Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2023

LO SPETTACOLO

E LO SPORT

SETTIMA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

INDICE PRIMA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Artista.

Il rapper, il trapper oppure del sottogenere dei «gangsta».

L’hip-hop.

L'Autotune.

Si stava meglio quando si stava peggio.

Laureati.

Gli Stadi.

Imprenditori ed Agenti.

Gli Autori.

I Parolieri.

Il Plagio.

Le Colonne Sonore d’Italia.

Le Fake news.

Le Relazioni astratte.

Le Hollywood d’Italia.

Revenge songs.

Achille Lauro.

Ada Alberti.

Adele.

Adriano Celentano.

Adriano Pappalardo.

Ainett Stephens.

Alain Delon.

Alan Sorrenti.

Alba Parietti.

Alberto Fortis.

Alberto Marozzi. 

Al Bano Carrisi.

Al Pacino.

Aldo Savoldello: Mago Silvan.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Ale e Franz.

Alec Baldwin.

Alena Seredova.

Alessandra Martines.

Alessandra Mastronardi.

Alessandra e Valentina Giudicessa.

Aleandro Baldi.

Alessandro Baricco.

Alessandro Benvenuti.

Alessandro Bergonzoni.

Alessandro Borghi.

Alessandro Cattelan.

Alessandro Cecchi Paone.

Alessandro e Leo Gassmann.

Alessandro Haber.

Alessandro Preziosi e Vittoria Puccini.

Alessia Fabiani.

Alessia Marcuzzi.

Alessia Merz.

Alex Britti.

Alex Di Luca.

Alexia.

Alfonso Signorini.

Alvaro Vitali.

Amadeus.

Amanda Lear.

Amara Rakhi Gill.

Ambra Angiolini.

Amedeo Minghi.

Amleto Marco Belelli, il Divino Otelma.

Anastasia Bartoli.

Andrea Bocelli.

Andrea Delogu.

Andrea Pucci.

Andrea Roncato.

Angela Cavagna.

Angela White.

Angelina Jolie.

Angelo Branduardi.

Angelo Duro.

Annalisa.

Anna Chetta alias Linda Lorenzi.

Anna Falchi.

Anna Mazzamauro.

Anna Tatangelo.

Anna Valle.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonella Marino.

Antonino Cannavacciuolo.

Antonio Banderas.

Antonio Diodato.

Antonio Albanese.

Antonio Ricci.

Ariete si chiama Arianna Del Giaccio.

Arnold Schwarzenegger.

Articolo 31.

Arturo Brachetti.

Asia e Dario Argento.

Barbara Bouchet.

Barbara D’Urso.

Barbra Streisand.

Beatrice Fazi.

Beatrice Rana.

Beatrice Venezi.

Bebe Buell.

Belen Rodriguez e Stefano De Martino.

Beppe Convertini.

Beppe o Peppe Vessicchio.

Biagio Antonacci.

Bianca Balti.

Bob Dylan.

Bobby Solo: Roberto Satti.

Brad Pitt.

Brenda Lodigiani.

Brendan Fraser.

Brigitte Bardot.

Britney Spears.

Brooke Shields.

Bruce Willis.

Bruno Gambarotta.

Bugo.

Candy Love.

Carla Signoris.

Carlo Conti.

Carlo Freccero.

Carlo Verdone.

Carlotta Mantovan.

Carmen Russo.

Carol Alt.

Carole Andrè.

Carolina Crescentini.

Cate Blanchett.

Caterina Caselli.

Catherine Deneuve.

Catiuscia Maria Stella Ricciarelli: Katia Ricciarelli.

Cecilia Gasdìa.

Celine Dion.

Cesare Cremonini.

Capri Cavanni.

Charlize Theron.

Cher.

Chiara Claudi.

Chiara Francini.

Chiara Mastroianni.

Christian Clay.

Christian De Sica.

Christina Aguilera.

Christopher Walken.

Chu Meng Shu.

Cinzia Leone.

Cirque du Soleil.

Clara Serina.

Claudia Cardinale.

Claudia Gerini.

Claudia Koll.

Claudia Pandolfi.

Claudio Amendola.

Claudio Baglioni.

Claudio Cecchetto.

Claudio Lippi.

Claudio Santamaria.

Clint Eastwood.

CJ Miles.

Colapesce e Dimartino.

Colin Farrell.

Coma_Cose.

Corrado Tedeschi.

Costantino della Gherardesca.

Costantino Vitagliano.

Cristiana Capotondi.

Cristiano De André.

Cristiano Malgioglio.

Cristina Comencini.

Cristina D’Avena.

Cristina Scuccia.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Dado.

Dalila Di Lazzaro.

Daniel Craig.

Daniele Luttazzi.

Daniele Silvestri.

Dargen D'Amico.

Dario Farina.

David Lee.

Den Harrow.

Dennis Fantina.

Diana Del Bufalo.

Diego Dalla Palma.

Diego Abatantuono.

Diletta Leotta.

Donatella Rettore.

Dredd.

Drusilla Foer.

Ed Sheeran.

Edoardo Bennato.

Edoardo Costa.

Edoardo Vianello.

Edwige Fenech.

Elena Di Cioccio.

Elena Santarelli.

Elenoire Casalegno.

Eleonora Abbagnato.

Eleonora Daniele.

Eleonora Giorgi.

Elettra Lamborghini.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Valentini.

Elodie.

Ema Stockolma.

Emanuela Fanelli.

Emanuela Folliero.

Emanuela Trane: Dolcenera.

Emma Marrone.

Enrica Bonaccorti.

Enrico Bertolino.

Enrico Beruschi.

Enrico Brignano.

Enrico Lo Verso.

Enrico Ruggeri.

Enrico Silvestrin.

Enrico Vanzina.

Enza Sampò.

Enzo Braschi.

Enzo Ghinazzi, in arte Pupo.

Enzo Iacchetti.

Ernia.

Eros Ramazzotti.

Eugenio Finardi.

Euridice Axen.

Eva Elfie.

Eva Henger.

Eva Menta e Alex Mucci.

Eva Riccobono.

Eva Robin’s.

Ezio Greggio.

Fabio Concato.

Fabio De Luigi.

Fabio Fazio.

Fabio Rovazzi.

Fabrizio Bentivoglio.

Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli.

Fabrizio Bracconeri.

Fabrizio Corona.

Fabrizio Moro.

Fanny Ardant.

Fedez e Chiara Ferragni.

Ferzan Ozpetek.

Ficarra e Picone.

Filippa Lagerbäck e Daniele Bossari.

Fiordaliso.

Fiorella Mannoia.

Fiorella Pierobon.

Fioretta Mari.

Francesca Alotta.

Francesca Michielin.

Francesca Neri.

Francesca Reggiani.

Francesco Baccini.

Francesco De Gregori.

Francesco Facchinetti.

Francesco Guccini.

Francesco Leone.

Francesco Nuti.

Francesco Pannofino.

Francesco Renga.

Francesco Salvi.

Francis Ford Coppola.

Franco Nero.

Francois Ozon.

Frank Matano.

Frankie Hi Nrg Mc.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gabriele Salvatores.

Gabriella Golia.

Gabry Ponte.

Gaiè.

Gazzelle, all’anagrafe Flavio Bruno Pardini.

Gegia (Francesca Antonaci).

Gene Gnocchi.

George Benson.

Geppi Cucciari.

Gerry Scotti.

Ghali.

Gianna Nannini.

Gigi e Andrea.

Giampiero Ingrassia.

Giancarlo Giannini.

Giancarlo Magalli.

Gianluca Colucci: Gianluca Fru.

Gianluca Grignani.

Gianmarco Tognazzi.

Gianni e Marco Morandi.

Gigi D'Alessio e Anna Tatangelo.

Gigi Folino e il Gruppo Italiano.

Gigliola Cinquetti.

Gino Paoli.

Gino & Michele.

Giorgia.

Giorgia Surina.

Giorgio Mastrota.

Giorgio Pasotti.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanni Caccamo.

Giovanni Muciaccia.

Giovanni Pietro Damian: Sangiovanni.

Giovanni Scialpi.

Giuliana De Sio.

Giulio Rapetti Mogol.

Giulio Scarpati.

Giuseppe Tornatore.

Gli AC/DC.

Gli Inti-Illimani.

Gloria Guida.

Guendalina Tavassi.

Guillermo Mariotto.

Guns N' Roses.

Gwyneth Paltrow.

Henry Winkler.

Harry Styles.

Helen Mirren.

Heather Parisi.

Eva Herzigova.

Eva Longoria.

Iaia Forte.

Gli Skiantos.

I Baustelle.

I Cccp Fedeli alla Linea. 

I Cugini di Campagna.

I Gialappa' s Band.

I Guzzanti.

I Jalisse.

Il Volo.

I Maneskin.

I Marlene Kuntz.

I Metallica.

I Modà.

I Negramaro.

I Pooh.

I Righeira.

I Ricchi e Poveri.

I Rolling Stones.

I Santi Francesi.

I Sex Pistols.

Ilary Blasi.

Elena Anna, Ilona Staller: Cicciolina.

Irene Maestrini.

Isabella Ferrari.

Isabella Rossellini.

Isotta.

Iva Zanicchi.

Ivan Cattaneo.

Ivana Spagna.

Ivano Fossati.

Jack Nicholson.

Jane Fonda.

Jennie Rose.

Jeremy Renner.

Jerry Calà.

Jo Squillo.

John Malkovich.

Johnny Depp.

Johnny Dorelli.

Joss Stone.

Jude Law.

Julia Roberts.

Justine Mattera.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Kanye West.

Kasia Smutniak.

Kate Winslet.

Ke Hui Quan.

Kevin Costner.

Kevin Spacey.

Kira Noir.

Lady Gaga.

Laetitia Casta.

La Gialappa’s Band.

Lalla Esposito.

Lars von Trier.

Laura Chiatti.

Laura Freddi.

Laura Morante.

Laura Pausini.

Lavinia Abate.

Lazza.

Lella Costa.

Lenny Kravitz.

Leo Gullotta.

Leonardo DiCaprio.

Leonardo Pieraccioni.

Levante.

Lewis Capaldi.

Lia Lin.

Licia Colò.

Liliana Cavani.

Lily Veroni.

Lina Sotis.

Linda Evangelista.

Lino Banfi.

Linus.

Lisa Galantini.

Little Dragon.

Lizzo.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Cherubini: Jovanotti.

Loretta Goggi.

Lory Del Santo.

Luc Besson.

Luc Merenda.

Luca Argentero.

Luca Barbareschi.

Luca e Paolo.

Luca Medici: Checco Zalone.

Luca Miniero.

Luca Ravenna.

Lucia Mascino.

Luciana Littizzetto.

Ludovica Martino.

Ludovico Peregrini.

Luigi Lo Cascio.

Luisa Corna.

Luisa Ranieri.

Luna Star.

Madame.

Maddalena Corvaglia.

Madonna.

Mago Forest, alias Michele Foresta.

Mahmood.

Malena, all’anagrafe Filomena Mastromarino.

Malika Ayane.

Manila Nazzaro.

Manuel Agnelli.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marco Bellocchio.

Marco Bocci.

Marco Columbro.

Marco Della Noce.

Marco Ferradini.

Marco Giallini.

Marco Masini.

Marco Mengoni.

Marco Predolin.

Marco Risi.

Margherita Buy.

Maria Giovanna Elmi.

Maria Grazia Buccella.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Sofia Federico.

Maria Teresa Ruta.

Marina Suma.

Mario Biondi.

Mariolina Cannuli.

Marisa Laurito.

Marisela Federici.

Martin Scorsese.

Mascia Ferri.

Massimo Boldi.

Massimo Ceccherini.

Massimo Ciavarro.

Massimo Ghini.

Massimo Ranieri.

Matilda De Angelis.

Matilde Gioli.

Mattia Zenzola.

Maurizio Battista.

Maurizio Ferrini.

Maurizio Milani.

Maurizio Potocnik, in arte Reeds.

Maurizio Seymandi.

Maurizio Vandelli.

Maurizio Zamboni .

Mauro Coruzzi alias Platinette.

Mauro Pagani.

Max Felicitas.

Max Laudadio.

Max Pezzali e gli 883.

Megan Daw.

Megan Gale.

Mel Brooks.

Melissa Stratton.

Memo Remigi.

Micaela Ramazzotti.

Michael Caine.

Michael J. Fox.

Michele Guardì.

Michele Placido.

Michele Riondino.

Michelle Hunziker.

Michelle Yeoh.

Mika.

Milena Vukotic.

Mina.

Minnie Minoprio.

Miranda Martino.

Mita Medici.

Monica Bellucci.

Morgan.

Myss Keta.

Mr. Rain.

Nada.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Natasha Stefanenko.

Naomi Campbell.

Neri Parenti.

Nicole Doshi.

Niccolò Fabi.

Nina Moric.

Nina Zilli.

Nino D'Angelo.

Nino Formicola: Gaspare di Zuzzurro e Gaspare.

Nino Frassica.

Noomi Rapace.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Omar Pedrini.

Omar Sharif.

Orietta Berti.

Ornella Muti.

Ornella Vanoni.

Ozzy Osbourne.

Pamela Anderson.

Pamela Prati.

Pamela Villoresi.

Paola Barale e Raz Degan.

Paola&Chiara.

Paola Gassman e Ugo Pagliai.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Turci.

Paolo Belli.

Paolo Calabresi.

Paolo Conte.

Paolo Rossi.

Paris Hilton.

Pasquale Petrolo in arte Lillo; Claudio Gregori in arte Greg.

Patty Pravo.

Patti Smith.

Peppino di Capri.

Peter Gabriel.

Pico.

Pier Francesco Pingitore.

Pierfrancesco Favino.

Pier Luigi Pizzi.

Piero Chiambretti.

Piero Pelù.

Piero Pintucci. 

Pilar Fogliati.

Pino Insegno.

Pino Scotto.

Pio ed Amedeo.

Playtoy Orchestra.

Povia.

Pupi Avati.

Quentin Tarantino.

Quincy Jones.

Raf.

Renato Pozzetto.

Renato Zero.

Renzo Arbore.

Ricky Martin.

Rita Pavone.

Ringo.

Robbie Williams.

Robert De Niro.

Roberta Lena.

Roberto da Crema.

Roberto Vecchioni.

Rocco Hunt.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Rocío Muñoz Morales e Raoul Bova.

Roman Polanski.

Ron: Rosalino Cellamare.

Ronn Moss.

Rosa Chemical.

Rosalba Pippa: Arisa.

Rosanna Fratello.

Rosario e Giuseppe Fiorello.

Rupert James Hector Everett.

Sabina Ciuffini.

Sabrina Impacciatore.

Sabrina Salerno.

Samuel L. Jackson.

Sandy Marton.

Sandra Milo.

Sara Diamante.

Sara Tommasi.

Scarlett Johansson.

Sean Penn.

Selen.

Selva Lapiedra.

Serena Grandi.

Sergio Caputo.

Sergio Castellitto.

Sergio Rubini.

Sergio Vastano.

Sergio Volpini.

Sharon Stone e Michael Douglas.

Shakira.

Simona Izzo.

Simona Tabasco.

Simona Ventura.

Simone Cristicchi.

Syusy Blady e Patrizio Roversi.

Sofia Scalia e Luigi Calagna, Sofì e Luì: Me contro Te.

Sonia Bruganelli e Paolo Bonolis.

Sophia Loren.

Stanley Tucci.

Stefania Orlando.

Stefania e Silvia Rocca.

Stefania Sandrelli.

Stefano Accorsi.

Susan Sarandon.

Susanna Messaggio.

Sylvester Stallone.

Sveva Sagramola.

SZA, vero nome Solána Imani Rowe.

Taylor Swift.

Tananai.

Terence Blanchard.

Teresa Mannino.

Teresa Saponangelo.

Teo Mammucari.

Teo Teocoli.

Tiberio Timperi.

Tim Burton.

Tinto Brass.

Tiziana Rivale.

Tiziano Ferro.

Tom Cruise.

Tom Hanks.

Tommaso Paradiso.

Toto Cutugno.

Tullio Solenghi.

U 2.

Uccio De Santis.

Ultimo.

Umberto Smaila.

Wanna Marchi.

Will Smith.

Woody Allen.

Valentina Lodovini.

Valeria Golino e Riccardo Scamarcio.

Valeria Marini.

Valeria Rossi.

Valeria Solarino.

Valerio Scanu.

Valerio Staffelli.

Vanessa Gravina.

Vasco Rossi.

Vera Gemma.

Veronica Maya.

Victoria Cabello.

Vincenzo Salemme.

Viola Valentino.

Vittoria Belvedere.

Vladimir Luxuria.

Zucchero Fornaciari.

Yuko Ogasawara.

Xxlayna Marie.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Sanremo 2024.

Sanremo. Sociologia di un festival.

La Selezione…truccata.

I Precedenti.

Il FantaSanremo.

Gli Inediti.

I Ti caccio o non ti caccio?

Gli Scandali.

La Politica.

Le Anticipazioni. Il Pre-Voto.

Quello che c’è da sapere.

I Co-conduttori.

I Super Ospiti.

Testi delle canzoni di Sanremo 2023.

La Prima Serata.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

La Quinta ed Ultima Serata.


 

INDICE SESTA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Certificato medico sportivo.

Giochi Sporchi del 2022.

Quelli che…il Coni.

Quelli che…il Calcio. La Fifa.

Quelli che…La Uefa.

Quelli che…il Calcio. La Superlega.

Quelli che…il Calcio. La FIGC.

Quelli che…una Compagnia di S-Ventura.

Quelli che…i tiri Mancini.

La Furbata.

Quelli che…il Calcio. Gli Arbitri.

Quelli che…il Calcio. La Finanza.

Quelli che…il Calcio. I Procuratori.

Quelli che…il Calcio. I Tifosi.

Quelli che…il Calcio. I Figli d’Arte.

Quelli che…il Calcio. La Politica.

Quelli che…il Calcio. Gli Altri.

Quelli che…il Calcio. Lionel Messi.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…il Calcio. Le Squadre.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…il Calcio. Le Squadre.

Il Calcioscommesse.

Quelli che…I Traditori.

Quelli che…Fine hanno fatto.


 

INDICE NONA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I 10 proprietari più ricchi nello sport.

Quelli che…I Superman.

Quelli che…è andato tutto storto.

Quelli che…la Palla Canestro.

Quelli che…la pallavolo.

Quelli che il Rugby.

Quelli che ti picchiano.

Quelli che…il Tennis.

Quelli che…il pattinaggio.

Quelli che…l’atletica.

Quelli che…i Motori.

Quelli che…la Bicicletta.

Quelli che…gli Sci.

Quelli che…il Nuoto.

Quelli che…la Barca.

Quelli che…l’Ippica.

Quelli che… il Curling.

Il Doping.
 


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

SETTIMA PARTE



 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I NUMERI DELLE MAGLIE.

LA JUVE.

IL TORINO.

L’INTER.

IL MILAN.

L’ATALANTA.

IL CHIEVO.

IL LECCO.

IL BRESCIA.

IL MONZA.

L’UDINESE.

I NUMERI DELLE MAGLIE.

Estratto dell’articolo di Franco Vanni e Matteo Pinci per “la Repubblica” l'11 luglio 2023.

Per cucire una maglia da calcio, venduta a più di cento euro, un’operaia in Asia guadagna meno di un euro. Dieci minuti di lavoro a dieci centesimi al minuto. In un’ora una lavoratrice — quasi sempre si tratta di donne — può arrivare a fare sei maglie guadagnando così sei euro lordi, secondo una ricerca della società tedesca Pr Marketing, che da 25 anni studia il mercato delle maglie da calcio nel mondo. 

E negli anni Novanta, in Africa centrale, Pakistan e Bangladesh la paga degli operai delle tessiture, spesso minorenni era persino più bassa, difficilmente arrivava a tre euro al giorno. […] 

Ieri il Napoli ha presentato la sua nuova maglia, con lo scudetto sul petto per la prima volta da 33 anni. E i tifosi sono impazziti per averla bloccando per qualche istante il sito. Nonostante un aumento di dieci euro del prezzo, da 120 a 130 euro. Tanto vale lo scudetto? Non è detto. Perché il prezzo di vendita delle maglie da calcio in Italia cresce più dell’inflazione. La Juventus dalla scorsa stagione lo ha aumentato da 140 a 150 euro. Il Milan, da 120 a 140. […]

«Quel che conta nel progettare una campagna di vendita, dal punto di vista di un club, non è trarre il massimo profitto da ogni maglia, ma capire che ogni tifoso che la indossa diventa un ambasciatore», dice Peter Rohlmann, titolare di Pr Marketing. Ed è per questo che i club più fortemente identitari scelgono di farsi le maglie da sé — è il caso del St. Pauli, la cui tifoseria politicamente impegnata pretende la garanzia “sfruttamento zero” — o impongono alle aziende produttrici di adeguarsi ai valori della società.  […] 

Certo il mercato delle maglie ufficiali in Europa va forte. Negli ultimi vent’anni la vendita di divise replica di quelle indossate dai professionisti, è aumentata del 157 per cento. La Premier League addirittura del 167. E non stupisce che nella top 10 dei club che nel 2022/23 hanno venduto più maglie quattro siano inglesi, a partire dal Liverpool, che guida la classifica con 1,8 milioni di pezzi venduti.

Seguono Manchester United, Real Madrid e Barcellona. La Juventus ha mandato in giro 680 mila maglie a strisce, che le valgono il primo posto tra le italiane ma solo il 9° al mondo. In parte ancora grazie all’effetto CR7, secondo Pr Marketing. E nonostante il mercato delle divise della Serie A nel biennio del Covid abbia perso il 9,7. 

Ma quanto costa una maglia a chi la produce? Il tessuto, la cucitura e la spedizione pesano per appena il 9,6 per cento del prezzo di vendita al dettaglio. Poco meno del 3 per cento va in pubblicità. Il club si mette in tasca in media il 6,1 per cento del prezzo finale.  […]

Il Bestiario, il Numerigno. Il Numerigno è un animale leggendario che crede di colpire l’antisemitismo ritirando il numero di maglia 88 dal calcio. Giovanni Zola il 6 Luglio 2023 su Il Giornale.

Il Numerigno è un animale leggendario che crede di colpire l’antisemitismo ritirando il numero di maglia 88 dal calcio.

Molti si chiederanno perché il Numerigno abbia tanta avversione per il doppio 8. Il motivo è squisitamente politico. Il numero 88 infatti è utilizzato dai gruppi neonazisti per inneggiare a Hitler, in quanto l'8 richiama l'ottava lettera dell'alfabeto: l'H. Il doppio 8, quindi sarebbe “HH”, acronimo del saluto nazista “Heil Hitler”. Per il Numerigno, oltre al divieto di scendere in campo con il numero 88, ci sarà anche quello per le tifoserie "di usare simboli che possano richiamare il nazismo, la responsabilizzazione dei tesserati a tenere un linguaggio non discriminatorio in tutte le manifestazioni pubbliche, la definizione delle modalità di interruzione delle partite in caso di episodi di discriminazione".

Riteniamo che il Numerigno, nella sua feroce battaglia contro l’antisemitismo e le discriminazioni in generale, avrebbe potuto fare di più e meglio invece di limitarsi alla cancellazione del numero 88. Ad esempio, perché il Numerigno non ha fatto togliere la maglia numero 1. Con quale diritto il numero 1 deve essere il primo davanti a tutti gli altri numeri? Si tratta di una forma di bullismo ed emarginazione da parte della maglia numero 1 irricevibile, basti pensare all’emarginazione di una maglia numero 99 che in fondo non ha nessuna colpa per essere il numero che è.

Perché il Numerigno non ha eliminato la maglia numero 2, chiaro riferimento al “due di picche”?! Il 2 infatti offende i meno fortunati che hanno visto la propria dichiarazione venire rimbalzata talvolta anche con scherno e che ora soffrono per abbandono e solitudine. E il numero 3! Come ha fatto il Numerigno a dimenticare di eliminare il numero di maglia della Santissima Trinità irrispettosa e discriminatoria nei confronti di tutte le altre religioni costrette a subire l’odiosa provocazione del terzino? E poi ci chiediamo perché ci sia tanta violenza intorno al mondo del calcio!

Per non parlare del numero 4 che nei tarocchi rappresenta il potere dell’Imperatore, chiara figura che nel passato è stata sinonimo di oppressione politica nei confronti dei più poveri. Sul numero 77 occorrerebbe scrivere un articolo a parte. Nella tombola il numero 77 corrisponde alle “gambe delle donne”. Al Numerigno abbiamo perdonato molto, ma riteniamo questa dimenticanza davvero grave. Stiamo parlando di un numero gravemente sessista e irrispettoso che sottolinea lo stereotipo della parte per il tutto. E ci fermiamo qui, ma potremmo continuare all’infinito

I numeri delle maglie che diventano tabù. Dal ct Zagalo che assegnò d'imperio la 10 a Pelè, al no per la 88 considerata un richiamo al nazismo. Con le "cifre" dall'1 all'11 i meno istruiti impararono le tabelline. Claudio De Carli il 2 Luglio 2023 su Il Giornale.

Come sia andata veramente è sempre rimasto un mistero.

Il 17 marzo del 1970, a pochi mesi dal mondiale messicano, Joao Havelange esonera Saldanha e alla guida della Cbf mette Mario Zagallo. Non è la vastità infinita di campioni che deve lasciare a casa a preoccuparlo, il vero problema è come far passare senza far troppo chiasso la decisione che la numero dieci la può mettere uno solo, e si chiama Pelè, quindi gli altri la infileranno nuovamente quando torneranno a casa. E sono in cinque a indossarla, Pelé nel Santos, Gerson nel San Paolo, Rivelino nel Corinthians, Tostão nel Cruzeiro, Jairzinho nel Botafogo. E Zagallo ha intenzione di schierarli tutti contemporaneamente.

Poi ce n`è un sesto, è il più piccolo della compagnia, si chiama Clodoaldo e chi lo conosce giura che un dieci così non si è mai visto. Con lui Zagallo va per le spicce, gli dà la 5, il numero del regista arretrato che da quelle parti si chiama volante, non certo lo stopperone che va per la maggiore da noi in Europa.

Come abbia fatto Zagallo rimane un mistero, la stampa brasiliana si è fracassata il cervello per capire come sia avvenuta l`assegnazione dei numeri agli altri quattro, alla fine si è convenuto che ci sia stata un`estrazione e ognuno si è preso quello che gli è capitato senza battere ciglia.

Tutta colpa di quel genio di Herbert Chapman, un modesto calciatore di Kiverton, area metropolitana di Rotherham, dove è nato il 19 gennaio del 1878. È lui, poi leggendario allenatore dell`Arsenal per dieci anni e non a caso ingegnere, a stabilire che gli undici in campo dovessero portare un numero sulla casacca, andando anche oltre perché al portiere di riserva assegna il 12. E non è neppure casuale che le prime maglie numerate fanno la loro comparsa nel 1928 in un incontro fra Arsenal e Sheffield.

La leggenda vuole che la sua mossa abbia insegnato a milioni di semianalfabeti a contare e riconoscere i numeri dall`1 fino all`11.

Tutto questo giro di parole per arrivare alla decisione presa martedì dal ministero dell`Interno, da quello dello Sport e dalla Federcalcio italiana, per contrastare l`antisemitismo nel mondo del calcio.

Tra le misure concordate l`impegno da parte dei club a non assegnare ai giocatori la maglia numero 88 per i significati neonazisti a cui può alludere. Ciascun otto può indicare l`ottava lettera dell`alfabeto, e due vicini vengono usati dai gruppi di estrema destra per indicare il saluto nazista Heil Hitler.

I numeri nel calcio mai una storia banale, all`inizio quasi tutto semplice, il portiere con l`1, il 2 e il 3 ai terzini, stopper col 5, il libero col 6, 7 e 11 le due ali, le mezze con l`8 e il 10, il 9 al centravanti. Tutto liscio fino alla stagione 1995/96, con qualche deviazione, l`Argentina nel `78 non bada ai ruoli ma li assegna in ordine alfabetico e Ardiles si prende l`1, poi nell`82 arriva Diego Armando, mette tutti in cesta e si prende il 10. Nei club il primo a sparigliare è Johan Cruijff, mette il 14 e fa vacillare perfino la magica 10 che fino a quel momento è la maglia del migliore. Poi neanche trent`anni fa spazio alla creatività, ognuno se lo sceglie e guai a toccarglielo, certe storie non sono mai uscite ma sono successe, il numero è mio, cambio squadra e lui viene con me. Gatti col 44, ma questo solo noi siamo in grado di arrivarci, Fortin il 14, più internazionale. Monoliti eterni, chiedere chi se la sente a Napoli di infilare la 10 di Maradona o a Roma la 10 di Francesco Totti, ritirata la 3 di Giacinto Facchetti.

Anche Dybala non se l`è sentita, la maglia di Michel Platini, Roberto Baggio e Alessandro Del Piero è pesantissima, poi è arrivato Paul Pogba, l`ha vista li e se l`è messa. Più o meno quanto ha fatto nella Nationalmannschaft Thomas Muller che si è preso la 13 mai più indossata dai tempi del fantastico Gerd Muller. Intoccabili la 10 di Messi e di Neymar, la 7 di Cristiano Ronaldo.

Chi arriva la prima cosa che chiede è quali numeri sono liberi e dietro spesso c`è anche amore. Lorenzo Insigne ha scelto la 24 perché è il giorno di nascita della moglie, come Ciro Immobile che ha sfidato la cabala e mette la 17 sempre in onore della signora. Cuore e profondo affetto la scelta di Fabio Quagliarella che ha scelto la 27 che indossava Niccolò Galli suo compagno nelle giovanili azzurre, scomparso in un incidente stradale mentre tornava dall`allenamento in motorino a 17 anni. Mai smessa. Ci sta anche la scelta del Burnley che contro il Liverpool è sceso in campo con le maglie dall`1 all`11 conquistando il cuore vintage dei nostalgici ma non la vittoria.

Tornando alla indigesta 88, da noi la indossavano Mario Pasalic nell`Atalanta e Toma Basic nella Lazio. Al di là della nomea non così fantastica che vuole la Croazia su posizioni scomode, i due club hanno già annunciato che la maglia verrà ritirata. La Lazio ha già dato prove concrete di muoversi in direzioni chiare aiutando le autorità ad individuare quel simpatico tifoso con la maglia 88 e la scritta Hitlerson indossata durante l`ultimo derby.

Dal canto suo Basic ha spiegato che la scelta di quel numero è dipesa dalla mancanza della numero 8, la sua preferita, indossata da Akpa Akpro.

La messa al bando di un numero però resta solo un piccolissimo passettino.

LA JUVE.

La Nascita.

Le Inchieste.

Calciopoli.

I Ricordi.

Andrea agnelli.

Stefano Tacconi.

Michel Platini.

Alessandro Del Piero.

Zinedine Zidane.

Paolo Montero.

Pasquale Bruno.

Claudio Gentile.

Antonio Conte.

Gianluigi Buffon.

Giovanni Trapattoni.

Marcello Lippi.

Gigi Maifredi.

Totò Schillaci.

Dino Zoff.

Massimiliano Allegri.

Marco Tardelli.

Franco Causio.

Nicolò Fagioli.

Paul Pogba.

Fabio Cannavaro.

Leonardo Bonucci.

Michele Padovano.

Gianfranco Zigoni.

Mark Iuliano.

Moreno Torricelli.

Roberto Baggio.

Gianluca Vialli.

La Nascita.

Agnelli e la Juventus, 100 anni di passione e tifo. Un amore unico nel panorama calcistico mondiale per durata, successi e investimenti. Daniela Sbrollini su Il Riformista il 13 Ottobre 2023 

Famiglia Agnelli e Juventus significano 100 anni un connubio fatto di passione, di tifo, amore, impegno non di una sola persona ma di una famiglia intera. Un connubio tra una dinastia imprenditoriale, gli Agnelli, che ha fatto la storia del nostro Paese e una squadra di calcio, la Juventus, che ha fatto al storia del calcio e dello sport italiano.

La storia della Fiat va di pari passo con l’economia piemontese e più in generale italiana, allo sviluppo di un Paese che trovava nell’industria automobilistica un modello di sviluppo imprenditoriale, economico e sociale, facendo si che l’Italia coltivasse il proprio “sogno” di essere alla pari delle grandi nazioni che vedevano nell’automobile non solo un mezzo di trasporto ma un volano di crescita e integrazione sociale. E l’ondata demografica che spingeva le persone del sud dell’Italia verso il nord industriale, trovava nella Fiat primaria fonte di occupazione, e del miracolo economico del dopoguerra, con intere generazioni spinti dal sogno di trovare nel nord non solo opportunità di lavoro ma anche riscatto e crescita sociale ed economica e nel contempo costruiva il mito bianconero, il mito sportivo della domenica, del giorno di riposo e il tifo per la Juventus era il legame tra sud e nord, tra residenti e migranti, tra classi sociali differenti.

Un fenomeno di aggregazione sociale unico nel nostro Paese, fatta da persone di tutti i ceti sociali, di tutta Italia, legati da una passione per quella maglia a strisce bianconere. E se Fiat ha sempre significato l’impegno imprenditoriale della famiglia Agnelli, oggi diventato colosso internazionale con il gruppo Stellantis, la Juventus ha dato la dimensione di cosa è la passione di una intera famiglia per una squadra di calcio, e l’impegno di farla diventare la squadra con più tifosi del nostro Paese ma anche con una dimensione internazionale unica.

I 100 anni di questo amore unico e indissolubile tra una famiglia e un club calcistico, un amore unico e che non ha uguali nel panorama calcistico mondiale, per durata, successi e investimenti. Potremmo dire Juve storia di un grande amore! Un amore che da 100 anni lega non solo un club prestigioso, ma di tutti i tifosi, alla Famiglia Agnelli. Questo è legame indissolubile nato nelle famiglie, nei banchi di scuola, negli oratori, nelle periferie delle grandi città, nel sud e nel nord dell’Italia, che ha resistito a mille intemperie, che resiste e che resisterà nel tempo, con un legame non solo fatto di tifo, ma soprattutto di consapevolezza di come appartenere alla Juventus, significhi appartenere alla storia del nostro Paese. 100 Anni di stile Juventus e Agnelli che rende unici ed orgogliosi di tifare Juve in qualunque parte del mondo.

Quello che il popolo bianconero deve alla famiglia Agnelli tutta e in particolare a Gianni Agnelli, all’Avvocato, al quale è dedicato lo Juve Club del Parlamento, è un grazie infinito, che passa attraverso vittorie, emozioni, entusiasmo, anche sconfitte e delusioni, ma un grazie che ha dipinto decenni di storia della Juve, del calcio, dell’’industria, dell’economia e della nostra società e dell’Italia intera.

L’altra sera al Pala ALPITOUR di Torino le leggende erano tutte in campo per onorare ancora una volta una maglia, i tifosi, la storia di un club ma soprattutto il legame con una famiglia che ha regalato, continua a regalare e continuerà anche in futuro a regalare sogni a milioni di tifosi. Campioni e leggende per sempre che hanno emozionato e continuano ad emozionare.

Daniela Sbrollini. Senatrice capogruppo commissione cultura e Responsabile sport Italia Viva

Juventus, che tristezza la festa senza nemmeno un Agnelli. Luciano Moggi su Libero Quotidiano il 26 luglio 2023

Luciano Moggi nasce a Monticiano il 10 luglio 1937. Dirigente di Roma, Lazio, Torino, Napoli e Juventus, vince sei scudetti (più uno revocato), tre Coppe Italia, cinque Supercoppe italiane, una Champions League, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa europea, una Coppa Intertoto e una Coppa Uefa. Dal 2006 collabora con Libero e dal 13 settembre 2015 è giornalista pubblicista.

L’anniversario dei 100 annidi proprietà della Juve da parte della famiglia Agnelli è trascorso senza un Agnelli al timone di comando. Dopo la scomparsa dei due fratelli, dopo le dimissioni da presidente di Andrea, pluridecorato con 9 scudetti, è sparito quel cognome magico. Resta la proprietà con gli eredi al comando. Senza grandi clamori, quindi, il centenario. Ho sostato davanti alla tomba dell’Avvocato e del dottore Umberto, profondamente emozionato, nel cimitero di Villar Perosa. 

I ricordi mi hanno riportato al giorno della loro scomparsa (quasi in contemporanea con quella del presidente Chiusano) che ha segnato la fine di una delle squadre più forti al mondo: sono stati proprio i presidenti succeduti a Chiusano a segnare, infatti, il tracollo. Primo tra tutti Grande Stevens che ha annoverato tra le sue iniziative l’invio dell’avvocato Zaccone in difesa della Juve, che ha chiesto la B con penalizzazione per timore di una retrocessione addirittura in C, evento funesto che solo il duo Zaccone-Grande Stevens poteva ipotizzare (sentenza finale: «Campionato regolare, nessuna partita alterata»). All’attivo di Grande Stevens anche una querela contro ignoti (la triade) addirittura per infedeltà patrimoniale, respinta dal Tribunale di Torino con «il fatto non esiste».

E per finire Grande Stevens si è dichiarato amico di Guido Rossi, colui che ha assegnato lo scudetto all’Inter, vinto però sul campo dalla Juve. Di Cobolli Gigli presidente meglio non parlare: basterebbe dire che fu sotto la sua presidenza che, su suggerimento di Montezemolo, venne ritirato il ricorso al Tar col quale la Juve avrebbe potuto mantenere la categoria. Per chi, come noi, aveva avuto la fortuna di appartenere alla Juve del trio meraviglia (Agnelli-Agnelli-Chiusano), non poteva immaginare quanto sarebbe successo alla loro morte.

Dal paradiso all’inferno è stato un passo breve. Tutti ad attaccare la triade dirigenziale, nessuno a difenderci. Era quindi difficile non ripensare ai bei momenti in cui arrivavano le telefonate dell’Avvocato e del dottor Umberto, nonostante fossero le 5 del mattino, per chiedere soltanto se c’erano novità. Si lavorava insomma in allegria e con la massima fiducia della proprietà, che neppure perdeva tempo a spronarci perché c’erano grandi risultati e nessuna richiesta da parte nostra di aiuti economici nei 12 anni passati con loro. Il presidente Chiusano era sempre presente quando occorreva la sua leale capacità, non veniva mai in ritiro con la squadra ma era sempre al campo durante le partite.

Era l’uomo giusto al posto giusto, che non amava comparire, ma c’era nel momento del bisogno. Con lui in vita non sarebbe esistita Calciopoli. Mi riempiva di gioia e di forza sentirmi chiamare «comandante» dal dottor Umberto con il quale avevo un rapporto amicale fatto di stima reciproca e da parte mia anche di riconoscenza per avermi proiettato in un mondo che ritenevo più grande di me. Che dire dell’Avvocato che un giorno a Londra, ad un forum economico, fu incalzato da un giornalista: «Avvocato, quanto le costa mantenere la Juve?». Risposta: «Guardi, fino a poco tempo fa era un problema, ora con questi due sta cominciando a diventare un affare». E i due erano Giraudo e Moggi (e Giraudo qualche tempo prima aveva restituito 55 miliardi di vecchie lire a Ifil, debito ereditato dalla vecchia gestione). 

L’Avvocato era anche veggente quando, ad esempio, disse riferendosi al sottoscritto: «Lo stalliere del re deve conoscere i ladri di cavalli». Era forse preoccupato che, in assenza dello stalliere a calmare i bollenti spiriti, il calcio potesse diventare una bolgia come in effetti è diventato. Di fronte a tanta grandezza non ho potuto contenere qualche lacrima, pensando ai due “fratelli” e alla mancanza di un Agnelli nell’anno del centenario.

L’imbattibile fidanzata d’Italia. La Juventus e gli Agnelli, cento anni di storia insieme. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 22 Luglio 2023

Portando nel calcio i modelli organizzativi della Fiat, Edoardo Agnelli catapultò il gioco nella modernità. Un secolo e tante presidenze dopo, in un’epoca in cui il pallone è diventato un fenomeno globale e si trova di fronte a una nuova svolta epocale, questo legame rischia di spezzarsi

L’8 settembre di dodici anni fa, alla spettacolare inaugurazione dello Juventus Stadium, tutto il passato e il presente bianconero – la leggenda (allora) vivente Giampiero Boniperti e il suo degno erede Alex Del Piero, ma anche Gianni e Umberto Agnelli, Gaetano Scirea e le vittime dell’Heysel – era stato convocato nel segno di un rigenerante lavacro nell’orgoglio identitario delle radici, dopo gli anni travagliati del post Calciopoli. In mezzo al campo, maestro delle cerimonie era il giovane presidente Andrea Agnelli, a suggellare un legame che dal 1923 univa la sua famiglia alla squadra di calcio più amata (e, va da sé, più odiata) d’Italia.

Oggi che di quell’antico connubio si celebra il centenario, e quel presidente non più tanto giovane e non più presidente è passato dagli altari inusitati dei nove scudetti consecutivi alla polvere di un nuovo scandalo su cui ci sarebbe molto da discutere, la domanda che molti si pongono è se le ragioni propulsive di un matrimonio che sembrava indissolubile non siano venute meno.

Della possibile vendita della società, o dell’ingresso massiccio di nuovi azionisti che avrebbe comunque l’effetto di modificarne sensibilmente la fisionomia e i rituali, si sussurra, si congettura, si dibatte. Intanto, è notizia di questi giorni, per la prima volta in sessantaquattro anni (anni pandemici a parte) non ci sarà a Villar Perosa, culla dinastica della Famiglia, la tradizionale amichevole Juve A contro Juve B che in agosto apriva simbolicamente la stagione e rappresentava la riconsacrazione annuale del patto tra la squadra e i suoi demiurgici mecenati.

Potrebbe essere un caso episodico, riconducibile a motivazioni commerciali che spingono verso altri lidi – e del resto negli ultimi tempi, più che un evento festoso, la partitella in Val Chisone dava l’idea di una seccatura da sbrigare frettolosamente, incastonandola tra una tournée e l’altra, come certe visite ai vecchi parenti che si vedono soltanto nelle feste comandate –, però è indubbiamente un segno dei tempi, inconcepibile ai tempi dell’Avvocato. E acquista un rilievo particolare nella ricorrenza dell’estate che cento anni fa, il 24 luglio, vedeva per la prima volta un Agnelli – Edoardo, figlio del fondatore della Fiat – assumere la carica di presidente. Cento e non più cento?

Nel 1923 la Fiat, nata ventiquattro anni prima e reduce dall’inaugurazione dell’avveniristico impianto del Lingotto, era un colosso industriale secondo in Italia soltanto all’Ansaldo e all’Ilva. Invece la Juventus, di due anni più anziana e con un solo campionato nazionale vinto nel lontano 1905, stentava ancora a emanciparsi dalla dimensione pionieristica e dallo spirito goliardico degli inizi. L’avvento della nuova proprietà era destinato a cambiare tutto. Non solo per la Juventus, ma per l’intero calcio italiano.

In realtà fin dai primi anni Venti gli Agnelli avevano messo piede nella società, di cui Edoardo era diventato vicepresidente. Pare che tutto fosse cominciato quando un dirigente (già presidente) della Juventus, Sandro Zambelli, era andato a trovare Giovanni Agnelli per provare a risolvere una situazione spinosa: un giocatore, il difensore Antonio Bruna, operaio della Fiat, non poteva allenarsi come si deve perché il suo caporeparto gli negava i permessi. Soltanto il Fondatore poteva fare qualcosa. E il Fondatore, inaspettatamente, gli venne incontro. Non solo: intuendo il potenziale di consenso popolare che sarebbe derivato alla sua impresa da un diretto coinvolgimento nel calcio, emergente passione unificante in un periodo di aspri conflitti politici e sociali, aveva indicato nel figlio l’uomo adatto a prendere le redini del sodalizio.

«Dobbiamo impegnarci a fare bene, ma ricordandoci che una cosa fatta bene può essere sempre fatta meglio», scandì il trentunenne Edoardo Agnelli nel discorso d’insediamento, rettificando l’antico (un po’ rinunciatario) adagio secondo il quale «il meglio è nemico del bene». Nessuna velleità di andare oltre i limiti (quella che avrebbe perduto l’ultimo epigono della dinastia), ma sana ambizione imprenditoriale combinata con il tradizionale, pacato buonsenso torinese.

Eppure, per una singolare coincidenza, la prima presidenza Agnelli si aprì come si è conclusa l’ultima: con un affaire mediatico e sportivo-giudiziario, il primo nel calcio italiano, e una pesante penalizzazione in classifica. La vicenda è complessa e qui basterà riassumerla per sommi capi – per saperne di più si può consultare Wikipedia, “Caso Rosetta”. 

Era successo che due dei giocatori di spicco (oggi si direbbe, orridamente, “prospetti”) della Pro Vercelli, il difensore Virginio Rosetta e l’attaccante Gustavo Gay, erano stato messi fuori rosa in quanto la società, dopo aver vinto sette campionati, si dibatteva in gravi difficoltà economiche e non poteva accordare loro quanto richiesto. All’epoca vigeva il dilettantismo, ma la regola veniva aggirata con robusti rimborsi spese – più o meno tutti lo facevano e tutti sapevano, anche se fingevano di non essersene accorti, un po’ come è accaduto fino a poco tempo fa con gli scambi di plusvalenze.

Venuta a conoscenza della situazione, la Juventus si accordò con Rosetta garantendogli uno stipendio di settecento lire, che con l’aggiunta di alcune altre voci arrivava alle famose «mille lire al mese». Gay invece si sistemò al Milan. Ma, mentre in questo caso tutto filò liscio, per una serie di cavilli burocratici e di norme adattate ad hoc, e su impulso del presidente vercellese che, di fronte alla reazione furibonda dei tifosi, accusò la Juventus di scippo, il trasferimento di Rosetta fu all’origine di una lunga battaglia che divise l’opinione pubblica e i giornali, e oppose la Federazione Italiana Giuoco Calcio alla potente Lega che raggruppava le squadre del Nord.

Forte del parere favorevole della Figc, la Juventus schierò il giocatore nelle prime tre partite del torneo 1923/24, vincendole tutte, ma ogni volta la Lega Nord fece ricorso e decretò la sconfitta a tavolino. Si proseguì nel caos con verdetti e contro verdetti, con i punti che venivano tolti e restituiti e i bianconeri che scendevano a salivano in classifica come in ascensore. Finché nelle querelle venne coinvolto anche il Coni, la Figc commissariata e le tre sconfitte a tavolino confermate (mentre, con un classico compromesso all’italiana, per le successive quattro partite, con tre vittorie e un pareggio, il club venne graziato in base al riconoscimento della sua buona fede: ossia una via di mezzo – anche qui, ricorda qualcosa?).

In questo modo la Juventus scivolò dal virtuale primo posto finale al quinto, lasciando al Genoa l’onere di battersi per il titolo nazionale contro la vincente della Lega Sud (una formalità, data l’abissale differenza di valori tra le squadre dei due raggruppamenti). Alla fine della stagione la Juventus risolse definitivamente la controversia versando alla Pro Vercelli un assegno da cinquantamila lire e così ufficializzando l’inizio del calcio professionistico, successivamente sancito dalla Carta di Viareggio che nel 1926 varò il Girone unico. 

La vittoria sfuggita nel ’24 arrise tuttavia alla Juventus due anni dopo: fu il primo “scudetto” – fregio introdotto nel ’25 e divenuto metonimico come sinonimo di campionato vinto – dell’era Agnelli. Fin dall’inizio il nuovo presidente aveva impresso una svolta nelle abitudini sonnacchiose di un club ancora invischiato al dilettantismo delle origini. Appena eletto, aveva chiamato a Torino il primo allenatore professionista nella storia del calcio italiano, l’ungherese Jenő Károly, seguito dal connazionale attaccante Ferenc Hirzer e da una schiera di fuoriclasse sudamericani come gli oriundi Luis Monti, Raimundo “Mumo” Orsi e Renato Cesarini, che aggiungendosi a campioni locali quali Gianpiero Combi, Umberto Caligaris e Felice “Farfallino” Borel costituirono l’ossatura del mitico Quinquennio ’31-’35. 

Potenza economica ma non solo: portando nella Juventus i modelli organizzativi della fabbrica fordista, Edoardo Agnelli spazzò via gli ultimi residui amatoriali e catapultò il calcio nella tumultuosa modernità novecentesca. «Ho l’impressione che qualcuno si illuda di poter fermare il progresso del mondo», osservò in risposta alle critiche. «Ogni nuovo modello che esce dalla Fiat rappresenta un passo avanti nella progettazione, nella sperimentazione, nella realizzazione. Ed è sempre un punto di partenza. Se anche fossimo dei pionieri, come portatori di una nuova concezione del club di calcio, dovrebbe venircene un merito, non una disapprovazione».

Sotto la presidenza di Edoardo Agnelli la società bianconera fu la prima squadra in Italia a dotare il proprio stadio – l’impianto di corso Marsiglia (oggi Tirreno), non più esistente – di un sistema di illuminazione artificiale, consentendo così la disputa delle partite in notturna e quindi la loro fruibilità da parte di un maggior numero di persone, finito l’orario di lavoro. Il calcio stava diventando un business, e anche altri imprenditori cominciavano a interessarsene. Ma la Juventus – in ciò rispecchiando la vocazione avanguardista della Torino di larga parte del Novecento – era sempre qualche passo avanti. Nacque in quegli anni la leggenda della Vecchia Signora (benché poco più che trentenne), altrimenti detta Fidanzata d’Italia, capace di sedurre nei patrii confini come all’estero milioni di italiani attratti dalla perfetta simmetria tra efficientismo produttivista della Fiat e efficientismo sportivo della sua fabbrica di scudetti.

