È una nuova metafora. 

Dovrebbe tenere un corso per i calciatori di Serie A: quando parlano sono spesso noiosi.

Sono ignoranti, ripetono sempre le stesse cose, bla bla bla… 

Si riguarda dopo le sue esternazioni.

No, mi vergogno. 

Il Tapiro ricevuto dove lo tiene?

È a casa. 

Orgoglioso.

Mica ce l’hanno tutti. 

Uno schiaffone lo ha mai dato?

Chi usa le mani è un bandito e un bastardo. 

Qualche giocatore ha provato a darglielo?

No, perché se ci provi poi devi avere le palle ottagonali. 

Parteciperebbe a un reality?

È da pupazzi e pagliacci. 

Sesso prima delle partite?

Dipende se uno fa l’amore o le prestazioni. 

Lo chiede prima?

No, evito. Però lo sanno; (pausa) ma se uno lo fa sul bidet o sul lavandino, non va bene. 

Con i giocatori bisogna essere più psicologi, maestri o parenti?

Psicologi, parenti mai. 

[…]

È più difficile gestire la sconfitta o la vittoria?

La vittoria; la sconfitta l’affronto durante la settimana. 

Si fomenta.

Mi dica quale altro allenatore ha sentito parlare così, sia onesto. 

In questi anni si è beccato dell’omofobo.

Dopo Alessandria-Arezzo dissi a uno dei miei giocatori ‘sembri una femminuccia’. 

No, lo definì “una checca”.

Montini perse una palla in mezzo al campo e prese gol.

Ci sono gay nel mondo del calcio?

Non lo so, saranno cazzi loro. 

Lei è di estrema destra…

Estrema no, di destra sì. 

Soddisfatto del governo.

Sicuramente sì. 

[…] 

In questi anni ha guadagnato bene?

Meno di quello che potevo.

Ci pensa…

Non mi interessa molto. 

Come impiega i guadagni?

Faccio vivere bene la famiglia. 

Il libro della sua vita?

Le dico un film: Il gladiatore, è l’enfatizzazione della vita, c’è tutto (lo sa a memoria). 

Il braccio le fa male?

Non esiste il dolore fisico, esiste il dolore che ti porti dentro. 

Come era da bambino?

Estroverso, litigavo con tutti, ero un matto. 

I suoi genitori…

Papà era preoccupato, mi ha dato tante botte. 

Mamma la difendeva.

Sempre. 

[…] 

Dei big chi avrebbe voluto allenare?

Quelli da combattimento come Modric, De Rossi o Simeone. Non amo le fighettine.

Quante donne ha avuto?

Prima di mia moglie ne ho combinate tante. […]

Taranto, il romanzo triste di Erasmo Iacovone. Tra le lamiere contorte della Dyane 6 poco prima dell’alba del 6 febbraio 1978 rimase intrappolato anche il sogno della serie A. Lorenzo D'Alò su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Febbraio 2023

Febbraio a Taranto, da 45 anni, è quel giorno lì. Non ne porta altri. È un mese senza tempo. Il vuoto mai colmato. La voragine che inghiottì tutto. È il ricordo di un’alba che non vide mai la luce. Sopraffatta da un buio improvviso. Crudele. È la domenica che non diventò mai lunedì. Rimase intrappolata tra le lamiere contorte di una Dyane 6. Era il 6 febbraio 1978. E lo è ancora. E lo sarà per sempre. Quel giorno moriva Erasmo Iacovone. E insieme a lui: tramontava il sogno, svaniva la speranza.

Iacovone cominciò a scrivere il suo romanzo triste nell’autunno del 1976, approdando in una città felicemente indaffarata, o almeno così pareva. Le ciminiere del siderurgico più grande d’Europa sbuffavano progresso, o almeno così sembrava. Arrivava dal Mantova, serie C, dopo un po’ di D col Carpi e nemmeno tanti gol. Anche Iacovone non sembrava ciò che era: un centravanti. Non ne aveva le fattezze. Spalle incassate e cosce come tronchi d’albero. Un traccagno d’area, questo sembrava.

Il presidente Fico scucì 200 milioni di vecchie lire per vestirlo di rossoblù. Per la precisione, 130 milioni più Scalcon in cambio della metà di Iacovone, una promessa di centravanti. Sembravano troppi. Sembrava un azzardo. E invece Fico, forse fiutando l’affare, forse seguendo l’istinto, chiuse l’operazione. E, non immaginandolo, al sogno di molti diede una speranza. E alla speranza una possibilità: quella di tramutarsi in qualcosa di reale. Di fattuale, di palpabile. Nella cronaca dei giorni di Iacovone. Furono pochi. Volendo, potremmo raccoglierli in un pugno. Ma si riempirono subito di stacchi, tocchi, agguati, incantesimi. E gol, naturalmente. Gol strappati al cielo, librandosi in aria come una libellula. Gol sottratti alla terra, solcandola come un metalmezzadro dell’area di rigore.

Otto gol in ventotto partite. Gol di testa, soprattutto. La sua specialità. Come quello all’esordio sul campo del Novara. Finì 1-1 e Iacovone infilò la rete del pareggio al 66’. Quel Taranto “suonava” così: Trentini; Giovannone, Cimenti; Nardello, Spanio, Capra; Gori, Fanti, Jacomuzzi, Romanzini, Iacovone. Il ritmo della formazione scandito dal punto e virgola. Era ancora il calcio in cui i terzini facevano i terzini, lo stopper marcava a uomo e il libero aveva licenza di spazzare. Quel Taranto chiuse il campionato di serie B al nono posto con 37 punti. Promosse in serie A: L.R. Vicenza, Pescara e Atalanta.

Nella stagione successiva la speranza si spinse oltre. Sembrava potesse diventare qualcosa di più grande: per Taranto che non smetteva di sgranare gli occhi davanti al suo centravanti, per il Tarano che grazie ai gol del suo centravanti cominciò ad arrampicarsi in classifica. Sino a raggiungere il secondo posto alle spalle dell’Ascoli dei record, due punti in più sulle terze. Iacovone segnava, Taranto sognava. Cinque gol nelle prime sei giornate. A segno a Cremona, col Rimini, a Catanzaro, col Modena, a Cagliari. Otto gol dopo le prime tredici partite, l’ultimo dei quali in casa con la Sambenedettese. Gol memorabili, come quello al Bari, cioè il derby. Un pallonetto di rara perfidia sull’uscita disperata e incredula del portiere De Luca. Gol e titoli sui giornali. Pacche sulle spalle e occhi addosso. E voci di mercato. Lo vuole la Fiorentina. Lo segue la Roma. Macché, Iacovone non si tocca. Fico brucia la concorrenza e lo riscatta. Ora è tutto del Taranto. E di una città in fiduciosa attesa. Perché pensa di potercela fare. E non era mai successo. Perché forse è l'anno giusto. Sì, l’anno della serie A.

Ma il calcio è strano. Non è mai lo stesso vento. Cambia direzione continuamente. A volte ti spiazza, a volte ti travolge. Il calcio ha in serbo giorni di magra e li sta per rovesciare sul tavolo del campionato: uno dietro l'altro. Sono i giorni in cui Iacovone smette di segnare. E, forse, di sorridere. Il cannoniere schivo, il centravanti timido s’immalinconì per qualche domenica e per qualche ragione. Fresco sposo, forse pensava alla pancia della moglie e al papà che sarebbe diventato da lì a poco (da lì a mai). Seguirono turni avari. Iacovone restò a secco per sei partite consecutive. Si sbloccò a Pistoia, ultima domenica di gennaio. Raggiunse quota 9 in testa alla classifica dei marcatori, affiancando Pellegrini del Bari e Palanca del Catanzaro. E andando incontro alla sua ultima partita. A quella domenica che abortì il lunedì. Se lo tenne in grembo, rifiutandosi di partorirlo. Domenica di cielo livido e nuvole basse. Domenica di pioggia sottile e insistente. È la domenica di Taranto-Cremonese 0-0. Con Ginulfi che gli parò tutto, volando da un palo all’altro. Niente gol. Niente confronto al nulla che sta per prendersi tutto.

Al romanzo triste di Iacovone, centravanti nato a Capracotta in provincia di Isernia, manca ormai solo il suo finale tragico. Una drammatica sequenza di accadimenti che resteranno impressi nella memoria collettiva. Perché cuciti sulla carne viva di una comunità. Una sequenza che a ripercorrerla vengono ancora i brividi: la serata trascorsa nel locale dove si esibisce Oreste Lionello, il tentativo vano di smaltire un po’ della delusione per l’esito della partita, il rientro a casa nel cuore della notte, l’impatto violentissimo con l’auto, appena rubata, che sopraggiunge a fari spenti sulla Taranto-San Giorgio. Destini che s’incrociano. Lo schianto. Muore Erasmo il mite. Nasce Iacovone il mito.

Ieri, domenica 12 febbraio 2023, il Taranto ha giocato e pareggiato a Castellamare contro la Juve Stabia. Quarantacinque anni fa, domenica 12 febbraio 1978, il Taranto giocò e vinse a Rimini la sua prima partita senza Iacovone. Il sogno (forse troppo grande) e la speranza (miracolosamente intatta) si rimisero in viaggio. E lo sono ancora.

LA SAMBENEDETTESE.

La tragedia di Roberto Strulli, morto a San Valentino sul campo da calcio: «Sbatté la mascella sul mio ginocchio e perse subito i sensi». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 13 Febbraio 2023

Il ricordo di Alfiero Caposciutti, ex centravanti della Samb oggi ottantenne, che il 14 febbraio del 1965 ebbe lo scontro con il portiere dell’Ascoli, prima vittima su un campo di calcio

« Ho sentito un agghiacciante scricchiolio d’ossa. Strulli ha fatto un movimento, sull’erba, poi non si è più mosso, aveva gli occhi sbarrati, era in coma. I giocatori sono rimasti calmi, il pubblico in silenzio: il fallo era parso a tutti chiaramente involontario. Uno solo gridava sul campo, Caposciutti. Era rotolato a terra, si era subito alzato gridando: “Arbitro, l’ho colpito, l’ho colpito io” ed appariva in preda a una grave crisi nervosa» . Così l’arbitro di quella sfortunata partita, Paolo Pfiffner, descrisse l’incidente che per la prima volta, nel calcio moderno, costò la vita a un giocatore italiano.

Eccolo, Alfiero Caposciutti, oggi più che ottantenne. La sua storia, la sua vita, si intreccia con quella di Roberto Strulli, portiere dell’Ascoli, caduto sul prato dello stadio Ballarin di San Benedetto del Tronto, impianto che nel 1981 prese fuoco durante un incontro, provocando la morte di due ragazze. La storia delle morti sui campi italiani prosegue, nel 1977, con Renato Curi, stroncato da un infarto sul prato dello stadio di Perugia e, nel 2012, con Piermario Morosini caduto a Pescara. Ma della morte di Roberto Strulli, avvenuta il giorno di San Valentino del 1965, nessuno, a eccezione delle comunità locali, sembra ricordarsi. Neanche Wikipedia che elenca, dal 1889 ad oggi, tutti i caduti sui campi di calcio a causa di incidenti durante il gioco, fa menzione di quello che accadde in quella giornata piovosa a San Benedetto del Tronto, durante uno dei derby più infuocati che il calcio italiano conosca. Mazzone, quando allenava la Roma e gli chiedevano se era in tensione per il derby della capitale rispondeva che non poteva esserlo, avendo giocato quelli tra la Sambenedettese e l’Ascoli. E anche quel giorno Mazzone era in campo.

Dice Alfiero Caposciutti, centravanti della Samb in quella maledetta partita: «C’era un clima infuocato, come sempre. Il nostro derby è tra i più sentiti. Ma mentre i tifosi sono da sempre divisi dall’odio sportivo, noi giocatori condividiamo un lavoro, non solo una passione. Ricordo che quel giorno a centrocampo, prima del fischio d’inizio, parlavo con Roberto Strulli. Ci dicemmo che a fine partita saremmo scappati subito. Io dovevo tornare con mio padre in Toscana e lui doveva correre da sua moglie, che aspettava un bambino. Non c’era antagonismo tra le persone. Noi alla fine del primo tempo eravamo già sul 2-0. Sul finire ci fu una punizione dal limite a nostro favore. Strulli parò il tiro ma il pallone gli sfuggì e carambolò all’altezza del dischetto del rigore. Ci siamo avventati contemporaneamente su quella palla, lui per farla sua, io per segnare il terzo gol. Quando ho capito che lui stava per arrivarmi addosso ho cercato di fermarmi. Ma lui, per sfortuna, mise una mano all’esterno delle mie gambe e una all’interno. Sbatté la mascella sul mio ginocchio piegato e perse i sensi subito. Io fui scioccato, non posso dimenticarlo. All’inizio del secondo tempo l’altoparlante disse che Strulli si era rimesso e che sarebbe arrivato allo stadio a fine partita. Fu una bugia, detta per allentare la tensione ed evitare che ci fossero scontri. Quando l’arbitrò decretò la fine dell’incontro io rientrai negli spogliatoi e chiesi subito di Strulli. Mi dissero che non era tornato e allora andai subito all’ospedale».

Dice Paolo Beni, allora capitano della Samb: «L’abbiamo portato fuori noi, appoggiato a un cartellone pubblicitario. Era senza conoscenza. Un mese prima era venuto a casa mia per vedere come avevo allestito la stanza per mio figlio, lui anche stava per diventare padre. Era un collega, un bravo ragazzo. Aveva un’altra maglia, ma ora questo non contava più. È stata una disgrazia, tutti noi siamo stati molto male».

Silvio Camaioni, giovane difensore dell’Ascoli, quel giorno era in panchina: «Strulli? Un ragazzo magnifico. Era un po’ più grande di noi ragazzi della “De Martino”, ci dava consigli, come un padre, ci faceva la morale, ci diceva quello che non dovevamo fare per non rovinarci la carriera. Di quel giorno ricordo una cosa che mi colpì. Sul pullman che ci portava allo stadio, Strulli si mise all’ultima fila, in un posto in cui non aveva nessuno a fianco. Non aveva mai fatto così. Il massaggiatore passò tra noi allo scopo di prendere gli ordini per il pranzo. Chiamò più volte Strulli che non rispondeva. Poi lo strattonò. Non dormiva, pensava. Forse era già concentrato sulla partita, ma mi apparve perso nei suoi pensieri. Lo dico senza tema di smentita. L’incidente è stato fortuito, Caposciutti si è fermato per evitarlo ma Roberto sbattè sul suo ginocchio che, piegato, era più duro di un muro. Si capì subito che era successo qualcosa di grave. Io corsi a vedere e rimasi stravolto, la mandibola gli aveva sfondato il cervello. Tutti ci mettemmo a piangere, lui era immobile, con gli occhi sbarrati. Era un mio amico, mi si fermò il cuore».

Riprende Caposciutti: «Quando arrivai all’ospedale sentii il medico della Samb dire di avvisare i familiari di Strulli, che non si sarebbe più ripreso. Nella notte arrivò, superando le intemperie di un viaggio difficile, un professore da Roma che disse la stessa cosa. Il mio allenatore mi impose di andare via, di tornare a casa. La mattina alle sei telefonai all’ospedale e mi dissero che Roberto era morto. Per me fu una coltellata. Non sapevo più cosa fare, ripassavo nella mente le immagini e le sensazioni di quegli istanti, di quei maledetti istanti. Mi chiamò il direttore de la Nazione , che conoscevo, e mi disse di andare a Firenze per parlare e spiegare il mio punto di vista. Quando ero lì si affacciò nella stanza un giornalista dicendo che avevano trovato una foto che documentava il momento dell’impatto. Mi si gelò il sangue nelle vene. Io sapevo come era andata, ma se la foto avesse dato un’altra sensazione? Per fortuna quell’immagine è inequivoca. Io ho le gambe vicine, non alzate, le braccia in alto, le ginocchia piegate».

Ma c’era tanta rabbia. Ai funerali di Strulli i tifosi inferociti avevano buttato a terra la corona della Sambenedettese e nei giorni successivi a dei venditori di pesce di San Benedetto era stato impedito di fare il loro lavoro. Anni dopo un giornalista mi chiese se avevo mai cercato i familiari di Strulli. Io non ci avevo pensato, inconsciamente non avevo avuto il coraggio. Decisi che sarei andato da loro. Arrivai a casa Strulli. Mi aspettavano sulla soglia la moglie e il figlio che mi abbracciarono, prima lei e poi lui. Mi dissero le parole che mi hanno tolto definitivamente un peso dal cuore, un peso enorme: “Non abbiamo mai pensato che tu fossi responsabile di quello che è successo”».

Me lo ripete oggi Roberto Strulli, il figlio del portiere dell’Ascoli, che si chiama come il padre: «Fu uno scontro del tutto fortuito, Caposciutti non ha responsabilità. Lo abbiamo incontrato, è una bella persona. Il campo era allentato, è stato un incidente di gioco, uno spaventoso incidente di gioco. Io sono nato dopo, non l’ho mai conosciuto. Ma tutti mi hanno detto che era una persona solare, aperta, allegra. Ho alcune delle sue magliette con il numero uno. Non solo quelle dell’Ascoli, anche quella della nazionale dilettanti nella quale fu convocato. Aveva ventisei anni, mi hanno detto che l’Inter lo teneva d’occhio come possibile terzo portiere, per lui sarebbe stata una grande soddisfazione. Anche io ho giocato al calcio, da stopper. Ma mia madre non è che fosse entusiasta, e la capisco. Papà è morto il giorno di San Valentino. Lui e mamma si erano sposati a 18 anni e lei conserva ancora una lettera che prima della partita mio padre le scrisse, visto che erano lontani, proprio per celebrare la festa degli innamorati di quel 1965». Roberto Strulli, giovane portiere di calcio morto sul lavoro, merita di non essere dimenticato.

IL PESCARA.

Estratto dell’articolo di Antonello Sette per Il Foglio il 25 giugno 2023. 

"Dio ha inventato prima il pallone e poi Giovanni Galeone”, era scritto su uno striscione a Pescara.

Il diretto interessato conferma l’iperbole divina?

“Se è per questo hanno anche aggiunto ‘Giovanni vai a insegnarlo’. Era lungo e largo come tutta la curva dell’Adriatico”. 

Profeta di un calcio che, ahimè, non c’è più, Galeone, napoletano di nascita e giramondo per destino e vocazione, non ha perso, a 82 anni suonati da un po’, il gusto della vita e lo stupore per la felicità regalatagli dal dio pagano, che chiamano pallone.Il viaggio è stato lungo e glorioso. Da dove cominciamo?

“Forse da quando a sei anni ho percorso tutti d’un fiato gli 870 chilometri che separano Napoli da Trieste, dove mio padre, che lavorava come ingegnere all’Ilva, era stato trasferito”. 

(…) 

Pescara era ancora lontana…

“Pescara è arrivata molti anni dopo, nel 1986, dopo 17 anni da calciatore e una trafila come allenatore a Udine, Pordenone, Adria, San Giovanni Valdarno, Cremona e Ferrara. Pescara arriva senza preavviso, per pura fatalità. Il Modena era stato promosso in Serie B. Io ero l’unico allenatore di altre squadre a essere stato invitato alla festa per la promozione, nella villa di Antonello Farina. Suo figlio Francesco, per chi non lo sapesse, del Modena era il presidente in carica. Stavo passeggiando con il padrone di casa e sua figlia, quando ci imbattiamo in Franco Manni, storico dirigente dell’Inter di Helenio Herrera, che all’epoca era il direttore sportivo del Pescara. 

(..)

Nella sua vita è accaduto un po’ di tutto. Ha, tanto per cominciare, avuto in organico come calciatore, Max Allegri, che sarebbe diventato un suo grande amico nella vita, oltre che un allenatore di livello internazionale. A proposito, è vero che era fra gli invitati eletti di un matrimonio che è naufragato poche ore prima del fatidico sì?

“Per la verità me ne stavo beatamente in Sardegna quando mi ha chiamato per comunicarmi che non si sposava più. Erano le dieci del mattino. Avrebbe dovuto convolare a giuste, che evidentemente tanto giuste non erano, nozze a mezzogiorno in punto. L’avevo già sentito il pomeriggio prima e ne avevo raccolto, come un padre, tutte le perplessità. Diceva che lo avevano martellato perché la conosceva dalla giovinezza. Durante la notte deve aveva maturato il clamoroso dietrofront. Di sposarsi proprio non se la sentiva e aveva solo voglia di andar via. Di lì a poco sono andato a prendere l’ex promesso sposo all’aeroporto di Alghero”. 

(...)

Poi, ci sarebbe stata, se non erro, l’avventura di un lungo e amabile colloquio in piena notte con Silvio Berlusconi, reduce dalla Coppa dei Campioni conquistata a Vienna il 23 maggio 1990…

“Durò per l’esattezza continuativamente dalle due alle cinque. Nel corso della mia vita ho assistito a quattro finali di Coppa dei Campioni e tutte e quattro le volte ha vinto una squadra italiana: tre il Milan di Sacchi e una la Juventus di Marcello Lippi”. 

Ricorda che cosa vi siete detti?

“Abbiamo parlato di calcio senza naturalmente trascurare Sacchi, che era lì con noi. Berlusconi era euforico per la coppa appena vinta e gli piaceva fantasticare di formazioni e strategie. Quel Milan di giocatori ne aveva talmente tanti, che qualche volta non si accorgevano di averne messi virtualmente in campo dodici e di aver, di conseguenza, prefigurato creazioni di superiorità numeriche in realtà fasulle”. 

Da Sacchi a Maradona, che voleva portarla al Napoli…

“Me lo ha detto personalmente lui, una volta che l’ho incontrato. Luciano Moggi, che all’epoca era il direttore sportivo del Napoli, mi ripeteva che il piccoletto mi voleva a tutti i costi e mi ha anche bacchettato perché si era convinto che io avessi firmato per la Roma. Non era assolutamente vero. Alla fine della fiera, non sono andato né alla Roma, né al Napoli”. 

Quale è il giocatore più forte che ha allenato?

“Sicuramente Zico, ma all’Udinese davo solo una mano. Da allenatore in proprio ho avuto al Pescara Leo Junior e, soprattutto, Blaz Sliskovic, un genio, un funambolo capace di giocate pazzesche. Uno che, se non era allo stesso livello di Maradona, ci mancava pochissimo”. 

Le piace il calcio di oggi?

“No. Non mi piace soprattutto quello italiano. Salvo qualche partita del calcio inglese e il Borussia Dortmund. 

(...) 

La crisi della Nazionale è irreversibile?

“Una cosa è al momento irreversibile. La qualità complessiva è crollata verticalmente. Abbiamo avuto dei periodi in cui giocavano contemporaneamente geni del pallone e fenomeni assoluti del calibro di Cassano, Baggio, Mancini, Totti e Del Piero. Scegliere fra loro era praticamente impossibile. Abbiamo fatto un Mondiale schierando Paolo Rossi come centravanti e lasciando a casa un campione come Bruno Giordano. Abbiamo avuto a disposizione nello stesso ruolo Franco Causio, Bruno Conti e Claudio Sala. Anche dietro non eravamo messi male. Ci sono stati Scirea, Cabrini, Maldini, Baresi, Nesta e Cannavaro. Oggi questi giocatori neppure se li sognano. Non è un caso se non abbiamo partecipato a due mondiali consecutivi e rischiamo seriamente di non qualificarci neppure al prossimo. Ho la fondata impressione che per partecipare alla fase finale di un campionato del mondo, ci toccherà organizzarne in proprio uno”.

(...) 

Qualcuno l’avrà azzeccato?

“Una marea. Quando esaltavo Boban e Prosineski, negli anni in cui giocavano nella nazionale giovanile della Jugoslavia, mi prendevano in giro, storpiando volutamente di Prosineski il cognome. Per non parlare di Zlatan Ibrahimovic…”. 

L’ha scoperto lei?

“Quando a 18 anni giocava nell’Ajax ero già convinto che fosse un fenomeno e che sarebbe diventato, seppure con caratteristiche diverse, il nuovo Van Basten. Lo dissi a  tanti, a partire da Marco Giampaolo, credo fosse il 2000, che glielo può confermare. La Gazzetta dello Sport mi massacrò. Chi sarà mai questo Ibrahimovic, si chiesero e mi mandarono a dire,  a mo’ di sfottò”. 

È stato molto amato?

“A Perugia e, soprattutto, a Pescara credo proprio di sì. Sono passati trent’anni dall’ultima volta, ma, quando mi vedono, lasciano la macchina in mezzo alla strada e corrono ad abbracciarmi. E nessuno di quelli che vengono dopo mi suona per protesta, ma aspetta tranquillamente che faccia un selfie con me e magari la fidanzata”. 

Ricorda l’ultimo sogno che ha fatto?

“Sogno di allenare una squadra. Non mi fraintenda, Nessuno sguardo rivolto al passato. Nessuna malinconia. Nel calcio, quando sogno, ci sono ancora dentro e non ho mai smesso di allenare”

Giovanni Galeone compie 82 anni: tra bel calcio, sesso libero, l’allievo Allegri, Prevért e la promessa di Berlusconi. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 25 gennaio 2023.

L’ex allenatore napoletano è ancora oggi una delle figure più interessanti e provocatorie del nostro calcio. Maestro di una generazione, ha vinto poco ma ha insegnato tanto anche fuori dal campo, vivendo spesso al limite

Il Profeta del bel calcio (e della vita libera)

Profeta di un calcio che non esiste più, uomo d’altri tempi, colmo di vizi e passioni, il pallone come unica stella polare. «Ancora oggi sogno di scendere in campo e giocare, come quando ero ragazzo», ripeteva qualche tempo fa Giovanni Galeone, 82 anni il 25 gennaio (è nato a Napoli nel 1941). Il tempo vola, soprattutto per uno che ha saputo godersi la vita. Libri, vino, donne, mare, ironia, cultura, buon cibo, il tutto cullato per forza dalle onde del mare, da cui non si è mai voluto allontanare. Un mito, quasi un guru per molti, amico e mentore per altri, come Max Allegri o Marco Giampaolo. «Sono stato fortunato, ho avuto una vita divertente e vissuta nel calcio». Giocatore di medio livello, ritiratosi nel 1974, ha poi intrapreso una carriera di allenatore durata fino al 2007. Al di là del palmarés (un campionato di B vinto col Pescara nel 1987 e quattro promozioni in serie A) e delle squadre allenate (solo 8 stagioni in serie A su 24, con Pescara, Perugia, Napoli, Ancona e Udinese), il suo nome è un punto di riferimento costante sia per gli aspetti tattici che per la filosofia (anche di vita) sottesa al suo progetto. Allenatore votato a un’idea di calcio «bello» e d’attacco, si è sempre ispirato a Nils Liedholm. Il 4 marzo 2013 si è ritirato ufficialmente dal calcio, rifiutando la panchina del Pescara, forse la squadra a cui è più legato il suo nome.

I primi anni

Ha girato l’Italia prima da giocatore, poi da allenatore. Famiglia borghese, papà liberale e mamma monarchica, Galeone nasce a Napoli ma già a 16 anni va via di casa e arriva a Trieste. Vuole giocare a calcio. È nella Nazionale juniores con Enrico Albertosi, Mario Corso e Giovanni Trapattoni poi, da fine anni 50 fino al 1974, anno del ritiro, gioca tra Arezzo, Avellino, Entella e Udinese, dove resta ben 8 stagioni e inizia la carriera da vice allenatore (nel 1974/75). Tanta gavetta, molte squadre (Cremonese, Grosseto, Spal) fino alla svolta, l’arrivo a Pescara nel 1986.

La gloria a Pescara

«Pescara è nu film», dicevano in quegli anni. Un’euforia continua, alimentata dalla squadra che Galeone fa volare. 4-3-3 e difesa a zona, precursore dell’armoniosa follia offensiva di Zeman («L’unico da cui ho copiato è stato il maestro Liedholm») e campionato dominato, battendo nell’ultima partita il Parma di Sacchi: «Sono stato promosso in serie A quattro volte, ma solo il primo anno a Pescara ho vissuto il clima della festa già dalla sera precedente. Nessuno pensava che contro il Parma avremmo potuto perdere». In serie A il Pescara di Galeone regala spettacolo, con Gasperini, il brasiliano Junior e il talento folle di Baka Sliskovic in attacco: 2-0 a San Siro all’Inter di Trapattoni, 2-0 alla Juventus, poi tanti gol fatti e altrettanti subiti. Nell’esaltazione generale Galeone si salva il primo anno ma retrocede il secondo, al termine di un girone di ritorno tremendo (una sola vittoria, poi solo pareggi o sconfitte).

La promessa di Berlusconi

Il Profeta lascia una prima volta il Pescara. Lo cerca il Napoli di Maradona, poi chiacchiera in piena notte con Berlusconi: «Erano le 3 di notte, stava parlando con Massaro. Quando mi vide disse a Sacchi, che era accanto a me: “Non ti dispiace se parlo un po’ col mister Galeone, no?”. Discutemmo di pallone fino alle 5 di mattina. Poi mi disse: “Galeone, mi telefoni. Ho dei grandi progetti per lei”. Non l’ho mai fatto». Infatti, alla fine, nel 1990/91 torna a Pescara e l’anno successivo riporta la squadra in serie A in una stagione di galeonismo puro: domina partite che poi perde, come il famoso 4-5 contro il Milan (vinceva 4-2), lo spettacolo è sempre più a singhiozzo, in un perenne giro sulle montagne russe. Il 21 marzo 93, dopo una sconfitta per 4-3 con il Genoa e con il Pescara ultimo in classifica, Galeone viene esonerato. Il Gale otterrà altre due promozioni in serie A (con l’Udinese nel 95 e con il Perugia di Gaucci nel 96) e tornerà in Abruzzo due volte, tra il 99 e il 2001 — senza però ricreare l’iniziale alchimia magica — per poi chiudere ancora ad Udine, come aveva fatto da calciatore, nel 2007.

Allegri, l’allievo prediletto

Nella seconda esperienza a Pescara Galeone allena e conosce Max Allegri, mezzala magrissima e indolente ma talentuosa. Tra i due nasce fin da subito una sintonia perfetta. Innamorati sul terreno di gioco («Max non sbagliava un movimento. Se gli chiedevi un lancio d 47 metri lui eseguiva un lancio di 47 metri») e uniti — ancora oggi — dalle passioni per il mare e la seduzione: «Non l’ho mai visto insieme a una donna che non fosse bellissima, intelligentissima e ricchissima».

Il sesso e il calcio

Galeone non ha mai posto veti ai suoi calciatori: «Se uscivano la sera non erano affari miei, se andavano a donne non me ne fotteva niente — ha raccontato in un’intervista del 2019 al Fatto Quotidiano —. Sesso prima delle partite? Non sono mai stato in grado di organizzare il mio, figuriamoci quello degli altri». Su Baka Sliskovic: «Una volta sparì per un giorno intero. Si era imboscato con una cantante. Ma a me non interessa la vita privata dei miei calciatori. Non facevo il guardiano delle mucche».

Doping e droga

Tante luci, qualche ombra. Il doping («Quando giocavo ci rifilavano di tutto, ed era normale»), alcuni giocatori non sempre professionisti esemplari, come il brasiliano Jardel, avuto all’Ancona, che ha rivelato che in quegli anni consumava droga regolarmente: «Calciatori con problemi? Ogni tanto, una volta uno pure bravo —spiegava sempre al Fatto Quotidiano —. Arrivava la mattina al campo completamente fiacco, annebbiato. Sicuro si faceva».

La pistola nel cassetto

Nel settembre del 2007 è coinvolto in un episodio di cronaca , quando la sua pistola, regolarmente denunciata, viene sottratta durante un furto nella sua abitazione di Udine e successivamente usata per compiere una rapina con omicidio nella stessa città. Galeone aveva già denunciato la sottrazione dell’arma in questione.

Il caso scommesse

Nel marzo 1993, poco prima di essere esonerato dal Pescara, dopo una sconfitta col Torino Galeone riceve una telefonata (che viene registrata) da Miriam Lebel, una para-psicologa di Genova consulente della società abruzzese. La dottoressa gli dice che alcuni suoi giocatori stanno giocando a perdere. Indica una partita, quella vinta 2-1 dal Taranto nel 1992 contro un Pescara già aritmeticamente promosso. Galeone ricorda che alcuni giocatori, prima della gara incriminata, gli avessero riferito di come una persona chiamata «il serpente» (che gli inquirenti riterranno essere il d.s. Pierpaolo Marino) li avesse invitati a non impegnarsi. Parte l’indagine, che si concluderà con una squalifica per sei mesi per Galeone (e tre giocatori) per omessa denuncia, mentre Marino prende 3 anni di inibizione per illecito sportivo.

La (falsa) leggenda su Prevért in panchina

Galeone è un uomo pieno di sfaccettature. Ha vissuto di calcio impregnandolo delle sue esperienze e passioni collaterali. Le gite in barca, spesso con Allegri, le cene al ristorante da Michele a Pescara, sempre lo stesso da più di 30 anni, il sociale. E la lettura. «Da ragazzo leggevo molto, ne sentivo il bisogno, amavo i gialli e i francesi». Leggenda racconta che in panchina portasse sempre con sé un libro di poesie di Prévert. Galeone ha negato: «È falso, Prevért è noioso, il mio calcio allegro». Come dargli torto.

LA REGGINA.

Estratto dell’articolo di Massimo Sarti per leggo.it il 21 giugno 2023.

Il momento giusto, Filippo Inzaghi lo ha trovato ben 291 volte con i club e 25 con la Nazionale maggiore, per mettere la palla in rete. “Il momento giusto” è anche il titolo della sua autobiografia, scritta con il giornalista della Gazzetta dello Sport G.B. Olivero e presentata alla Mondadori di Piazza Duomo a Milano. Alla presenza della famiglia e degli amici di una vita. A cominciare da papà Giancarlo, al fratello Simone, fresco vicecampione d'Europa con l'Inter, alla compagna e madre dei suoi due figli Angela Robusti.

Immancabili le presenze dell'amicone Bobo Vieri e dell'amministratore delegato del Monza (nonché ex del Milan ai tempi di Superpippo) Adriano Galliani, ancora visibilmente commosso quando Inzaghi senior ha voluto iniziare ricordando il presidente Silvio Berlusconi. Nel corso della presentazione l'attuale allenatore della Reggina («Il futuro? Siamo in silenzio stampa», ha glissato) ha voluto citare altri personaggi del calcio scomparsi troppo presto, come Paolo Rossi («Un idolo per me»), Sinisa Mihajlovic e Gianluca Vialli.

Filippo Inzaghi non ha voluto davanti alla stampa calcare la mano su un passaggio di “Il momento giusto”, riguardante Massimiliano Allegri. Recita il libro: «Io e il Milan nella primavera del 2012 avevamo trovato un accordo per prolungare di un anno il mio contratto. Galliani era felice di aver trovato insieme a me questa soluzione. Allegri invece la bocciò. Non mi voleva più nello spogliatoio e lo disse al dirigente chiedendo che non mi fosse rinnovato il contratto. Per me fu una mazzata». «Ho smesso di giocare a fatica, ma non voglio fare polemiche, questo libro ha tante cose belle, con poche polemiche», ha detto, evitando di rincarare la dose.