Dopo la scomparsa prematura di Edoardo, morto per un incidente nel 1935, la proprietà della Juventus è rimasta saldamente in mano alla famiglia Agnelli, che l’ha governata a volte direttamente (con Gianni, Umberto, da ultimo Andrea), altre volte affidandone la presidenza a uomini di sua fiducia. Cento anni di storia ininterrotta e intrecciata – sportiva, industriale, cittadina e nazionale: una felice anomalia nel calcio italiano (dove la presidenza di Berlusconi si è fermata a ventinove anni, quella dei Moratti padre e figlio a trentaquattro non consecutivi), ma un unicum anche in quello mondiale.

Una stabilità che indubbiamente è stata alla radice dei ripetuti e crescenti successi, ma che ora, nel momento in cui il calcio è diventato un fenomeno globale e si trova di fronte a una nuova svolta epocale, con gli interessi finanziari dei grandi fondi d’investimento che sommergono i valori sportivi e i petrodollari degli sceicchi che sovvertono ogni parametro di valutazione obiettiva, potrebbe non bastare più. In discussione, però, non è soltanto il futuro di una singola squadra, bensì che cosa ne sarà del gioco che meglio di tutti ha saputo coagulare le passioni collettive della contemporaneità. Probabilmente non bisognerà aspettare i posteri per conoscere l’ardua sentenza.

Le Inchieste.

A proposito di Sarri. Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Gli interisti sono come i comunisti: quando perdono è perchè gli altri rubano (così risuccederà con la Juve) o gridano al "razzista" per farli degradare, come succede al Napoli. Se poi i media sono in mano a giornalisti di sinistra o comunque del nord è tutto dire. I salottieri si scandalizzano del "Frocio" dato a al furbo Mancini, ma si sbrodolano con la parola "terrone" dato a destra ed a manca in ogni tempo e in ogni dove. E' vero che ormai il potere è gay (vedi le leggi in Parlamento) e le femministe si sono prostate all'Islam (vedi le reazioni su Colonia), ma frocio è una offesa soggettiva. Terrone è una offesa ad un intero popolo. Ma tutti tacciono, anche i meridionali coglioni. Se "Terrone" vuol dire cafone ignorante: bèh , non prendo lezioni dai veri razzisti e ignoranti. (Se qualcuno ha qualche commento fuori luogo. Gli consiglio di leggere il mio libro "L'Italia Razzista"!

Italian job. La condanna della Juventus segna la fine del garantismo e il trionfo della giustizia del popolo. Cataldo Intrieri su L’Inkiesta il 20 Gennaio 2023.

Non c’è stato neanche bisogno di un processo, figuriamoci di una sentenza di merito, che accettasse i fatti garantendo il contraddittorio tra difesa e accusa: ci si accontenta di una richiesta di rinvio a giudizio, di ipotesi non vivisezionate non tribunale ma frettolosamente citate in un dibattimento tenuto rigorosamente segreto come ai tempi dell’inquisizione

La condanna in sede sportiva della Juventus non è un fatto puramente sportivo né roba da tifosi. È l’ennesimo segnale che la breve illusione di un ritorno del garantismo è già finita, mentre torna alla ribalta il mai sopito sentimento di “giustizia del popolo”.

La giustizia sportiva, se possibile, ha dimostrato di versare in condizioni anche più precarie di quella ordinaria.

In un normale ordinamento di uno Stato di diritto, una delle poche certezze è lo scudo del “giudicato penale”, ovvero la certezza che una volta riconosciuto innocente dopo i vari gradi di giudizio niente potrà riportarti a subire un nuovo processo per lo stesso fatto.

Nell’ordinamento sportivo non solo è possibile ciò, ma il giudice, il medesimo giudice, può smentire sé stesso e dopo aver dichiarato che una determinata condotta ancorché opaca non è punibile perché manca una norma del codice che lo preveda, dopo qualche mese decida esattamente l’opposto e che di una legge si può fare a meno nella scia di ciò che indica una procura della repubblica.

Qui sta il punto delicato che riguarda tutti, anche chi non mastica calcio: la corte sportiva ha sconfessato sé stessa perché sollecitata dalla magistratura, a cui a sua volta viene rilasciato un primo timbro di validità sull’esito di una indagine clamorosa.

Questo giornale ha già avuto modo di spiegare le numerose perplessità sulle ipotesi di reato formulate dalla procura di Torino contro l’ex gruppo dirigente della Juventus che ha costruito la schiacciante superiorità societaria e calcistica del club per un decennio, ma ciò che va sottolineato è che, in barba alla decantata “autonomia” dell’ordinamento sportivo, in realtà come sempre nella realtà italiana, a partire dalla politica, conta solo ciò che decide la magistratura.

Nel caso della Juventus poi non c’è stato neanche bisogno di una sentenza di merito che accettasse i fatti garantendo il contraddittorio tra difesa e accusa.

Il tipico “italian job” giudiziario si accontenta di una richiesta di rinvio a giudizio, di ipotesi non vivisezionate in un processo pubblico ma frettolosamente citate in un dibattimento tenuto rigorosamente segreto come ai tempi dell’ inquisizione e, come ti sbagli?, del solito mucchietto di intercettazioni.

A quanto pare, vista l’assoluzione delle altre società, sono state queste l’elemento decisivo. Poco importa se non sono state ancora sottoposte a perizia, che non si è chiesta una spiegazione a chi certe frasi ha pronunciato.

Un’imbarazzante manifestazione di subordinazione culturale e politica ben simboleggiata dal timoroso ministro dello Sport Andrea Abodi che un minuto dopo la richiesta di revocazione della precedente assoluzione aveva già liquidato la questione dell’innocenza juventina («nel calcio si muore e si risorge») porgendo in anticipo le condoglianze.

Sarà un caso ma è un segnale che va ad aggiungersi alle polemiche pretestuose della magistratura sulla riforma Cartabia, all’aggressione insolente del loquace ministro Carlo Nordio, alle scomuniche di chi osi solo criticare l’anti-mafia di maniera, e l’idolatria del carcere.

Così, stasera, anche un qualsiasi tifoso milanista si chiede per chi suona la campana con la sgradevole sensazione che non sia solo per l’odiata Juventus.

Estratto dell’articolo di Elisabetta Esposito per gazzetta.it il 20 Gennaio 2023.

Stangata clamorosa sulla Juventus: la Corte federale d’Appello è andata ben oltre i nove punti chiesti per il campionato in corso e ha sanzionato il club per il caso plusvalenze con 15 punti di penalizzazione.

 Vista la gravità dei fatti contestati e l'impatto avuto dal punto di vista sportivo sui campionati, la richiesta di Chinè è di una sanzione davvero afflittiva che tenga la Juve fuori dall'Europa. La motivazione è: le plusvalenze fittizie nei bilanci al 30.6.19, 30.7.20 e la trimestrale 2021 hanno permesso alla Juve di ridurre le perdite e di non ricapitalizzare, e di fare il mercato, con effetti vantaggiosi sul piano delle competizioni sportive a cui ha partecipato in quelle stagioni. Quindi la penalizzazione, per essere afflittiva, deve collocare la Juventus in una posizione, in questo momento della stagione, che non permetta la partecipazione alle competizioni europee.

DIRIGENTI —   Mano pesante del procuratore anche per i dirigenti bianconeri: se nei confronti delle altre società ha avanzato richieste di sanzione uguali a quelle del processo già celebrato nella primavera scorsa (di cui adesso ha chiesto la riapertura), nei confronti dei manager juventini le sue richieste sono aumentate di quattro mesi ciascuno proprio per la maggiore gravità delle condotte contestate rispetto ad allora: Chiné ha chiesto l'inibizione di 20 mesi e 10 giorni per Paratici, 16 mesi per Agnelli, 12 mesi per Nedved, Garimberti e Arrivabene, 10 mesi e 20 giorni per Cherubini. […]

Plusvalenze, Juventus stangata: 15 punti di penalizzazione. Giovanni Capuano su Panorama il 20 Gennaio 2023.

La Corte d'Appello federale va oltre le richieste della Procura sul caso degli scambi a specchio: processo riaperto e punizione solo per i bianconeri. Una scelta che sconvolge il campionato in corso Plusvalenze, Juventus stangata: 15 punti di penalizzazione

Stangata sulla Juventus, oltre ogni previsione e oltre anche le richieste della Procura della Figc che aveva chiesto la riapertura del processo sulle plusvalenze e poi chiuso la sua arringa immaginando per i bianconeri una penalizzazione di 9 punti. La Corte d'Appello federale guidata dal giudice Torsello ha spazzato via tutto: 15 punti in meno con effetto immediato sulla classifica della squadra di Massimiliano Allegri, inibizioni pesantissime per i dirigenti ed ex dirigenti del club torinese mentre per tutte le altre società (8) e tesserati è scattata l'assoluzione. Bisognerà attendere le motivazioni per capire quale passaggio logico abbia spinto la Corte a un dispositivo che separa in maniera così netta i destini di club che hanno compiuto - insieme - le stesse trattative e gli stessi scambi, utilizzando gli stessi metodi "a specchio". Servirà una profonda lettura, perché a prima vista la disparità di trattamento appare enorme.

Pene pesanti anche per i dirigenti per i quali è stata chiesta anche l’estensione anche a livello internazionale, cosìcchè Uefa e Fifa possano recepirle e farle loro: 2 anni e mezzo a Fabio Paratici (attuale direttore sportivo del Tottenham) 2 anni ad Andrea Agnelli e Maurizio Arrivabene, 1 anno e 4 mesi a Federico Cherubini (l'unico ancora tesserato con la Juventus) e 8 mesi a Pavel Nedved, anche lui dimissionario insieme al resto del cda. Un verdetto a sorpresa, come già pesante e sorprendenti erano parse le richieste del procuratore capo della Figc, Giuseppe Chiné. Il grande accusatore aveva condensato in 106 pagine il lavoro della Procura di Torino, cucendo intercettazioni, mail e documenti per dimostrare come la Juventus avesse alterato la propria situazione economica e, di conseguenza, le competizioni. Chiné aveva ipotizzato una penalizzazione di 9 punti giustificata dalla gravità dei fatti riscontrati a Torino, con prove nuove e decisive assenti la scorsa primavera quando il processo sportivo si era chiuso con una doppia e definitiva assoluzione. Il primo scoglio era proprio questo: riaprire o no il procedimento? La Corte lo ha fatto ma solo per il club bianconero confermando il proscioglimento di tutti gli altri. La pena, aveva teorizzato la Procura federale, doveva essere afflittiva nel senso di togliere alla Juventus la qualificazione alle prossime coppe europee; è evidente che per i giudici 9 punti non erano sufficienti e il conto è salito a 15 con l'effetto di rendere il resto della stagione bianconera una sorta di scalata dell'Everest a mani nude. In attesa di capire cosa vorrà fare la Procura della Figc sugli altri due filoni per cui ha aperto un dossier: le manovra stipendi del periodo del Covid e la cosiddetta 'Galassia Juventus' , le società amiche di cui i dirigenti bianconeri avrebbero controllato conti e movimenti di mercato. Lo scontro in udienza (da remoto) è stato durissimo. Da una parte Chiné forte della mole di materiale ricevuto dalla Procura di Torino (14.000 pagine divise in 15 faldoni), dall'altra i legali della Juventus con una memoria di 73 pagine nella quale si obiettava sulla possibilità di riaprire un processo già passato in giudicato contestando l'esistenza di fatti nuovi. E poi, nel merito, ricostruendo e contestualizzando intercettazioni e fogli scritti, mail tra dirigenti e attività di pianificazione e mercato, accusando la Procura di aver omesso di inserire nella sua ricostruzione tutto quanto potesse aiutare a spiegare i comportamenti dei dirigenti. Un lavoro di ricostruzione voluto dalla proprietà e dal nuovo management, insediatosi mercoledì 18 gennaio a sei settimane dal passo indietro di Andrea Agnelli e del vecchio cda. Il presidente Ferrero aveva annunciato la volontà di difendersi con tutti i mezzi in ogni sede e la vicenda delle plusvalenze non può considerarsi chiusa, esistendo la possibilità di appellarsi al Collegio di Garanzia del Coni che è l'ultimo grado di giudizio dell'ordinamento sportivo. La reazione degli avvocati della Juventus, Maurizio Bellacosa, Davide Sangiorgio e Nicola Apa: "L’odierno accoglimento del ricorso per revocazione da parte delle Corte d’Appello Federale ci pare costituisca una palese disparità di trattamento ai danni della Juventus e dei suoi dirigenti rispetto a qualsiasi altra società o tesserato. Attendiamo di leggere con attenzione le motivazioni per presentare il ricorso davanti al Collegio di Garanzia dello Sport, tuttavia evidenziamo, fin da ora, che alla sola Juventus e ai suoi dirigenti viene attribuita la violazione di una regola, che la stessa giustizia sportiva aveva ripetutamente riconosciuto non esistere. Riteniamo che si tratti di una palese ingiustizia anche nei confronti di milioni di appassionati, che confidiamo sia presto sanata nel prossimo grado di giudizio".

Juventus, perché le hanno tolto 15 punti: la sentenza e le intercettazioni. «Plusvalenze peggio di Calciopoli». Massimiliano Nerozzi su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2023.

Il paragone fatto al telefono dal direttore finanziario Bertola con il ds Cherubini, che nel «libro nero di Fabio Paratici ha scritto «utilizzo eccessivo di plusvalenze artificiali». Paratici al telefono: «Non capisci un c..., tanto come facciamo da 4 facciamo da 10, non è un problema»

Sembrava la sparata di chi è capitato dentro un’inchiesta da film: «Qui rischia di essere peggio di Calciopoli», si lasciò scappare un investigatore dopo le prime perquisizioni nella sede della Juve, a indagini avviate ormai da mesi. Del resto, aveva già ascoltato l’intercettazione ambientale della Guardia di Finanza numero 446/2021, in cui il direttore finanziario Stefano Bertola parlava con il ds Federico Cherubini: «La situazione è davvero complicata, io in 15 anni faccio un solo paragone: Calciopoli». E ora, la sentenza della corte d’Appello federale squassa il club e chi ci ha lavorato e vinto, per anni, e che adesso è stato squalificato (seppure non in via definitiva): «È una follia, ma ormai era chiaro. Abbiamo vinto troppo, siamo stati troppo bravi», si sfoga con un amico un ex dirigente juventino. «Dovevano trovare il modo di farcela pagare». Difficile mantenere la calma: «Bisogna avere fiducia nella giustizia, ma con questo clima è davvero difficile».

Come cambia la classifica di serie A

Tutto parte dall’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Marco Gianoglio e dai pm Mario Bendoni e Ciro Santoriello sui conti del club, e dai faldoni di documenti finanziari, mail, intercettazioni, inviati alla Procura della Federcalcio dopo la chiusura delle indagini penali. Va da sé, chi conosceva le carte torinesi aveva ben intuito il rischio, per la società, a livello sportivo. Da un altro dialogo tra Cherubini e Bertola, salta fuori una frase attribuita all’ex ds Fabio Paratici, sulle plusvalenze: «Non capisci un cazzo, tanto come facciamo da 4 facciamo da 10, non è un problema». Più che un’imprecazione, un manifesto, per l’ipotesi d’accusa. Ancora Bertola, in altra conversazione: «Sì, sì, gestione malsana delle plusvalenze eh!». Per non parlare del «Libro nero di FP», ovvero Fabio Paratici, un foglio ritrovato nell’ufficio di Cherubini: «Utilizzo eccessivo plusvalenze artificiali». Lo stesso Cherubini racconterà ai pm, come persona informata sui fatti: «Le plusvalenze finte ritengo che siano quelle maturate nell’ambito di operazioni a scambio, fatte su ragazzi giovani per i quali la determinazione di un valore crea problematiche». E ancora: «Io più volte mi sono lamentato con Fabio che il valore che stavamo dando a quei giocatori non erano congrui».

PROSSIME TAPPE

Cosa succede adesso? L’appello alla sentenza, la penalizzazione e i nuovi processi

Nella ricostruzione investigativa, la Juve a un certo punto cambiò strada: «Vabbé, comunque ci hanno detto de nun fa le plusvalenze finte mo abbiamo iniziato a fa le minusvalenze», dice a un certo punto Cherubini in una telefonata. Di plusvalenze si parla anche in un confronto tra il capo dell’ufficio legale Cesare Gabasio e il manager dell’area finanza Stefano Cerrato: «Diciamo di aver fatto tutte le cose corrette, però chiaramente quando tu fai per due anni di fila 150 milioni di plusvalenze e alcune di queste sono fatte con scambi di giocatori con altre società esci sui giornali (...) è chiaro che Consob si sente in dovere di fare tutta una serie di approfondimenti». A ripensarci, l’ex dirigente sbotta: «Ma le plusvalenze, che non sono vietate, le facevamo solo noi?».

Juve, un'altra Calciopoli. 15 punti di penalità per il caso plusvalenze. La Procura voleva il -9. Bianconeri ora decimi 30 mesi di inibizione a Paratici, 24 ad Agnelli. Marcello Di Dio il 21 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Roma. Processo riaperto, ma solo per la Juventus. E concluso - almeno per ora - con una stangata che riporta all'epoca di Calciopoli. Quindici punti di penalizzazione nella stagione in corso per la vicenda plusvalenze fittizie, una sentenza inattesa anche alla luce della requisitoria del procuratore federale Giuseppe Chinè, che ne aveva richiesti «solo» 9. Quindi, non solo è stata accolta l'istanza del pm del pallone sulla riapertura del processo, ma sono stati valutati come validi elementi di prova che dimostrassero «la sussistenza degli illeciti» gli atti dell'inchiesta Prisma arrivati dalla Procura di Torino. La Juve, in un comunicato, ha già annunciato ricorso. «La pena deve essere afflittiva, in classifica deve finire ora dietro la Roma, fuori dalla zona delle Coppe Europee», aveva tuonato Chinè durante il suo intervento. Si è andati oltre: la Juventus scivola da 37 a 22 punti, gli stessi di Bologna ed Empoli, in pratica a centro classifica. È un vero e proprio tsunami sul campionato e sul futuro del club, ora atteso da un possibile secondo processo sportivo, derivato dai nuovi atti, oltre alle possibili sanzioni minacciate dall'Uefa. Stangata anche per i dirigenti: le richieste di Chinè erano state più alte rispetto a quelle del precedente processo, la Corte a sezioni unite presieduta da Mario Luigi Torsello le ha rese ancora più dure. Inibizioni di 24 mesi ad Andrea Agnelli, 30 a Fabio Paratici, 16 a Federico Cherubini (per tutti con richiesta di estensione in ambito Uefa e Fifa), 8 per Pavel Nedved, 24 per Mauro Arrivabene. Ci sono volute poco più di sette ore tra udienza, requisitoria del procuratore federale, interventi dei legali di 9 club e 52 dirigenti e camera di consiglio della Corte d'appello federale per arrivare al dispositivo finale. Intercettazioni e documenti tra cui il cosiddetto «libro nero» di Paratici, che la Procura federale non poteva avere a disposizione nel primo processo («solo un appunto su foglio A, come spiegato dal manager Cherubini», lo avevano definito i difensori della Juve), sono stati evidentemente decisivi per il cambio di rotta. Un successo al di là delle aspettative per Chinè dopo la «sconfitta» di otto mesi prima. Nel botta e risposta fra le parti, il capo della Procura federale aveva evidenziato che le plusvalenze contestate servivano a coprire le perdite; i difensori della Juve Bellacosa, Sangiorgio e Apa - collegati in videoconferenza insieme al neo presidente Ferrero e a due dei dirigenti oggetto dell'indagine, il ds Federico Cherubini e l'ormai ex Fabio Paratici - avevano ribattuto che negli anni di riferimento la società aveva versato 700 milioni di aumenti di capitale e che quelle plusvalenze, 60 su 323 milioni totali, rappresentavano solo il 3,6% dei ricavi (1.675 milioni). «Nulla dimostra poi artificiose sopravvalutazioni dei diritti alle prestazioni sportive dei calciatori», avevano precisato i legali bianconeri. Che in serata, in un comunicato, hanno parlato di «palese disparità di trattamento ai danni della Juventus e dei suoi dirigenti rispetto a qualsiasi altra società o tesserato. Attendiamo di leggere con attenzione le motivazioni (attese entro 10 giorni, ndr) per presentare il ricorso, tuttavia evidenziamo che alla sola Juventus e ai suoi dirigenti viene attribuita la violazione di una regola che la stessa giustizia sportiva aveva ripetutamente riconosciuto non esistere. Riteniamo che si tratti di una palese ingiustizia anche nei confronti di milioni di appassionati, che confidiamo sia presto sanata nel prossimo grado di giudizio». Ovvero il Collegio di Garanzia del Coni che, essendo un organo che può decidere solo sulla legittimità di una sentenza, non ha la possibilità di diminuire l'entità della sanzione: potrà solo confermare o cancellare il verdetto della Corte d'appello federale. Nessuna sanzione per le altre società (Sampdoria e appunto Empoli di A, Parma, Genoa, Pisa di B, Pescara e Pro Vercelli di C e il «vecchio» Novara) e i loro dirigenti.

Il paradosso: un colpevole tutti gli altri innocenti. Il tribunale ha deciso, la Juventus va a processo, anzi si riapre il dibattimento soltanto per il club e i suoi dirigenti, tutte le altre società sono prosciolte. Tony Damascelli il 21 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Un solo colpevole, gli altri tutti innocenti. Il tribunale ha deciso, la Juventus va a processo, anzi si riapre il dibattimento soltanto per il club e i suoi dirigenti, tutte le altre società sono prosciolte, è paradossale ma è un verdetto che puzza di bruciato. Come nella vicenda del 2006, il fuoco dei giudici si concentra su un solo gruppo, una sola squadra.

Ovviamente la Juventus presenterà il ricorso ma l'aria è pesantissima e nessuno a Torino può ritenersi sorpreso. Semmai questo è soltanto la prima stazione di un viaggio verso l'inferno, un tragitto disegnato da chi avrebbe dovuto obbedire a doveri e criteri di gestione finanziaria degni di una grande società quale è appunto la Juventus, come da tempo avevamo scritto e ribadito su queste pagine, mentre la propaganda attorno alla dirigenza tentava di tenere basse le luci.

La sentenza è ancora più acida di quella che era stata la richiesta del procuratore federale, c'è appunto la sensazione che si voglia colpire non soltanto il club ma la squadra, estromettendola da qualunque possibilità di qualificazione per le coppe europee e portandola a lottare per la salvezza. Prevedo che la folla bianconera possa reagire malamente domenica sera in occasione della partita contro l'Atalanta, soprattutto alla luce del proscioglimento riservato alle altre squadre, prevedo anche il vociare delle tricoteuses che altro non attendevano, preparandosi al successivo processo relativo al falso in bilancio, questione ancora più grave che potrebbe cancellare la Juventus dalla serie A e non soltanto.

Automatico anche il comportamento dell'Uefa che ha un conto in sospeso con Agnelli e che ha scoperto di avere iscritto alla Champions League un club che aveva presentato un bilancio non corretto. È un momento epocale per la Juventus e la sua proprietà. È la fine di un secolo di storia, è il tramonto di qualunque progetto ed è la risposta ad una arroganza di scelte e di comportamenti. Tutto può ancora accadere ma tutto è già accaduto.

Estratto dell’articolo di Monica Colombo per corriere.it il 21 gennaio 2023.

[…] Il  popolo bianconero è arrovellato da un quesito.  […] Perché nel processo riaperto sul fronte-plusvalenze, dopo le assoluzioni di primavera, la Juventus è l’unica squadra sanzionata mentre le altre otto finite sul banco degli imputati -ovvero Genoa, Sampdoria, Parma, Pisa, Empoli, Pescara, Pro Vercelli e Novara- sono state prosciolte? Se il tema sono le plusvalenze, ovvero scambi di giocatori a cui viene attribuito un valore fittizio di mercato per gonfiare i bilanci, con quali club la Juventus le avrebbe costruite se tutte le altre sono state assolte?

La verità è che la procura federale ha chiesto alla Corte d’Appello di revocare la sentenza precedente di assoluzione e riaprire il procedimento alla luce degli atti e delle intercettazioni dell’inchiesta Prisma.

 Nell’enorme mole di materiale trasmessa dalla procura di Torino sono le trascrizioni delle conversazioni ad aver confermato agli occhi del procuratore Chinè, e in un secondo momento, i giudici della Corte d’Appello, l’esistenza di un modus operandi sistematico per abbellire il bilancio. I dirigenti ammettono esplicitamente di iscrivere a bilancio un valore non autentico e non contano minimamente i nomi del giocatori perché spesso nei pizzini trovati a proposito delle operazioni di mercato vengono indicate semplicemente delle x.

Esempi. Nella requisitoria Chinè cita il libro nero di Paratici come «un atto di natura confessoria di Cherubini», citando plusvalenze «artificiali, decise a tavolino». E ancora, in una intercettazione della conversazione del 6 settembre 2021 fra John Elkann e Andrea Agnelli, l’ex presidente dice: «Abbiamo fatto un ricorso eccessivo allo strumento delle plusvalenze. Se ti crolla il mercato ti crolla il mercato, questo è un dato di fatto».

  E poi ancora l’intercettazione del 3 settembre 2021 fra Arrivabene e Agnelli con quest’ultimo che a proposito della situazione negativa sotto il profilo finanziario replica: «Sì ma non è solo il covid e lo sappiamo bene […]

 Entro dieci giorni arriveranno le motivazioni della sentenza -ma la sensazione è che i tempi saranno molto più brevi-, poi la Juventus ne avrà altri 30 a disposizione per presentare ricorso […].

Lo step successivo sarebbe il Tar del Lazio. Di certo per i legali bianconeri si apre una primavera incandescente. A parte il procedimento di cui abbiamo parlato sinora, la Juventus è attesa nei tribunali ordinari il 27 marzo dall’udienza preliminare per l’inchiesta Prisma.

 Non solo, c’è il «nuovo» processo sulle plusvalenze per le operazioni con le società «amiche», emerse nelle intercettazioni. E soprattutto il filone relativo alla manovra stipendi: nel 2020 e 2021 la Juventus e la maggior parte dei giocatori hanno concordato una riduzione dei compensi, in realtà corrisposti in maniera non trasparente (in questo caos domina il giallo della carta Ronaldo).

 Per finire anche sotto il profilo europeo la Juventus rischia sanzioni o la partecipazione alle coppe. La Uefa di Ceferin, con cui Agnelli già entrato in rotta di collisione per le note vicende della Superlega, assiste con attenzione all’evoluzione dei processi in Italia. La sensazione è che non avrà la mano morbida.

Choc bianconero, tifosi costernati. “Le plusvalenze le facevano da soli?”

Irene Famà per lastampa.it il 21 gennaio 2023.

[…] «Le plusvalenze le facevano da soli?» si chiede Alba Parietti, conduttrice televisiva, juventina dal passato granata. «La situazione è complicata, presto per fare considerazioni». Pero lo choc c’è. Quindici punti in meno. E pensare che il procuratore della Figc ne aveva chiesti nove. «Mi sembra una punizione un po’ troppo esemplare».

 […] Jonhson Righeira, che con la sua Vamos a la playa ha fatto ballare tutti nelle notti torinesi, risponde a caldo. «È una grandissima farsa. Una nuova Calciopoli. L’ennesima ingiustizia ai danni della Juventus». […]

 L’ex calciatore bianconero Claudio Marchisio twitta: «Dicesi plusvalenza: Nel linguaggio economico, incremento di valore, differenza positiva fra due valori dello stesso bene riferiti a momenti diversi. Da questa sera aggiungerei anche che viene sanzionata solo alla Juventus, anche se usata da tutte le società». Il rettore del Politecnico, Guido Saracco, bianconero convinto, si dice «rammaricato». Lo storico Giovanni De Luna usa il termine «costernato». Poi regala una lezione di tifo e di aplomb. «Il gol di Chiesa l’altra sera contro il Monza vale più di tutto il resto. L’importante è quello che succede in campo».

 Calcio: Juve; Bonucci guida messaggi social, avanti insieme

(ANSA il 21 gennaio 2023) - "Noi con Voi. Oggi è ancora più importante essere Squadra. Avanti sulla nostra strada": il capitano della Juventus, Leonardo Bonucci, suona la carica sui social dopo la stangata ricevuta con la richiesta di 15 punti di penalizzazione. Danilo ha postato una foto di gruppo con un cuore così come Fabio Miretti, questo il messaggio di Niccolò Fagioli: "Più forti e pronti che mai". Sul profilo di Manuel Locatelli si vede semplicemente il logo del club, il terzo portiere Carlo Pinsoglio ha scritto: "Uniti si può". La squadra, intanto, sta ultimando i preparativi in vista della sfida contro l'Atalanta, in programma domani sera all'Allianz Stadium alle 20.45.

Massimiliano Gallo per ilnapolista.it il 21 gennaio 2023.

Meno quindici. È il calcio italiano che si risveglia dopo decenni di torpore. È la stessa inchiesta che nove mesi fa portò a un proscioglimento da parte della giustizia sportiva.

 Le cronache racconteranno che tutto è cambiato con l’inchiesta Prisma della Procura della Repubblica di Torino e con il libro nero. In realtà non è così. Non ci voleva il libro nero di Paratici per capire che quelle erano plusvalenze fittizie. È cambiato il vento mediatico e politico.

 La Juventus di Agnelli ha perso il sistema di alleanze che per oltre un decennio li ha protetti da tutto, che fossero le plusvalenze, gli arbitraggi o il caso Suarez. La giustizia sportiva non segue il codice, segue l’umore dell’opinione pubblica. Oltre che quello dei potenti. E Agnelli è stato abbandonato innanzitutto dalla sua famiglia. Quindi oggi chi ama lo sport, applaude.

 Ma questo provvedimento non può farci esultare per il ripristino della giustizia sportiva. Semplicemente sono cambiati gli equilibri di potere. Ora c’è una vacatio. In attesa che altri poteri si consolidino, la Juve se ne va a meno quindici. Provvedimento, o sentenza, che innanzitutto sta bene alla famiglia Elkann.

 Alla fine, è sempre Torino che influenza.

Estratto dell’articolo di Marco Bardesono per “Libero quotidiano” il 21 gennaio 2023.

La “Vecchia Signora” è stata punita, in modo severo ed esemplare. Già in questo campionato la giustizia sportiva ha deciso di cancellare 15 punti alla sua classifica, rendendo vano ogni sforzo per rientrare tra le squadre che il prossimo anno disputeranno le coppe europee. La giustizia sportiva procede per binari autonomi, dove il «convincimento soggettivo del giudice» può anche non considerare le fonti di diritto e la giurisprudenza, anche la più recente.

Un principio che è alla base dell’ammissibilità del ricorso presentato dal procuratore della Figc Giuseppe Chiné nell’udienza davanti alla Corte Federale d’Appello sull’istanza di riapertura del filone plusvalenze e che ieri sera è arrivata a rideterminare le pene. Chiné ha sostenuto che le carte trasmesse a Roma dalla procura di Torino, «aprono nuovi scenari» e, pertanto, le pene erano da ricalcolare.

 I giudici hanno deciso di punire la Juventus, già in questo campionato […] ma ha accolto l’opposizione delle altre società coinvolte, tranne quella bianconera. Censure pesanti anche per i dirigenti per cui è stata chiesta l’estensione a Uefa e Fifa dell’inibizione a 2 anni e mezzo per Fabio Paratici, a 2 anni per Andrea Agnelli e Maurizio Arrivabene, a 1 anno e 4 mesi per Federico Cherubini e per 8 mesi a Pavel Nedved.

Le bordate di Chiné sono state tutte per la Juventus: «Penalizzazione per il campionato in corso» e la squalifica dei dirigenti, di tutto lo stato maggiore della Juventus che non c’è più e che oggiè guidata da un “governo tecnico” presieduto dal commercialista Gianluca Ferrero. […] Per Chiné la pena «deve essere afflittiva, la Juventus in classifica deve finire ora dietro la Roma, fuori dalla zona delle Coppe» e i giudici non solo gli hanno dato ragione, ma si sono spinti oltre le sue richieste.

 […]  Il «convincimento» di Chiné e quello dei magistrati giudicanti che hanno abbracciato la tesi della procura federale, è che le plusvalenze accertate nascondano un vero «sistema di malcostume nella gestione sportiva in un ambito di totale anarchia e assenza di controlli». Prove ne sono, secondo la procura federale, i contenuti delle intercettazioni trasmesse dai magistrati torinesi, una serie di documenti che nel mese di aprile non erano disponibili e la famosa “agenda nera” su Fabio Paratici.

[…]  Una serie di osservazioni sulla gestione dell’area sportiva che fanno tremare la Juventus e sembrano fornire indizi importanti nell’ambito delle ipotesi formulate dal procuratore aggiunto Marco Gianoglio e dai pm torinesi Mario Bendoni e Ciro Santoriello.

 Gli stessi che hanno chiesto il rinvio a giudizio nei confronti di Andrea Agnelli, Maurizio Arrivabene e di altri ex amministratori, dirigenti e sindaci del club bianconero, con le accuse, a vario titolo, di false comunicazioni sociali, false informazioni al mercato, ostacolo agli organi di vigilanza e utilizzo di false fatture per operazioni inesistenti. […]

Estratto dell’articolo di Gianluca Oddenino per “La Stampa” il 21 gennaio 2023.

Uno shock. La sentenza della Corte Federale d'Appello della Federcalcio per il caso plusvalenze colpisce durissimo la Juventus, spiazzando il club dopo un processo in cui vengono tutti assolti tranne la società bianconera.

 […] Gli atti dell'inchiesta Prisma, ricevuti dai pm torinesi a fine novembre, avevano convinto il procuratore Chiné di tornare davanti ai giudici federali (escludendo Napoli e Chievo perché non coinvolti nel "sistema" bianconero) e di cambiare le richieste nei confronti della Juventus.

 Non più 800mila euro di multa e inibizioni per gli amministratori, ma 9 punti di penalizzazione da scontare in questa stagione («La pena deve essere afflittiva, la Juventus in classifica deve stare fuori dalla zona delle coppe europee») e squalifiche di 16 mesi per l'ex presidente Agnelli e 20 mesi per l'ex ds Paratici più un anno di inibizione per tutto il Cda dimissionario lo scorso 28 novembre. […]

 Una decisione che sconvolge la classifica della Serie A, visto che la Juve passa dal 3° al 10° posto (ora la vitale zona Champions dista 12 punti), e alimenta dubbi sulla «disparità di trattamento rispetto a qualsiasi altra società o tesserato». È dura la prima reazione degli avvocati bianconeri - Maurizio Bellacosa, Davide Sangiorgio e Nicola Apa - che nel processo hanno chiesto l'inammissibilità del ricorso della Procura federale per l'assenza di "fatti nuovi" e poi sostenuto come non venga dimostrata «l'esistenza di una artificiosa sopra-valutazione dei diritti alle prestazioni sportive dei calciatori alle predette operazioni, con ciò rendendosi piena infondatezza dell'odierno ricorso».

 La Corte d'Appello ha agito diversamente e la stangata complica ulteriormente i piani della nuova Juventus […] . La sola qualificazione Champions vale 60 milioni di euro e pesa su un bilancio che lo scorso 30 giugno ha registrato un passivo di 238 milioni.  […]

Juventus, perché gli altri club coinvolti non sono stati penalizzati? La condanna punto per punto. Monica Colombo su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2023.

La verità è che la procura federale ha chiesto alla Corte d’Appello di revocare la sentenza precedente di assoluzione e riaprire il procedimento soltanto alla luce degli atti e delle intercettazioni dell’inchiesta Prisma

La mattina dopo lo tsunami che si è abbattuto sulla Juventus, catapultata al decimo posto in classifica, a dodici lunghezze dalla zona coppe, penalizzata di quindici punti dalla Corte d’Appello federale, il popolo bianconero è arrovellato da un quesito. Perché nel processo riaperto sul fronte-plusvalenze, dopo le assoluzioni di primavera, la Juventus è l’unica squadra sanzionata mentre le altre otto finite sul banco degli imputati -ovvero Genoa, Sampdoria, Parma, Pisa, Empoli, Pescara, Pro Vercelli e Novara- sono state prosciolte? Se il tema sono le plusvalenze, ovvero scambi di giocatori a cui viene attribuito un valore fittizio di mercato per gonfiare i bilanci, con quali club la Juventus le avrebbe costruite se tutte le altre sono state assolte?

Il peso delle intercettazioni

La verità è che la procura federale ha chiesto alla Corte d’Appello di revocare la sentenza precedente di assoluzione e riaprire il procedimento alla luce degli atti e delle intercettazioni dell’inchiesta Prisma. Nell’enorme mole di materiale trasmessa dalla procura di Torino sono le trascrizioni delle conversazioni ad aver confermato agli occhi del procuratore Chinè, e in un secondo momento, i giudici della Corte d’Appello, l’esistenza di un modus operandi sistematico per abbellire il bilancio. I dirigenti ammettono esplicitamente di iscrivere a bilancio un valore non autentico e non contano minimamente i nomi del giocatori perché spesso nei pizzini trovati a proposito delle operazioni di mercato vengono indicate semplicemente delle x.

Il «libro nero» di Paratici

Esempi. Nella requisitoria Chinè cita il libro nero di Paratici come «un atto di natura confessoria di Cherubini», citando plusvalenze «artificiali, decise a tavolino». E ancora, in una intercettazione della conversazione del 6 settembre 2021 fra John Elkann e Andrea Agnelli, l’ex presidente dice: «Abbiamo fatto un ricorso eccessivo allo strumento delle plusvalenze. Se ti crolla il mercato ti crolla il mercato, questo è un dato di fatto». E poi ancora l’intercettazione del 3 settembre 2021 fra Arrivabene e Agnelli con quest’ultimo che a proposito della situazione negativa sotto il profilo finanziario replica: «Sì ma non è solo il covid e lo sappiamo bene perché noi abbiamo due elementi fondamentali. Da un lato il covid ma dall’altro abbiamo ingolfato la macchina con ammortamenti e soprattutto la merda ...perché è tutta la merda che sta sotto, che non si può dire». Ovvero appunto le plusvalenze fittizie. Secondo Chinè le «dichiarazioni auto-accusatorie» sono molteplici. «Per fare la plusvalenza Pjanic, Arthur lo hai pagato 75 milioni». In sintesi il giudice Mario Luigi Torsello, a capo della Corte d’Appello, ha punito la Juventus per la violazione dei principi della lealtà sportiva, genericamente invocati dall’art 4 del codice di giustizia sportiva.

Cosa succede?

Entro dieci giorni arriveranno le motivazioni della sentenza -ma la sensazione è che i tempi saranno molto più brevi-, poi la Juventus ne avrà altri 30 a disposizione per presentare ricorso al Collegio di Garanzia del Coni che non può giudicare nel merito ma solo sotto il profilo della legittimità. Lo step successivo sarebbe il Tar del Lazio. Di certo per i legali bianconeri si apre una primavera incandescente. A parte il procedimento di cui abbiamo parlato sinora, la Juventus è attesa nei tribunali ordinari il 27 marzo dall’udienza preliminare per l’inchiesta Prisma. Non solo, c’è il «nuovo» processo sulle plusvalenze per le operazioni con le società «amiche», emerse nelle intercettazioni. E soprattutto il filone relativo alla manovra stipendi: nel 2020 e 2021 la Juventus e la maggior parte dei giocatori hanno concordato una riduzione dei compensi, in realtà corrisposti in maniera non trasparente (in questo caos domina il giallo della carta Ronaldo). Per finire anche sotto il profilo europeo la Juventus rischia sanzioni o la partecipazione alle coppe. La Uefa di Ceferin, con cui Agnelli già entrato in rotta di collisione per le note vicende della Superlega, assiste con attenzione all’evoluzione dei processi in Italia. La sensazione è che non avrà la mano morbida.

Intercettazioni, cambia il processo sportive. Decisive per convincere i giudici le prove "regine" acquisite dall'inchiesta Prisma. Franco Ordine il 21 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Bastonata la Juve. E solo la Juve perché gli altri otto club richiamati alla sbarra per lo stesso reato non sono stati puniti. Per loro e solo per loro nel processo sportivo ha prevalso il concetto cardine del bis in idem e cioè è impossibile giudicare una seconda volta per lo stesso reato chi è già stato giudicato. Ecco allora la più importante decisione assunta dalla Caf presieduta dal presidente Torsello: sul conto della Juve, proveniente dall'indagine della procura torinese sono arrivati i fatti nuovi che hanno giustificato la revocazione parziale del precedente giudizio pubblicato il 27 maggio. In quella circostanza fu in poche parole deciso: in assenza di un riconosciuto, neutro manuale sul valore dei cartellini dei calciatori è impossibile adottare sanzioni.

Dall'inchiesta penale, questo il ragionamento, sono arrivate le prove regine fatte di intercettazioni e del libro nero di Paratici (come si sa, per la giustizia sportiva, può bastare questo tipo di prova per condannare i club e i tesserati; cioè è sufficiente dire al telefono che quel valore serve per «aggiustare i bilanci»). Di qui la super-stangata di 15 punti di penalizzazione.

Negli annali una simile sentenza si può rintracciare in un procedimento disciplinare per illecito amministrativo a carico del Foggia (serie B). Di fatto la Caf ha quasi raddoppiata la pena proposta dal procuratore federale Chinè che aveva chiesto 9 punti di penalizzazione piazzando la Juve in classifica dietro la Roma così per rendere afflittiva la pena retrovendita dietro la Roma.

La Juve ha provato a smantellare la tesi dell'accusa puntando soprattutto sul bis in idem, il divieto di un secondo processo e ha definito il libero nero di Paratici una serie di appunti. La partita non è finita qui. Per i legali di Torino c'è la possibilità di rivolgersi al collegio di garanzia del CONI, la cassazione in materia di giustizia sportiva. Possibile uno sconto non certo un verdetto di segno opposto. Con 60 punti a disposizione toccherà ad Allegri e i suoi riportare la Juve in territorio europeo.

Estratto dell’articolo di Alberto Mauro per “il Messaggero” il 22 gennaio 2023.

[…] La  prossima stagione senza Europa rischia di ridimensionare budget e ambizioni. Allegri rimarrà fino a giugno, ma potrebbe accettare una buonuscita per risolvere il contratto al 2025.

 Alla Juve infatti potrebbe servire un profilo diverso per lanciare i giovani e valorizzare la rosa: Conte sarebbe l'ideale, ma i 15 milioni di sterline d'ingaggio al Tottenham sono fuori portata.

 Sul fronte squadra nessuno dei giocatori in scadenza (Rabiot, Cuadrado, Di Maria e Alex Sandro) sarà rinnovato, anche Paredes non sarà riscattato mentre la dirigenza potrebbe fare uno sforzo per i 7 milioni di Milik. Riflessioni in corso per i due leader Danilo e Bonucci, probabile l'addio di Vlahovic in Premier e Pogba, promossi in pianta stabile i giovani più promettenti della Next Gen e Primavera.

L'altra partita invece si giocherà tra aule e fascicoli, entro il 22 febbraio tornerà d'attualità l'altro filone sulle plusvalenze opache (non coinvolte in quello principale) con la decisione di andare o meno a processo.

 Ad allarmare è soprattutto la manovra stipendi, che sembrava poter avere conseguenze ben più dirompenti delle plusvalenze. Negli anni 2020 e 2021, per fronteggiare l'emergenza Covid, la Juve si accordò privatamente con i giocatori per una dilazione degli ingaggi regolata da scritture private.

In sintesi è stato contabilizzato un risparmio di 90 milioni, a fronte della rinuncia di una sola mensilità per 31 milioni di euro. Gli altri 59 milioni garantiti nelle stagioni successive attraverso side letter.

 La più celebre è la carta Ronaldo, spuntata il 23 marzo 2022, nello studio torinese dell'avvocato Federico Restano, stretto collaboratore del legale bianconero Cesare Gabasio. Da sola la carta Ronaldo pesa per 19,6 milioni, la Juve avrebbe dovuto riconoscere al portoghese l'intera somma in quattro tranche mai pagate […], ecco perché Cr7 sta valutando se costituirsi parte civile contro Juventus. […]

Estratto dell’articolo di Fabio Amendolara per “La Verità” il 22 gennaio 2023.

Per la Juventus la strada si presenta in salita. E con una pendenza per nulla agevole da affrontare: 15 punti in meno in classifica, che portano il club dal terzo al decimo posto e fuori dall’area Champions (una esclusione dal torneo produrrebbe una perdita di diritti tv e potrebbe pesare non poco sui conti), a causa delle plusvalenze taroccate. Tutti i dirigenti sono stati condannati a sospensioni tra otto e 30 mesi. Questa è la decisione della Corte federale (in appello). Alla quale bisogna sommare un possibile secondo processo sportivo, che deriva dai nuovi atti dell’inchiesta «Prisma» della Procura di Torino, radice di un procedimento penale con al centro l’accusa sul falso in bilancio.

[…] «Una palese disparità di trattamento ai danni della Juve e dei suoi dirigenti rispetto a qualsiasi altra società o tesserato», definiscono la decisione i legali della Juventus, Maurizio Bellacosa, Davide Sangiorgio e Nicola Apa, che annunciano: «Attendiamo di leggere con attenzione le motivazioni per presentare il ricorso davanti al collegio di garanzia dello sport».

 Le plusvalenze, infatti, la Juve sarebbe riuscita a metterle in campo grazie alla complicità degli altri club. […]

Per comprendere in pieno il ragionamento dei giudici d’appello bisognerà attendere le motivazioni (che verranno depositate tra 10 giorni). Ma si può facilmente intuire che si tratta di una violazione ben precisa del codice di giustizia sportiva, e più precisamente del quarto capoverso, quello sulla «mancata lealtà».

 I giudici hanno tenuto conto delle intercettazioni e della valanga di materiale istruttorio dell’indagine «Prisma» (14.000 pagine), dal quale sarebbe emerso un deliberato e ripetuto tentativo di eludere le norme. Un peso specifico deve averlo avuto soprattutto il «libro nero» di Cherubini e Paratici.

[…] Il foglio A4  […] racconta come all’interno della società ci fosse consapevolezza della gestione, che la Procura di Torino appunto descrive come «disinvolta», messa in campo dai vertici del club e, in particolare, dall’uomo al quale si riferisce il manoscritto. Dal resto degli atti è emerso quello che viene definito «un sistema».

 Ma anche per le strane manovre sugli stipendi la Juve potrebbe uscirne con le ossa rotte. Intanto ha dovuto rettificare i bilanci. E a livello sportivo, l’uso di «scritture private non depositate» […] sarebbe andata in conflitto con l’articolo 31 del Codice di giustizia sportiva, ovvero quello che regola le violazioni in materia gestionale ed economica.

I rischi per la Vecchia signora potrebbero quindi non essere finiti. Perché potrebbe configurarsi addirittura una violazione del comma 2 dell’articolo 31, che punisce con la retrocessione «la società che, mediante falsificazione dei propri documenti contabili o amministrativi [...] ottenga l’iscrizione a una competizione cui non avrebbe potuto essere ammessa».

 Ma c’è anche un’altra incognita: sulle cosiddette partnership della Juve con altre società, nell’ottica di un’eventuale violazione della «lealtà della competizione sportiva». Una questione che potrebbe mettere a rischio anche la posizione di calciatori e procuratori.  […]

Da ilnapolista.it il 23 gennaio 2023.

Dopo l’inibizione di Arrivabene, la Juventus ha scelto il nuovo responsabile dell’area sportiva. Si tratta di Francesco Calvo. Per chi non lo ricordasse Francesco Calvo fu ahilui protagonista di una storia d’amore. Deniz Akalin, attuale compagna di Andrea Agnelli, era sua moglie. Calvo scoprì tutto in una cena a quattro divenuta piuttosto nota.

Scrive la Gazzetta dello Sport.

La Juventus ha scelto: è Francesco Calvo il nuovo responsabile dell’area sportiva. La decisione avviene due giorni dopo la sentenza della Procura Federale che ha inflitto ai bianconeri 15 punti di penalizzazione e una serie di inibizioni ai dirigenti. Calvo è ufficialmente il nuovo Chief Football Officer. Il direttore sportivo Cherubini, inibito per 16 mesi, risponderà a lui, come rispondeva a Arrivabene. Francesco Calvo, 44 anni, era entrato nella Juventus nell’ottobre 2011 quale Commercial Director e nel 2014 viene promosso a Chief Revenue Officer. Dal 2015 al 2018 riveste il medesimo incarico di Chief Revenue Officer nel Barcellona, poi va alla Roma come Chief Revenue Officer prima e Chief Operating Officer poi. Dal primo aprile 2022 ritorna alla Juve quale Chief of Staff”.

 Ricordiamo le inibizioni comminate ai dirigenti della Juventus.

La Corte Federale di Appello presieduta da Mario Luigi Torsello ha accolto in parte il ricorso della Procura Federale sulla revocazione parziale della decisione della Corte Federale di Appello a Sezioni Unite n. 89 del 27 maggio scorso, sanzionando la Juventus con 15 punti di penalizzazione da scontare nella corrente stagione sportiva e con una serie di inibizioni per 11 dirigenti bianconeri (30 mesi a Paratici, 24 mesi ad Agnelli e Arrivabene, 16 mesi a Cherubini, 8 mesi a Nedved, Garimberti, Vellano, Venier, Hughes, Marilungo e Roncaglio).

Estratto da calciomercato.com il 25 maggio 2023. 