Inzaghi ha aggiunto: «All'inizio ero titubante all'idea di scrivere un libro, poi l'ho fatto per trasmettere i valori, la passione, la voglia che stanno dietro ad una carriera straordinaria. Sento ancora tanto entusiasmo attorno a me, come se avessi smesso da poco, o non avessi smesso. Presentando il libro mi hanno chiesto l'autografo bambini di 7 anni e signori di 70». Tanti gli aneddoti di una vita e di una carriera. Dai primi campetti nel piacentino («Dove giocavo solo se facevano giocare mio fratello Simone»), all'ultimo gol segnato con la maglia del Milan, a San Siro contro il Novara nel 2012 («L'ultimo tiro della mia vita è un gol: non ho più alcun dubbio, non mi farò tentare da nessuna offerta, questa è la mia ultima partita», ha scritto).

E poi ci sono stati i racconti degli ospiti, con Galliani a fare da mattatore: «Quando un certo giorno del 2001 ero a Torino per cercare di prendere Pippo Inzaghi, c'erano dieci miliardi di differenza tra la richiesta della Juventus e l'offerta del Milan. Pippo rinunciò a dieci miliardi spalmati sul suo contratto quinquennale e venne così al Milan». 

Poi, amante dei numeri, ha voluto ricordare come «Pippo nel 2007 segnò in finale di Champions ad Atene, in Supercoppa Europea a Monaco e nel Mondiale per Club a Yokohama».

«È semplice parlare di Filippo. Siamo come gemelli, nonostante i tre anni di differenza. Per me è stato un esempio. Non so se, senza di lui, avrei fatto la stessa carriera da giocatore e da allenatore. Lui cita spesso quello che sto facendo in panchina, io rispondo con quello che ha fatto lui da calciatore, ma anche da allenatore. 

Mi ha spinto a migliorarmi anche come persona, e per questo devo ringraziare anche i nostri fantastici genitori». Così il nerazzurro Simone, in una presentazione ovviamente molto milanista. Si è venuto a sapere poi che a Pippo Inzaghi «sarebbe piaciuto allenare il Monza», la stagione dopo quella dominata in B sulla panchina del Benevento. 

Gustoso poi il ricordo raccontato in tandem da Bobo Vieri e Pippo Inzaghi su Italia-Azerbaigian 4-0, giocata a Reggio Calabria. «Dicevano che io ero pazzo, ma lui era il pazzo silenzioso», apre Vieri. «Comunque in quella partita segno io subito, poi lui. Nell'intervallo sono a fare un massaggio e vedo Trapattoni avvicinarsi a Inzaghi e dirgli che l'avrebbe tolto dopo dieci minuti della ripresa». «A me serviva un altro gol per battere Paolo Rossi e dissi al Trap: “Mister, non mi tirare fuori, perché Bobo non sta bene con l'adduttore”», ha proseguito Inzaghi.

Ancora Bobo: «Nella ripresa ho un'occasione e poi vengo sostituito. Ero arrabbiatissimo e scaglio una bottiglietta verso il Trap. Che a fine partita mi ha detto: “Perché ti sei arrabbiato, avevi male”. Non era vero». Piccolo escamotage di Inzaghi che segnò poi il secondo gol che gli serviva: «Ma io e Bobo siamo sempre stati amici, mai invidiosi di quello che faceva l'altro. Poi abbiamo fatto qualche serata insieme, quando ci si incrociava»... E giù risate generali sul «Qualche serata...».

Ci sono stati anche momenti difficili per Superpippo, come nell'autunno del 2015, dopo l'esperienza sulla panchina del Milan in A: «Il mio corpo mi mandava segnali inequivocabili di malessere. Mi sono spaventato. Ho avuto paura. Ho temuto di avere qualcosa di grave, persino la Sla», si legge sul libro. Poi Inzaghi ha ritrovato il pallone, a Venezia in serie C («Prospettatasi l'occasione, ho detto al mio procuratore: “Andiamo!”»). E poi Angela, l'amore vero di una vita, visibilmente commossa davanti al suo Filippo.

La compagna di Inzaghi, Angela Robusti: «Mi ha cercata sui social e invitata a cena. Il matrimonio? Nel 2024». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 15 Febbraio 2023.

Angela Robusti, la compagna di Pippo: «Dal Comune nemmeno un grazie». Il compagno-allenatore: «Ci siamo conosciuti quasi sei anni fa a una festa: eravamo gli unici ad aver ordinato un bicchier d’acqua». I figli: «Edoardo ha 15 mesi. Tra meno di un mese nasce Emilia»

Angela Robusti, 34 anni, con Pippo Inzaghi, 49

Venerdì a Reggio Calabria quasi millecinquecento studenti dello Scientifico Vinci e dell’Istituto tecnico Piria hanno ripulito il Lungomare da piazza Indipendenza al circolo Velico, in pieno centro, e il Rione Marconi, in periferia. Avevano risposto all’appello lanciato da Angela Robusti , 34enne compagna veneta dell’allenatore della Reggina Filippo Inzaghi, mamma del loro figlio Edoardo, di 15 mesi, e prossima al parto di Emilia, attesa tra meno di un mese. Di professione organizza eventi (con triennale e specialistica in Architettura).

Angela, come è nata l’idea?

«Ci siamo trasferiti qui ad agosto: dalla finestra vedo l’Etna innevato, Messina e Taormina. E magnolie secolari. Però ho notato subito il contrasto tra questa bellezza estrema e la noncuranza».

Mi faccia un esempio.

«Qui in centro, che dovrebbe essere il posto migliore, i marciapiedi sono sconnessi, non esistono rampe, ci sono buche da 30 centimetri, le radici degli alberi sbucano trasformando le strade in un meraviglioso museo a cielo aperto, poco comodo per chi come me gira con il figlio nel passeggino, per non dire di chi si muove in carrozzina. E poi la spazzatura, mozziconi, cartacce, plastica».

Da lì all’evento di venerdì il passo è lungo.

«Di mia iniziativa ho cominciato a prendermi cura di un’aiuola, con rastrello e paletta. Poi si è aggiunta una mia amica e abbiamo creato il logo #noiamiamoreggio. Dopo, un ragazzo che si voleva candidare alla rappresentanza degli studenti dello Scientifico Vinci mi ha chiesto se poteva inserire nel programma qualcosa che legasse il liceo alla pulizia dell’ambiente. Così ho buttato giù l’idea».

I docenti entusiasti?

«Macché! La maggior parte si è ribellata: “Fa freddo”, “Non è sicuro”, “È pericoloso”. Perfino 200 genitori si sono opposti».

E come l’ha spuntata?

«C’è stata una votazione tra studenti: avrebbe partecipato solo chi voleva, 304 ragazzi. Allora ho coinvolto il Professionale Piria, e lì hanno aderito tutti: mille. Più una cinquantina di professori. Agli studenti fino alla quarta abbiamo affidato il litorale del centro, mentre le quinte le abbiamo portate nel quartiere Marconi, che è più difficile. La Tekno Service Italia, che ha l’appalto per la pulizia dei rifiuti, ci ha fornito gratis sacchetti, palette, guanti, rastrelli. Alcuni dipendenti, fuori dall’orario di lavoro, sono venuti a prendere i sacchi di differenziata. E la Reggina ha regalato a tutti il biglietto per vedere la partita del 25 febbraio contro il Modena e ci ha messo a disposizione i giardinieri per tagliare l’erba».

Un trionfo.

«Beh, dall’amministrazione nemmeno un grazie. E non dico a me, ma agli studenti».

Pippo era preoccupato?

«Non che mi stancassi. Le sue preoccupazioni erano legate alla criminalità organizzata. Ma io me ne infischio: non credo che i grandi delinquenti della Terra si preoccupino per Angela Robusti che toglie la spazzatura».

Quando vi siete conosciuti?

«Quasi sei anni fa a Venezia, per un bicchiere d’acqua. Eravamo stati trascinati entrambi controvoglia a una festa. Prima di andare via mi avvicino al bancone e chiedo un bicchier d’acqua: mi rispondono che ero la seconda persona ad averlo chiesto, e mi indicano lui di spalle. Non avevo mai visto una partita di calcio, prima, nella mia famiglia amiamo il motociclismo, e poi era troppo grande per i miei gusti: ha 15 anni più di me. Così quando mi ha chiesto il numero non gliel’ho dato».

Angela Robusti con Pippo Inzaghi e il loro figlio Edoardo

E allora come siete arrivati a formare una famiglia?

«È stato tenace. Mi ha cercata sui social e infine mi ha invitata a cena in uno stellato: una settimana dopo siamo andati a vivere insieme».

Ma lui non mangia solo bresaola e biscotti?

«In effetti a quella prima cena non ha mangiato nulla e io ho riempito la borsetta di ciò che non mangiava. Ora è diverso, cucino io per lui».

Quando vi sposerete?

«Se non ci saranno altre gravidanze a sorpresa, nel 2024. Dovevamo farlo già l’anno scorso, ma era appena nato Edoardo».

Emilia nascerà a Reggio?

«No, a Brescia, dove i nonni potranno darmi una mano al momento del parto. Poi torneremo qui: il clima è fantastico e la Calabria bellissima».

IL PALERMO.

Vito Chimenti, è morto il fantasista che inventò la 'bicicletta'. La Repubblica il 29 Gennaio 2023.

A 69 anni è scomparso per un malore l'ex attaccante di Palermo, Catanzaro, Pistoiese e Avellino. Inventò negli anni '70 il dribbling oggi tanto amato da Neymar. Nel 1979 con un suo gol fece tremare la Juventus nella finale di Coppa Italia

Il calcio italiano piange Vito Chimenti, morto improvvisamente a 69 anni per un malore. L’ex attaccante di Palermo, Catanzaro e Pistoiese, attualmente impegnato nello staff tecnico del Pomarico, formazione di Eccellenza lucana, si è sentito male dopo il riscaldamento prima della gara interna contro il Real Senise mentre si apprestava a fare la doccia. Inutili i soccorsi, prima quelli effettuati dallo staff sanitario del Pomarico e poi quelli dei sanitari del 118, che hanno richiesto anche un intervento dell'elisoccorso.

Inventò la 'bicicletta'

Chimenti, zio di Antonio, ex portiere di Juventus e Roma, divenne popolare a livello nazionale negli anni ’70 per la "bicicletta", dribbling con cui riusciva a saltare gli avversari facendo passare la palla sopra la testa. Una giocata inedita per quegli anni, oggi particolarmente amata da fuoriclasse del calibro di Neymar e Douglas Costa. Barese, classe 1953, esordì in C con il Matera nel ’72, trascinandolo di nuovo alla promozione 4 anni dopo, nella stagione 1975-1976, facendogli vincere il proprio girone in serie D.

Segnò alla Juve nella finale di Coppa Italia del 1979

La sua bravura tecnica e agilità, a dispetto di una corporatura tozza, attirarono le attenzioni del Palermo che lo acquistò nel ‘77. Con i rosanero in B Chimenti visse un periodo fantastico: 29 reti in 74 partite con un attimo di grande notorietà: il gol iniziale dopo appena 1' nella finale di Coppa Italia a Napoli contro la Juventus (persa poi 2-1), che dovette abbandonare anzitempo per un infortunio al ginocchio dopo uno scontro con Cabrini.

Ha giocato in A con Catanzaro, Pistoiese e Avellino

Lasciato il Palermo nel '79 esordì in A col Catanzaro (26 presenze e 1 gol) per poi passare alla Pistoiese (di cui resta ancora il primatista di reti in massima serie, 9) e infine all’Avellino (26 partite e 3 reti). Chiuse la carriera scendendo di categoria scegliendo la maglia del Taranto con cui giocò 3 stagioni segnando 22 gol in 83 partite. Appesi gli scarpini al chiodo, Chimenti divenne allenatore del Matera per poi proseguire la sua lunga carriera tecnica come vice in molte altre squadre (Rimini, Casarano, Lanciano, Messina, Foggia e Salernitana) prima appunto di iniziare, dal 2019, la collaborazione con il Pomarico. Per onorare la sua scomparsa la società lucana ha deciso di non scendere in campo.

Il Palermo gli dedica la vittoria ad Ascoli: "Se ne va un amico"

Particolarmente toccato dalla notizia il presidente del Palermo Dario Mirri: "Se ne va un amico del Palermo, un amico di chi ama il Palermo, un amico mio. Un animo gentile che ha sempre rappresentato l'amore per la nostra maglia e che non a caso abbiamo voluto anche omaggiare qualche anno fa con un'opera d'arte interamente dedicata a lui al Palermo Museum. Resterà sempre con noi, come il ricordo della sua 'bicicletta', ormai parte della nostra storia". L'allenatore rosanero Eugenio Corini e l'attaccante Matteo Brunori, nel post partita di Ascoli, gli hanno dedicato la vittoria. 

IL CAGLIARI.

Gianfranco Zola.

Claudio Ranieri.

Comunardo Niccolai.

Radja Nainggolan.

Gigi Riva.

Fabian O'Neill.

Gianfranco Zola.

Gianfranco Zola: «Nessun allenatore doveva dirmi cosa fare. Ora il calcio è sparito. E Mancini mi ha deluso». Walter Veltroni su Il Corriere delle Sera il 4 settembre 2023. 

L’ex attaccante: «Oggi il calcio è uno spartito tutto uguale e senza i numeri 10 c’è meno fantasia. Con Baggio in Nazionale io non giocavo, ma gli sono grato. Maradona era un uomo buono» 

Gianfranco Zola, lei che l’ha indossata tante volte: cosa significa il numero 10 sulla maglia di un calciatore?

«Ero un ragazzino che viveva in un paesino piccolo della Sardegna e il calcio di alto livello era non so quante galassie lontano da me. Vivevo di emulazione, non avendo il calcio di qualità vicino mi abbeveravo a quello che vedevo in televisione e liberavo le fantasticherie di un bambino che guardava i calciatori e cercava di copiarli, di imparare da loro. E quelli a cui mi ispiravo avevano tutti le stesse caratteristiche: grande tecnica, grande inventiva, grande creatività. Quei giocatori, sempre o quasi, indossavano la maglia numero dieci. Per me quel numero, quel modo di giocare era la bellezza del calcio, il suo Dna».

Chi erano i suoi riferimenti in quel momento?

«Michel Platini, Zico, Maradona. Con uno di loro, Diego, ho avuto anche la possibilità di allenarmi e di giocare. E quella penso sia stata la svolta della mia carriera».

Torniamo al suo paese, Oliena. Mi racconta della sua famiglia?

«Vengo da una famiglia molto povera. I nonni lavoravano in campagna e mio padre era aiutante pastore, da noi la principale economia era la pastorizia. Bambini come mio padre vivevano sui monti, accudivano il gregge… Dopo qualche tempo è diventato camionista e poi ha aperto un bar insieme a mia mamma».

Era appassionato di calcio?

«Mio padre non sapeva neanche cosa fosse un pallone, almeno fino ai trent’anni… Un giorno, credo ne avesse trentatrè, degli amici lo portarono a vedere una partita e lui disse “Che cos’è il calcio?”. Ma da quel giorno impazzì per il pallone, diventò dirigente della squadra locale, persino presidente. Quando avevo tre anni mi portava agli allenamenti. Se quegli amici non lo avessero invitato al campo, quel giorno, forse anche la mia vita sarebbe stata diversa, sliding doors... Lui non mi insegnava come calciare la palla, ma mi indicava valori e aveva fiducia in me. Mi ha fatto vedere una strada e mi ha dato la libertà di percorrerla. Penso sia questo il compito dei genitori».

Si ricorda il primo pallone della sua vita?

«Credo sia stato proprio per il mio terzo compleanno. Mio padre era diventato amico di alcuni giocatori della squadra del paese che erano chiamati gli “stranieri”, perché venivano dai paesi vicini. Loro mi regalarono quel pallone di plastica, un Super Tele, e mia mamma dice che non l’ho mai più mollato. Ci andavo anche a dormire. Dormivo con mia sorella. Quando mamma e papà presero il bar, che era un’attività molto dura, andammo a vivere in una stanza sopra al locale. La dividevamo tutti. Era piccola, ma ci stringevamo. Una stanza per tutti».

Stiamo alla definizione di Platini che distingue, nel numero dieci, i registi e i fantasisti... Lei a quale delle due categorie è appartenuto, come giocatore?

«Ci sono dei numeri dieci che sono più portati a creare gioco, sono più bravi nella manovra e altri che sono più finalizzatori, credo che Michel, nella vostra intervista, li chiamasse “nove e mezzo”. Io credo di appartenere di più a questa seconda interpretazione del ruolo. Nelle squadre giovanili ho sempre giocato come attaccante, poi a 18 anni, quando andai alla Torres in serie C, ho fatto invece il centrocampista, offensivo ma centrocampista. E così anche quando sono andato al Napoli. Il passaggio al Parma mi ha riportato davanti, per ragioni tattiche, e in quella posizione ho dato il meglio di me stesso. Forse, quindi sono un “nove e mezzo”, felice di esserlo stato». 

Non le sembra che il numero dieci, quell’impasto di regia e creatività, sia sparito nel calcio moderno? Che anche questo ci racconti di un tempo frettoloso, poco incline alla visione e alla fantasia?

«È un processo iniziato alla fine degli anni Novanta con Sacchi. Con lui si è cominciato a dare molto meno spazio alla creatività e molto di più all’organizzazione. Prima tutte le squadre erano strutturate allo stesso modo, con difese molto forti e marcatori capaci di annullare gli avversari. I due centrocampisti che recuperavano la palla la davano al numero dieci, o comunque al regista, che creava gioco, inventava l’assist per il bomber. Si lavorava molto per difendere, recuperare e impostare. Con Sacchi si è arrivati a una struttura più rigida, con i quattro centrocampisti, il 4-4-2, si faceva un grande pressing, tutti partecipavano alla manovra... Il fantasista doveva rientrare rigidamente in uno schema tattico predefinito. Non era come prima, quando il numero dieci era libero di andare dove voleva, seguire la palla, impostare la manovra».

Lei ha sofferto in questa rigidità?

«Io ci sono passato in mezzo, ero uno di quei giocatori che per inserirsi nel modello tattico di Sacchi doveva trovare un ruolo che però non era il mio: o facevo l’esterno di destra o di sinistra o la seconda punta. Anche Roberto Baggio si è trovato nella stessa condizione. Ora, ancora di più, tutti cercano di attaccare, di mantenere il possesso di palla, ma in un contesto tattico molto rigido e di conseguenza il numero dieci o diventa un sette, un undici o un finto nove. Il dieci non esiste più».

Anche nel calcio si è persa un po’ di fantasia e forse un po’ di libertà.

«A me nessuno si è mai sognato di dirmi, quando avevamo la palla noi, “Vai di qua o vai di là, fai così o fai colì”. Io diventavo matto, quando cercavano di imbrigliarmi. Qualche allenatore ci ha provato, ma non era per me. Io al calcio sapevo giocare solamente in quel modo. Non ero uno sregolato, facevo disciplinatamente il pressing quando gli avversari impostavano il gioco. Ma, quando avevo la palla, volevo essere libero di fare quello che sapevo fare: inventare. Al mio amico Luca Vialli, dicevo: “Tu dimmi come vuoi la palla, poi a come fartela avere ci penso io, non preoccuparti”. Tenevo alla mia indipendenza, al modo in cui cercavo la posizione, al tempo delle mie giocate. Mi dava certezza, sicurezza. Perché era quello che sapevo fare».

Un po’ di poesia in meno?

«Sì, perché tutto è cambiato, tutto è molto più costruito, molto più ripetitivo. Quello che si vede oggi non è che non sia piacevole, per chi ama il calcio, ma è sempre lo stesso schema, è uno spartito sempre uguale. Quando giocavo io era tutto più libero e questo aiutava lo spettacolo e la creatività del gioco. Si inventava, oggi si ripete. Sia chiaro, c’era anche tanta mediocrità, ma in ogni partita c’era, a un certo punto, una luce che si accendeva e succedeva qualcosa che non avevi mai visto prima».

I grandi numeri dieci non erano dei superuomini, in termini di altezza e prestanza fisica.

«Sì ma non si faccia ingannare dai centimetri. Tutti noi, anche io, avevamo dei dati di esplosività muscolare che facevano impressione. Maradona aveva delle gambe da far paura. Il bello del calcio è che in fondo è complesso. Si può far bene in molti modi diversi. Si può essere grandi o piccoli, avere il centro di gravità più o meno basso, ma, se si ha talento, alla fine questo emerge. Noi non avevamo i centimetri, ma volevamo primeggiare e allora abbiamo usato quello che di cui eravamo dotati, abbiamo costruito le nostre armi: l’intuito, l’anticipo, la tecnica, l’agilità e la fantasia. Io ho visto grandissimi giocatori che erano alti o bassi, minuti o muscolosissimi. Calciatori come Socrates o Poyet, che giocava con me al Chelsea, pur lentissimi, erano essenziali. Il bello del calcio è che, se lavori duro su te stesso, se non molli, alla fine trovi le doti, i tempi, il ruolo che ti consentono di primeggiare».

Lei ha allenato in Arabia, cosa pensa di quello che sta succedendo con l’esodo dei migliori talenti verso quel mondo?

«Non mi piace, sinceramente. Ma non voglio giudicare. Io non mi trovo in quella situazione. Non è facile rinunciare a quei compensi. In qualsiasi lavoro, se l’offerta è cinque volte superiore a quello che prendi abitualmente, è naturale che uno ci pensi o accetti. Mi rendo conto che i soldi sono molto importanti però, non lo so, io vengo da un’epoca in cui, certo si guardava agli ingaggi, ma ci tenevamo molto anche a giocare nei campionati più importanti, nelle coppe più importanti. Ci piacevano la nazionale, gli europei, i mondiali... Molti giocatori di qualità, nella storia del calcio, hanno fatto scelte in cui l’aspetto economico non è stato quello primario. Io sono stato uno di questi. Non voglio fare paragoni, non amo l’ipocrisia. Tutto è cambiato e il contesto va valutato. Ma rimane che per me la competitività del torneo in cui si gioca è importante, non meno del conto in banca». 

Della vicenda Mancini cosa pensa?

«Sono rimasto sorpreso. Se devo essere sincero, non me lo aspettavo. Roberto ha fatto un grande lavoro, quando ha vinto l’Europeo. Non solo per il risultato, ma per il modo, lo stile in cui lo ha raggiunto. Dopo l’eliminazione ai mondiali io sono tra quelli che ha sostenuto lui dovesse continuare. Pensavo volesse arrivare ai mondiali. Sono, anche per questo, sorpreso e molto dispiaciuto della sua rinuncia».

Due nomi che per lei sono stati importanti. Il primo, ovviamente è quello di Maradona. Com’era umanamente?

«Meraviglioso. Mi creda, non glielo dico per l’affetto che ho avuto per lui, per la gratitudine per tutto ciò che mi ha insegnato. No, penso di esprimere l’opinione di tutti quelli che hanno incontrato Diego. Come persona, al di là del calciatore che, mi creda, era inimmaginabile. In quegli anni c’erano Zico, Gullit, Falcao, Platini, dei fenomeni. Ma lui era ancora di più. Era irragionevole quello che riusciva a fare in campo. Dal punto di vista umano lui, che era il giocatore più conosciuto al mondo, viveva tutto con una semplicità, una tranquillità che erano d’esempio. Aveva attenzioni e premure per tutti. Se c’era da battersi per un suo compagno di squadra lo faceva, lo difendeva sempre e comunque, contro chiunque. Ci faceva vincere la partite e i campionati ma noi lo abbiamo amato per com’era. La sua vicenda finale mi ha fatto male perché non meritava quello che è successo. Aveva delle debolezze a cui non riusciva a resistere ma, mi creda, era un gran bravo ragazzo. Buono come pochi».

Il secondo nome è quello di Baggio, che è stato suo coevo, con la maglia numero dieci.

«Sono molto contento di averlo trovato sulla mia strada. Mi ha fatto migliorare moltissimo perché la competizione, a quel livello di tecnica e di fantasia, fa solo bene. Per me la nazionale era la cosa più importante che ci fosse. Io ho deciso di diventare calciatore guardando la vittoria azzurra del 1982. Quindi può immaginare quanto ci tenessi, però io in nazionale non giocavo perché c’era Roberto. Mi rendevo conto che lui era un talento straordinario e sapevo che per prendere quella maglia numero dieci avrei dovuto cercare di fare cose più belle delle sue. Alla fine degli allenamenti mi sedevo per cercare di capire quello che Roberto sapeva fare e magari per analizzare se c’era qualcosa che potevo fare meglio di lui. Sono stati momenti importantissimi, perché mi hanno fatto lavorare a fondo su me stesso. Io gli sono grato. È stata una fortuna, checché se ne dica, che lui sia stato nel mio stesso periodo. Però, peccato, in quegli anni non era prevista una nazionale con due fantasisti. Ma lei oggi provi a immaginare una squadra con Baggio e Zola insieme, cosa potrebbe fare, che spettacolo sarebbe».

Se lei potesse fare un assist a un giocatore della storia del calcio, chi vorrebbe rendere felice?

«Gigi Riva. Mi sarebbe piaciuto giocare con lui».

Credo ci saremmo divertiti molto.

Claudio Ranieri.

Estratto dell'articolo di Claudio De Carli per il Giornale lunedì 21 agosto 2023.

Cosa ho capito allenando in Premier? Forse vi deludo, magari vi aspettate che vi parli della mentalità dei calciatori o del loro modo di trascorrere la settimana. Invece no, nei miei anni in Inghilterra ho capito che due inglesi fanno un popolo, 57 milioni di italiani no. Un passo indietro, anni Sessanta. 

Gli amici gli hanno dato un nomignolo, Er Pecione. In stretto romanesco ha il significato non così gratificante di uno che non sa fare bene il suo lavoro, un arruffone, una specie di impiastro senza talento tenuto in piedi grazie al padre, ma lui non ci faceva caso, era Er Pecione e chi se ne importa. 

Quel giorno arriva al campo con la sua lambretta che gli hanno comprato per fare le consegne. Suo padre è il macellaio del Testaccio ma loro sono del rione San Saba, abitano al fianco della parrocchia, sempre Roma ma a sud, zona Circo Massimo. Il ragazzo frequenta come tutti l’oratorio e come ogni oratorio che si rispetti ha la sua bella squadra di calcio e lui ci vuole entrare.  

(...) 

E non è stata solo fortuna ma certamente Helenio Herrera ha avuto la sua bella fetta di importanza nella sua carriera perché il San Saba si allena a pochi passi dal campo della Primavera della Roma e il Mago un giorno va a vedere i ragazzi che giocano a pallone, lo vede e ne resta colpito. Lo segnala ai dirigenti, provino alle Tre Fontane e questi gli trovano una maglia nel Dodicesimo giallorosso, una sorta di cantera romanista, ci resta poco, venti completi da calcio, una sacca piena di palloni nuovi di zecca e Er Pecione va a fare l’attaccante nella Primavera della Roma. Mica male, no? Ma giocherà dietro.

Otto anni nel Catanzaro poi smette presto e si mette ad allenare, due promozioni con il Cagliari, porta il Napoli in Uefa e la Fiorentina in A più una coppa Italia e una Supercoppa, va in Spagna e vince col Valencia una coppa del Re, passa all’Atletico prima di entrare in Premier League con il Chelsea che porta al secondo posto, vince una FA Cup e rientra da noi, Parma, Juventus, Roma e Inter dove non è mai facile per un ex juventino sfondare nei cuori della Nord, chiede perdono ma è Thiago Motta che gli mette il bastone fra le ruote: Eravamo partiti bene ma a gennaio Thiago all’improvviso ha deciso di andare al PSG, lo sapevo ma mi aveva promesso che sarebbe partito a fine stagione. Invece convince Moratti e se ne va. Senza di lui sono saltati i meccanismi a centrocampo, lui era l’orologio che faceva girare la squadra, le cose senza Thiago Motta non sono andate come speravamo e come sperava il presidente.

Va al Monaco, altra promozione in Ligue 2 e secondo posto in Ligue 1, allena la nazionale greca e torna in Premier al Leicester City dove per tutti compie il capolavoro della carriera, la favola. Vince la Premier, siamo nel 2016, diventa Sir Claudio, la Fifa lo premia allenatore dell’anno, entra nella Hall of fame del calcio italiano. Una stagione indimenticabile, pulita come un cielo senza nubi e una sola delusione, promette ai suoi giocatori di pagare una pizza per ogni partita finita senza reti ma rimane deluso, loro preferiscono gli hot dogs. 

Poi ancora Nantes, Fulham, serie A, Roma, Sampdoria, in Inghilterra resta un mito lo ingaggia il Watford, in Italia è l’unico allenatore ad aver guidato dalla panchina la sua squadra nei quattro derby principali di Milano, Torino, Roma e Genova: Il derby è la partita più semplice, la città lo vive talmente che un allenatore deve solo fare quello che tiene tutti in riga e calmare le emozioni. Nove vittorie e un pareggio lo score dei suoi derby, imbattuto fino al 22 luglio 2022 quando a Marassi il Genoa batte 2-1 la sua Samp. Adesso è a Cagliari dopo aver vinto i play off e compiuto l’ennesima impresa, loro erano quattordicesimi a dicembre. Dov’è la notizia?

Questo signore non fa più notizia, la sua è una regola, niente di impensabile, zero costruzione dal basso, 4-4-2, dietro gente che mena, pressing esagerato, palla lunga e pedalare con quelli che sentono la maglia e chi vuole andare in Saudi League a carriera in discesa, bene, tantissimi soldi, contento per loro: Ho 71 anni? Sì, e da grande voglio fare l’allenatore, dicono che sono il più filosofico fra quelli in attività? Sono solo un sognatore. In fondo Leicester è come Cagliari, ci si sta bene, la gente al ristorante ti lascia mangiare in pace con la famiglia, puoi girare per la città e andare a fare spesa come uno qualunque, questo è il massimo che può chiedere un allenatore, respirare nelle vie del centro, sentirsi addosso l’afflato dei cagliaritani. 

Il giorno della presentazione ha fatto quasi una promessa, ha detto che ama il calcio e non vede nessun buon motivo per lasciarlo, magari anche fino agli ottant’anni, lui non se li sente ancora addosso, qui a Cagliari naturalmente, saluti dall’impiastro.

Comunardo Niccolai.

Estratto dell’articolo di Nino Materi per “il Giornale” lunedì 31 luglio 2023. 

Due anni dividono Comunardo Niccolai e Gigi Riva (il primo è nato nel ’46, il secondo è del ’44) gemellati però da una mitica data: 12 aprile 1970, quando il Cagliari, battendo 2-0 il Bari, portò la Sardegna in paradiso («... e anche l’Isola nel Continente», aggiunse malevolmente qualcuno, ma forse era solo invidia). Per la prima volta lo scudetto volò sotto Roma, in un territorio calcisticamente ancora orfano di trofei nazionali, figuriamoci internazionali. […] 

[…] Comunardo Niccolai è oggi l’icona più pittoresca dell’intera brigata sarda, e poco importa se in quell’eroico esercito militavano fulmini di guerra come Albertosi, Domenghini, Cera, Gori. Nel campionato precedente a quello del trionfo c’era anche un certo Boninsegna: Bonimba e Rombo di tuono, due soprannomi ideati da Brera per una coppia irripetibile […] 

Fatto sta che il soldato Niccolai da Uzzano (Pistoia) […] è l’unico ad essere diventato per i cultori del calcio (e non solo) sinonimo di «filosofia di vita», «fenomenologia dello spirito», «sublimazione artistica». […] 

Comunardo, come la mettiamo col fascino indiscreto degli autogol? Clamoroso - e «bellissimo» quello in Juventus-Cagliari del 15 marzo 1970 (Ricky ancora oggi ha gli incubi notturni...).

«Sono grato ai miei autogol, senza di loro oggi sarei solo un “normale” ex calciatore, dimenticato da voi giornalisti. Invece... Comunque tengo a precisare di aver fatto molti meno autogol rispetto a tanti altri miei colleghi». 

Ma i suoi avevano una poesia speciale... Cosa le disse Albertosi dopo lo storico autogol del 15 marzo? Lui che chiama la palla e lei che lo anticipa di prepotenza piazzando la palla in rete.

«Le parole esatte sono irripetibili. Diciamo che si arrabbiò tantissimo. Ma Ricky è rimasto uno dei miei più cari amici».

[…] Nel recente docufilm dedicato a Gigi Riva la sua testimonianza è tra le più significative.

«Gigi è un grande. Un simbolo di etica, coerenza, lealtà. Da giocatore è rimasto a Cagliari per amore della maglia, rifiutando grandi club. Ancora oggi vive lì, circondato dall’affetto della gente. […]». 

[…] Ha saputo che nel Cagliari quest’anno giocherà’ il ceco Jakob Jankto, primo calciatore a dichiarare pubblicamente la propria omosessualità?

«Il Cagliari è sempre stata una squadra rivoluzionaria, all’avanguardia, capace di guardare avanti. Senza pregiudizi. Sono sicuro che Jankto sarà accolto benissimo dalla società e dalla città e non vorrà più andare via dalla Sardegna. Questa è un’isola che si fa amare da tutti». 

Sta seguendo le partite della nazionale femminile? Il calcio è diventato anche uno sport per donne.

«Mi fa piacere. E lo trovo positivo. Ma tra calcio degli uomini e quello delle donne rimane una certa differenza. Io preferisco il pallone giocato dai maschi».

L’impresa del suo Cagliari gronda di episodi leggendari. Tra i più gettonati: Scopigno che, la notte prima di un’importante partita, entra in una stanza dell’albergo e facendosi largo in una coltre di nebbia (in camera 8 calciatori stavano giocando a carte, bevendo e fumando ndr), pronuncia la mitica frase: “Disturbo se accendo una sigaretta?”».

«Vero. Scopigno era insuperabile. Dopo quella battuta, andammo tutti a nanna. Per la cronaca il giorno dopo vincemmo 3 a 0». 

Altra frase entrata nella storia. Mister Scopigno che, dinanzi alla tv per una partita della Nazionale, la vede in maglia azzurra e dice: «Mai mi sarei aspettato di vedere Niccolai in mondovisione”».

«Falso. Fu invece felice di vedermi giocare in quel contesto». 

Il nome Comunardo frutto della passione di suo padre per la Comune di Parigi. Una balla?

«Papà era un antifascista convinto. E questo nome “fuorilegge” gli piacque. Ma mia madre, per fargli dispetto, mi ha sempre chiamato Silvano». 

Ultima curiosità: è vero che Scopigno fu licenziato dal Cagliari perché durante una tournée negli States fece pipì sul roseto nel giardino dell’ambasciata italiana a Chicago?

«Vero. Lui aveva chiesto dove fosse il bagno. Per scherzo gli indicarono il giardino. E sa com’è: quando scappa, scappa. Soprattutto a una certa età..».

Estratto dell'articolo di Massimo M. Veronese per corrierefiorentino.it il 28 maggio 2023.

Era un muro insuperabile su cui si schiantava gente come Boninsegna, Chinaglia, Anastasi. Era il migliore stopper d’Italia, meglio di Rosato, di Guarneri, di Morini. Ma, complice il nome da rivoluzionario, Comunardo Niccolai da Uzzano, Pistoia, era anche un eretico del gol, un cannoniere all’incontrario, il Pelè del fuoco amico. I suoi non erano autogol ma capolavori rovesciati, un altro modo di vedere la vita. Ha segnato la storia del calcio e del Cagliari, è diventato un modo di dire. Controcorrente. 

Comunardo è veramente un omaggio alla Comune di Parigi? 

«Il babbo aveva idee di sinistra e Comunardo gli garbava anche perché era un nome proibito durante il fascismo, un nome da ribelle. Io sono del quarantasei, sicché...». 

Mamma Rina però non era d’accordo. 

«Non le piaceva per niente, non mi chiamò mai così. Mi ha sempre chiamato Silvano». 

E chi la chiamava «Agonia»? 

«I miei compagni del Cagliari. Ero magro magro, avevo il viso scavato, i capelli appiccicati alla testa. Sembravo sempre sul punto di tirare le cuoia». 

Anche papà Lorenzo era calciatore. 

«Era portiere nel Livorno, lo chiamavano Braciola perché si sbucciava tutto ogni volta che si tuffava. Lavorava come vetraio, faceva fiaschi e damigiane, tutte a colpi di fiato, soffiandoci dentro. Era un artista come quelli di Murano. Ha avuto tre mogli: per due volte, povero babbo, è rimasto vedovo»  

(...) 

Lo scudetto del Cagliari del 1970 fu una favola. Gianni Brera scrisse: «Con questa vittoria la Sardegna entra in Italia». 

«La Sardegna è sempre stata Italia. Eravamo una squadra di amici e una diga in difesa. E là davanti c’era Gigi Riva».  

Che tipo era Gigi Riva calciatore? 

«Attaccante irripetibile, capo carismatico e ragazzo alla mano, con cui feci anche il militare alla Cecchignola di Roma. Mai comportamenti da divo. Se non gli avessero spezzato due volte la caviglia avremmo vinto molto di più». 

Il Cagliari rivincerà più lo scudetto? 

«Intanto torniamo in serie A. Ma il Napoli insegna che tutto è ancora possibile anche se non ti chiami Milan, Inter o Juve». 

Lei è lo stopper dell’Italia ai Mondiali ’70. E Scopigno dice: mai mi sarei aspettato di vedere Niccolai in mondovisione. 

«Basta con questa storia. In realtà non disse mai quella frase». 

E cosa disse?  

«Mi vide in tv e disse solo: ma si può? Era la felicità di vedere uno dei suoi ragazzi giocare con i migliori del mondo». 

Chi era Manlio Scopigno? 

«Un uomo di intelligenza superiore e di grande ironia. Non parlava mai, ma quando apriva bocca nessuno osava fiatare, compresi Riva e Albertosi. Più grande di come viene ricordato». 

È vero che un giorno le presentò suo fratello gemello? 

«Gemello no, ma ci somigliavamo molto anche se il papà era lo stesso e la mamma diversa. Eravamo in tournée in Germania, dove mio fratello era andato a vivere a 18 anni: faceva l’uomo proiettile al circo di Colonia. Tutte le sere lo sparavano per aria fuori dal tendone. Scopigno ne rimase molto impressionato...».  

(...)

Fu un Mondiale epico però... 

«Sì, ma pieno di bischerate. Mandare a casa Lodetti fu una vergogna, così come i sei minuti di Rivera in finale. Lui e Mazzola dovevano giocare insieme, altro che staffetta». 

Però perdemmo solo in finale. 

«Forse quello è stato il Brasile più forte di sempre e Pelè era impressionate. Ma tra noi e loro non c’erano quattro gol di differenza. Senza la stanchezza della semifinale con la Germania e senza staffette ce la potevamo giocare». 

Come visse lei Italia-Germania 4-3? 

«In tribuna accanto a una riserva tedesca. Una volta si alzava lui, una volta mi alzavo io. Alla fine lui è rimasto seduto...». 

Lei però è anche il re dell’autogol. Juventus-Cagliari, 15 marzo 1970, prima contro seconda, partita dell’anno: 2-2. 

«C’è un cross dalla destra di Furino, Albertosi ha ormai la palla tra le braccia, ma arrivo io di testa in volo e zac... la metto all’incrocio: 1-0 per la Juve. Fantastico». 

E Albertosi che cosa le disse? 

«Di certo non mi disse grazie... Ma sa cosa diceva Scopigno?».  

Che lei era «un artista dell’autogol»... 

«E che la colpa delle mie sfortunate deviazioni di testa era della particolare piega dei miei sette, lunghissimi capelli...». 

Fossero solo i capelli... 19 marzo 1972, Bologna-Cagliari 2-1. 

«...cross di Fedele, Albertosi mi grida: lascia! Ma io stoppo la palla, scarto il portiere e la metto nel sacco. Tocco magistrale». 

Non si può dire certo che lei fosse uno stopper scarpone. Aveva piedi buonissimi... 

«Ho cominciato la mia carriera da centravanti, poi sono stato mezzala. E ho anche segnato gol bellissimi agli avversari, sa? Una bomba da 40 metri contro il Varese, poi infilai il Bologna bevendomi in dribbling due difensori. Ho realizzato solo gol bellissimi, nella mia e nell’altrui porta».

 Ma l’ha sempre presa con questa ironia? 

«Macché, ci scherzo adesso. A Bologna rimasi un’ora fuori dallo spogliatoio a piangere disperato. Dopo ogni autogol non uscivo di casa per giorni. I tifosi avversari quando la loro squadra perdeva mi gridavano: Niccolai, pensaci tu...». 

E non solo i tifosi avversari... 

«Una volta un compagno mi fa: come va, Comunardo? Si tira avanti, gli rispondo. E il dottor Franzi, il medico della squadra: a me pare invece che tu tiri indietro...». 

Adesso le piace riderne però... 

«Ho nobilitato l’autorete rendendola una capolavoro artistico. E le autoreti mi hanno dato in cambio una popolarità che non avrei avuto». 

Ma lo sa che lei è solo quattordicesimo nella classifica degli autogol? 

«Si, ma nessuno li ha fatti belli come i miei nemmeno Baresi e Ferri che hanno quasi il doppio dei miei autogol». 

C’è un autogol di altri che avrebbe voluto segnare? 

«Quello di Materazzi con l’Empoli nel 2006: pallonetto da quasi centrocampo a Julio Cesar. Incredibile, degno dei miei». 

E c’è un autogol che le manca? 

«Contro il Catanzaro, dal limite tiro una fucilata contro la mia porta. Ma sulla linea il mio compagno Brugnera la devia di pugno e invece dell’autorete ci danno un rigore contro. Una vera ingiustizia. Era un autogol meraviglioso...».  

Anche in America si ricordano di lei. 

«Noi del Cagliari giocammo un torneo negli Usa con il nome di Chicago Mustangs. Contro il New York, in realtà gli uruguaiani del Cerro, e a tre minuti dalla fine un certo José Rotulo mi falcia da dietro mandandomi in ospedale» 

Sono cose che capitano... 

«Si, ma sugli spalti si scatenò il finimondo. Duecento tifosi italo-americani invasero il campo per vendicarmi. Goldstein, l’arbitro, si salvò per un pelo, Rotulo pure. Non tornammo più». 

Ha allenato la Nazionale femminile... 

«Con Carolina Morace centravanti. Il calcio ora è uno sport per signorine, ma chiedere il professionismo mi pare troppo». 

E la Nazionale under 16. 

«Vincemmo un Europeo a Parigi. C’erano Pessotto, Cappellini, Melli. Ma fummo costretti a restituire il titolo». 

E perché mai? 

«Uno dei ragazzi falsificò i dati per giocare a nostra insaputa. Fu la giusta punizione ma i ragazzi non meritavano questa porcheria. Per me fu un trauma peggio di cento autoreti». 

Il giorno più bello della sua vita? 

«Il 9 luglio del 1970». 

Diciotto giorni dopo Italia-Brasile. E che partita c’era? 

«La partita della vita, è il giorno in cui ho sposato Naida. Lei e i miei figli sono i gol più belli che io abbia mai fatto».

Radja Nainggolan.

Andrea Sereni,Monica Scozzafava per il “Corriere della Sera” l’11 marzo 2023

[…] Radja Nainggolan […] è allergico ai comandamenti: non bere, non fumare, non fare serata. Quando viene scoperto con le mani nella marmellata ci mette però la faccia.

 Nainggolan è così? Prendere o lasciare?

«Sono un calciatore e prima ancora un uomo che ha scelto di essere felice. Ho nella testa e nell’anima le sofferenze che ho vissuto da ragazzo. Eravamo poveri, mia madre faceva le pulizie e mille lavori extra per sostenerci. Mio padre ci ha lasciati che ero giovanissimo. Mi sono sacrificato per diventare un calciatore, guadagnare e far vivere bene i miei cari che come me e con me hanno sofferto».

[…] Dopo una «notte brava» come fa ad andare in campo e rendere al massimo?

«La natura mi ha fatto un dono: ho un fisico che non ha mai risentito delle cavolate che ho fatto. Certo a 20 anni esci tutte le sere, adesso magari di serate ne faccio due-tre, se mi va. Ma non rinuncio a vivere. Posso anche bere un po’ la sera, l’importante è poi andare in campo a tremila. Si racconta che creavo problemi negli spogliatoi, ma da Piacenza, al Cagliari, alla Roma e all’Inter ho avuto buoni rapporti con tutti. Ci sono compagni che sento ancora oggi».

Walter Sabatini l’ha definita scherzosamente un delinquente: dice che è stato capace di bere otto «shottini» tutti insieme.

«L’ho chiamato e gli ho detto che otto sono pochi. Ne bevo anche venti. E che poi vado in campo lo stesso. Mi vuole bene, mi ha sempre consigliato di avere una vita più tranquilla. Pensa che avrei avuto una carriera migliore. Ma non sono d’accordo, in campo ho dato il massimo».

A Roma qualche bravata l’ha fatta.

«Ovunque ho fatto cavolate. A Roma arrivavo in ritardo, ci sono stati video in cui di sera ero poco lucido e poi quel famoso Capodanno a casa mia... Lo ricorderò per tutta la vita. Forse è stata quella la notte più folle».

Che cosa successe?

«Beh, i miei video ubriaco, che fumavo e dicevo parole fuori posto fecero il giro del mondo. Fui attaccato da tutti, la Roma andò su tutte le furie. E avevano ragione».

 Tornò a Cagliari anche per il tumore di sua moglie.

«Sì, dovevo stare vicino alle mie figlie. Era giusto tornare in quel momento e non mi sono tirato indietro».

 […]

 Disse: mai alla Juventus. 

«Vero. Saranno pure stati i più forti, ma ho esperienze in campo contro di loro dove vincevano, e non solo per bravura. Erano agevolati. Con la Roma, nel 2014, perdemmo 3-2, con due rigori fuori area». 

Adesso la Spal in serie B. 

«Ci sono venuto per Daniele De Rossi e dopo due giornate l’hanno mandato via. Se non ci fosse stato lui neanche ci avrei pensato. Ha avuto forti divergenze con la società, lo ha detto del resto. Ho riflettuto e alla fine sono rimasto, nonostante tutto. Devo aiutarli a salvarsi». 

 È arrivato a Ferrara dopo essere stato messo alla porta dall’Anversa in Belgio.

 «Ero contento di essere tornato nella città dove ci sono due delle mie figlie e dove sono cresciuto. Quando sono arrivato all’Anversa dicevano che ero un grande giocatore, alla fine mi hanno trattato come un pezzo di m..., un parassita. Non li perdono». 

 Ma aveva fumato in panchina, guidava con patente scaduta. 

«Sì ho sbagliato, si può ogni tanto? Agli umani succede. Non è che poi per un mese si deve parlare sempre del mio errore. Mi hanno impedito di entrare dalla porta principale, spostavano le mie cose nello spogliatoio. Mi dissero: dimostra che sei cambiato e mi sono comportato bene. Non hanno mantenuto la parola».  […]

Gigi Riva.

Giampiero Mughini per Dagospia il 28 giugno 2023.

Caro Dago, da quando ho saputo che alla sera di ieri Sky Cinema Due avrebbe trasmesso una sorta di documentario su Gigi Riva e sulla sua epopea calcistica ("Nel nostro cielo un rombo di tuono", diretto da Riccardo Milani e prodotto da Wildside, ndR) ho contato i minuti che mi separavano dalle 22,30, l'ora in cui il documentario è stato messo in onda. Come calciatore, come uomo, come personaggio Riva è impari a qualsiasi altro. 

Chi negli anni Sessanta lo ha visto calciare di sinistro il pallone ne è rimasto suggellato per sempre. Ha ancora il titolo di capocannoniere della nazionale italiana, dove mi pare abbia segnato 35 gol. Lo marcavano ogni volta in due o tre ma lui sfondava lo stesso. Li puntava per poi sterzare bruscamente verso sinistra e saettare in porta. Era alto 1,80, un niente rispetto alle torri che oggi svettano di testa sui campi di calcio, ma i suoi colpi di testa erano micidiali. Aveva con il gol un rapporto che sapeva di prestidigitazione, il fatto è che comunque la metteva dentro. 

Per me indimenticabile resta il suo volo a mezz'aria a fino a colpire di testa la palla di un 3-0 contro la  Jugoslavia. Tra le immagini trasmesse ieri sera da Sky c'è un altro suo volo sino sforbiciare di sinistro una palla all'incrocio dei pali.

Tutto intero il suo Cagliari - da Boninsegna a Domenghini a Cera a Albertosi - era formidabile, ma lui era un di più e difatti sul mercato lui valeva più del Cagliari come società. Gianni Agnelli fece i salti mortali pur di averlo nella Juve, ma Gigi non mollò la Sardegna. C'era di mezzo una donna che viveva a Cagliari e dalla quale lui non voleva allontanarsi. E del resto quando mai nella sorte di un uomo non c'è di mezzo una donna, talvolta a fargli del bene e talvolta a straziarlo e ammesso che le due cose siano nettamente separate.

Per i sardi i due personaggi più importanti del Novecento sono stati lui e Emilio Lussu, l'eroe della  Prima guerra mondiale e scrittore meraviglioso. Se aggiungi che il mister del Cagliari del tempo è stato Manlio Scopigno, uno degli uomini più intelligenti del moderno calcio italiano, capisci che siamo non alle soglie e bensì ben dentro il reame della letteratura. 

Non che fossero meno impressionanti le immagini che contraddistinguono il Riva di oggi e la sua. L'immagine di lui muto mentre se ne sta seduto su una poltrona di casa sua e fuma, non lo vedi mai senza una sigaretta in bocca. Pare che esca di casa raramente e di mala voglia. Il peso del vivere gli è divenuto pressoché insopportabile, a giudicare dal suo sguardo, dalle sue labbra contratte. Una volta che sono stato a Cagliari mi hanno indicato il ristorante dove Gigi ha un tavolo perennemente a sua disposizione e dove lui va a sedersi da solo. Con le spalle rivolte al resto della sala, mi hanno raccontato. Non so se sia vero, credibile lo è senz'altro.

E' come se il trascorrere degli anni abbia fatto gol a quest'uomo che era di una bellezza maschile strabocchevole, che è stato osannato da tutti coloro che amano il calcio, il cui valore di mercato era a quei tempi inaudito. Succede. E l'ultima immagine del documentario è un Gigi Riva in piedi immediatamente vicino al mare, lo sguardo fisso in un tentativo disperato di sorridere senza riuscirci davvero. Stasera incontrerò una mia preziosa amica che lo ha ben conosciuto. 

Estratto dell’articolo di Elvira Serra per il Corriere della Sera il 28 giugno 2023.

Ha sentito Ranieri?

«Gli ho telefonato prima della partita con il Bari. Mi raccomando, gli ho detto, guarda che tutta l’Isola è a tuo favore. Lui era un po’ commosso e un po’ teso per la gara». 

Cinquanta minuti al telefono con Gigi Riva sono quasi un miracolo. Per certo un regalo della leggenda del Cagliari, l’uomo che ha riscattato un intero popolo con il suo tiro mancino, portando in Sardegna l’unico scudetto della storia. Era il 12 aprile del 1970 e sul campo dell’Amsicora Rombo di Tuono infilava con Bobo Gori i due gol della vittoria allo stesso club contro il quale i rossoblù di Claudio Ranieri hanno appena riconquistato la Serie A. Spegne la televisione, si mette comodo sulla poltrona, giura che non sta fumando nessuna sigaretta: «Le ho già fumate prima, ma non chiedermi quante perché mi vergogno». 

Il suo ricordo più bello?

«Beh, lo scudetto. Avevamo festeggiato con tutta la squadra. Gli scapoli vivevano insieme in una foresteria e i tifosi venivano anche di notte a tenerci svegli». 

(…)

De André è stato la sua colonna sonora. Ha mai visto un suo concerto?

«Sì, una volta, ma non l’ho aspettato alla fine perché dovevo prendere l’aereo. Ero già stato a casa sua, avevamo brindato con un bel po’ di whisky, vincendo entrambi la timidezza».

Nel docufilm che da ieri sta trasmettendo Sky, «Nel nostro cielo un rombo di tuono», c’è una scena in cui voi due siete di spalle. Per coglierne tutta la dolcezza bisogna aspettare i titoli di coda.

«Lo so... Anche se devo dire la verità: il film l’ho visto solo all’anteprima e ho una gran confusione in testa, ero emozionatissimo. Devo rivederlo da solo in casa con calma». 

È riservatissimo: come ha ceduto a Riccardo Milani, che ha firmato la pellicola?

«Ma infatti la prima volta che mi ha mandato a dire che voleva fare un film su di me non ho detto sì. Poi è venuto lo stesso a trovarmi, mi ha spiegato cosa intendeva fare ed era una bella storia. È stato molto corretto sia con la Sardegna, perché la ama anche lui, sia con noi giocatori». 

Oggi quale squadra le piace?

«Non seguo più il calcio. Cagliari a parte, mi piace solo la Nazionale: ora, dopo il buio, si è rimessa a posto».

Le sue partite più belle?

«Le partite importanti erano quelle di campionato contro Juventus, Milan e Inter: quando le battevi era una bella soddisfazione». 

Tutti la volevano e lei, testardo, non ha ceduto nemmeno al miliardo offerto dalla Juve.

Ride. «Quando Arrica, il mio presidente, scoprì che non andavo, non fu contento per niente. Ma non sono testone: io ero una persona chiusa, avevo avuto un’infanzia tragica, i miei genitori erano mancati presto. Poi sono venuto a Cagliari e abbiamo costruito una gran bella cosa: lo scudetto era il sogno di ogni squadra». 

Lo avete realizzato con Manlio Scopigno.

«È stato un maestro, un fratello maggiore: mi ha insegnato a vivere. Mi diceva: perché ti incavoli? Vieni, risolvi il problema. Lo sogno ancora».

E i suoi genitori li sogna?

«Sì, anche se so già che è impossibile ritrovarli in casa il giorno dopo e mi devo rassegnare. Mi spiace solo di non aver dato loro niente delle soddisfazioni che mi sono tolto io, non ho potuto farli partecipare, non hanno vissuto quel periodo, anni meravigliosi. È un vero dispiacere». 

Come va con Gianna, la mamma dei suoi figli Nicola e Mauro?

«Bene. Mi viene a trovare tutti i giorni. Era un nostro desiderio: per me è un punto di riferimento».

Chi altro riceve in casa?

«Qualche compagno di squadra di allora e tutti gli amici importanti. Organizziamo delle cenette qui, cucino io le bistecche, mi piace rigirarle e portarle a tavola». 

(...)

Ha perdonato Norbert Hof, il «boia del Prater» che le spezzò una gamba durante Italia-Austria nel 1970?

«Ma sì, l’ho perdonato. Certo, poteva evitare quell’entrata. Però dopo due anni mi sono fratturato un’altra volta e lì mi sono fatto male da solo...».

Ha digerito il Pallone d’oro dato a Rivera e non a lei?

«No, non ancora. Mi era stato promesso che l’anno dopo sarebbe toccato a me e poi invece mi sono fatto male». 

Vogliamo parlare delle ammiratrici di allora?

«Aspetto ancora un po’ prima di raccontare le follie che hanno fatto, cose che non erano normali...».

A quale maglia è più affezionato?

«Ne ho di tutti colori, ma per me la maglia più bella resta quella bianca, pulita, senza sponsor, dello scudetto». 

Quando torna allo stadio?

«Mai più. Mi piglia l’agitazione. Invece mi devo mettere in testa che la vita è questa».

Pochi mesi fa è scomparso Pelè, due anni prima Maradona: leggende che ha conosciuto. Un giorno lontanissimo giocherete insieme in Paradiso.

«Eh, non so se sarà lontanissimo... La loro morte mi ha fatto effetto. Alla mia età prima di dormire sei un po’ teso al pensiero: non è che la morte sia una grande cosa».

La depressione come va?

«Va e viene. Ma adesso l’ho un po’ superata».

(...)

Da ilnapolista.it il 22 marzo 2023.

Il Messaggero intervista Gigi Riva. Ha 78 anni e custodisce un record di ferro, 35 gol con l’Italia in 42 partite: da allora nessuno come lui, nemmeno da vicino.

 Riva commenta l’assenza di attaccanti in Italia.

«Gli stranieri hanno rovinato la Nazionale. Sono troppi nel nostro calcio. E non c’è più un italiano che abbia la possibilità di farsi notare, di mettersi in evidenza. Sono quasi tutti attaccanti stranieri nelle squadre di vertice».

 Ai suoi tempi c’era invece abbondanza, i commissari tecnici dovevano fare scelte impopolari.

«E’ vero, c’era una rivalità fortissima, erano tutti affamati di calcio. Oggi ci sono soprattutto stranieri, a volte non ci si riesce a ricordare nemmeno come si chiamano».

A Riva viene chiesto se gli piace guardare il calcio di oggi. Risponde:

«Faccio un po’ fatica, in effetti. Bisogna rassegnarsi e accettare quello che c’è. Ci sono dei bei giocatori, non lo metto in dubbio. Ma vedo troppi passaggi, in continuazione, è noioso, si va in fondo e si crossa… Troppa tattica, troppo possesso di palla, poca fantasia».

 Qualcosa di buono? Riva:

«Ma sì, c’è chi fa qualche numero. Ma le partite di oggi mi sembrano noiose. Fatichi a ricordare i nomi, ci sono squadre con dieci stranieri e un italiano. Non sembra nemmeno il nostro campionato».

 Il Napoli di oggi la diverte? Riva:

«L’ho seguito: è entusiasmante. È una bella squadra, sta facendo un campionato meraviglioso. E ha quei due là davanti…».

 Riva su Mourinho:

«Ha personalità, temperamento, trasmette alla squadra il suo carattere. Chi era come lui ai miei tempi? Ognuno ha le proprie caratteristiche, Scopigno era l’opposto ad esempio. Mourinho nel suo genere è unico».

 Sul ritorno di Ranieri:

«Si sta comportando molto bene. Richiamarlo è stata un’ottima decisione del presidente. Il Cagliari è migliorato moltissimo, anche se rimane una sofferenza vederlo in B».

 Federico Buffa ha raccontato l’incontro tra Riva e Fabrizio De André. Lo ricorda:

«Il giorno che ci siamo conosciuti, ci siamo stretti la mano e siamo stati mezzora senza parlare…(ride) eravamo a Genova. Poi ci siamo incontrati in Sardegna, sono andato all’Agnata, a Tempio, nella sua tenuta. Mi piacevano le canzoni, certo, ma soprattutto il suo temperamento, De Andrè sapeva vedere la vita in un modo migliore di quella che era realmente. Un grande personaggio».

Manlio Scopigno, l'allenatore filosofo che sussurrava a Gigi Riva. Sollevò lo scudetto a Cagliari nel 1970: caustico nei modi e nelle uscite, geniale per le intuizioni tattiche e decisamente anti establishment. Paolo Lazzari il 14 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Il problema è che si ritrova esattamente scisso a metà tra due passioni. Non riesce a sfilarsi dai libri, perché le pensate di Kant, Hegel e Spinoza lo attraggono. Però, poi, quando vede un pallone che rotola va come in catalessi. Da giovane Manlio Scopigno, classe 1925, friulano venuto su tra quel pugno di case che è Paularo (Udine), poteva anche provare ad oscillare disinvolto tra queste due sponde antipodiche. Mollava i libri e infilava gli scarpini. O viceversa.

Quando però era diventato evidente che con una sfera tra i piedi ci sapeva fare, aveva dovuto comprimere il tempo devoluto alla formazione. Faceva il difensore, Scopigno. Prima lo aveva cercato il Rieti, poi la Salernitana. Quando, nel '51, era arrivata la chiamata del Napoli, le cose sembravano mettersi per il meglio. Non poteva sapere, Manlio, che un infortunio rimediato ai legamenti del ginocchio, miscelato all'insipienza medica del tempo, gli avrebbe prematuramente annacquato la carriera. Quella da calciatore, almeno.

L'altra, quella che lo voleva a fluttuare davanti ai sedili in legno di una panchina, si era appena involontariamente stappata. Dopo lo stop forzato, era tornato a Rieti per candidarsi all'esuberante ruolo di giocatore-allenatore. Gli avevano detto di sì e da quel giorno si sarebbe srotolato un percorso impensabile. Ma Scopigno, di nuovo, non c'era arrivato senza soffrire. E quello che più gli doleva non era certo il ginocchio. Lo squassava l'idea di non tornare a fiondarsi sui libri. Però aveva perso il ritmo, ormai. Poteva dirsi un filosofo dilettante, mentre le pulsazioni calcistiche le conosceva a menadito.

Abbastanza, almeno, per diventare allenatore in seconda al Vicenza quando scocca il 1959, fino ad afferrarne le briglie e a conquistare un paio di lucenti piazzamenti: sesto e settimo posto. Di Scopigno sorprendono le singolari intuizioni tattiche. Si sollazza ampiamente nel mutare ruolo ai suoi giocatori, arretrando gli attaccanti in mediana, avanzando i centrocampisti all'ala. Assieme a queste debordanti doti strategiche però, affiora in traslucenza anche un carattere dai tratti dissacranti. Manlio, si apprende, ti dice sempre esattamente quello che pensa, anche se questo può generare un irrefrenabile avvitamento diplomatico.

Con il presidente dei Lanerossi, Farina, divampano presto scintille. Divergono sul giudizio per un calciatore da acquistare, al Gallia - il tempio del calciomercato - e perché Manlio non le manda mai a dire. Nel '65 lo chiama il Bologna, visto che il patron Goldoni sta tentando di varare un nuovo ciclo, ma dura pochissimo. Silurato dopo una manciata di giornate, Scopigno commenta atarassico: "Leggo numerosi errori di sintassi e un congiuntivo sbagliato".

Spesso però i progetti infranti aprono la via a sogni nuovi. Il suo si materializza in Sardegna, a Cagliari. Appena arrivato annota i movimenti di Gigi Riva su un taccuino, poi fa segno che gli deve parlare. "Ascolta, te da oggi smetti di giocare da esterno. Te giochi centravanti". Basterebbe questa trovata a definire la grandezza del tecnico, ma lui non ama rosolarsi nei successi colti. Arriva sesto solo perché una gamba di Rombo di tuono si incrina. L'isola, percorsa da cumuli di questioni irrisolte - dai sequestri al gap economico col resto del paese - riconosce in quella sua creatura un motivo di impensabile riscatto.

Scopigno continua a lavorare duramente, perché ha intravisto il potenziale di quella squadra. Poi però ci sono pure gli imprevisti disseminati dal suo carattere irrequieto. Una sera, durante una festa all'ambasciata italiana di Chicago (il Cagliari è in tournée negli States) alza eccessivamente il gomito e finisce per urinare nel giardino dell'ente. La cosa innesca uno scandalo giornalistico che arriva presto davanti alle pupille sgranate del presidente Rocca. Quando il patron lo chiama per ricevere spiegazioni, Scopigno lo liquida in fretta: "Presidente si sbrighi, mi si fredda la minestra". Zero tempo per i convenevoli. Licenziato. 

Tornerà presto in sella, a Cagliari, per riprendersi tutto con gli interessi. L'estate del '69 coincide con il suo allunaggio calcistico. Via Boninsegna, che inciampa spesso nelle stesse traiettorie di Riva. Dentro Domenghini e un manipolo di altri buoni innesti. La squadra è più unita ed equilibrata. I giocatori lo idolatrano, anche perché sa sfoderare un pronunciato lato umano. Come quando ne becca una comitiva, Riva compreso, intanta a fumare di brutto in camera d'albergo. Prima fa una faccia severa, poi spiazza: "Quando fate i festini chiamate", dice accendendosi una sigaretta. Quel Cagliari che diventa campione d'Italia coincide con l'apice di una carriera che andrà inseguito sgretolandosi, fino a terminare incomprensibilmente nel dimenticatoio. La filosofia applicata al calcio è un congegno frangibile. Ma che show, finché è durato.

Gigi Riva: "Quel gol a Vicenza in rovesciata. I silenzi con De André". Bandiera del Cagliari e della Nazionale, uno dei più grandi talenti italiani, Gigi Riva racconta a ilGiornale.it alcuni passaggi più significativi della sua incredibile carriera. Un campione capace di oltrepassare ogni tempo, generazione e cambiamento. Federico Bini il 25 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Luigi Riva, detto "Gigi", avvicinandosi alla soglia degli 80 anni rimane non solo un simbolo indiscusso del Cagliari Calcio che portò allo scudetto nella stagione 1969/1970, ma è considerato uno dei più forti giocatori di tutti i tempi, non solo nel panorama nazionale ma anche internazionale. Arrivando a conquistarsi la stima di un severo critico, dai gusti raffinatissimi, come Gianni Brera. 164 goal realizzati con il Cagliari, 35 con la Nazionale rispettivamente in 315 e 42 presenze, campione d’Italia e d’Europa, trascinatore e capocannoniere, schivo e riservato. Una vita di successi, dolori ed incontri - anche singolari -, da De André a Brera e Burgnich. La leggenda di Leggiuno (Varese) continua a osservare l’evoluzione di un calcio in cui "però non mi riconosco quasi più".

Come la devo chiamare?

"Mi chiami semplicemente Gigi. Niente formalismi".

La sua non è stata solo una vita di trionfi e glorie ma anche di enormi sofferenze...

"Ho avuto un’infanzia dolorosa e dura. La vita mi ha dato tanti dispiaceri. I miei genitori sono morti quando ero piccolo. Arrivai in Sardegna dalla Lombardia arrabbiatissimo con la vita".

La definiscono anche il “campione schivo”.

"A me non è mai piaciuto mettermi in mostra. È un fatto di carattere".

Si dice che il Cagliari senza Gigi Riva sarebbe stato come il Santos senza Pelé. Concorda?

"Fosse vero sarebbe bellissimo…".

Come nasce "Rombo di tuono"?

"C’è una storia dietro questa cosa. Gianni Brera era venuto una mattina accompagnato dai dirigenti del Cagliari a vedere l’allenamento. Io stavo provando delle punizioni dal limite dell’area, e lui rimase colpito dal fatto che sentiva come un rumore di tuono".

Aveva buoni rapporti con Brera?

"Sì. Una persona splendida, simpatica, divertente e di grande cultura".

In che modo approdò al Cagliari?

"Giocavo nel Legnano, vennero a vedermi alcuni dirigenti, tra cui Andrea Arrica, fecero una buona relazione e il Cagliari decise di prendermi. C’era anche l’interesse di Dall’Ara del Bologna".

Lei fu il trascinatore del Cagliari nella vittoria dell’unico e storico scudetto.

"Fu una soddisfazione immensa perché capivo che il mio inserimento era stato determinate. L’anno dopo non riuscì a difendere il titolo. Prima dell’infortunio avvenuto con la Nazionale vincemmo a Milano contro l’Inter per 3 a 1 dove segnai due gol. Ma la stagione fu compromessa".

Cosa ha rappresentato nel 1969/1970 la vittoria dello scudetto di una squadra del Sud?

"La vittoria segnò una sorta di riscatto sociale per la Sardegna. Infatti è stata cancellata in tutti i suoi difetti ed è diventata la gioia dell’Italia".

Essendosi affermato come talento, campione e capocannoniere non ci fu da parte delle grandi squadre del Nord come Juventus o Inter, la corsa ad acquistarla?

"Non ci sono andato io. Mi hanno venduto due o tre volte, ma io mi rifiutai!".

È vero che in Sardegna ebbe modo di incontrare anche il bandito Mesina?

"Preferisco non dire niente a riguardo. So solo che veniva a vedere le nostre partite".

La passione per le canzoni di De André?

"Mi sono sempre piaciute. Ho avuto anche modo di conoscerlo grazie a un mio compagno di squadra. Quando ci incontravamo ricordo che lui parlava poco e io altrettanto. Però ci siamo trovati e bastava uno sguardo, un semplice contatto per confermare l’amicizia".

Il gol più bello che ha realizzato?

"Penso a Vicenza, una rovesciata in area di rigore, molto difficile perché il pallone arrivava dalla parte opposta".

Con l’Italia ha vinto anche l’Europeo del 1968.

"Mi ricordo che avevamo giocato la finale a Roma e dopo la partita i giocatori sono rientrati in albergo, io no perché dovevo partire in aereo il giorno dopo e allora ho passato tutta la notte a camminare verso l’aeroporto in mezzo alla folla ed è stato bellissimo".

Tra i compagni di avventura all’Europeo c’erano campioni come Facchetti, Zoff, Rivera, Mazzola... insomma il gotha del calcio italiano.

"Sì. Era una buona squadra… Rivera e Mazzola erano degli autentici trascinatori anche dal punto di vista caratteriale. Se stavi tranquillo, bravo e ti impegnavi ti davano la possibilità di fare goal in tutti i novanta minuti".

Lei ha visto giocare sia Pelé sia Maradona. L’eterno conflitto sul primato di chi è stato il più forte. Si fece un’idea?

"Non si possono fare paragoni. Erano due più forti di tutti".

Ha lasciato eredi nel calcio italiano?

"Non so, sta agli altri dirlo".

Segue ancora il calcio con la passione di un tempo?

"Sì, anche se non sono d’accordo sull’ingresso di così tanti stranieri nel nostro campionato. Ci sono squadre che non hanno nemmeno un giocatore italiano".

Il difensore più “duro” che ha incontrato?

"Tarcisio Burgnich dell’Inter. Definito da Armando Picchi 'la roccia'. Purtroppo se ne è andato anche lui due anni fa".

Una gioia e un rimpianto nella sua lunga carriera?

"La vittoria dello scudetto e l’impossibilità di difenderlo a causa del mio infortunio".

Fabian O'Neill.

Da fanpage.it il 28 dicembre 2022.

È stato un Natale triste per chi ama il calcio nella sua accezione più romantica, quella magia del pallone che è un dono riservato a pochi. Ecco, Fabian O'Neill quel dono lo possedeva, ma purtroppo per lui si accompagnava a un demone che non gli ha lasciato pace per tutta la sua vita, portandolo infine alla morte prematura ad appena 49 anni: l'alcolismo. 