Il mondo Juventus è in tensione dopo la nuova sentenza della Corte d'Appello della Figc che ha inflitto una penalizzazione di 10 punti per il caso plusvalenze, con la possibilità di restare fuori non solo dalla prossima Champions League ma da tutte le competizioni europee per le decisioni della UEFA. Uno scenario al quale ha alluso anche Evelina Christillin, […] Frasi che hanno fatto infuriare i sostenitori juventini che hanno risposto duramente, ultimo in ordine di tempo Lapo Elkann.

Lapo Elkann, […]su Twitter e si è lanciato in un durissimo attacco contro Christillin: "È grottesca per me, è una senza anima e senza dignità, è VERGOGNOSA, un'ARRAMPICATRICE SOCIALE. POVERA DONNA". E in risposta a un utente juventino che lo incitava ("L'ha distrutta"), ha rincarato la dose: "La asfaltiamo. Senza Dignità".

Estratto da calciomercato.com il 25 maggio 2023. 

Nota tifosa della Juventus ma soprattutto membro aggiuntivo Uefa nel Consiglio della Fifa, Evelina Christillin è intervenuta alla trasmissione “Radio Anch’io lo Sport” su Radio Rai, esprimendo la sua opinione sulle imminenti decisioni della giustizia sportiva. "C’è questo concetto di afflittività che riguarda solo la giustizia sportiva e non quella ordinaria. Verosimilmente sarà una penalizzazione che dovrebbe sbarrare la strada verso la Champions League. Ora ricordiamoci che le coppe europee sono tre, ma certamente il valore in termini economici di andare in Champions o in un’altra coppa è significativo, sono quasi 5 volte tanto. Vedremo se saranno 10, 11 o 13 punti, per noi juventini è una bella botta”, […] "Nel momento in cui le sentenze italiane diventano definitive, poi verranno prese delle decisioni anche in sede Uefa. E poi c’è il secondo filone della manovra stipendi. Juve esclusa dalle coppe dalla Uefa? Scenario possibile. Non dimentichiamoci che con la Uefa i rapporti non sono eccellenti dopo la questione Superlega: la Juve rimane una delle tre squadre che ancora mantengono vivo il progetto. Passi di avvicinamento non se ne sono visti al momento".

Da ilnapolista.it il 23 gennaio 2023.

Intervenuta come ospite a 90° minuto, Evelina Christillin, membro del consiglio Fifa in quota Uefa, storicamente vicina alla famiglia Agnelli e tifosa della Juventus, ha rilasciato alcune dichiarazioni sulla penalizzazione del club bianconero in campionato e sulle inibizioni dei suoi dirigenti.

 “Siamo rimasti tutti molto stupiti nel vedere che i 9 punti richiesti dal procuratore Chiné sono stati aumentati addirittura a 15. Bisogna aspettare di leggere quello che c’è nella sentenza perché noi magari abbiamo conoscenza solo di un pezzo di questa storia, che è veramente brutta. Ne mancherà ancora un pezzo anche dopo la sentenza perché ci sarà tutto il discorso sulla manovra stipendi. Ci saranno danni economici per la non partecipazione alle coppe europee, ma non solo: meno gente allo stadio, meno abbonamenti, meno sponsor. Qualcuno l’altro giorno diceva che un bambino di 10 anni è difficile che diventi tifoso juventino dopo una botta del genere”.

Le parole della Christillin sulla manovra stipendi richiamano le dichiarazioni dell’avvocato Grassani, esperto di diritto sportivo, al Messaggero, questa mattina. Grassani ha provato a leggere fra le righe della sentenza pronunciata dalla Corte federale d’Appello. Ha dichiarato che i 15 punti di penalizzazione per le plusvalenze potrebbero non essere gli unici. Bisogna vedere cosa accadrà per la manovra stipendi, appunto, quella di cui parla Christillin.

«Si tratta di un procedimento completamente diverso e senza precedenti. Una nuova partita che si giocherà principalmente sull’accertamento delle conseguenze che la manovra stipendi ha prodotto in termini di benefici per il club bianconero. Anche in questo caso, difficile immaginare le sanzioni che saranno richieste dalla Procura Federale, ma non escludo che si possa tornare a discutere di penalizzazione in classifica, soprattutto qualora si contesti l’illegittimo conseguimento della Licenza nazionale necessaria per la partecipazione al campionato o l’elusione dei controlli periodici in materia di pagamento degli emolumenti in favore dei tesserati»

Evelina Christillin: «Dai miei genitori soldi se prendevo brutti voti. Il medico mi disse “c’è una possibilità su due che ce la faccia”...». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2023

La dirigente: «Io e mio marito tra alti e bassi siamo stati una ditta seria. Per Lapo ho molto affetto»

Evelina Christillin, se ripensa a lei bambina, come vede prefigurarsi il suo carattere?

«Immagini una famiglia alto borghese nei primi anni ‘60, con le tate francesi... I miei genitori erano stati piccoli durante la guerra, avevano sofferto, poi, papà diventò un grande pilota di Mille Miglia, lui e mia madre avevano molta voglia di vivere: non consideravano lo studio proprio un dovere. Io, però, ero totalmente secchiona, cosa che infastidiva quei due simpatici gaudenti. Mi dicevano “non studiare, divertiti” e mi promettevano soldi se avessi preso brutti voti. Ma io quei soldi non li ho mai vinti».

Oggi, è capitana di molte cose: come fa a spaziare dalla cultura al calcio, dalla presidenza del Museo Egizio di Torino al ruolo di rappresentante Uefa nel Consiglio Fifa?

«Basta studiare. E organizzarsi. Io posso stare un giorno a Napoli per un Cda del Teatro Stabile, il successivo a Ginevra per un Comitato Uefa, poi andare a Milano, tornare a Torino… Ho avuto una vocazione tardiva e ho da spendere tutte le energie non sprecate da ragazza: a 40 anni, ero ancora una professoressa di Storia all’Università, stavo chiusa negli archivi della biblioteca».

La sua famiglia che cosa si aspettava da lei?

«Che sapessi stare al mondo, facessi sport, parlassi le lingue, sapessi preparare una bella tavola. Però io e mia sorella eravamo adolescenti nel ‘68 e non volevamo dipendere dai genitori o da un marito. Io, a 22 anni, sono andata a lavorare alla Fiat proprio per tirarmi fuori di casa».

Gli Agnelli erano amici di famiglia.

«L’avvocato veniva con noi a Sestriere: si divertiva a vedermi sciare quando già da piccola facevo agonismo. Poi, da ragazza, sono andata a vivere in collina e ci ho ritrovato Gianni e Marella, che mi hanno quasi adottata. Sono grata agli Agnelli, ho affetto per loro, molto per Lapo. A Marella devo i tre quarti delle cose che so. Mi prese in gran simpatia, la accompagnavo ovunque: al Chelsea Flower a Londra, in Olanda a vedere i tulipani...».

E quali sono i tre quarti delle cose imparate da Marella?

«Al cospetto di questa donna con uno stile incredibile e un forte senso artistico, mi sentivo Heidi, una pastorella di montagna. Lei era tutto quello che volevo essere. Da lei, ho imparato ad apprezzare l’arte, la cultura, a stare tra persone riconoscibili e di valore stando tre passi indietro ed è tutto quello che mi è servito quando l’Avvocato mi candidò a guidare il comitato promotore delle Olimpiadi invernali di Torino 2006, la miccia da cui la mia vita è partita a razzo».

Che effetto le fece, nel giugno 1999, trovarsi sulle prime pagine di tutto il mondo, issata in aria a braccia dal suo staff che, a Seoul, festeggiava l’aggiudicazione dei giochi?

«Fu molto comico, nessuno pensava che potessi vincere. La Rai non mandò nessuno. Tutti gli obiettivi e gli occhi dei giornalisti erano sugli svizzeri e, quando invece vinse Torino, vidi una marea umana voltarsi verso di noi».

In principio, aveva rinunciato alla laurea.

«Mi aveva chiamato Luca di Montezemolo appena arrivato alle relazioni esterne Fiat. Io avevo appena chiuso la carriera agonistica da sciatrice, andai per uno stage e ci sono rimasta per sette anni. Lì incontrai mio marito, mi sposai, ebbi mia figlia, andai via nell’86, quando mi ammalai: feci due anni fra casa e l’ospedale delle Molinette. Ma in ospedale, suor Giuliana, conosciuta facendo volontariato, mi chiese “se avessi 18 anni e tutta la vita davanti cosa vorresti fare?”. Fu così che mi laureai tardivamente in Storia».

Come fu ricevere una diagnosi che poteva suonare infausta?

«Una bella botta. Ma avevo già il piglio positivo di oggi. A mio marito, dico sempre: non preoccuparti prima di essere certo che le cose vanno male, sprechi energia. Quando il medico mi disse “c’è una possibilità su due che ce la faccia”, mia madre si mise a piangere. E io: non provarci più, se no, piango anch’io. È allora che ho capito che non c’è niente per cui valga la pena arrabbiarsi o alimentare conflitti. Lì mi è venuto come un grande affetto nei confronti del mondo».

Perché aveva interrotto la carriera agonistica?

«Ho fatto tutto con Claudia Giordani: da bambina, la battevo; poi, crescendo, ho visto che lei era brava e io no. Non fu traumatico: non conta vincere, ma averci provato».

Quello che è arrivato dopo le olimpiadi quanto lo ha cercato e quanto è arrivato?

«Cercato zero. Anzi, ero tornata all’università, poi il sindaco Sergio Chiamparino, avendomi vista lavorare con Luca Ronconi a un progetto di teatro per i giochi, mi chiamò a presiedere lo Stabile di Torino, che con Mario Martone, portai a diventare Teatro Nazionale. Quindi, il ministro della Cultura mi offrì la presidenza del Museo Egizio: avevano 50 milioni da spendere e serviva qualcuno con esperienze di cantiere. Lì abbiamo trovato come direttore quel genio di Christian Greco, che allora era un ragazzino trentenne e oggi è una star internazionale. Stava in Sudan a scavare e presentò un progetto strepitoso. Dissi: vince per merito e non per calci nel sedere, ottimo, prendiamolo. Con lui, abbiamo prodotto mostre esportate in cinque continenti. Anche lì è partito un razzo. Ora, gestiamo venti milioni di euro per il bicentenario del 2024».

Prima donna europea nel governo mondiale del calcio. Come è stata accolta?

«Non ho sentito pregiudizi, anche perché mi occupo di aspetti finanziari, non di fuorigioco, sebbene sia sempre stata tifosa».

Ha un marito che è stato presidente di Mediobanca e ha avuto ruoli che storicamente corrispondevano a mogli che stavano un passo indietro. Per voi come è stato?

«Noi siamo stati una ditta seria: ci siamo sostenuti a vicenda e siamo ancora qui a raccontarcelo, nonostante ovvi alti e bassi. Non essere stata la moglie di una volta è stato semmai un collante. Con qualche episodio divertente, come quando mi presentai a Mediobanca vestita da sci e il commesso mi disse “signora non salga vestita così, dico io a suo marito di scendere”».

Quali sono i suoi modelli femminili?

«Marella e Suor Giuliana».

Di manageriale non hanno fatto niente.

«Però, erano due donne vere».

Dagospia il 23 gennaio 2023. Dall'account facebook di Vittorio Zambardino

 Diciamo che se io fossi ancora un giornalista di Repubblica mi risentirei molto duramente prima con la mia rappresentanza sindacale, poi con la proprietà su questo: l'amministratore delegato e direttore generale dell'azienda editrice del giornale è anche l'AD della Juventus. È un caso di incompatibilità grave e una lesione della reputazione della testata e dei suoi giornalisti. Ma mi pare che tutto taccia. Contenti voi

Penalizzazione Juventus. il ministro dello sport Abodi: “Ora bisogna spiegare decisione”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 24 Gennaio 2023.

"C'è una responsabilità politica di cambiare le regole, nel rispetto dell'autonomia dello sport, perché fenomeni degenerativi vengano limitati. E limitata sia l'interpretazione di questi fatti. Noi vogliamo comunque che lo sport sia trasparente, efficiente, dignitoso e punti alla credibilità e alla reputazione. Quello che sta succedendo non contribuisce a questi obiettivi"

Andrea Abodi non può affrontare il tema della sentenza shock del meno 15 alla Juventus nel merito. Tradirebbe il suo ruolo di ministro dello Sport. Può però sentire addosso “una responsabilità politica.C’è un’esigenza che deve essere soddisfatta, perché spiegare è importante quanto decidere. Aspetto le motivazioni e chi ha la responsabilità spieghi questa decisione e perché non ne sono state prese altre“. Questa la posizione del ministro per lo sport e per i giovani, Andrea Abodi, a commento della sentenza della Corte federale d’appello sulle plusvalenze con la penalizzazione di 15 punti alla Juventus.

C’è un’esigenza che deve essere soddisfatta, è il suo ragionamento, “perché spiegare è importante quanto decidere. Ma per questo bisogna aspettare le motivazioni. Ora si tratta di capire se un certo tipo di pratiche fosse esclusiva prerogativa di una società o se c’è un “sistema” complesso più diffuso”. A questo dilemma dovranno rispondere le motivazioni. “Chi ha la responsabilità spieghi perché questa decisione e non altre”. aggiunge Abodi.

Dopo c’è una responsabilità politica di cambiare le regole, nel rispetto dell’autonomia dello sport, perché fenomeni degenerativi vengano limitati. E limitata sia l’interpretazione di questi fatti. Noi vogliamo comunque che lo sport sia trasparente, efficiente, dignitoso e punti alla credibilità e alla reputazione. Quello che sta succedendo non contribuisce a questi obiettivi”, dice il ministro.

E’ probabile che io debba proporre un intervento per il miglioramento della trasparenza, l’efficienza della giustizia sportiva e dei modelli di gestione dello sport professionistico”, continua Abodi che infine si augura comunque “che tutto non diventi una questione di tifo. Diventando quasi una partita di calcio dove le squadre sono contrapposte, poi capisco che i tifosi la vivano così“.

Abodi ha spiegato anche che si sta lavorando duro per giungere a predisporre gli attesi interventi legislativi, dal diritto di scommessa alla fine del divieto di sponsorizzazioni per le aziende di betting. “Qui si allarga tanto la questione, difficile mandare avanti un singolo elemento. E’ difficile dire se sia più urgente il tema della competitività o quello delle vicende della stretta attualità. Avremo bisogno di qualche giorno in più”. Sulla possibilità di un decreto legge, il ministro ha spiegato “Potrebbero essere anche più provvedimenti. Il decreto è uno strumento, c’è anche il disegno di legge che per le cose più significative consentirebbe di avere un confronto parlamentare più approfondito”. Sugli stadi però non c’è tempo da perdere. “Ci stiamo muovendo, sia sugli stadi in quanto tali sia in quanto stadi per la candidatura all’Europeo 2032“. Redazione CdG 1947

"Sistema di plusvalenze artificiali”. Cos’è il “libro nero” di Fabio Paratici, il documento “inquietante e devastante” che inguaia la Juventus. Redazione su Il Riformista il 30 Gennaio 2023.

E’ un foglio A4, con carta intestata della Juventus, sul quale erano scritti degli appunti in vista dell’incontro in programma con l’oramai ex direttore sportivo bianconero Fabio Paratici per il rinnovo del suo contratto. Un “libro nero FP” (dove per FP si intendono le iniziali di Fabio Paratici) che i giudici della Corte d’Appello Federale definiscono “un documento inquietante”, acquisito dalla procura di Torino nel corso delle perquisizioni disposte nei mesi scorsi negli uffici della Juventus.

Nelle 35 pagine di motivazioni relative alla sentenza della giustizia sportiva che ha inflitto alla società bianconera 15 punti di penalizzazione nell’attuale campionato in corso, la Corte d’Appello della Figc lo ritiene fra “i più rilevanti elementi dimostrativi, citati anche dalla Procura federale… Un tale documento, si noti, non è mai stato disconosciuto dal redattore (Federico Cherubini) ed è stato difeso dalla FC Juventus S.p.A. che, unitamente al predetto dirigente, lo ha fatto proprio, solo proponendone una interpretazione diversa rispetto a quella offerta dalla Procura federale, sostenendo si trattasse di un normale ‘appunto’ di lavoro”.

L’elemento dimostrativo più rilevante – si legge nelle motivazioni della Corte federale -, non è solo il contenuto testuale di detto “Libro Nero di FP”, di per sé sin troppo esplicito. Rileva piuttosto (quale conferma irredimibile del relativo esatto contenuto) il contesto nel quale esso è stato redatto… Cherubini era pronto a mettere sul tavolo della discussione quelle che lo stesso riteneva essere importanti ‘differenze di vedute’: cioè il fatto che Fabio Paratici avesse costantemente operato attraverso un sistema di plusvalenze artificiali”.

Per i giudici della Corte d’Appello Figc “nello scrivere il ‘Libro Nero di FP’, Cherubini rappresentava fatti veri che oggi non possono più essere efficacemente rinnegati. È per questa ragione che il mancato disconoscimento del documento e la mancata presa di distanza da esso della FC Juventus S.p.A. – a prescindere da ogni ulteriore rilevanza – ha una portata devastante sul piano della lealtà sportiva”.

Da esso si trae la consapevolezza di un crescendo di difficolta economico-finanziaria della FC Juventus S.p.A. nel corso degli anni 2019, 2020 e 2021 (“come siamo arrivati qui?”) e della difficoltà di uscirne. – conclude la Caf -. E si individua anche il metodo rimediale che il Cherubini testimonia essere stato applicato da Fabio Paratici: “utilizzo eccessivo plusvalenze artificiali” (la cui conseguenza è un “beneficio immediato” ma anche un negativo “carico ammortamenti” per il futuro). Il contenuto del “Libro Nero di FP” costituisce un elemento oggettivo non equivocabile. Tanto più tenuto conto della circostanza che scopo del processo sportivo… solo la violazione delle norme sportive: nello specifico, dell’art. 4, comma 1 e dell’art. 31, comma 1”.

Dal canto suo, la Juventus ha definito le motivazioni della Corte d’appello Figc come un “documento prevedibile nei contenuti, alla luce della pesante decisione, ma viziato da evidente illogicità, carenze motivazionali e infondatezza in punto di diritto“. Il club bianconero “e il suo collegio di legali hanno letto con attenzione e analizzeranno a fondo le motivazioni della decisione. La Società e i singoli si opporranno con ricorso al Collegio di Garanzia presso il CONI nei termini previsti. La fondatezza delle ragioni della Juventus sarà fatta valere con fermezza, pur nel rispetto dovuto alle istituzioni che lo hanno emesso”.

Estratto dell'articolo Valerio Piccioni per gazzetta.it il 30 gennaio 2023.

Per la Corte d’Appello ci sono dei nuovi fatti che hanno supportato la tesi della Procura a sostegno della riapertura del processo sulle plusvalenze. Insomma il meno 15 alla Juve è supportato da nuovi fatti. Ecco quanto si legge nelle motivazioni pubblicate poco fa: “È indiscutibile che il quadro fattuale determinato dalla documentazione trasmessa dalla Procura della Repubblica di Torino alla Procura federale, e da questa riversata a sostegno della revocazione, non era conosciuto dalla Corte federale al momento della decisione revocata e, ove conosciuto, avrebbe determinato per certo una diversa decisione. Esattamente secondo quanto previsto dall’art. 63, comma 1, lett. d), CGS. E si tratta di un quadro fattuale sostenuto da una impressionante mole di documentazione probatoria”. Si giunge quindi a una conclusione categorica: “I bilanci della FC Juventus S.p.A. (cui Consob si riferisce) semplicemente non sono attendibili”.

Ma perché la Corte d’Appello è andata oltre le richieste della procura federale, passando dal meno 9 al meno 15? “Tenuto allora conto dei precedenti - dicono le motivazioni - che hanno riguardato alterazioni contabili protratte per più esercizi ovvero di rilevanti dimensioni ed intensità (che in passato hanno portato a penalizzazioni di valore oscillante ma, in taluni casi, anche significative), si ritiene necessario rideterminare la sanzione rispetto alle richieste della Procura federale”.

 Nel merito è stato ritenuto che la Juve abbia commesso l’illecito, “vista la documentazione proveniente dai dirigenti del club con valenza confessoria e dai relativi manoscritti, le intercettazioni inequivoche e le ulteriori evidenze relative a interventi di nascondimento di documentazione o addirittura manipolatori delle fatture”.

Le considerazioni dei giudici sportivi sono perentorie: “Ma oggi è esattamente un tale quadro fattuale ad essere radicalmente mutato. Il fatto nuovo che prima non era noto è proprio l’avvenuto disvelamento della intenzionalità sottostante all’alterazione delle operazioni di trasferimento e dei relativi valori.

 Il fatto nuovo - come è stato efficacemente sottolineato dalla Procura federale - è l’assenza di un qualunque metodo di valutazione delle operazioni di scambio e, invece, la presenza di un sistema fraudolento in partenza (quanto meno sul piano sportivo) che la Corte federale non aveva potuto conoscere e alla luce del quale la decisione deve essere diversa da quella qui revocata”.

Si legge, inoltre: “Diventano rilevanti le operazioni di nascondimento operate da alcuni dirigenti della Juventus che si sono spinte sino ad intervenire correggendo “a penna” le fatture ricevute dalla controparte per non far emergere la natura permutativa dell’operazione compiuta (evidenze contenute nel file n. 733488 trasmesso alla Procura federale dalla Procura della Repubblica di Torino).

C’è poi un elenco delle circostanze più gravi secondo la Corte, in particolare il famoso “libro nero” di Fabio Paratici. “Costituisce un elemento oggettivo non equivocabile. Tanto più tenuto conto della circostanza (e vi si tornerà oltre più diffusamente) che scopo del processo sportivo non è, evidentemente, inferire la consumazione di eventuali fattispecie di illecito a carattere penalistico. Oggetto di giudizio è solo la violazione delle norme sportive: nello specifico, dell’art. 4, comma 1 e dell’art. 31, comma 1. Rilevantissime sono poi le intercettazioni telefoniche o ambientali (e le acquisizioni documentali) citate dalla Procura federale”. […]

Plusvalenze Juventus: le motivazioni della penalizzazione. Giovanni Capuano Su Panorama il 30 Gennaio 2023.

Pubblicato il documento che spiega le ragioni della stangata ai bianconeri (-15) e ai loro dirigenti, mentre tutti gli altri sono stati Plusvalenze Juventus: le motivazioni della penalizzazione

Ora i legali avranno un mese per il ricorso al Collegio di Garanzia del Coni

La Corte d'Appello della Federcalcio ha pubblicato le motivazioni della sentenza con cui ha condannato la Juventus a una penalizzazione di 15 punti nel processo bis sulle plusvalenze, che si era chiuso con la doppia assoluzione per tutti la scorsa primavera e che è stato riaperto per volontà della Procura Figc dopo la lettura delle carte dell'inchiesta Prisma della Procura di Torino. I giudici hanno così spiegato il percorso logico che ha portato ad accogliere il ricorso per revocazione delle sentenze andate in giudicato (applicando l'articolo 63 del Codice di Giustizia Sportiva) e poi a separare i destini della Juventus e dei suoi dirigenti da quelli degli altri 8 club (e relativi tesserati) coinvolti.

Fatti nuovi e non conosciuti, che avrebbero portato la Corte Figc a una diversa determinazione nei primi due processi, quelli chiusi con la doppia assoluzione per la Juventus e per gli altri club chiamati a giudizio per le plusvalenze sospette. E la certezza acquisita, leggendo le carte riversate sulla giustizia sportiva dall’inchiesta Prisma di Torino, che il club bianconero si è reso responsabile di illecito sportivo violando sia l’articolo 4 del Codice di Giustizia sportiva (quello sulla slealtà), sia il 31 (riferito agli illeciti amministrativi) a differenza delle altre società coinvolte per le quali non si è maturata evidenza che i comportamenti sospetti siano stati illeciti e, soprattutto, abbiano risposto alla necessità di creare un sistema di elusione delle norme federali. In 36 pagine di motivazioni la Corte d’Appello Figc spiega così la sentenza che ha stangato la Juventus (-15 punti) e i suoi dirigenti assolvendo tutti gli altri, una volta ottenuta la riapertura del procedimento e la revoca della doppia sentenza di assoluzione. Una ricostruzione durissima, che giustifica anche la scelta dei giudici di andare oltre le richieste della Procura federale guidata da Giuseppe Chiné. Pagine sulle quali la Juventus lavorerà in funzione del ricorso al Collegio di Garanzia del Coni (peraltro più volte evocato dalla stessa Corte quasi ad anticiparne il futuro giudizio di legittimità), ultimo grado all’interno dell’ordinamento sportivo prima di eventuali uscite al Tar del Lazio e al Consiglio di Stato.

PERCHE’ IL PROCESSO E’ STATO RIAPERTO “E’ indiscutibile che il quadro fattuale determinato dalla documentazione trasmessa dalla Procura della Repubblica di Torino… ove conosciuto avrebbe determinato per certo una diversa decisione” scrivono i giudizi, con riferimento a quella che viene definita una “impressionante mole di documentazione probatoria” tale da giustifica la revocazione del giudizio di primo e secondo grado. Nessuno spazio alle contestazioni di legittimità e merito della Juventus e, in alcuni casi, delle altre ricorrenti. Secondo la Corte le eccezioni di ammissibilità non sono state recepite perché infondate a partire dal “Ne bis in idem” più volte richiamato dai legali bianconeri. Anzi, una volta determinata la riapertura del processo sportivo i giudici possono estendere il proprio giudizio andando anche oltre le contestazioni originarie. Nel caso della Juventus, si legge a pagina 21 delle motivazioni, “il fatto nuovo che prima non era noto è proprio l’avvenuto disvelamento della intenzionalità sottostante all’alterazione delle operazioni di trasferimento e dei relativi valori”. Un vero e proprio sistema di alterazione dei bilanci e, di conseguenza, di manipolazione anche del risultato sportivo che i giudici hanno riscontrato nella lettura di intercettazioni e documenti contenute nelle 14mila pagina dell’inchiesta di Torino.

QUALI PROVE SONO STATE CONSIDERATE DECISIVE La Corte ha sposato in pieno le tesi della Procura federale considerando la mole di intercettazioni e documenti (soprattutto le prime) come prove di “natura essenzialmente confessoria” con l’aggravante della “pervasività ad ogni livello della consapevolezza della artificiosità del modus operandi della società stessa”. La prova regina è stata considerata il cosiddetto ‘Libro nero di FP’ scritto di suo pugno da Federico Cherubini e contenente contestazioni al metodo di operare di Fabio Paratici: “Il mancato disconoscimento del documento e la mancata presa di distanza da esso della FC Juventus – si legge – a prescindere da ogni ulteriore rilevanza ha una portata devastante sul piano della lealtà sportiva”. E poi le intercettazioni tra dirigenti a vari livelli, anche apicali, partendo dalla telefonata tra Andrea Agnelli e John Elkann. I giudici hanno ritenuto provato un sistema per nascondere la reale natura delle operazioni a specchio in modo da non farle ricadere sotto la fattispecie della “compensazione” che avrebbe azzerato gli effetti a bilancio per una società quotata in Borsa. Tra le prove, anche le fatture “corrette a penna” e rispedite al Marsiglia perché fossero riscritte omettendo la compensazione nello scambio Aké/Tyonga. Per questo viene fatta una distinzione tra le plusvalenze realizzate con club italiani, senza alcun passaggio di denaro, e quelli che coinvolgo società estere dove la camera di compensazione in Lega non interviene. In sintesi, le assoluzioni nascevano dalla presa d’atto che non esiste un metodo certificato di valutare i calciatori e così è ancora; la Juventus, però, secondo la Corte d’Appello della Federcalcio è stata colpevole di aver perseguito l’alterazione dei propri bilanci (“Semplicemente non sono attendibili” si legge a pagina 31) in una gestione in cui la valutazione del prezzo d’acquisto di un cartellino era prodotto del lavoro di diverse aree del club mentre per la cessione non esisteva un processo interno certificato ma tutto era demandato al giudizio del direttore sportivo.

PERCHE’ LA JUVENTUS SI’ E LE ALTRE NO Nelle motivazioni ci sono due passaggi che argomentano la ragione per cui il destino della Juventus è stato separato da quello delle altre società chiamate a processo. La posizione delle quali rimane “sospetta” senza, però, che sia maturata la certezza di un comportamento illecito e soprattutto nella considerazione che a nessuna di loro può essere imputato un sistema organizzato di falsificazione dei bilanci essendo contestata una sola operazione tra quelle oggetto del deferimento. Troppo poco, insomma, anche se né la Procura Figc né i giudici (e lo scrivono a pagina 29) si sono operati per verificare se anche la controparte rispetto ai bianconeri abbia o no ricavato una plusvalenza artificiosa nelle operazioni prese in esame. L’altro passaggio è quello che spiega perché, più che le plusvalenze in sé, nel mirino sia finito il comportamento “sleale” della Juventus: “Scopo del processo sportivo non è giungere a una determinazione numerica esatta dell’ammontare delle plusvalenze fittizie, bensì individuare se un fenomeno di tale natura vi sia effettivamente stato… e se possa essere considerato sistemico” (pagina 31). Nel caso Juventus la risposta dei giudici è sì e per questo “il comportamento integra l’illecito disciplinare sportivo”. E non conta nemmeno che l’articolo 4, quello sulla slealtà, sia difficile da inquadrare nei suoi confini o possa sussistere anche in assenza di una vera e propria norma violata: “Appaiono interpretare l’essenza stessa dell’ordinamento al punto che la loro violazione si traduce nella negazione stessa dei fini cui è rivolta l’attività sportiva”. Lo dice il Collegio di Garanzia del Coni che viene citato. Lo stesso collegio cui la Juventus si appella ora.

PERCHE’ LA PENALIZZAZIONE DI 15 PUNTI La Corte d’Appello spiega di essere andata oltre le richieste del procuratore Chiné anche tenendo conto di alcuni precedenti. Non solo: “Quanto alla sanzione, essa deve tenere conto della particolare gravità e della natura ripetuta e prolungata della violazione che il quadro probatorio emerso è in grado di dimostrare”. Nel caso della Juventus, spiegano i giudici, sono gli stessi dirigenti che la definiscono “brutta” e che prendono come riferimento addirittura lo scandalo Calciopoli che portò nel 2006 alla retrocessione in Serie B. I 9 punti chiesti dalla Procura, dunque, non erano sufficienti a ristabilire l’integrità della competizione sportiva: “Una sanzione deve essere proporzionata anche all’inevitabile alterazione del risultato sportivo che ne è conseguito, tentando di rimediare ad una tale alterazione” (pagina 34). Da qui la stangata.

FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO

Decisione/0063/CFA-2022-202322-2023

Registro procedimenti n. 0077/CFA/2022-2023

LA CORTE FEDERALE D’APPELLO

SEZIONI UNITE

composta dai Sigg.ri:

Mario Luigi Torsello - Presidente

Salvatore Lombardo - Componente

Mauro Mazzoni - Componente

Claudio Teodori - Componente

Vincenzo Barbieri - Componente

Domenico Luca Scordino - Componente (Relatore)

Alberto Falini - Componente (Relatore)

ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso n. 0077/CFA/2022-2023 proposto dalla Procura federale in data 22.12.2022, ai sensi dell'art. 63 C.G.S., per la revocazione parziale della decisione della Corte federale di Appello, Sezioni Unite, n. 0089/CFA-2021-2022 del 27 maggio 2022.

Visto il ricorso e i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatori nell’udienza del 20 gennaio 2023, tenutasi anche in videoconferenza, il Cons. Domenico Luca Scordino e il Cons. Alberto Falini; udito il Cons. Giuseppe Chinè per la Procura federale; uditi altresì per le parti resistenti i seguenti rappresentanti: gli avv.ti prof. Maurizio Bellacosa, Nicola Apa e Davide Sangiorgio, unitamente al prof. Lorenzo Pozza (consulente tecnico) per la FC Juventus S.p.A. (e relativi amministratori e/o dirigenti); l’avv. Marco Antonio Del Ben, unitamente al dott. Marco Bigliardi (consulente tecnico) per il Parma Calcio 1913 S.r.l.; l’avv. Vittorio Rigo per la U.C. Sampdoria S.p.A. (e relativi amministratori e/o dirigenti) e per l’Empoli F.C. S.p.A. (e relativi amministratori e/o dirigenti); l’avv. Mattia Grassani per il Pisa Sporting Club S.r.l. (e relativi amministratori e/o dirigenti), per il Genoa CFC S.p.A. (e relativi amministratori e/o dirigenti) e altresì per gli ex amministratori e dirigenti del Parma Calcio 1913 S.r.l.; l’avv. Flavia Tortorella per il Delfino Pescara 1936 S.p.A. (e relativi amministratori e/o dirigenti); gli avv.ti Christian Peretti e Alex Casella per la FC Provercelli 1892 S.r.l.; nonché infine l’avv. Eduardo Chiacchio per il Novara Calcio S.p.A. (quest’ultimo costituitosi in udienza).

Presenti, inoltre, personalmente in udienza, Gianluca Ferrero, Federico Cherubini, Cesare Gabasio (FC Juventus S.p.A.), Massimo Ienca (Sampdoria S.p.A.), Rebecca Corsi (Empoli F.C.), Diodato Abagnara (Genoa CFC), Giovanni Corrado e Giuseppe Corrado (Pisa Sporting Club).

RITENUTO IN FATTO

Con atto di deferimento prot. 7506/233pf21-22/GC/GR/blp del giorno 1.4.2022, la Procura federale deferiva al Tribunale federale nazionale - sezione disciplinare i soggetti e le società che seguono:

1. Il Sig. Fabio Paratici, Chief Football Officer della società FC Juventus Spa nelle stagioni sportive dalla 2018/2019 alla 2020/2021, dotato di poteri di rappresentanza della Società, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per aver sottoscritto le seguenti variazioni di tesseramento ed i relativi accordi di cessione: in data 28 gennaio 2021 trasferimento di Elia Petrelli al prezzo di € 8.000.000; in data 28 gennaio 2021 trasferimento di Manolo Portanova al prezzo di € 10.000.000; in data 28 gennaio 2021 trasferimento di Nicolò Rovella al prezzo di € 18.000.000; in data 11 gennaio 2021 trasferimento di Kevin Monzialo al prezzo di € 2.500.000; in data 21 gennaio 2021 trasferimento di Christopher Lungoyi al prezzo di € 2.500.000; in data 27 gennaio 2021 trasferimento di Franco Daryl Tongya Heubang al prezzo di € 8.000.000; in data 27 gennaio 2021 trasferimento di Marley Ake’ al prezzo di € 8.000.000; in data 15 gennaio 2021 trasferimento di Giulio Parodi al prezzo di € 1.320.000; in data 15 gennaio 2021 trasferimento di Davide De Marino al prezzo di € 1.500.000; in data 30 giugno 2020 trasferimento di Mamadou Kaly Sene al prezzo di € 4.000.000; in data 30 giugno 2020 trasferimento di Albian Hajdari al prezzo di € 4.380.000; in data 14 luglio 2020 trasferimento di Felix Victor Anlong Nzouango Bikien al prezzo di € 1.900.000; in data 31 gennaio 2020 trasferimento di Eric Lanini al prezzo di € 2.385.000; in data 31 gennaio 2020 trasferimento di Alessandro Minelli al prezzo di € 2.910.000; in data 24 gennaio 2020 trasferimento di Edoardo Masciangelo al prezzo di € 2.336.000; in data 24 gennaio 2020 trasferimento di Matteo Luigi Brunori al prezzo di € 2.850.000; in data 28 giugno 2020 (accordo preliminare) trasferimento di Leonardo Loria al prezzo di € 2.500.000; in data 28 giugno 2020 (accordo preliminare) trasferimento di Stefano Gori al prezzo di € 3.200.000; in data 29 gennaio 2019 trasferimento di Emil Audero al prezzo di € 20.000.000; in data 29 gennaio 2019 trasferimento di Daouda Peeters al prezzo di € 4.000.000; in data 31 luglio 2019 trasferimento di Erasmo Mulé al prezzo di € 3.500.000; in data 29 gennaio 2020 trasferimento di Nicolò Francofonte al prezzo di € 1.700.000; in data 29 gennaio 2020 trasferimento di Erik Gerbi al prezzo di € 1.300.000; in data 29 gennaio 2020 trasferimento di Matteo Stoppa al prezzo di € 1.000.000; in data 29 gennaio 2020 trasferimento di Giacomo Vrioni al prezzo di € 4.000.000; in data 30 giugno 2019 trasferimento di Andrea Adamoli al prezzo di € 500.000; in data 13 luglio 2019 trasferimento di Leonardo Mancuso al prezzo di € 4.500.000; in data 30 giugno 2019 trasferimento di Marco Olivieri al prezzo di € 2.400.000; in data 24 gennaio 2020 trasferimento di Matheus Pereira Da Silva al prezzo di € 8.000.000; in data 24 gennaio 2020 trasferimento di Alejandro José Marques Mendez al prezzo di € 8.200.000; in data 30 giugno 2020 trasferimento di Pablo Moreno Taboada al prezzo di € 10.000.000; in data 30 giugno 2020 trasferimento di Felix Alexandre Andrade Sanches Correia al prezzo di € 10.508.800; indicando in tutti un corrispettivo superiore al reale, in attuazione di un unico disegno finalizzato a commettere le condotte illecite ascritte ai Consiglieri di Amministrazione della Società;

2. Il Sig. Federico Cherubini, Head of Football Teams & T.A. della società FC Juventus Spa nelle stagioni sportive 2019/2020 e 2020/2021, dotato di poteri di rappresentanza della Società, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31, comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per aver sottoscritto le seguenti variazioni di tesseramento ed i relativi accordi di cessione: in data 11 settembre 2020 trasferimento di Tommaso Barbieri al prezzo di € 1.400.000; in data 31 gennaio 2020 trasferimento di Rafael Alexandre Bandeira Da Fonseca al prezzo di € 1.500.000; in data 11 settembre 2020 trasferimento di Francesco Lamanna al prezzo di € 900.000 indicando in tutti un corrispettivo superiore al reale, in attuazione di un unico disegno finalizzato a commettere le condotte illecite ascritte ai Consiglieri di Amministrazione della Società;

3. Il Sig. Andrea Agnelli, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società FC Juventus Spa dal 25 ottobre 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per aver redatto, sottoscritto ed approvato, in concorso con gli altri amministratori, le situazioni trimestrali al 31.03.2019, 31.03.2020, 31.03.2021, le situazioni semestrali al 31.12.2019 e 31.12.2020 ed i Bilanci al 30.06.2019 e 30.06.2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 60.376.449 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 59.398.800, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre;

4. Il Sig. Pavel Nedved, Consigliere di Amministrazione della società FC Juventus Spa dal 25 ottobre 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, le situazioni trimestrali al 31.03.2019, 31.03.2020, 31.03.2021, le situazioni semestrali al 31.12.2019 e 31.12.2020 ed i Bilanci al 30.06.2019 e 30.06.2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 60.376.449 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 59.398.800, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

5. Il Sig. Enrico Vellano, Consigliere di Amministrazione della società FC Juventus Spa dal 25 ottobre 2018 la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, le situazioni trimestrali al 31.03.2019, 31.03.2020, 31.03.2021, le situazioni semestrali al 31.12.2019 e 31.12.2020 ed i Bilanci al 30.06.2019 e 30.06.2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 60.376.449 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 59.398.800, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

6. Il Sig. Paolo Garimberti, Consigliere di Amministrazione della società FC Juventus Spa dal 25 ottobre 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, le situazioni trimestrali al 31.03.2019, 31.03.2020, 31.03.2021, le situazioni semestrali al 31.12.2019 e 31.12.2020 ed i Bilanci al 30.06.2019 e 30.06.2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 60.376.449 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 59.398.800, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

7. La Sig.ra Assia Grazioli-Venier, Consigliere di Amministrazione della società FC Juventus Spa dal 25 ottobre 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, le situazioni trimestrali al 31.03.2019, 31.03.2020, 31.03.2021, le situazioni semestrali al 31.12.2019 e 31.12.2020 ed i Bilanci al 30.06.2019 e 30.06.2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 60.376.449 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 59.398.800, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

8. Il Sig. Maurizio Arrivabene, Consigliere di Amministrazione della società FC Juventus Spa dal 25 ottobre 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, le situazioni trimestrali al 31.03.2019, 31.03.2020, 31.03.2021, le situazioni semestrali al 31.12.2019 e 31.12.2020 ed i Bilanci al 30.06.2019 e 30.06.2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 60.376.449 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 59.398.800, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

9. La Sig.ra Caitlin Mary Hughes, Consigliere di Amministrazione della società FC Juventus Spa dal 25 ottobre 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, le situazioni trimestrali al 31.03.2019, 31.03.2020, 31.03.2021, le situazioni semestrali al 31.12.2019 e 31.12.2020 ed i Bilanci al 30.06.2019 e 30.06.2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 60.376.449 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 59.398.800, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

10. La Sig.ra Daniela Marilungo, Consigliere di Amministrazione della società FC Juventus Spa dal 25 ottobre 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, le situazioni trimestrali al 31.03.2019, 31.03.2020, 31.03.2021, le situazioni semestrali al 31.12.2019 e 31.12.2020 ed i Bilanci al 30.06.2019 e 30.06.2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 60.376.449 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 59.398.800, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

11. Il Sig. Francesco Roncaglio, Consigliere di Amministrazione della società FC Juventus Spa dal 25 ottobre 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, le situazioni trimestrali al 31.03.2019, 31.03.2020, 31.03.2021, le situazioni semestrali al 31.12.2019 e 31.12.2020 ed i Bilanci al 30.06.2019 e 30.06.2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 60.376.449 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 59.398.800, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

12. Il Sig. Massimo Ienca, Segretario Generale della società UC Sampdoria nelle stagioni sportive 2018/2019 e 2019/2020, dotato di poteri di rappresentanza della Società, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per aver sottoscritto le seguenti variazioni di tesseramento ed i relativi accordi di cessione: in data 28 giugno 2019 trasferimento di Maxime Leverbe al prezzo di € 000; in data 29 giugno 2019 trasferimento di David Ivan al prezzo di € 900.000; in data 29 gennaio 2019 trasferimento di Daouda Peeters al prezzo di € 4.000.000; in data 31 luglio 2019 trasferimento di Erasmo Mulé al prezzo di € 3.500.000; in data 29 gennaio 2019 trasferimento di Emil Audero al prezzo di € 20.000.000;in data 29 gennaio 2020 trasferimento di Giacomo Vrioni al prezzo di € 4.000.000; in data 29 gennaio 2020 trasferimento di Nicolò Francofonte al prezzo di € 1.700.000; in data 29 gennaio 2020 trasferimento di Erik Gerbi al prezzo di € 1.300.000; in data 29 gennaio 2020 trasferimento di Matteo Stoppa al prezzo di € 1.000.000 indicando in tutti un corrispettivo superiore al reale, in attuazione di un unico disegno finalizzato a commettere le condotte illecite ascritte ai Consiglieri di Amministrazione della Società;

13. Il Massimo Ferrero, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società UC Sampdoria dal 28 dicembre 2018 al 27 dicembre 2021, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per aver redatto, sottoscritto ed approvato, in concorso con gli altri amministratori, i Bilanci al 31 dicembre 2019 e 31 dicembre 2020, le situazioni semestrali al 30 giugno 2019 e 30 giugno 2020 nonché le situazioni trimestrali al 31 marzo 2019, 31 marzo 2020 e 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 11.150.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 3.350.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio e di ciascun semestre;

14. Il Antonio Romei, Vice Presidente del Consiglio di Amministrazione della società UC Sampdoria dal 28 dicembre 2018 al 6 agosto 2020, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probitzoà di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori il Bilancio al 31 dicembre 2019, la situazione semestrale al 30 giugno 2019 nonché le situazioni trimestrali al 31 marzo 2019 e 31 marzo 2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 11.150.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 3.350.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

15. Il Sig. Paolo Fiorentino, Vice Presidente del Consiglio di Amministrazione dal 28 dicembre 2018 fino al 6 agosto 2020 e Consigliere dal 7 agosto 2020 della società UC Sampdoria, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori i Bilanci al 31 dicembre 2019 e 31 dicembre 2020, le situazioni semestrali al 30 giugno 2019 e 30 giugno 2020 nonché le situazioni trimestrali al 31 marzo 2019, 31 marzo 2020 e 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi €11.150.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 350.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

16. Il Sig. Paolo Repetto, Consigliere della società UC Sampdoria dal 28 dicembre 2018 al 6 agosto 2020, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori il Bilancio al 31 dicembre 2019, la situazione semestrale al 30 giugno 2019 nonché le situazioni trimestrali al 31 marzo 2019 e 31 marzo 2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi €150.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 3.350.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

17. Il Sig. Adolfo Praga, Consigliere della società UC Sampdoria dal 28 dicembre 2018 al 6 agosto 2020, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori il Bilancio al 31 dicembre 2019 nonché le situazioni trimestrali al 31 marzo 2019 e 31 marzo 2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 11.150.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 350.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

18. Il Sig. Gianluca Tognozzi, Consigliere della società UC Sampdoria dal 28 dicembre 2018 al 6 agosto 2020, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori il Bilancio al 31 dicembre 2019, la situazione semestrale al 30 giugno 2019 nonché le situazioni trimestrali al 31 marzo 2019 e 31 marzo 2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi €150.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 3.350.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

19. Il Sig. Giovanni Invernizzi, Consigliere della società UC Sampdoria dal 28 dicembre 2018 al 6 agosto 2020, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori il Bilancio al 31 dicembre 2019, la situazione semestrale al 30 giugno 2019 nonché le situazioni trimestrali al 31 marzo 2019 e 31 marzo 2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi €150.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 3.350.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

20. Il Sig. Giuseppe Profiti, Consigliere della società UC Sampdoria dal 7 agosto 2020, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori la situazione trimestrale al 31.03.2021, le situazione semestrale al 30.06.2020 ed il Bilancio al 31.12.2020 della società ove sono contabilizzate immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 350.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

21. Il Sig. Enrico Castanini, Consigliere della società UC Sampdoria dal 7 agosto 2020, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori la situazione trimestrale al 31.03.2021, le situazione semestrale al 30.06.2020 ed il Bilancio al 31.12.2020 della società ove sono contabilizzate immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 350.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

22. Il Sig. Gianluca Vidal, Consigliere della società UC Sampdoria dal 7 agosto 2020, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori la situazione trimestrale al 31.03.2021, le situazione semestrale al 30.06.2020 ed il Bilancio al 31.12.2020 della società ove sono contabilizzate immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 350.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

23. Il Sig. Aurelio De Laurentiis, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società SSC Napoli dal 25 ottobre 2019, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per: a) aver sottoscritto le seguenti variazioni di tesseramento ed i relativi accordi di cessione: in data 28 luglio 2020 trasferimento di Orestis Karnezis al prezzo di € 128.205,13; in data 28 luglio 2020 trasferimento di Luigi Liguori al prezzo di € 4.071.246,82; in data 28 luglio 2020 trasferimento di Claudio Manzi al prezzo di € 4.021.761,59; in data 28 luglio 2020 trasferimento di Ciro Palmieri al prezzo di € 7.026.348,81; in data 28 luglio 2020 trasferimento di Victor James Osimhen al prezzo di € 71.246.819,34 indicando in tutti un corrispettivo superiore al reale, in attuazione di un unico disegno finalizzato a commettere le condotte illecite di cui al punto b) che segue e quelle ascritte ai Consiglieri di Amministrazione; b) aver redatto, sottoscritto ed approvato, in concorso con gli altri amministratori, la situazione semestrale al 31 dicembre 2020 nonché la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 19.330.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 21.250.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine del trimestre e del semestre;

24. La Sig.ra Jacqueline Marie Baudit, Vice Presidente del Consiglio di Amministrazione della società SSC Napoli dal 25 ottobre 2019, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 e la situazione semestrale al 31 dicembre 2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 19.330.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 21.250.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine del trimestre e del semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

25. Il Edoardo De Laurentiis, Vice Presidente del Consiglio di Amministrazione della società SSC Napoli dal 25 ottobre 2019, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 e la situazione semestrale al 31 dicembre 2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 19.330.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 21.250.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla del trimestre e del semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

26. Il Sig.ra Valentina De Laurentiis, Vice Presidente del Consiglio di Amministrazione della società SSC Napoli dal 25 ottobre 2019, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 e la situazione semestrale al 31 dicembre 2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 19.330.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 21.250.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla del trimestre e del semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

27. Il Sig. Andrea Chiavelli, Amministratore Delegato della società SSC Napoli dal 25 ottobre 2019, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per aver redatto ed approvato, in concorso con gli altri amministratori, la situazione semestrale al 31 dicembre 2020 nonché la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 330.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 21.250.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla del trimestre e del semestre;

28. Il Franco Smerieri, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società FC Pro Vercelli 1892 dal 24 settembre 2020, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per aver redatto, sottoscritto ed approvato, in concorso con gli altri amministratori, la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 1.350.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 1.270.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine del trimestre;

29. La Sig.ra Anita Angiolini, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società FC Pro Vercelli 1892 dal 6 agosto 2020 al 24 settembre 2020 e Vice Presidente dal 25 settembre 2020, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver sottoscritto le seguenti variazioni di tesseramento ed i relativi accordi di cessione: . in data 15 gennaio 2021 trasferimento di Davide De Marino al prezzo di € 1.500.000; in data 15 gennaio 2021 trasferimento di Giulio Parodi al prezzo di € 1.320.000; indicando in tutti un corrispettivo superiore al reale, in attuazione di un unico disegno finalizzato a commettere le condotte illecite di cui al punto b) che segue e quelle ascritte ai Consiglieri di Amministrazione; b) redatto ed approvato, in concorso con gli altri amministratori, la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 350.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 1.270.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine del trimestre;

30. Il Sig. Paolo Pinciroli, Amministratore Delegato della società FC Pro Vercelli 1892 dal 24 settembre 2020, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per aver redatto, sottoscritto ed approvato, in concorso con gli altri amministratori, la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 1.350.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 1.270.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine del trimestre;

31. Il Enrico Preziosi, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società Genoa CFC dal 28 aprile 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, il Bilancio al 31 dicembre 2020 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 della società ove è contabilizzata la rivalutazione del diritto Rovella in eccedenza per complessivi € 12.005.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 15.000.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine del trimestre e del semestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

32. Il Sig. Giovanni Blondet, Vice Presidente della società Genoa CFC dal 28 aprile 2018 al 28 novembre 2021, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, il Bilancio al 31 dicembre 2020 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 della società ove è contabilizzata la rivalutazione del diritto Rovella in eccedenza per complessivi € 005.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 15.000.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine del trimestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

33. Il Sig. Alessandro Zarbano, Amministratore Delegato della società Genoa CFC dal 28 aprile 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver sottoscritto le seguenti variazioni di tesseramento ed i relativi accordi di cessione: in data 28 gennaio 2021 trasferimento di Nicolò Rovella al prezzo di € 000.000; in data 28 gennaio 2021 trasferimento di Elia Petrelli al prezzo di € 8.000.000; in data 28 gennaio 2021 trasferimento di Manolo Portanova al prezzo di € 10.000.000; indicando in tutti un corrispettivo superiore al reale, in attuazione di un unico disegno finalizzato a commettere le condotte illecite di cui al punto b) che segue e quelle ascritte ai Consiglieri di Amministrazione; b) aver redatto, sottoscritto ed approvato, in concorso con gli altri amministratori, il Bilancio al 31 dicembre 2020 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 della società ove è contabilizzata la rivalutazione del diritto Rovella in eccedenza per complessivi € 12.005.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 15.000.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine del trimestre;

34. Il Sig. Diodato Abagnara, Consigliere di Amministrazione della società Genoa CFC dal 28 aprile 2018 al 28 novembre 2021, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, il Bilancio al 31 dicembre 2020 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 della società ove è contabilizzata la rivalutazione del diritto Rovella in eccedenza per complessivi € 005.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 15.000.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine del trimestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

35. Il Luca Carra, Amministratore delegato della società Parma Calcio 1913 dal 9 novembre 2018 al 18 settembre 2020, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 e 2 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver sottoscritto le seguenti variazioni di tesseramento ed i relativi accordi di cessione: in data 31 gennaio 2020 trasferimento di Alessandro Minelli al prezzo di € 2.910.000; in data 31 gennaio 2020 trasferimento di Eric Lanini al prezzo di € 2.385.000; in data 31 gennaio 2019 trasferimento di Paolo Napoletano al prezzo di € 1.000.000; in data 29 giugno 2019 trasferimento di Cristian Galano al prezzo di € 2.000.000; in data 29 giugno 2019 trasferimento di Fabian Pavone al prezzo di € 1.800.000; in data 29 giugno 2019 trasferimento di Alessandro Martella al prezzo di € 500.000; in data 1 agosto 2019 trasferimento di Matteo Luigi Brunori al prezzo di € 1.000.000; in data 31 gennaio 2020 trasferimento di Marco D’Aloia al prezzo di € 2.800.000; in data 31 gennaio 2020 trasferimento di Simone Madonna al prezzo di € 1.000.000; in data 31 gennaio 2020 trasferimento di Davide Cipolletti al prezzo di € 1.200.000; in data 31 gennaio 2020 trasferimento di Stefano Palmucci al prezzo di € 3.000.000 indicando in tutti un corrispettivo superiore al reale, in attuazione di un unico disegno finalizzato a commettere le condotte illecite di cui al punto b) che segue e quelle ascritte ai Consiglieri di Amministrazione; b) aver redatto ed approvato, in concorso con gli altri amministratori, il Bilancio al 30 giugno 2019, la situazione semestrale al 31 dicembre 2019 nonché la situazione trimestrale al 31 marzo 2019 e al 31 marzo 2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 7.960.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 9.085.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio e di ciascun semestre così da ottenere la Licenza Nazionale e l’iscrizione al campionato della stagione 2020/2021 in assenza dei requisiti previsti dalla normativa federale;

36. Il Sig. Marco Ferrari, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società Nuovo Inizio Srl, incorporante della Parma Calcio 1913, dal 17/01/2020, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 commi 1 e 2 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per aver redatto, sottoscritto ed approvato, in concorso con gli altri amministratori, il Bilancio al 30 giugno 2020 della società ove sono contabilizzate immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 9.085.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine dell’esercizio così da ottenere la Licenza Nazionale e l’iscrizione al campionato della stagione 2020/2021 in assenza dei requisiti previsti dalla normativa federale;

37. Il Sig. Pietro Pizzarotti, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società Parma Calcio 1913 dal 9 novembre 2018 al 18 settembre 2020, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 commi 1 e 2 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per aver redatto, sottoscritto ed approvato, in concorso con gli altri amministratori, il Bilancio al 30 giugno 2019, la relazione semestrale al 31 dicembre 2019 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2019 e al 31 marzo 2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 7.960.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 9.085.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine dell’esercizio così da ottenere la Licenza Nazionale e l’iscrizione al campionato della stagione 2020/2021 in assenza dei requisiti previsti dalla normativa federale;

38. Il Giacomo Malmesi, Consigliere di Amministrazione della società Parma Calcio 1913 dal 9 novembre 2018 al 18 settembre 2020 e della società incorporante Nuovo Inizio srl dal 17/01/2020, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 commi 1 e 2 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, le situazioni trimestrali al 31 marzo 2019 e 31 marzo 2020, la situazione semestrale al 31 dicembre 2019 ed i Bilanci al 30 giugno 2019 e 30 giugno 2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 7.960.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 9.085.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre così da ottenere la Licenza Nazionale e l’iscrizione al campionato della stagione 2020/2021 in assenza dei requisiti previsti dalla normativa federale; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

39. Il Sig. Paolo Piva, Consigliere di Amministrazione della società Parma Calcio 1913 dal 9 novembre 2018 al 18 settembre 2020, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 commi 1 e 2 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, le situazioni trimestrali al 31 marzo 2019 e 31 marzo 2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 960.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 9.085.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre così da ottenere la Licenza Nazionale e l’iscrizione al campionato della stagione 2020/2021 in assenza dei requisiti previsti dalla normativa federale; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

40. Il Marco Tarantino, Consigliere di Amministrazione della società Parma Calcio 1913 dal 9 novembre 2018 al 18 settembre 2020, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 commi 1 e 2 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, le situazioni trimestrali al 31 marzo 2019 e 31 marzo 2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 7.960.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 9.085.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine di ciascun esercizio, di ciascun trimestre e di ciascun semestre così da ottenere la Licenza Nazionale e l’iscrizione al campionato della stagione 2020/2021 in assenza dei requisiti previsti dalla normativa federale; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

41. Il Sig. Giovanni Corrado, Amministratore Delegato della società Pisa Sporting Club dal 20 giugno 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 commi 1 e 2 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per: a) aver sottoscritto le seguenti variazioni di tesseramento ed i relativi accordi di cessione: . in data 28 giugno 2020 (accordo preliminare) trasferimento di Stefano Gori al prezzo di € 200.000; . in data 28 giugno 2020 (accordo preliminare) trasferimento di Leonardo Loria al prezzo di € 2.500.000; indicando in tutti un corrispettivo superiore al reale, in attuazione di un unico disegno finalizzato a commettere le condotte illecite di cui al punto b) che segue e quelle ascritte ai Consiglieri di Amministrazione; b) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, il Bilancio al 30 giugno 2020, la relazione semestrale al 31 dicembre 2020 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 1.200.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 2.100.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine dell’esercizio e del trimestre così da ottenere la Licenza Nazionale e l’iscrizione al campionato della stagione 2020/2021 in assenza dei requisiti previsti dalla normativa federale;

42. Il Sig. Giuseppe Corrado, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società Pisa Sporting Club dal 20 giugno 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 commi 1 e 2 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per aver redatto sottoscritto ed approvato, in concorso con gli altri amministratori, il Bilancio al 30 giugno 2020, la relazione semestrale al 31 dicembre 2020 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 1.200.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 100.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine dell’esercizio, del semestre e del trimestre così da ottenere la Licenza Nazionale e l’iscrizione al campionato della stagione 2020/2021 in assenza dei requisiti previsti dalla normativa federale;

43. La Sig.ra Raffaella Viscardi, Amministratore Delegato della società Pisa Sporting Club dal 20 giugno 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 commi 1 e 2 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, il Bilancio al 30 giugno 2020, la situazione semestrale al 31 dicembre 2020 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 1.200.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 2.100.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine dell’esercizio e del trimestre così da ottenere la Licenza Nazionale e l’iscrizione al campionato della stagione 2020/2021 in assenza dei requisiti previsti dalla normativa federale; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

44. La sig.ra Julie Michelle Harper, Consigliere di Amministrazione della società Pisa Sporting Club dal 20 gennaio 2021, la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, la situazione semestrale al 31 dicembre 2020 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 2.100.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine dell’esercizio e del trimestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

45. Il Sig. Alexander Knaster, Consigliere di Amministrazione della società Pisa Sporting Club dal 20 gennaio 2021, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, la situazione semestrale al 31 dicembre 2020 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 2.100.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine dell’esercizio e del trimestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

46. Il Sig. Marco Lippi, Consigliere di Amministrazione della società Pisa Sporting Club dal 20 gennaio 2021, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, la situazione semestrale al 31 dicembre 2020 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 2.100.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine dell’esercizio e del trimestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

47. Il Sig. Mirko Paletti, Consigliere di Amministrazione della società Pisa Sporting Club dal 20 giugno 2018 al 20 gennaio 2021, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 commi 1 e 2 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, il Bilancio al 30 giugno 2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 1.200.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 2.100.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine dell’esercizio e del trimestre così da ottenere la Licenza Nazionale e l’iscrizione al campionato della stagione 2020/2021 in assenza dei requisiti previsti dalla normativa federale; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

48. Il Sig. Giovanni Polvani, Consigliere di Amministrazione della società Pisa Sporting Club dal 20 giugno 2018 al 20 gennaio 2021, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 commi 1 e 2 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, il Bilancio al 30 giugno 2020 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 1.200.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 2.100.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine dell’esercizio e del trimestre così da ottenere la Licenza Nazionale e l’iscrizione al campionato della stagione 2020/2021 in assenza dei requisiti previsti dalla normativa federale; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

49. Il Sig. Stuart Grant Thomson, Consigliere di Amministrazione della società Pisa Sporting Club dal 20 gennaio 2021, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, la situazione semestrale al 31 dicembre 2020 della società ove sono contabilizzate immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 100.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine dell’esercizio e del trimestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

50. Il Sig. Stephen Gauci, Consigliere di Amministrazione della società Pisa Sporting Club dal 11 maggio 2021, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 2.100.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine dell’esercizio e del trimestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

51. Il Pietro Accardi, Direttore Sportivo della società Empoli FC nella stagione sportiva 2018/2019, dotato di poteri di rappresentanza della Società, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale, per aver sottoscritto le seguenti variazioni di tesseramento ed i relativi accordi di cessione: in data 30 giugno 2019 trasferimento di Marco Olivieri al prezzo di € 2.400.000; in data 30 giugno 2019 trasferimento di Andrea Adamoli al prezzo di € 500.000; indicando in tutti un corrispettivo superiore al reale, in attuazione di un unico disegno finalizzato a commettere le condotte illecite ascritte ai Consiglieri di Amministrazione della Società;

52. Il Sig. Francesco Ghelfi, Amministratore Delegato della società Empoli FC dal 30 agosto 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver sottoscritto in data 13 luglio 2019 la variazione di tesseramento ed il relativo accordo di cessione del diritto alle prestazioni del calciatore Leonardo Mancuso, indicando un corrispettivo pari a € 4.500.000, superiore al reale, in attuazione di un unico disegno finalizzato a commettere le condotte illecite di cui al punto b) che segue e quelle ascritte ai Consiglieri di Amministrazione; b) aver redatto ed approvato, in concorso con gli altri amministratori, il Bilancio al 30 giugno 2019 e al 30 giugno 2020, la relazione semestrale al 31 dicembre 2019 e 31 dicembre 2020 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2020 e 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 900.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 1.900.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine dell’esercizio, del semestre e del trimestre;

53. Il Sig. Fabrizio Corsi, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società Empoli FC dal 30 agosto 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver redatto ed approvato, in concorso con gli altri amministratori, il Bilancio al 30 giugno 2019 e al 30 giugno 2020, la relazione semestrale al 31 dicembre 2019 e 31 dicembre 2020 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2020 e 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 900.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 1.900.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine dell’esercizio, del semestre e del trimestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

54. La Sig.ra Rebecca Corsi, Vice Presidente del Consiglio di Amministrazione della società Empoli FC dal 30 agosto 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver redatto ed approvato, in concorso con gli altri amministratori, il Bilancio al 30 giugno 2019 e al 30 giugno 2020, la relazione semestrale al 31 dicembre 2019 e 31 dicembre 2020 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2020 e 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 1.900.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine dell’esercizio, del semestre e del trimestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

55. Il Luca Campedelli, Amministratore Unico della società AC Chievo Verona dal 27 marzo 2019 al 25 settembre 2020 e dal 20 settembre 2021, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver sottoscritto le seguenti variazioni di tesseramento ed i relativi accordi di cessione: in data 28 giugno 2019 trasferimento di Maxime Leverbe al prezzo di € 600.000; . in data 29 giugno 2019 trasferimento di David Ivan al prezzo di € 900.000 indicando in tutti un corrispettivo superiore al reale, in attuazione di un unico disegno finalizzato a commettere le condotte illecite di cui al punto b) che segue e quelle di seguito ascritte al Sig. Giuseppe Campedelli; b) aver redatto e sottoscritto la relazione semestrale al 31 dicembre 2019 e la relazione trimestrale al 31.03.2020 della società ove sono contabilizzate immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 1.100.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine del semestre e del trimestre;

56. Il Sig. Giuseppe Campedelli, Amministratore Unico della società AC Chievo Verona dal 25 settembre 2020 al 19 settembre 2021, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per aver redatto e sottoscritto il Bilancio al 30 giugno 2020, la relazione semestrale al 31 dicembre 2020 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 1.100.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine dell’esercizio, del semestre e del trimestre;

57. Il Sig. Orlando Urbano, Consigliere di amministrazione della società Novara Calcio dal 30/12/2019 al 05/11/2020, dotato di poteri di rappresentanza della Società, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per aver sottoscritto le seguenti variazioni di tesseramento ed i relativi accordi di cessione: in data 11 settembre 2020 trasferimento di Tommaso Barbieri al prezzo di € 400.000; in data 11 settembre 2020 trasferimento di Francesco Lamanna al prezzo di € 900.000 indicando in tutti un corrispettivo superiore al reale, in attuazione di un unico disegno finalizzato a commettere le condotte illecite ascritte ai Consiglieri di Amministrazione della Società;

58. Il Sig. Maurizio Rullo, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società Novara Calcio dal 5 novembre 2020, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per aver redatto, sottoscritto ed approvato, in concorso con gli altri amministratori, la relazione semestrale al 31 dicembre 2020 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 900.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine del semestre e del trimestre;

59. Il Sig. Daniele Sebastiani, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società Delfino Pescara 1936 dal 29 agosto 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver sottoscritto le seguenti variazioni di tesseramento ed i relativi accordi di cessione: in data 31 gennaio 2019 trasferimento di Paolo Napoletano al prezzo di € 000.000; in data 29 giugno 2019 trasferimento di Cristian Galano al prezzo di € 2.000.000; in data 29 giugno 2019 trasferimento di Fabian Pavone al prezzo di € 1.800.000; in data 29 giugno 2019 trasferimento di Alessandro Martella al prezzo di € 500.000; in data 1 agosto 2020 trasferimento di Matteo Luigi Brunori al Parma al prezzo di € 1.000.000; in data 31 gennaio 2020 trasferimento di Marco D’Aloia al prezzo di € 2.800.000; in data 31 gennaio 2020 trasferimento di Simone Madonna al prezzo di € 1.000.000; in data 31 gennaio 2020 trasferimento di Davide Cipolletti al prezzo di € 1.200.000; in data 31 gennaio 2020 trasferimento di Stefano Palmucci al prezzo di € 3.000.000; in data 24 gennaio 2020 trasferimento di Edoardo Masciangelo al prezzo di € 2.300.000; in data 24 gennaio 2020 trasferimento di Matteo Luigi Brunori alla Juventus al prezzo di € 2.850.000; indicando in tutti un corrispettivo superiore al reale, in attuazione di un unico disegno finalizzato a commettere le condotte illecite di cui al punto b) che segue e quelle ascritte ai Consiglieri di Amministrazione; b) aver redatto, sottoscritto ed approvato, in concorso con gli altri amministratori, il Bilancio di esercizio al 30 giugno 2019 e 30 giugno 2020, la relazione semestrale al 31dicembre 2019 e 31 dicembre 2020 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2019, 31 marzo 2020 e 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 8.765.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 6.536.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine dell’esercizio, del semestre e del trimestre;

60. Il Sig. Gabriele Bankowski, Consigliere di Amministrazione della società Delfino Pescara 1936 dal 29 agosto 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, il Bilancio di esercizio al 30 giugno 2019 e 30 giugno 2020, la relazione semestrale al 31 dicembre 2019 e 31 dicembre 2020 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2020 e 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 8.765.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 6.536.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine del semestre e del trimestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

61. Il Sig. Roberto Druda, Consigliere di Amministrazione della società Delfino Pescara 1936 dal 29 agosto 2018, per la violazione dell’obbligo di osservanza delle norme federali nonché dei doveri di lealtà, correttezza e probità di cui all’art. 4, comma 1 e dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, anche in relazione all'art. 19 dello statuto federale per: a) aver approvato, in concorso con gli altri amministratori, il Bilancio di esercizio al 30 giugno 2019 e 30 giugno 2020, la relazione semestrale al 31 dicembre 2019 e 31 dicembre 2020 e la situazione trimestrale al 31 marzo 2019, 31 marzo 2020 e 31 marzo 2021 della società ove sono contabilizzate plusvalenze fittizie per complessivi € 765.000 e immobilizzazioni immateriali di valore superiore al massimo consentito dalle norme che regolano i Bilanci delle società di capitali per complessivi € 6.536.000, condotte finalizzate a far apparire risultati economici superiori al reale (maggiori utili o minori perdite) e un Patrimonio Netto superiore a quello realmente esistente alla fine del semestre e del trimestre; b) non aver posto in essere, in adempimento dell’obbligo di agire informato ed esprimere dissenso rispetto ad irregolarità amministrative della gravità descritta al punto a), condotte idonee a rilevare l’alterazione dei conti sociali e apportare le dovute correzioni agli stessi;

62. La società FC Juventus Spa a titolo di responsabilità: a) propria ai sensi dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per avere alterato sistematicamente i documenti contabili depositati presso la Co.Vi.So.C. a partire almeno dalla situazione trimestrale al 31 marzo 2019 ed almeno fino alla situazione trimestrale al 31 marzo 2021; b) diretta ai sensi dell’art. art. 6, comma 1, del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per gli atti e comportamenti posti in essere dai ri Andrea Agnelli, Pavel Nedved, Fabio Paratici e Federico Cherubini, così come riportati nei precedenti capi di incolpazione; c) oggettiva ai sensi dell’art. art. 6, comma 2, del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per gli atti e comportamenti posti in essere dai Sigg.ri Vellano, Garimberti, Grazioli-Venier, Arrivabene, Hughes, Marilungo e Roncaglio, così come riportati nei precedenti capi di incolpazione;

63. La società UC Sampdoria Spa a titolo di responsabilità: a) propria ai sensi dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per avere alterato sistematicamente i documenti contabili depositati presso la Co.Vi.So.C. a partire almeno dalla situazione trimestrale al 31 marzo 2019 ed almeno fino alla situazione trimestrale al 31 marzo 2021; b) diretta ai sensi dell’art. art. 6, comma 1, del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per gli atti e comportamenti posti in essere dai sigg.ri Massimo Ferrero e Massimo Ienca, così come riportati nei precedenti capi di incolpazione; c) oggettiva ai sensi dell’art. art. 6, comma 2, del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per gli atti e comportamenti posti in essere dai ri Romei Antonio, Fiorentino Paolo, Repetto Paolo, Praga Adolfo, Tognozzi Gianluca, Invernizzi Giovanni, Profiti Giuseppe, Castanini Enrico e Vidal Gianluca così come riportati nei precedenti capi di incolpazione;

64. La società SSC Napoli Spa a titolo di responsabilità: a) propria ai sensi dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per avere alterato sistematicamente i documenti contabili depositati presso la Co.Vi.So.C. a partire almeno dalla situazione semestrale al 3 dicembre 2020 ed almeno fino alla situazione trimestrale al 31 marzo 2021; b) diretta ai sensi dell’art. 6, comma 1, del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per gli atti e comportamenti posti in essere dai sigg.ri Aurelio De Laurentiis e Andrea Chiavelli, così come riportati nei precedenti capi di incolpazione; c) oggettiva ai sensi dell’art. art. 6, comma 2, del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per gli atti e comportamenti posti in essere dai Sigg.ri Jacqueline Marie Baudit, Edoardo De Laurentiis, Valentina De Laurentiis, così come riportati nei precedenti capi di incolpazione;

65. La società FC Pro Vercelli 1892 Srl a titolo di responsabilità: a) propria ai sensi dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per avere alterato sistematicamente i documenti contabili depositati presso la Vi.So.C. a partire almeno dalla situazione trimestrale al 31 marzo 2021; b) diretta ai sensi dell’art. art. 6, comma 1, del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per gli atti e comportamenti posti in essere dai sigg.ri Anita Angiolini, Franco Smerieri e Paolo Pinciroli, così come riportati nei precedenti capi di incolpazione;

66. La società Genoa CFC Spa a titolo di responsabilità: a) propria ai sensi dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per avere alterato sistematicamente i documenti contabili depositati presso la Co.Vi.So.C. a partire almeno dal Bilancio al 31 dicembre 2020 ed almeno fino alla situazione trimestrale al 31 marzo 2021; b) diretta ai sensi dell’art. 6, comma 1, del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per gli atti e comportamenti posti in essere dai sigg.ri Enrico Preziosi e Alessandro Zarbano, così come riportati nei precedenti capi di incolpazione; c) oggettiva ai sensi dell’art. art. 6, comma 2, del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per gli atti e comportamenti posti in essere dai Sigg.ri Diodato Abagnara e Giovanni Blondet, così come riportati nei precedenti capi di incolpazione;

67. La società Parma Calcio 1913 Srl a titolo di responsabilità propria ai sensi dell’art. 31 commi 1 e 2 del Codice di Giustizia Sportiva per avere alterato sistematicamente i documenti contabili depositati presso la Co.Vi.So.C. a partire almeno dalla situazione trimestrale al 31 marzo 2019 ed almeno fino al Bilancio al 30 giugno 2020, ottenendo il rilascio della Licenza nazionale per la stagione 2020/2021 in assenza dei requisiti richiesti;

68. La società Pisa Sporting Club Srl a titolo di responsabilità: a) propria ai sensi dell’art. 31 commi 1 e 2 del Codice di Giustizia Sportiva per avere alterato sistematicamente i documenti contabili depositati presso la Vi.So.C. a partire almeno dalla situazione trimestrale al 31 marzo 2019 ed almeno fino alla situazione trimestrale al 31 marzo 2021, ottenendo il rilascio della Licenza nazionale per la stagione 2020/2021 in assenza dei requisiti richiesti; b) diretta ai sensi dell’art. art. 6, comma 1, del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per gli atti e comportamenti posti in essere dai sigg.ri Giuseppe Corrado, Raffaella Viscardi e Giovanni Corrado, così come riportati nei precedenti capi di incolpazione; c) oggettiva ai sensi dell’art. art. 6, comma 2, del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per gli atti e comportamenti posti in essere dai Sigg.ri Julie Michelle Harper, Alexander Knaster, Marco Lippi, Mirko Paletti, Giovanni Polvani, Stuart Grant Thomson, Stephen Gauci, così come riportati nei precedenti capi di incolpazione;

69. La società Empoli FC Spa a titolo di responsabilità: a) propria ai sensi dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva per avere alterato sistematicamente i documenti contabili depositati presso la Co.Vi.So.C. a partire almeno dal Bilancio al 30 giugno 2019 ed almeno fino alla situazione trimestrale al 31 marzo 2021; b) diretta ai sensi dell’art. art. 6, comma 1, del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per gli atti e comportamenti posti in essere dai sigg.ri Fabrizio Corsi e Francesco Ghelfi e Pietro Accardi, così come riportati nei precedenti capi di incolpazione; c) oggettiva ai sensi dell’art. art. 6, comma 2, del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per gli atti e comportamenti posti in essere dalla Sig.ra Rebecca Corsi, così come riportati nei precedenti capi di incolpazione;

70. La società AC Chievo Verona Srl a titolo di responsabilità: a) propria ai sensi dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva per avere alterato sistematicamente i documenti contabili depositati presso la Vi.So.C. a partire almeno dalla situazione semestrale al 31 dicembre 2019 ed almeno fino alla situazione trimestrale al 31 marzo 2021; b) diretta ai sensi dell’art. art. 6, comma 1, del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per gli atti e comportamenti posti in essere dai sigg.ri Luca Campedelli e Giuseppe Campedelli, così come riportati nei precedenti capi di incolpazione;

71. La società Novara Calcio Spa a titolo di responsabilità: a) propria ai sensi dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva per avere alterato sistematicamente i documenti contabili depositati presso la Vi.So.C. a partire almeno dalla situazione semestrale al 31 dicembre 2020 ed almeno fino alla situazione trimestrale al 31 marzo 2021; b) diretta ai sensi dell’art. art. 6, comma 1, del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per gli atti e comportamenti posti in essere dal sig. Maurizio Rullo e Orlando Urbano, così come riportati nei precedenti capi di incolpazione;

72. La società Delfino Pescara 1936 Spa a titolo di responsabilità: a) propria ai sensi dell’art. 31 comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva per avere alterato sistematicamente i documenti contabili depositati presso la Co.Vi.So.C. a partire almeno dalla situazione trimestrale al 31 marzo 2019 ed almeno fino alla situazione trimestrale al 31 marzo 2021; b) diretta ai sensi dell’art. art. 6, comma 1, del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per gli atti e comportamenti posti in essere dal sig. Daniele Sebastiani così come riportati nei precedenti capi di incolpazione; c) oggettiva ai sensi dell’art. 6, comma 2, del Codice di Giustizia Sportiva in vigore per gli atti e comportamenti posti in essere dai Sigg.ri Gabriele Bankowski e Roberto Druda, così come riportati nei precedenti capi di incolpazione.

Con decisione n. 0128/TFNSD-2021-2022 il Tribunale federale - previo stralcio delle posizioni dei sigg.ri Orlando Urbano e Maurizio Rullo con restituzione alla Procura federale dei relativi atti - statuiva il proscioglimento da ogni addebito di tutti i deferiti.

Il Tribunale riteneva anzitutto di dichiarare assorbita la richiesta avanzata dalle difese dei deferiti e volte all’acquisizione della Nota della Procura federale 10940/pf/GC/blp del 14 aprile 2021 inviata dalla medesima Procura federale alla Co.Vi.So.C. e da quest’ultima citata nella nota della Co.Vi.So.C. del 19 ottobre 2021 (prot. 8260/2021).

Nel merito, poi, il Tribunale federale riteneva che solo alcune delle cessioni esaminate presentassero quelle caratteristiche che la stessa Procura federale aveva individuato quali elementi sintomatici di operazioni fittizie e che, benché sospette, dette cessioni (e relative plusvalenze) non superassero la soglia della ragionevole certezza in termini, appunto, di fittizietà.

Secondo il Tribunale, allora, il metodo di valutazione adottato dalla Procura federale poteva essere ritenuto «un» metodo di valutazione, ma non «il» metodo di valutazione. Il confronto con le valutazioni presenti nel sito Transfermarkt (per quanto utilizzate in talune perizie o richiamate in alcuni contratti per volontà convenzionale delle parti contraenti) non poteva corroborare la citata fittizietà. Rispetto a quello adottato dalla Procura federale, dunque, potevano contrapporsi altri metodi di valutazione, ugualmente degni di apprezzamento. In conclusione, il Tribunale riteneva che non esistesse «il» metodo di valutazione del valore del corrispettivo di cessione/acquisizione delle prestazioni sportive di un calciatore. Il valore di mercato - sosteneva il Tribunale - rappresenta il valore pagato dalla società acquirente al termine di una contrattazione libera, reale ed effettiva di quel diritto sul mercato di riferimento; e il libero mercato non può essere guidato da un metodo valutativo (quale che esso sia) che individui e determini il giusto valore di ogni singola cessione. Non foss’altro - riteneva sempre il Tribunale - perché, in tal caso, il libero mercato non esisterebbe più per la fissazione di corrispettivi di cessione sostanzialmente predeterminati da quel metodo di valutazione. E non era un caso - concludeva il Tribunale - che la stessa Procura federale avesse dovuto riferirsi essa stessa alla difficoltà di individuazione del c.d. fair value e al richiamo di parametri individuati da dottrina e prassi, anch’essi in realtà tutt’altro che oggettivi e invece soggettivi tanto quanto le plusvalenze che si volevano criticare. Di qui, come detto, il proscioglimento di tutti i deferiti.

Avverso una tale decisione, interponeva reclamo la Procura federale affidandosi a plurimi motivi. Deduceva, in particolare, la Procura federale l’irragionevolezza ed erroneità della motivazione in relazione ai principi giurisprudenziali dettati in occasioni ritenute assimilabili, pur essendosi la medesima Procura attenuta scrupolosamente nel proprio agire ai processi valutativi critici utilizzati in passato rispetto a casi di plusvalenze fittizie. Deduceva quindi una omessa ed errata pronuncia anche solo sotto il profilo dei principi sanciti dall’art. 4 del CGS, dovendosi per l’appunto ritenere incomprensibile non solo il rigetto della contestazione concernente la violazione dell’art. 31 CGS, ma finanche la contestazione della violazione dei basilari principi di lealtà, correttezza e probità stabiliti dall’ordinamento federale. Deduceva ancora la Procura federale la contraddittorietà della motivazione con la quale il Tribunale aveva ritenuto inesistente «il» metodo di valutazione del valore del corrispettivo di cessione/acquisizione delle prestazioni sportive di un calciatore, nonché l’erronea applicazione dei principi in materia di onere della prova, avendo sostanzialmente chiesto il Tribunale la certezza assoluta della commissione dell’illecito.

Alla luce degli esposti motivi, la Procura federale concludeva quindi per la riforma integrale della decisione gravata con l’affermazione di responsabilità degli appellati per tutte le violazioni agli stessi ascritte con l’atto di deferimento.

Tutti i deferiti si costituivano nel procedimento per resistere al reclamo della Procura federale, chiedendone in ogni caso il rigetto. Secondo le difese dei deferiti appellati, i richiami giurisprudenziali della Procura federale, al pari dei metodi valutativi dalla stessa proposti per criticare la decisione del Tribunale, risultavano ora inconferenti ora carenti di attinenza alle caratteristiche dei calciatori trasferiti e alle consulenze tecniche prodotte in giudizio quanto meno da alcuni dei deferiti. La decisione del Tribunale, dunque, doveva ritenersi correttamente motivata su una ratio decidendi assolutamente logica ovvero che “in assenza di qualsiasi elemento sintomatico dell’esistenza di accordi tra le società cedenti e quelle acquirenti volti alla fittizia sopravvalutazione dei diritti alle prestazioni sportive dei giocatori nonché di una disposizione regolatrice generale […] quelle di cui si discute non [potessero] che essere considerate trattative di libero mercato” (così la memoria in appello della FC Juventus S.p.A.). Per tale ragione, “il Tribunale federale, esclusa la sussistenza di elementi probatori dimostrativi di un uso strumentale ed improprio della libertà di contrarre da parte dei deferiti, riconosciuta l’inesistenza di criteri normativi predeterminati in base ai quali attribuire uno specifico valore ai diritti alle prestazioni sportive di un calciatore e ritenuto inutilizzabile il metodo di valutazione elaborato dalla Procura federale, ha quindi logicamente statuito che le cessioni oggetto del deferimento non possono costituire illecito disciplinare” (così ancora la memoria FC Juventus S.p.A.).

Peraltro, con motivazioni sostanzialmente sovrapponibili, più deferiti proponevano reclamo incidentale, impugnando la pronuncia di primo grado nella parte in cui aveva ritenuto assorbita la richiesta di acquisizione della nota della Procura federale 10940/pf/GC/blp del 14 aprile 2021.

Come già accennato, tale comunicazione della Procura federale (di contenuto incognito) risultava citata nella relazione della Co.Vi.So.C. del 19 ottobre 2021 (prot. 8260/2021) che la stessa Procura federale aveva posto ad origine della propria indagine. Nella nota Co.Vi.So.C. del 19 ottobre 2021, più in particolare, si legge(va) che “la Co.Vi.So.C. – anche in base alle indicazioni interpretative fornite da codesta Procura federale con propria nota 10940/pf/GC/blp del 14 aprile u.s. – ritiene che talune delle situazioni emerse nel corso dell’attività condotta debbano essere segnalate trattandosi di fattispecie per le quali non è agevole apprezzare quali siano i criteri a cui si sono attenuti i contraenti allo scopo di pattuire il relativo prezzo”.

Il reclamo incidentale veniva in particolare proposto da: (i) la società FC Juventus S.p.A. e i sigg.ri Andrea Agnelli, Pavel Nedved, Enrico Vellano, Paolo Garimberti, Assia Grazioli-Venier, Maurizio Arrivabene, Caitlin Mary Hughes, Daniela Marilungo, Francesco Roncaglio, Federico Cherubini e Fabio Paratici; (ii) la U.C. Sampdoria S.p.A., e i sigg.ri Massimo Ienca, Massimo Ferrero, Antonio Romei, Paolo Fiorentino, Paolo Repetto, Adolfo Praga, Gianluca Tognozzi, Giovanni Invernizzi, Giuseppe Profiti, Enrico Castanini e Gianluca Vidal; (iii) il Parma Calcio 1913 S.r.l.; e (iv) l’Empoli F.C. S.p.A. e i sigg.ri Pietro Accardi, Francesco Ghelfi, Fabrizio Corsi e Rebecca Corsi.

Si sosteneva, in particolare, che la presenza delle “indicazioni interpretative” fornite dalla Procura federale alla Co.Vi.So.C. dimostrasse che le indagini fossero iniziate prima della data indicata nel registro di cui all’art. 119 C.G.S.. Per la medesima ragione, il reclamo incidentale era volto ad accertare la violazione dei principi di giusto processo e comunque ad ottenere una declaratoria di tardività del deferimento (e relativa improcedibilità). In ogni caso, secondo la ricostruzione dei reclamanti incidentali, alla violazione del termine previsto per la iscrizione della notizia dell'illecito doveva conseguire l’inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine di sessanta giorni calcolato a partire dal momento in cui si sarebbe dovuto iscrivere la notizia dell’illecito nell’apposito registro (cioè entro 30 giorni dal 14 aprile 2021, con termine calcolato ai sensi dell’art. 119, comma 3, C.G.S.). Risultavano pertanto certamente inutilizzabili – sempre secondo i reclamanti incidentali – gli atti di indagine compiuti successivamente al 14 luglio 2021 (60 giorni dopo il 14 maggio 2021).

Con decisione n. 0089/CFA-2021-2022 del 27 maggio 2022 (decisione oggi gravata da revocazione) la Corte federale di Appello, Sezioni Unite, rigettava il reclamo proposto dalla Procura federale.

La Corte federale, peraltro, riteneva utile correggere – almeno in parte – l’iter motivazionale del rigetto del deferimento. Segnalava, allora, la Corte federale che “è erronea la statuizione del Tribunale federale secondo cui l’inesistenza de «il» metodo di valutazione del valore del corrispettivo di cessione/acquisizione delle prestazioni sportive di un calciatore possa legittimare l’iscrizione in bilancio di diritti per qualsiasi importo, svincolati da considerazioni inerenti l’utilità futura del diritto nonché [da] elementi di coerenza della transazione. Ciò, difatti, renderebbe legittima qualsiasi plusvalenza e introdurrebbe un’anarchia valutativa che nessun sistema - e quindi neanche quello federale - può tollerare. È evidente che, in qualsiasi valutazione, un metodo deve essere sempre utilizzato. Ma non si può contestare il modo di procedere perché è solo uno dei metodi ammissibili; lo si può contestare, eventualmente, solo perché quel metodo manca di determinati fondamenti”.

Ciò precisato, la Corte federale aderiva all’asserzione del Tribunale federale per cui si deve “prendere atto dell’inesistenza, a livello di ordinamento federale, di criteri normativamente sanciti”, di guisa che “la questione più ardua che il Collegio si è trovato ad affrontare [è] la mancanza di una pre-definizione di criteri ai quali fare riferimento. […] Tale presa d’atto, quindi, ha agito nel senso di impedire a questo Collegio di porre a sé stesso la premessa maggiore indispensabile in ogni sillogismo giudiziale: la norma espressa”.

Da simili premesse, pertanto, la Corte federale giungeva ad una duplice conclusione. Per un verso, affermava la ragione fondante il rigetto del reclamo: “l’esame delle 17 operazioni (costituite da due o più compravendite per un totale di 59 compravendite) ha evidenziato indubbiamente l’esistenza di notevoli e diffuse criticità. Peraltro, proprio l’assenza di parametri normativamente sanciti – come sopra detto - ha reso particolarmente complessa e delicata l’operazione del Collegio di sceverare, all’interno dell’ampia platea di operazioni, quelle che, con ragionevole certezza giudiziale, potessero essere considerate rilevanti sotto il profilo disciplinare”.

Per altro verso, proponeva l’invito – ad oggi rimasto inascoltato (e vi si tornerà anche oltre) – ad un intervento normativo ritenuto “tanto più indispensabile se si considera che le operazioni in oggetto – relative alla compravendita dei diritti alle prestazioni dei calciatori – e i valori a cui vengono effettuate, influenzano in misura determinante la qualità del bilancio e la sua finalità, cioè la rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, finanziaria e reddituale di una società sportiva. Come si è detto, dall’analisi della documentazione in atti vi è la diffusa percezione che alcuni valori si siano formati in modo totalmente slegato da una regolare transazione di mercato ma non è possibile verificare se le modalità della loro formazione rispettino delle regole codificate perché non esistenti. Si ritiene pertanto indispensabile la definizione di principi-guida nelle valutazioni che possano permettere di verificare se le scelte concrete delle società da essi si discostino, individuando una serie di elementi di riferimento”.

Avverso la citata decisione n. 0089/CFA-2021-2022 del 27 maggio 2022 propone ora ricorso per revocazione parziale la Procura federale. Con tale ricorso, essa chiede:

a) di ritenere ammissibile e fondata, ai sensi dell’art. 63 del C.G.S., l’istanza di revocazione formulata con riferimento alla decisione della Corte federale di Appello, Sezioni Unite, n. 0089/CFA-2021-2022 del 27 maggio 2022, divenuta definitiva; e, per l’effetto

b) in parziale riforma della decisione impugnata per revocazione, in ordine alle incolpazioni di cui all’atto di deferimento prot. 7506/233pf21-22/GC/GR/blp del 1.04.2022, di “infliggere le sanzioni che verranno richieste da questo Ufficio in sede di udienza di discussione o, in subordine, quelle ritenute di giustizia ” nei confronti dei seguenti soggetti: Sig. Fabio Paratici, Chief Football Officer della società FC Juventus SpA nelle stagioni sportive dalla 2018/2019 alla 2020/2021, dotato di poteri di rappresentanza della Società; 2. Sig. Federico Cherubini, Head of Football Teams & T.A. della società FC Juventus SpA nelle stagioni sportive 2019/2020 e 2020/2021, dotato di poteri di rappresentanza della Società; 3 . Sig. Andrea Agnelli, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società FC Juventus SpA dal 25 ottobre 2018; 4. Sig. Pavel Nedved, Consigliere di Amministrazione della società FC Juventus SpA dal 25 ottobre 2018; 5. Sig. Enrico Vellano, Consigliere di Amministrazione della società FC Juventus SpA dal 25 ottobre 2018; 6. Sig. Paolo Garimberti, Consigliere di Amministrazione della società FC Juventus SpA dal 25 ottobre 2018; 7. Sig.ra Assia Grazioli-Venier, Consigliere di Amministrazione della società FC Juventus SpA dal 25 ottobre 2018; 8. Sig. Maurizio Arrivabene, Consigliere di Amministrazione della società FC Juventus SpA dal 25 ottobre 2018; 9. Sig.ra Caitlin Mary Hughes, Consigliere di Amministrazione della società FC Juventus SpA dal 25 ottobre 2018; 10. Sig.ra Daniela Marilungo, Consigliere di Amministrazione della società FC Juventus SpA dal 25 ottobre 2018; 11. Sig. Francesco Roncaglio, Consigliere di Amministrazione della società FC Juventus SpA dal 25 ottobre 2018; 12. Sig. Massimo Ienca, Segretario Generale della società UC Sampdoria nelle stagioni sportive 2018/2019 e 2019/2020, dotato di poteri di rappresentanza della Società; 13. Sig. Massimo Ferrero, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società UC Sampdoria dal 28 dicembre 2018 al 27 dicembre 2021; 14. Sig Antonio Romei, Vice Presidente del Consiglio di Amministrazione della società UC Sampdoria dal 28 dicembre 2018 al 6 agosto 2020; 15. Sig. Paolo Fiorentino, Vice Presidente del Consiglio di Amministrazione dal 28 dicembre 2018 fino al 6 agosto 2020 e Consigliere dal 7 agosto 2020 della società UC Sampdoria; 16. Sig. Paolo Repetto, Consigliere della società UC Sampdoria dal 28 dicembre 2018 al 6 agosto 2020; 17. Sig. Adolfo Praga, Consigliere della società UC Sampdoria dal 28 dicembre 2018 al 6 agosto 2020; 18. Sig. Gianluca Tognozzi, Consigliere della società UC Sampdoria dal 28 dicembre 2018 al 6 agosto 2020; 19. Sig. Giovanni Invernizzi, Consigliere della società UC Sampdoria dal 28 dicembre 2018 al 6 agosto 2020; 20. Sig. Giuseppe Profiti, Consigliere della società UC Sampdoria dal 7 agosto 2020; 21. Sig. Enrico Castanini, Consigliere della società UC Sampdoria dal 7 agosto 2020; 22. Sig. Gianluca Vidal, Consigliere della società UC Sampdoria dal 7 agosto 2020; 23. Sig. Franco Smerieri, FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO Presidente del Consiglio di Amministrazione della società FC Pro Vercelli 1892 dal 24 settembre 2020; 24. Sig.ra Anita Angiolini, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società FC Pro Vercelli 1892 dal 6 agosto 2020 al 24 settembre 2020 e Vice Presidente dal 25 settembre 2020; 25. Sig. Paolo Pinciroli, Amministratore Delegato della società FC Pro Vercelli 1892 dal 24 settembre 2020; 26. Sig. Enrico Preziosi, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società Genoa CFC dal 28 aprile 2018; 27. Sig. Giovanni Blondet, Vice Presidente della società Genoa CFC dal 28 aprile 2018 al 28 novembre 2021; 28. Sig. Alessandro Zarbano, Amministratore Delegato della società Genoa CFC dal 28 aprile 2018; 2 9 . Sig. Diodato Abagnara, Consigliere di Amministrazione della società Genoa CFC dal 28 aprile 2018 al 28 novembre 2021; 3 0 . Sig. Luca Carra, Amministratore delegato della società Parma Calcio 1913 dal 9 novembre 2018 al 18 settembre 2020; 31. Sig. Marco Ferrari, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società Nuovo Inizio Srl, incorporante della Parma Calcio 1913, dal 17/01/2020; 32. Sig. Pietro Pizzarotti, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società Parma Calcio 1913 dal 9 novembre 2018 al 18 settembre 2020; 33. Sig. Giacomo Malmesi, Consigliere di Amministrazione della società Parma Calcio 1913 dal 9 novembre 2018 al 18 settembre 2020 e della società incorporante Nuovo Inizio srl dal 17/01/2020; 34. Sig. Paolo Piva, Consigliere di Amministrazione della società Parma Calcio 1913 dal 9 novembre 2018 al 18 settembre 2020; 35. Sig. Marco Tarantino, Consigliere di Amministrazione della società Parma Calcio 1913 dal 9 novembre 2018 al 18 settembre 2020; 36. Sig. Giovanni Corrado, Amministratore Delegato della società Pisa Sporting Club dal 20 giugno 2018; 37. Sig. Giuseppe Corrado, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società Pisa Sporting Club dal 20 giugno 2018; 38. Sig.ra Raffaella Viscardi, Amministratore Delegato della società Pisa Sporting Club dal 20 giugno 2018; 39. Sig.ra Julie Michelle Harper, Consigliere di Amministrazione della società Pisa Sporting Club dal 20 gennaio 2021; 40. Sig. Alexander Knaster, Consigliere di Amministrazione della società Pisa Sporting Club dal 20 gennaio 2021; 41. Sig. Marco Lippi, Consigliere di Amministrazione della società Pisa Sporting Club dal 20 gennaio 2021; 42. Sig. Mirko Paletti, Consigliere di Amministrazione della società Pisa Sporting Club dal 20 giugno 2018 al 20 gennaio 2021; 43. Sig. Giovanni Polvani, Consigliere di Amministrazione della società Pisa Sporting Club dal 20 giugno 2018 al 20 gennaio 2021; 44. Sig. Stuart Grant Thomson, Consigliere di Amministrazione della società Pisa Sporting Club dal 20 gennaio 2021; 45. Sig. Stephen Gauci, Consigliere di Amministrazione della società Pisa Sporting Club dal 11 maggio 2021; 46. Sig. Pietro Accardi, Direttore Sportivo della società Empoli FC nella stagione sportiva 2018/2019, dotato di poteri di rappresentanza della Società; 47. Sig. Francesco Ghelfi, Amministratore Delegato della società Empoli FC dal 30 agosto 2018; 48. Sig. Fabrizio Corsi, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società Empoli FC dal 30 agosto 2018; 49. Sig.ra Rebecca Corsi, Vice Presidente del Consiglio di Amministrazione della società Empoli FC dal 30 agosto 2018; 50. Sig. Daniele Sebastiani, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società Delfino Pescara 1936 dal 29 agosto 2018; 51. Sig. Gabriele Bankowki, Consigliere di Amministrazione della società Delfino Pescara 1936 dal 29 agosto 2018; 52. Sig. Roberto Druda, Consigliere di Amministrazione della società Delfino Pescara 1936 dal 29 agosto 2018; 53. la società FC Juventus SpA; 54. la società UC Sampdoria; 55. la società FC Pro Vercelli 1892 Srl; 56. la società Genoa CFC SpA; 57. la società Parma Calcio 1913 Srl; 58. la società Pisa Sporting Club Srl; 59. la società Empoli FC SpA; 60. la società Novara Calcio SpA; 61. la società Delfino Pescara 1936 SpA.

A fondamento del ricorso per revocazione, e ai fini del giudizio rescindente, la Procura federale allega: (i) di avere ricevuto, in data 24 novembre 2022, dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, copia degli atti contenuti nel fascicolo del procedimento penale n. 12955/2021 R.G.N.R.; e (ii) che detta documentazione costituisce una “rilevantissima mole di atti e documenti, composta da circa di 14mila pagine, costituenti le risultanze istruttorie poste a base delle contestazioni di reato formulate nei confronti di 15 soggetti, tra dirigenti, legali rappresentanti, membri del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale, revisori legali e consulenti della società FC Juventus S.P.A.”, oltre che nei confronti della stessa FC Juventus FC S.p.a. quale ente responsabile delle condotte dei suoi dipendenti e soggetti apicali.

Nel corpo del ricorso, quindi, la Procura federale rappresenta “che la predetta documentazione [aveva] consentito di conoscere elementi nuovi, sopravvenuti rispetto alla decisione della Corte federale di Appello a Sezioni Unite [impugnata], la cui conoscenza avrebbe certamente comportato una diversa pronuncia” e che, pertanto, sussistono tutti i presupposti di cui all’art. 63, comma 1, lett. d), CGS. Premesso allora di avere escluso dal ricorso la società SSC Napoli e la società AC Chievo Verona Srl, e i rispettivi dirigenti, per l’integrale assenza di operazioni di scambio dirette con la FC Juventus S.p.A. (di qui la ragione di una revocazione parziale), la Procura federale sottolinea gli atti di particolare valenza dimostrativa fondanti le ragioni di revocazione e costituiti in particolare (i) da intercettazioni telefoniche e ambientali, (ii) da documenti sequestrati nell’ambito di perquisizioni presso la sede della FC Juventus S.p.A. e presso ulteriori luoghi d’interesse, (iii) dalla delibera Consob n. 22482/2022 del 19.10.2022 (ex art. 154ter comma 7 t.u.f.) e (iv) dai comunicati stampa della FC Juventus S.p.A.. Detti elementi istruttori, secondo la Procura federale, confermano l’esistenza di un sistema collaudato della FC Juventus S.p.A. di scambi incrociati di calciatori con altre società sportive, finalizzati alla realizzazione di plusvalenze artificiali. Secondo la ricostruzione della Procura federale, dunque, all’annullamento della decisione della Corte federale 0089/CFA-2021-2022 del 27 maggio 2022 deve poi conseguire, in sede di giudizio rescissorio, la condanna dei deferiti.