El Mago' O'Neill cercava rifugio nel bere per il suo mal di vivere, aveva provato ad uscirne quando gli era stato detto che aveva il fegato gravemente compromesso e stava giocando con la propria pelle, sembrava avercela fatta un paio d'anni fa, ma era solo una finta. Una di quelle che lasciava di sasso gli avversari, come ricorda bene chi lo ha affrontato in Serie A quando vestiva le maglie di Cagliari, Juventus e Perugia. Un giovanissimo Rino Gattuso lo sta ancora cercando, ma non è certo l'unico, visto che quando era in giornata Fabian era una gioia per il pubblico e una dannazione per chi lo aveva di fronte.

 Nelle ultime ore ha commosso il saluto rivolto al giocatore dalla figlia Marina, la maggiore di tre fratelli, che su Instagram ha scritto parole accorate per O'Neill: "Che tu sia in pace papà. Tempo fa avevi già perso la scintilla, la gioia e la tua essenza unica. Ti vedevo sempre più triste, più malato, con gli occhietti smarriti, lo sguardo perso, il tuo fisico così forte sempre più debole e deteriorato. Mi ha fatto male sentirti dire qualche volta ‘non voglio vivere più' nelle tue poche ore di sobrietà. Desidero che il tuo viaggio su questa terra serva a capire di più sull'alcolismo, questa malattia che ti ha sedotto fin da giovane, che ha portato via tutto". 

"Ho sempre voluto capire cosa fosse così forte che sentivi e non riuscivi a sopportare, che cos'era quella cosa di cui avevi bisogno letteralmente ogni giorno della tua vita e che cercavi nei bicchieri di alcol – ha continuato la giovane, tirando fuori tutto quello che aveva dentro da tempo – Si vede che la tua sensibilità non sopportava così tanto, erano più di 10 anni che i medici ci davano rapporti negativi e contavano i tuoi mesi di vita. Sono passati 10 anni da quando ho perso la speranza, ma nessuno si prepara mai a questo momento e non poteva essere diversamente".

Fabian O'Neill, morto l'ex Cagliari e Juventus: cosa gli ha rovinato la vita. Libero Quotidiano il 26 dicembre 2022

Il calcio italiano piange Fabian O'Neill, scomparso a Montevideo a soli 49 anni. Ex centrocampista di Cagliari, Juventus e Perugia, aveva dato il meglio di é tra 1996 e 2000 in Sardegna. Fantasioso, potente, elegante e dotatissimo, aveva convinto Luciano Moggi a portarlo alla Juventus come alter ego e potenziale sostituto di Zinedine Zidane. Proprio il francese lo ha definito "il calciatore più tecnico con cui abbia giocato". A Torino però non sfonda: poco spazio, poca fiducia, zero continuità. Da lì, ancora relativamente giovane, inizia la sua parabola discendente che lo porta prima al Perugia e poi di nuovo a Cagliari, per una seconda avventura fugace e altamente deludente. Il finale di carriera è a casa, al Nacional Montevideo, proprio dove la sua carriera era cominciata.

Ma O'Neill è ormai un altro giocatore e soprattutto un altro uomo rispetto al ragazzo che aveva fatto impazzire i tifosi rossoblu. Fuori dal campo ha gravissimi problemi di dipendenza dall'alcol, che ne limitano il rendimento e la condizione fisica negli ultimi anni di attività. E soprattutto ne rovinano la vita extra-calcio. La realtà per l'O'Neill ex calciatore è infatti durissima: sperpera tutti i suoi aver tra debiti e ingenua generosità, anche se ammetterà un giorno di essere riuscito a vivere in modo sereno nonostante la povertà e i problemi familiari. 

Commovente il ricordo del Cagliari, la squadra a cui legherà per sempre il suo ricordo: "Orgogliosi di aver potuto ammirare da vicino il tuo genio: puro, cristallino, come i diamanti più preziosi - si legge sulla pagina social del club sardo -. Ci hai fatto innamorare della tua classe, Cagliari non ha mai smesso di voler bene al suo Mago con la '10' sulle spalle. Riposa in pace, Fabian. Per sempre uno di noi".

O’Neill è morto, l’ex centrocampista della Juve era ricoverato a Montevideo. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 25 dicembre 2022.

Dopo aver lasciato il calcio, Fabian O’Neill aveva avuto problemi con l’alcool. L’ex calciatore aveva anche provato a smettere, raccontò in un’intervista, ma non ci riuscì

Il mondo del calcio piange Fabian O’Neill, ex centrocampista di Cagliari, Juventus e Perugia tra il 1995 e il 2002. Il calciatore uruguaiano (ora 49enne) era ricoverato da qualche giorno in terapia intensiva a Montevideo, in Uruguay, come riportato anche dal giornale locale El País che, a sua volta, cita il giornalista Alberto Kesman: «O’Neill è sempre stato troppo buono con gli altri e cattivo con sé stesso».

O’Neill e il dramma dell’alcolismo. L’allarme della figlia: «Sta morendo»

Il riferimento è al problema dell’alcol e a una vita piuttosto complicata una volta conclusa la carriera: «I miei problemi, andati avanti nel corso degli anni, rimangono. Prima di tutto ho avuto problemi con l’alcol: dopo un’operazione alla vescica non avrei dovuto toccare un bicchiere per tre anni, ma ho resistito soltanto un mese. Va meglio con le scommesse perché non ho più soldi per poter giocare», raccontò in un’intervista cinque anni fa. O’Neill — che il suo tecnico Serse Cosmi definiva «forte come Zidane» — era arrivato in Italia nel 1995, acquistato dal Cagliari dal Nacional Montevideo. Trequartista dotato di grande talento, si trasferì alla Juventus nel 2000 per 18 miliardi di lire (più il prestito di Ametrano). In bianconero, però, non riuscì a incidere e nel gennaio 2002 passò al Perugia nell’ambito dell’operazione Baiocco. Con la maglia dell’Uruguay ha raccolto 19 presenze, segnando due reti. L’addio al calcio nel 2003, dopo il ritorno al Nacional, a soli 29 anni. Adesso la bruttissima notizia.

Orgogliosi di aver potuto ammirare da vicino il tuo genio: puro, cristallino, come i diamanti più preziosi.

Ci hai fatto innamorare della tua classe, Cagliari non ha mai smesso di voler bene al suo Mago con la "10" sulle spalle.

Riposa in pace, Fabian. Per sempre uno di noi. 

Fabian O'Neill è morto, calciatore uruguaiano ex di Juve, Cagliari e Perugia. Aveva 49 anni. 'El mago' è morto per un'emorragia. di Mario Frongia su La Repubblica il 25 dicembre 2022.

Ha dribblato tutto e tutti ma l'ultima magia non gli è riuscita. Fabian O'Neill è morto alle 12,55 di oggi. Aveva 49 anni. Il suo incubo, l'alcol, se lo è portato via nel giorno di Natale. A Montevideo, da un letto della clinica Medica Uruguaya. L'ex fantasista di Cagliari, Juventus e Perugia era stato ricoverato sabato scorso. Ultima terribile puntata di una vita in salita, in campo e fuori.

Fabian, originario di Paso de los Toros, dove era nato il 14 ottobre del '73, era da qualche giorno in terapia intensiva. Inutili i tentativi dei sanitari per tenerlo in vita e salvarlo dalle grinfie di un'avanzante e implacabile malattia epatica. El mago, come veniva chiamato, se ne è andato in solitudine. Dopo aver trascorso gli ultimi anni in una fattoria di un amico che gli aveva offerto un lavoro, mandriano, un letto e pasti caldi. Talentuoso, dribbling e movenze da calcio "bailado", piedi docilissimi, O'Neill è nato calcisticamente nelle giovanili del Nacional. A Montevideo debutta in prima squadra nel 1992: una stagione speciale che si conclude con la vittoria del campionato. Nel novembre del 1995 Massimo Cellino coglie l'attimo e Fabian approda al Cagliari.

Con i primi stipendi acquista una Porsche Carrera: "Vi faccio fare un giro, vi divertirete" dice allegro ai cronisti. Giovanni Trapattoni, allora alla guida dei sardi, lo stoppa: "Potrai gironzolare in macchina solo dopo che avrai segnato dieci reti!". Al Cagliari O'Neill firma 120 presenze, quattro stagioni in A e una in B. Il bottino è di 12 gol. Nel 2000 passa alla Juventus. Il club bianconero fa felice Cellino: nelle casse rossoblù finiscono 18 miliardi di lire più il prestito di Raffaele Ametrano. Ma a Torino (14 presenze) le cose non andranno al meglio. L'ambientamento si complica, il clima rigido non lo favorisce, l'alcol è un nemico mai del tutto sconfitto. Al mercato di riparazione del 2002 viene ceduto al Perugia, con Davide Baiocco che va in bianconero.

In Umbria il tecnico dei Grifoni, Serse Cosmi, lo dipinge così: "Non ho mai allenato un giocatore così forte!". Ma l'incostanza e un filo di debolezza caratteriale non hanno mai condotto O'Neill sui livelli possibili grazie a un talento smisurato. Dal Perugia fa rientro al Cagliari. È l'ultimo step italiano. Ma il feeling con una terra e una tifoseria che lo aveva da subito adottato, non lievita. Fabian è triste e insicuro. Beve, sempre oltre le righe. L'addio all'Italia è inevitabile. Torna in Uruguay per vestire ancora la maglia del Nacional. Sarà un epilogo senza infamia e senza lode. Non si ha più traccia dei suoi dribbling in punta di piedi, delle giocate imprevedibili, degli assist no look. In carriera ci sono anche 19 gettoni e 2 gol con la Celeste.

Lascia il calcio professionistico nel 2003, all'età di 29 anni. Da allora, un altalenarsi di ricoveri e di periodi di disintossicazione, mai portati a termine. Lo scorso novembre le condizioni di salute si sono aggravate. Le prime avvisaglie dell'avanzare del male e del precipitare della situazione, arrivano dal cronista uruguagio, Alberto Kesman. "Una notizia che non vorremmo mai ascoltare, però in questo momento un suo amico mi informa che Fabian O'Neill è in terapia intensiva della Medica Uruguaya e i medici stanno tentando di salvargli la vita. O'Neill è sempre stato troppo buono con gli altri e cattivo con sé stesso. Dio lo aiuti a sopravvivere" il tweet postato da Kesman la scorsa settimana. Il vizio del bere ha battuto il giocoliere. L'ha scaraventato per terra e fatto finire sotto i ferri. Ma neanche dopo l'intervento e con una ferrea lista di divieti, Fabiano O'Neill è riuscito a rimettersi in piedi. Un dribbling riuscito male non gli ha lasciato scampo.

L'inchiesta di Torino. Florenzi indagato per calcioscommesse, nei guai il difensore del Milan: è la stessa inchiesta di Fagioli, Tonali e Zaniolo. Redazione su L'Unità il 15 Novembre 2023

Alessandro Florenzi, terzino campione d’Europa con la Nazionale Italiana e da tre anni in forza al Milan, è indagato dalla Procura di Torino: al calciatore è contestata la fattispecie prevista all’art. 4 della legge 401 del 1989, l’esercizio abusivo di attività di giuoco o di scommessa.

Il nome di Florenzi, scrive l’Agi, compare nello stesso procedimento in cui sono indagati anche altri ‘big’ del calcio italiano: lo juventino Nicolò Fagioli, l’ex milanista Sandro Tonali (oggi al Newcastle) e l’ex Roma Nicolò Zaniolo, ora in forza all’Aston Villa nella Premier League inglese.

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Fagioli è stato squalificato per 12 mesi, cinque dei quali da scontare con pena alternativa

L’inchiesta, coordinata dalla pm Manuela Pedrotta e dalla procuratrice Enrica Gabetta, verte su un giro di scommesse su piattaforme illecite.

Il terzino rossonero nei prossimi giorni si recherà a Torino per rispondere alle domande del pm.

Nell’indagine di Torino per calcioscommesse Fagioli e Tonali hanno ammesso le proprie responsabilità: per questo la giustizia sportiva li ha già condannati, con lo juventino squalificato per 12 mesi (cui 7 effettivi e 5 commutati in altre prescrizioni) e l’ex milanista Tonali per 18 mesi (di cui 10 di assenza forzata dai campi e gli altri 8 mesi da scontare con pene accessorie). Zaniolò ha invece respinto le accuse, sostenendo di aver scommesso online ma mai  eventi organizzati da FIGC, UEFA e FIFA, cosa vietata a chi è calciatore di professione. Redazione - 15 Novembre 2023

Da ilnapolista.it martedì 7 novembre 2023. 

Viene intervistato dal Corriere del Mezzogiorno edizione Puglia, a firma Nicolò Delvecchio.

«Ho chiesto alla Figc due volte la grazia perché voglio tornare nel mondo del calcio. Non credo sia giusto che chi gioca nel Bari non debba avere sconti e chi invece si trova in una big si appelli a queste cose per ottenere benefici. Esistono delle pene? Si applichino senza sconti. Non mi sono mai nascosto dietro nessuno e ho sempre ammesso le mie responsabilità. Altri, invece, si professano innocenti pur sapendo di non esserlo, aiutati anche da una stampa favorevole. La ludopatia nei giovani calciatori? Ci si inventa di tutto pur di aiutare chi gioca in squadre importanti…». 

Nel 2011 Bellavista rimase direttamente coinvolto nella vicenda calcioscommesse che coinvolse, oltre alla giustizia sportiva, anche le Procure di Cremona, Bari, Napoli e Genova. Quello scandalo colpì direttamente Bari e Lecce per il derby truccato del maggio 2011 (al San Nicola finì 2-0 per i giallorossi) e Bellavista, sotto indagine a Cremona per altre vicende, fu infine radiato a vita dalla Figc. Ora che si torna a parlare di calciatori e scommesse, l’ex centrocampista sente di doversi togliere qualche sassolino dalla scarpa. 

Da tempo pubblica sui suoi social post relativi alle vicende presenti e passate.

«Mi dà fastidio l’ipocrisia. Qualche giorno fa è andato in onda un servizio in tv in cui Beppe Signori, ex grande calciatore, dice di essere totalmente estraneo alla vicenda calcioscommesse e tira in ballo me.

È falso: io ho sempre ammesso le mie responsabilità, lui sostiene di aver rinunciato alla prescrizione e, per questo, di essere stato assolto con formula piena. Però nel filone principale di indagine, quello di Cremona, lui non ha rinunciato a nulla e le pene sono state prescritte. Lì il gip lo indicava come “organizzatore” dell’associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva. Però questo non è stato detto». 

Pensa che aver ammesso le sue responsabilità possa averla danneggiata?

«Non credo, alla fine molti giocatori che hanno confessato di aver truccato le partite hanno ripreso a giocare dopo poco tempo e a livelli alti. Ci sono stati, e ci sono ancora, due pesi e due misure: i calciatori di squadre importanti alla fine passano per innocenti e vengono aiutati, quelli delle piccole invece devono scontare tutto fino alla fine. Questa non mi sembra giustizia. Ora addirittura sento parlare di ludopatia…».

Si parla di ludopatia nei casi recenti di Tonali e Fagioli, giocatori di Milan (ora al Newcastle) e Juventus. La considera una scusa?

«Non so se effettivamente abbiano questa patologia, e a loro va comunque la mia solidarietà. Dico solo che chi sbaglia deve pagare. Non credo sia giusto che chi gioca nel Bari non debba avere sconti e chi invece si trova in una big si appelli a queste cose per ottenere benefici. Esistono delle pene? Le si applichino senza scorciatoie. La situazione in cui mi trovai coinvolto io era sicuramente più grave, ma questo non significa irrogare pene ridicole».

Lei in passato ha chiesto la grazia alla Figc. Ha ottenuto risposta?

«L’ho chiesta due volte, non ho mai ricevuto risposte. Signori e l’ex portiere della Cremonese Paoloni, colpevoli quanto me, sono stati graziati e possono tornare a lavorare nel calcio. Ma sono al lavoro con i miei avvocati, Casimiro Delli Falconi e Francesco Rondini, per cercare di ottenerla. Abbiamo una chat apposita “Giustizia per Bellavista”».

Cosa fa adesso?

«Sono consigliere comunale a Bitonto, ho un centro sportivo rinomato, lavoro nell’edilizia. Non ho bisogno di lavorare nel calcio e la mia battaglia non è finalizzata a rientrare nel pallone. È solamente una questione di principio».

11 La decadenza progressiva delle storiche agenzie di autorevolezza, famiglia, Chiesa e scuola, dovuta anche all’estrema accessibilità della (peraltro fragile) autoinformazione, per la quale ad esempio Salvini fa comizi baciando il rosario in opposizione radicale alle posizioni del Papa, i genitori aggrediscono gli insegnanti il cui giudizio non è gradito e l’abbandono scolastico, che almeno in Italia, è al massimo storico, mina gli elementi di relativa stabilità dei paradigmi culturali, indipendentemente dalla loro possibile trasgressione. Infatti, l’ateismo, i conflitti familiari, la critica ai contenuti pedagogici prestabiliti, comportano comunque un’articolazione dell’esperienza vissuta che è altresì positiva in rapporto alla pura autoreferenzialità anarchica dell’informazione online. Il communis, dono condiviso, si trasforma progressivamente in entropia comunicativa. 

12 Per il Club dei non più capenti, è ormai inevitabile perciò l’esercizio triste del silenzio più adeguato possibile e comunque la rinuncia ad ogni atteggiamento supponente. Le gocce hanno ormai scavato la nostra pietra fino in fondo.

Ludopatia, quando è malattia e quando una scusa - Linda Di Benedetto su Panorama il 24 Ottobre 2023

La recente ondata di calcio scommesse ha riacceso i riflettori su un problema sempre più presente nella nostra società che non può (e deve) essere più ignorato Dietro lo scandalo delle scommesse illegali che ha travolto alcuni calciatori italiani come Fagioli, Tonali e Zaniolo e che rischia anche di allargarsi coinvolgendo altri big del calcio, potrebbe esserci una vera e propria dipendenza dal gioco d'azzardo che le società avrebbero fatto finta di non vedere. Ma fino a che punto la ludopatia sia causa o alibi non è facile stabilirlo. Il sospetto è infatti che questa dipendenza possa essere usata per nascondere la responsabilità personale di un professionista lautamente remunerato che decide consapevolmente di infrangere le regole.

«Il problema della ludopatia è serio ed usarlo come espediente sarebbe un ulteriore aspetto inquietante della vicenda» commenta a riguardo lo psichiatra Santo Rullo, fondatore della nazionale di calcio a cinque per persone con disturbi mentali “Crazy for Football”. Esclude quindi che i giocatori possano usare questo espediente per farla franca? «No, ma significherebbe nascondere un eventuale dolo o sottovalutare un segno di disagio dei giocatori implicati. La ludopatia è una dipendenza comportamentale, che da un punto di vista psicologico non si differenzia molto dalle altre dipendenze comprese quelle da sostanze stupefacenti. La scommessa agisce sulle emozioni della persona in una sorta di sfida alla morte. Lo spezzettamento degli eventi singoli su cui scommettere (calci d'angolo, cartellini gialli, etc...) determina uno stimolo emotivo continuo che mette a maggior rischio di comportamento da cui dipendere». Come si manifestano questi comportamenti nel ludopatico? « I comportamenti di gioco compulsivo spesso si manifestano associati ad altre condotte di disagio. La pressione psicologica cui questi ragazzi, poco più che adolescenti, sono sottoposti nella loro attività agonistica certamente procura sintomi ansiosi nei soggetti maggiormente vulnerabili. Anche le loro abilità sociali sono meno efficienti per una eccessiva esposizione sui social».

Nel mondo del calcio era prevedibile che accadesse? «Da tifoso sono amareggiato per quanto sta accadendo nel mondo del calcio, da medico penso che fosse prevedibile ma molti, evidentemente anche all’interno dei club, hanno voluto chiudere gli occhi. Il calcio scommesse non può e non deve tradursi semplicisticamente in un gruppo di sportivi milionari che scommettono enormi quantità di denaro, mettendo a rischio la propria carriera, nel tentativo di arricchirsi ulteriormente. No, è molto di più e molto peggio: è un disturbo patologico da gioco d’azzardo in cui a farla da padrone non è il tentativo di vincere ma tutto il contrario, ossia quello di perdere per poter continuare a scommettere». Secondo lei le società hanno ignorato il problema? «Sono sconcertato dal fatto che nessuno nelle squadre si sia mai reso conto di questa dipendenza che oltretutto si manifesta con chiari sintomi e segnali. Lo dico da tempo e quanto sta avvenendo conferma la correttezza della mia posizione: i professionisti dello sport devono essere supportati costantemente da psicologi e psichiatri, per migliorare le prestazioni in campo ma soprattutto per dotarli degli strumenti per far fronte a tutte quelle difficoltà che le pressioni e le aspettative producono nelle menti di questi giovani come la depressione o appunto, la ludopatia. La salute mentale è oggi una vera e propria emergenza nel mondo dello sport professionistico, per questo mi auguro che un evento così dannoso per il sistema calcio smuova le Federazioni affinché si impegnino attivamente per proporre a tutti i club e società sportive un piano per contrastare fenomeni di questo tipo nell’interesse dell’attività agonistica ma soprattutto degli sportivi. Se nulla cambierà, se non si correrà immediatamente ai ripari ci troveremo presto a commentare altri eventi magari più drammatici in cui saranno coinvolti sportivi professionisti». Da una ricerca della Luiss è emerso che il 60% dei calciatori cinque anni dopo il ritiro dall'attività agonistica, vive in uno stato di indigenza, per molteplici fattori tra cui la ludopatia. Cosa ne pensa? «Lo studio della LUISS conferma ciò che vediamo noi clinici. L'interruzione dell'attività agonistica rappresenta una sorta di pensionamento Baby di persone abituate ad un certo grado di notorietà (anche i giocatori di serie minori in piccoli centri sono dei relativi idoli). Questo comporta una ferita narcisistica che può indurre disagio e conseguentemente anche maggiore vulnerabilità per le dipendenze, inclusa quella da gioco. E il gioco per i pensionati... è sempre una pessima via d'uscita dalle difficoltà psicologiche ed economiche. Collaboro con un'associazione del terzo settore fondata da ex-calciatori come Beppe Dossena ed altri, che si fanno carico del disagio dei loro colleghi meno fortunati, portando vecchie glorie del calcio a testimoniare i valori dello sport nelle scuole e nei diversi ambiti sociali».

1980, scoppia il "Totonero": il primo grande scandalo del calcio italiano. Avatar di Paolo Lazzari il 21 Ottobre 2023 su Il Giornale.

L'idea di organizzare un giro di scomesse clandestine venne a un commerciante di ortofrutta e ad un ristoratore: ne uscì fuori una caterva di squalifiche, tra club, tesserati e calciatori

Oggi che il calcio italiano si avvita nello stordente vortice delle scommesse, quella data pare sfumare in dissolvenza. Eppure le assonanze sono potenti. Era quarantatré anni fa. Marzo del 1980. In una stanza angusta della procura della Repubblica di Roma, due uomini stanno stappando una vicenda destinata ad investire frontalmente una caterva di squadre di Serie A e B, oltre a mucchi di giocatori e tesserati. Uno è Massimo Cruciani, professione commerciante di ortofrutta all'ingrosso. L'altro Alvaro Trinca, proprietario del ristorante "La Lampara" a due passi da piazza del Popolo, a Roma. Il "Totonero", nome in codice dello scandalo, comincia qui.

Che c'entrano due soggetti del genere? C'entrano eccome. Cruciani, infatti, è il grossista di Trinca. E siccome frequenta spesso il ristorante, si accorge di quanti calciatori - specie di Roma e Lazio - facciano la spola lì, per consumare un piatto e sorseggiare un bicchiere di vino. La scintilla si innesca spontanea. Il ristoratore e il fruttivendolo si mettono in testa che quella situazione va sfruttata meglio. Che può essere esponenzialmente più redditizia di un conto salato per pranzo o cena. 

Nasce da qui, grazie a tenaci dosi di confidenza con chi scendeva in campo, il progetto di allestire un ribaldo giro di scommesse clandestine. Chi punta ha la garanzia che le partite giocate andranno a finire in un certo modo, perché la connivenza di chi si trova in campo fa la differenza. C'è soltanto da sfregarsi le dita e incassare. La prospettiva è quella di nuotare in un torrenziale fiume di milioni di vecchie lire.

Solo che quel 23 di marzo, in Procura, Cruciani e Trinca ci vanno perché si ritrovano sul lastrico. Nel giro di un paio di mesi hanno perso centinaia di milioni perché alcune partite non sono finite come era stato stabilito. Si sentono fregati dai calciatori. Così, un po' smargiassi e anche un po' disperati, fanno partire una clamorosa denuncia: "Siamo stati truffati".

Una coppia di fregatori seriali che viene a sua volta gabbata. Sarabbe tutto molto comico, se non fosse anche maledettamente vero. In seguito alla denuncia si attivano, infatti, i lesti riflettori della magistratura. Viene appurato che il giro coinvolge club di serie A e B, semplici tesserati e calciatori. Si procede con una sfilza di plateali arresti a bordo campo. L'Italia è squassata da una vicenda che sembra irreale. I tifosi perdono i loro punti di riferimento, contemplando i beniamini premuti alla sbarra.

Vengono fuori i nomi di 27 calciatori e 12 società. Scattano le manette per un Stefano Pellegrini dell'Avellino, Sergio Girardi del Genoa, Massimo Cacciatori, Bruno Giordano, Lionello Manfredonia e Giuseppe Wilson della Lazio, Claudio Merlo del Lecce, Enrico Albertosi e Giorgio Morini del Milan, Guido Magherini del Palermo, Gianfranco Casarsa, Mauro Della Martira e Luciano Zecchini del Perugia. Per altri arrivano ordini di comparizione, tra cui Paolo Rossi del Perugia, Giuseppe Dossena e Giuseppe Savoldi del Bologna e Oscar Damiani del Napoli. 

Si viene anche a sapere che una delle modalità di pagamento consisteva semplicemente nell'avvolgere pacchi di banconote nella carta di giornale. Iniziano dunque i processi che, giunti al secondo grado, emettono verdetti atterrenti: retrocessione in B per il Milan e la Lazio, penalizzazioni per Avellino, Bologna e Perugia. Assolte, invece, la Juventus, il Napoli e il Pescara.

Felice Colombo, presidente del Milan, viene radiato. Tommaso Fabbretti, patron del Bologna, si prende un anno di inibizione. Tra i calciatori, pene esemplari toccano a Stefano Pellegrini dell'Avellino (6 anni di squalifica), a Cacciatori della Lazio e Della Martira del Perugia (5 anni) ed ai più celebri Enrico Albertosi (4 anni), Bruno Giordano (3 anni e 6 mesi), Giuseppe Savoldi (3 anni e 6 mesi) e Paolo Rossi (2 anni). La lista è folta e interessa anche alcuni club e tesserati di B.

Uno scandalo devastante, che penetra in prodondità tutto il tessuto connettivo del calcio italiano. Servirà lo scorrere salvifico del tempo a tessere un'indispensabile operazione di maquillage per il volto deturpato del pallone nostrano. Fino al prossimo disastro, si intende.

Avanti Popolo, confessione e terremoto: "Ho scommesso con calciatori che ancora giocano in Serie A". Libero Quotidiano il 25 ottobre 2023

Ospite di Avanti Popolo, l'ex portiere Marco Paoloni ha raccontato su Rai 3, di essere a conoscenza di altri calciatori con il vizio delle scommesse. "Ho scommesso con calciatori che giocano ancora in Serie A e altri che sono oggi in federazione. Non andavo in giro col registratore, ma avrei le prove. Mi hanno criticato sui giornali, ma i primi erano loro". E ancora da Nunzia De Girolamo: "Ho iniziato ad Ascoli con un compagno di squadra che mi fece vedere un sito, un po’ come Fagioli con Tonali. Io non lo sapevo ma dietro c’era la malavita, tutto partiva da Singapore". La carriera del giocatore si è poi interrotta quando è stato accusato di aver messo del sonnifero nelle bottigliette d'acqua dei compagni della Cremonese per condizionare il risultato di una partita. In quel caso Paoloni fu radiato dalla Figc, ma nel 2019 venne assolto dalla giustizia penale.

Andrea Pasqualetto per corriere.it - Estratti martedì 24 ottobre 2023.

All’inizio fu lui, Marco Paoloni, portiere della Cremonese e poi del Benevento, una discreta carriera chiusa nel peggiore dei modi: carcere. Era il primo giugno del 2011 e l’allora ventisettenne numero uno della squadra campana diventò di colpo il mostro delle scommesse. 

L’accusa era pesante e tragicomica: aver messo il sonnifero nelle bottigliette d’acqua dei compagni della Cremonese durante l’intervallo di una partita per condizionarne il risultato. Paoloni fu radiato della Federazione per poi essere assolto dalla giustizia penale nel 2019. Al di là del sonnifero (Minias), il giocatore confessò di essere stato uno scommettitore accanito: «Ero compulsivo, giocavo su tutto: poker online, tennis, basket, anche serie A e Coppe europee. Ma non mi sono mai venduto una partita, mai!». 

Come mai questo vizio? O malattia?

«Malattia malattia. Era diventata una dipendenza. Per me dietro c’era un discorso di adrenalina e di libertà, ma questo l’ho capito dopo esserne uscito. Ero giovanissimo, non mi mancava nulla e mi sentivo onnipotente. In campo avevo quell’ansia da prestazione che era pura adrenalina. Fuori cercavo la stessa scossa, ma ero limitato dalla mia ex moglie che mi controllava dappertutto, anche in bagno. Nelle scommesse ritrovavo quella sensazione ed era un mondo tutto mio, bastava un clic, nessuno mi vedeva... Non era dunque tanto una questione di denaro. Solo chi si vende le partite lo fa per questo. Il fatto è che non mi sono reso conto di aver superato il limite. Ero arrivato a stare sveglio di notte e il divertimento si è così trasformato in malattia. Ero diventato ludopatico». 

Quanti eravate a scommettere?

«Il fenomeno era molto diffuso. Soprattutto fra i giocatori ma talvolta lo facevano anche i vertici delle società. Per loro era però diverso». 

(...)

Quanto ha perso scommettendo?

«In tre anni circa 600 mila euro e ne prendevo 200 mila all’anno di stipendio. Ho iniziato ad Ascoli con un compagno di squadra che mi fece vedere un sito, un po’ come Fagioli con Tonali. Io non lo sapevo ma dietro c’era la malavita, tutto partiva da Singapore».

Lei è stato assolto dall’accusa del Minias, e la frode sportiva?

«Prescritta. Risultato: radiato senza aver subito condanne. Ho smesso di giocare a 27 anni, quando è arrivata l’assoluzione ne avevo 39 ed ero troppo vecchio per rientrare. Il mio caso dovrebbe insegnare prudenza perché si rischia di rovinare carriere e famiglie per poi magari scoprire che c’è poco o nulla. Mi sento vicino a questi ragazzi, dico una sola cosa: fatevi subito aiutare».

Lei l’ha fatto?

«Sì, mi hanno curato gli specialisti. La psicologa mi disse: “Non so come tu non ti sia suicidato”. Avevo perso lavoro e famiglia, è stata dura».

Non ha più scommesso?

«Ho fatto un lungo percorso. Sono passato dallo stato di compulsione al divertimento, giocando una volta ogni tanto. Ma ci sono voluti anni». 

Ora cosa fa?

«Alleno i ragazzi che vogliono fare i portieri, privatamente. In giugno sono stato però squalificato dalla Federazione per cinque mesi per una sciocchezza». 

Cioè?

«Portavo i ragazzi ai provini senza essere iscritto al registro degli agenti. Dopo otto anni d’inferno ho subito anche questa».

Però lei se le va un po’ a cercare. Si è pentito di aver scommesso?

«Sì, ho buttato all’aria tutto».

Chi ha messo il sonnifero?

«Io dico nessuno».

Da open.online - Estratti martedì 24 ottobre 2023.

«Mi dispiace per Fagioli e per Tonali. Tenendo conto che non sono un moralizzatore e faccio schifo, se non avessi tirato fuori questa roba, due come loro avrebbero continuato tutta la vita a indebitarsi e magari sarebbero finiti ammazzati. Mi dovrebbero ringraziare, magari li ho fermati a vent’anni e non lo faranno mai più». 

Fabrizio Corona riceve il tapiro di Striscia la notizia e ai microfoni del tg satirico di Antonio Ricci torna a parlare dell’inchiesta sulle scommesse illegali che ha coinvolto alcuni giocatori di Serie A. Nomi e indiscrezioni sulla vicenda sono stati diffusi proprio da Corona, che ha anticipato l’inchiesta della Procura di Torino e ai microfoni di Staffelli rivendica il suo lavoro: «Vi dimostrerò che ho ragione, i giornalisti mi dovranno chiedere scusa».

Il fotografo torna poi anche sulla puntata di Avanti popolo di cui è stato ospite. Subito dopo la fine della messa in onda, si era lamentato pubblicamente per non aver avuto il tempo di fare nuovi nomi. Corona ha accusato la conduttrice Nunzia De Girolamo e il programma di non avergli dato la libertà necessaria: «La Rai non mi vuole e il materiale non lo mandano in onda», ha ribadito a Striscia, «sei la Rai, era meglio dire: “Non faccio la puntata, non mi interessano gli ascolti, facciamo una roba finta e non prendiamo in giro le persone”, perché io ci ho messo la faccia».

Ma soprattutto, Corona ha svelato un altro retroscena sul caso. Dopo le sue rivelazioni, alcuni calciatori hanno annunciato querele. Tra questi, anche il giocatore della Lazio Nicolò Casale. «Mi ha querelato, anche se bisogna vederla questa querela», ha detto il fotografo, «prima di querelarmi mi ha chiamato il suo procuratore, l’amico del suo procuratore, e chiedendomi se avevo le prove. Poi mi chiamano altre persone e mi dicono: “Non far uscire le prove, ti diamo tutti i soldi che vuoi”». 

Staffelli gli chiede allora di mostrare a lui le prove: «Non posso, ho venduto l’esclusiva a me stesso. Entro il 15 novembre farò una puntata su una piattaforma online libera, dove mostrerò tutte quante le prove. (...) E ho detto che sono coinvolti il 30 per cento dei giocatori».

Il gioco delle nomination. Il clickbait di Fabrizio Corona su Azmoun: l’attaccante della Roma con la passione per i cavalli scambiato per scommettitore. Redazione su Il Riformista il 17 Ottobre 2023 

“Vi mostreremo un altro giocatore della Roma, questa volta in video, che scommette in tribuna mentre guarda la partita della sua squadra”. Così, stamattina, Fabrizio Corona, dopo le rivelazioni su Fagioli, Tonali e Zaniolo, indagati per aver scommesso illegalmente sui principali campionati di calcio (il primo ha già patteggiato), aveva provato a riaccendere l’attenzione sul caso, annunciando un nuovo scoop sul suo sito e profili social.