Avverso il ricorso ora detto, si sono costituiti in giudizio tutti i deferiti deducendo l’inammissibilità, sotto plurimo profilo, del ricorso per revocazione, nonché la relativa tardività e comunque l’infondatezza. Viene altresì dedotta l’inutilizzabilità delle intercettazioni. Ed è infine riproposto il reclamo incidentale concernente la mancata acquisizione della nota della Procura federale 10940/pf/GC/blp del 14 aprile 2021, con conseguente declaratoria di violazione dei principi di giusto processo, di inutilizzabilità degli atti di indagine tardivi e infine, in ogni caso, di improcedibilità del deferimento in sé considerato.

Il 20 gennaio 2023, il ricorso per revocazione è stato chiamato in udienza a nuove Sezioni Unite della Corte federale d’Appello. Ancorché già citata in epigrafe, è utile dare brevemente conto dell’ampia discussione tenutasi in detta udienza, rappresentativa anche del contenuto difensionale degli scritti depositati dalle parti.

Nel corso dell’udienza, è stato anzitutto concesso alla Procura federale di illustrare il ricorso sia per la fase rescindente che per la fase rescissoria. La Procura federale, dunque, dopo aver ripercorso le ragioni essenziali del ricorso e i fatti nuovi che a suo dire dovevano portare alla condanna di tutti deferiti (in particolare il c.d. “Libro Nero di Fabio Paratici” redatto in realtà da Federico Cherubini, nonché talune rilevanti intercettazioni di Andrea Agnelli e Maurizio Arrivabene, rispettivamente presidente e amministratore delegato della FC Juventus S.p.A. e infine l’indagine Consob), ha concluso chiedendo l’accoglimento del deferimento nei confronti dei destinatari del ricorso per revocazione, nonché l’applicazione delle seguenti sanzioni: (a) la conferma delle sanzioni già chieste in primo grado per tutti i deferiti diversi dalla FC Juventus S.p.A. e relativi dirigenti; e (b) l’aggravamento delle sanzioni chieste in primo grado per tutti gli amministratori e dirigenti della FC Juventus S.p.A. incrementate di 4 (quattro) mesi di inibizione per ciascuno di essi; nonché (c) la sanzione della FC Juventus S.p.A. a nove (9) punti di penalizzazione da scontarsi nel campionato di serie A in corso di svolgimento.

È stata dunque assegnata la facoltà di intervento alle parti deferite, inizialmente con riguardo alla sola fase rescindente. Ciascun deferito ha dunque illustrato le proprie eccezioni di inammissibilità del ricorso della Procura federale, di violazione del principio del ne bis in idem, di tardività del ricorso della Procura federale e comunque di inutilizzabilità delle intercettazioni. Terminata la prima fase d’udienza, la discussione è proseguita con nuova rotazione di interventi delle sole parti deferite, questa volta in riferimento al giudizio rescissorio, avendo tra l’altro acconsentito la Corte federale all’intervento diretto in discussione dei consulenti tecnici chiamati in particolare dalla FC Juventus S.p.A. e dal Parma Calcio. Nel merito, dunque, i deferiti hanno contestato gli assunti della Procura federale, negando la riconoscibilità di plusvalenze fittizie e affermando l’irrilevanza a tal fine del materiale prodotto dalla Procura federale anche solo sotto il profilo dell’assenza di dolo. I deferiti UC Sampdoria, FC Pro Vercelli 1892, Genoa CFC, Parma Calcio 1913, Pisa Sporting Club, Empoli FC, Novara Calcio e Delfino Pescara 1936, oltre a condividere le tesi della FC Juventus S.p.A., hanno altresì segnalato che nei loro confronti manca il presupposto principe dell’accusa, ovvero la sistematicità di eventuali alterazioni e hanno evidenziato l’impossibilità di utilizzare nei loro confronti materiale probatorio rilevante semmai solo per altre parti in giudizio. Scambiate infine brevi repliche tra tutte le parti, inclusa la Procura federale, e non avendo le difese chiesto ulteriormente la parola o presentato istanze, la causa è stata trattenuta per la decisione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso della Procura federale, proposto ai sensi dell’art. 63, comma 1, lett. d), CGS, deve essere dichiarato ammissibile.

Per l’effetto, deve essere revocata la pronunzia n. 0089/CFA/2021-2022 del 27.05.2022 di questa Corte federale d'appello.

È indiscutibile che il quadro fattuale determinato dalla documentazione trasmessa dalla Procura della Repubblica di Torino alla Procura federale, e da questa riversata a sostegno della revocazione, non era conosciuto dalla Corte federale al momento della decisione revocata e, ove conosciuto, avrebbe determinato per certo una diversa decisione. Esattamente secondo quanto previsto dall’art. 63, comma 1, lett. d), CGS.

E si tratta di un quadro fattuale sostenuto da una impressionante mole di documentazione probatoria.

Per contro, non possono trovare accoglimento le contrarie eccezioni di inammissibilità (sotto plurimi profili) e tardività opposte dai deferiti.

Quale prima ragione di inammissibilità, le difese dei deferiti, anche e soprattutto attraverso le deduzioni della FC Juventus S.p.A. (ma con argomentazioni variamente riprese anche dagli altri resistenti), hanno segnalato che all’istituto della “revocazione in malam partem ex art. 63 C.G.S.” debba essere assegnata natura eccezionale, “con la conseguenza che quanto meno se ne imponga un’interpretazione particolarmente rigorosa” (così in particolare la memoria della FC Juventus S.p.A. poi ripresa in corso di discussione orale). A dire della difesa dei deferiti, dunque, il carattere sostanzialmente penale della sanzione imposta dal CGS (soprattutto in caso di retrocessione o di penalizzazione nel punteggio) imporrebbe un ripensamento dell’istituto, anche nell’ottica di ritenere applicabile il principio del ne bis in idem.

L’eccezione non è fondata.

Pur essendo condivisibile l’assunto di partenza a proposito della natura eccezionale del mezzo di impugnazione in argomento e di una interpretazione rigorosa soprattutto in termini di decisività dei fatti prima non conosciuti o sopravvenuti (rigore che questa Corte non intende in alcun modo tradire), la stessa difesa della FC Juventus S.p.A. è poi costretta ad ammettere che l’ordinamento sportivo prevede una tale revocazione, in ragione dei caratteri di diversità e autonomia che lo connotano.

Caratteristiche - quelle appena enunciate - che non consentono neppure di introdurre eccezioni di inconciliabilità tra la revocazione prevista dell’art. 63 CGS e i principi costituzionali anche afferenti il giusto processo.

La stessa Corte Edu, nelle pronunzie più recenti, ha confermato l’estraneità in radice delle evocate tutele penalistiche rispetto alle sanzioni aventi natura disciplinare, indipendentemente dalla relativa intensità. Vero è che una penalizzazione disciplinare resta comunque distinta ratione materiae da quella penalistica (da ultimo Grande Camera della Corte Edu, Gestur Jónsson e Ragnar Halldór Hall c. Islanda, ric. nn. 68273/14 e 68271/14, 22.12.2020) ed un simile principio è per certo ancora più forte se riferito all’autonomia che deve essere riconosciuta e garantita - come si è detto - all’ordinamento sportivo nel quale ammende, squalifiche inibitorie o punti di penalizzazione sono misura tipica, ben nota agli affiliati (che ne sono avvertiti accettando di assoggettarsi alle relative regole) ed esclusivamente afflittive all’interno del detto ordinamento. Anche quando si è trattato di discutere dei massimi gradi di sanzione disciplinare (retrocessioni o revoche di titolo) la Corte di Cassazione ha ben chiarito si trattasse di “perimetro legale riguardante la «osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale» e i «comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive» (art. 2, comma 1, lett. b), [della L. n. 280/2003] rientranti nella riconosciuta autonomia dell’ordinamento calcistico” (Cassazione civile SS. UU. 13.12.2018, n.32358).

Decisione, quest’ultima, richiamata anche dal Collegio di Garanzia dello Sport a mente del quale è legittimamente devoluta “al legislatore sportivo sia l’osservanza delle diposizioni regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale che delle sue articolazioni, sia le condotte di rilievo disciplinare come l’irrogazione e l’applicazione delle relative sanzioni sportive” (Collegio di Garanzia SS.UU. 13.6.2022 n. 45/2022).

Anche il concorrente profilo di asserita violazione del principio del ne bis in idem non merita seguito. Una volta ritenuto (come si deve) che la revocazione sia possibile anche in malam partem - e i deferiti non lo dubitano – la predetta obiezione si svuota di significato.

Il principio del ne bis in idem si applica certamente al diritto sportivo, ma nel senso di impedire di ritornare sul “già deciso” attraverso un nuovo giudizio e quindi al di fuori di una serie procedimentale prevista espressamente (e composta da una pluralità di gradi processuali). L’elemento comune di tale principio può essere tendenzialmente identificato nel divieto di ritornare sul già deciso, di ripetere un giudizio, in altri termini di compiere una seconda volta (un bis) un’attività svolta, o in via di svolgimento, in quanto forma di sovrapposizione ripetitiva e successiva con un nuovo giudizio processuale sulla medesima regiudicanda, al di fuori, si noti, di una serie procedimentale prevista espressamente (pluralità di gradi o di fasi in un sistema di impugnazione o di riesame o di separazione di giudizi). Pertanto il divieto del bis in idem non può, in modo assolutamente certo, essere riferito a tutte le previsioni di successive fasi processuali o gradi di procedimento espressamente previste (principio di legalità) nei diversi sistemi processuali (rimedi e specifici istituti di carattere impugnatorio, o di revisione, o di riesame o di separazione). (Alta corte di giustizia sportiva, 11 maggio 2012, n. 9).

Pertanto, quando, come nel caso che occupa, si è all’interno di una tale progressione di fasi processuali o gradi di procedimento successivi, espressamente disciplinati dall’applicabile ordinamento (principio di legalità), si è anche all’interno del medesimo processo e non vi è alcun possibile spazio all’applicazione del divieto del ne bis in idem (Corte federale d’appello, Sez. II, n. 76/CFA/2019-2020).

Quanto precede, con la precisazione che anche una assoluzione ottenuta per due gradi di giudizio, se conseguente alla mancata conoscenza di fatti invece decisivi per una eventuale condanna, è soggetta al giudizio di revocazione.

In realtà, è assorbente notare che - come questa Corte ha opportunamente chiarito - “il legislatore federale ha operato un’estensione delle ipotesi di possibilità di ricorso alla revocazione, in funzione del perseguimento ed attuazione del principio di effettività e nella prospettiva di dare soddisfazione all’esigenza di rimuovere dall’ordinamento sportivo decisioni che, per uno dei tassativi casi indicati, appaiano, nella sostanza, distorsive del senso di giustizia. Ha, in altri termini, valorizzato l’istituto di cui trattasi quale rimedio concreto alle possibili ingiustizie che possono essere frutto di una decisione errata” (ex multis Corte federale d’appello, SS.UU., n. 46/2015-2016).

Si è tenuto conto delle peculiarità del giudizio sportivo ed appartiene ad una scelta di effettività della giustizia sportiva anche FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO quella di ritenere rilevante la speditezza di giudizio e, allo stesso tempo, ininfluenti eventuali schemi formalistici. Non è rilevante “la natura dell’elemento di novità [né] la sua qualificazione in termini rigorosamente formali. [L]’opzione autonomamente esercitata dal C.G.S. è stata quella di considerare necessarie e sufficienti ad avviare ammissibilmente il procedimento revocatorio sopravvenienze fattuali, suscettibili di indurre il giudice della revocazione a riconsiderare alla loro luce il precedente assetto decisorio” (Corte di giustizia federale, SS.UU., n. 203/2009-2010; Corte di giustizia federale, SS.UU., n. 31/2013-2014; e ancora Corte federale d’appello, SS.UU., n. 46/2015-2016).

Neppure condivisibile è l’argomento in ragione del quale la revocazione dovrebbe comunque essere limitata all’errore di fatto in ragione di una qualche sovrapposizione al CGS del Codice CONI.

A tal proposito, questa Corte federale ha già precisato che “mentre il codice CONI, prevede che la revocazione di una decisione è possibile solo quando dipende da un errore di fatto risultante incontrovertibilmente da documenti acquisiti successivamente per causa non imputabile all'istante, secondo il codice Figc, invece, la revocazione è possibile nel caso a) di dolo di una delle parti in danno all'altra, b) di prove riconosciute false dopo la decisione, c) di mancata presentazione di documenti influenti a causa di forza maggiore o per fatto altrui, d) di omissione dell’esame di un fatto decisivo che non si è potuto conoscere nel precedente procedimento oppure di sopravvenienza, trascorso il termine per l’appello, di fatti nuovi la cui conoscenza avrebbe comportato una diversa pronuncia, e) di errore di fatto commesso dall’organo giudicante” (Corte federale d’appello, SS.UU., n. 46/2015-2016).

Il Codice di giustizia sportiva, dunque, regola più ipotesi e non solo quella dell’errore di fatto, dalla quale fattispecie anzi la lett. d) dell’art. 63 si distingue nettamente. E non vi è alcun “contrasto normativo” che possa limitare le specifiche ipotesi previste dal CGS. Piuttosto, ma il principio è davvero pacifico, alle singole Federazioni sono concessi spazi di importante autonomia e per tale via “il legislatore federale ha, in modo coerente ed esente dalle censure prospettate, operato una estensione delle ipotesi di possibilità di ricorso alla revocazione” (ancora Corte federale d’appello, SS.UU., n. 46/2015-2016).

Del resto, tale specifica ipotesi di revocazione - prevista dall’attuale Codice di giustizia sportiva della FIGC, approvato con deliberazione CONI n. 258 dell'11 giugno 2019 - risponde a principi consolidati in ambito federale, tanto è vero che essa era prevista - nei medesimi termini – nelle precedenti versioni del Codice di giustizia sportiva FIGC (v. art. 39, comma 1, lett. d), del CGS FIGC, adottato con decreto del Commissario ad acta del 30 luglio 2014 ed approvato con deliberazione del Presidente del CONI n. 112/52 del 31 luglio 2014; v art. 28 del CGS FIGC di cui al Comunicato Ufficiale FIGC 9 agosto 2001 n. 28). Quanto alla natura decisiva degli elementi dimostrativi portati all’attenzione del giudizio rescindente, essa è indubbia. Ove la Corte federale avesse conosciuto i fatti che risultano dimostrati dagli elementi oggi disponibili (fatti che non erano noti o persino sopravvenuti), essa avrebbe per certo assunto una decisione diversa.

All’opposto della lettura datane dai deferiti, la giurisprudenza di questa Corte è esattamente nel senso della ammissibilità della revocazione là ove i fatti dedotti come nuovi mostrino una attitudine effettivamente sostitutiva del fondamento della decisione da revocare, interamente assorbendola in sé per effetto della propria intrinseca efficacia probatoria (Corte federale d’appello, SS.UU., n. 46/2015-2016). E questo effetto è esattamente quello cui si assiste nel caso in discussione. Non avendo poi rilievo i precedenti giurisprudenziali, pur richiamati da alcuni deferiti, che riguardino il diverso caso dell’errore di fatto (ipotesi diversa da quella della lett. d) dell’art. 63 CGS).

La stessa FC Juventus S.p.A. nel grado di giudizio di cui alla decisione qui revocata ha dovuto ammettere che le decisioni di condanna rinvenibili in altri casi precedenti non sono mai state fondate sul recepimento delle stime compiute dalla Procura bensì solo dal ricorrere di molteplici elementi probatori e fattuali dimostrativi di una fittizia sopravvalutazione dei diritti alle prestazioni sportive dei calciatori compravenduti. Dunque, “l’affermazione di responsabilità [negli altri casi] veniva fondata soprattutto sulle dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria penale da parte di soggetti che avevano preso parte in prima persona alle trattative, nonché da parte di alcuni degli stessi deferiti che, sempre in sede penale, avevano reso dichiarazioni di natura essenzialmente confessoria” (memoria FC Juventus S.p.A. 13.5.2022). E la conclusione che - in allora - la società deferita traeva era che il giudizio di artificiosità dei corrispettivi stabiliti per il trasferimento (all’epoca del Genoa e del Como) derivava da un quadro fattuale definito come “lontano anni luce da quello del presente procedimento” (memoria FC Juventus S.p.A. 13.5.2022).

Ma oggi è esattamente un tale quadro fattuale ad essere radicalmente mutato. Il fatto nuovo che prima non era noto è proprio l’avvenuto disvelamento della intenzionalità sottostante all’alterazione delle operazioni di trasferimento e dei relativi valori. Il fatto nuovo - come è stato efficacemente sottolineato dalla Procura federale - è l’assenza di un qualunque metodo di valutazione delle operazioni di scambio e, invece, la presenza di un sistema fraudolento in partenza (quanto meno sul piano sportivo) che la Corte federale non aveva potuto conoscere e alla luce del quale la decisione deve essere diversa da quella qui revocata.

Un quadro fattuale - quello appena citato - dimostrato dalle numerose dichiarazioni (derivanti dalle intercettazioni), dai documenti e dai manoscritti di provenienza interna alla FC Juventus S.p.A. e che hanno tutti una “natura essenzialmente confessoria”.