Nei giorni scorsi aveva assicurato di avere pronti, in caldo, “altri nomi e altre prove” da svelare, ma che lo avrebbe fatto soltanto su Rai 3 ospite di Nunzia De Girolamo ad Avanti Popolo (questa sera). Eppure l’indicazione di stamattina preludeva ad un’eccezione. Scattata l’ora x, il contenuto è stato prontamente diffuso. Nella clip si vede uno spettatore riprendere l’attaccante della Roma Sardar Azmoun mentre assiste ad una partita della squadra in tribuna allo Stadio Olimpico. Il giocatore è intento a fissare il cellulare, sullo schermo è visibile la pista di un ippodromo e alcuni cavalli in gara. Nessuna puntata, nessuna prova di scommessa. Soltanto uno sguardo ad una corsa.

Le ore che hanno preceduto la pubblicazione del contenuto hanno infiammato social, stampa e media del settore. Apprensione, attesa e curiosità, ma il tutto si è spento davanti alla realtà dei fatti, che se unita ad una conoscenza – anche sommaria – del calciatore, appare addirittura meno equivocabile. L’iraniano, arrivato in estate nella Capitale a titolo temporaneo dal Bayern Leverkusen, è un grande appassionato di cavalli. Nel suo Paese ne possiede oltre 50, e a Roma avrebbe già fatto spesso visita all’Ippodromo di Capannelle. Non solo.

A Trigoria – centro sportivo della Roma – si racconta persino di come stia cercando di coinvolgere qualche compagno di squadra ad investire nel settore. Niente scommesse né combine, ma solo passione, al massimo questione di business, stesso motivo che deve aver spinto la testata di Corona a gonfiare una polemica praticamente inesistente, stroncata sul nascere dagli stessi fatti. Azmoun non è l’unico giallorosso finito nella ragnatela. Tra i giocatori della Roma nei giorni scorsi serie accuse sono piovute su Nicola Zalewski, che al momento resta non indagato. Missione fallita, avanti un altro. Finché il gioco del countdown e delle nomination non stuferà.

Dagospia martedì 17 ottobre 2023. Parla Alessandro Allara, esperto di scommesse ed ex top manager del settore

Abbiamo letto (forse addirittura troppo) di giocatori coinvolti nello “scandalo scommesse”, ma quanto sappiamo davvero delle scommesse proibite ai calciatori, delle scommesse illegali e della ludopatia in generale? Cercherò di chiarire questi aspetti attingendo alla mia esperienza di oltre 25 anni nei principali operatori di scommesse italiani ed europei. 

Da circa tre lustri ai calciatori è fatto divieto di effettuare o accettare scommesse, direttamente o indirettamente, anche presso i soggetti autorizzati a riceverle, che abbiano ad oggetto (…) incontri ufficiali organizzati nell’ambito della FIGC, della FIFA e della UEFA. Ciò significa, in soldoni, che un calciatore, anche se attraverso il cugino di turno, non può scommettere su una competizione calcistica tanto presso un’agenzia autorizzata quanto presso un bookmaker illegale. 

Interessante leggere questo passaggio: “anche presso i soggetti autorizzati”; si chiarisce già che qua il problema non è tanto la scommessa sul sito o presso l’agenzia illegale (che di per sé rappresenta un piccolo reato oblazionabile e punito con un’ammenda modesta) quanto l’azione in sé dello scommettere sul calcio a 360°. Va ricordato che una ventina d’anni fa il divieto era riferito al solo calcio italiano, per cui scommettere sulla Premier League era, di fatto, consentito. 

La scommessa proibita ai calciatori è pertanto quella sul calcio: se scoprissimo che questi tesserati scommettevano sul tennis o partecipavano a tornei di poker non si concretizzerebbe alcun illecito (salvo cadere nella ludopatia, che lasciamo un attimo da parte). Quale sia la consapevolezza dei tesserati su questo tema è un primo punto interessante: la formazione specifica su argomenti come scommesse e match fixing (risultati “aggiustati”) sembra non essere mai adeguata, soprattutto se confrontiamo il nostro sistema sportivo con alcuni riferimenti internazionali, in primis tennis ATP e Leghe Professionistiche Americane. Si sente parlare molto di poveri ragazzi ricchi ed annoiati ma la realtà è un po’ diversa: scommettere per dimostrare la propria competenza, ad esempio sul basket, non sarebbe certo un problema; scommettere ipotizzando di avere informazioni croccanti su campionati che conosciamo molto bene è lo snodo di tutto questo discorso.

Negli anni, infatti, abbiamo dovuto registrare (e forse dimenticare) flussi anomali di scommesse su esiti quasi secondari di alcune partite, soprattutto a fine stagione, come il numero totale dei gol, i cartellini ed i calci d’angolo. Solo gli addetti ai lavori ricorderanno le stagioni peggiori, da questo punto di vista, e con un po’ di obiettività dovremmo dire che quelle stagioni fanno parte del passato: gli ultimi Campionati sono stati straordinariamente popolati da “sorprese”, anche nelle Serie cosiddette minori. 

Qual è la cosa più grave possibile in una scala da 1 a 10, dove 1 è una scommessina sulla Premier League? La cosa più grave è scommettere su sé stesso, ovvero su esiti di scommesse che possono essere direttamente influenzati dal giocatore (in questo senso, il cartellino o il rigore sbagliato sono due esempi nitidissimi), ancor prima che scommettere sul risultato finale della propria squadra dove l’influenza potenziale passa a un undicesimo(più o meno il 9%). Lasciamo perdere la statistica: è gravissimo giocare sulla propria squadra, anche se si è in panchina, e la Procura Federale probabilmente sta cercando questo tipo di prove.

Passiamo alle scommesse illegali: si sente dire che questi tesserati avrebbero scommesso su piattaforme illegali. Si tratta di operatori di scommesse, con agenzie fisiche (più raro) o siti web (meno raro) sprovvisti di Licenza rilasciata dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli che, però, sono sfuggiti ai controlli delle Forze dell’Ordine e all’oscuramento imposto ai siti in questione. 

Scommettere qui è illegale perché, oltre al mancato introito per l’Erario, si sfugge alle più elementari verifiche accessorie come le procedure Antiriciclaggio e più in generale alle verifiche del sistema bancario (questo perché, di norma, questi siti dispongono di “rappresentanti” sul territorio italiano che possono raccogliere e restituire il denaro in contanti).

Questi operatori proliferano in Asia, mercato che da almeno un decennio è talmente voluminoso, in termini di giro d’affari, da influenzare pesantemente le quote delle scommesse anche in Italia, addirittura sui Campionati nostrani! La scommessa quindi è illegale per una combinazione di fattori, tutti comunque di moderata entità se non fosse per la Giustizia Sportiva. 

Chiudiamo con la ludopatia: già si parla di ragazzi afflitti dalla patologia, che necessitano di assistenza specialistica. Entriamo nello spinoso labirinto delle dipendenze che mostrano, tutte, dei tratti comuni abbastanza riconoscibili: la compulsività, la perdita del concetto di limite e, nel caso delle scommesse aggiungo io, il delirio di onnipotenza. Sì perché molti dimenticano che, nelle scommesse sportive, non è il fato (se non in minima parte) a governare le sorti del pronostico quanto piuttosto una dose importante di competenza ed esperienza. Ecco, quando a scommettere sono gli addetti ai lavori, allargando il campo anche ai dirigenti o a chi lavora nelle Compagnie di scommesse, il rischio di cadere nella presunzione di “saperne di più” è molto alto. Questo rappresenta la botola del pozzo in cui si cade ed è, poi, molto difficile uscirne da soli.

Da ilnapolista.it martedì 17 ottobre 2023.

Il caso scommesse all’estero è appena diventato, anche, un caso Rai. Perché la Rai “paga profumatamente l’informatore Fabrizio Corona”. Così scrive la Faz, che spiega ai lettori tedeschi che in Italia il legame tra la Rai e il calcio è tradizionale e istituzionale: “il calcio è religione nazionale, la Nazionale appartiene alla televisione nazionale, dove tutti possono vederla, in chiaro e senza abbonamento”. 

Spiegano che in realtà la paghiamo tutti con il canone, ma “non c’è dibattito sull’utilizzo del canone per i diritti di trasmissione delle partite dell’Italia”. Invece “da giorni si discute accesamente sui talk show e spettacoli di intrattenimento della Rai e sulla loro politica di pagamento: decine di migliaia di euro sono stati pagati a un interlocutore non proprio credibile”. Fabrizio Corona, appunto. Corona è “una figura colorata nel panorama mediatico italiano (soprannome: Re dei paparazzi)”.

Uno “che ha trascorso gli ultimi sette dei suoi 49 anni in carcere e agli arresti domiciliari per frode, estorsione e diffamazione, e che gestisce insieme a una dozzina di colleghi il nuovo sito di notizie e gossip Dillinger News (motto: Solo i fuorilegge saranno liberi ). Anche il sito appare dubbio a una seconda occhiata”. 

Mentre la “fonte” di Corona ieri si è autosmentito con un colpo di teatro battendo tutti i record di trash, “la Rai – continua la Faz – ha prenotato Corona in tre trasmissioni su tre diversi canali televisivi in attesa di nuove rivelazioni. Stasera Corona sarà su RAI3 nel talk show Avanti Popolo, quasi parallelo alla Nazionale su RAI1. Corona incassa fino a 12.000 euro per ogni apparizione come compenso”. “La Rai potrebbe dover affrontare ulteriori spese legali e risarcimenti se le accuse di Corona nello scandalo delle scommesse si rivelassero false e le persone colpite facessero causa all’emittente. Ora della questione vuole occuparsi il Consiglio di vigilanza della Rai. L’emittente deve tuttavia adempiere ai contratti finora stipulati con Corona”.

Dagospia martedì 17 ottobre 2023. Da “La Zanzara – Radio24”

Alla vigilia del suo intervento in Rai, Fabrizio Corona è intervenuto a La Zanzara su Radio 24: “E’ giusto che mi paghino per fare informazione, farò un grandissimo risultato di share. Parte del cachet lo devolverò a una società che si occupa di ludopatia. 30 mila euro di cachet? Di più, 34 credo”. 

“Non faccio gossip, faccio questa inchiesta da tanto tempo - aggiunge Corona a La Zanzara - è esattamente come era Tangentopoli, sono coinvolti tutti. Procuratori, società non potevano non sapere. Un 40% dei calciatori scommette. E’ come la cocaina, si è sparsa a macchia d’olio la ludopatia”. 

“La Juventus sapeva? I giocatori, il direttore sportivo sapevano di Fagioli, domani porto le prove. Quando io pubblico la notizia - continua Fabrizio Corona  a La Zanzara - loro non lo portano in ritiro”.

“Il problema è legato ai soldi - prosegue Corona. Quando sei bello, ricco e famoso nessuno ti può toccare. Loro nella loro stupidità, infantilismo o nella malattia dicevano “che faccio di male? Quanto scommettevano? Botte da 100mila, 150mila, 200,  30mila. Che fai di male? Violi una legge che prevede che tu non possa giocare sul calcio. Violi una legge perchè giochi ai banchi e non alla Sisal. Giocavano sui siti illegali? Scommettevano con gli allibratori. 

E poi su Zalewski: “Lui smentisce, il titolare dell’audio ha smentito, peccato che sia vero, si è solo spaventato. Domani porto le prove”. 

“La società più coinvolta? Sono i giocatori. Gran parte di questi ragazzi hanno giocato sul calcio, non sulla propria squadra” conclude Corona. Zaniolo è un caso a parte, una nostra fonte dice che si è giocato la partita di Coppa Italia. Tonali sul Milan? No, non l’ha giocato. Ma giocava al banco scommesse, cifre esorbitanti. 

 “50 nomi? Credo che siano di più. Nelle carte hanno filone legato a Fagioli, prendendo il suo telefono entrano in contatto con gli altri, hanno chat comuni. Bonucci? Ha smentito la Juve, dimostrando che la Juventus sapeva”.

Fabrizio Corona in Rai sul caso scommesse su Fagioli, Tonali e Zaniolo. Storia di Redazione Sport su Il Corriere della Sera martedì 17 ottobre 2023.

Fabrizio Corona puntuale arriva negli studi di Rai3, ospite di Nunzia De Girolamo, alle 22.43 di martedì sera. Inghilterra-Italia è appena terminata, e come aveva lui stesso anticipato, è pronto a fare altri nomi di calciatori coinvolti nelle scommesse. De Girolamo lo incalza subito sui rapporti con la Procura. Fabrizio guarda dritto in telecamera e dice: «Io non sono un infame, mai. Non sto dalla parte dei buoni. Ho svelato un’inchiesta che neanche immaginate cosa c’è sotto». C’è un filmato che va in onda dopo 10 minuti: Corona parla con la sua fonte che gli dice : «Fagioli giocava già alla Cremonese, io giocavo con lui. Scommesse su tutto, calcio e altri sport. legali e illegali». Torna sul giro allargato a Piacenza, una fonte rivela: «La mamma gli ha bloccato il conto». Fabrizio è animale televisivo, aumenta la suspance — com’è nel suo stile — e ne ha per tutti. Riprende su Zaniolo, l’unico che nega di aver scommesso. «Il suo procuratore sapeva». E aggiunge: «Attraverso le chat di Fagioli, ci sono i contatti con gli altri due Zaniolo e Tonali. Fagioli e Tonali giocano nel 2011 a Piacenza . Si incrociano. Mostra poi un altro filmato. «Mio nipote giocava nell’Inter, poi si è rotto i legamenti e non ha giocato. Mio nipote è amico di Zaniolo, gli dava la sua carta di credito, il suo pin e gioca con i suoi soldi».

Parla anche del calciatore della Roma Nicola Zalewski, di cui ha già fatto il nome ma il calciatore non risulta indagato. «Scommette sempre sempre, e la sua diffida non mi arriverà mai. Sono certo».

La polemica con Spalletti

Rivede il filmato di Spalletti che senza mai nominarlo insinua che sia «sciacallo» vicino ai calciatori. «Stimo Spalletti e lo conosco — aggiunge Corona — ma deve sapere che la maglia dell’Italia ha un valore. Sono ragazzi fortunati quelli che la indossano e devono rispetto. Cosa fai tu, Spalletti, te la prendi con me? Mi accusi di sciacallaggio? Accusa la Procura, allora. Che è venuta a Coverciano dopo 30 anni perchè sta rispettando la legge. caro Spalletti devi chiedere scusa, ti devi vergognare. Tonali e Zaniolo hanno confessato, sono colpevoli. Gridate: siamo l’Italia, ma non è giusto».

De Girolamo gli mostra lo striscione che gli ha dedicato la Curva della Juventus («Corona di me....») e gli ricorda le sue accuse verso il club bianconero («la Juve sapeva») lui risponde così: «Fare questa inchiesta mi crea una marea di problemi, non vi sto a ricordare cosa c’è nella curve d’Italia. ma se devo morire, preferisco morire così. Almeno divento un personaggio storico. Non capite che io sono pazzo. la Juventus già in agosto non lo ha fatto giocare perché sapeva, l’ho fatta uscire io la notizia e nessuno l’ha calcolata. La Juve ci ha messo due settimane prima di denunciarlo. Fagioli è alla Juve da sei anni e la gente andava davanti ai cancelli di Vinovo per incontrarlo. Fagioli scommetteva qualsiasi cosa da quando era ragazzo, è l’unico realmente malato, si è indebitato di 1 milione di euro in tre mesi». Poi il giro di scommesse a Piacenza: «La mamma gli ha bloccato il conto e adesso lo gestisce lei»

Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport domenica 15 ottobre 2023.

E anche Italia-Malta è andata. Bonaventura, Berardi e Frattesi hanno segnato gol molto belli e martedì sera ci giochiamo la qualificazione diretta a Wembley. Durante la partita ho pensato spesso ad altro, lo ammetto.  

 A questo. Ieri sia un importante ex calciatore, sia un giornalista di Repubblica - e in seguito tanti altri - hanno ricevuto un documento, spacciato come proveniente dalla procura di Torino, che conteneva nomi e cognomi di calciatori sotto osservazione. Fatta una rapida verifica con un penalista e un collega della giudiziaria, si è rivelato un rozzo fake.  

Ora, se oltre alle rivelazioni di Corona e alle decine di liste che stanno riempiendo cellulari e rete, siamo arrivati ai documenti falsi significa che la situazione non è più grave ma gravissima. Per questo credo che gli inquirenti dovrebbero metterci un punto di chiarezza.   

Mamma mia che disastro gli ultimi due anni del calcio italiano. Quando ho mostrato l’elenco che sto per pubblicare a un allenatore, il suo commento è stato pieno di sarcasmo: «dopo il covid è tornata la vita». In tutte le accezioni e espressioni peggiori dal punto di vista sportivo e morale. 

Ecco, infatti, in rapida sintesi, quello che il nostro calcio e gli appassionati hanno dovuto sopportare in poco più di ventiquattro mesi. Soprattutto per queste ragioni tanti l’hanno abbandonato. Da mesi i produttori dello spettacolo - i presidenti di serie A - stanno invece tentando di ottenere 900 milioni, 1 miliardo, dalle piattaforme tv per quel che resta di buono. Auguri. 

L’ordine temporale è un dettaglio:  

1) il Caso tamponi. 

2) Lo scandalo plusvalenze in due atti. 

3) Le manifestazioni di razzismo negli stadi (ricordo per tutte Juve-Inter, vittima Lukaku). 

4) La curva nord di San Siro svuotata con la forza per l’omaggio al capo ultrà interista morto. 

5) L’aumento del prezzo dei biglietti in Serie A con maggiorazioni superiori del 20%. 

6) Il caso D’Onofrio e relativa decapitazione dei vertici arbitrali. 

7) Il fallimento di alcune società e la mancata iscrizione delle stesse ai campionati di riferimento. 

8) Il ritorno del doping (Pogba). 

9) I calciatori scommettitori.  

a decima voce potrebbe essere l’indecenza non solo sportiva della seconda esclusione di fila dai Mondiali.  

Devo aver dimenticato qualcosa. Ma dieci punti possono bastare per pretendere che qualcosa di serio e definitivo venga fatto. Non ci si può rifugiare dietro lo scudo dell’ingestibilità di certi comportamenti. L’immagine nel calcio è anche sostanza e quando un prodotto così importante viene aggredito puntualmente da scandali di ogni genere diventa necessario ricorrere a scelte drastiche (spettano a Gravina). 

Ho visto infatti nascere campagne moralistiche per eventi privi di sostanza - come dire - illecita come il mercato arabo, ovvero la distribuzione generosa di capitali dal mondo del petrolio a quello europeo, proprio come un tempo i club italiani più ricchi sorreggevano i club provinciali acquistandone a suon di milioni i giovani talentuosi, usanza - ahinoi - abolita spostando l’attenzione e gli investimenti verso i Paesi d’Africa, dove da anni il ruolo di generosi… petrolieri lo esercitiamo noi e i francesi. Fumo negli occhi, l’attentato arabo al nostro capitale tecnico spesso rappresentato da giocatori stranieri già coinvolti in un business planetario.   

Il marcio - adesso lo vediamo - è altrove. Anche nello stesso mondo azzurro ex manciniano nel quale il primo scandalo fu perdere con la Macedonia mentre oggi si giudicano le perdite o i successi al banco delle scommesse. Con buona pace di chi predica - lo ha detto anche Baggio, ma lui può, facitore di vittorie - la religione della sconfitta.  

PS. Nonostante casi, casini e scandali, a Bari i paganti erano 56mila e hanno tifato, si sono divertiti. La forza del calcio è anche la sua debolezza. E viceversa. La passione per il pallone ha un’impressionante resistenza alle sconcezze. La passione non si piega alle leggi della ragione - diceva il grande Sandor Marai - non si cura minimamente di quello che riceverà in cambio, vuole esprimersi fino in fondo, imporre la sua volontà. 

Già, ma fino a quando?  

"Sto spaccando l'Italia". Scommesse, la vendetta di Corona, la banda Dillinger e le bische clandestine: “Lo zio di un ex calciatore e Balotelli scioccato”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 14 Ottobre 2023 

E’ sicuro di aver alzato un polverone sul calcio, “sto spaccando l’Italia“. E’ sicuro che nell’inchiesta in corso alla procura di Torino, i calciatori coinvolti sono altri 10 oltre a quelli già finiti nel mirino dei pm (Fagioli, Tonali e Zaniolo, ufficialmente indagati, e Zalewsky chiamato in causa ma che non ha ricevuto alcuna comunicazione dalla procura e, di conseguenza, la Roma ha annunciato azioni legali). E’ un fiume in piena Fabrizio Corona, ex re de paparazzi, che da poche settimane è tornato un uomo libero dopo anni di carcere e domiciliari. E’ raggiante mentre lancia il suo nuovo sito di informazione, Dillingernews, che dopo il ‘botto‘ all’esordio ha già mandato in crisi i suoi server che non si aspettavano un simile traffico di utenti.

Per Corona e la sua ‘banda‘ alla guida del giornale online, è in atto una rivincita, una rivalsa contro quel mondo del calcio che l’ha spedito in carcere, dopo le indagini per estorsione nei confronti dei calciatori, e contro il mondo della stampa che in passato l’avrebbe massacrato (anche se noi del Riformista più volte siamo stati garantisti con lui). Garantismo che oggi Corona non conosce e, raggiante, rivela nomi (anche di persone non indagate al momento) e altri dettagli di una inchiesta che potrebbe sì scuotere il mondo del calcio ma che, al momento, è nella sua fase primordiale e quindi bisognerebbe aspettare prima di sbilanciarsi in giudizi, alimentando una gogna che ha già fatto in passato vittime eccellenti: da Mimmo Criscito e Beppe Signori, poi usciti indenni dai lunghi processi giudiziari. Anche contro l’ex difensore del Genoa ci fu un blitz show a Coverciano da parte dei finanzieri, poi ci fu l’esclusione dagli Europei, infine l’assoluzione…

Insomma Corona sta facendo agli altri quello che non voleva subire. Ma la memoria è corta. Il tempo no, quello è galantuomo, e negli anni capiremmo davvero se questi giovani, ricchi e promettenti calciatori hanno commesso irregolarità così gravi. Al momento, secondo l’ex re dei Paparazzi, i calciatori coinvolti sarebbero una quindicina, “5-6 procuratori e ci sono pure le bische clandestine“. In una intervista al Corriere della Sera, Corona anticipa che le squadre di calcio coinvolte sarebbero “cinque, sei”, ma dice di non poter fare i nomi dei club “altrimenti vengo indagato”. Sull’informazione di garanzia consegnata dalla polizia a Coverciano a Niccolò Zaniolo e Sandro Tonali, afferma: “Non sarebbero mai andati lì se Dillinger non avesse fatto i nomi. Loro li sapevano ma avrebbero aspettato la partita dell’Italia. Stiamo facendo praticamente due inchieste parallele. Questa è la prima volta che lavoro con la Procura diciamo non da infame, ho fatto sette anni di galera“.

Corona annuncia che la prossima settimana farà uscire altre novità sul caso. “Dirò tutto al programma di Nunzia De Girolamo, subito dopo la partita (Inghilterra-Italia. ndr). Faremo altri nomi e sveleremo la nostra fonte delle notizie”. Per Corona sarebbero coinvolti altri giocatori della nazionale e “ci sono anche i presidenti. Sai qual è il problema? Che questi giocatori sono malati, la ludopatia è una dipendenza come la coca, sono sfruttati dal sistema… giocano prima alle slot, a blackjack, poi le bische e diventano vittime della malavita. Io so di questi ma ce ne saranno molti altri, non parliamo poi della B”.

Nel corso dell’intervista Corona svela che “la nostra fonte delle notizie… è lo zio di un ex calciatore dell’Inter di Mourinho, amico intimo di Mario Balotelli. Mario è un mio amico, è venuto tante volte qui da me, era scioccato dalle prove che gli ho dato… lo zio racconta che suo nipote si era trasferito a Roma e poi ha aperto una bisca“. L’intervista alla fonte verrà diffusa martedì prossimo, annuncia, sempre su Dilligener. Un sito che dopo pochi giorni varrebbe “un milione di euro”. “In una settimana siamo diventati punto di riferimento per tutta l’informazione. Oggi in Italia ci sono solo due cose: Hamas e questa… e questa l’ha fatta la banda Dillinger… siamo dei fuorilegge dell’informazione che rischiano la vita” conclude con un pizzico (giusto per essere garantisti) di ego.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Frank Cimini per giustiziami.it domenica 15 ottobre 2023.

Nessuno merita la gogna, neanche il più feroce degli assassini e nemmeno dopo la sentenza della Cassazione. Sembrerebbe superfluo dirlo ma in questi tempi bui va precisato per stare alla strettissima attualità neanche i ricchissimi bambini viziati adorati dalle folle perché prendono a calci una palla di cuoio possono subire la sorte toccata in quel di Coverciano nel ritiro della nazionale a Tonali e Zaniolo. 

Gli inquirenti che da tempo conoscevano i loro nomi come scommettitori su una piattaforma digitale abusiva hanno mandato di fretta la polizia giudiziaria a raccogliere la loro versione dei fatti perché sarebbero stati presi in contropiede dalla notizia arrivata urbi et orbi da Fabrizio Corona che l’aveva addirittura preannunciata per creare suspence.

Corona è il vero dominus di questa inchiesta. Ne decide in pratica i tempi e le mosse sulla base di informazioni che non si sa da chi arrivino. Le sue parole vengono offerte ai giornali e alle Tv dalle agenzie di stampa con lanci stellettati della massima urgenza che una volta quando questo era un mestiere serio si usavano esclusivamente per notizie boom tipo la morte del Papa. 

Adesso invece accade per avvisi di garanzia che a livello penale porteranno al massimo a un’ammenda dal momento che la scommessa illecita è considerato un reato lievissimo quasi un non reato a meno che il fatto non riguardi gli organizzatori del “giro”.

Certo c’è in parallelo la giustizia sportiva che rischia di troncare la carriera di questi ragazzi che si trovano ogni mese un bonifico di decine anche centinaia di migliaia di euro, che si annoiano e vanno alla ricerca di dosi di adrenalina. Il pelo di quella lana di cui dispongono in grande quantità evidentemente non basta perché sanno come va a finire.

La scommessa invece porta sorprese belle o brutte che siano. E loro “giocano” riuscendo persino a indebitarsi nonostante la gran quantità di piccioli a disposizione. Adesso sono al centro dell’attenzione generale vittime di una gogna vergognosa per chi l’ha messa in piedi e per la quale come accade in tutte le gogne non pagherà mai dazio. Colpevoli ancora prima di qualsiasi accertamento per non parlare di processi. Certo ci sono tre calciatori che hanno già ammesso le loro responsabilità. Uno Fagioli spiega di essersi autodenunciato alle autorità sportive ma lo aveva fatto dopo aver saputo dell’indagine della magistratura. 

I pm di Torino mentre indagavano sulla criminalità organizzata si imbattevano nella piattaforma illegale di scommesse con cui i calciatori erano entrati in contatto per il divieto di “giocare” normalmente a puntare soldi. Pensavano di aggirare l’ostacolo ma hanno sbattuto il muso contro il muro. E stanno pagando un prezzo spropositato molto prima che loro responsabilità vengano accertate fino in fondo. 

La storiaccia sembra solo all’inizio. Altri giocatori saranno coinvolti, la gogna continuerà per un bel po’ e bel difficilmente risanerà il mondo compreso il mondo del calcio che fa schifo da tempo immemore. E dove Fabrizio Corona non poteva che trovarsi a suo agio. (frank cimini) 

Dal profilo twitter di Selvaggia Lucarelli domenica 15 ottobre 2023.

Un pluripregiuricato con non so quante nuove denunce all’attivo apre un sito che ha il nome di un delinquente e lo slogan “solo i fuorilegge saranno liberi”. Un sito pieno di insulti, gossip beceri, contenuti che non definisco (l’altro giorno ha pubblicato il nome di una persona che lavora con me sotto il mirino di una pistola) 

Intanto, per mesi, promuove scommesse calcistiche su Telegram promettendo a migliaia di utenti vincite sicure e robaccia varia. Mentre la procura di Torino sta indagando sul calcioscommesse lui scopre la cosa e brucia il lavoro costringendo la procura a agire prima di aver terminato l’indagine. Comincia a annunciare che darà nomi dei coinvolti uno alla volta sui social in una modalità a dir poco vessatoria e rivelando le fonti. 

Poi, dall’alto del suo curriculum adamantino, dà lezioni di legalità e parla di ludopatia (“con quella faccia da bravo ragazzo quel calciatore è ludopatico, ha una grave dipendenza”). Detto da lui. In tutto questo nessun giornalista ha nulla da eccepire, anzi, grande promozione al sito con nome dedicato a un delinquente (interviste su Repubblica e Corriere) e vari inviti in tv al personaggio borderline in preda ad esaltazione. Naturalmente, a breve nuovi casini, la stampa che fa finta di non essere complice della resurrezione del mostro, poi lui torna in pista e si riparte dal via. Mi sembra un mondo surreale.

LA RISPOSTA DI CORONA Da leggo.it domenica 15 ottobre 2023.  

Fabrizio Corona si è scagliato contro Selvaggia Lucarelli. Tra i due non corre buon sangue e le loro differenze di vedute sono ormai storiche, ma questa volta, Fabrizio Corona, non gliel'ha mandate a dire e nelle sue Instagram stories ha deciso di sfogarsi contro la giornalista e giudice di Ballando con le Stelle. Alla base della discussione pare ci siano gli attratti tra i due che negli anni hanno portato, oggi, all'apice delle divergenze: «Selvaggia Lucarelli insegna giornalismo senza tesserino», questa l'ultima accusa di Fabrizio Corona. Scopriamo insieme cosa le ha detto. 

Da ilnapolista.it domenica 15 ottobre 2023.  

Le chat tra Bonucci e Fagioli. Ne scrive Repubblica. 

Non era un segreto la “malattia” di Nicolò Fagioli. La conoscevano due compagni di squadra, che a credere alle chat nelle mani della polizia scommettevano con lui. La conoscevano alcuni suoi compagni di grande esperienza: agli atti ci sarebbero conversazioni tra Fagioli e Leonardo Bonucci sul tema scommesse. Ma nessuna prova che il difensore partecipasse alle puntate. Bonucci non era il solo, però.

Non era un segreto quella malattia nemmeno per gli allibratori, che hanno incassato in pochi mesi più di un milione di euro, dei quali trattenevano il cinquanta per cento. Visto il tenore delle conversazioni la polizia sta verificando se esistono gli estremi per contestare i reati di usura o estorsione: Fagioli era disperato per le cifre perse e chi lo spingeva nel burrone approfittava della sua disperazione.

Ruota attorno a questi elementi l’indagine della procura di Torino che unisce nuovamente calcio e scommesse agitando il mondo del pallone italiano e i suoi protagonisti. 

Da ilnapolista.it domenica 15 ottobre 2023.  

Zaniolo, dopo il coinvolgimento nell’affaire scommesse, scrive il Corriere della Sera: “rapine e aggressioni misteriose a Roma: il calcioscommesse apre nuovi scenari”. 

Scrive il quotidiano di Cairo: 

«Troppo facile vedere una donna sola, minacciarla e derubarla. Poi non lamentatevi…». Nel maggio 2019 Nicolò Zaniolo, adesso travolto dal caso scommesse, allora idolo della folla romanista, commentò così sui social l’aggressione subita all’Eur dalla madre Francesca Costa: due banditi a volto coperto l’avevano rapinata della borsa e dell’orologio griffati. Solo uno dei tanti episodi misteriosi che hanno accompagnato l’esperienza giallorossa dell’attaccante.

E ancora: la doppia brutta avventura della madre con la malavita, derubata di un’auto nel garage e poi aggredita di persona da una coppia di banditi arrestati e condannati. 

Nello stesso periodo le scritte contro di lui e contro la madre — sempre presente nella vita social del figlio — a Trigoria e al Colosseo.

Dulcis in fundo, il 30 gennaio scorso, poco prima dell’addio, l’inseguimento in auto di pseudo tifosi fino alla sua abitazione a Casal Palocco. Insulti, minacce di morte, la famiglia terrorizzata. Allora uscì la storia degli ultrà arrabbiati per la sconfitta della Roma a Napoli. Oggi invece non si esclude che lo scenario potesse essere diverso.

Estratto da repubblica.it domenica 15 ottobre 2023.  

(…) Zaniolo ha scommesso su siti illegali, questa per adesso è l’accusa rivolta a Zaniolo. Ma i dettagli pubblicati dal sito Dillingernews stanno facendo imbufalire i tifosi giallorossi.

(…)

Sempre secondo Fabrizio Corona la sua fonte avrebbe rivelato anche la presenza di Francesca Costa, mamma di Nicolò Zaniolo, all’interno del caso scommesse. Accuse presunte, tutte da dimostrare, ma che rivelerebbero un ruolo primario della madre del calciatore. Pare infatti che gestisse in prima persona gli affari del figlio e fosse a conoscenza di tutto.

Una strana gestione di coppia di cui a Roma in molti si ricordano. 

Non stupisce infatti l’ingerenza di Francesca Costa nella vita di Zaniolo durante tutta la permanenza nella Capitale. Tra difese d’ufficio ad ogni prestazione negativa e dichiarazioni al vetriolo contro i detrattori del figlio. 

Comportamenti comprensibili che facevano da sfondo ad un rapporto strettissimo tra i due. Tanto inerente la sfera calcistica quanto quella privata.

Ben tre volte Francesca Costa fu vittima di ladri. Nel 2019 gli fu rubata la Mini Cooper sotto l’abitazione del figlio, salvo poi vedersela riconsegnata dalle forze dell’ordine pochi giorni dopo. A distanza di pochi mesi fu vittima di una rapina, con l’aggressore che le rubó soldi, rolex e le chiavi del Suv. 

La stessa autovettura che nel 2020 fu smontata pezzo per pezzo. Tutti atti vandalici prontamente testimoniati sui social dalla Costa, sempre attivissima nel raccontare la sua vita romana. 

Quella stessa vita che Zaniolo non si è fatto mancare nella Capitale, tra serate in discoteca e audio compromettenti (per cui c’è un indagato per revenge porn).

(...)

Automobili, locali, donne e discussioni. Molto accese come quella avuta nel gennaio 2023 quando Zaniolo si dovette barricare dentro la casa di Casal Palocco per sfuggire all’aggressione di quattro persone. Al tempo di era parlato di ultrà giallorossi, delusi dal comportamento del calciatore con la maglia della Roma.

Pochi giorni dopo l’offerta del Galatasaray che coincise con l’addio alla Roma. Neanche un anno dopo l’accusa di scommesse illegali. E quel passato romanista, forzatamente cancellato, che ritorna. E per il quale dovrà difendersi in tribunale.

Le scommesse proibite di Fagioli, Zaniolo e Tonali scuotono il calcio. E anche stavolta il mondo del pallone non si era accorto di nulla. Il nuovo scandalo coinvolge per ora tre giocatori, ma potrebbe presto allargarsi. E dimostra quanta opacità e scarsa capacità di controllo ci sia nel settore. Ennesima figuraccia di un sistema che fa acqua da tutte le parti. Fabrizio Bocca il 13 Ottobre 2023 su L'Espresso.  

Sarà anche “ludopatia” e possiamo definirle pure “scommessine” innocenti, intanto però le puntate sul calcio erano numerose, frequenti, rilevanti e assai pesanti. Insomma qualcosa di più del calciatore stanco e annoiato, che col telefonino in mano ammazza il tempo compulsando nervosamente le app che ti collegano ai siti di scommesse illegali.  

La storia di Nicolò Fagioli (22 anni, Juventus), Nicolò Zaniolo (24 anni, ex Roma e Galatasaray, ora all’Aston Villa) e Sandro Tonali (23 anni, ex Milan ora al Newcastle) coinvolti nell’ennesimo Calcioscommesse - si parte dal famigerato scandalo dell’oste Trinca e del fruttarolo Cruciani nel 1980 - comincia come un granello che rotola e rischia di finire con la classica montagna che frana.  

A parte la scena madre della polizia che si presenta a Coverciano, di Buffon, anche lui in passato appassionato di scommesse, che accompagna davanti agli agenti gli azzurri Zaniolo e Tonali, e la successiva decisione della Federcalcio di estromettere seduta stante i due dal ritiro della Nazionale di Spalletti, si parla di almeno dieci calciatori coinvolti. E pure di un altro juventino di secondo piano tirato dentro da Fagioli. Per altro già reo confesso, addirittura autodenunciatosi alla giustizia sportiva su consiglio dei suoi avvocati. I quali visto il loro assistito cadere nel mirino della procura di Torino, hanno preferito spedirlo subito davanti a chi di dovere a raccontare quello che combinava. Per chi non lo sapesse, anche se è ovvio, gli sportivi hanno divieto assoluto di scommettere sul proprio sport (art. 24 del Codice di Giustizia Sportiva). Figuriamoci se si scopre che lo fanno addirittura su siti illegali, che raccolgono puntate assai più alte e possono occultare meglio identità e operazioni.

Nella storia c’è di tutto, con una trama che sembra scritta apposta per una serie tv. Giovani, ricchi e scapestrati talenti con un possibile futuro da campioni che fanno il salto nel “mondo proibito” delle scommesse clandestine e illegali. La Nazionale tirata in mezzo come accadde ad esempio con Calciopoli alla vigilia del Mondiali 2006, o con Criscito e Bonucci coinvolti nell’inchiesta del precedente Calcioscommesse 2012. Un gran mestatore del torbido come l’immancabile Fabrizio Corona, che avendo appreso attraverso suoi canali della storiaccia, aveva cominciato a tirare fuori dettagli a rate, un po’ veri e un po’ fasulli, sui suoi canali. Il che ha costretto gli inquirenti ad anticipare le mosse sugli indagati, anche a evitare che dai telefonini sparissero all’improvviso account e cronologia delle giocate sulle partite. Fondamentale soprattutto saper “quali partite”. Secondo Corona ad esempio Zaniolo avrebbe scommesso addirittura dalla panchina quando era riserva con la Roma in Coppa Italia. Che sia vero o falso ce lo diranno ora i cellulari sequestrati ai giocatori. Tra i calciatori che scommettono, secondo Corona, ci sarebbe pure Nicola Zalewski, sempre della Roma, 21 anni, nato a Tivoli da genitori polacchi e che ha già optato per la nazionale della Polonia. I procuratori del giocatore, in questo caso, hanno annunciato querela. 

Per i calciatori il rischio penale è minimo, la scommessa sui siti illegali e non autorizzati è un reato tutto sommato lieve, punibile con una multa o poco più. L’obiettivo della procura in questo caso è stroncare le organizzazione illegali che sono alle spalle delle giro di scommesse, utilizzate anche per riciclare denaro sporco. Ben diversa la partita che si gioca davanti al giudice sportivo, il fatto per i calciatori è molto grave e si rischiano fino a tre anni di squalifica se non si collabora e si patteggia. 

Resta di fondo la solita storia del calcio clamorosamente preso in contropiede, che nulla sapeva di quanto avviene all’interno della sua stessa organizzazione. Il calcio oggi è una gigantesca struttura che non sa badare a se stessa, l’unica missione è fare soldi, ma il marcio è tirato quasi esclusivamente fuori dalle procure e dalle inchiesti penali. Ad eccezione del doping (vedi Pogba). Si va dallo scandalo delle plusvalenze alle scommesse appunto.  

La partita di pallone, tutto sommato, con i suoi 4 arbitri e il Var a fare da Grande Fratello, resta la parte migliore e più controllata, garantita, sorvegliata, ma dietro e intorno c’è una grande sensazione di etica a precipizio se non di generale decadenza. Sappiamo spaccare la linea del fuorigioco di un millimetro, ma non ci accorgiamo se uno che sta in panchina si sta giocando qualche migliaio di euro sulla vittoria o sulla sconfitta. 

L’ipocrisia del calcio sulle scommesse. Siamo pieni di spot che invitano a farlo. ANGELO CAROTENUTO su Il Domani il 13 ottobre 2023

La Nazionale è scossa dalle accuse a Nicolò Fagioli, Nicolò Zaniolo e Sandro Tonali di aver scommesso online. L’elenco dei coinvolti è destinato a crescere. Eppure, prima, durante e dopo le partite, in tv siamo invasi da spazi nei quali ci danno le quote per il betting, i cartelloni negli stadi fanno pubblicità a marchi che richiamano agenzie di scommesse, i club firmano accordi commerciali. A dispetto del decreto Dignità

Giovedì sera erano in tre, venerdì pomeriggio son diventati quattro e presto minacciano di cadere a grappoli, perché così funzionano le cose negli spogliatoi del calcio. Uno conosce un sarto e si trascina dietro la massa, un altro scopre un barbiere e i capelli si tagliano solo là, uno festeggia un gol col pollice in bocca e il pollice in bocca se lo mettono tutti.

Per motivi suoi e di qualche amico, Fabrizio Corona minaccia di trasformare la serie A in una bambolina voodoo su cui piantare spilli a puntate, vent’anni dopo la stagione dei foto-ricatti, mentre di questa nuova storia si sta occupando una pm che in procura a Torino segue in genere faccende di mafia.

La parola scommesse rende tutto più riconoscibile e drammatico. Quarantatré anni fa, poliziotti e finanzieri fecero irruzione al termine delle partite in sei stadi arrestando tredici persone, con l’accusa di aver venduto partite. La consideriamo la domenica in cui il calcio italiano perse l’innocenza. Da allora ha perso pezzi di etica, un poco alla volta.

UN PECCATO CHE RITORNA

La scommessa è un peccato capitale che periodicamente torna, stavolta sotto le forme della contemporaneità. I telefonini, l’online, la noia. Non ci sono dentro i mammut che prima di appendere le scarpe a qualche tipo di muro combinano pareggi e trafficano sconfitte. I calciatori impolverati hanno stavolta un’età media di 22 anni e mezzo, giocano tutti in una nazionale e guadagnano fino a 7 milioni a stagione.

Nicolò Fagioli, Nicolò Zaniolo, Sandro Tonali e Nicola Zalewski avranno modo con gli avvocati di far luce sulle rispettive posizioni e le varie ipotesi investigative. Chiariranno se e come hanno partecipato a gioco d’azzardo - solo a poker e blackjack, fa sapere Zaniolo – se hanno adoperato piattaforme illegali, se hanno scommesso sul calcio o su partite della propria squadra, se sono giunti a indebitarsi o sono caduti in qualche brutto giro.

Undici anni fa, Domenico Criscito venne raggiunto sempre a Coverciano dall’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla frode e alla truffa sportiva, fu escluso dagli Europei, alla fine è stato assolto.

LA PUBBLICITÀ AL BETTING

È l’ipocrisia del calcio che proprio non si può assolvere. Prima, durante e dopo le partite, in tv siamo invasi da spazi nei quali ci danno le quote. I cartelloni negli stadi fanno pubblicità a marchi che richiamano agenzie di scommesse.

Nel luglio 2018 il primo governo Conte vietò con l’articolo 9 del cosiddetto Decreto Dignità «qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro», su qualunque mezzo di comunicazione e durante le manifestazioni sportive. Non solo le istituzioni del calcio, i presidenti dei club, gli editoriali della stampa sportiva hanno chiesto più volte il superamento della norma, per non perdere una fonte di finanziamento.

Di fatto, la legge viene aggirata. Secondo l’Agcom, dare le quote è informazione, sebbene rimandi in modo sfacciato al servizio che gli operatori vendono. Allo stesso modo, sono nati siti di news sportive o di guida tv che hanno nel nome un’appartenenza al prodotto vietato. Con quelli, i club sono liberi di stringere rapporti commerciali.

NELLE SQUADRE

Il Milan dove giocava Tonali ha un accordo con Snaifun («l’app che premia la cultura e la passione sportiva con news, quiz e pronostici»). L’ad Furlani lo ha chiamato un legame solido e speciale. La Juventus di Fagioli ha per partner Eurobet Live, come Lazio e Monza. La Roma dov’è cresciuto Zaniolo si accompagna a Starcasinòsport, come Napoli, Sassuolo, Palermo, l’intera serie B. Settore di competenza dichiarato: infotainment. Qualunque cosa significhi.

Il Bologna fa pubblicità a Unibet TV, il Cagliari e il Verona a Bwin Tv. Urbano Cairo ieri si è detto preoccupato per tanta ludopatia tra i giovani. «Dobbiamo fare di tutto perché la formazione di un calciatore non sia solo tecnica: si deve essere uomini con dei principi», ma pure il Torino ha fra suoi i partner Starcasinòsport e la Gazzetta è entrata con il proprio marchio nel settore dei bookmaker, scommesse online. L’Inter ha messo un anno fa LeoVegas nel tunnel dello stadio, al campo di Appiano, sul kit d’allenamento. I giovani ragazzi ai quali rimproveriamo allora il vizio del betting, il nome dei bookmaker ce l’hanno scritto sulle tute e a bordocampo.

UNO STRANO DIVIETO

È uno strano divieto. Come chiedere ad Adamo e Eva di non mangiare la mela, ma di far pubblicità a un consorzio della Val di Non. I giocatori non possono scommettere, eppure vivono fra i marchi di chi ammicca e invita a farlo. Al calcio italiano non deve sembrare allora questa grossa macchia, almeno quando i poliziotti sono lontani.

La debolezza ammessa da Buffon non gli ha impedito di avere oggi un ruolo in federazione, nello staff della nazionale che viene detta sotto shock. È questo il mondo che istruirà un processo e giudicherà quattro, dieci, chissà quanti ventenni. Con l’accusa di aver fatto qualcosa che il calcio italiano ci chiede di fare durante ogni partita. 

ANGELO CAROTENUTO.  Giornalista e autore. Si è occupato di politica, sport e cultura pop. Ha scritto tre romanzi: “Dove le strade non hanno nome" (Ad Est dell’Equatore, 2013), “La Grammatica del Bianco" (Rizzoli, 2014) e “Le Canaglie" (Sellerio, 2020); e un saggio: “La musica fa crescere i pomodori" con Peppe Vessicchio (Rizzoli, 2017). Ha scritto e diretto con Malina De Carlo il documentario “C’era una volta Gioann – Cent’anni di Gianni Brera", prodotto da 3D per Sky Arte.

Corona e il calcioscommesse: «Ci sono altri 10 giocatori e 5 squadre coinvolte». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 14 ottobre 2023.

Da un loft milanese continua a far uscire nomi dei calciatori coinvolti nel nuovo ciclone scommesse. Parla Corona: «Siamo dei fuorilegge dell’informazione che rischiano la vita. Mi verranno a cercare le curve e i malavitosi ma il sito vale un sacco di soldi…»

«Vai vai vai con Zalewski, mettilo mettilo». «Un momento Fabrizio, sto potenziando il sito». «Muoviti Domenico!». «Luca, i pezzi… mi raccomando le storie in evidenza». Comanda, smanetta, scalpita. C’è da diffondere il nome del centrocampista della Roma coinvolto, tutti devono essere pronti allo scoop e lui, Fabrizio Corona , non sta nella pelle. «Sappi che sono coinvolti almeno altri 10 calciatori, 5-6 procuratori e ci sono pure le bische clandestine». Una bomba dietro l’altra. «Sto spaccando l’Italia». Ha finito di scontare la pena da una ventina di giorni ed è tornato più esagerato di prima. Corona gongola perché le prime notizie che ha dato su questo nuovo ciclone del calcio scommesse erano fondate e le sue quotazioni sono salite. «Domenico, ti prego, abbiamo cinque milioni di persone, attaccami quel sito», si scalda parlando con uno dei suoi uomini collegati dalla sede di Dillingernews, l’ultima creatura, dove lavorano in dodici fra giornalisti, dirigenti e segretarie.

CASO SCOMMESSE 2023

14/10 — Sandro Tonali, le scommesse e le lacrime. «Vuole curare la ludopatia»

14/10 — Fagioli scommesse per un milione su più piattaforme illegali

14/10 — L’INTERVISTA a Corona: «Altri 10 giocatori e 5 squadre coinvolti»»

13/10 —«Nicola Zalewski è il quarto calciatore che scommette»: Corona fa il nome

13/10 — Tonali e Zaniolo: «Erano solo poker e blackjack»

12/10 — L’inchiesta sulla fuga di notizie: il sospetto di una talpa che informa Corona

12/10 — A Coverciano il terribile giovedì di Tonali e Zaniolo, interrogati dalla Digos

12/10 — Sequestrati i telefoni di Sandro e Nicolò: indagini su puntate, debiti e cifre perse

12/10 — Tonali e Zaniolo, indagati, lasciano il ritiro della Nazionale

12/10 — Fabrizio Corona in questura: «Persona informata sui fatti»

12/10 — Corona nomina anche Zaniolo e Tonali, poi viene interrogato

11/10 — Fagioli in Procura a Torino ammette: «Ho scommesso sul calcio»

11/10 — Fagioli e le scommesse: la Juventus rischia? Come si difenderà?

11/10 — Cosa dice il codice sportivo sulle scommesse

11/10 — Chi è Nicolò Fagioli, centrocampista della Juventus

Siamo in questo loft milanese che è la sua casa. Esce da una stanza una ragazza con due cerotti sulla faccia: «Questa è Sara, mia moglie, ha 23 anni, io 50, stiamo insieme da due». E lei: «Mi sembrano dieci». Quante squadre di calcio sono coinvolte? «Cinque sei». I nomi? «Non posso farli altrimenti vengo indagato». La polizia l’ha sentito giovedì come persona informata sui fatti e dopo qualche ora gli agenti si sono presentati a Coverciano a consegnare l’avviso di garanzia a Tonali e Zaniolo. «Non sarebbero mai andati lì se Dillinger non avesse fatto i nomi. Loro li sapevano ma avrebbero aspettato la partita dell’Italia. Stiamo facendo praticamente due inchieste parallele. Questa è la prima volta che lavoro con la Procura diciamo non da infame, ho fatto sette anni di galera...». Nessuna talpa, fra gli investigatori, assicura: «Solo lavoro giornalistico». Annuncia fuochi d’artificio per la settimana prossima. «Dirò tutto al programma di Nunzia Di Girolamo, subito dopo la partita. Faremo altri nomi e sveleremo la nostra fonte delle notizie… è lo zio di un ex calciatore dell’Inter di Mourinho, amico intimo di Mario Balotelli. Mario è un mio amico, è venuto tante volte qui da me, era scioccato dalle prove che gli ho dato… lo zio racconta che suo nipote si era trasferito a Roma e poi ha aperto una bisca».

Tutto verificato? «Tutto verificato… martedì manderemo l’intervista e faremo altri nomi... un po’ per volta». C’è qualcun altro della Nazionale? «Si, ci sono anche dei Presidenti… Sai qual è il problema? Che questi giocatori sono malati, la ludopatia è una dipendenza come la coca, sono sfruttati dal sistema… giocano prima alle slot, a black jack, poi le bische e diventano vittime della malavita. Io so di questi ma ce ne saranno molti altri, non parliamo poi della B».

Cosa ci guadagna Corona in tutto questo? «Christiaaan! Digli quanto vale ora il sito». «Un milione di euro», risponde l’altro. «In una settimana siamo diventati punto di riferimento per tutta l’informazione. Oggi in Italia ci sono solo due cose: Hamas e questa... e questa l’ha fatta la banda Dillinger... siamo dei fuorilegge dell’informazione che rischiano la vita». È spregiudicato, veloce, matto. «Mi verranno a cercare le curve e i malavitosi ma siamo riconosciuti e il sito vale un sacco di soldi… Questa settimana mi hanno cercato al telefono almeno 10 15 fra calciatori e amministratori. Non ho risposto. Oh , ragazzi, abbiamo postato?». «C’è un problema di server». «Basta, postiamo quel nome!».

Quando Buffon disse: «Le scommesse? Serve una trasgressione, io non mi drogo e non vado in discoteca, sono fedele». Storia di Guendalina Galdi su Il Corriere della Sera venerdì 13 ottobre 2023.

Perché scommettere? La domanda è lecita, la risposta è complicata. Tormentata anche. Perché oltre la singola scommessa c’è la ludopatia, quel disturbo del comportamento che porta una persona a tentare la fortuna al gioco in maniera compulsiva. «Dipendenza patologica dai giochi elettronici o d’azzardo», come da vocabolario. Ma tra definizione (una) e motivazione (personalissima e diversa per chiunque) ce ne passa. Quindi: perché scommettere?

In un’intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport in vista del suo 44esimo compleanno, Gianluigi Buffon — ora capo delegazione della Nazionale e colui che ha accompagnato Tonali e Zaniolo al colloquio con le forze dell’ordine a Coverciano — spiegò: «Se ho scommesso, e mai sulle partite, è stato perché chi vive la nostra vita deve trovare una trasgressione. Io non vado in discoteca, non ho mai fatto uso di droghe, ho sempre avuto solo una donna. Scommettevo, ma quelli sono fatti miei. E da lì a vendere partite, al riciclaggio, ad altre cose losche… ce ne passa». L’argomento uscì a causa dell’indagine che anni fa coinvolse proprio l’ex portiere della Juventus, sempre legata alle scommesse.

Caso scommesse 2023

12/10 — A Coverciano il terribile giovedì di Tonali e Zaniolo, interrogati dalla Digos

Ma «in Italia ci si sofferma sugli errori, per felicità da disgrazia altrui — specificò ulteriormente Buffon — ma io ho pagato tutto con la mia faccia: morirò con la felicità di essermi speso e aver vissuto. Le scommesse sono state l’attacco più vergognoso. E mi dà fastidio sia stata messa in dubbio la mia correttezza sportiva». Buffon infatti non violò l’articolo 24 del codice di giustizia sportiva che «vieta ai soggetti dell’ordinamento federale, ai dirigenti, ai soci e ai tesserati delle società appartenenti al settore professionistico di effettuare o accettare scommesse, direttamente o indirettamente, anche presso i soggetti autorizzati a riceverle, che abbiano ad oggetto risultati relativi ad incontri ufficiali organizzati nell’ambito della Figc, della Fifa e della Uefa».

Video correlato: «Quando Buffon mi disse che Lippi non capiva un c...», gli aneddoti di Cannavaro sulla vittoria Mondiale del 2006 (Corriere Tv) 

Signori e Townsend

Scommesse per «trasgressione» dunque, ma anche per «divertimento»; almeno questa fu la riflessione di Beppe Signori (poi assolto da ogni accusa di essere colpevole di calcioscommesse) in un’intervista del 2000 spiegò: «È vero, scommetto. La cosa mi diverte e, spesso e volentieri, vinco». Qualcun altro ha ceduto così alla noia, come l’ex Tottenham Andros Townsend: «Ero in una stanza d’albergo la sera prima di una partita, mi annoiavo, poi ho visto un annuncio in televisione per un’app con una scommessa gratuita. L’ho scaricata e ho fatto una piccola scommessa per passare il tempo. Nel giro di pochi mesi ero fuori controllo». Il punto infatti è riuscire a non infrangere le regole e allo stesso tempo non farla diventare una dipendenza. «Il gioco d’azzardo è la peggiore possibile. Questa malattia ha letteralmente ricablato il mio cervello» disse Paul Merson, ex centrocampista di Arsenal e Inghilterra oggi 55enne.

La ludopatia, ha chiarito il presidente Federale Gravina, «non è un problema del calcio ma sociale». Un problema piuttosto giovane anche; basti pensare che il più «anziano» dei giocatori coinvolti in questi giorni è un classe 1999 come Zaniolo (poi Tonali, nato nel 2000, Fagioli nel 2001, e se confermato Zalewski, un 2002). «Siamo vicini a entrambi ( Tonali e Zaniolo, ndr). È stata un’altra notte difficile, c’era molta amarezza. Siamo dispiaciuti per quelli che sono stati gli eventi e rimarremo loro vicini anche dopo che caleranno i riflettori — ha puntualizzato Spalletti dopo aver salutato i due giocatori, costretti ad abbandonare il ritiro della Nazionale —. È giusto cercare di aiutarli a difendersi, poi la giustizia farà il suo corso: ma se sono state fatte delle cose irregolari è giusto pagare».

La matrioska delle scommesse. Report Rai. PUNTATA DEL 26/12/2022

di Lorenzo Vendemiale

Report ha scoperto i dettagli dell’accordo che lega la Serie A a 1XBet.

La squadra di Report è stata a Kyiv nei giorni dell’attacco russo al centro della Capitale per raccontare la resistenza del calcio ucraino sotto le bombe e chi prova a speculare. L'inchiesta fa luce su 1XBet, colosso delle scommesse online con origini russe, che ha provato ad aprire un business in Ucraina in piena guerra. Il misterioso bookmaker intanto è riuscito a sbarcare anche nel nostro Paese, grazie a un sito con dominio italiano, ma già da anni si era infiltrato in Italia attraverso il calcio. Report ha scoperto i dettagli dell’accordo che lega la Serie A a 1XBet. Mentre alcuni club si fanno sponsorizzare anche da Liga Stavok, bookmaker ufficiale di Mosca: l’inchiesta svela quali sono le squadre che incassano soldi da questo contratto.

LA MATRIOSKA DELLE SCOMMESSE di Lorenzo Vendemiale immagini di Chiara D’Ambros grafiche Michele Ventrone

LORENZO VENDEMIALE FUORICAMPO A Kyiv la vita non si è mai fermata. Il popolo ucraino allena la sua resilienza anche col pallone. Interrotto a febbraio a causa dell’invasione, il campionato ucraino è ripreso in autunno

OLEKSII MYKHAILYCHENKO – VICEPRESIDENTE FEDERCALCIO UCRAINA Il presidente Zelensky in persona ha fortemente voluto la ripartenza del campionato, per dare morale al nostro popolo.

LORENZO VENDEMIALE FUORICAMPO Parlare di normalità però è impossibile. Le partite vengono giocate quasi tutte a Kyiv. Gli stadi sono blindati, perché riempirli di spettatori sarebbe troppo pericoloso, e ogni impianto deve essere dotato di un rifugio contro le bombe.

JURIJ VERNYDUB – ALLENATORE KRYVBAS Giocare in queste condizioni è molto difficile. Siamo lontani da casa, e senza i nostri tifosi. Gli allenamenti vengono continuamente interrotti dagli allarmi antiaerei.

LORENZO VENDEMIALE FUORICAMPO Jurij Vernydub un anno fa allenava in Moldavia, ed era diventato una star per aver battuto il Real Madrid. Quando è scoppiata la guerra, non ci ha pensato un secondo a mollare tutto

JURIJ VERNYDUB – ALLENATORE KRYVBAS Dovevo tornare, il resto non aveva senso. Nei primi mesi ho combattuto nella 152esima divisione. Ora sono di nuovo in panchina.

LORENZO VENDEMIALE FUORICAMPO Adesso il campionato si ferma per la sosta: anche il pallone dovrà sopravvivere a un lungo inverno senza elettricità. Dall’inizio del conflitto sono già scomparsi 25 club. E dopo l’annessione illegale di settembre, ci sono squadre che secondo Putin non appartengono neppure più all’Ucraina

OLEKSII MYKHAILYCHENKO – VICEPRESIDENTE FEDERCALCIO UCRAINA Luhans’k, Donetsk, Mariupol sono sempre città dell'Ucraina, e saranno sempre le nostre squadre.

LORENZO VENDEMIALE In un momento così difficile, ha senso pensare a una cosa futile come il calcio?

OLEKSII MYKHAILYCHENKO – VICEPRESIDENTE FEDERCALCIO UCRAINA Continuare a giocare è un altro modo di difendere i nostri confini, per noi oggi il pallone è un atto di resistenza. Per questo ci siamo candidati a organizzare i Mondiali del 2030. Perché significa che il nostro Paese esisterà ancora

LORENZO VENDEMIALE Sareste pronti ad accogliere e magari a giocare contro la nazionale russa?

OLEKSII MYKHAILYCHENKO – VICEPRESIDENTE FEDERCALCIO UCRAINA No comment, scusate!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Mentre i riflettori del calcio mondiale erano accesi sul Qatar, in Ucraina si disputava il campionato di calcio sotto le bombe russe. Il calcio rappresenta una flebile fiamma accesa sulla resilienza ucraina ed è anche una forma di identità. Per questo l’Ucraina si è proposta di ospitare il Mondiale di calco nel 2030 con Spagna e Portogallo. La favorita è l’Arabia Saudita. Sarebbe una bella notizia perché significherebbe, se assegnassero la sede all’Ucraina, che la pace è stata siglata da tempo. Però che cosa è successo, che proprio poche settimane fa mentre i russi bombardavano Kyiv, i nostri inviati sono andati a vedere per raccontare il campionato di calcio che stava ricominciando. E che cosa hanno scoperto. Che ci sono dei russi che fanno affari proprio su quel campionato di calcio che stanno bombardando. Si tratta di bookmaker russi, un intreccio societario incredibile che arriva anche in Italia. Dove non solo scommettono sulle squadre italiane, ma le sponsorizzano anche. Aggirando le sanzioni. Il nostro Lorenzo Vendemiale.

FRANCESCO BARANCA – COMITATO ETICO FEDERCALCIO UCRAINA Questa partita che noi stiamo guardando in questo momento è offerta dal bookmaker russo, qua ci sono le quote

LORENZO VENDEMIALE FUORICAMPO Mosca specula anche sul pallone, come ci spiega l’italiano Francesco Baranca, che da anni è il responsabile trasparenza della Federcalcio ucraina

FRANCESCO BARANCA – RESPONSABILE COMITATO ETICO FEDERCALCIO UCRAINA Esiste un comparto che non è stato assolutamente toccato dalle sanzioni ed è il mondo protetto dei bookmaker russi

LORENZO VENDEMIALE Chi sono questi i bookmaker?

FRANCESCO BARANCA – RESPONSABILE COMITATO ETICO FEDERCALCIO UCRAINA Il bookmaker più famoso e più russofilo è Liga Stavok. E poi passiamo a 1xBet che pur non avendo licenza russa, è comunque conosciuto come essere di proprietà russa

LORENZO VENDEMIALE FUORICAMPO Proprio su 1Xbet a Kyiv è scoppiato uno scandalo. Il bookmaker ha addirittura provato ad aprire un business sul territorio ucraino

MIKHAIL MAKARUK – INFORMNAPALM Abbiamo scoperto che questa famosa agenzia di scommesse aveva ottenuto una licenza nel nostro Paese.

LORENZO VENDEMIALE In piena guerra? Come è stato possibile?

MIKHAIL MAKARUK – INFORMNAPALM Formalmente si trattava di una società tutta ucraina, senza legami con la Russia, ma le informazioni non erano complete.

LORENZO VENDEMIALE FUORICAMPO La commissione per il gioco d’azzardo ha concesso la licenza a una società chiamata “Your betting company” per il marchio 1XBet. Il caso, rivelato dal collettivo InformNapalm, arriva fino al palazzo del presidente Zelensky

MIKHAIL MAKARUK – INFORMNAPALM Zelensky ha spiegato che si tratta di una questione di sicurezza nazionale. Perché il problema non è solo l’utilizzo di denaro ucraino. Il vero pericolo è la raccolta di dati personali di nostri cittadini, che non si sa dove finiscono

LORENZO VENDEMIALE FUORICAMPO Ma chi si nasconde dietro 1xbet, un colosso da oltre un milione di scommettitori in tutto il mondo? Sul sito le informazioni cambiano a seconda del luogo di connessione. Uno dei copyright dice che è di proprietà di 1XCorp, società con licenza a Curacao. A gestire i servizi operativi è invece la Klafkaniro limited, a Cipro. Un labirinto di cui è impossibile venire a capo

LORENZO VENDEMIALE Curacao è il paradiso delle scommesse online

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO RICICLAGGIO È il paradiso dei gestori delle scommesse online Ogni giurisdizione offshore si crea delle legislazioni apposite. Le Antille Olandesi si occupano dei casinò online: la licenza gliela danno in due giorni e ce ne sono già 450 di casinò online

LORENZO VENDEMIALE Ma alla fine della fiera noi sappiamo chi sono i proprietari di questa benedetta 1Xbet?

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO RICICLAGGIO Impossibile saperlo. Il vero tema è: ma se uno vince gli pagano le scommesse? sì, fin quando decidono di pagargliele, ma quando decidono di non pagargliele più scompaiono

LORENZO VENDEMIALE FUORICAMPO È quello che è successo a Curacao. Nel paradiso caraibico 1XCorp è stata colpita da una sentenza di bancarotta

NARDY CRAMM – FONDAZIONE VITTIME DEL GIOCO ONLINE - CURAÇAO Alcuni giocatori sono venuti da noi, denunciando di essere stati truffati: gli avevano confiscato le vincite, o cancellato il conto.

LORENZO VENDEMIALE Quante sono le vittime che rappresentate?

NARDY CRAMM – FONDAZIONE VITTIME DEL GIOCO ONLINE - CURAÇAO 18, per un totale di circa un milione di dollari. Ma è solo la punta dell’iceberg.

LORENZO VENDEMIALE Lei ha avuto modo di guardare dentro 1XCorp. Che cosa ha trovato?

AREND DE WINTER – CURATORE FALLIMENTARE 1XCORP Niente! Non ci sono conti bancari, i soldi non arrivano qui. Ma la cosa più incredibile è che la sentenza non li ha fermati: si sono spostati su un’altra società con un’altra licenza

LORENZO VENDEMIALE FUORICAMPO A rivelare i veri proprietari di 1XBet ci avrebbe pensato un’inchiesta giudiziaria in Russia

COMITATO INVESTIGATIVO REGIONE DI BRYANSK - DA FORBES RUSSIA 29/12/2021 Tra il 2014 e il 2019 tre ricercati a livello internazionale hanno incassato entrate criminali per 63 miliardi di rubli

LORENZO VENDEMIALE FUORICAMPO A Cipro, nell’isola che custodisce i segreti di tanti oligarchi russi, vivono anche i tre imprenditori che secondo l’indagine sarebbero i beneficiari di 1XBet: Roman Semiokhin, Dimitry Kazorin e Sergey Karshkov. Gli imprenditori russi hanno sempre negato di essere i proprietari

ROMAN SEMIOKHIN - DA FORBES RUSSIA 29/12/2021 Abbiamo fatto la piattaforma, viene venduta in vari Paesi e ogni Paese ha il suo proprietario diverso

SERGEY KARSHKOV - DA FORBES RUSSIA 29/12/2021 È come il McDonald's. C'è un format, c’è un modello di business che viene ceduto. Ma le aziende non hanno niente a che fare con noi

LORENZO VENDEMIALE FUORICAMPO Così 1XBet è sbarcata anche nel nostro Paese. Grazie a una società italiana, nel cuore di Roma, domiciliata presso uno studio legale di settore. Report ha scoperto che in passato la proprietà era cipriota e nel Cda era presente un manager originario della stessa città dei tre imprenditori russi. Poi l’azienda è stata rivenduta in Spagna.

LORENZO VENDEMIALE Dottor Scoyni, mi dà un minuto per incontrarla

FABIO SCOYNI - PRESIDENTE CMOBET SRL No, scusi

LORENZO VENDEMIALE Lei mi ha detto che è qui solo per avviare un business e una volta avviato lei si farà da parte. Ma per conto di chi questo business? Me lo può dire per favore

LORENZO VENDEMIALE Dottore, cioè i voglio solo delle informazioni

LORENZO VENDEMIALE FUORICAMPO Il sito italiano ha ricevuto l’attivazione proprio nelle ultime settimane, con regolare licenza. Ma il bookmaker era riuscito da tempo a infiltrarsi nel nostro Paese, grazie al pallone: infatti da anni sponsorizza la Serie A. Solo all’estero, però, perché in Italia una pubblicità del genere è illegale

VOLODYMYR ZVEROV – TELECRONISTA MEGOGO TV Eccolo, vedete ai lati delle porte. C’è la scritta 1XBet. E adesso anche su tutti i lati del campo, è ovunque

LORENZO VENDEMIALE Quindi non si tratta di qualche piccola pubblicità

VOLODYMYR ZVEROV – TELECRONISTA MEGOGO TV Questo è uno sponsor ufficiale!

LORENZO VENDEMIALE FUORICAMPO Il contratto è stato sottoscritto per la prima volta nel 2018 attraverso l’agenzia Interregional Sports Group. Secondo fonti confidenziali, l’accordo oggi vale 12 milioni di euro l’anno

LUIGI DE SIERVO – AMMINISTRATORE DELEGATO LEGA SERIE A Noi non abbiamo fatto un contratto direttamente con 1Xbet. Noi abbiamo venduto ad un'agenzia internazionale

LORENZO VENDEMIALE Voi non potete dire no questo sponsor non ci va bene

LUIGI DE SIERVO – AMMINISTRATORE DELEGATO LEGA SERIE A Questo è uno sponsor che preesisteva, ma nell'ultimo contratto il suo ruolo si è sostanzialmente ridotto

LORENZO VENDEMIALE FUORICAMPO Dalla Russia arriva almeno un altro sponsor, Liga Stavok. Qui non ci sono dubbi: si tratta di un bookmaker ufficiale di Mosca.

VOLODYMYR ZVEROV – TELECRONISTA MEGOGO TV Io faccio il telecronista del campionato italiano sulla tv ucraina. La prima volta che ho visto queste pubblicità, sono rimasto stupito. Adesso sono disgustato, e come me tanti tifosi che seguono la Serie A

LORENZO VENDEMIALE FUORICAMPO E la Federcalcio ucraina ha scritto una lettera di protesta alla Lega Serie A

LUIGI DE SIERVO – AMMINISTRATORE DELEGATO LEGA SERIE A La Lega non ha nessun rapporto diretto con questa cosa. Sono dei club singolarmente…

LORENZO VENDEMIALE Quali?