Semmai, con una aggravante distintiva rispetto a qualunque precedente: proprio con specifico riguardo alla FC Juventus S.p.A., colpisce la pervasività ad ogni livello della consapevolezza della artificiosità del modus operandi della società stessa. Dal direttore sportivo di allora (Paratici) all’allora dirigente suo immediato collaboratore (Cherubini). Dal presidente del consiglio di amministrazione (Agnelli) a tutto il consiglio stesso (citato come consapevole dal medesimo Agnelli). Sino ancora all’azionista di riferimento e all’amministratore delegato (Arrivabene) e ancora passando per tutti i principali dirigenti, inclusi quelli aventi competenza finanziaria e legale. In alcuni casi, con una consapevolezza a tutto tondo dell’artificiosità delle operazioni condotte. In altri casi, con una consapevolezza più superficiale o magari persino di buona fede (ci si riferisce anche all’allenatore della squadra), ma comunque in grado di far dire che tutti fossero direttamente o indirettamente coscienti di una condizione ormai fuori controllo. Sul materiale probatorio disponibile si tornerà anche al momento del giudizio rescissorio. Per quanto d’interesse della fase rescindente qui trattata è senz’altro sufficiente il richiamo ai più rilevanti elementi dimostrativi, citati anche dalla Procura federale. Primo tra tutti è l’inquietante “Libro Nero di FP” (cioè Fabio Paratici). Un tale documento, si noti, non è mai stato disconosciuto dal redattore (Federico Cherubini) ed è stato difeso dalla FC Juventus S.p.A. che, unitamente al predetto dirigente, lo ha fatto proprio, solo proponendone una interpretazione diversa rispetto a quella offerta dalla Procura federale, sostenendo si trattasse di un normale “appunto” di lavoro. Ora, l’elemento dimostrativo più rilevante, ad avviso della Corte federale, non è solo il contenuto testuale di detto “Libro Nero di FP”, di per sé sin troppo esplicito. Rileva piuttosto (quale conferma irredimibile del relativo esatto contenuto) il contesto nel quale esso è stato redatto. Emerge, invero, che detto “Libro” fosse stato preparato dal Cherubini come documento da utilizzare nella propria discussione con Paratici in fase di negoziazione del proprio rinnovo contrattuale (la circostanza è confermata dalle stesse dichiarazioni del Cherubini; si veda il file n. 656108 trasmesso alla Procura federale dalla Procura della Repubblica). Naturalmente, non è qui rilevante operare interpretazioni esorbitanti o azzardare qualificazioni circa il comportamento in sé del Cherubini o il rapporto con Fabio Paratici. Ma ben si comprende, ad una lettura distaccata di una simile circostanza, la capacità disvelatrice di detto Libro Nero. È evidente che Cherubini era pronto a contraddire con Paratici per discutere il proprio contratto (accettandolo o rifiutandolo, non importa) ed era pronto a mettere sul tavolo della discussione quelle che lo stesso Cherubini riteneva essere importanti “differenze di vedute”: cioè il fatto che Fabio Paratici avesse costantemente operato attraverso un sistema di plusvalenze artificiali. Ed è chiaro che nello scrivere il “Libro Nero di FP”, Cherubini rappresentava fatti veri che oggi non possono più essere efficacemente rinnegati. È per questa ragione che il mancato disconoscimento del documento e la mancata presa di distanza da esso della FC Juventus S.p.A. - a prescindere da ogni ulteriore rilevanza - ha una portata devastante sul piano della lealtà sportiva. Da esso si trae la consapevolezza di un crescendo di difficolta economico-finanziaria della FC Juventus S.p.A. nel corso degli anni 2019, 2020 e 2021 (“come siamo arrivati qui?”) e della difficoltà di uscirne. E si individua anche il metodo rimediale che il Cherubini testimonia essere stato applicato da Fabio Paratici: “utilizzo eccessivo plusvalenze artificiali” (la cui conseguenza è un “beneficio immediato” ma anche un negativo “carico ammortamenti” per il futuro). Il contenuto del “Libro Nero di FP” costituisce un elemento oggettivo non equivocabile. Tanto più tenuto conto della circostanza (e vi si tornerà oltre più diffusamente) che scopo del processo sportivo non è, evidentemente, inferire la consumazione di eventuali fattispecie di illecito a carattere penalistico. Oggetto di giudizio è solo la violazione delle norme sportive: nello specifico, dell’art. 4, comma 1 e dell’art. 31, comma 1. Rilevantissime sono poi le intercettazioni telefoniche o ambientali (e le acquisizioni documentali) citate dalla Procura federale a sostegno della revocazione. Quella del 6 settembre 2021 tra Andrea Agnelli, presidente della FC Juventus S.p.A., e il rappresentante dell’azionista di riferimento John Elkann (intercettazione presente nel file n. 660969 trasmesso alla Procura federale dalla Procura della Repubblica), nella quale gli interlocutori operano un diretto riferimento al fatto che la direzione sportiva (cioè Fabio Paratici) si era “allargata” con lo svolgimento “di tutta una serie di operazioni …” che il presidente Agnelli, nel botta e risposta della conversazione, individua subito definendole di “eccessivo ricorso allo strumento delle plusvalenze”. Così come l’ulteriore intercettazione tra Andrea Agnelli e Maurizio Arrivabene del 3 settembre 2021 (riportata nel file n. 660969 e file 660945 trasmessi dalla Procura della Repubblica), nel corso della quale gli interlocutori condividono che la responsabilità delle difficoltà della FC Juventus S.p.A. non poteva essere attribuita solo al Covid-19 (“sì ma non era solo il Covid e questo lo sappiamo bene” ), posto che da un lato vi era la pandemia, ma dall’altro era stata “ingolfat[a] la macchina con ammortamenti e soprattutto la merda perché è tutta la merda che sta sotto che non si può dire”. E ancora, in più rispetto a quelle menzionate dalla Procura federale, si devono aggiungere le intercettazioni che coinvolgono contestualmente più dirigenti della FC Juventus S.p.A. con ruoli finanziari e legali (anch’esse riportate nel file n. 660969 trasmesso dalla Procura della Repubblica). Intercettazioni che dimostrano persino opacità nella rappresentazione all’esterno del reale contenuto delle operazioni condotte, tanto da sperare che “[quelli che] stanno cercando” (presumibilmente gli ispettori Consob) non scoprano carteggi altrimenti pericolosi: ci si riferisce all’intercettazione del 6 settembre 2021 tra taluni dirigenti della FC Juventus S.p.A. (Stefano Bertola, Stefano Cerrato e Cesare Gabasio) nel corso della quale, a proposito di Pjanic, si chiarisce che “han fatto uno scambio” (e dunque una consapevole permuta) e si condivide il rischio che emergano carte che invece devono restare riservate: “tela dico tutta? è meglio che non ci fosse quel carteggio” ; “no quel carteggio meglio di no” . E più in generale si devono aggiungere quelle intercettazioni che dimostrano la natura alterata dei valori utilizzati (e il peso degli ammortamenti conseguenti) e comunque la natura esattamente permutativa di molte operazioni. Sotto il primo profilo è emblematica l’intercettazione - in grado di rafforzare quanto già riferito a proposito del “Libro Nero di FP” - tra Federico Cherubini e Stefano Bertola (altro dirigente della FC Juventus S.p.A.) del 22 luglio 2021 (riportata nel file n. 660945 trasmesso alla Procura Federale dalla Procura della Repubblica di Torino) nel corso della quale il primo afferma “io perché sono andato in difficoltà negli ultimi anni? Mi sentivo che mi stavo vendendo l’anima, perché a un certo punto stavo facendo delle cose, ero complice di alcune cose, anche per una questione di ruolo dovevo dire a Fabio [Paratici] non sono d’accordo, ma poi se lui diceva si va si va”. E ancora rilevante (tra le altre) è l’intercettazione del 16 luglio 2021 (riportata nel file n. 660969 trasmesso dalla Procura della Repubblica) tra Marco Re (all’epoca dirigente della FC Juventus S.p.A.) e un soggetto terzo appartenente ad una importante banca, nel corso della quale il dirigente della FC Juventus S.p.A. ammette che “ma tu pensa uno come Arthur, che per farti la plusvalenza Pjanic hai pagato 75 milioni […] cioè era palese no? Che non fosse uno da quella cifra lì. Adesso lo paghi […] cioè te lo porti avanti per 4 anni [con gli ammortamenti]”. Del pari rilevante, nel contesto sopra detto, anche l’intercettazione del 21 settembre 2021 (riportata nel file n. 660969 trasmesso dalla Procura della Repubblica di Torino), nel corso della quale Fabio Paratici, commentando un intervento di Fabio Cherubini e quasi sfogandosi dell’essere considerato responsabile isolato, risponde “Sì, ma non è che...se volevi mettere 400 milioni 5-6 anni prima, te li facevo mettere!” E l’interlocutore (giornalista) allora: “Bravo! È quello che ho detto io, per quello ho detto: Scusami, abbi pazienza! gli ho detto Claudio, eh no! Perché io voglio dire non è che Paratici si svegliava la mattina e diceva: oggi voglio fare una bella plusvalenza! È che a un certo punto, facevate due conti, lo chiamavate e gli dicevate: devi fare 100, devi fare 150, devi fare 70! E lui poi ve le faceva! E ringrazia che le faceva, perché così avete mascherato i problemi per 3 anni, eh! Ho detto, dico perché poi quello ha fatto, non è che...”. Ed ancora Fabio Paratici: “Eh! No, per 6 o 7, però va bene... magari 3, magari 3, magari 3”. Sotto il secondo profilo (di scambio permutativo) sono emblematiche le acquisizioni anche documentali relative alle operazioni con club esteri (OM Marsiglia, Barcellona, Manchester City, Lugano, Basilea), nelle quali si dimostra lo sforzo profuso ad allineare i flussi finanziari delle operazioni e si ottiene prova certa dell’avvenuto condizionamento reciproco dei trasferimenti di volta in volta contrattualizzati (uno in uscita e uno in acquisto allo stesso prezzo o quasi). E ciò, dunque, in modo che non vi fosse dubbio che, intanto avveniva l’acquisto di un giocatore da una controparte, in quanto a quella stessa controparte veniva ceduto il proprio. Il tutto, secondo una “causa in concreto” (intesa come sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare) di chiara permuta. Qui, peraltro, è anche necessario aprire una parentesi sulla rilevante differenza che deve essere riconosciuta tra una operazione a specchio o incrociata, apparentemente indipendente, e una operazione ad effetti permutativi. E deve essere chiarito che ciò che rileva ai fini del processo sportivo e della violazione quanto meno dell’art. 4, comma 1, CGS, non è se la singola operazione dovesse essere trattata in continuità di valori (secondo lo IAS38, paragrafo 45, poi contestato alla FC Juventus S.p.A. dalla Consob) o meno, potendosi o non potendosi rilevare la plusvalenza. Ciò che rileva è la preordinata strutturazione e trattamento delle operazioni come apparentemente indipendenti e in modo tale da impedire in partenza la relativa qualificazione come permute. Ciò che rileva, in altri termini, è l’essersi volutamente sottratti alla potenziale applicazione dello IAS38 (paragrafo 45), quale che ne fosse l’esito. Per questo, e vi si tornerà, lo sforzo svolto dalle difese dei deferiti e dai relativi consulenti di ricostruire ex post la sostanza commerciale delle singole operazioni citate dalla Procura Federale, dalla Consob e dalla Procura della Repubblica di Torino non coglie il senso stesso della contestazione sportiva della quale qui si discute. In questa direzione, diventano rilevanti le operazioni di nascondimento operate da alcuni dirigenti della FC Juventus S.p.A. che si sono spinte sino ad intervenire correggendo “a penna” le fatture ricevute dalla controparte per non far emergere la natura permutativa dell’operazione compiuta (evidenze contenute nel file n. 733488 trasmesso alla Procura federale dalla Procura della Repubblica di Torino). Eclatante il caso dello scambio dei calciatori Akè/Tongya tra la FC Juventus S.p.A. e l’Olympique De Marseille. L’operazione, apparentemente costruita con contratti indipendenti, è in realtà un vero e proprio scambio e viene così qualificato dalle mail interne: “scambiamo Tongya con Akè, entrambi trasferimenti definitivi identici” . E alla richiesta se “dobbiamo condizionarli l’uno all’altro?” la risposta è “li abbiamo condizionati l’uno all’altro” . Anche l’Olympique De Marseille precisa ripetutamente che si tratta di una operazione incrociata e integralmente compensata (documenti tutti contenuti nel file n. 7733488 trasmesso alla Procura federale dalla Procura della Repubblica di Torino). Ma il punto maggiormente significativo, rispetto alla vicenda dell’Olympique De Marseille, è quello riferibile alla fatturazione. La fattura emessa dall’Olympique De Marseille con destinatario la FC Juventus S.p.A. e con causale “compensazione” dell’operazione di scambio viene materialmente corretta a penna e “barrata” in ogni dove e riscritta dalla FC Juventus S.p.A. e rispedita al mittente chiedendo di modificarla (documento anch’esso contenuto nel file n. 7733488 sopra citato). E ciò, per evitare che potesse essere compreso all’esterno che l’operazione era effettivamente di mero scambio (cioè permuta) e non certo composta da atti indipendenti. I dirigenti della FC Juventus S.p.A. dicono espressamente che si deve evitare di evidenziare la compensazione. Come a dire - ed è l’aspetto assorbente ai fini del processo sportivo - che la FC Juventus S.p.A. era perfettamente edotta del rischio di dover applicare lo IAS38, paragrafo 45, e il proprio approccio era nel senso di evitare che ciò avvenisse a prescindere da ogni effettiva applicabilità. Tanto che la natura dell’operazione non doveva emergere dai documenti ufficiali riguardanti la fatturazione. Ed è anche interessante notare come i dirigenti della FC Juventus S.p.A. debbano persino superare una iniziale resistenza dell’Olympique De Marseille nel recepire le correzioni inserite a penna dalla FC Juventus S.p.A., tanto da costringere l’Olympique De Marseille ad un richiamo a buona fede nel chiedere che sia mantenuta la dicitura “compensazione” nella fatturazione da essa inviata; e ciò, presumibilmente perché, proprio per l’Olympique De Marseille, lo IAS38, paragrafo 45, o principio assimilabile, non era comunque destinato ad applicarsi e dunque la natura permutativa, se divenuta trasparente, non era pregiudizievole. Un simile quadro fattuale - cui si deve aggiungere la delibera Consob 22482/2022 del 19.10.2022 (sulla quale si tornerà oltre) e si possono altresì aggiungere i riferimenti ai numerosi appunti e manoscritti interni alla FC Juventus S.p.A., ulteriori rispetto al “Libro Nero di FP” (e dai quali sembra quasi emergere che “manovre correttive” fosse negli ultimi anni una sorta di definizione specifica di quanto si va dicendo), o ancora il c.d. database di tale società - è decisivo ai fini del giudizio rescindente. In proposito, appare erronea l’obiezione per cui il citato quadro fattuale (nuovo) debba dirsi già assorbito dalla ratio decidendi della decisione revocata. La decisione n. 0089/CFA/2021-2022 aveva affermato del tutto condivisibilmente che “l’assenza di parametri normativamente sanciti rende particolarmente delicata l’operazione di sceverare operazioni (plusvalenti) che, con ragionevole certezza giudiziale, possano essere considerate rilevanti sotto il profilo disciplinare”. Ciò, ovviamente, nel presupposto - mai messo in discussione dalla decisione - che la realizzazione di una plusvalenza fosse effetto legittimo di una operazione di vendita o scambio, non potendo l’interprete affidarsi al solo sospetto di una eventuale (appunto) fittizietà. Per questo la decisione qui revocata precisava anche che eventuali contestazioni disciplinari dovessero basarsi sulla ragionevole certezza dell’illecito e non sulla probabile verificazione di esso. Inoltre, la decisione rilevava che l’assenza di un unico metodo codificato di valutazione non poteva “legittimare l’iscrizione in bilancio di diritti per qualsiasi importo, svincolati da considerazioni inerenti l’utilità futura del diritto nonché [da] elementi di coerenza della transazione” posto che altrimenti argomentando si “renderebbe legittima qualsiasi plusvalenza e [si] introdurrebbe un’anarchia valutativa che nessun sistema - e quindi neanche quello federale - può tollerare”. Un metodo vi deve essere. E deve essere razionale, verificabile e ovviamente non discrezionale. Un simile arresto, come detto, è condivisibile anche oggi. Ma ciò che oggi è mutato è proprio il quadro fattuale nel quale ci si muove, che è radicalmente diverso da quello esaminato dalla decisione revocata. Non si tratta di discutere della legittimità di un determinato valore in assoluto. Né di operare una valutazione del prezzo scambiato. Si tratta invece di valutare comportamenti (scorretti) e gli effetti di tali comportamenti sistematici e ripetuti sul bilancio. La Corte federale n. 0089/CFA/2021-2022, però, proprio su un tale profilo, aveva avvertito che non qualsiasi plusvalenza è legittima. Aveva poi segnalato il fatto che la carenza di parametri non consentiva di tradurre il sospetto in violazione, per questo chiedendo l’introduzione di disposizioni che operassero da sentinella anticipata rispetto a fenomeni che invece di essere fisiologici si trasformino in patologici, in modo anche da avvisare la società agente di avere oltrepassato i limiti della razionalità e della dimostrabilità. Ed un simile intervento normativo resta urgentissimo ancora oggi. Ma avere affermato un tale principio non legalizzava qualunque comportamento. Sotto tale profilo, la decisione revocata non ha nulla a che vedere con una preordinata intenzione di non utilizzare alcun metodo se non quello di una ricerca artificiale di plusvalenze come obiettivo e non come effetto delle operazioni condotte. In conclusione, il nuovo quadro fattuale prodotto dalla Procura federale integra i presupposti ed è decisivo ai fini di cui all’art. 63, comma 1, lett. d) e impone la declaratoria della revocazione della decisione della Corte federale d’appello n. 0089/CFA/2021-2022. Tenuto peraltro conto del dettato della norma e dell’assenza di capi distinguibili della decisione n. 0089/CFA/2021-2022, si ritiene conseguenziale una revoca integrale della decisione stessa, indipendentemente dalla possibilità che per alcuni dei deferiti debba poi procedersi ad un nuovo esito di proscioglimento. A tale proposito, è utile richiamare l’orientamento della stessa Corte di Cassazione, a mente della quale “la revocazione travolge completamente i capi della sentenza [revocata], sicché il giudice della fase rescissoria, chiamato nuovamente a decidere, deve procedere ad un nuovo esame prescindendo dalle rationes decidendi della sentenza revocata. Infatti, il giudizio ex art. 402 c.p.c. è nuovo e non la mera correzione di quello precedente, per cui la nuova decisione sul merito è del tutto autonoma e non può certo essere la risultante di singoli elementi correttivi nell'iter logico-giuridico espresso dalla decisione revocata (Cass. nn. 2181/01 e 8326/04)” (Cassazione civile sez. VI, 20/06/2016, n.12721, dettata in materia di errore revocatorio ma applicabile all’art. 63, comma 1, lett. d) CGS). Peraltro, è pacifico che il giudice possa emettere una nuova decisione che in parte si sovrapponga a quella revocata, ancorché come nuova decisione e non come conferma della precedente statuizione ormai elisa dal mondo giuridico. Infondata è anche l’eccezione svolta dalla difesa della FC Juventus S.p.A. a proposito della inammissibilità per tardività del ricorso in revocazione della Procura federale. Anzitutto, la FC Juventus S.p.A. ha segnalato come anomala la circostanza che la comunicazione di trasmissione della documentazione della Procura della Repubblica di Torino fosse avvenuta solo in data 24.11.2022. Una simile trasmissione è però documentata e risulta da apposito timbro seguito dalla sottoscrizione di tre magistrati della Procura della Repubblica di Torino. I dubbi della FC Juventus S.p.A., in argomento, appaiono oggettivamente fuor di luogo. La documentazione ritenuta rilevante dalla Procura federale è stata ricevuta in data 24.11.2022 e il ricorso per revocazione proposto in data 22.12.2022 è certamente tempestivo, essendo stato notificato il ventottesimo giorno sui trenta disponibili (art. 63, comma 1, CGS). Anche il secondo profilo dell’eccezione non è condivisibile. Sostiene la difesa della FC Juventus S.p.A. che la Procura federale aveva avuto notizia degli eventi poi dedotti a base della revocazione ben prima della data del 22.11.2022. Pertanto, la revocazione doveva dirsi già esaurita al momento della relativa proposizione. Ora, in disparte la giurisprudenza di questa Corte a proposito della irrilevanza di notizie di stampa ai fini della decorrenza del termine di revocazione (ex plurimis Corte di giustizia federale, SS.UU., n. 203/2009-2010; Corte di giustizia federale, SS.UU., n. 31/2013-2014), resta assorbente la circostanza che nel caso qui in discussione è il nuovo quadro fattuale ad essere cruciale per la percezione di una nuova decisione da assumere e, prima ancora, per la maturazione della percezione della esigenza processualistica di presentare fondatamente un ricorso per revocazione. In altri termini, non si discute in questo caso di un singolo documento specifico la cui esistenza fosse divenuta nota. Si discute, invece, di un complesso di plurimi documenti e intercettazioni (le circa 14mila pagine trasmesse dalla Procura della Repubblica e citate dalla Procura federale) la cui effettiva ricezione era inevitabile presupposto del trascorrere di un qualunque termine decadenziale. Il tutto, dovendosi sottolineare (ed è fatto incontestato) che l’indagine penale, i cui esiti documentali sono poi stati trasferiti alla Procura federale, si è chiusa dopo la decisione qui oggetto di revocazione. Il ricorso per revocazione, pertanto, è certamente tempestivo. Da rigettare è anche l’obiezione formulata a proposito della non utilizzabilità delle intercettazioni. L’eccezione è stata variamente proposta dai deferiti nell’ottica di ritenere che l’art. 270 c.p.p. impedisca di fondare su di esse la contestazione disciplinare qui esercitata. È stato poi sollevato un dubbio di parzialità del relativo riversamento in trascrizioni, dolendosi quindi i deferiti di una non corretta acquisizione e rappresentazione delle registrazioni audio. La giurisprudenza di questa Corte è però granitica in senso opposto. Le intercettazioni telefoniche costituiscono, del tutto legittimamente, materiale probatorio acquisibile al procedimento, dovendo le intercettazioni medesime essere considerate nella loro fenomenica consistenza e nella loro capacità rappresentativa di circostanze storiche rilevanti, senza neppure possibilità di sindacare la loro origine e il modo della loro acquisizione (ex plurimis Corte di giustizia federale, SS.UU., n. 32/2011-2012; e nello stesso senso: Corte di giustizia federale, SS.UU., n. 43/2011-2012; Corte federale d’appello, SS.UU., n. 46/2015-2016; Corte federale d’appello, SS.UU., n. 10/2016-2017; Corte federale d’appello, SS.UU., n. 12/2016-2017; Corte federale d’appello, SS.UU., n. 96/2016-2017; Corte federale d’appello, SS.UU., n. 102/2016- 2017). Del resto, un identico orientamento è perfettamente coerente con plurime decisioni della Corte di Cassazione (Corte di Cassazione, SS.UU., sent. del 15.01.2019 n. 741; Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 29.09.2022, n. 28398 e Corte di Cassazione 15 dicembre 2022, n. 36861). Esula poi dai poteri del giudice sportivo ogni valutazione sulla legittimità dell’operato dell’autorità giudiziaria in ordine all’acquisizione stessa delle intercettazioni. E ciò è vero, vuoi in riferimento al potere speso, vuoi in riferimento al dibattito odierno sulla opportunità di aumentare o ridurre l’ambito assoggettabile ad un tale mezzo di prova. Ai fini del processo sportivo, rileva esclusivamente la provenienza istituzionale del materiale ricevuto. E da tale provenienza discende la presunzione di legittimità, autenticità e genuinità degli atti (Corte di giustizia federale, SS.UU., n. 48/2011-2012; Corte federale d’appello n. 122/2018-2019; Corte federale d’appello, SS.UU., n. 55/2019-2020; Corte federale d’appello, SS.UU., n. 95/2019-2020). Le obiezioni proposte nei confronti della documentazione proposta all’esame di questa Corte federale, dunque, non hanno pregio. Le intercettazioni sono per certo utilizzabili (peraltro non costituendo neppure l’unico elemento decisivo ai fini della formazione del nuovo quadro fattuale di riferimento, giacché da affiancare alle acquisizioni documentali), mentre il divieto di un utilizzo a fini penali per reati diversi da quelli che hanno dato luogo alle intercettazioni stesse (argomento ex art. 270 c.p.p.) non trova alcuna applicazione al procedimento disciplinare (Corte di giustizia federale, SS.UU., n. 48/2011-2012; Corte federale d’appello, SS.UU., n. 10/2016-2017; Corte federale d’appello, SS.UU., n. 122/2018-2019; Corte federale d’appello, SS.UU., n. 55/2019-2020; Corte federale d’appello, SS.UU., n. 95/2019-2020). Semmai è doveroso sottolineare che, nel caso specifico, le intercettazioni esaminate da questa Corte federale consentono di raggiungere una organica rappresentazione dei fatti sottoposti a giudizio (in argomento Corte federale d’appello, SS.UU., n. 122/2018-2019; Corte federale d’appello, SS.UU., n. 55/2019-2020; Corte federale d’appello, SS.UU., n. 95/2019-2020). Meglio ancora, non vi è modo di non considerare la rilevanza delle “dichiarazioni auto ed etero accusatorie registrate” (Corte federale d’appello, SS.UU., n. 1/2020-2021). Ritenuto dunque meritevole di accoglimento il giudizio rescindente, e dichiarata la revocazione della decisione n. 0089/CFA/2021- 2022, può essere esaminato il merito rescissorio dell’impugnazione svolta dalla Procura federale. Priorità logico-giuridica va anzitutto data all’esame dei reclami incidentali concernenti la mancata acquisizione della nota 10940/pf/GC/blp del 14 aprile 2021 della Procura federale, richiamata dalla relazione Co.Vi.So.C. del 19 ottobre 2021 (atto costituente, secondo la Procura federale, la prima notizia qualificata dalla quale attivare l’indagine). L’obiezione per cui la nota 10940/pf/GC/blp del 14 aprile 2021 della Procura federale potesse costituire un primo atto di indagine non può, però, avere seguito né in ogni caso può dirsi rilevante (e ciò indipendentemente dal possibile assorbimento dei ricorsi incidentali proposti da UC Sampdoria, FC Pro Vercelli 1892, Genoa CFC, Parma Calcio 1913, Pisa Sporting Club, Empoli FC, Novara Calcio e Delfino Pescara 1936). In via preliminare e generale, occorre considerare che, in tale particolare forma di revocazione, la sopravvenienza di “fatti nuovi” agisce anche nel senso di rendere non più rilevante la questione dell’asserita tardività dell’azione della Procura federale in quanto la sopravvenienza della documentazione della Procura della Repubblica è idonea a introdurre nel procedimento degli elementi che - ex necesse - non possono che immutare il quadro procedimentale, al fine di rimuovere dall’ordinamento sportivo decisioni che, appaiano, nella sostanza, distorsive del senso di giustizia (Corte di giustizia federale, SS.UU., n. 203/2009-2010). D’altro canto, premesso che la trasmissione di indicazioni interpretative non può costituire nel processo sportivo una forma effettiva di atto di indagine, potendo al più appartenere al novero degli atti pre-procedimentali che questa Corte federale (proprio per l’informalità del processo sportivo) ha costantemente consentito e anzi sollecitato, onde evitare di giungere a immediate iscrizioni senza una previa verifica della traducibilità di una “possibile notizia” in una “effettiva notizia” di illecito (Corte federale d’appello, SS.UU., n. 18/2020-2021), premesso questo, appare decisivo riferirsi al dato testuale della nota Co.Vi.So.C. a mente della quale tale ente, che si ricorda ha specifici poteri autonomi di controllo assegnati espressamente dall’ordinamento federale (art. 80 Noif), precisa nelle prime righe introduttive di essersi mossa “nello svolgimento delle proprie prerogative di controllo e vigilanza delle società professionistiche”. Ora, in disparte il fatto che la Co.Vi.So.C. è organo che, ai sensi dell’art. 20, comma 2, dello Statuto CONI, assume specifica funzione pubblicistica posto che identica “natura [pubblicistica] va riconosciuta alle attività [anche di controllo] svolte al fine di garantire il regolare svolgimento delle competizioni e dei campionati sportivi professionistici" (Cassazione penale 29.5.2013, n. 28164), e in disparte la circostanza che per tale via i relativi atti - ovviamente per le parti non aventi carattere valutativo ma di attestazione delle attività svolte - devono dirsi assistiti da fede privilegiata, resta assorbente il fatto che la citata affermazione della Co.Vi.So.C. non appare in sé contestata dai reclamanti incidentali. Co.Vi.So.C. ha agito di propria iniziativa “[prendendo] atto di taluni fenomeni potenzialmente idonei ad incidere sui fondamentali dei bilanci delle società sportive professionistiche (e quindi mediatamente sull’equilibrio economico e finanziario delle stesse) che si ritiene opportuno segnalare a codesta Procura Federale per gli approfondimenti che si intenderanno se del caso esperire”. Ciò che quindi i reclamanti non affrontano è che la nota Co.Vi.So.C. costituisce atto tipico di proposta di avvio di indagine ai sensi dell’art. 80, comma 3, Noif, ed è solo da tale istante che - rispetto alle operazioni indicate dal detto ente di controllo nella propria comunicazione poi riversate nel deferimento - deve calcolarsi un qualunque termine di iscrizione della notizia dell’illecito (individuata dalla Co.Vi.So.C.). Peraltro, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte “la previsione di una decadenza dall’azione della Procura in caso di ritardata iscrizione [della notizia dell’illecito] è estranea alle finalità della normativa codicistica [contenuta nel CGS]” (Corte federale d’appello, Sez. I, n. 29/CFA/2021-2022). Né vi è spazio per procedere ad una retrodatazione dei termini al fine di produrre la citata decadenza. Ipotesi questa che non trova riscontro nel codice sportivo, fermo comunque che, in caso di superamento del termine dell’indagine, l’art. 119, comma 6, CGS prevede, quale espressa conseguenza la sola inutilizzabilità degli atti e non piuttosto l’improcedibilità dell’azione. Del resto - e tale considerazione assume ulteriore carattere dirimente - una simile decadenza è esclusa anche dalla giurisprudenza ordinaria formatasi sull’art. 335 c.p.p., a mente della quale “ritardi indebiti nella iscrizione, tanto della notizia di reato che del nome della persona, pur se abnormi, sono privi di conseguenze [sulla validità del processo] fermi restando gli eventuali profili di responsabilità disciplinare o penale del magistrato del P.M. che abbia ritardato l’iscrizione” (così Cassazione SS. UU., n. 40538 del 24.09.2009 con successiva conforme Cassazione Sez. 6, n. 4844 del 14.11.2018; e nello stesso senso da ultimo Cassazione civile SS. UU. 12.04.2021, n.9548). Il punto qui decisivo è allora che lo stesso art. 119, comma 6, CGS, citato dai reclamanti incidentali quale norma da applicare al caso concreto, afferma che “possono sempre essere utilizzati gli atti e documenti in ogni tempo acquisiti dalla Procura della Repubblica e dalle altre autorità giudiziarie dello Stato”. Esattamente come nel caso che qui occupa, divenendo pertanto ininfluente - e carente di interesse – il reclamo incidentale proposto. Ove pure si accedesse ad una qualche passata limitazione della “vecchia” documentazione d’indagine, il nuovo quadro fattuale derivante dalla documentazione e dalle evidenze trasmesse dalla Procura della Repubblica resterebbe comunque utilizzabile. Ed è sulla documentazione proveniente dalla Procura della Repubblica di Torino (al pari di quella di derivazione Consob) che questa Corte federale è chiamata a pronunciarsi. Tanto meno può porsi, sul punto, un qualunque dubbio di nullità o violazione dei principi del giusto processo (ex art. 44 CGS) e delle prerogative di difesa, posto che la fonte del quadro fattuale del quale si discute è per certo interamente rappresentata dalla Procura della Repubblica di Torino (cui si collega il procedimento Consob) e posto che dei relativi atti e documenti, utilizzabili in ogni tempo (art. 119, comma 6, CGS), le parti hanno avuto esatta e compiuta notizia nei termini consentiti dal ricorso di revocazione. Premesso allora che l’atto di deferimento (e il successivo ricorso per revocazione) non risultano in alcuna parte perplessi nel contenuto, contenendo una chiara e completa contestazione delle condotte ascritte, poco calzante è il richiamo alla decisione del Collegio di Garanzia dello Sport, Sez. IV, n. 76 del 6.7.2017 (richiamo in particolare contenuto nella difesa della FC Juventus S.p.A.). In tale decisione, invero, si affermava il condivisibile, ma del tutto diverso, principio per cui “non risulta condivisibile l’iter logico ed argomentativo seguito dalla Corte di Appello Federale che, dopo aver ribadito il suo convincimento circa l’individuazione del soggetto risultato unico autore dell’illecito sportivo, ha ritenuto di poter egualmente sanzionare il [deferito], in relazione alla realizzazione dell’illecito, sulla base della sua partecipazione al fatto non più realizzata con la contestata condotta attiva (in concorso con altri) ma realizzata con una condotta omissiva e quindi sulla base di una diversa qualificazione dei fatti e della contestazione disciplinare [ovvero non aver denunciato]”. Per tale via, dunque, si contestava la mancata chiarezza del deferimento rispetto alla norma contestata e alle conseguenze che ne aveva tratto il giudice sportivo. Ma nel caso che qui occupa una tale assenza di chiarezza non sussiste. Tanto meno rispetto al quadro probatorio riveniente dagli atti della Procura della Repubblica di Torino e dalla stessa Consob. Ciascuna parte, dunque, ha potuto conoscere la provenienza degli atti dei quali discutere e ha potuto esprimere le proprie piene prerogative difensionali, non sussistendo invece alcuna menomazione del procedimento e tanto meno violazione del diritto di difesa che è stato pienamente assicurato. Ed è appena il caso di notare che “ nell’ordinamento sportivo il fine principale da perseguire, al di là dell’aspetto giustiziale pur fondamentale, è quello di affermare sempre e con forza i principi di lealtà, imparzialità e trasparenza, tipici del movimento sportivo, come pensato sin dalla sua fondazione da Pierre De Coubertin e, quindi, è compito degli Organi di giustizia considerare meno stringenti le regole formali rispetto ad aspetti sostanziali, che siano utili all’accertamento dei menzionati valori.” (Collegio di garanzia dello sport, sez. I, n. 56/2018). I ricorsi incidentali, dunque, anche a prescindere come già si è detto dal relativo assorbimento per le parti comunque prosciolte nel merito, vanno rigettati. Venendo ora al merito del giudizio rescissorio, appare inevitabile tenere distinte le posizioni riguardanti la FC Juventus S.p.A. rispetto alle altre squadre. La ragione della necessaria distinzione di merito riposa, ed è considerazione sin troppo ovvia, nella circostanza che la FC Juventus S.p.A. e i relativi amministratori e dirigenti sono stati oggetto di diffuse e ripetute evidenze dimostrative prodotte dalla Procura federale. Evidenze che connotano un canone di comportamento sistematico e non isolato. Proprio con riguardo alla FC Juventus S.p.A., il quadro probatorio che si è già citato ai fini del giudizio rescindente ha carattere inequivocabile rispetto agli scopi del processo sportivo. Del “Libro Nero di FP” redatto da Federico Cherubini a proposito di Fabio Paratici, testimoniante l’eccessivo utilizzo di plusvalenze artificiali, si è già detto. Dell’origine di un tale documento e della mancata contestazione di genuinità di esso, anche. Si è parimenti già riferito della non condivisibilità dei tentativi di diversa interpretazione operati dalla difesa della FC Juventus S.p.A. che si scontrano con il contenuto testuale del predetto documento, nonché con il contesto nel quale il “Libro Nero” è stato scritto e nel quale esso doveva essere utilizzato. È evidente che Federico Cherubini immaginava di affrontare Fabio Paratici per “contestargli” l’uso eccessivo di plusvalenze artificiali e i relativi effetti anche negativi sul bilancio della società dovuti al peso degli ammortamenti. Al beneficio immediato di evitare l’emersione di perdite di bilancio controbilanciate dalle apparenti plusvalenze conseguiva, infatti, il costo ripartito su più anni di quel plusvalore in una sorta di inevitabile e crescente avvitamento: si veda la mail interna scambiata in data 17 febbraio 2021 tra diversi dirigenti della FC Juventus S.p.A. “ci sono le plusvalenze che migliorano le net loss dei prossimi anni, ma questo genera un nuovo tornado di D&A; non siamo più a break-even nel 24/25. Deve essere chiaro che con le nuove assumptions su plusvalenze e D&A non si ferma il tornado anzi abbiam bisogno del tornado” (mail riportata nel file 733431 trasmesso alla Procura federale dalla Procura della Repubblica). Ed è parimenti evidente che la suddetta circostanza (l’uso eccessivo di plusvalenze artificiali e relative conseguenze) era, tra i due dirigenti oggi deferiti, fatto assolutamente pacifico. Si sono inoltre già citate - in fase rescindente - le intercettazioni aventi un carattere per così dire generale o se si preferisce sintomatiche e ricognitive della ripetuta intenzionalità della società FC Juventus S.p.A. nel non avere utilizzato (nelle stagioni 2019/2020 e in parte 2021) alcun metodo di valutazione dei prezzi degli scambi. E si è anche già richiamata la circostanza della profonda diffusione, all’interno della società, della consapevolezza dell’uso eccessivo del metodo plusvalenze per affrontare il bilancio. Significativa è anche l’intercettazione con la quale Cherubini (in data 22.7.2021), di fronte ai primi accessi della polizia giudiziaria per le indagini sulle plusvalenze afferma “fortuna che … alla luce delle recenti visite ci siamo fermati” (si veda la relazione di indagine della Procura federale, pag. 182). Si sono poi già commentati taluni casi specifici, che tanto più se letti in combinazione con l’indagine Consob e con il “Libro Nero di FP” (e ancora con l’intero quadro probatorio), consentono di comprendere appieno - sempre dal lato del processo sportivo - la reale situazione verificatasi (si veda il caso del carteggio sulla cessione di Pjanic che è meglio che non ci sia o il caso della fattura modificata all’Olympique de Marseille). Il tutto, ovviamente, dovendosi anche considerare l’esito certamente rilevante della delibera 22482/2002 della Consob (assunta in data 19.10.2022 ai sensi dell’art. 154ter comma 7 t.u.f.). Al fine di non gravare la decisione di eccessive ripetizioni si rinvia, dunque, alle citazioni già sopra riportate senza trascriverle nuovamente. In un simile quadro, diventano a maggior ragione rappresentative del modus operandi non corretto della FC Juventus S.p.A. (lo stesso emergente dal quadro probatorio che sopra si è detto) soprattutto le operazioni compiute con i club esteri. Ci si riferisce: all’operazione Moreno-Andrade tra la tra la Juventus FC e il Manchester City (anno 2019/2020); all’operazione Pereira-Marques tra la Juventus FC e il Barcellona (anno 2019/2020); all’operazione Sene-Hajdari tra la Juventus FC e il Basilea (anno 2019/2020); all’operazione Bandeira-Nzouango tra la Juventus FC e l’Amiens Sporting Club (anno 2019/2020); all’operazione Tongya-Akè tra la Juventus FC e l’Olympique De Marseille (anno 2020/2021); all’operazione Monzialo-Lungoyi tra la FC Juventus FC e la FC Lugano (anno 2020/2021). Tutte tali operazioni risultano emblematiche perché, invece di essere state trasparentemente e correttamente rappresentate come permute, esse sono state mostrate all’esterno come operazioni formalmente indipendenti. La differenza di tali operazioni rispetto a quelle compiute con controparti italiane riposa nella circostanza che le operazioni con controparti estere non potevano contare sulla stanza di compensazione disciplinata dalla federazione di appartenenza e, pertanto, la mera conclusione di una operazione a specchio non era sufficiente ad ottenere lo “scambio” finanziariamente neutro, dovendosi di volta in volta aggiungere - sistematicamente - un qualche patto che a monte condizionasse reciprocamente lo scambio (vendo perché tu compri e tu vendi perché io compro, quindi scambiamo) e che a valle disciplinasse la compensazione dei pagamenti incrociati (i c.d. “set-off arrangement” o accordi di compensazione infatti trovati con riguardo alle operazioni estere). Il tutto, dunque, sostituendo l’effetto “automatico” della compensazione dei pagamenti presente nell’ordinamento federale italiano. Non è noto se tutte le controparti della FC Juventus S.p.A. abbiano o meno registrato anch’esse una plusvalenza da scambio del loro giocatore ceduto o comunque quale sia stato il trattamento contabile seguito (anche rispetto alle immobilizzazioni connesse all’acquisto). Eventualità che resta del tutto neutra rispetto al presente giudizio. Premesso che la realizzazione di una plusvalenza (quale differenza tra il valore contabile residuo di un bene e prezzo di cessione), in caso di cessione in denaro, è destinata a verificarsi in capo al solo soggetto cedente essendo invece indipendente la condizione dell’acquirente (che porta semmai nelle immobilizzazioni l’acquisto), nel caso di scambio (o permuta) la plusvalenza eventualmente realizzata da ciascuna delle parti contraenti (ciascuna invero avente la posizione di cedente e acquirente) dipende dalla condizione specifica contabile della parte interessata. Una parte potrebbe realizzare la plusvalenza e l’altra no, oppure l’effetto potrebbe verificarsi per entrambi. Lo stesso, può avvenire per l’eventuale aumento delle immobilizzazioni (poi destinate ad essere ammortizzate). Tali effetti dipendono dalla specifica condizione contabile di ciascun contraente, e dai principi contabili ad esso contraente applicabili. Ma ciò che rileva dal lato della FC Juventus S.p.A. è in ogni caso la circostanza che l’indipendenza degli incroci contrattuali sia stata documentalmente sconfessata dalle evidenze dimostrative trasmesse dalla Procura della Repubblica di Torino (è qui sufficiente citare i file n. 733431 e n. 733488), posto che in riferimento a ciascuna delle predette operazioni (con il Manchester City, il Barcellona, il Basilea, l’Amiens Sporting Club, l’Olympique De Marseille e la FC Lugano) sussiste uno specifico elemento di prova che ne qualifica la natura come scambio (o meglio permuta), vuoi attraverso le condizioni contrattuali (prima non note), vuoi attraverso i manoscritti dei dirigenti della FC Juventus S.p.A., vuoi ancora attraverso gli scambi di mail interne o con tali club. E qui si torna a quanto si è detto rispetto alla decisività delle dette evidenze. L’intenzionalità volta ad evitare la ricostruzione delle operazioni sopra menzionate quale permuta e dunque l’intenzionalità mostrata ad evitare di dover verificare, volta per volta, l’effettiva applicabilità per la FC Juventus S.p.A. di eventuali limiti contabili alla legittimità della plusvalenza (o delle immobilizzazioni ottenute per lo scambio) è comportamento sufficiente alla violazione dell’art. 4, comma 1, CGS. Al novero delle operazioni dalle quali far derivare una sanzione ex art. 4, comma 1, CGS andrebbe poi aggiunta quanto meno l’ulteriore permuta (anno 2019/2020) di Pjanic-Arthur tra la Juventus FC e il Barcellona dedotta dal deferimento della Procura federale come ulteriore operazione anomala ancorché poi non utilizzata nei conteggi finali delle ritenute alterazioni dei bilanci della FC Juventus S.p.A. in assenza della prova (oggi invece esistente) della natura puramente permutativa e della effettiva alterazione dei relativi valori. Anche per tale operazione, invero, risultano ampi riscontri circa l’esistenza di una fattispecie immaginata come scambio sin dall’inizio. Si veda in proposito le numerose mail interne (tra Federico Cherubini, Fabio Paratici e altre risorse interne della FC Juventus S.p.A. e poi ancora con lo stesso Barcellona nelle date 31.3.2020, 18.5.2020, 27.5.2020 e 22.6.2020) in ragione delle quali l’operazione Pjanic-Arthur è inequivocabilmente definita uno scambio (file n. 733431 tramesso alla Procura federale dalla Procura della Repubblica); evidenze, queste, ovviamente da aggiungere alle intercettazioni già sopra menzionate a proposito di Pjanic. È poi vero che lo scambio Pjanic non sia stato considerato dalla Consob nella propria delibera finale n. 22482/2022 del 19.10.2022 (ex art. 154ter comma 7 t.u.f.), ma anche una simile circostanza non appare decisiva alla luce del contesto complessivo emergente dal nuovo quadro probatorio oggi a disposizione. Innanzitutto, non ha rilievo (per i fini che qui occupano) la circostanza che, rispetto alle intenzioni originarie permutative, le due società, prima il Barcellona e poi di conseguenza e in reazione la FC Juventus S.p.A., abbiano ceduto i reciproci crediti a intermediari finanziari, sostanzialmente mutando gli effetti finanziari dell’operazione rispetto a come essa era stata immaginata. Ma soprattutto, l’operazione in commento deve essere riconsiderata alla luce degli elementi nuovi (le intercettazioni sopra già citate) che consentono di sostenere sia l’alterazione del valore dello scambio, sia la consapevolezza che vi fossero carteggi che la Consob non doveva trovare (fors’anche relativi ad offerte radicalmente inferiori ad opera di altre squadre) e che, ove disponibili a tale autorità, avrebbero disvelato una realtà diversa da quella che la stessa FC Juventus S.p.A. sosteneva (e che probabilmente avrebbero portato Consob ad ulteriori valutazioni anche rispetto ad fattispecie inizialmente non considerate come certamente da rettificare). Ed è significativo notare come la stessa Consob abbia ritenuto che le operazioni critiche fossero “quantomeno” quelle da esse indicate (per la Consob sufficienti a censurare il fenomeno; si veda in particolare pag. 81 della delibera n. 22482/2022), ma non necessariamente solo quelle. Come già si è precisato, le operazioni sopra commentate hanno in realtà natura emblematica o, se si preferisce, di elemento sintomatico del comportamento della FC Juventus S.p.A. e dell’attitudine artificiale delle operazioni condotte. Punto nodale del comportamento della FC Juventus S.p.A. è l’assenza di un qualunque metodo attendibile. Come ha ben evidenziato la Procura federale, e come emerge anche dalle sottolineature della stessa Consob a proposito dell’assenza di processi valutativi tracciabili, si giungeva a programmare sistematicamente la realizzazione di plusvalenze prescindendo dall’individuazione stessa del soggetto da scambiare, spesso indicato con una semplice “X” accanto al nome del giocatore della FC Juventus S.p.A. da cedere e ovviamente accanto al numero prestabilito di plusvalenza da realizzare (documenti sequestrati dalla Procura della Repubblica di Torino e presenti nei file n. 733431 e n. 733488). Il tutto, dunque, in un quadro chiaramente sintomatico di una ricerca artificiale di plusvalenze artificiali (come definite dal “Libro Nero di FP”), in alcun modo conseguenza di operazioni di effettivo mercato. E ciò, benché proprio la FC Juventus S.p.A., nel corso del grado di giudizio di cui alla decisione qui revocata, avesse sostenuto (inattendibilmente a questo punto) che arbitraria fosse la metodologia utilizzata dalla Procura federale (definita una “black box” dalla relazione tecnica denominata “Considerazioni tecniche in merito alle valutazioni dei calciatori effettuate dalla Procura federale”), mentre “i corrispettivi dei calciatori acquistati dalla Juventus si formano ad esito di un processo strutturato interno alla Società. In sintesi, il processo riguarda tre distinte divisioni: la First Team Area, la Football Technical Area e l’Area Scout e si concretizza - oltre che nella fase di scouting del giocatore e di negoziazione con le controparti - nella preparazione e nell’aggiornamento nel tempo di dettagliate schede calciatori, che ne illustrano giudizi e caratteristiche fisiche, tecniche e caratteriali”. Le successive evidenze hanno documentato che, all’opposto, non esisteva alcun processo di valutazione ad opera della FC Juventus S.p.A.. Significativa l’intercettazione del 6 settembre 2021 tra i dirigenti della Juventus Stefano Bertola e Stefano Cerrato (file n. 660969 trasmesso dalla Procura della Repubblica di Torino) nella quale si evidenzia “non c'è un processo documentale, non c'è un pezzo di carta di cui noi possiamo avvalerci, strutturati e spendibili, no? Poi ci potrebbero essere i pezzi degli appunti su pezzi di carta di formaggio ma che io mi guarderei bene dal produrre, no? [il] bilancio è basato su un atto di fede della correttezza di valutazione di una persona che ha firmato un contratto di vendita, però, in parte si ahimè”. Altrettanto significativa e assorbente, in argomento, è la conclusione cui giunge la stessa Consob nella propria delibera n. 22482/2022, là ove segnala “l’assenza di esiti formalizzati dell’applicazione di detto iter valutativo è stata, peraltro, confermata, nel corso della verifica ispettiva, dalla stessa Società che, con riferimento alle specifiche operazioni di compravendita con la medesima controparte, ha dichiarato che: non è prassi della Società procedere ad una separata, o formalizzata, fissazione degli esiti del processo di valutazione di un giocatore, se non attraverso la sottoscrizione dei contratti relativi all’acquisto o alla cessione dei relativi diritti alle prestazioni sportive”. Si torna allora a dover sottolineare che se è vero che qualunque plusvalenza derivante da cessione è la conseguenza della contrapposizione tra il valore di cessione e il valore netto contabile del diritto al momento della cessione, è altrettanto vero che proprio il valore di cessione richiede fondamenti logici. Può accadere, per le ragioni più disparate, che si assista ad una operazione atipica, una tantum. Ma non può accadere che sistematicamente sia invertito il processo, come invece emerge dal nuovo quadro probatorio disponibile. Definire e anteporre un obiettivo di plusvalenze esclusivamente per ottenere un risultato economico finale, senza seguire alcun processo che sia razionale, dimostrabile e che non costituisca “un atto di fede” (come sopra invece ammesso dai responsabili della FC Juventus S.p.A.), non ha alcun fondamento prima logico poi bilancistico. In una simile prospettiva, cade qualsiasi ragionamento economico lecito e cade qualunque formalismo dovendo invece prevalere la sostanza sulla forma (substance over form). Tanto più se le operazioni condotte non vengono adeguatamente e trasparentemente spiegate. In una simile modalità di comportamento non esiste neppure alcun ragionamento tecnico sottostante, in quanto il criterio guida è raggiungere un obiettivo che nulla ha a che fare con la rappresentazione veritiera e corretta della situazione economicopatrimoniale di una data società. L’attendibilità di un bilancio è cruciale nel fornire informazioni utili agli investitori, attuali e potenziali, ai finanziatori e agli altri creditori, nonché nel supportare i processi decisionali inerenti all’affidamento delle risorse all’impresa. Un simile obiettivo si raggiunge solo con condotte eticamente ed economicamente corrette, che devono escludere plusvalenze “inventate”, cioè non derivanti dall’applicazione di alcun criterio ma solo dalla finalità di modificare (alterandoli) i risultati di bilancio. Qualunque plusvalenza diventa artificiale ove non vi sia alcun percorso, né sottostante economico. Come sottolineato da Consob, seguendo la logica della FC Juventus S.p.A. si dovrebbe giungere alla paradossale conclusione per cui, in uno scambio di beni immateriali, “[l]e parti potrebbero, infatti, teoricamente concordare qualsiasi valore per i beni scambiati se in definitiva non viene scambiato alcun importo” (pag. 73 della Delibera 22482/2022). La conseguenza di un simile approccio è un’alterazione ripetuta dei valori di bilancio e del significato informativo dello stesso. Oggettivamente insussistente e persino ulteriormente sviante è poi la tesi della FC Juventus S.p.A., riportata dai comunicati conseguenti alla delibera Consob 22482/2022, secondo cui proprio con riguardo alle “c.d. operazioni incrociate” la società “precisa che gli eventuali effetti dei rilievi sollevati dalla Consob sarebbero nulli sui flussi di cassa e sull’indebitamento finanziario netto, sia degli esercizi pregressi che di quello appena concluso, mentre sul piano economico e patrimoniale sostanzialmente si azzererebbero a livello cumulato nel corso del quinquennio 2019/2020 – 2023/2024”. La tesi nega in radice le fondamenta di un qualunque bilancio che, invece, ha per definizione una prospettiva annuale. Tutte le plusvalenze generano effetti positivi sul bilancio dell’esercizio nel quale si realizzano (plusvalenze) ed effetti negativi (ammortamenti), di pari ammontare cumulato, negli esercizi successivi, di talché l’affermazione della compensazione degli effetti sul piano economico e patrimoniale nel corso degli anni è, per un verso, irrilevante e, per altro verso, inidonea ad attribuire carattere di liceità ad una plusvalenza artificiale. Al contrario, sostenere che in ogni caso gli effetti si compensano nel medio termine, un quadriennio o quinquennio, equivale a dichiarare che i bilanci degli esercizi compresi nell’intervallo temporale di riferimento non sono veritieri, in quanto tutti affetti da operazioni che hanno manipolato la distribuzione temporale dei risultati economici, mancando di qualsiasi rappresentazione della sostanza dei fenomeni economici e non rappresentandone fedelmente gli effetti. Con l’ulteriore precisazione che l’earning manipulation incide, evidentemente, anche sul patrimonio netto della società, rendendone il valore non espressivo. Esattamente come rappresentato dalla Procura federale nel proprio deferimento e come anche e soprattutto rappresentato da Consob nella propria delibera 22482/2022 ove è chiarito, senza mezzi termini, che il comportamento della FC Juventus S.p.A. comporta la “violazione del principio dell’attendibilità della situazione patrimoniale-finanziaria, del risultato economico e dei flussi finanziari dell’entità previsto dallo IAS 1”. I bilanci della FC Juventus S.p.A. (cui Consob si riferisce) semplicemente non sono attendibili. Neppure rileva la circostanza per cui tra la stessa Consob e la Procura della Repubblica di Torino sussistano differenze di contestazione, con una maggiore ampiezza di operazioni ritenute illegittime ad opera di quest’ultima. Ciò, invero, non sposta in alcun modo la rilevanza dei fatti qui richiamati rispetto allo scopo del processo sportivo, fermo che la Corte non ha ritenuto di riqualificare i fatti esaminati ai fini dell’art. 31, comma 2, CGS (e fermo, inoltre, che non sono ovviamente devolute al presente giudizio le operazioni compiute tra la FC Juventus S.p.A. e talune altre società indicate dagli atti della Procura della Repubblica di Torino e non citate dal deferimento ovvero le operazioni definite dalla predetta Procura della Repubblica e dalla Consob come prima e seconda manovra stipendi). Che si ritenga alterata la formazione di plusvalenze per circa 30milioni di euro (limitandosi alle operazioni con controparti straniere al netto di Pjanic-Arthur) ovvero per oltre 70milioni di euro (contando anche Pjanic-Arthur) o ancora si ritenga corretto aggiungere - come certamente si deve - anche i valori delle tre operazioni italiane citate dalla Consob (Lanini-Minelli, Masciangelo-Brunori e Lamanna-Barbieri rispettivamente con Parma, Novara e Pescara) ed eventualmente l’operazione Audero (con la UC Sampdoria, della quale si dirà), arrivando ad un valore prossimo ai 100milioni di euro, o ancora si voglia semplicemente recepire i dati indiscutibili indicati dalla Consob nella propria delibera n. 22482/2022, non muta il discorso dal punto di vista disciplinare. L’intensità della violazione, peraltro, ad opinione di questa Corte, deve essere misurata rispetto ad un complesso di elementi, dei quali la misura del vantaggio numerico è solo uno dei parametri. Scopo del processo sportivo, infatti, non è giungere ad una determinazione numerica esatta dell’ammontare delle plusvalenze fittizie, bensì individuare se un fenomeno di tale natura vi sia effettivamente stato, se esso sia quindi sussumibile sotto la fattispecie dell’illecito disciplinare sportivo e, infine, se esso possa essere considerato sistematico - cioè riferito a più operazioni e più annualità - come contestato dalla Procura federale. La documentazione acquisita dalla Procura federale, direttamente proveniente dai dirigenti della società con valenza confessoria, le intercettazioni anch’esse inequivoche, sia atomisticamente considerate che nel loro complesso, i riscontri ulteriori formati dalla contrattualistica volta a regolare un effetto concreto di permuta non manifestato all’esterno, e le ulteriori evidenze relative ad interventi di nascondimento di documentazione (caso Pjanic) o addirittura manipolatori delle fatture (caso Olympique De Marseille) costituiscono un quadro fattuale che assorbe ogni altra considerazione. Il vizio di inattendibilità citato dalla Consob (e riferito alla censura di quanto meno dieci operazioni di scambio su più esercizi) è, a sua volta, rilevante in sé. Con la precisazione che, come ancora di recente precisato dal Collegio di Garanzia dello Sport, il rispetto ad opera delle società calcistiche della normativa generale in materia societaria “costituisce, altresì, una forma di garanzia per tutte le società calcistiche professionistiche, onerate degli scrupolosi adempimenti patrimoniali, finanziari e contabili ivi previsti e sottoposte ai relativi sistemi di controllo sempre di natura garantista, le cui radici possono rinvenirsi nella riforma FIGC del 1966, avviata in ambito Federale con deliberazione del 16 settembre 1966, in virtù dell’importanza economica e sociale che andava progressivamente ad assumere il settore dello sport calcistico” (Collegio di Garanzia SS.UU. n. 45/2022). E se allora è vero che non può riconoscersi alcuna prassi abrogativa delle dette regole da parte del modo del calcio, è anche vero che la ratio “di tutto il sistema amministrativo-contabile delle società calcistiche professionistiche [è quello di] garantire la regolarità delle competizioni mediante la partecipazione di società che possano dimostrare, anche attraverso un rigoroso sistema di controllo ex post ed in adesione ad inderogabili criteri di trasparenza, una capacità finanziaria riferita a tutto l’arco temporale della specifica annualità sportiva, assolvendo agli oneri finanziari e contributivi previsti dalla legge, facendo fronte diligentemente agli oneri di gestione ed in generale ai costi che caratterizzano una stagione sportiva nel suo complesso, ivi compresa l’eventuale partecipazione alle competizioni europee” (Collegio di Garanzia SS.UU. n. 45/2022 cit.). Il rispetto di tali regole, prima tra tutte la prevalenza della substance over form e della trasparenza informativa, ha, quindi, un diretto collegamento con le norme sanzionatorie previste dall’ordinamento sportivo (in questo senso appunto il Collegio di Garanzia SS.UU. n. 45/2022 cit.). Nel caso specifico il comportamento della FC Juventus S.p.A. integra l’illecito disciplinare sportivo, con conseguente affermazione di fondatezza del deferimento nei confronti dei deferiti Sig. Fabio Paratici, Sig. Federico Cherubini, Sig. Andrea Agnelli, Sig. Pavel Nedved, Sig. Enrico Vellano, Sig. Paolo Garimberti, Sig.ra Assia Grazioli-Venier, Sig. Maurizio Arrivabene, Sig.ra Caitlin Mary Hughes, Sig.ra Daniela Marilungo, Sig. Francesco Roncaglio e FC Juventus S.p.A.. Risulta in particolare violato l’art. 4, comma 1, CGS. In proposito, va ricordato che la valutazione volta ad accertare il rispetto dei principi di lealtà, probità e correttezza implica un percorso probatorio e argomentativo in parte diverso rispetto ad un giudizio concentrato sulla esatta violazione delle regole puramente societarie (civilistiche o penalistiche). Percorso che qui deve ritenersi integralmente raggiunto. A conforto di quanto si va dicendo è utile richiamare gli stessi principi interpretativi adottati dal Collegio di Garanzia dello Sport, in sede consultiva, con il parere n. 5/2017. Sia pure nell’ambito di un ragionamento più ampio, proprio il Collegio di Garanzia ha chiarito che, “in ambito sportivo, l’ampio e generalizzato consenso che ricevono le clausole generali di lealtà e correttezza si ricava agevolmente dalla lettura di un dato normativo che, ripetutamente, si richiama a principi etici di rilevanza giuridica e morale […]. La difficoltà di offrire una definizione esaustiva dei doveri di lealtà, correttezza, probità non impedisce di considerarne la rilevanza dal punto di vista giuridico. La dottrina civilistica non manca, in proposito, di osservare come la clausola generale, nell'ambito normativo in cui si inserisce introduca un criterio ulteriore di rilevanza giuridica, a stregua del quale il giudice seleziona certi fatti o comportamenti per confrontarli con un determinato parametro e trarre dall'esito del confronto certe conseguenze giuridiche. Vero è che la struttura tipica delle clausole generali è quella di norme incomplete che non hanno una propria autonoma fattispecie essendo destinate a concretizzarsi nell'ambito dei programmi normativi di altre disposizioni”. Pertanto - prosegue ancora il parere n. 5/2017 del Collegio di Garanzia - “ l’assimilabilità concettuale della lealtà ai principi generali di correttezza e buona fede (Galgano) induce a ritenere che essa debba considerarsi clausola di chiusura del sistema, poiché evita di dover considerare permesso ogni comportamento che nessuna norma vieta e facoltativo ogni comportamento che nessuna norma rende obbligatorio. Questo discorso trova […] fecondo terreno di applicazione nell’ordinamento sportivo. Non diversamente da quanto accade per l’ordinamento statale – dove il richiamo ai doveri inderogabili di lealtà, correttezza e integrità acquista una caratteristica connotazione giuridica, che affiora proprio dalla necessità di porre limiti a situazioni giuridiche soggettive, alla luce dei valori costituzionali che ispirano l’ordinamento – nel caso dell’ordinamento sportivo, gli obblighi di lealtà, correttezza, non violenza, non discriminazione, appaiono interpretare l’essenza stessa dell’ordinamento, al punto che la loro violazione si traduce nella negazione stessa dei fini cui è rivolta l’attività sportiva”. Dunque, “espressioni come buona fede, correttezza, lealtà appaiono [sì] generiche e vaghe da rischiare di smarrire qualsiasi risvolto pratico, al punto da renderne difficile definire i confini di applicazione. E, tuttavia, la intrinseca flessibilità di questi concetti rinvia alle regole morali e di costume generalmente accettate e, più in generale, ad un affidamento sulla correttezza della condotta che non può non rilevare anche in ambito sportivo. Qui il rispetto degli obblighi di lealtà e correttezza – pur con quei limiti di definizione di cui si diceva – si fa più intenso, proprio in considerazione della peculiarità dell’ordinamento sportivo”. Il giudice sportivo non è quindi deputato a valutare le responsabilità ordinarie. Esso deve valutare il rispetto della lex specialis costituente l’ordinamento sportivo. Ed è chiamato a traguardare con tale disciplina speciale se le modalità con le quali “la persona [deferita] si è comportata, o per il contesto nel quale ha agito, [hanno determinato o meno] una compromissione” dei valori cui si ispira l’ordinamento sportivo (principio ancora contenuto nel parere del Collegio di Garanzia n. 5/2017; nello stesso senso si veda ex plurimis Corte federale d’appello, SS.UU., n. 12/2021-2022; Corte federale d’appello, Sezione I, n. 24/2021-2022; Corte federale d’appello, Sezione I, n. 29/2021-2022; Corte federale d’appello, SS.UU., n. 53/2021-2022; Corte federale d’appello, Sez. I, n. 8/2022-2023). Alla luce del richiamato contenuto dell’art. 4, comma 1, CGS, è anche irrilevante verificare se possa distinguersi la falsità di un bilancio rispetto alla mera non conformità di esso ai principi contabili applicabili alla società che debba redigere quel dato bilancio (dunque irregolare). Risulta assai poco significativo l’accento posto dalla difesa della FC Juventus S.p.A. su uno scambio (all’interno di un panorama particolarmente fosco derivante dal quadro probatorio che si è sopra descritto) nel quale Federico Cherubini in una interlocuzione del 15.7.2021 con altro dirigente (Stefano Bertola) afferma che se si cerca il dolo non lo si troverà. La non conformità di comportamento e l’irregolarità dei bilanci, per usare le stesse parole utilizzate dalla FC Juventus S.p.A., vanno comunque riconosciute. E quand’anche si ricostruissero tutte le vicende oggetto d’indagine in termini di colpa, l’illecito disciplinare sportivo resterebbe comunque integrato, non essendo necessario secondo la giurisprudenza di questa Corte la sussistenza di stato soggettivo del dolo specifico, né per le persone fisiche (Corte federale d’appello, Sez. I, n. 90/2021-2022), né per la responsabilità della società (Corte federale d’appello, SS.UU. n. 122/2018-2019). Parimenti è vero che l’azione di non conformità ex art. 154-ter, comma 7, t.u.f. esercitata dalla Consob non è equiparabile all’annullamento del bilancio della società deferita costituendo piuttosto una specifica misura di enforcement dell’informazione contabile. Tale natura, però, non ne determina una valenza giuridica minore, tenuto conto del relativo carattere obbligatorio (posto che una mancata pubblicazione del comunicato ad opera della FC Juventus S.p.A. avrebbe comportato ulteriori sanzioni ai sensi dell’art. 193 t.u.f., sino al 5% del fatturato) e dello scopo che ad essa va assegnato ovvero quello di correggere il non corretto comportamento dell’emittente. Resta quindi intatto il punto centrale della contestazione disciplinare: la condotta della FC Juventus S.p.A. e dei relativi amministratori e dirigenti - per tutto quanto sopra spiegato - viola l’art. 4, comma 1, CGS oltre che l’art. 31, comma 1, CGS. Quanto all’apporto causale dei singoli deferiti, esso deve dirsi provato. Per quanto concerne la responsabilità della Juventus S.p.A., di Fabio Paratici, di Federico Cherubini, di Andrea Agnelli e dello stesso Maurizio Arrivabene si rinvia al corpo delle pagine precedenti. Per ciò che concerne gli altri amministratori della FC Juventus S.p.A. è invece sufficiente riferirsi alla già richiamata consapevolezza diffusa che le intercettazioni hanno dimostrato. Alla luce delle risultanze complessive prodotte dalla Procura federale si deve confermare che il consiglio di amministrazione nel suo complesso ha condiviso, o quanto meno sopportato, la violazione dei principi sportivi. Quanto alla sanzione, essa deve tenere conto della particolare gravità e della natura ripetuta e prolungata della violazione che il quadro probatorio emerso è in grado di dimostrare. Deve parimenti tenere conto della stessa intensità e diffusione di consapevolezza di una situazione che nei colloqui tra i dirigenti della FC Juventus S.p.A. viene definita come “brutta” e persino da paragonare a calciopoli: “io sono convinto che se noi uhm … facciamo questa roba qua […] perché la situazione è veramente complicata. Io in 15 anni …, ti faccio solo un paragone. Calciopoli” (intercettazione ambientale tra Stefano Bertola e Federico Cherubini del 22 luglio 2021 in file 663239 trasmesso dalla Procura della Repubblica di Torino). Tenuto allora conto dei precedenti che hanno riguardato alterazioni contabili protratte per più esercizi ovvero di rilevanti dimensioni ed intensità (che in passato hanno portato a penalizzazioni di valore oscillante ma, in taluni casi, anche significative), si ritiene necessario rideterminare la sanzione rispetto alle richieste della Procura federale. La Corte federale è, invero, chiamata al difficile compito di svolgere funzione anche di giudice di equità e deve quindi proporzionare effettivamente la sanzione alla gravità dei fatti scrutinati, potendo anche aggravare la sanzione richiesta dalla Procura federale (Corte federale d’appello, n. 117/CFA/2020-2021). Nel caso specifico devono essere ponderati quanto meno i seguenti elementi: (a) la natura ripetuta, su più esercizi, del comportamento censurato e, dunque, la relativa effettiva qualificazione come sistematica; (b) la rilevanza del comportamento sulla ripetuta violazione dei principi di verità e correttezza dei bilanci interessati dalle operazioni sopra descritte, anche indipendentemente da una specifica quantificazione numerica della alterazione (comunque oggettivamente rilevante) ed anche indipendentemente dalla qualificazione di detti bilanci come falsi; (c) la particolare rilevanza che deve essere assegnata ad un tale comportamento di inattendibilità dei bilanci rispetto al grado specifico di lealtà che deve essere richiesto ad una società sportiva, a maggior ragione ove essa abbia deciso di quotarsi; (d) la già richiamata invasività della consapevolezza a più livelli dirigenziali e societari di un comportamento non corretto (sul piano quanto meno sportivo); (e) le modalità specifiche con le quali il comportamento ha costantemente alterato il principio della prevalenza della sostanza sulla forma, essendo emersi episodi di oggettiva opacità rispetto alla natura coeva e permutativa delle operazioni di scambio, così come episodi di mancata comunicazione di carteggi ritenuti dalla stessa FC Juventus S.p.A. rilevanti per la determinazione dei corretti valori delle operazioni compiute o addirittura episodi di modificazione delle fatturazioni al fine di non far emergere i fenomeni integralmente compensativi delle operazioni condotte; (f) lo stesso necessario intervento della Consob a fini di enforcement dell’informazione contabile (con una delibera Consob che non risulta impugnata dalla FC Juventus S.p.A.), misura quest’ultima che, benché non impugnatoria dei bilanci della FC Juventus S.p.A., ha particolare valenza di comunicazione al pubblico del comportamento corretto (invece inadempiuto) che l’emittente avrebbe dovuto avere. Tutte queste considerazioni portano dunque ad una sanzione che deve essere proporzionata anche all’inevitabile alterazione del risultato sportivo che ne è conseguita tentando di rimediare ad una tale alterazione, così come deve essere proporzionata al mancato rispetto dei principi di corretta gestione che lo stesso Statuto della Figc impone quale clausola di carattere generale in capo alle società sportive (art. 19). Discorso diverso deve svolgersi per gli altri deferiti. Va anzitutto premesso che nella documentazione acquisita dalla Procura federale, diversamente da quanto accaduto per la FC Juventus S.p.A., non sussistono evidenze dimostrative specifiche che consentano di sostenere efficacemente l’accusa nei confronti delle società UC Sampdoria, FC Pro Vercelli 1892, Genoa CFC, Parma Calcio 1913, Pisa Sporting Club, Empoli FC, Novara Calcio e Delfino Pescara 1936. E tanto meno appare possibile sostenere che vi sia stata (come sostenuto nel deferimento) una sistematica alterazione di più bilanci. Le intercettazioni, i manoscritti (incluso il “Libro Nero di FP”), la documentazione acquisita dalla Procura della Repubblica di Torino non coinvolgono direttamente tali società. Quanto alla UC Sampdoria, l’unica intercettazione di rilievo risulta essere quella contenente un riferimento riguardante l’operazione Audero-Peeters-Mulé conclusa appunto tra la FC Juventus S.p.A. e la UC Sampdoria. Alla detta intercettazione, che sembra riferirsi alla predetta operazione, può aggiungersi una mail inviata in data 27.1.2019 dall’avv. Romei (UC Sampdoria) a Cherubini (FC Juventus S.p.A.) nella quale il primo scrive: “Peeters: cessione alla Juve e prestito alla Samp. Ricordo che abbiamo due ipotesi: 2,5 + 1,5 + 50% oltre i due milioni”; 3 + 1 bonus + 50% oltre i due milioni”; anche fare a metà strada”. Su Audero mi sembra che sia tutto ok. Prestito con obbligo (16+4)”. Si tratta però di una sola operazione, certamente sospetta (come aveva correttamente evidenziato la decisione n. 0089/CFA-2021-2022 del 27 maggio 2022, qui revocata), ma per la quale non può raggiungersi (quanto meno dal lato della UC Sampdoria) certezza di illiceità e che comunque non appare sufficiente per sostenere una accusa rivolta ad una sistematica alterazione dei bilanci, avendo così impostato il proprio deferimento la Procura federale. Quanto alle società Parma Calcio 1913, Novara Calcio e Delfino Pescara 1936, la Procura federale richiama in sede di revocazione, a sostegno della tesi accusatoria, le contestazioni della Consob. Dette contestazioni, però, si riferiscono (se osservate dal lato “opposto” alla FC Juventus S.p.A. invece sempre presente in tutte le operazioni) a tre operazioni. Si tratta degli scambi Lanini-Minelli, Masciangelo-Brunori e Lamanna-Barbieri, condotti da tre società diverse (rispettivamente Parma, Novara e Pescara), uno per società e senza alcuna reiterazione nell’arco di più esercizi. Nessuno può dubitare che le operazioni in esame scontino, guardandole dal lato della FC Juventus S.p.A., lo stesso vizio che sopra si è commentato per gli scambi compiuti dalla medesima FC Juventus S.p.A. con controparti straniere (tenuto conto della volontà di eseguirle come scambio basandosi, nel caso delle società appartenenti alla Figc, sulla stanza di compensazione per effetto della quale pagamenti incrociati società di serie A o di B si compensano a meno che non sia diversamente disciplinato). Ma, come è stato efficacemente osservato dalle difese dei club interessati, due considerazioni appaiono insuperabili ai fini di una statuizione di condanna. Non può esservi alcuna sistematicità da contestare in una singola operazione (prima considerazione). Una condanna di Parma, Novara e Pescara per il mero “contatto” con la FC Juventus S.p.A. risulterebbe ingiustificata (seconda considerazione) in assenza di prove oggettive della violazione, non vista dal lato della FC Juventus S.p.A., ma appunto da quello delle deferite qui trattate. Prova che, proprio con riguardo alle citate società, non è rinvenibile nella documentazione prodotta dalla Procura federale. Il tutto senza considerare la rilevanza per la sola FC Juventus S.p.A. dei principi contabili internazionali indicati dalla Consob, che non trovano invece applicazione (nei medesimi termini) per le società italiane non quotate. Ma, allora, il sospetto che eventualmente può inferirsi con riguardo alle suddette società non è sufficiente a determinare una condanna. Tanto più in riferimento a contestazioni che nel ricorso per revocazione appaiono sostanzialmente abbandonate dalla Procura federale. Ci si riferisce agli scambi di giocatori direttamente intervenuti tra società diverse dalla FC Juventus S.p.A., in particolare gli scambi diretti tra Pescara e Parma o tra Sampdoria e Chievo Verona (quest’ultimo addirittura estromesso dal giudizio), che originariamente erano stati inclusi nel deferimento come capo di incolpazione, e che poi non risultano più citati nel ricorso per revocazione, né ulteriormente sostenuti da evidenze documentali ulteriori. Depotenziandosi, dunque, la tesi accusatoria anche per tale oggettiva ragione. Infine, poco o nulla è provato dalla Procura federale con riguardo alle società FC Pro Vercelli 1892, Genoa CFC, Pisa Sporting Club ed Empoli FC, società sostanzialmente non presenti nelle intercettazioni della FC Juventus S.p.A., fatta sola eccezione per un cenno operato nei confronti del Genoa, ma senza la partecipazione diretta di alcun responsabile di tale società e in forma oggettivamente generica (senza cioè alcuna indicazione di giocatori specifici). Questa Corte, dunque, per i deferiti diversi dalla FC Juventus S.p.A. (rispetto alla quale valgono invece tutte le considerazioni già svolte e valgono le risultanze della duplice indagine condotta dalla Procura della Repubblica di Torino e dalla Consob), si è dovuta confrontare con la struttura della domanda contenuta nel deferimento, non potendo la Corte stessa sostituire una eventuale autosufficienza di singole violazioni rispetto invece alla richiesta di riconoscimento di una sistematica violazione dell’art. 4 e 31 CGS, e per più esercizi (Corte federale d’appello, Sez. I, n. 71/2021-2022; Corte federale d’appello, Sez. IV, n. 18/2022-2023; Corte federale d’appello, SS.UU., n. 103/2020-2021). E soprattutto non potendo la Corte - come già si è segnalato - superare l’assenza, dal lato delle società UC Sampdoria, FC Pro Vercelli 1892, Genoa CFC, Parma Calcio 1913, Pisa Sporting Club, Empoli FC, Novara Calcio e Delfino Pescara 1936, di evidenze documentali in grado di offrire certezza della sussistenza della violazione effettivamente contestata. Per tale ragione, non sussistono ragioni sufficienti per sanzionare tali società.

P.Q.M.

Dichiara ammissibile il ricorso per revocazione e pertanto revoca la pronunzia n. 0089/CFA/2021-2022 del 27.05.2022 di questa Corte federale d'appello e, per l'effetto, dispone quanto segue:

1 - Respinge i reclami incidentali.

2 - Accoglie in parte il reclamo della Procura federale avverso la decisione n. 0128/TFN/2021-2022 - sezione disciplinare del 22.04.2022 irrogando le seguenti sanzioni:

a. Fabio Paratici: inibizione temporanea di mesi 30 a svolgere attività in ambito FIGC, con richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA;

b. Federico Cherubini: inibizione temporanea di mesi 16 a svolgere attività in ambito FIGC, con richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA;

c. Andrea Agnelli: inibizione temporanea di mesi 24 a svolgere attività in ambito FIGC, con richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA;

d. Pavel Nedved: inibizione temporanea di mesi 8 a svolgere attività in ambito FIGC, con richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA;

e. Enrico Vellano: inibizione temporanea di mesi 8 a svolgere attività in ambito FIGC, con richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA;

f. Paolo Garimberti: inibizione temporanea di mesi 8 a svolgere attività in ambito FIGC, con richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA;

g. Assia Grazioli Venier: inibizione temporanea di mesi 8 a svolgere attività in ambito FIGC, con richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA;

h. Maurizio Arrivabene: inibizione temporanea di mesi 24 a svolgere attività in ambito FIGC, con richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA;

i. Caitlin Mary Hughes: inibizione temporanea di mesi 8 a svolgere attività in ambito FIGC, con richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA;

l. Daniela Marilungo: inibizione temporanea di mesi 8 a svolgere attività in ambito FIGC, con richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA; FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO

m. Francesco Roncaglio: inibizione temporanea di mesi 8 a svolgere attività in ambito FIGC, con richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA;

n. F.C. Juventus Spa: penalizzazione di 15 punti in classifica da scontarsi nella corrente Stagione Sportiva.

3 - Respinge per il resto il reclamo della Procura federale. Dispone la comunicazione alle parti con PEC.

GLI ESTENSORI Domenico Luca Scordino Alberto Falini

IL PRESIDENTE Mario Luigi Torsello Depositato

IL SEGRETARIO Fabio Pesce

Plusvalenze Juventus: 6 domande dopo le motivazioni. Giovanni Capuano su Panorama il 31 Gennaio 2023.

La lettura del documento della Corte d'Appello Figc lascia aperti alcuni temi ineludibili per evitare un cortocircuito in cui si punisce solo un club (duramente) creando precedenti pericolosi

La lettura delle motivazioni con cui i giudici della Corte Federale d’Appello hanno spiegato il percorso logico che ha condotto alla maxi penalizzazione per la Juventus (-15 punti immediatamente esecutivi) e a pesanti inibizioni per dirigenti ed ex dirigenti del club bianconero – salvando invece tutti gli altri con la formula dell’assoluzione – chiarisce al di fuori di ogni dubbio l’impostazione della Corte. Sono state accolte in toto le argomentazioni della Procura federale guidata da Giuseppe Chiné che, a sua volta, aveva recepito in pieno l’impostazione accusatoria della Procura di Torino ben dettagliata nelle 550 pagine della richiesta di misure cautelari presentate al Gip dai magistrati della Procura di Torino e (vale la pena ricordare) in larga parte considerate non sufficienti per determinarne l’accoglimento. Non ci sono grandi sorprese perché l’impostazione che ha portato alla penalizzazione era stata in buona parte compresa nell’analisi del dispositivo. Era, però, fondamentale poter leggere nelle motivazioni il percorso argomentativo su cui si baserà anche il ricorso della Juventus davanti al Collegio di Garanzia del Coni, ultimo grado della giustizia sportiva prima di tentare la strada del Tar del Lazio ed eventualmente del Consiglio di Stato. L’analisi delle 36 pagine firmate dal presidente Mario Luigi Torsello e dagli altri sei componenti la Corte Federale d’Appello, al di là delle questioni di legittimità su cui si giocherà buona parte del confronto al Coni, lasciano aperte almeno 6 domande centrali e ineludibili, soprattutto in considerazione di quanto accadrà nei prossimi mesi con gli altri filoni che derivano dalle stesse carte torinesi e che riguardano anche altre società e non solo la Juventus, anche se in larghissima parte saranno ancora un profluvio di intercettazioni, mail e pizzini riferiti ai vertici societari della Continassa. Ecco le riflessioni:

1 – La Corte ha chiarito che la differenza fondamentale tra la Juventus e gli altri club coinvolti, per i quali non è stata ipotizzata la falsificazione dei bilanci, risiede nei diversi principi contabili con cui i conti economici andavano redatti. Nel caso della Juventus, quotata in Borsa, si tratta di parametri internazionali molto più stringenti in materia di registrazione delle plusvalenze. Il caso della trattativa con il Marsiglia nello scambio Aké/Tongya è stato preso come paradigmatico della necessità dei bianconeri di evitare in ogni modo che apparisse evidente una compensazione (o permuta) mentre per i francesi non c’era questa urgenza. Trattasi di materia contabile estremamente tecnica che sarà il cuore del dibattimento ordinario, tra perizie e controperizie contabili. Come è possibile che una corte sportiva possa aver liquidato tutto recependo unicamente la prima ricostruzione di una Procura, non ancora passata nemmeno al vaglio di un giudice per le udienze preliminari, sposando interamente una parte (quella accusatoria) senza sentire l’esigenza di un approfondimento anche partendo dalle evidenze contenute negli atti trasmessi da Torino a Roma?