LUIGI DE SIERVO – AMMINISTRATORE DELEGATO LEGA SERIE A …che hanno un contratto nei confronti di un intermediario che ha venduto a questo partner. Quello che posso dirle è che dal quattro di gennaio non andrà più se non in un territorio specifico, quello russo

LORENZO VENDEMIALE Cioè di fatto parliamo tanto di sanzioni. Però è fattuale dire che la serie A prende soldi russi

FRANCESCO BARANCA – RESPONSABILE COMITATO ETICO FEDERCALCIO UCRAINA Teoricamente è una triangolazione, ma alla fine la sponsorizzazione di soggetti russi arriva alla serie A.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO 1Xbet somiglia più a una matrioska per il complesso intreccio societario. Ci scrivono da Cipro e dicono, noi non abbiamo legami con la Russia, ma è in Russia che sono stati perseguiti. Non ci dicono chi sono i proprietari e dove vanno a finire i soldi. Nel dubbio, in Ucraina, gli hanno strappato la licenza, anche perché temono per la tutela dei loro dati. Noi in Italia invece gli abbiamo spalancato le porte. Indirettamente ma consapevolmente. La nostra Lega calcio, guidata da De Siervo, non si è fatta troppe domande, non sa neppure con quale galassia delle società di 1XBet è collegata, anche perché l’advisor Isg non vuole dirlo. Mentre gli altri club non hanno neppure interrotto il contratto con un altro bookmaker russo, Liga Stavok. Scoperto dal nostro Lorenzo Vendemiale, attraverso l’intermediario Infront, hanno sponsorizzazioni Lazio, Torino, Empoli, Verona, Lecce, Spezia, Sampdoria, Salernitana, Udinese. Solo l’Atalanta ha rinunciato al contratto, per motivi etici. Ora noi ci chiediamo come conciliano Lega e club il fatto di scendere in campo con la fascia al braccio con scritto su pace, quando poi alle spalle hanno gli sponsor del Paese che bombarda.

Lorenzo Vendemiale ilfattoquotidiano.it il 20 Dicembre 2022

Ha vinto il calcio. E i suoi presidenti, a partire da Claudio Lotito, il senatore-patron di Forza Italia che si è battuto come un leone a Palazzo Madama e alla fine è riuscito a convincere il governo nonostante il parere contrario di non uno, ma ben due ministri (Abodi allo Sport, Giorgetti all’Economia) ad infilare in manovra un provvedimento ad hoc per lo sport (cioè per la Serie A). 

Le società sportive, le squadre di Serie A, potranno spalmare in sessanta comode rate nei prossimi cinque anni i milioni di tasse non pagate con la scusa del Covid, con solo una piccola mora del 3% e nessuna sanzione penale o sportiva. Un favore che allo Stato costa la rinuncia nell’immediato a quasi un miliardo di euro. Un trionfo per il calcio. E poco cambia che una misura simile sia prevista anche per le altre aziende generiche. Il governo Meloni ha dimostrato di essere sensibile alle esigenze della lobby del pallone.

Il “salva-calcio” o “lodo-Lotito” – chiamatelo come volete, cambia la forma ma non la sostanza dell’ennesimo, scandaloso favore di Stato al pallone – è diventato un’autentica telenovela nelle ultime settimane. Prima sponsorizzato dallo stesso ministro Abodi, poi bocciato dal Ministero dell’Economia, quindi portato avanti da uno scatenato Lotito in versione “stalker” a Palazzo Madama. Tutto perché le società sportive per l’intero anno 2022 hanno potuto non pagare le tasse, con i versamenti di Irpef e contributi sospesi nella scorsa legge di bilancio causa pandemia. Una maxi-cartella esattoriale dal valore di oltre mezzo miliardo di euro, che riguarda tutti i club, ma non tutti allo stesso modo: Il Fatto ha rivelato in esclusiva la classifica delle squadre più indebitate, fra cui guarda caso c’è proprio la Lazio di Lotito, uno dei 4 club ad aver rinviato tutte le scadenze. Si capisce meglio perché il presidente-senatore si sia tanto speso a convincere i suoi colleghi a firmare l’emendamento che prevede la proroga.

La misura, contestatissima, all’inizio doveva entrare nel decreto Aiuti quater, ma è stata rimbalzata in Consiglio dei ministri. Così il discorso poi si è spostato sulla manovra. Su cui si è aperto un vero e proprio caso. I senatori in Commissione ci hanno provato prima con una rateizzazione quinquennale gratis: niente. Poi con la stessa rateizzazione, maggiorata del 3%. Ancora nulla. Alla fine, però, proprio quest’ultima proposta è riuscita a entrare nel maxiemendamento governativo, aggirando le forche caudine dei tecnici grazie al sostegno di Forza Italia e facendo esultare il pallone. 

Messa così, pare una beffa per il governo, che ha sempre detto: “Nessun favore al calcio, le stesse regole valgono per tutti”. Posizione ribadita anche nelle ultime ore dal ministro Giorgetti: “I club avranno accesso allo stesso trattamento delle altre aziende”. Ed in effetti, in manovra, già nel testo bollinato quindi ben prima della trattativa in Commissione, è presente una norma che permette a tutte le aziende con debiti fiscali di accedere ad accordi col Fisco con una sanzione agevolata del 3%. Perché allora insistere tanto sull’emendamento salva-calcio, se qualcosa di simile era già in manovra?

Forse perché il pallone non si sentiva abbastanza garantito da quella norma. La misura generale è rivolta ai debiti delle imprese emersi in seguito a un controllo dell’Agenzia delle entrate. Nel caso del calcio, invece, sono dovuti a una sospensione del governo, che i presidenti del pallone sapevano benissimo sarebbe scaduta ma hanno preferito ignorare: Lotito, il n.1 della Serie A Lorenzo Casini e gli altri sostengono che gli era stata promessa una rateizzazione sin da principio, la legge ha sempre parlato solo di una deroga fino a dicembre.

Comunque sia andata, l’equiparazione delle società sportive alle altre aziende che beneficeranno dello spalmadebiti non era scontata. Per questo il pallone ha preteso una norma tutta sua, e l’ha pure ottenuta. In più, il cosiddetto “salva-Calcio” prevede il pagamento contestuale delle prime tre rate che, facendo entrare subito in vigore l’accordo col Fisco, metterà al riparo le squadre da penalizzazioni in classifica nei prossimi controlli federali (in calendario a febbraio). 

È vero che non riceveranno un trattamento sostanzialmente diverso da quello delle altre imprese, ma la differenza per lo Stato c’è tutta e si vede nelle cifre: basti dire che il “salva-Calcio” comporta una differenza di cassa per l’erario di addirittura 889 milioni di euro nel 2022, che verrà recuperata lentamente solo nel 2027, se tutto andrà bene. Il regalo perfetto, impacchettato sotto l’albero. Coi soldi dei contribuenti.

Estratto da gazzetta.it giovedì 26 ottobre 2023.

Dieci mesi di squalifica in campo e otto di pene alternative, l’adesione a un piano terapeutico anti ludopatia e la disponibilità a 16 incontri “in presenza” organizzati dalla Federcalcio in Italia. Gabriele Gravina ha annunciato poco fa l’accordo fra la procura federale e Sandro Tonali. Ora l’intesa deve essere approvata dalla procura generale dello Sport presso il CONI prima del passaggio all’Uefa per l’estensione internazionale del provvedimento. 

Tonali perderà tutta la stagione, fase finale dell’Europeo compresa sempreché l’Italia si qualifichi. “Dobbiamo fare una scelta se pensare soltanto a punire o occuparci di alcuni aspetti sociali importanti”, ha detto Gravina puntualizzando anche il quadro delle indagini: “Perché si continua a parlare di calcio scommesse, queste sono scommesse e non c’è stata alcuna alterazione del risultato”. Il presidente federale ha poi criticato quelli che giudica “attacchi ingiusto e immeritati al calcio”, perché dice Gravina, “il calcio non può essere ghettizzato come cartina di tornasole, certo che si può criticare e bisogna essere onesti. Si parla di mancate riforme, ma l’unica riforma proposta in questi anni con 3-4 ipotesi. 

Se mi lasci non vale. Lukaku e i traditori del calcio. MARCO CIRIELLO, scrittore, su Il Domani il 27 ottobre 2023

Alla fine, come in Shakespeare, è il tradimento che genera la trama anche nel calcio. Senza i traditori le partite sarebbero una noia. Va bene Pep Guardiola e il suo farsi Onu calcistico, va bene Gigi Riva che come Gesù nel deserto resiste alla tentazione, ma poi servono i Romelu Lukaku per animare le domeniche

Alla fine, come in Shakespeare, è il tradimento che genera la trama anche nel calcio. Senza i traditori le partite sarebbero una noia. Va bene Pep Guardiola e il suo farsi Onu calcistico, va bene Gigi Riva che come Gesù nel deserto resiste alla tentazione, ma poi servono i Romelu Lukaku per animare le domeniche. Il belga ha uno stadio pieno di fischi prenotato a suo nome a Milano, sponda Inter.

Dall’estate la tifoseria nerazzurra aspetta il momento della vendetta. Ma prima dei tradimenti vanno elogiati i nomadismi di Romelu Lukaku. Il suo essere gipsy saltando da una squadra all’altra come se fossero mani di quadriglia, avanti e indrè, per ogni salto, un tradimento; per ogni tradimento una delusione; tanto poi ci sono i gol che fanno da spugna, cancellando tutto. Avanza, indietreggia, fugge, torna, salta, dribbla e segna.

Un videogioco, la carriera di Lukaku. Sarà che si sente ancora marcato dalla povertà, in genere ci si smarca dopo un paio di generazioni di autentica ricchezza, e Romelu sente ancora il latte diviso con i topi e fugge, poi c’è chi capisce e chi no, intanto lui vuole cambiare, ambire, guadagnare, strafare. Sarà così anche con la Roma, che oggi è la sua casacca. Basta saperlo.

Il carattere del personaggio è quello. Jago, Bruto, Claudio. Oppure per saltare al cinema e a Sergio Leone: il Max di C’era una volta in America è l’incarnazione del tradimento, senza di lui nessuno amerebbe Noodles. E la storia del calcio è piena di Max Bercovicz, basta solo aspettare il prossimo calciomercato, è già prenotato Mbappé che sta recitando a soggetto già da due stagioni, alla terza sarà Oscar, e prima Ballon d’or.

Che poi i traditori rendono il mondo bambino, perché i bambini pensano che tutto abbia un seguito, ma come insegna il calcio: la partita deve finire, e la stagione vuole il colpo di scena, soprattutto oggi al tempo delle serie tv. Sembra già appartenere all’era di Diocleziano il tradimento di Lionel Messi che dal Barcellona salta al Paris Saint-Germain, «Au revoir Catalogne». Che serie era? Chi la trasmetteva?

E prima c’era stato Luis Figo a dire in catalano: «Adéu Catalunya» passando dal Barcellona al Real Madrid, e trovandosi la testa di un maiale al Camp Nou. Se Rino Gaetano pensava che Chinaglia non potesse passare al Frosinone perché suo fratello era figlio unico, ci sta che i tifosi del Barça non ammettano ancora oggi che il portoghese divenisse un calciatore della collezione galácticos di Florentino Pérez.

E pare una Desdemona il Donnarumma Gigio in balìa del demone jaghesco che fu Mino Raiola quando dal Milan se ne andò al Paris Saint-Germain: che abbiamo scoperto essere solo il trailer della casa dei tradimenti che è l’Arabia Saudita.

Molto più abile è apparso in questi anni – una sorta di Houdini del tradimento – Zlatan Ibrahimović che riuscirebbe a passare attraverso un temporale di gocce di Chanel senza sentirsi Marilyn, avendo come missione calcistica la trasmigrazione in nome della vittoria, anche perché Ibra mette le cose in chiaro fin dall’inizio: non è la squadra che prende lui è lui che prende la squadra.

Il punto di vista conta nel tradimento più del tradimento stesso. Ibra denuncia la sua natura, non si presenta come immacolato, e passa. Anche a vuoto. Come quando dall’Inter saltò al Barcellona e Mourinho da Nostradamus gli disse proprio mentre saltava per andare a vincere la Champions League che sarebbe stata l’Inter a vincerla.

E andò così. Ma ci sono anche i tradimenti senza movimento come il «no» di Pablito Rossi al Napoli nel 1979. Il San Paolo mise insieme novantamila fischiatori per ricordargli quella che era una paura inammissibile per i napoletani.

In confronto i fischi riservati anni dopo a Gonzalo Higuain – che in una notte se ne andò alla Juventus – erano una canzone di Julio Iglesias. Il tradimento trasforma il calcio in corrida e il calciatore in toro. E spesso è il traditore che ha la meglio, i fischi dopo lo smarrimento diventano rivalsa che porta al gol.

Lukaku in questo avvio di stagione ne ha già segnati otto, e chissà se il nono lo segna a Milano che succede. Sarebbe l’equazione perfetta, se sulla sequenza della vendetta fischiata arrivasse il gol che giustifica il sentimento, sceneggiatura perfetta.

Se Lukaku avesse anche uno Shakespeare ci sarebbero le dichiarazioni in conseguenza, con striscioni alla domenica successiva e nuovo appuntamento all’Olimpico ed ecco la saga, e il filo sul quale danzare. Jorge Luis Borges, uno specialista in tema di tradimento, in Finzioni affronta l’argomento in due racconti: Tema del traditore e dell’eroe dove si sofferma su come il traditore agisca per propria mano, quasi in un istinto di consacrazione; e nelle Tre versioni di Giuda dove in quella più interessante senza Giuda non c’è Gesù e quindi niente trama e protagonista e ossessioni seguenti.

Borges legge il tradimento come un gioco di scatole cinesi o specchi dove il traditore accende la trama e consacra l’eroe. Gioca il traditore, tradisce il giocatore. Ma forse troviamo la sublimazione massima del tradimento e del traditore in alcuni versi di William Butler Yeats da The Tower, dove un mulinello avvolge e muove gli esseri umani e le cose, e agitandole le scompone e scomponendole crea la storia: ecco il tradimento.

«So the Platonic Year / Whirls out new right and wrong. / Whirls in the old instead; / All men are dancers and their tread / Goes to the barbarous clangour of a gong». Non resta che guardare Lukaku danzare sui barbari fischi del Meazza.

Da gazzetta.it - Estratti giovedì 30 novembre 2023.

È scomparso nella notte, all'età di 83 anni, Franco Zuccalà. Originario di Catania, una lunga carriera in Rai, aveva lavorato anche nella redazione romana della Gazzetta dello Sport, oltre a Il Giornale e Tuttosport, dal 2000 era editorialista della agenzia giornalistica Italpress. 

Nato il 22 settembre 1940, aveva girovagato per oltre 45 anni nel composito universo dei media: giornali, radio e televisione: prima a Telestar e Antenna Sicilia con Pippo Baudo e a Odeon. Ma la notorietà la raggiunse con la Rai con i servizi da inviato per “La Domenica Sportiva” , “Novantesimo Minuto”, “Il Processo del Lunedì” e il Tg1. Inoltre per undici anni ha presentato per la Rai Corporation di New York, un programma bisettimanale (“I temi del calcio”), seguito in tutto il continente americano.

(...) Gli è stata consegnata anche la laurea “Honoris Causa” in “Telecommunication Science” presso la Columbia University di New York; ha vinto importanti premi giornalistici come il “Boccali”, il “Brera”. 

MAGLIA AZZURRA—  Nel 2014 il portiere Gianluigi Buffon e l’allenatore Cesare Prandelli gli hanno consegnato la maglia azzurra numero 50 per il suo mezzo secolo al seguito della Nazionale. Gli è stata anche attribuita la “Guirlande d’honneur” della Federation Internationale Cinema Television Sportifs per la sua lunga carriera.

90° minuto, da Galeazzi a Beppe Barletti a Paolo Valenti e Beppe Viola: i volti che hanno fatto la storia del calcio in tv. Storia di Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera giovedì 30 novembre 2023.

Addio a Franco Zuccalà. L’ultimo dei giornalisti di 90esimo minuto a lasciarci è stato Franco Zuccalà. Giornalista e scrittore. Inventore di una rubrica, «I temi del calcio», che in effetti raccontava storie di pallone che sembravano romanzi.

Maurizio Barendson. Nato a Napoli da padre inglese, inizia al Centro sperimentale di cinematografia. Poi va in Rai. L’idea di «90° Minuto» è sua, di Paolo Valenti e Remo Pascucci. Si spegne a Roma il 24 gennaio 1978.

Paolo Valenti. È deceduto a Roma il 15 novembre 1990. Ha condotto «90° Minuto» fino al 21 ottobre 1990, diventandone il volto e il simbolo. La trasmissione sarà per sempre associata a lui.

Tonino Carino. Corrispondente da Ascoli. «Erre» sdrucciolevole, quell’aria da pulcino che gli valse la celebrità grazie anche alle bonarie prese in giro ad opera del trio Solenghi-Marchesini-Lopez. Si è spento nel 2012 per un male incurabile.

Beppe Viola. Paroliere, sceneggiatore e «giornalista a tempo perso», diceva di sé senza crederci. Ha intervistato Gianni Rivera su un tram, a Milano, in una giornata dal cielo grigio. È morto a 42 anni mentre lavorava.

Luigi Necco. Nel corso delle sue telecronache dagli stadi di Napoli e Avellino ha coniato espressioni come «Milano chiama, Napoli risponde» che l’hanno reso famoso. A Diego Armando Maradona domandò, dopo il celeberrimo gol di mano all’Inghilterra nel 1986 ai Mondiali messicani: «La mano de Dios o la cabeza de Maradona?». El Pibe rispose: «Tutte e due». Sipario. È morto il 13 marzo 2018.

Giorgio Bubba. Spezzino, corrispondente da Genova, seguiva sia il Genoa sia la Sampdoria. Si sono rifatti a lui i «Figli di Bubba» che nel 1988 cantarono un brano umoristico al festival di Sanremo. È morto il 5 aprile 2018.

Italo Kuhne. Corrispondente dalla Campania e da Napoli. Cronache apprezzate anche dai campi da sci. È scomparso nel 2001 per un male incurabile

Marcello Giannini. È morto il 2 maggio 2014 nella sua Firenze, dove era nato il 5 maggio 1927. Laureato in sociologia della comunicazione, era entrato in Rai dal 1950. Meglio non ricordare Giannini solo per l’entusiasmo che metteva nel raccontare i gol di Antognoni, o per quelle lacrime a «90° Minuto», quando condusse la trasmissione all’indomani della morte di Paolo Valenti. Disse con un respiro, a bassa voce: «Ora posso dirlo, Paolo Valenti era della Fiorentina». E in effetti nessuno, in circa vent’anni, aveva mai capito che Valenti, garbo anglosassone nel porgere le notizie, era un tifoso viola. Ma non solo sport per Giannini. Alluvione di Firenze: il reporter si avvicina all’Arno plumbeo in piena, pronto a sommergere la città. Il microfono scende fino a pelo d’acqua. E quel gorgoglio esce dagli schermi del Tg1 per istanti che sembrano interminabili.

Piero Pasini. Seguiva il Bologna e muore all’età di 55 anni nella postazione radio del Dall’Ara, vittima di un arresto cardiaco dopo aver raccontato il primo gol della Fiorentina contro i rossoblù realizzato da Eraldo Pecci (finì 2-0). Il figlio Gabriele è giornalista e anche lui inviato di «90° Minuto».

Ferruccio Gard. Corrispondenze da Verona, nato nel 1940. Volto celebre, faceva parte del gruppo storico di «90°» scremato da Valenti. È anche un pittore astrattista con esposizioni in mezzo mondo. Gianni Vasino«Amici sportivi, buon pomeriggio». Saluto cult, ricordato da tutti i follower di «90° Minuto». Milan, Inter, la Domenica sportiva. Oggi ha 87 anni.

Roberto Scardova. I fan di «90° Minuto» se lo ricordano come grande narratore appassionato delle squadre emiliane. Si è occupato dei procedimenti giudiziari sulle stragi di Piazza Fontana, Brescia, Italicus, Bologna, e ha seguito le lunghe indagini sulla tragedia di Ustica. Tra i suoi reportage quelli sull’incidente nucleare di Chernobyl, sulle stragi nazifasciste di Marzabotto e di Sant’Anna di Stazzema, e sulla guerra in Afghanistan. È stato anche caporedattore al Tg3.

Cesare Castellotti. È stato il volto da Torino per quasi 15 anni, cravatte sovente color granata. Difficile non trovare echi di Castellotti nel look dell’indimenticabile Gianduia Vettorello impersonato da Teo Teocoli in «Mai dire gol».

Franco Strippoli. Volto tra i più noti da Bari e Lecce. Indimenticabile il riporto. Ma anche le cronache inappuntabili e competenti. Emanuele GiacoiaCorrispondente dalla Calabria, in particolare da Catanzaro. Voce da doppiatore, che non dispiaceva alle telespettatrici. Ci ha lasciati il 18 agosto del 2022.

Paola Ferrari. Classe 1960, milanese. Da giovanissima esordì proprio a «90° Minuto», trasmissione della quale poi diventò conduttrice nel 2003. Un record: prima di lei nessuna donna si era seduta sulle poltrone di Valenti/Barendson.Lamberto SposiniLo ricordano in pochi. Era un giovanissimo corrispondente da Perugia per «90° Minuto». Poi Sposini venne scopertoa da Enzo Biagi con cui collaborò a lungo prima degli incarichi di vertice a Tg1 e Tg5. Nel 2011 Sposini è stato colpito da emorragia cerebrale e ha rischiato seriamente la vita.

Pino Scaccia. Inviato di guerra del Tg1 tra i più noti e apprezzati. Sempre in prima linea, tra proiettili che fischiano, rivoluzioni e rivolte. Ma nel suo passato c’è anche «90° Minuto»: Ascoli, San Benedetto del Tronto, San Siro. Ha scritto 14 libri. E’ scomparso il 28 ottobre 2020.Fabrizio MaffeiDopo la morte di Paolo Valenti nel 1990, conduce lui «90° Minuto». Nel 2004 l’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, lo ha nominato Cavaliere Ufficiale della Repubblica Italiana. Pur avendo abbandonato per scelta il mondo dello sport, resta un noto tifoso della Lazio della quale ha anche vestito i colori nelle sezioni nuoto e canottaggio.

Giampiero Galeazzi. Nel 1992 diventa conduttore di «90° Minuto», trasmissione nella quale è successivamente tornato in qualità di opinionista nella stagione 2008-2009. Nel 1994 Mara Venier lo volle nel cast del contenitore Domenica in, riprendendo per lui il soprannome di Bisteccone e coinvolgendolo in numerosi sketch che metteranno in risalto un’inedita vena comica e intrattenitrice del giornalista. Da questa edizione fino al 1999 condurrà «90º Minuto» nello stesso studio di Domenica in. Scompare il 12 novembre del 2021, a 75 anni.

Mario Mattioli. Laureato in giurisprudenza, comincia la carriera giornalistica a Roma con l’emittente privata Teleregione. Dopo aver collaborato brevemente con la Fininvest e con la statunitense Abc, diventa giornalista professionista dal 1987 e lavora per la Rai come telecronista, tra le altre cose, di calcio e pugilato e come inviato di «90º Minuto». Ha condotto trasmissioni sportive come Sabato Sport, Sabato Sprint, La Domenica Sportiva, La Domenica Sportiva estate, Domenica Sprint, 90º minuto, 90° di B.

Riccardo Cucchi. Fino al 12 febbraio 2017, a San Siro per Inter-Empoli, è stato la voce principale di «Tutto il calcio minuto per minuto», la trasmissione per la quale è diventato noto. Nella sua lunga carriera c’è però anche una collaborazione con «90° Minuto».

Gianni Cerqueti. Si avvicina presto al mondo del giornalismo sportivo, lavorando dapprima in una piccola emittente romana, Videouno, e poi approdando in Rai come conduttore del notiziario sportivo del TG 3 Derby, alternandosi con Ivana Vaccari, Silvio Sarta e Fabio Cortese. Nel 1994 affianca Bruno Pizzul nella semifinale di Usa 94 Bulgaria-Italia; nel 1995 conduce con Paola Ferrari la trasmissione sportiva Dribbling su Rai 2, in seguito diviene un volto noto di «90º Minuto» e a lui viene spesso affidata la partita di cartello del pomeriggio.

Estratto dell'articolo di Claudio Cucciatti per repubblica.it martedì 24 ottobre 2023.

Hernanes fa le capriole in Piemonte mentre serve vino nel suo ristorante. Il Sale non sarà la Juventus e la Prima Categoria la Champions League, ma un gol va festeggiato come si deve. Fango e passione, i campionati dei dilettanti allungano la carriera. E per trovare giocatori un tempo famosi non serve scendere tanto nelle serie amatoriali. In Serie D ex calciatori sparsi per i nove gironi mettono insieme più di mille presenze in A: Serie D-eluxe. 

E decine di reti, a cominciare dalle sessanta di Alberto Paloschi […]  oggi gioca e segna con la maglia del Desenzano, […] . Sul filo del fuorigioco si sfidano nel gruppo I Takayuki Morimoto, rimasto folgorato dalla bellezza della Sicilia (all’Akragas insieme a un altro ex Catania, Cristian Llama), e Reginaldo, a segno quattro volte in otto partite giocate col Casalnuovo. […]

Le regole sull’impiego dei giovani sono ferree: in questa stagione devono essere sempre in campo un classe 2003, due 2004 e un nato dopo il primo gennaio 2005. L’età media delle rose è quindi molto bassa e, anche per questo, i club fanno sforzi economici notevoli per strappare da società di categoria superiore un elemento d’esperienza. Operazione non sempre facile, perché le garanzie contrattuali non sono certo le stesse dei pro.

Andrea Lazzari, dopo dieci campionati di A tra Atalanta, Cagliari, Udinese e Fiorentina, corre e lotta per il Vigor Senigallia. Romano Perticone, che col Livorno ha affrontato l’Inter del Triplete prima di collezionare 369 presenze in B, comanda la difesa del Treviso: cercherà di fermare l’ex attaccante del Vicenza Filip Raicevic (Bassano). Stesso compito che nell’Aglianese ricopre l’ex Parma Simone Iacoponi. Il Montecchio Maggiore ha affidato la manovra a Nicola Rigoni, tra i protagonisti della favola Chievo, mentre Pablo Gonzalez guida l’attacco dell’RG Ticino.

C’è anche chi sceglie il cuore: Antonino Barillà e Andrea Luci, dopo aver assaggiato la A con Reggina e Livorno, sono rimasti fedeli e sono scesi in D dopo il fallimento per aiutare la squadra a ritornare nel calcio che conta. E chi punta invece su progetti sulla carta vincenti: Ezequiel Schelotto (gol in un derby di Milano vestendo il nerazzurro) e Guido Marilungo (venti stagioni tra i prof e 63 gol) impreziosiscono la rosa del Barletta. […]

Morto Bobby Charlton: leggenda del Manchester United e dell’Inghilterra. Aveva 86 anni. Gianluca Pascutti su L'Identità il 21 Ottobre 2023

E’ morto, all’età di 86 anni Bobby Charlton, la leggenda del Manchester United e dell’Inghilterra.

“È con grande tristezza che condividiamo la notizia che Sir Bobby è morto serenamente nelle prime ore di sabato mattina. Era circondato dai suoi cari”. Si legge in una dichiarazione della sua famiglia, che ha anche ringraziato pubblicamente tutti coloro che hanno contribuito alle sue cure e le tante persone che lo hanno amato e sostenuto in tutti questi anni. Gli stessi chiedono cortesemente di rispettare la privacy familiare in questo triste momento”.

Bobby Charlton è cresciuto nelle giovanili del Manchester United ed è diventato uno dei più grandi giocatori di sempre del club. Sopravvissuto al disastro aereo di Monaco all’età di 20 anni, l’ex attaccante con i Red Devils ha segnato 249 gol in 758 partite, collezionando 3 scudetti e la FA Cup. Nel suo palmarès anche una Coppa dei Campioni sempre con il Manchester United nel 1968, in quell’occasione fu autore di una doppietta nella finale vinta 4-1 contro il Benfica.

Charlton è stato una figura chiave anche per la nazionale inglese, fece parte della rosa che vinse la Coppa del Mondo nel 1966, battendo in finale la Germania nell’incontro disputato a Wembley. Dopo il suo ritiro, ha continuato a servire il club come direttore per ben 39 anni. La sua dedizione e il suo amore per il Manchester United sarà impresso per sempre nella storia del Club e di tutto il calcio inglese. La sua eredità umana e calcistica vivrà per sempre”. Buon viaggio Sir Bobby.

Estratti da la stampa sabato 21 ottobre 2023.

Mondo del calcio in lutto. E' morto Sir Bobby Charlton, scomparso all'età di 86 anni. Leggenda dell'Inghilterra e del Manchester United muore circondata dall'affetto della famiglia dopo una lunga battaglia contro la demenza - lasciando in vita solo Sir Geoff Hurst della squadra di eroi che vinse la Coppa del Mondo nel 1966. 

Sir Bobby Charlton che ha collezionato 758 presenze con il suo club e ottenuto 106 presenze con la sua amata nazionale, è morto pacificamente questa mattina circondato dalla sua famiglia. Lascia la moglie Lady Norma, le loro due figlie Suzanne e Andrea e i nipoti. 

Il talentuoso calciatore, nato ad Ashington, l'11 ottobre 1937, è ampiamente considerato uno dei grandi del calcio e faceva parte della squadra inglese vincitrice della Coppa del Mondo del 1966.

Dopo la sua morte, Sir Geoff Hurst, autore della celebre tripletta nella vittoria per 4-2 dell'Inghilterra sulla Germania Ovest a Wembley, è ora l'unico membro della squadra ancora in vita. L'ex terzino destro dell'Inghilterra George Cohen è morto all'età di 83 anni a dicembre. 

(...)

Il Manchester United ha dichiarato di piangere «uno dei giocatori più grandi e amati nella storia del nostro club». A Sir Bobby è stata diagnosticata la demenza nel novembre 2020, appena quattro mesi dopo la morte del fratello maggiore Jack Charlton, un altro eroe del 1966, all'età di 85 anni. 

È stato uno dei cinque vincitori dell'Inghilterra del 1966 a soffrire della malattia debilitante dopo suo fratello, Nobby Stiles, Ray Wilson e Martin Peters.

Addio al lord del football. Con lui finisce il calcio. Stile, carisma, per sempre re dello United. Sopravvisse al disastro aereo di Berlino. E vinse la coppa del mondo. Tony Damascelli il 22 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Come se fosse finito il football. Per gli inglesi Robert Charlton è stato il calcio, la leggenda, il gigante, il gentleman. Da tre anni la sua vita di luce si era fatta opaca e poi buia, la demenza senile aveva cancellato anni di gloria e di celebrazioni, non soltanto del suo popolo, quello del Manchester United al quale aveva regalato 249 gol in 758 partite e una Coppa dei Campioni ma anche al resto della folla inglese, 49 gol con la maglietta bianca dei tre leoni in 106 presenze e quel giorno magico del campionato del mondo, allora con la divisa rossa come i mille papaveri a ricordare il sangue dei morti in guerra. Bobby, dunque, Charlton, simbolo di un football che più non esiste per eleganza e stile, centravanti ma non di puro attacco, ispiratore e realizzatore, il suo shot era tosto, come un colpo sul tamburo, aveva fili di seta sul suo capo glabro, correva e al vento sembravano coriandoli, conclusa l'azione ravvivava quei radi capelli e il gesto era la firma del suo stile al quale mancava soltanto il bowler, la bombetta, insieme con l'ombrello della collezione Brigg.

Era nato l'undici di ottobre del '37, nel nord d'Inghilterra, Ashington il sito, contea del Nothumberland, una fila di case rossastre, terra di miniere, suo padre, Robert Bob aveva le mani e il viso neri di carbone, sua madre Cissie Elizabeth Ellen apparteneva ad una famiglia di calciatori, gli zii, tutti Milburn, Jack giocava nel Leeds Utd e nel Bradford, come George e Jim, mentre Stan aveva provato con Chesterfield, Leicester e Rochdale mentre il leggendario Jackie Milburn, tra i protagonisti del Newcastle e della nazionale inglese, era il cugino della madre. Dunque Bobby mangiava uova col bacon e pallone. Suo fratello Jack lavorava in miniera prima di dedicarsi per obbligo araldico al calcio, però privilegiando la pesca e, soprattutto, avendo una aspra relazione con il fratello, liti che coinvolsero la moglie Norma in attrito con la suocera così da portare Bobby a non poter più incontrare la madre per gli ultimi quattro anni di vita, fino al giorno della sua morte, nel 1992.

I due fratelli firmarono la pace soltanto nel dicembre del 2008 quando fu Jack a premiare Bobby con il riconoscimento di sportivo del secolo degno di entrare nel museo della storia calcistica. Fu il Manchester United la sua vita, insieme con George Best e Denis Law formò la trinità che illuminò l'epopea del Maniu, giocavano nel fango come su un tavolo di biliardo, il cuoio del pallone aveva il colore giallo della paglia e, nelle notturne era invece bianco come la farina. Era un football magico, romantico e insieme spumoso di birra e canti e balli notturni. Era inverno quando stava giocando con i compagni di scuola su uno dei cento prati di quella città del nord e lo vide un tipo che ne intuì le doti, l'offerta di un viaggio verso Manchester, l'United ma in famiglia, soprattutto Jackie Milburn, non gradiva l'idea, meglio il Newcastle con la sua birra potente. Ma ormai i diavoli rossi avevano deciso di prendere il ragazzino. Venne poi tutto il resto fino al sei febbraio del '58. Il Manchester parte da Belgrado, dopo la partita di coppa contro la Stella Rossa, l'aereo fa scalo a Monaco di Baviera per il rifornimento di carburante, l'aria è gelida, la visibilità scarsa se non nulla a tratti sull'aeroporto di Riem, si potrebbe rinviare la partenza al giorno dopo ma il pilota, James Thaim, decide di andar via da Monaco. Il volo British European Airways 609, un charter Airspeed Ambassador, dedicato a William Cecil, primo barone di Burghley, al terzo tentativo di decollo si schianta sulla pista zuppa di neve e fango, erano le tre e trenta. Li chiamavano i Busby Babes, i giovani di Matt Busby che era il loro allenatore. Morirono ventitré dei quarantaquattro a bordo, Bobby si destò dal colpo e aveva la testa insanguinata, stranito chiese notizie dei compagni, si salvarono soltanto in otto con lui. Charlton si portò appresso quella notte di Germania come un incubo dal quale risultò impossibile fuggire.

Il football servì ad addolcire giorni di nuove paure nei viaggi che lo United e la nazionale inglese dovevano affrontare. Robert figlio di un minatore, venne nominato Sir, la sua corona arrivò a Wembley con il titolo mondiale. Di quella squadra resta un solo superstite, sir Geoff Hurst. Incontrai, di nuovo e per caso, Bobby Charlton a Torino, stava entrando in un negozio di argenteria inglese, si fermò prima sorpreso e poi sorridente, come un vero signore aggiustò i tre fili di bianchi capelli che il vento aveva sollevato, accompagnò la stretta di mano con un invito a bere un bicchiere. Fette di vita lontane che improvvisamente tornano a riscaldare la memoria.

Gli allenatori italiani all’estero: non solo big, dalla favola di Farioli alla ‘sofferenza’ di Moriero alle Maldive. Giacomo Guerrini su Il Riformista il 29 Settembre 2023

Vincenzo Montella e Gennaro Gattuso. Sono gli ultimi due allenatori, in ordine di tempo, che avranno all’estero la possibilità di rifarsi dopo le ultime delusioni nostrane che li avevano relegati al margine del calcio che conta. Si infoltisce così la vasta schiera degli allenatori di casa nostra che oltrefrontiera stanno scrivendo, o si accingono a farlo, storie importanti del football internazionale.