2 – La Corte ha messo nero su bianco che gli altri club coinvolti in questo filone non sono stati ritenuti responsabili di illecito perché le operazioni indicate, seppure “sospette” non sono state provate (per le controparti dei bianconeri) e perché non può esserci sistematicità da contestare se si tratta di una singola operazione. La domanda è: dunque si afferma il principio di una sorta di “quantitativo minimo” di plusvalenze sospette all’interno del quale la giustizia sportiva non interviene? E se sì, di quale si tratta? Come viene determinato? Per valori assoluti o in relazione al fatturato di una società? E sulla base di quale norma federale, asserito che continua a non esistere come gli stesi giudici (ri)sottolineano?

3 – Dunque per la terza volta in un anno è stato sancito che le plusvalenze fittizie non sono perseguibili dal punto di vista della giustizia sportiva? E in questo caso, a che titolo saranno richiesti e istruiti i prossimi processi? 4 – Legato a questo ragionamento, c’è un’altra domanda che emerge: la Corte scrive che “non è noto se tutte le controparti della Juventus FC abbiano o meno registrato anch’esse una plusvalenza da scambio del loro giocatore ceduto o quale sia stato il trattamento contabile seguito”. In che senso? Pur nei propri limiti, la magistratura inquirente sportiva (che non può intercettare, sequestrare o disporre attività al pari di quella delle procure della Repubblica) avrebbe potuto tranquillamente cercare e trovare queste risposte semplicemente consultando i bilanci delle cosiddette controparti che sono pubblici e facilmente reperibili. In base a quale principio è stata accettato il mancato approfondimento su una acclarata “notizia di reato” sportiva, visto che la stessa Corte conferma il sospetto su tali operazioni? E come saranno trattati gli altri scambi, quelli che presumibilmente innerveranno il filone bis sulle plusvalenze? Sempre e solo facendo copia e incolla delle carte dell’inchiesta Prisma o provando, dovendosi ragionare di lealtà e slealtà, ad accendere un faro probatorio anche sugli altri?

5 – La Corte ha spiegato, utilizzando la sponda della Cassazione, che “la revocazione travolge completamente i capi della sentenza revocata”. Tradotto significa che è giustificata la scelta di procedere anche oltre i motivi di deferimento iniziali estendendo alla Juventus società l’ormai celebre articolo 4 che è il cappello sotto cui si perseguono tutti i comportamenti considerati sleali. Accettando questo passaggio e che, dunque, dalla revocazione nasca un nuovo processo interamente o parzialmente differente rispetto a quello la cui sentenza è stata revocata, come è possibile sostenere che sia stato rispettato il diritto dell’imputato di difendersi. La stessa ricostruzione dell’udienza del 20 gennaio che si trova nelle motivazioni, nonché la durata estremamente breve (7 ore) dimostrano che si è trattato sostanzialmente di un confronto senza contraddittorio sulla nuova impostazione accusatoria data dalla Procura federale. E senza la percezione che ci sia stato un giusto processo, come è credibile che ci sia accettazione di un verdetto così pesante e impattante sulla sopravvivenza stessa di una società e azienda?

6 – A pagina 31 delle motivazioni la Corte Figc scrive: “I bilanci della FC Juventus Spa (cui Consob si riferisce) semplicemente non sono attendibili”. Affermazione forte e definitiva nella sua nettezza. Ci si augura, per i giudici stessi, supportata in futuro anche dall’evidenza del processo penale. Ma considerato che tutto l’impianto che ha portato alla penalizzazione poggia su un sistema creato per eludere slealmente le norme, complessivamente utilizzato per alterare i bilanci e attraverso questi la competizione sportiva anche senza andando oltre l’onere di dover dimostrare la violazione di una singola norma, quante volte la Juventus potrà essere processata con lo stesso capo di imputazione? E basandosi su carte che fanno parte di un’inchiesta unica e che, per questioni di scadenze di termini, la giustizia sportiva sta spezzettando in più filoni? Se nel prossimo fascicolo Chiné segnalerà altre operazioni ‘sospette’ con altri club, come potrà evocare la violazione dell’articolo 4 sulla slealtà senza che non si possa discutere su una sorte di continuazione per cui la Juventus ha già pagato il conto del suo sistema e non può essere nuovamente chiamata sul banco degli imputati con lo stesso impianto accusatorio?

Da gazzetta.it il 30 gennaio 2023.

"La Società e i singoli si opporranno con ricorso al Collegio di Garanzia presso il Coni nei termini previsti". Ricevute le motivazioni da parte della Corte federale d'appello, la Juventus ufficializza il previsto ricorso con una nota in cui le ragioni espresse dalle Sezioni Riunite sono definite come "un documento, prevedibile nei contenuti, alla luce della pesante decisione, ma viziato da evidente illogicità, carenze motivazionali e infondatezza in punto di diritto".

 "Juventus Football Club e il suo collegio di legali hanno letto con attenzione e analizzeranno a fondo le motivazioni, pubblicate poco fa, della decisione delle Sezioni Unite della Corte Federale d’Appello", dice la nota ufficiale del club bianconero: "La fondatezza delle ragioni della Juventus sarà fatta valere con fermezza, pur nel rispetto dovuto alle istituzioni che lo hanno emesso".

Ecco le contraddizioni della sentenza. Assenza di una norma sulle plusvalenze e revocazione per un'accusa diversa. Franco Ordine il 31 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Dentro le 36 pagine dedicate alle motivazioni della sentenza Juve (-15 punti in classifica), ci sono quasi tutte le spiegazioni dovute sulla stangata (i pilastri: libro nero di Paratici e le intercettazioni, definite documenti di natura confessoria) più un accorato appello a colmare il vuoto normativo sulle plus-valenze e un coraggioso tentativo di neutralizzare l'intervento del collegio di garanzia presso il Coni, futuro e scontato approdo del ricorso juventino in ultima istanza. Cominciamo dalle prime: in sintesi le decisioni del presidente Torsello e degli estensori Scardino e Falini sono ancorate al fatto che le plusvalenze fittizie hanno alterato l'equa competizione, con riferimento esplicito a identiche motivazioni di precedenti decisioni del collegio di garanzia presso il Coni. Di qui l'applicazione dell'articolo 4 riferito alla lealtà. Ma se nelle premesse, la stessa corte ha riconosciuto già nel giudizio del 27 maggio 2022 l'inesistenza, a livello di ordinamento federale, di criteri normativamente sanciti per decifrare il valore di un calciatore e riconosce la necessità un intervento normativo urgentissimo, diventa un'acrobazia procedurale sanzionare un club che ha fatto ricorso a tale modalità. Senza un divieto esplicito, non può esserci sanzione.

Respinta l'obiezione del ne bis in idem (impossibilità a giudicare una seconda volta, per la stessa condotta, le stesse persone; ndr) in punta di diritto (sacro principio non applicabile in ambito disciplinare smentito da una sentenza della Cassazione), la corte federale ha provato a smontare l'obiezione secondo cui il processo di revocazione può riguardare identica, precedente imputazione (articolo 31, illecito amministrativo). La spiegazione è stata questa: la giurisprudenza federale, al contrario di quella del Coni, prevede una nuova accusa. L'altro quesito popolare («perché in fatto di plus-valenze ha pagato solo la Juve? Le ha fatte da sola?») ha trovato la seguente risposta: Il libro nero di Paratici è di una portata devastante sul piano della lealtà sportiva mentre sugli altri club non sono emersi nuovi particolari. Delle tante plusvalenze due vengono citate con maggiore enfasi: quella col Marsiglia (Akè-Tongya) definita eclatante, e quella col Barcellona (Pjanic-Arthur) che ha provocato anche un giudizio della Consob. La palla passa ora al collegio di garanzia del Coni. C'è materia per attendersi un chiarimento su tutti i punti controversi.

Il libro nero della Figc. La regola che la Juve avrebbe violato non c’è (e non c’è nemmeno la sanzione comminata). Cataldo Intrieri su L’Inkiesta il 30 Gennaio 2023

I giudici sportivi hanno ritenuto che il materiale della procura di Torino abbia dimostrato nefandezze tali da rendere superflua pure la configurazione di un reato apposito

Il “libro nero di Fabio Paratici” è la novità che balzando fuori dalle carte di Torino ha determinato la pesante sanzione a carico della Juventus sul piano sportivo. Si tratta di una serie di appunti che, a dire della Corte federale della Federcalcio – che ha accolto la richiesta di revocazione promossa dal procuratore federale Giuseppe Chinè – dimostrerebbero inconfutabilmente un’illecita pratica di alterazione del valore dei giocatori.

Leggo la sentenza della Corte di Appello, nientemeno a Sezioni Unite, col medesimo presidente che qualche mese va aveva assolto il club per gli stessi fatti: non pratico il diritto sportivo se non per i risvolti domenicali, mi basta quello ordinario e con i miei occhi profani leggo le motivazioni.

La questione è semplice: il Codice di giustizia sportiva può essere un libro nero o bianco di norme che possono valere per un ambito ristretto di appassionati, più o meno come le regole di un circolo di distinti gentiluomini.

Se invece si ha la pretesa di definire il mondo dello sport “anche” come un ordinamento giuridico allora devono valere i principi che all’inizio del secolo scorso l’illustre giurista Santi Romano delineò nelle sue opere: possono esistere distinte realtà giuridiche, ognuna con le sue istituzioni e le sue norme, ma nessuna, per essere riconosciuta, può violare i principi fondamentali dello Stato e le norme di ordine pubblico (chiedo venia per l’eccesso di semplificazione).

La sentenza che ha condannato la Juventus in un colpo solo ne viola alcuni a partire da quello di legalità: in un precedente articolo questo giornale aveva evidenziato che la medesima Corte ed il medesimo presidente avevano scritto che le prassi dei responsabili juventini erano scorrette e contrarie alle regole contabili, ma purtroppo non sanzionabili in quanto manca una norma esplicita in sede sportiva.

Sul punto hanno di recente convenuto sia il ministro dello sport Andrea Abodi che il presidente della Lega Serie A, Lorenzo Casini, promettendo di varare la normativa.

Legittimo chiedersi come mai allora la Corte abbia condannato senza un reato: non è facile capirlo.

I giudici hanno ritenuto che “il libro nero di Paratici”, al pari di quello del comunismo per la politica, abbia spalancato la vista su un universo di nefandezze e violazione di principi sportivi.

Comprensibile lo sdegno ma un ordinamento di diritto prevede che qualsiasi cittadino anche il peggiore, come poniamo sia un Fabio Paratici, sappia a cosa va incontro prima di porre in essere una determinata condotta che lo Stato decida di reprimere.

L’unica eccezione sul punto fu fatta dagli Alleati a Norimberga contro i gerarchi nazisti cui fu contestato il reato di “crimini contro l’umanità” non contemplato da alcun codice sul presupposto che l’enormità e l’orrore dei loro atti fosse talmente evidente da violare la legge morale che ogni uomo si porta dentro.

Orbene, e con il dovuto senso di misura, non così dissimile da tale principio ( denominato “regola di Radbruch”, dal nome del giurista tedesco che lo teorizzò) è stato il ragionamento seguito dai giudici sportivi.

Essi hanno ritenuto che il materiale riversato loro dalla procura di Torino abbia dimostrato l’abissale nefandezza e consapevolezza dell’illiceità delle loro azioni da rendere superflua pure la configurazione di un reato apposito. Forse è eccessivo.

Non solo ma nelle condotte che hanno determinato la sanzione finale la Corte fa confluire anche una trattativa, quella tra Arthur e Pijanic col Barcellona, mai contestata dalla procura ma che sicuramente verrà buona per l’Uefa per sanzionare i due club, guarda caso tra i patrocinatori della detestata Superlega. Anche qui il diritto cigola.

L’impressione è che nell’ansia di adeguare il processo sportivo alle risultanze dell’inchiesta, e di procedere celermente, si siano sacrificati equità e diritto.

La sanzione di quindici punti è stata comminata alla Juve per la contestazione dell’art. 4 comma 1 del codice sportivo che stabilisce tuttavia una regola di ordine generale, l’osservanza dei «principi di lealtà, correttezza e probità». Non è invece contestato il comma 2, che espressamente prevede la sanzione della penalizzazione, mentre invece l’accusa comprendeva anche l’art. 31 comma 1.

Questa è una norma specifica che sanziona «l’alterazione, la falsificazione anche parziale dei documenti richiesti dagli organi di giustizia sportiva», tuttavia prevede come pena solo un’ammenda perché considera tale condotta un illecito amministrativo. Questa avrebbe dovuto essere la pena.

Presumibilmente la procura sportiva dopo aver ricevuto gli atti giudiziari da Torino si è accorta di una contestazione insufficiente: avrebbe voluto contestare il comma 2 dell’art 31 che sanziona con la penalizzazione i falsi per eludere le norme sull’iscrizione alle competizioni sportive e non potendo aprire un nuovo procedimento per gli stessi fatti è ricorsa alla revocazione, diciamo, forzando i termini della questione.

Che la procedura sia tutt’altro che perfetta lo dimostra il ribadito proscioglimento degli altri club pur «concorrenti necessari» della Juventus perché alla Corte deve essere sembrato eccessivo condannare senza neanche le intercettazioni. Eppure sia consentito: se le violazioni e i falsi erano così smaccati come è possibile che non se ne accorgessero i contraenti?

Ribadisco: sono queste osservazioni che qualcuno può legittimamente ritenere non adeguate all’ordinamento sportivo ma può una realtà complessa come la football industry fare a meno del diritto? E si può sacrificare tutto alla velocità e alla regola dello spettacolo che deve andare avanti comunque? Può il principio di autonomia di un ordinamento sfiorare l’arbitrio?

Se non si vuole attendere gli esiti della giustizia ordinaria non sarebbe più logico rinforzare gli organismi giudiziari sportivi? Consentire vere e autonome indagini alla procura, ma soprattutto allargando i dibattimenti a una vera attività processuale, col contraddittorio effettivo sulle prove? Insomma creare un vero “processo sportivo” simile a quello ordinario e soprattutto pubblico? Servirebbe anche ad avere fiducia nelle istituzioni sportive, e ce ne sarebbe bisogno.

Santoriello, il pm dell'inchiesta Prisma: "Odio la Juve e da pubblico ministero sono antijuventino". La Repubblica il 07 Febbraio 2023

Un convegno del 2019, dal titolo "Il Modello organizzativo e le società calcistiche. La prevenzione degli illeciti tra giustizia penale e sportiva". Partecipa il magistrato Ciro Santoriello, pubblico ministero dell'Inchiesta Prisma, sulla base delle cui intercettazioni la Juventus è stata penalizzata di 15 punti dalla giustizia sportiva. Nel primo video un relatore dice: "Rimaniamo distanti sul fatto che lei sia pm e io avvocato, e che lei tifa Napoli e io tifo Inter”. Santoriello chiosa: "Basta che non sia la Juventus". Molto più pesante il secondo video: "Come presidente di una società di calcio - dice Santoriello - non sono bravo se faccio gli utili ma anche se vinco gli scudetti. A volte però c’è un rapporto di incompatibilità tra le due cose. Lo ammetto, sono tifosissimo del Napoli e odio la Juventus. Come tifoso è importante il Napoli, come pubblico ministero sono antijuventino, contro i latrocini in campo, eppure mi è toccato scrivere archiviazioni”.

(ANSA il 7 febbraio 2023) - Rabbia tra i tifosi della Juventus per il video, pubblicato oggi anche da alcuni quotidiani - altri nel riportano il testo - con uno dei pm dell'inchiesta Prisma sui bilanci della Juventus, che scherza sulla sua anti-juventinità a un convegno pubblico.

 L'episodio risalirebbe ad un incontro del 2019, due anni prima dell'apertura dell'inchiesta della Procura di Torino, all'incontro "Il Modello organizzativo e le società calcistiche. La prevenzione degli illeciti tra giustizia penale e sportiva", ma le battute da tifoso del magistrato hanno sollevato un mare di polemiche: "Lo ammetto - dice Santoriello nel video, interpellato da un avvocato accanto a lui al tavolo dei relatori - sono tifosissimo del Napoli e odio la Juventus. Come tifoso è importante il Napoli, come pubblico ministero ovviamente sono antijuventino, contro i ladrocini in campo, e mi è toccato scrivere archiviazioni".

 (ANSA il 7 febbraio 2023) - Battute di spirito pronunciate mentre parlava di un'inchiesta sulla Juventus di cui aveva appena chiesto l'archiviazione. Questo è il frammento del video di un convegno, diventato virale sui social, in cui Ciro Santoriello, uno dei tre pm della procura di Torino nel processo plusvalenze della società bianconera, si proclama tifoso del Napoli e "anti juventino".

L'episodio è del 2019. Nel video completo, secondo quanto apprende l'ANSA, Santoriello stava esponendo le ragioni per le quali aveva scagionato la dirigenza della Juve al termine di quell'indagine. Il convegno aveva per titolo "Il modello organizzativo e le società calcistiche: la prevenzione degli illeciti tra giustizia penale e giustizia sportiva". Si tenne a Milano nella Sala Sforza dello Spazio Chiossetto nel giugno del 2019. Il video integrale dura oltre 4 ore e trenta minuti.

(ANSA il 7 febbraio 2023) - C'era anche Andrea Agnelli fra i cinque indagati nel procedimento di cui il pm Ciro Santoriello chiese l'archiviazione. Il caso riguardava una presunta irregolarità nei bilanci della Juventus per gli anni 2015 e 2016 e, in particolare, la mancata iscrizione nel fondo "oneri e rischi" di una somma per far fronte, in futuro, ad eventuali risarcimenti danni conseguenti ad azioni civili in relazione al caso Calciopoli. Non trovando irregolarità, il magistrato aveva proposto l'archiviazione.

La polemica per il video di un convegno del 2019. Chi è Ciro Santoriello, il pm dell’inchiesta Prisma: “Tifosissimo del Napoli, odio la Juventus”. Vito Califano su Il Riformista il 7 Febbraio 2023

Ciro Santoriello lo diceva senza giri di parole: “Lo ammetto, sono tifosissimo del Napoli e odio la Juventus. Come tifoso è importante il Napoli, come pubblico ministero ovviamente sono anti-juventino, contro i ladrocini in campo, e mi è toccato scrivere archiviazioni”. Queste le parole di uno dei pm titolari dell’inchiesta Prisma a un convegno del 2019, due anni prima dell’apertura dell’inchiesta della procura di Torino, all’incontro “Il Modello organizzativo e le società calcistiche. La prevenzione degli illeciti tra giustizia penale e sportiva”, che hanno scatenato la polemica.

L’inchiesta Prisma riguardava le presunte plusvalenze nella compravendita di giocatori. Santoriello è stato il pm che ha chiesto il rinvio a giudizio di 12 dirigenti della Juventus, tra cui Andrea Agnelli. L’udienza preliminare è fissata per il 27 marzo. L’Ansa ha riportato che nel video completo Santoriello stava esponendo le ragioni per le quali aveva scagionato la dirigenza della Juve – cinque dirigenti tra i quali Andrea Agnelli – al termine di un’indagine per presunta irregolarità nei bilanci della Juventus per gli anni 2015 e 2016 e, in particolare, la mancata iscrizione nel fondo “oneri e rischi” di una somma per far fronte, in futuro, ad eventuali risarcimenti danni conseguenti ad azioni civili in relazione al caso Calciopoli.

La Stampa scrive come in procura a Torino il pm sia noto per la sua competenza sui reati economici: bancarotta, bilanci, diritto penale societario, reati del curatore. Santoriello è nato a Latina nel 1965, laureato in Giurisprudenza alla Sapienza a Roma, è magistrato dal 1991. Al momento è in servizio alla direzione distrettuale antimafia di Torino. Per anni è stato nel pool di reati economici coordinato dal procuratore aggiunto Marco Gianoglio, destinato dal procuratore capo Anna Maria Loreto alla lotta al crimine organizzato.

Prima di essere pm a Torino lo era stato a Pinerolo. Ha realizzato diverse pubblicazioni “e contributi in riviste e libri su vari aspetti del diritto e autore di numerose monografie in tema di diritto penale e commerciale; relatore e organizzatore di numerosi convegni sui temi del diritto penale societario nonché sulla responsabilità colposa del medico e sul consenso al trattamento sanitari”, come si legge su First Online. Insieme ai colleghi Mario Bendoni e Marco Gianoglio, sta conducendo l’inchiesta Prisma sui bilanci della Juventus che ha portato al rinvio a giudizio degli ex vertici del club bianconero e, dal punto di vista sportivo, alla penalizzazione di 15 punti decisa dalla Corte Federale d’Appello.

L’avvocato Luigi Chiappero, uno dei più noti penalisti d’Italia, che nel procedimento dell’inchiesta Prisma difende due ex dirigenti bianconeri (Marco Re e Stefano Bertola) ha commentato: “Santoriello? Un magistrato colto che non ha mai confuso il calcio con il diritto. A tal proposito ricorderei come fu proprio lui ad archiviare tutte le accuse in un procedimento del passato aperto sui conti della società bianconera”. Di ieri sera il tweet del ministro dello Sport e i Giovani Andrea Abodi. “Ho visto, ascoltato e segnalato, nel rispetto dei ruoli, per le opportune verifiche e valutazioni. Per ora penso sia corretto che mi fermi qui”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Legato per “La Stampa” l’8 febbraio 2023.

Lui, il pm finito nella bufera social per un video girato quattro anni fa in cui, tra un sorriso e una battuta intrisa di fede calcistica, diceva di odiare la Juventus (seguìto da grassa risata in sala) a un convegno a Roma, non parla. […]

 E però la reazione social che si è abbattuta dall'altroieri su Ciro Santoriello, uno dei pm che ha indagato su tre annualità dei bilanci Juventus nell'inchiesta Prisma, non lo ha lasciato del tutto indifferente. A coloro che ieri – tra avvocati e personale – gli hanno manifestato solidarietà o semplicemente una parola di stima ha risposto sinteticamente: «Grazie, sono sereno».

Durissima la reazione del tifo bianconero che invece vede in quelle uscite considerati da molti inopportune se non la malafede, quanto meno una mancanza di equilibrio che avrebbe potuto inficiare, questo il pensiero dei tifosi, l'azione penale. Cosa fin qui non avvenuta a Torino dove il pm è noto come magistrato esperto sui reati economici: bancarotta, bilanci, diritto penale societario, reati del curatore. Prova ne sono i numerosi testi di diritto processuale che negli anni ha scritto e pubblicato per le più importanti case editrici sui temi in questione.

 Nato a Latina, anima partenopea e notorio appassionato del Napoli sul quale non ammette contraddittorio calcistico, è oggi in servizio alla direzione distrettuale antimafia di Torino. Dopo gli anni trascorsi nel pool reati economici, è stato destinato dal procuratore capo Anna Maria Loreto alla lotta al crimine organizzato per combatterne il profilo economico-finanziario proprio per la sua specificità in materia.

In passato aveva già condotto indagini delicate su fallimenti e bancarotte che sono culminate in pronunce di condanna, ma è stato lui stesso, più volte, dopo aver avviato investigazioni contabili a chiedere l'archiviazione delle accuse per gli imputati prima della chiusura delle indagini preliminari e approdare a una fase processuale […]

 Da qui il riconoscimento - anche di buona parte dell'avvocatura - di un certo equilibrio e garantismo nell'esercizio dell'azione penale.

E suona come una Cassazione – sul punto – la dichiarazione dell'avvocato Luigi Chiappero, tra i più noti penalisti italiani, rilasciata a La Stampa ieri mattina: «Santoriello? Un uomo colto che non ha mai confuso il calcio con il diritto. Ricorderei a tal proposito che fu lui ad archiviare le accuse alla Juve sui conti del 2016». […]

 Ora, nel campo delle ipotesi, potrebbe autonomamente scegliere di fare un passo indietro rispetto alla titolarità del fascicolo, rimettendo le deleghe relative all'indagine che condivide con il pm Mario Bendoni e l'aggiunto Marco Gianoglio.

Ipotesi remota ad oggi e molto probabilmente rispedita al mittente se dovesse concretizzarsi. Potrebbe chiedere invece lo spostamento del procedimento a Milano la Juventus qualora sostenesse di ravvisare «una grave situazione locale tale da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabile» per via di un fatto capace di pregiudicare «la libera determinazione delle persone che hanno partecipato al processo, o determinare motivi di legittimo sospetto».

 Le istanze su questa falsa riga non hanno però avuto molta fortuna finora in altre sedi e in altri procedimenti diversi da quest'ultimo. Né seguito giuridico.

 Estratto da ilfattoquotidiano.it l’8 febbraio 2023.

Esistono due categorie di tifosi: quelli che vogliono vincere a tutti i costi e quelli che vogliono vincere rispettando le regole. Io credo che il vero tifoso appartenga alla seconda categoria”.

 Si è espresso così il magistrato Raffaele Guariniello, ieri intervenuto alla terza giornata di ‘Trame’ – il Festival dedicato ai libri sulla mafia – per presentare il suo ultimo lavoro “ La giustizia non è un sogno. Perché ho creduto e credo nella dignità di tutti”.

 In un dialogo con Gaetano Savatteri, […]  Guariniello ha raccontato le inchieste più importanti che lo hanno visto protagonista negli ultimi anni, […] fino ad arrivare all’inchiesta doping nel calcio che ha riguardato uno dei club calcistici più importanti, la Juventus.

Nonostante il dottor Agricola sia stato assolto, perché una squadra così importante come la Juventus – ha domandato Savatteri – decide di tenerlo?” – “Non facciamo come tanti politici che trasformano la prescrizione del reato in assoluzione. Perché tenerlo? Questo bisognerebbe chiederlo a loro”. […]

Se Santoriello odia la Juve. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 7 febbraio 2023.

C’ è stato un tempo, ormai così lontano che in pochi ne serbano ancora il ricordo, in cui i magistrati non aprivano bocca in pubblico e, quando lo facevano, era per tenere dei discorsi in punto di diritto che la platea ascoltava educatamente, fissando il vuoto. Poi anche loro sono stati colti dall’impulso irrefrenabile di risultare simpatici. Di rivelare i propri gusti politici, estetici, culinari, addirittura le proprie simpatie e antipatie calcistiche, che in Italia sono le uniche a venir prese maledettamente sul serio. A questa malattia incurabile della modernità, a cui con inevitabile approssimazione si dà il nome di narcisismo, va ascritta la battuta del pubblico ministero Santoriello che sta suscitando tanto scandalo. Il magistrato, che tutti gli addetti ai lavori, e persino quelli ai livori, descrivono come un modello di imparzialità, anni orsono pensò bene di ridestare dal sonno il pubblico di un convegno sulla giustizia sportiva rivelando di odiare la Juventus e associandola alla parola «latrocinio» tra le risate generali, comprese purtroppo le sue. Essendo Santoriello uno dei tre pm che indaga sui bianconeri, qualunque sua mossa rischia adesso di dare adito a congetture, specie in un Paese come il nostro dove la miscela tra tifo e complottismo produce sconquassi anche nei cervelli più lucidi. O non ho appena sentito un amico interista sostenere che Santoriello è uno juventino che finge di odiare la sua squadra del cuore per farla assolvere senza suscitare sospetti? 

Cesaro, Maffezzoli e i post anti-Juventus: membri del Collegio di garanzia ma non giudicheranno i bianconeri. Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 7 Febbraio 2023.

Nuova bufera social dopo quella sul pm Ciro Santoriello. Cesaro, membro del Collegio di garanzia, aveva fatto un post contro gli Agnelli nel 2021: «Sono bambini viziati». Come Pier Giorgio Maffezzoli, di fede interista, che pure ha insultato la Juve su Facebook. Ma l’organismo del Coni deciderà a sezioni unite e loro non ci saranno

Il video di quattro anni fa del pm Ciro Santoriello (componente del pool di magistrati titolari dell’inchiesta Prisma) in cui il giudice, nato a Latina ma con origini partenopee, si dichiara tifoso del Napoli, fa il giro dei social e solleva polemiche. Sortisce però anche l’effetto di rispolverare profili social o dichiarazioni più o meno datati di due avvocati napoletani, il giuslavorista Marcello de Luca Tamajo e l’amministrativista Vincenzo Maria Cesaro, entrambi componenti della prima sezione del Collegio di garanzia del Coni che avrà l’ultima parola sulla vicenda plusvalenze della Juventus e sui 15 punti di penalizzazioni inflitti al club dalla Corte d’Appello federale. Ma non saranno loro a decidere. Trattandosi di un caso delicato, si procederà a sezioni unite. Con la nomina dei cinque presidenti di sezione. Tanto rumore per nulla.

L’amministrativista

Cesaro, da professionista comune, si era lasciato andare a considerazioni personali sulla famiglia Agnelli. È stato rispolverato un suo post su Twitter del 2021 in cui l’avvocato a proposito della Superlega scriveva così: «Superlega altra pagina squallida della storia degli Agnelli», «Per far fronte alla loro incapacità imprenditoriale lo Stato per decenni li ha assistiti con ammortizzatori sociali e con finanziamenti a fondo perduto». La chiosa di un post anche molto lungo era: «Sono bambini viziati». «Si sono indebitati fino al collo con investimenti sciagurati e ora vogliono creare il loro circo, far prevalere interessi finanziari e non i meriti sportivi». Poi commenti livorosi anche per Cristiano Ronaldo e per la società per averlo ingaggiato («60 milioni spesi per quel bimbo minchia Ronaldo che non gli ha consentito di vincere l’ossessione della Champions League»). Considerazioni da bar sport, che lasciano il tempo che trovano. Il punto è che da sei mesi l’avvocato in questione è componente del collegio di Garanzia del Coni. Sui social si è accesa una polemica di proporzioni significative. Sarà espressione di garanzia super partes? Più o meno questa la domanda. Lui, raggiunto al telefono, se la cava con ironia: «È una polemica ridicola — dice — la trovo assurda. Un post fatto anni fa che non significa nulla. Poi, non sarò mica io a decidere». E dice la verità, visto che si procederà a sezioni unite.

Il giuslavorista ex dirigente del Napoli amico di Allegri

Sull’altro componente del Collegio, il giuslavorista Marcello de Luca Tamajo, la polemica si è praticamente spenta sul nascere. Sette anni fa dichiarava che da napoletano era anche molto amico di Allegri. La sua storia personale passata lo colloca dirigente del Napoli di Ferlaino (ma siamo a metà degli anni Novanta).

L’avvocato interista

Altro membro bersagliato dai social è Pier Giorgio Maffezzoli, componente della prima sezione, che sempre su Facebook otto anni fa, facendo intuire la propria fede interista, pubblicava un post con insulti verso la Juventus. Ma anche Maffezzoli non sarà tra i cinque giudici che si occuperanno del caso Juventus al Collegio di Garanzia.

Juventus, l'obbligo di un giusto processo (senza tifo), Giovanni Capuano su Panorama il 7 Febbraio 2023.

Un giudice che discute la sentenza sui giornali, il pm che si dichiara anti juventino e una sentenza difficile da argomentare perché punisce solo una società: il sistema rischia di non essere credibile (e non può permetterselo) -

C'è un giudice del Collegio di Garanzia del Coni che ha accettato di commentare sui giornali la sentenza oggetto del ricorso destinato a breve a finire sui tavoli del Collegio stesso. E poco importa che non sia destinato alla sua sezione e che nella sua analisi il professore Piero Sandulli abbia trovato sia elementi di forza che di debolezza nelle motivazioni della Corte Federale d'Appello. E c'è uno dei pubblici ministeri dell'inchiesta Prisma da cui è nata tutta la vicenda sportiva che riguarda la Juventus (oltre a quella penale) che in un convegno del 2019 dichiara senza farsi problemi di essere "tifosissimo del Napoli" e che "odio la Juventus" e "come pubblico ministero sono anti-juventino, contro i ladrocini di campo". Non perché il dottor Ciro Santoriello non sia un ottimo sostituto procuratore e nemmeno perché il suo lavoro possa essere stato inficiato dalla sua passione (anti)juventina. No. Il punto centrale è un altro e tiene dentro tutto, partendo dalle anticipazioni del professor Sandulli e arrivando alle confessioni di Santoriello: il punto è che in una materia delicata come la giustizia sportiva in cui i diritti della difesa sono compressi fino quasi all'annullamento - lo testimoniano le 7 ore (da remoto) del processo che ha inflitto la stangata alla Juventus - l'unica cosa che tiene in piedi il sistema è la sua credibilità. E un pm di dichiarato odio per la parte che si troverà poi a investigare, o un giudice che non coglie l'inopportunità del suo parlare, minano alla radice la credibilità di tutto il sistema.

La ragione è semplice. Chi potrà mai togliere dalla testa di milioni di tifosi della Juventus e di molti osservatori neutri che la meticolosità dell'indagare della Procura di Torino sui bilanci della Juventus non sia stata ideologicamente influenzata dal tifo? In sede ordinaria non è un problema, ci saranno più passaggi con contraddittorio in cui intercettazioni, documenti e ricostruzioni saranno oggetto di dibattito fino ad arrivare a una sentenza tra qualche anno. Ma l'ordinamento sportivo funziona in maniera molto più brutale: ha preso quella mole di intercettazioni e documenti e ne ha fatto delle prove indiscutibili. Tra l'altro separando il destino di uno rispetto a quello degli altri, pure coinvolti nelle stesse carte. Senza contraddittorio, senza contestualizzazione, senza dibattito. E allora come togliere il dubbio che ci sia in origine una disparità di trattamento? Quante altre procure stanno lavorando sulle rispettive società? Con quale accuratezza e profondità? Quando arriveranno le carte alla Procura Figc? Ed è credibile che la stessa semplicemente faccia copia e incolla dell'impianto accusatorio ereditato senza procedere ad alcun tipo di approfondimento in autonomia all'interno delle competenze che le sono concesse dal codice sportivo? Lo ha ammesso la stessa Corte Figc (pagina 29 delle motivazioni). "Non è noto se tutte le controparti della FC Juventus Spa abbiano o meno registrato anch'esse una plusvalenza da scambio del loro giocatore ceduto o comunque quale sia stato il trattamento contabile seguito". Significa che il procuratore Giuseppe Chiné non si è nemmeno preso la briga di controllare i bilanci (pubblici) delle altre ma si è concentrato solo sulla ricostruzione che veniva da Torino. E che si occupava solo della Juventus. E che per i giudici della massima corte della Federcalcio andava bene così. E' credibile? No, mina la credibilità dell'intero sistema. E siccome sulla base di questi presupposti, di norma e di opportunità, si sta decidendo se azzerare sportivamente una società con ricadute enormi dal punto di vista sportivo ed economico, che non si fermano solo alla Juventus, è bene dire con chiarezza che il club bianconero e i suoi dirigenti meritano un giusto processo, senza alcuna ombra. Anche all'interno dell'ordinamento sportivo. Il calcio italiano ha il dovere di punire eventuali comportamenti illeciti ma ha l'obbligo di farlo attraverso un percorso lineare, trasparente, logico ed esaustivo. Non arrivandoci in maniera parzialmente cieca e forzatamente affrettata, immaginando che tutti quelli che osservano debbano per forza accettare zone d'ombra di qualsiasi genere. Non è solo un problema della Juventus e della sua gente. E' tutto il sistema che non può permettersi il lusso di consegnarsi ad anni di veleni, sospetti e ricorsi per non essere stato capace, nel momento opportuno, di pretendere che tutte le sue componenti e tutti i suoi atti fossero al di sopra di ogni sospetto.

Il principio di stretta legalità. Tutti i contorni politici della giustizia sportiva sulla Juventus. Cataldo Intrieri su L’Inkiesta il 6 Febbraio 2023

Un emendamento del governo, poi ritirato, e il precedente pro Lotito con cui lo stesso Collegio di garanzia che a breve giudicherà i bianconeri ha dato ragione alla Lega calcio e torto alla Figc. Chissà se il Coni se lo ricorderà

Com’era facilmente prevedibile (e come anticipato qui), la vicenda di “giustizia sportiva” della Juventus sta rapidamente assumendo contorni politici. In settimana, il governo ha frettolosamente inserito nel decreto omnibus “mille proroghe” un criptico emendamento con il quale modificava l’articolo 86 del Testo unico sulle Imposte che «limita l’ammontare della plusvalenza oggetto di ripartizione in cinque anni alla sola quota parte proporzionalmente corrispondente al corrispettivo in denaro».

L’emendamento, successivamente ritirato, in sostanza stabiliva che le società avrebbero potuto usufruire d’ora in avanti dei vantaggi legati alle plusvalenze solo se frutto di un effettivo pagamento in «denaro», e non con un mero uno scambio tra giocatori. Nel caso in cui un’operazione prevedesse sia un contributo economico che uno scambio di cartellini, la plusvalenza utilizzabile sarebbe solo quella riferita all’esborso effettivo.

Una norma che senza alcun dubbio sanziona oggi come illecite le prassi analoghe a quelle adoperate sino ad oggi dalla Juventus e da altri club ma che sono costate al club bianconero 15 punti di penalizzazione. Essa è stata varata sulla scia dello scandalo, come dimostra la fretta del governo nel varare l’emendamento bizzarramente inserito in un decreto destinato a tutt’altro, a meno di pensare (con notevole sforzo di fantasia) che sia una pura coincidenza il fatto che le nuove norme sarebbero entrate in vigore prima della udienza dinnanzi al Collegio di garanzia del Coni.

Il ministro dello Sport, il romano Andrea Abodi, l’aveva già preannunciata un attimo dopo aver augurato alla Juventus di risorgere presto. Il punto è: qual è lo scopo? Una risposta non facile, atteso che secondo un principio generale di diritto le nuove leggi trovano applicazione solo dal momento della pubblicazione in avanti (tempus regit actum) e che, in particolare, quelle afflittive come le leggi penali o assimilate a queste ultime per la loro gravità sanzionatoria (e certamente lo sono le sanzioni sportive) non possono applicarsi retroattivamente.

Bisogna tenere in mente questo principio che peraltro i giuristi esperti ben conoscono (e magari anche i lettori degli editoriali di Linkiesta sul caso): «Il principio di stretta legalità».

Al fine di capire che cosa potrà succedere, è utile richiamare una fondamentale pronuncia proprio del Collegio del Coni a Sezioni Unite di sette mesi fa (la 45/22) nei confronti di un ricorso promosso dalla Lega nazionale professionisti di serie A (l’associazione privata delle società professionistiche di calcio) su impulso principale della Lazio del potentissimo presidente Claudio Lotito contro una delibera adottata dalla Federcalcio sui requisiti di liquidità necessari all’iscrizione alle competizioni sportive.

La nuova normativa, varata con una delibera del 27 aprile 2022, era piuttosto singolare perché imponeva che il cosiddetto “indice di liquidità” fosse conseguito dai club già entro il termine già scaduto, il 31 marzo 2022, al momento dell’entrata in vigore. Una legge che disponeva per il passato è non per il futuro.

La Lega ricorse all’organismo di ultima istanza, presieduto da Gabriella Palmieri Sandulli (primo presidente del collegio), che con una sentenza destinata a essere un precedente per le future decisioni stabilì che le nuove norme finanziarie potevano applicarsi dal 26 aprile 2022, data della loro pubblicazione in avanti (quindi dalla prossima stagione), spiegando in un passaggio-chiave della motivazione che «a ogni società calcistica professionistica occorre garantire la rituale e tempestiva programmazione della fase previsionale dei conti della società e non risponde a questa esigenza l’adozione di una norma regolamentare che dispone per il futuro, ma con riferimento al passato».

Un precedente molto importante perché assunto dal massimo consesso, le Sezioni Unite, del giudice supremo in materia di giustizia sportiva e che dimostra (contrariamente a quanto pensano alcuni giuristi di nuovo conio) come i fondamentali principi di diritto vadano applicati in ogni espressione della giustizia, attesa «la natura subordinata dell’ordinamento sportivo agli inderogabili principi di legge che regolano la materia relativa ai rapporti intercorrenti tra ordinamento nazionale, posto a tutela di interessi collettivi generali, e ordinamenti di natura e portata settoriale (id est l’ordinamento sportivo)».

Più semplicemente, la giustizia sportiva non può dunque ridursi a una ordalia da inquisizione spagnola svincolata dalle norme fondamentali dell’ordinamento statale.

La sdegnata stampa romana di oggi allora non insorse e non eccepì: si potrà applicare lo stesso principio anche alla Juventus?

Vediamo: la nuova norma sulle plusvalenze è stata ritirata per la ferma opposizione di Pd e Cinquestelle e il governo che l’ha proposta ha promesso di ripresentarla per le vie ordinarie che richiederanno tempi lunghi. Dunque, ed è il punto fondamentale, permane il vuoto normativo che la stessa corte federale di appello ha rilevato in tema di plusvalenze e che potrà essere colmato solo da una nuova disposizione di legge.

Ma intanto il legislatore supremo ha parlato fornendo un definitivo indirizzo interpretativo e ha detto la sua parola decisiva su come vadano utilizzate (ma per il futuro) le plusvalenze fittizie, operazioni a somma zero se non per la parte monetaria, in ciò seguendo le indicazioni della Consob contenute nella delibera di fine 2022 al termine dell’ispezione alla contabilità della Juve.

Ciò dimostra come la nuova legge sia strettamente “ad societatem” e che secondo il principio di stretta legalità essa comunque poteva e potrà, se varata, valere solo per il futuro e non per valutare i comportamenti passati che, quindi, non sono punibili.

Vedremo come andrà a finire questa vicenda processuale che ricalca peraltro fedelmente alcuni dei peggiori luoghi comuni della realtà giudiziaria ordinaria. La diffusione parziale di intercettazioni mutilate, la circolazione di indiscrezioni terroristiche su nuovi filoni d’indagine amplificati dai volenterosi portaborse degli inquirenti, l’esaltazione della giustizia sommaria senza contraddittorio sono tutti ingredienti ben noti a chi pratica le aule dei tribunali.

Qui vi è stata un’ulteriore particolarità: l’arrivo tra i corifei di un giudice del collegio del Coni che ha manifestato vivo apprezzamento per la sentenza sui cui potrebbe essere chiamato a pronunciarsi.

Nel mondo normale (eh si, dobbiamo rivalutare la nostra ansimante istituzione giudiziaria), un giudice che anticipasse il suo giudizio dovrebbe astenersi a pena di ricusazione.

Qui si è risolto tutto nella migliore tradizione con un comunicato a firma del primo presidente omonimo di quello loquace che assicura essere quelle del congiunto “opinioni personali”.

L’importante è che la presidente non dimentichi almeno le sue espresse qualche mese fa in tema di principio di legalità nella sentenza che accoglieva il ricorso della Lega Calcio.

Juventus, plusvalenze. Errore da penna blu nella sentenza caf. Fabrizio Bava (docente di Economia aziendale al dipartimento di Management di Unito) su Il Corriere della Sera il 10 Febbraio 2023.

Le motivazioni della sentenza sulle plusvalenze affermano: «Esattamente come rappresentato dalla Procura federale nel proprio deferimento e come anche e soprattutto rappresentato da Consob nella propria delibera 22482/2022 ove è chiarito, senza mezzi termini, che il comportamento della Juve comporta la “violazione del principio dell’attendibilità della situazione patrimoniale-finanziaria, del risultato economico e dei flussi finanziari dell’entità previsto dallo IAS 1” . I bilanci della Juve (cui Consob si riferisce) semplicemente non sono attendibili». Si può notare l’utilizzo delle espressioni rafforzative «come anche e soprattutto», «senza mezzi termini» e «semplicemente». 

Peccato che la Consob, quando ha affermato quanto sopra riportato, non si riferisse alle sole plusvalenze (tema oggetto della sentenza); ma a ben cinque poste di bilancio, comprese le note «manovre stipendi». L’espressione utilizzata dalla Consob è la seguente: «Le criticità sopra riscontrate sembrano attestare, inoltre, la violazione del principio dell’attendibilità della situazione patrimoniale-finanziaria, del risultato economico e dei flussi finanziari dell’entità previsto dallo IAS 1». Si noti l’utilizzo dei termini: «Le criticità» e il prudenziale «sembrano». La valutazione dei bilanci da parte della Consob, terminologia a parte, non voglio essere frainteso, è molto severa, ma qui mi sto occupando delle motivazioni della sentenza. La frase aggiunta, nelle motivazioni: «I bilanci della Juve (cui Consob si riferisce) semplicemente non sono attendibili» è un ulteriore rafforzativo che sarebbe stato da evitare, considerato che la Consob, «semplicemente» non ha mai detto che i bilanci non fossero attendibili a causa delle plusvalenze (pur ritenendo errata la contabilizzazione di quantomeno 10 operazioni incrociate negli esercizi 2019/20 e 2020/21). 

Nelle motivazioni della sentenza, pertanto, si attribuisce alla Consob una valutazione come se riguardasse, solamente, il tema delle plusvalenze. In sostanza, le motivazioni della sentenza attribuiscono alla Consob un’affermazione che, in quei termini, non ha mai fatto. Aver usato il solo caso delle plusvalenze per dichiarare che il bilancio è artefatto, è voler cogliere una parte (solo caso delle plusvalenze) per il tutto (intero bilancio): una sineddoche giuridica che crea storture evidenti.

Juventus, la soffiata di Criscitiello: "Penalizzazione ridotta". Libero Quotidiano il 12 febbraio 2023

Tutto ribaltato? Secondo alcune indiscrezioni la Juventus potrebbe ottenere uno sconto sulla penalizzazione in classifica. I famosi 15 punti sottratti ai bianconeri potrebbero ridursi, cambiando, ancora una volta, il campionato di Serie A. A rivelarlo a Sportitalia.com è stato Michele Criscitiello che non ha usato giri di parole: "Ci sarebbero delle possibilità che la Juve abbia un sconto sulla penalizzazione di 15 punti. Francesco Calvo, Chief Football Officer bianconero, a Roma si sarebbe incontrato con alcuni vertici della politica calcistica romana per comprendere le effettive possibilità della Juventus di uscire dal Collegio di Garanzia del Coni con una situazione migliore rispetto a quella prospettata dai 15 punti di penalizzazione conferiti attualmente. L'incontro è stato cordiale e la Juventus ha teso la mano al sistema calcio", ha affermato.

Santoriello, spunta un altro video: la nuova frase che fa infuriare la Juve

Poi ha spiegato quali potrebbero essere le mosse per ribaltare il quadro della penalizzazione: "La prima mossa dei bianconeri sarà a livello di rappresentanza legale, con l’incarico che inizialmente conferito all’Avvocato Avilio Presutti, sarà invece affidato all’Avvocato Angelo Clarizia cui spetterà la difesa della Juventus al Collegio di Garanzia del CONI. Presutti viene considerato "ostile" e soprattutto essendo l'Avvocato storico di Lotito potrebbe avere interessi comuni con la Lazio in lotta Champions con la Juventus". Infine Criscitiello parla degli obiettivi dei bianconeri: "L’obiettivo della Juventus sarà quello di dimostrare l’inconsistenza delle motivazioni della sentenza, e di conseguenza rideterminare la pena con la palla che tornerebbe alla Corte Federale. Il Collegio di garanzia del Coni non può ridurre la penalizzazione ma o confermarla o azzerarla, pertanto si potrebbe perseguire la strada dell'accordo. Pertanto il Collegio di Garanzia del Coni dovrebbe quindi ributtare la palla alla Corte Federale con la richiesta di rideterminare la pena per l'inconsistenza delle motivazioni e la Corte Federale dovrebbe, a quel punto, riformulare la condanna. Obiettivo: uno sconto di 5 punti, ovvero, un terzo della pena attuale".

Juventus, le intercettazioni sulle plusvalenze: «Arthur era palese che non valesse 75 milioni». Storia di Massimiliano Nerozzi su Il Corriere della Sera l’11 Febbraio 2023.

Diventato ad della Juve il 30 giugno 2021, Maurizio Arrivabene si era subito messo al lavoro, «turbato per alcune criticità societarie», annotano i militari della guardia di finanza nel sunto di una intercettazione. Di quelle agli atti dell’inchiesta sui conti del club, coordinata dal procuratore aggiunto di Torino Marco Gianoglio e dai pm Mario Bendoni e Ciro Santoriello: «Ci sono cose che mi fanno accapponare un po’ la pelle, ti dirò — ragiona il 19 ottobre 2021 — perché poi ci saranno anche delle decisioni da prendere… Una cosa riguarda i parametri Uefa… Perché dai calcoli che abbiamo fatto noi siamo assolutamente fuori dai parametri, però può esser che ci siamo persi qualcosa».

Juventus: plusvalenze, inchiesta penale e sportiva

Parole che, con gli elementi dell’ipotesi accusatoria, dovranno essere vagliate dal gup a partire dal 27 marzo, quando i difensori di dirigenti e club potranno al contrario contestualizzare i discorsi e fornire la loro versione. Ad Arrivabene aveva risposto il direttore finanziario, Stefano Cerrato, come riassumono i militari: «La società rispetta i parametri Uefa per l’iscrizione alla Champions 2022/23, ma con quelli attuali non potrebbe iscriversi all’edizione 2023/24». Giudizio espresso però nell’autunno del 2021. Tra le criticità, per l’indagine, c’erano le plusvalenze, di cui in una telefonata parla Marco Re, ex direttore finanziario che all’epoca aveva già lasciato il club da un anno: «Ma tu pensa, uno come Arthur, che per farti la plusvalenza Pjanic hai pagato 75 milioni… Cioè, era palese no? Che non fosse uno da quella cifra lì».