L’“aeroplanino”, partito fortissimo alla guida di Catania e soprattutto Fiorentina, non è riuscito poi a mantenere le attese, collezionando una lunga serie di delusioni: Sampdoria, Milan, Siviglia e Fiorentina bis hanno lasciato davvero poco di positivo nel curriculum vitae di Montella costretto a emigrare in Turchia per ricostruirsi – con successo – un’immagine. Il biennio alla guida dell’Adana Demirspor (neopromossa capace di guadagnare la qualificazione europea al secondo anno) è stato talmente positivo da valergli il pass per la guida tecnica della nazionale turca. L’obiettivo è chiaro: centrare la qualificazione a Euro 2024 e successivamente ai mondiali del 2026, dai quali la nazionale manca dal 2002 quando guadagnò lo storico terzo posto. “Abbiamo una squadra giovane e di qualità. Vogliamo trasmettere un sentimento di orgoglio e appartenenza sul campo. È una responsabilità importante, ma siamo qui per portarla avanti”, ha spiegato Montella. Sipario.

Dal Bosforo ha preso il via anche la folgorante carriera di Francesco Farioli, adesso alla guida del sorprendente Nizza in League 1, dove è secondo con 12 punti, uno in più del PSG miliardario peraltro recentemente strapazzato a domicilio. Il tecnico toscano, cresciuto mangiando il pane duro delle serie minori, rappresenta per molti il simbolo del successo per chi abbia idee innovative e voglia di mettersi in discussione. A lanciare Farioli è stato Roberto De Zerbi, folgorato da una sua analisi tattica pubblicata ai tempi in cui l’allenatore veneziano lavorava a Foggia, che adesso è protagonista di primissimo piano nel campionato delle stelle, la Premier League. Dopo aver interrotto la sua esperienza in Ucraina, De Zerbi l’anno scorso è approdato a Brighton e in poche settimane ha cancellato il mito di Potter (passato al Chelsea a stagione iniziata per un sacco di soldi) e condotto i “gabbiani” alla storica qualificazione europea. Quest’anno, nonostante la cessione di Caicedo (116 milioni in cassa), il Brighton vola: terzo in classifica a tre punti dalla capolista, il Manchester City.

Dicevamo di Gennaro Gattuso; è il nuovo allenatore dell’Olympique Marsiglia, sostituirà Marcelino, che ha lasciato la squadra all’ottavo posto dopo la sconfitta per 4-0 domenica scorsa contro il PSG e i tifosi in rivolta. Il compito non è facile, ma “Ringhio” ha dimostrato di esaltarsi nelle situazioni difficili. Dopo il fallimento di Valencia, c’è da starne certi, la grinta non mancherà e al Velodrome i tifosi vedranno i loro giocatori dare tutto per risalire la china.

Rimaniamo in Francia, dove Fabio Grosso ha lasciato un ricordo indelebile: il suo rigore consegnò all’Italia la Coppa del mondo 2006 relegando i bleus al secondo posto, con buona pace di Zidane alla sua ultima gara in nazionale. Anche l’ex terzino di Palermo, Inter e Juve è stato chiamato per risollevare le sorti di una nobile decaduta, il Lione. “Questa città mi ha lasciato qualcosa di incredibile perché ci sono stato da giocatore 16 anni fa. Adesso torno e voglio fare qualcosa di veramente grande”, ha detto Grosso alla conferenza stampa di presentazione di pochi giorni fa.

La lista dei nostri allenatori all’estero sarebbe ancora lunga; è giusto ricordare Marco Rossi, autore di imprese straordinarie alla guida dell’Ungheria; Francesco Calzona, già vice di Sarri che Marek Hamsik ha portato sulla panchina della Slovacchia; Checco Moriero, ct della Maldive, e Paolo Negro, appena scelto dalla federazione ugandese. Ovviamente Roberto Mancini, nuovo paperone d’Arabia. Non ci siamo dimenticati del numero uno: Carletto Ancelotti che dopo aver vinto con Psg, Chelsea, Bayern e Real Madrid lascerà i blancos per guidare nientepopodimeno che il Brasile. Chi lo sostituirà? I bookmakers puntano su De Zerbi. Italians do it better. Anche in panchina.

Il compleanno. I settant’anni di Massimo Palanca: quel gol da calcio d’angolo e Catanzaro che sembrava New York. Una carriera che si riassume in un’unica città, perché a Napoli e a Como non fece bene. Ma non era o’rey sul lago e sul golfo. In Calabria invece sì, dette il meglio di sé perché a volte sono i luoghi a renderti unico e diverso. Massimo Mattei su Il Riformista il 24 Agosto 2023 

Non aveva bisogno della cittadinanza onoraria che il Comune di Catanzaro ieri gli ha conferito. Cittadino di quello spicchio di Calabria, Massimo Palanca lo era da sempre. Dalla tripletta all’Olimpico che stese la Roma in una delle prime serie A di quella squadra che i catanzaresi ricordano a memoria come una preghiera. Laica certamente, ma quando si è in Meridione il sacro ed il meno sacro, perché definirlo profano sarebbe riduttivo, soprattutto quando si parla di calcio in alcune città, ha sempre un confine labile, sottile, come una linea di fondo campo.

Palanca non aveva tatuaggi, non credo proprio, ma ci potrei scommettere. Rispettava i contratti sulla parola e non chiedeva gli aumenti a gennaio per una doppietta fatta di mercoledì magari in Coppa Italia. Non faceva vacanze ad Ibiza, tutt’al più immagino sulla sua costa adriatica, qualche giorno di mondanità – se proprio doveva – al massimo in Versilia e quando voleva sentirsi Re a Tropea, Soverato, a Simeri mare dove aveva casa oppure a Copanello. Che in pochi conoscono ma chi è di Catanzaro sì. E lui di Catanzaro lo è sempre stato.

Una carriera che si riassume in un’unica città, perché a Napoli e a Como non fece bene. Ma non era o’rey sul lago e sul golfo. In Calabria invece sì, dette il meglio di sé perché a volte sono i luoghi a renderti unico e diverso. E come ha detto il giorno del conferimento della cittadinanza “Io sono la provincia, sono lontano mille chilometri dai grandi centri, io ho una moglie e un figlio che mi fanno sentire importante e la sera quando torno a casa Catanzaro mi sembra Parigi e New York”.

Che sembra troppo, oggettivamente, ma c’è un’Italia altra, fatta di bar sport sulle provinciali, di feste patronali, di Madonne in processione che non guarda alla City e al cibo molecolare ma si lega alla terra per il morzello nella pitta e per un amore vissuto quasi con gelosia.

Non era un campione, ma anche sulla definizione di campione bisognerebbe ragionarci un po’. Era un campione Ronaldo (quello vero, non l’influencer che ormai come un vecchio Toro seduto viene portato in giro per essere mostrato in qualche circo sempre meno importante)? Sì. Lo era Baggio? Figurarsi. Lo era Maradona? Forse il più grande di tutti. Ma si è campioni anche per qualche realtà e basta, perché magari si è lasciato un ricordo indelebile. Campione lo è stato Erasmo Iacovone a Taranto che regalò alla città salentina un sogno sfiorito in quel maledetto incidente. Come lo è stato Signorini al Genoa, Gigi Marulla per il Cosenza, Riganò negli anni bui della Fiorentina. E il padre lo racconta al figlio di quelle reti di Massimo Palanca da calcio d’angolo, che forse non ha nemmeno visto perché si parla di quarant’anni fa, ma che ha sentito raccontare come di qualcosa di epico dal padre che ha sognato un riscatto, fosse solo sportivo, quando sognare nella Calabria degli anni settanta era piuttosto difficile.

E si è campioni per Catanzaro ed i suoi tifosi che non riempiranno il “Santiago Bernabeu” ma che al “Nicola Ceravolo” stavano stipati per quei colori e per quella maglia. Di padre in figlio, di figlio in nipote. Per il numero 11 giallorosso che i bambini di oggi indossano sapendo che quella era la maglia di Palanca. Non di altri con i tatuaggi tribali in ogni dove e le vacanze al Pineta di Milano Marittima. I bambini a Catanzaro indossano ancora la maglia di Massimo Palanca da Loreto, che è terra di miracoli e lui di miracoli ne ha fatti tanti. Col piedino 37 partendo dalla linea laterale come gli attaccanti di una volta e facendo sognare una terra spesso senza più sogni. In terra di Calabria. Di padre in figlio. Massimo Mattei

Buffon e gli altri: quando è il momento giusto per lasciare? Enrico Paci su Nicolaporro.it il 6 Agosto 2023.

Quando un campione dello sport decide di ritirarsi riaffiorano in noi alcune istantanee della sua carriera, soprattutto quelle legate ad emozioni indimenticabili che custodiremo per sempre. Se penso a Gigi Buffon, non posso non ricordare il Mondiale 2006 e la sua parata sul colpo di testa di Zidane nel primo supplementare della finale con la Francia; quell’intervento prodigioso ci permise di rimanere a galla sull’1-1 con gli azzurri poi ad alzare la Coppa del Mondo sotto il cielo di Berlino dopo i calci di rigore.

La scelta di Buffon di appendere gli scarpini al chiodo all’età di 45 anni mi dà lo spunto per fare alcune riflessioni.

In generale per tutti gli sportivi, ma soprattutto per coloro che rappresentano veri e propri mostri sacri delle proprie discipline, esiste un momento giusto per mettere la parola fine alla propria carriera? La scelta migliore sarebbe quella di ritirarsi quando si è raggiunto l’apice magari lasciando dopo una vittoria prestigiosa oppure si dovrebbe proseguire fino a quando si hanno stimoli e voglia di lottare (indipendentemente dall’età) accettando anche la possibilità di un fisiologico calo in termini di competitività e risultati?

Michael Jordan (classe 1963), protagonista di una carriera suddivisa in 3 fasi, ha chiuso la sua seconda parentesi cestistica da vincente; il fuoriclasse del basket si è ritirato per la seconda volta ad inizio 1999 dopo avere conquistato l’anno precedente il suo 6° ed ultimo titolo NBA trascinando i Chicago Bulls nella finale con gli Utah Jazz. Nonostante MJ sia poi tornato a calcare il parquet tra il 2001 ed il 2003 con la canotta dei Washington Wizards (di cui nel frattempo era diventato comproprietario), uno dei ricordi indelebili che ci ha lasciato è proprio quel fantastico arresto e tiro a pochi secondi dal termine di gara 6 che decise la serie finale con i Jazz.

Cambiando sport e guardando in casa nostra non possiamo non ricordare Flavia Pennetta (classe 1982), una delle più grandi tenniste azzurre di sempre; la brindisina decise di ritirarsi a fine 2015 all’età di 33 anni dopo aver conquistato gli US Open (unica italiana insieme a Francesca Schiavone ad aver vinto un titolo del Grande Slam al femminile in singolare) ed aver raggiunto nello stesso anno il suo best ranking personale di sempre in singolare (issandosi fino al n. 6 della classifica mondiale WTA).

E che dire di Alberto Tomba (classe 1966), lo sciatore italiano con più vittorie in Coppa del Mondo e vincitore di medaglie olimpiche e mondiali; il fuoriclasse bolognese chiuse la propria fantastica carriera nel 1998 conquistando l’ultimo slalom speciale disputato.

Valentino Rossi (classe 1979) ha invece optato per un percorso differente; il 9 volte campione del mondo, una vera e propria leggenda delle 2 ruote, ha dato l’addio al termine della stagione 2021 all’età di 42 anni vivendo nella parte finale della propria carriera un fisiologico calo in termini di competitività e risultati, trovandosi talvolta a lottare nelle retrovie e a battagliare con avversari molto meno blasonati.

Anche il grande Gigi Buffon (classe 1978), uno dei portieri più forti e longevi di sempre, ha vissuto una fase finale calante della propria fantastica carriera. Tornato alla Juventus nel 2019 dopo la partentesi al PSG, ha accettato il ruolo di vice Szczesny per poi trasferirsi nel 2021 al Parma (dove era iniziata la sua carriera) in Serie B: al termine di un biennio in Emilia in cui ha cullato il sogno di riportare i ducali nella massima serie ha poi deciso di appendere gli scarpini al chiodo.

Nel mio immaginario ho sempre pensato che un campione dello sport avrebbe dovuto ritirarsi all’apice della propria carriera, magari subito dopo la conquista di un trofeo o di una vittoria di prestigio; l’idea di un campione che dopo aver vinto tutto potesse accettare di convivere con la propria perdita di competitività ad alto livello, anche semplicemente per questioni anagrafiche, suscitava in me delle perplessità.

Ammetto però che esempi come quelli citati di Valentino Rossi e Gigi Buffon mi hanno fatto ricredere portandomi ad ammirare ancora di più campioni di cui ho seguito le gesta con grande passione fin da ragazzo.

A maggior ragione per chi nella propria vita sportiva ha vinto tanto ed è sempre stato ai vertici, ritengo non sia per nulla semplice affrontare una fase di declino gareggiando anche solo per passione e con la consapevolezza che la lotta per la vittoria sia ormai un affare altrui.

Da un punto di vista umano, ho sentito molto più vicini a me questi campioni nella parte conclusiva della loro carriera e ne ho apprezzato infinitamente la grande umiltà e la voglia di continuare a mettersi in gioco pur non dovendo dimostrare nulla a nessuno.

Giustamente si dice che lo sport è un po’ una metafora della vita; si può vincere e si può perdere ma ciò che fa la differenza sono il cuore, la passione e l’impegno che mettiamo in ciò che facciamo. E come ci insegnano anche questi campioni, finché abbiamo dentro qualcosa che ci fa vibrare ed emozionare, vale sempre la pena andare avanti continuando a coltivare i nostri sogni e le nostre passioni.

Enrico Paci, 6 agosto 2023

Estate 1995: Luis Figo è della Juve... ma anche del Parma! Paolo Lazzari il 5 Agosto 2023 su Il Giornale.

Quel gran pasticcio combinato dall'asso portoghese 28 anni fa: prima firma per i ducali, poi per i bianconeri. Alla fine entrambe dovranno rinunciarci

Comunque ad Almada se n'era accorta un mucchio di gente. Quel ragazzino dal baricentro basso strapazzava i compagni fin da piccolo. Palla a lui e buonanotte. Finte, dribbling, palloni recapitati negli angoli più reconditi delle porte avversarie, sempre con disarmante naturalezza. Luis Filipe Madeira Caeiro Figo - è la formula completa - era semplicemente differente. Più forte degli altri per tecnica e acume calcistico. E, anche quando i suoi estimatori erano diventati di botto più di un modesto drappello - era l'estate 1989, era la casacca a righe orizzontali biancoverdi dello Sporting Lisbona - le cose non erano mica cambiate. Dalla strada al professionismo, lui continuava a svolazzare sulla fascia facendo apparire sbilenchi i tentativi di contendergli il pallone.

Lì, sull'erba del vecchio Alvalade, Figo aveva trascorso sei anni e centoventinove partite. Abbastanza per evolversi da promettente pagliuzza in gigantesca trave infilata dritta nelle pupille dei maggiori osservatori pallonari del vecchio continente. Nel 1995 il portoghese era già una delle ali più forti in circolazione. L'approdo ideale, l'empireo, poteva essere uno soltanto: Serie A. Lontano anni luce il dimesso clima odierno. Risibili le pretese della giovanissima Premier League. Figurarsi tutti quegli altri. No, il posto dei campioni era un paese appetitoso e scintillante come nessun altro. A pensarci oggi, nell'era del disfacimento putrescente indotto dalle vagonate di monete tintinnanti che piovono dall'Inghilterra e dall'Arabia, serve pizzicarsi per crederci. Eppure, per quanto gracile, quella era l'epoca aurea italiana. E ti avrebbero commissionato un TSO se avessi vaticinato un futuro differente.

Fuoriclasse. Grande campionato. Manca una variabile almeno per eseguire l'equazione perfetta. Manca il top club. Nell'epoca fagocitante delle sette sorelle c'era soltanto da sfregarsi le mani. Andavi a Firenze e ti terrorizzavano Batistuta, Rui Costa, Toldo. Provavi a sfangarla nell'Olimpico biancoceleste, ma dovevi vedertela con Beppe Signori, Nesta, Boksic. Sull'altra sponda del Tevere spuntavano le sagome poco promettenti (per la tua squadra, ovvio) di Aldair, Giannini, Totti.

Ma su Figo piombano in particolare due italiane. La Juventus e l'ambizioso Parma di Calisto Tanzi. L'attempata dama ha sollevato il tricolore appena l'anno precedente. I ducali sono arrivati terzi, ma vogliono competere con impeto crescente. In panca c'è Nevio Scala. Sul campo Buffon, Couto, Dino Baggio, Zola e Asprilla, solo per estrarne qualcuno dal mazzo. Roba che oggi ci vinceresti il campionato con venti punti di distacco, come l'ultimo Napoli. Certo non se la passa peggio Lippi, con i suoi Peruzzi, Ferrara, Paulo Sousa e il tridente Vialli, Ravanelli, Del Piero. Entrambe inseguono però un ulteriore salto di qualità. Entrambe vogliono Luis Figo.

Si muove per primo il Parma. Il ds Pastorello vola in Portogallo, tratta e conclude la missione. Il fantasista lusitano firma: è dei ducali. Fatta? Forse. Perché la Juventus si muove in parallelo. L'amico Paulo Sousa lo tempesta di chiamate per convincerlo a venire a dribblare sotto la Mole. Nel frattempo Luciano Moggi trova l'accordo con lo Sporting: 6 miliardi delle vecchie lire per vestire il bianconero. E Figo firma di nuovo, stavolta con la Juve. Bravo a servire caos come assist a quintali.

L'incidente molto poco diplomatico viene presto disvelato. Perché entrambe le squadre lo annunciano in simultanea. Figo è del Parma! Anzi no, è della Juve! Vacci a capire qualcosa. Il diretto interessato prova a fugare i dubbi. "Guardate, mi hanno fatto pressioni, io a Torino non vado". Stando a quello che riportano i suoi legali, avrebbe già spedito un atto notorio per comunicare il tutto alla Juventus. Moggi, Bettega e Giraudo però non ci stanno e annunciano una battaglia legale. La questione, sfuggita clamorosamente di mano, giunge fino alle damascate stanze della Lega Calcio. Che, salomonicamente, emette la sua sentenza: Figo non va più né alla Juve né al Parma. E in Italia non può mettere piede per minimo 2 anni.

Una sliding door che per lui significherà Barcellona, dove inciderà un quinquienno epico, prima di passare agli odiati rivali del Real, ricevendo in dote una testa di maiale dagli spalti. Ma questa è un'altra faccenda, così come il suo successivo trasferimento all'Inter, nel 2005. Quel gran pasticcio collettivo di 28 anni fa privò la Serie A più luccicante di uno dei campioni più abbaglianti. Un allineamento astrale che possiamo adesso soltanto immaginare, complice la farsa e la zuffa di quell'assurda estate. 

Il "cholismo" è nato a Pisa, la genesi di Diego Pablo Simeone. Nell'estate del 1990 l'argentino Simeone approdava sotto la torre pendente, convinto da Romeo Anconetani. Di lui mister Lucescu disse: "Non ha la tecnica, ma sa stare in campo". Paolo Lazzari il 13 Maggio 2023 su Il Giornale.

Se ne stanno tutti rannicchiati e sconsolati nella sala d'aspetto dello psicologo di famiglia. La porta si apre ritmicamente ed entrano mestamente in fila indiana. Prima mamma Maria, poi papà Carlos Alberto. Quindi gli zii e poi tutti gli altri familiari. Pare una seduta di gruppo perché è una seduta di gruppo. I pazienti? L'intera famiglia Simeone. La voce è increspata. Gli raccontano che il figlio se la cava parecchio col pallone. Che gioca nel Velez. Che non capiscono come sia possibile che se ne vada di casa a vent'anni, senza nemmeno averne parlato prima con loro. Il dottore, pensoso, annota tutto su un taccuino. "Sa, una cosa sarebbe stata un'altra squadra in Argentina. Ma l'Italia! Pisa!". Maria erompe in un pianto disperato. Fa la parrucchiera da un pezzo e quel mondo patinato l'acceca. Il padre invece si è disimpegnato tra i dilettanti, ma adesso è un venditore. Sono tutti tremendamente sconvolti.

Il fatto è che quella telefonata è arrivata senza preavviso. Nel 1990 il Pisa fa la Serie A ed ha urgenza di rinforzarsi. Romeo Anconetani, il presidentissimo, pretende che gli venga sottoposta una lista di giovani promesse sudamericane. Giunge in sede un fax proveniente dall'Argentina. Documento ermetico: c'è una sfilza di calciatori, ma le informazioni languono. Soltanto nome, ruolo, altezza, peso. Nulla sul loro modo di giocare o sul carattere. Tocca affidarsi all'intuito. Romeo si inumidisce un polpastrello e scorre l'indice lungo il foglio. Si ferma dove c'è scritto Diego Pablo Simeone. "Ecco, voglio questo qui. Mi garba, ha la faccia decisa", narra la leggenda. Il figlio Adolfo racconterà in seguito una verità più accurata: "Ce lo segnalò il procuratore Settembrini".

Il Pisa deve muoversi per soffiarlo al Verona. Trilla il telefono dell'agente del Cholo. Gli danno 24 ore di tempo per rispondere. A quelle condizioni lì, avvisare la famiglia diventa intricato. Anche perché si trovano tutti in vacanza in quel momento. Sono irraggiungibili. Il ventenne Diego rimugina in fretta e scioglie le riserve. "Ci vado", mormora al suo procuratore.

Con lui, dall'Argentina, arriverà anche un altro duro: il difensore José Antonio Chamot. La proprietà però non si ferma qui: ingaggia dal Cosenza anche la punta Michele Padovano per assicurarsi un perno che vada in doppia cifra e un luccicante danese, Henrik Larsen, dal Lyngby. Un gruppo promettente, ma Simeone ci mette un po' ad adattarsi. Per facilitare il processo, a turno, vola a casa sua un familiare diverso. Prima la mamma ovviamente. Poi il papà. Quindi lo zio. Stanno tutti tre mesi, finché lo svezzamento non si completa. Lui prende gradualmente possesso della città. Fa jogging sul viale alberato delle Piagge, che costeggia l'Arno. Va a spasso in centro tra piazza dei Cavalieri e Borgo Stretto. Si interessa anche delle viuzze minori. Ad un certo punto si ambienta talmente bene, racconterà sempre Adolfo Anconetani in seguito, che con quell'espressione da smargiasso azteco dirà di stare male per una partita, mentre invece è a gingillarsi in discoteca.

Risibili incrinature giovanili in un carattere battagliero. Mircea Lucescu, che resta direttore tecnico dei nerazzurri fino al mese di marzo, lo scruta dal campo. E forse è proprio qui che nasce il futuribile cholismo. "Lo guardavo muoversi. Non aveva una gran tecnica. Colpiva solo di piatto. Ma sapeva stare in campo e dava indicazioni anche a quelli più grandi di lui. Fu in quel momento che pensai: questo diventerà un signor allenatore".

In quell'anno che conduceva alle notti magiche il calcio italiano viveva un surreale cimax. Il Pisa si trovava a fronteggiare il Napoli di Maradona, il Milan di Sacchi, la Juve di Baggio. Corazzate che incutevano deferenza. Lui però si esaltava proprio quando l'avversario era superiore. Al debutto, contro il Lecce, fa un gol incredibile: palla che arriva da destra, "sombrero" col destro al difensore e botta al volo di sinistro. Roba che "Maradona scansati". Ma non era certo quello il pezzo forte della casa.

Diego è provvisto di un'intelligenza calcistica notevolmente superiore alla media. Da giocatore - centrocampista d'interdizione e di dirompente inserimento - inizia ad applicare concetti che gli verranno particolarmente utili in panchina, contribuendo al suo lungo regno sulla sponda biancorossa di Madrid. Primo: consapevolezza dei propri mezzi. Se non sei bravo come gli altri, inutile lagnarsi. Sopperisci in altro modo. Secondo: rendi difficile il calcio altrui. Terzo: lascia sempre il cuore sul campo. Tutto qua. Ma passare dalla teoria alla pratica è faccenda per pochi.

E pazienza se l'avventura sotto alla torre (55 presenze e 6 reti) non andrà esattamente come avrebbe sperato: una retrocessione al primo anno, la cessione al termine del secondo. Il virgulto Simeone non sfonda subito, ma sfonderà. Quello che fermenta a Pisa è però il primo fondamentale estratto di una visione calcistica destinata a ribaltare imperi logori in serie. Dallo psicologo, adesso, fanno la coda i suoi avversari.

Calciatori con nuovo lavoro e nuova vita. Che fine hanno fatto: Muntari meccanico, Tommasi sindaco, Giannini ristoratore. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 04 Febbraio 2023.

Dopo una carriera dedicata al calcio, tanti ex campioni hanno cambiato completamente vita. L'ex United Mulryne ha scelto la fede, Mendieta la musica, Stendardo difende come avvocato giovani giocatori

Damiano Tommasi primo cittadino

Nella stagione 1993-94 aveva debuttato con l'Hellas Verona. Oggi è sindaco della città dopo aver battuto al ballottaggio il primo cittadino uscente Federico Sboarina, che era sostenuto dal centrodestra. Damiano Tommasi dopo aver giocato con la Roma in Serie A, poi all'estero in Spagna, Inghilterra e Cina fino al 2006, ha scelto di dedicarsi all'attività politica. Prima rimanendo nel mondo del calcio, dal 2011 al 2020 come presidente Aic, poi dal 2018 come consigliere federale Figc. A 48 anni l'ex centrocampista indossa per la prima volta la fascia tricolore, amministrando il capoluogo di provincia veneto.

Philip Mulryne tra i frati predicatori

Sempre centrocampista, ma con una scelta di vita completamente diversa. Il nordirlandese Philip Mulryne, ex Manchester United, dopo essersi ritirato dal calcio giocato nel 2008 si è completamente dedicato all'Ordine dei frati predicatori. Una scelta di fede che lo vede prete dal 2017, dopo aver effettuato la professione solenne domenicana l'anno precedente.

La vita in campagna di Fabio Macellari

Nato a Sesto San Giovanni 49 anni fa, l'ex di Lecce, Inter, Bologna e Cagliari, oltre a tante altre squadre di provincia, Fabio Macellari ha completamente cambiato vita dopo aver appeso gli scarpini al chiodo. Ritornato a Bobbio, località dove è cresciuto in provincia di Piacenza, nella verde Val Trebbia in compagnia del figlio taglia legna, produce miele e zafferano, spendendo gran parte del proprio tempo in mezzo alla natura. Tutto in un casolare che la famiglia gestisce da quasi 150 anni, una tradizione che l'ex difensore ha voluto riprendere e portare avanti. Un modo per superare anche i problemi con la cocaina che aveva avuto in passato. Si è prestato come muratore anche ai lavori di ricostruzione ad Amatrice, colpita gravemente dal terremoto del Centro Italia nel 2016.

Adrian Mutu a sostegno degli ospedali

L'ex attaccante di Parma, Juventus e Chelsea Adrian Mutu oltre che calciatore è stato anche allenatore, ma in tempi recenti ha preferito contribuire al settore sanitario del suo Paese, la Romania, partecipando attivamente ad alcune campagne pubblicitarie solidali a Bucarest, per le quali ha prestato la propria immagine. Il capocannoniere assoluto della nazionale rumena è stato particolarmente coinvolto in queste iniziative durante la pandemia quando sono state cruciali le donazioni per l'acquisto di farmaci e mascherine.

Il presidente della Liberia George Weah

Come Tommasi anche l'ex attaccante del Milan George Weah ha scelto la carriera politica, ma dando un contributo attivo alla Liberia, il proprio Paese di origine. Dal gennaio 2018 ne è il presidente, con la vocazione di voler risolvere gran parte dei problemi che attanagliano i suoi concittadini. Sconfitto alle elezioni nel 2005 e nel 2011, dopo studi all'estero e una laurea in business administration conseguita a Miami, viene eletto in Senato nel 2014, vincendo poi largamente alla tornata elettorale che lo ha visto protagonista, quando ottenne oltre il 61% dei consensi.

Il rifugiato Hakan Sukur autista di Uber

Stella del Galatasaray negli anni Novanta, poi in Italia con le maglie di Torino, Inter e Parma, l'attaccante turco Hakan Sukur si è scontrato duramente con la realtà del suo Paese, in particolare l'oppressione del governo del presidente Recep Tayyip Erdogan. All'età di 50 anni vive negli Stati Uniti, costretto a emigrarvi per non finire incarcerato tra i dissidenti al regime, e lavora come autista di Uber. L'ex calciatore fu tra i cittadini accusati di aver sostenuto il tentato golpe del 2016 ai danni del presidente e non ha avuto altra scelta che reinventarsi oltre oceano. Prima ha gestito una caffetteria in California, ora porta le persone a spasso grazie all'app per i trasporti privati con conducente.

Tomas Brolin tra ristoranti e partite di poker

L'ex centrocampista offensivo svedese Tomas Brolin, in Italia con i colori del Parma nel corso degli anni Novanta, è tornato in patria dopo il suo ritiro nel 1998. In Svezia ha gestito un ristorante che aveva nel menu anche ricette italiane. Il locale venne però multato in più occasioni perché consentiva ai minorenni di consumare alcol. Dopo aver venduto aspirapolveri per un periodo, dal 2006 si dedica al poker sportivo, dove come giocatore si è fatto discreta strada nella specialità del Texas Hold'em. «La vita è troppo breve per fare cose noiose», aveva detto.

L'avvocato Guglielmo Stendardo

In campo giocava nel ruolo di difensore, oggi si dedica alla difesa legale dei suoi clienti. Guglielmo Stendardo, che in carriera ha militato in tanti club italiani, fra tutti Lazio e Atalanta, aveva sostenuto l'esame di Stato nel 2012, per poi lavorare come legale rappresentando in particolare giovani calciatori. Attualmente insegna Diritto dello Sport all'Università Luiss. Nello stesso ateneo è direttore tecnico della squadra, oltre ad apparire saltuariamente in Rai nelle vesti di opinionista.

Il ristoratore Giuseppe Giannini

La storica bandiera della Roma Giuseppe Giannini (in giallorosso dal 1980 al 1996, giovanili comprese) dopo essere stato per anni regista del centrocampo ha tentato la carriera politica, candidandosi come consigliere regionale nel Lazio nel 2005 con Forza Italia, ma non venne eletto. Con alti e bassi è stato allenatore e dirigente sportivo, dal Verona al Grosseto, dal Fondi alla nazionale libanese. Il «Principe», come viene ancora oggi ricordato, attualmente vive invece a Castelgandolfo, dove ha scelto di dedicarsi alla ristorazione insieme alla famiglia, la moglie Serena e le due figlie. «Ora preferisco occuparmi di altro rispetto al calcio, ma resto ovviamente un tifoso della Roma», aveva detto recentemente.

Sulley Muntari e la sua officina

Sulley Muntari può vantare una lunga carriera calcistica, soprattutto nel contesto italiano. Il centrocampista ghanese ha indossato le maglie di Udinese, Inter, Milan e Pescara, oltre a diverse esperienze all'estero. Ora che si è ritirato, nel 2019 dopo una breve esperienza in Spagna con l'Albacete, nella sua nuova vita ha scelto di aprire un'officina in Ghana e diventare meccanico, realizzando un suo vecchio sogno. Nel 2016 ha fondato a Como anche la «4fkmotorsport», un'officina per macchine di lusso che si occupa in particolare di tuning (modifiche alle carrozzerie di serie e impianti musicali all'interno delle vetture). «Adoro smanettare con le macchine, non ho bisogno di andare in televisione per stare bene», queste le sue parole. Si è così specializzato soprattutto nella personalizzazione di modelli di auto e moto a seconda delle richieste del cliente.

Il deejay Gaizka Mendieta

La via della musica è stata invece per Gaizka Mendieta il miglior modo per realizzarsi dopo l'addio al calcio giocato nel 2008. Una passione che l'ex centrocampista spagnolo di Valencia, Lazio e Barcellona ha sempre avuto, ma per la quale ha scelto da qualche tempo di dare un contributo attivo come deejay. Suona attualmente nei principali locali di Yarm, un borgo inglese di circa 8mila abitanti dove ha scelto di vivere da qualche anno, nella contea del North Yorkshire.

Jesper Blomqvist asso dei fornelli

Con Milan e Parma Jesper Blomqvist ha coperto ampiamente il centrocampo tra il 1996 e il 1998, per poi trasferirsi in Inghilterra. Da una decina di anni non gioca più ma ha scelto di spendere il proprio tempo in tutta un'altra passione: la cucina. Lo svedese nella cittadina scandinava di Lidingo, nelle vicinanze di Stoccolma, gestisce da qualche tempo una pizzeria. Apparentemente non una qualunque, dal momento che il suo locale è stato premiato per tre anni consecutivi anche dal Gambero Rosso. Proprio quest'anno l'ex calciatore ha vinto perfino l'edizione svedese di Masterchef, mostrando ai fornelli altrettanta bravura, oltre al suo passato da sportivo.

I preservativi di Faustino Asprilla

Indimenticato campione colombiano del Parma degli anni Novanta, Faustino Asprilla è diventato noto, oltre che per scherzi e notti brave (si racconta anche che per il suo trasferimento in Italia ci volle il benestare di un narcotrafficante come Pablo Escobar) anche per il mercato dei condom, attività avviata dopo il suo ritiro nel 2005. In tempi recenti ha ammesso quanto potesse essere audace ed emozionante farlo davanti alle tribune piene, ma anche a fronte di alcune provocazioni da parte di pornostar sue connazionali, l'ex attaccante si è sempre rifiutato.

John Carew sul grande schermo

John Carew non è un calciatore professionista dal 2013, ma l'ex attaccante gambiano naturalizzato norvegese ha dedicato anima e corpo alla recitazione, debuttando al cinema con il film Dead od Winter del regista Robert Rice, prima di ripetersi sulle scene di Hodvinger, sempre lavorando in inglese. L'ex giallorosso è stato condannato anche a 14 mesi per evasione fiscale, con una multa di 50mila euro.

Martin Jorgensen e i pullman

A Firenze il danese Martin Jorgensen è ancora ricordato e apprezzato da molti tifosi. Dopo il suo ritiro nel 2014 il centrocampista ha però deciso di cambiare completamente vita, nonostante avesse ricevuto qualche offerta nel mondo dello scouting e del calcio giovanile, anche dalla Fiorentina. La sua nuova vita prevede l'imprenditoria nel mondo dei trasporti. Niente di nuovo in realtà, perché l'ex calciatore non ha fatto altro che rilevare l'azienda fondata dal bisnonno nel 1920. «Ho realizzato il mio sogno di diventare calciatore, ora però sono tornato alle origini. Guidare pullman mi ha sempre divertito in fondo, sei il più grande in strada e gli altri ti lasciano passare», scherzava qualche tempo fa il danese.