Di plusvalenze discute pure il ds Cherubini, in una chiamata che potrebbe minare la linea dell’accusa: «È un tema talmente delicato stabilire il valore di un calciatore, a distanza di anni che lo faccio non è facile, però purtroppo siamo entrati l’anno scorso nel mirino per aver fatto una serie di operazioni cessioni determinate anche da acquisti, da scambi, e quindi sembrava che fossero operazioni così costruite più su valori economici che non su tecnici. In realtà abbiamo fatto delle operazioni interessanti anche dal punto di vista proprio tecnico». E dai pm, sulla situazione economica, Arrivabene dice quel che pensano tanti tifosi: «Devo dire che è un problema del sistema calcio complessivo, non solo di Juve; io sono rimasto devo dire allibito; la Federazione parla di cambiamenti solo ora dopo il vostro “intervento”, mi chiedo dove fossero prima». Già. Oggi alle 18, Juventus-Fiorentina, con Max Allegri fiducioso: «Dopo la mazzata del -15, i ragazzi hanno trovato equilibrio».

Juventus, le intercettazioni: «Chiesa pensa solo agli aumenti». E Elkann e Agnelli parlano di Del Piero. Massimiliano Nerozzi su Il Corriere della Sera l’11 Febbraio 2023.

Le intercettazioni tra i dirigenti della Juventus. Cherubini, il ds: «Se compravamo un cane gli davamo 3,5 milioni». Agnelli: «Quante caz... sul mercato». Arrivabene: «Questi 40enne non muovono un dito. L'Under 23 un carrozzone per piazzare giocatori»

Ci aveva messo poco Maurizio Arrivabene a capire che aria tirava, dentro casa Juve: «Avevo chiamato Cherubini (il ds, ndr ) dicendogli di non spendere una lira in più di quanto messo a budget», racconta il 29 novembre 2021 ai pm torinesi che stanno indagando sui conti bianconeri. Del resto, Andrea Agnelli l’aveva scelto anche per questo, come ad: «Credo che lui si fidi di me perché mi reputa onesto. E basta leggere gli ultimi bilanci, sicuramente vi era tensione economica, non finanziaria». Un luna park per i giocatori, visti gli stipendi, dallo sfogo di Federico Cherubini, in un’intercettazione con il manager dell’area finanza Stefano Bertola: «Il nostro peggiore guadagna come il migliore dell’Atalanta. Zapata prende 1,8 milioni… se compravamo un cane gli davamo 3 milioni e mezzo».

Bernardeschi: «Noi non c’entriamo, ci siamo solo tolti uno stipendio»

Erano i tempi dell’all-in per l’Europa: «Giaccherini un giorno mi ha detto: “Sai sto bene alla Juve, quando facciamo allenamento sembra un quarto di finale di Champions”. Grazie al c., erano in 24… avevamo fuori dalla lista giocatori che costavano 10 milioni lordi». E per questo accusa il predecessore, Fabio Paratici: «Siamo stati arroganti sul mercato, perché il Fabio di 5 anni prima non prende Higuain a 90, prende Gabriel Jesus a 10, e lo fa diventare uno da 90». Dopodiché, i quattrini sono una variabile imprevedibile, con i calciatori, come si legge in un’annotazione della Guardia di finanza, riferita a una telefonata (con Agnelli) del 9 agosto 2021: «Cherubini afferma che quello di Federico Chiesa non gli sembra il profilo di un giocatore che può restare tanti anni alla Juve, a causa del suo entourage molto alla ricerca di sostanziosi aumenti economici».

Sullo shopping si sfoga lo stesso Agnelli, sempre con il ds: «Se metto in piedi, dal 2010 quando sono arrivato a oggi, le cazzate che abbiamo fatto gli ultimi tre giorni di mercato, abbiamo buttato nel cesso 60-70 milioni… Te lo dico così, spannometrico, da Anelka». E Cherubini: «Bendtner, il ritorno per la terza volta di Caceres». E poi bisogna fare i conti con Allegri, riflette il ds: «Se una volta ogni 40 partite deve giocare uno, giocherà uno dell’under 23… tanto Max prima che gioca uno dell’under 23… ». Le trattative apparecchiano dialoghi comici, come quando sta per saltare Romero al Tottenham e Demiral all’Atalanta: «Gasperini vuole incontrare Demiral — sbotta Paratici — ma gli ho detto: in che punto siamo del mondo? Perché se doveva prendere uno in Mozambico cosa faceva Gasperini? Per sapere. Demiral è tre anni che è in Italia… sta scherzando? Questi sono fuori dal mondo». E Cherubini: «Eh, sono fatti così».

Bertola discute invece delle scelte del presidente, che a un certo punto lanciò la generazione di quarantenni: «Andrea ammette gli errori sì, a parole, ma poi nei fatti pochissimo… cioè non è che dice, su tre ne ho sbagliati tre». Riferendosi ai manager Re, Ricci e Paratici. Sul tema — scrivono i militari del nucleo di polizia economico finanziaria — si lamenta anche Arrivabene: «Tutti i ragazzetti di cui Andrea è innamorato (i dipendenti, ndr) non hanno mai mosso un dito in tutta la loro vita, questi hanno bisogno di essere mandati sul campo, se non li metti sul campo faranno sempre delle grandi belle cose da leggere, ma da realizzare un pochino più difficili». Tentando di capire come vanno le cose, l’allora ad chiede al direttore finanziario dell’epoca, Stefano Cerrato, di fargli un report sui costi dell’under 23: «L’idea che mi sono fatto io è che quello lì è un carrozzone che abbiamo creato… te lo dico fuori dai denti, che abbiamo creato perché non sapevamo più dove mettere i giocatori». Pausa: «Di Fede (Cherubini, ndr) non mi fido per niente sull’under 23, ha un approccio molto emozionale».

Poi però, il pallone è pure cuori che battono e bandiere che sventolano, come emerge da una telefonata del 6 settembre 2021 tra Agnelli e John Elkann, ad di Exor, azionista di maggioranza, riassunta dai finanzieri: «Discutono su come far riavvicinare Alessandro Del Piero alla società».

Juventus, dietro le nuove intercettazioni il nulla. Dopo le tante polemiche sulle dichiarazioni d'annata di certi magistrati, un articolo del Corriere della Sera riporta l'attenzione sulle beghe interne alla Juventus, le critiche al mercato e all'entourage di Chiesa. Si fatica però a capire cosa c'entrino con le accuse alla Vecchia Signora. Luca Bocci l’11 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Nuovo giro, nuova infornata di intercettazioni pubblicata con tempismo molto opportuno da una testata sempre attenta al caos interno alla Vecchia Signora. A poche ore dall’incrocio di campionato con la Fiorentina e dopo la tempesta mediatica causata dalle dichiarazioni d’annata di alcuni magistrati che si occupano del caso Juventus ecco che arriva l’ennesima correzione nella narrativa che riporta l’attenzione su quel che succedeva dietro alle quinte della squadra più titolata d’Italia. L’articolo pubblicato sul Corriere della Sera fornisce parecchi retroscena sulle conversazioni intercorse tra i vari dirigenti della società bianconera in un periodo che andrebbe dall’agosto al novembre del 2021.

I protagonisti sono quelli di sempre, da Maurizio Arrivabene a Federico Cherubini, da Stefano Bertola all’immancabile Andrea Agnelli, ma è il contenuto di queste intercettazioni, parte dell’accusa portata avanti dalla Procura di Torino, a far sollevare il sopracciglio. Tutti argomenti interessanti, intendiamoci, dall’eccessiva “generosità” dei dirigenti negli stipendi a giocatori non eccelsi alla mancanza di strategia nel mercato alle stoccate ad uno dei giocatori chiave della rinascita bianconera, Federico Chiesa. Non si capisce, però, come si potrebbero legare ad eventuali illeciti. Insomma, una fuga di notizie che lascia un attimo interdetti, specialmente se si pensa al fatto che arrivi alla vigilia di una serie di partite determinanti per la stagione dell’undici di Massimiliano Allegri.

La dichiarazione potenzialmente più problematica per la tenuta dello spogliatoio verrebbe da un’annotazione della Guardia di Finanza relativa ad una telefonata con Andrea Agnelli del 9 agosto 2021, dove si parla del futuro della rosa bianconera. A quanto pare Federico Chiesa non sarebbe “il profilo di un giocatore che può restare tanti anni alla Juve, a causa del suo entourage molto alla ricerca di sostanziosi aumenti economici”. Le parole di Cherubini al manager dell’area finanza Bertola sembrano poi un’entrata a gamba tesa sulla sostenibilità delle politiche bianconere: “Il nostro peggiore guadagna come il migliore dell’Atalanta. Zapata prende 1,8 milioni… se compravamo un cane gli davamo 3 milioni e mezzo”. Immagino che molti di questi “cani” non prenderanno bene questa voce dal sen fuggita. Il colpevole di questa largesse eccessiva avrebbe un nome ed un cognome: l’attuale Ds del Tottenham Fabio Paratici. “Siamo stati arroganti sul mercato, perché il Fabio di 5 anni prima non prende Higuain a 90, prende Gabriel Jesus a 10, e lo fa diventare uno da 90”.

Il dialogo tra Cherubini e Agnelli sembra un auto da fè dei tempi dell’Inquisizione Spagnola: “Se metto in piedi, dal 2010 quando sono arrivato a oggi, le cazzate che abbiamo fatto gli ultimi tre giorni di mercato, abbiamo buttato nel cesso 60-70 milioni… Te lo dico così, spannometrico, da Anelka, Bentdner, il ritorno per la terza volta di Caceres”.

Nemmeno Allegri esce indenne da questa autocritica fin troppo onesta; sotto accusa, in particolare, la sua riluttanza a puntare sui giovani. Cherubini sembra sconsolato: “Se una volta ogni 40 partite deve giocare uno, giocherà uno dell’under 23... tanto Max prima che gioca uno dell’under 23...”. La Next Generation, fiore all’occhiello della società torinese, non sfugge all’esame al microscopio dei conti, tanto da attirarsi qualche critica puntuta da parte dei dirigenti. Dopo un report dei costi sostenuti, il verdetto di Arrivabene non è affatto positivo: “L’idea che mi sono fatto io è che quello lì è un carrozzone che abbiamo creato… te lo dico fuori dai denti, che abbiamo creato perché non sapevamo più dove mettere i giocatori. Di Cherubini non mi fido per niente sull’under 23, ha un approccio molto emozionale”.

Scorrendo le varie dichiarazioni riportate dal Corriere ci sono parecchi retroscena interessanti per noi del mestiere ma ben poche indicazioni di possibili reati, che in teoria dovrebbero essere l’unica ragione per intercettare le comunicazioni private dei cittadini. A noi giornalisti interessa sapere che Bertola ce l’aveva con la generazione dei quarantenni e su come “Andrea ammette gli errori sì, a parole, ma poi nei fatti pochissimo… cioè non è che dice, su tre ne ho sbagliati tre”.

Per chi campa sul gossip anti-bianconero farà piacere sapere che Arrivabene definisce i manager Re, Ricci e Paratici “ragazzetti di cui Andrea è innamorato che non hanno mai mosso un dito in tutta la loro vita” e che, secondo lui, “hanno bisogno di essere mandati sul campo”, altrimenti “faranno sempre delle grandi belle cose da leggere, ma da realizzare un pochino più difficili”. Anche per l’osservatore più distratto di cose juventine può essere interessante sapere che il 6 settembre 2021 Andrea Agnelli e John Elkann hanno discusso a lungo “su come far riavvicinare Alessandro Del Piero alla società”. Bella forza, del ritorno di Pinturicchio all’Allianz Stadium si parla almeno da un paio di anni.

La domanda vera è un’altra, però: cosa c’entrano queste intercettazioni con le inchieste in corso, con la penalizzazione inflitta alla Juventus e con il malessere che sta sconvolgendo il calcio italiano. Non siamo esperti di legge ma, almeno da quanto ci è dato capire, le intercettazioni che non contengano notizie di reato o informazioni atte a portare avanti l’accusa dovrebbero essere cancellate, visto che si tratta comunque di conversazioni private.

L’articolo 15 della Costituzione, afferma chiaramente che la limitazione della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione “può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”. Il gossip farà sempre notizia, come ogni retroscena che riguarda protagonisti perenni del calcio italiano. Ci sfugge, però, a cosa serva mettere in piazza le beghe interne alla Vecchia Signora. Si vuol forse fare imbufalire ancora di più i tifosi bianconeri, magari convincendoli a disdire in numero ancora più consistente le pay tv? Siamo al “muoia Sansone con tutti i Filistei” o importava solo cambiare argomento e riportare i riflettori sulla Juve?

Una cosa è certa: queste dichiarazioni non faranno che rinfocolare polemiche ed accuse delle quali il calcio italiano potrebbe benissimo fare a meno. Con tutti i problemi che sta vivendo, l’universo pallonaro non può continuare a perdere tempo col gossip.

Fiat iniuria, pereat mundus. La giustizia su misura e la fucilazione pubblica della Juventus. Maurizio Assalto su L’Inkiesta il 26 Gennaio 2023

Molte cose non tornano nella decisione della Corte d’appello federale, a cominciare dal fatto che i bianconeri avrebbero violato una regola sulle plusvalenze che però, come ha stabilito la stessa Corte, non esiste

Fiat iustitia, pereat mundus” è il motto che Ferdinando I d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero dal 1556 al 1564, aveva ripreso dalle parole attribuite al cesaricida Gaio Cassio Longino. La divisa dei fanatici di ogni tempo, disposti a sacrificare il mondo intero pur di fare giustizia, potrebbe essere riformulata davanti alla condanna inflitta alla Juventus dalla Corte d’appello della Federcalcio: “fiat iniuria, pereat mundus”. Ovvero: sia fatta l’ingiustizia (ma il latino iniuria suona più adatto) e perisca pure tutto il mondo. Quello del calcio, ovviamente. Ma forse non solo.

In attesa che vengano pubblicate le motivazioni, conosciute le quali sarà possibile un giudizio più ponderato sul merito, è possibile fin d’ora qualche considerazione su una sentenza emessa in capo a un procedimento sommario, che ricorda quelli dei tribunali militari della Prima guerra mondiale conclusi con la fucilazione al fronte. Un esito che lascia sconcertati. Perché al di là delle plusvalenze, che alimentavano una bolla inevitabilmente destinata presto o tardi a scoppiare, al di là di una gestione sportiva che lascia a sua volta sconcertati, ma che non era un segreto per nessuno e di cui tutti i giornali parlavano tranquillamente, restano le domande che tutti i tifosi della Juve, e anche quelli di altre squadre non accecati dal livore, e forse nel loro intimo anche quelli accecati, si sono fatte in questi giorni.

C’è la questione (già sollevata su Linkiesta sabato scorso) del ne bis in idem, ossia del “diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato” (articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea): un principio fondamentale anche nell’ordinamento giuridico italiano, evidentemente ignoto a quell’ordinamento parallelo con licenza di arbitrio che è la giustizia sportiva, che lo scorso 15 aprile aveva prosciolto la Juventus e gli altri dieci club coinvolti nel caso plusvalenze.

È vero che dagli sviluppi dell’inchiesta Prisma sono nel frattempo emersi nuovi elementi probatori (ancora tutti da valutare in sede processuale), ma è anche vero che questi nuovi elementi sono potuti emergere in seguito alle intercettazioni autorizzate dal Giudice per le indagini preliminari perché la Juventus, a differenza delle altre, è una società quotata in Borsa (il che configura ovviamente una diversa responsabilità, da esaminare in sede penale). E già questa è una sperequazione, o, per restare nell’ambito di cui si tratta, qualcosa di palesemente “antisportivo”.

Ma basta l’assenza di elementi nuovi a spiegare il diverso trattamento degli altri dieci club, di cui la Corte d’appello federale ha confermato il proscioglimento? E perché nessuna indagine è stata avviata nei confronti di tutti i club con cui la Juventus ha realizzato le plusvalenze attraverso scambi di calciatori con valutazioni gonfiate?

Anche qui c’è una ragione (solertemente spiegata dalla Gazzetta dello Sport): la Juventus avrebbe eretto a “sistema” quella che per gli altri può essere stata una pratica occasionale. Ossia la differenza qualitativa del reato sarebbe determinata dalla sua differenza quantitativa (dalla quantità alla qualità: Aristotele avrebbe da ridire).

Ma se io uccidessi una persona non sarei meno assassino che se ne uccidessi diverse: meriterei magari un solo ergastolo anziché diversi ergastoli, e potrei forse sperare in una commutazione della pena, ma non sarei di certo esente dalla colpa.

E poi perché non immaginare che analoghi “sistemi” sarebbero potuti emergere a carico di queste altre società se anche i loro telefoni fossero stati sottoposti a intercettazione metodica, non solo cioè in occasione delle interlocuzioni con la Juventus?

Certo, i tribunali giudicano in base agli elementi di cui dispongono, ma il fatto che la ricerca di elementi non sia stata approfondita nei confronti degli altri soggetti alimenta la sgradevole impressione di una sospetta disparità di trattamento.

Il problema maggiore è però un altro. Nelle motivazioni della sentenza che lo scorso aprile aveva prosciolto le undici società deferite dalla Procura federale si spiegava che non esiste un metodo unico o oggettivo per arrivare a stabilire il reale valore di un giocatore: «tale valore», si leggeva sul sito della Figc, «è dato e nasce in un libero mercato, peraltro caratterizzato dalla necessità della contemporanea concorde volontà delle due società e del calciatore interessato».

Constatazioni indiscutibili, perfino ovvie, ma ora contraddette. Che il valore di due giovani mai approdati alla prima squadra non sia quello attribuito loro nello scambio plusvalente era chiaro e sotto gli occhi di tutti, ma è altrettanto chiaro che nessuno può contestarlo: come, in basi a quali criteri? E soprattutto: perché nessuno (leggasi la FIGC) è mai intervenuto per porre un argine normativo a questa pratica insostenibile?

Ricordiamo che il meccanismo delle plusvalenze non è una novità, essendo stato praticato fin dai primi anni Duemila, in particolare da Inter e Milan che all’epoca si scambiarono diversi giocatori, tra i quali Seedorf, Guly, Coco, Helveg, Simic. Allora si era agli inizi e si lasciò correre. Ma vent’anni dopo?

In assenza di un quadro regolamentare che disciplini la materia e preveda le sanzioni del caso, il ricorso alle plusvalenze si è ampliato (non solo a livello nazionale), nell’ipocrita disinteresse delle istituzioni teoricamente preposte che fanno finta di niente e si coprono entrambi gli occhi salvo aprirne uno solo per calare ogni tanto una punizione esemplare a senso unico.

Giustizia su misura, confezionata all’impronta. La Juventus avrebbe violato una regola che non esiste, come opportunamente fanno osservare i suoi avvocati. Lo stesso ministro dello Sport Andrea Abodi (già presidente della Lega di Serie B), che in un primo momento aveva dato l’impressione di volersi tenere fuori della disputa, in una successiva intervista con Repubblica si è augurato che il tutto «non sia definito dal tifo» e, richiamando il «bisogno di trasparenza e credibilità», ha avvertito che «quanto sta succedendo non contribuisce al raggiungimento di questi obiettivi, e quindi è probabile che io debba proporre un intervento che riguardi la razionalizzazione dell’efficacia, dell’efficienza, della trasparenza e della intelligibilità della giustizia sportiva e anche dei modelli di gestione dello sport professionistico». Insomma, se le autorità sportive continueranno a latitare, sarà la politica a dover intervenire. Speriamo.

In Italia come in molta parte del mondo il calcio è molto più di un mero fatto sportivo. Come risulta dalla XII edizione (2022) di ReportCalcio, il rapporto annuale curato dal Centro Studi della FIGC, il calcio professionistico è per il nostro Paese un asset strategico, con un impatto indiretto e indotto sul prodotto interno lordo pari a 10,2 miliardi di euro che genera oltre 112.000 posti di lavoro. È innegabile che a questi risultati la Juventus, la squadra con più seguito in Italia (dagli 8 ai 14 milioni, a seconda dei rilevamenti, con una percentuale in ogni caso superiore a un tifoso di calcio su tre), contribuisca in maniera determinante. Ed è evidente come un sia pur temporaneo confinamento della Juventus al di fuori del “grande giro” (anche la Uefa attende la conclusione dei processi penali e sportivi italiani per decidere l’eventuale esclusione dalle coppe) nuoccia al sistema calcio e indirettamente al sistema Paese.

Il precedente parla chiaro. Nel 2006, l’anno di Calciopoli, la Serie A non era più “il campionato più bello del mondo” ma se la giocava alla pari con gli altri principali campionati europei: nella finale mondiale di Berlino, tra la Nazionale italiana (vincitrice) e quella francese scesero in campo ben otto giocatori juventini (dieci considerando gli ex Zidane e Henry, più l’ex allenatore Lippi); dopo la frettolosa condanna della Juventus, retrocessa in Serie B e costretta a smantellare la squadra, il calcio italiano è entrato in una fase di declino – di risultati, attrattività, valore economico – da cui non si è più ripreso (nonostante un Europeo vinto, in mezzo a due epocali fallimenti alle qualificazioni mondiali). E adesso migliaia di tifosi juventini (pare soprattutto al Sud, undicimila solo in Puglia), per protesta contro le “inique sanzioni”, non pensano di scatenare una guerra mondiale, ma stanno già disdicendo l’abbonamento alle piattaforme di streaming: meno soldi alle tv vuol dire meno soldi al calcio (e agli altri sport a cui il calcio, attraverso il Coni, contribuisce), e quindi meno risorse per allestire squadre competitive, meno spettacolo, meno risultati, meno pubblico, meno indotto. E meno posti di lavoro.

E con ciò siamo ricondotti alla seconda parte della sentenza latina citata all’inizio. Ossia all’eventualità che pereat mundus, come conseguenza del fatto che sia stata fatta (in)giustizia. Ma, come osservava in proposito Amartya Sen (L’idea di giustizia, trad. it. Mondadori 2010), se il mondo finisse ci sarebbe poco da festeggiare.

(ANSA il 18 gennaio 2023) - L'assemblea degli azionisti della Juventus ha dato il via libera al nuovo cda della società. I consiglieri saranno cinque e resteranno in carica per tre esercizi fino all'assemblea che approverà il bilancio al 2025. Del nuovo consiglio fanno parte - su indicazione di Exor, la holding che controlla la società bianconera - Gianluca Ferrero, indicato come presidente, Maurizio Scanavino, attuale direttore generale che assumerà la carica di amministratore delegato, Laura Cappiello, Diego Pistone e Fioranna Vittoria Negri.

(ANSA il 18 gennaio 2023) - "Avrete in me un grandissimo tifoso". Lo ha detto Andrea Agnelli che ha chiamato sul palco, dopo la nomina del board della Juventus, il nuovo presidente della società Gianluca Ferrero, consegnandogli insieme a Pavel Nedved la maglia bianconera con il numero 1 e il nome Ferrero.

(ANSA il 18 gennaio 2023) - "Lavoreremo per costruire per la Juventus un futuro all'altezza del suo passato glorioso, di 125 anni, che ha fatto di questa società una gloria sportiva, la più forte società di calcio italiano".Lo ha detto Gianluca Ferrero in un incontro con la stampa dopo la nomina a presidente della Juventus.

(ANSA il 18 gennaio 2023) - "Nei prossimi mesi ci aspettano delle sfide per le quali riteniamo di avere l'esperienza, la competenza e la determinazione per difendere la Juventus in tutte le sedi competenti, pensale, sportiva e civile". Lo ha detto Gianluca Ferrero, appena nominato presidente dal board della Juventus, in un breve incontro con la stampa. "Lo faremo con determinazione, rigore, ma anche pacatezza. Abbiamo sempre rispettato e sempre rispetteremo tutti coloro che saranno chiamati a giudicarci, ma quello che vogliamo è uguale rispetto per noi, per la società e per la squadra per poter discutere con serietà e rigore nelle sedi competenti".

Estratto dell’articolo di Gianluca Oddenino per “La Stampa” il 18 gennaio 2023.

[…] Il battesimo del fuoco […] sarà immediato: venerdì la Corte Federale d'Appello della Figc dovrà decidere se riaprire il processo sportivo sulle plusvalenze, mentre il 27 marzo si terrà l'udienza preliminare sull'inchiesta Prisma della Procura di Torino dove rischiano il processo la società oltre ad Agnelli, Arrivabene, Nedved e l'ex ds Paratici.

 Nel mezzo c'è da far ripartire una squadra dopo la debacle di Napoli, in dieci giorni i bianconeri sfidano allo Stadium il Monza (due volte: domani e il 29 gennaio) e l'Atalanta tra Coppa Italia e campionato, e soprattutto iniziare a sistemare i conti che lo scorso 30 giugno hanno registrato un rosso di 238 milioni di euro dopo aver chiuso l'anno precedente con 226 milioni di perdite.

Per questo Exor, l'azionista di maggioranza del club, ha deciso di varare un governo tecnico per far uscire la Juve dalla tempesta giudiziaria-economica. Il Cda ora è più snello (da 10 a 5 elementi) ed è composto solo da esperti: l'avvocato Laura Cappiello, la commercialista Fioranna Negri e il manager Diego Pistone affiancheranno Ferrero e Maurizio Scanavino, già in carica come direttore generale e oggi nominato amministratore delegato.

 […] Non c'è solo da rispondere alla Consob sulle varie manovre nei bilanci, in primis quella per gli stipendi, ma anche evitare condanne penali e sportive nelle inchieste portate avanti in quest' ultimo anno dalla Procura di Torino, dalla Procura federale e dall'Uefa.

Dopo 4.627 giorni si chiude così la presidenza di Andrea Agnelli, apertasi il 19 maggio 2010, e la Juve gli rende l'onore delle armi con messaggi e video sui social dove sono stati ricordati i successi, i numeri e i passaggi fondamentali come il varo delle Women e della seconda squadra. «

 […] I fronti non mancano alla nuova Juve, che dovrebbe avere un mandato fino al 30 giugno 2025, mentre Allegri avrà pieni poteri sull'area sportiva e come primo obiettivo (decisivo anche per la sua permanenza) dovrà centrare almeno il 4° posto in campionato, che vale più di 60 milioni di euro.

Poi la rifondazione della Juve passerà dai giovani talenti in squadra, più altri da trovare su un mercato fatto con intelligenza, che verranno affiancati da alcuni senatori. […]

(ANSA il 18 gennaio 2023) - "Faccio un passo indietro, lascerò il consiglio di tutte le società quotate. E' una mia decisione personale, che ho preso d'accordo con John, con cui il rapporto rimane strettissimo, AjaY Banga e Tavares. E' la mia volontà di affrontare il futuro come una pagina bianca". Lo ha annunciato Andrea Agnelli durante l'assemblea della Juventus.

 Agnelli resterà, invece, nel cda della Giovanni Agnelli B.V., holding che detiene la maggioranza di Exor. "Avendo chiuso una parte così importante della mia vita, la mia volontà è, al termine di questa assemblea, di voltare pagina per poter ripartire con entusiasmo e passione, naturalmente dopo qualche giorno di vacanza. Con le assemblee delle società quotate, a cui partecipo come consigliere, farò un passo indietro", ha spiegato Agnelli.

 "E' stata una mia richiesta, è la mia volontà dopo un periodo così intenso, di poter affrontare il futuro come una pagina bianca, libera e forte. Il passo indietro dalle società quotate è indispensabile per avere una libertà di pensiero, una libertà intellettuale che altrimenti non avrei. Mia moglie e i miei bambini sono stati la parte fondamentale sulla quale mi sono appoggiato" ha aggiunto Agnelli ricordando le parole della moglie Denise in un post sui social a fine novembre. "Non vedo l'ora di ricominciare insieme. Ti amo fino alla fine", ha concluso.

(ANSA il 18 gennaio 2023) - "La nostra unione è stata determinante per il nostro lavoro. Sa quanto hai lavorato, quanti sacrifici hai fatto per la Juventus, come sei stato capace di guidare questa società. E' stato un onore grande lavorare insieme". Lo ha detto Pavel Nedved, all'inizio dell'assemblea degli azionisti della Juventus che nominerà il nuovo cda.

Juve: Agnelli, oggi si chiude capitolo durato quasi 13 anni

(ANSA il 18 gennaio 2023) - "Oggi si chiude un capitolo della Juventus durato quadi 13 anni che oggi facciamo fatica a leggere. Non posso nascondere l'emozione. Il mio lavoro è stato quello di cercare di comprendere il contesto, indicare la direzione strategica della società. Quando parliamo di calcio, di cosa parliamo in realtà? il calcio fa parte dell'industria dell'intrattenimento, un'industria di 750 miliardi". Lo ha detto Andrea Agnelli, nell'ultima assemblea da lui presieduta. 

Il testamento (sportivo) di Andrea Agnelli. Giovanni Capuano su Panorama il 18 Gennaio 2023.

Fuori dalla Juventus e da tutte le società del Gruppo. l'ormai ex presidente prepara la difesa dalle accuse della Procura di Torino. Ma il suo addio è un manifesto sui problemi del calcio e dello sport di oggi

L'ultimo dei 4.627 alla guida della Juventus è stato per Andrea Agnelli un giorno pieno di contenuti e simboli. La commozione per l'addio al club e all'azienda del cuore, il passo indietro annunciato da tutte le società del Gruppo quotate in Borsa, specificando di essere in piena sintonia con il cugino John Elkann. E anche la rivendicazione del percorso fatto. Non solo le vittorie di 13 anni che hanno rappresentato per la Juventus uno dei momenti più alti di una storia centenaria, ma investimenti, progetti e visioni. E anche l'ultima e sanguinosa guerra politica che lo ha visto mettersi contro la Uefa e i governi di mezza Europa e che solo quando la Corte UE, nella prossima primavera, avrà espresso il proprio giudizio si potrà valutare se vinta o persa.

Un testamento (sportivo) che potrebbe anche diventare il manifesto per la nuova vita di quello che per un decennio è stato il dirigente più influente del calcio italiano ed europeo, soprattutto se da Lussemburgo dovesse arrivare un verdetto in discontinuità con lo statu quo dello sport nel Vecchio Continente e con il parere non vincolante espresso dall'avvocatura generale della stessa Corte nelle scorse settimane. In mezzo ci sarà anche il sommarsi delle vicende di giustizia sportiva e ordinaria lasciate in eredità dall'inchiesta Prisma sui bilanci dell'ultimo triennio di Juventus da cui Agnelli cercherà di uscire affermando la correttezza del proprio operato. Operazione complessa, almeno nella lettura delle carte dell'accusa che sono state fin qui l'unico testo a disposizione prima che nelle diverse aule ci sia spazio anche per la difesa.

"Se avessi voluto mantenere una posizione di privilegio, tenendo la mia carica nell'Eca, nella Uefa e nella Figc, non avrei preso le decisioni che ho assunto nel 2021" è stato il passaggio centrale. La decisione di strappare una tela consumata in nome di una visione sulle ragioni della crisi del sistema calcio. Non solo in Italia, ma ovunque tranne che nella ricchissima Premier League inglese "che in pochi anni attrarrà tutto il talento europeo" se non si faranno riforme strutturali che evitino "il declino irreversibile" di tutto il movimento, inglesi esclusi. "Il fatturato del calcio è di 55 miliardi di euro e occupa 700mila persone" ha ricordato Agnelli, auspicando che la Corte UE lo riconosca "come industria" costringendo così all'applicazione delle norme comunitarie e mettendo fine al monopolio della Uefa la cui colpa, secondo l'ormai ex presidente della Juventus, è "non voler ascoltare i problemi della industry preferendo mantenere una posizione di privilegio". Il futuro è segnato senza riforme. Il presente è uno scenario in cui il pallone sta progressivamente e inesorabilmente perdendo appeal nella competizione tra forme di intrattenimento ("Parliamo di 750 miliardi di euro che comprende gaming, musei, attività da tempo libero"). Anche se continua ad attrarre investitori - "consorzi come il Chelsea, RedBird per il Milan, il fondo Pif per il Newcastle, un consorzio diretto da Pagliuca per l'Atalanta, la Liga che ha raggiunto un accordo sui 50 anni valorizzandola con operazioni fatta da CVC" - e cambiare forma. La sfida delle multiproprietà, la volontà di QSI di entrare nel business, l'attenzione crescente dei fondi anche verso la Serie A e gli altri campionati di primo livello. Insomma, un ecosistema in profonda mutazione ma legato ancora a vecchie regole ed equilibri ormai fuori dal tempo. Il rimpianto? Fino al 2019 l'analisi era evidente anche a livello delle istituzioni del calcio europeo: "La proposta era una creazione di ecosistema per le leghe principali, che aumentasse la stabilità e il rischio d'accesso è tra i più grandi. Che mantenesse la simbiosi tra i campionati domestici e quelli internazionali". Poi lo tsunami della pandemia, la crisi profondissima e la rottura. Con una stoccata ai conservatori: "Da quando la Serie A è una lega unica, quasi cento anni, ci hanno giocato solo 68 squadre, alcune delle quali davvero di passaggio". Come a dire ai teorici della meritocrazia a prescindere che la realtà è sempre stata diversa. E che senza intervenire è destinata solo a polarizzarsi definitivamente.

Scandalo Juve, Agnelli, il sogno sfumato di Ferrari e il nuovo corso. Massimiliano Nerozzi e Andrea Rinaldi su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2023.

Da ieri Andrea Agnelli torna a essere (solo) «un grandissimo tifoso della Juve», come dice a chi ha preso il suo posto, Gianluca Ferrero, regalandogli la maglia della squadra. Issato nella storia del club da un ciclo strepitoso — 9 scudetti filati e 19 titoli — è finito travolto dall’inchiesta sui conti della società, con udienza preliminare il 27 marzo. Di più, dopo le dimissioni del cda della Juve, lo scorso 28 novembre, ora esce da tutto: «Faccio un passo indietro — spiega all’assemblea degli azionisti del club — lascerò il consiglio di tutte le società quotate». Ovvero, i board di Exor, azionista di maggioranza della Juve, e di Stellantis, che dopo vent’anni dalla morte dell’Avvocato e a 19 dalla scomparsa di Umberto non avrà un Agnelli in consiglio. «È una mia decisione personale, che ho preso d’accordo con John (Elkann, ndr), con cui il rapporto rimane strettissimo, e con Ajay Banga e Carlos Tavares», rispettivamente presidente della finanziaria e ceo di Stellantis.

«Una mia richiesta»

«È stata una mia richiesta — aggiunge — dopo un periodo intenso, per poter affrontare il futuro come una pagina bianca. Il passo indietro dalle società quotate è indispensabile per avere una libertà di pensiero e intellettuale che altrimenti non avrei». Agnelli resterà nel cda della Giovanni Agnelli Bv (ne è socio con l’11,85%), la cassaforte di famiglia che controlla Exor, e amministratore e presidente di Lamse, la holding d’investimento di cui detiene il 51% (il 49% è della sorella Anna). Fuori dai board, Andrea potrà così difendersi dalle accuse dei pm. In Exor la sua carica era arrivata a scadenza del mandato triennale: non si ricandiderà, ha fatto sapere il figlio di Umberto, mentre ad aprile l’assemblea dei soci di Stellantis lo sostituirà.

Lo storico commercialista di famiglia

A dare battaglia per il club bianconero ci penserà invece il nuovo management, voluto da Exor: Gianluca Ferrero, storico commercialista della famiglia; Maurizio Scanavino, ad come lo è del gruppo editoriale Gedi; Fioranna Negri, commercialista e revisore; Diego Pistone, già manager del gruppo Fiat dell’area finanza e controllo; e l’avvocato Laura Cappiello, senior counsel nel dipartimento corporate law di Orrick ed esperta di organi di vigilanza. Più che un cda, un consiglio di guerra. I primi due si presentano alla stampa, gli altri tre si accomodano in penultima fila. Rigore e understatement. Da battaglia è il manifesto di Ferrero: «Ci aspettano sfide per le quali riteniamo di avere l’esperienza, la competenza e la determinazione per difendere la Juventus, in tutte le sedi competenti, penale, sportiva e civile». E ancora: «Lo faremo con determinazione, rigore, ma anche pacatezza. Sempre rispetteremo tutti coloro che saranno chiamati a giudicarci, ma quello che vogliamo è uguale rispetto per noi, per la società e per la squadra, per poter discutere con serietà e rigore nelle sedi competenti».

A Torino

A Torino negli ambienti vicini agli Agnelli si sussurra che il passo indietro di Andrea sia arrivato dopo mesi di confronti, anche tesi, con il cugino John e alcuni membri della famiglia. Secondo le voci, il sogno di Andrea sarebbe stato quello di traslocare in Ferrari, la controllata che macina record di profitti in Borsa, ma poi avrebbe prevalso l’orientamento a farsi da parte anche nella holding di controllo e nella ex Fiat. Mossa temporanea in vista di un probabile rientro, se sarà dimostrata l’estraneità alle vicende giudiziarie che lo coinvolgono. Adesso la palla passa a Ferrero: ha il compito di risanare i conti del club con l’ipotesi, dopo un eventuale delisting, di cederlo. Magari proprio ad Andrea, che starebbe sondando investitori.

Estratto dell'articolo di Massimiliano Nerozzi,Simona Lorenzetti per il “Corriere della Sera” il 24 marzo 2023.

Alle 13.42 del 23 aprile 2021, Paolo Morganti, segretario organizzativo della Juve, scrive sulla chat «seconda manovra stipendi»: «Cristiano ha firmato». E un minuto dopo, aggiunge: «Ha una copia di tutti i documenti». Risposta del ds Federico Cherubini: «Bene!». Per la Procura è uno degli elementi di prova che portano alla «carta famosa» di Ronaldo, con cui la stella portoghese rinunciò a 19.548.333,33 euro, per l’annata 2020-21. […]

 L’ipotesi d’accusa del procuratore aggiunto Marco Gianoglio e del pm Mario Bendoni, è che però furono sottoscritte delle «side-letter», sequestrate in studi legali, a garanzia di un pagamento «incondizionato» delle 4 mensilità. Per questo, oltre a Cherubini e Morganti, nella chat c’era Cesare Gabasio, capo dell’ufficio legale del club. Lo stesso che, il 20 aprile 2021, scrive: «Il primo pronto per firmare è Cristiano». Tre giorni dopo, la conferma, nei messaggi di Morganti.

Ma tutto si complicherà a fine agosto, con il passaggio di CR7 allo United e, ancora di più, con il suo addio all’Inghilterra, poiché salteranno i bonus pianificati sugli stipendi arretrati, secondo i pm. Convinti che il numero 7 abbia una copia del documento, come da una mail interna dell’11 settembre 2021, inviata da Morganti: «Possibilmente la somma indicata nell’incentivo deve essere quella della scrittura in mano al calciatore».

La «carta di Ronaldo» che inguaia la Juve. Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 19 Gennaio 2023.

Ecco il documento «che non deve esistere». È firmato esclusivamente dall’ex ds Paratici: per i pm, garantiva a CR7 gli arretrati (non a bilancio)

«Egregio Signor Cristiano Ronaldo dos Santos Aveiro» si legge nell’intestazione. Poi, a seguire, c’è l’oggetto della comunicazione: «Accordo Premio Integrativo — Scrittura integrativa». Infine, si entra nel merito: «Facciamo seguito alle intese intercorse e uniamo alla presente il documento relativo al premio integrativo riconosciuto a suo favore (Accordo Premio Integrativo) e l’ulteriore scrittura integrativa dell’Accordo Premio Integrativo (“Scrittura integrativa”)». Ecco le prime righe della «famosa carta di Ronaldo», quella che «teoricamente non deve esistere» ed è evocata in un’intercettazione tra il capo dell’ufficio legale Cesare Gabasio e il ds Federico Cherubini. La guardia di finanza l’ha trovata nello studio dell’avvocato Federico Restano (a Torino) il 23 marzo 2022, nel corso della seconda perquisizione disposta dal procuratore aggiunto Marco Gianoglio e dai sostituti Mario Bendoni e Ciro Santoriello. 

Il documento è firmato da Fabio Paratici, l’ex ds della Juve indagato con i vertici societari (tra cui l’ex presidente Agnelli e il suo vice Nedved) nell’ambito dell’inchiesta sui bilanci del club. La «carta» è per i magistrati la «side letter» che deriva dalla seconda manovra stipendi relativa alla stagione 2020/2021: la presunta rinuncia fittizia delle mensilità da parte di alcuni giocatori. Si legge ancora: «Nel confermare gli impegni assunti nei predetti documenti, ci impegniamo altresì a consegnarvi entro il 31.07.2021 l’Accordo Premio Integrativo ritrascritto sui moduli federali “Altre Scritture” a oggi non disponibili, e la Scrittura integrativa debitamente sottoscritta». Il documento, con i relativi allegati, non è mai stato depositato in Lega e fa riferimento a un debito residuo che la società aveva maturato con il portoghese prima del suo trasferimento al Manchester: una parte sarebbe stata pagata, resterebbero ancora 19,6 milioni. In un allegato vengono dettagliate cifre, scadenze e «condizioni» alla base del pagamento, cioè la permanenza alla Juve. 

In un altro allegato, però, si specifica che «nell’ipotesi in cui, a seguito di suo trasferimento definitivo, la condizione stabilita per la maturazione dei premi individuati (…) non possa verificarsi, Lei avrà diritto a percepire un incentivo all’esodo». Il debito, secondo gli inquirenti, non è mai stato iscritto a bilancio. I magistrati hanno provato a chiedere conto dell’accordo a CR7 (attraverso una rogatoria internazionale), ma l’attaccante non si è mai presentato dai pm. I suoi legali, i penalisti Salvatore Pino e John Shehata, hanno poi fatto sapere che il calciatore non ha mai visto quei documenti e che non ne possiede copia. Nelle scorse settimane gli avvocati hanno chiesto al gup Picco di poter accedere agli atti, e in particolare a quelli che ricostruiscono la «famosa carta». Ora si tratta di capire la prossima mossa dei legali, che si sarebbero messi in contatto con i pm.

Estratto dell’articolo di Marcello Franco per today.it il 17 gennaio 2022.

Dal campo alla tv, per la Juve resta un momento nero. Dopo la figuraccia sportiva rimediata a Napoli (che l’ha battuta per 5 a 1 nell’ultimo turno di serie A), la Vecchia Signora incassa anche una “bastonata mediatica” arrivata da Report.

 Questa sera, 16 gennaio, la trasmissione di approfondimento di Rai 3 ha infatti dedicato un servizio-bomba al club bianconero, indagando sul tema delle (presunte) acrobazie finanziarie messe in atto dalla dirigenza per far quadrare i conti societari durante e dopo la pandemia di Covid.

[…]

Inchiesta “Prisma”: cos’è

Lo spunto di partenza del servizio di Report è l’inchiesta “Prisma” della Procura di Torino, che nel dicembre scorso ha chiesto il rinvio a giudizio per dodici dirigenti bianconeri, tra cui l’ex presidente Andrea Agnelli. Nel mirino degli inquirenti, appunto, i conti della Juventus, in un’indagine orchestrata su due filoni.

 Il primo è quello sulle plusvalenze “false”, ovvero quelle operazioni di compravendita di calciatori condotte con valutazioni “gonfiate” per ottenere benefici contabili; il secondo è quello sulla cosiddetta “manovra stipendi”, ossia un accordo pubblico tra dirigenze e calciatori sulla cancellazione di quattro mensilità che in realtà, secondo i magistrati, furono solo posticipate.

Report, scoop sulla “carta Ronaldo” (non firmata da CR7)

Su queste premesse, Report ha impalcato l’inchiesta trasmessa lunedì 16 gennaio, intitolata “Il bianco e il nero”, che ha fornito diversi nuovi elementi e retroscena scottanti a partire dalla “carta Ronaldo”, una scrittura privata tra la Juve e l’asso portoghese per il pagamento posticipato di 19 milioni di euro.

 Un accordo segreto ormai noto da tempo, riguardo al quale Report oggi ha svelato però un’importante novità, fornita da un testimone molto vicino al giocatore: “Sì, (la carta, ndr) esiste, ma Ronaldo non l’ha firmata, c’è solo la firma della Juve (…). Diciamo che è stato ben consigliato”, ha detto la fonte (con voce artefatta) al giornalista del programma.

[…] Nel servizio ha poi trovato spazio un lungo focus sul tema delle plusvalenze fittizie che sarebbero state messe in atto dalla dirigenza dalla Juve per pareggiare i conti […] già dal 2020 erano al collasso. Ne è venuto fuori un quadro a tinte fosche di un sistema organizzato - secondo la Procura di Torino - per tenere in piedi artificialmente una società in perdita costante, che considerava i giocatori come pedine per far quadrare i bilanci.

 Una teoria che potrebbe essere dimostrata dal ritrovamento del “Libro nero FP” (dove FP sono le iniziali di Fabio Paratici, per oltre un decennio diesse della società), dove dovrebbero essere redatte tutte le operazioni che hanno fatto scivolare la società verso il baratro finanziario, comprese le plusvalenze "spericolate".

E proprio il dirigente ora al Tottenham, raggiunto telefonicamente da Report, per la prima volta ha provato a difendersi da chi lo accusa  […]: "Mi dà fastidio parlarne. […] Io responsabile del sistema? Ognuno ha la sua visione, per ora è unilaterale".

 Sul tema sono intervenuti anche Luciano Moggi (dirigente della Juve travolta da Calciopoli), Davide Lippi (agente di Chiellini) e il giornalista finanziario Fabio Pavesi, mentre in chiusura del servizio Ranucci ha letto una nota indirizzato dalla Juve al programma, nella quale il club bianconero “respinge le ipotesi accusatorie e rivendica la correttezza del proprio operato”.

 Cosa rischia la Juve

[…] I bianconeri rischiano grosso sia in ambito sportivo che giudiziario. Il prossimo 20 gennaio, a margine dell'udienza in Corte d'Appello Federale, si saprà se il club dovrà affrontare o meno il processo bis sulle plusvalenze che potrebbe portare a una penalizzazione in classifica o - nella peggiore delle ipotesi - alla radiazione.

L'udienza preliminare dell’inchiesta Prisma avrà luogo invece il 27 marzo 2023 e riguarderà 13 imputati, tra i quali Andrea Agnelli e la società Juventus, chiamata in causa come persona giuridica. Fino ad allora, la Vecchia Signora e i suoi tifosi dovranno trattenere il fiato, sperando che la bufera passi col minor danno possibile.

(ANSA il 17 gennaio 2022) - "È opportuno sottolineare che, in questa fase, sono a disposizione dei media solamente documenti parziali e strumentali alle tesi di accusa, peraltro già rigettate dal Giudice per le indagini preliminari, chiamato ad esprimersi su alcune misure richieste dalla Procura della Repubblica.

 Una completa analisi di tutta la documentazione, composta da migliaia di pagine e di intercettazioni integrali, potrà essere compiuta solamente nelle sedi competenti, secondo le regole dell'accertamento giudiziale in contraddittorio, senza rischiare di fornire una informazione parziale e imprecisa".

L'affermazione, è contenuta nella risposta della Juventus alla richiesta di Report di intervenire in merito all'inchiesta giudiziaria che la vede coinvolta, sulla quale in serata è andato in onda un servizio. "Anche per quanto concerne la giustizia sportiva - prosegue la risposta, firmata Corporate Affairs e External Communications - vi rimandiamo ai comunicati del 30 novembre 2022 e del 22 dicembre 2002, in attesa della prossima udienza prevista appunto per venerdì 20 gennaio, in cui confidiamo che il ricorso per revocazione sia dichiarato inammissibile o comunque respinto".

 La Juventus pubblica su Twitter questa lettera in maniera integrale, premettendo: "Venerdì scorso la redazione di @reportrai3 ha chiesto alla società di sapere quale fosse la posizione rispetto all'inchiesta oggetto della trasmissione appena andata in onda. Questa la risposta inviata da Juventus poche ore dopo, solo parzialmente citata in onda" e segue il testo integrale della risposta, di cui sopra sono state riportate le conclusioni.

"Prendiamo atto - è l'inizio della risposta del club a Report - della vostra richiesta e della vostra intenzione di andare in onda con un servizio riguardante l'inchiesta giudiziaria che coinvolge la nostra società per il prossimo lunedì 16 gennaio. Segnaliamo che tale data precede di appena quattro giorni l'udienza, prevista per venerdì 20 gennaio, della Corte Federale di Appello, Sezioni Unite, chiamata ad esprimersi sull'eventuale revocazione del giudizio di proscioglimento pronunciato lo scorso 27 maggio. Si tratta senza dubbio di una casualità".

"Quanto alla vostra richiesta circa la posizione di Juventus Football Club rispetto alle ipotesi di reato, promosse dalla Procura della Repubblica di Torino - prosegue la lettera - vi rimandiamo ai comunicati stampa della società, disponibili su www.juventus.com, diffusi il 25 ottobre 2022, 28 novembre 2022, 30 novembre 2022 e 2 dicembre 2022" che si riferiscono ai vari passi dell'inchiesta e alla diffusione dei conti della società. "Di tali comunicati - prosegue il club - vi preghiamo di dare conto ai vostri spettatori. Come può leggersi nei comunicati, Juventus Football Club respinge fermamente le ipotesi accusatorie e rivendica la correttezza del proprio operato".

Estratto dell’articolo di Ettore Boffano per “il Fatto quotidiano” il 19 gennaio 2023.

 Se ne va l'ultimo Agnelli che porta il cognome simbolo del nostro capitalismo familiare. Travolto dallo scandalo Juventus, Andrea, figlio di Umberto, ha annunciato il congedo anche dalle cariche in Exor […] e in Stellantis […].

 Una sua condanna, infatti, peserebbe su quel cognome e sulla possibilità di rivestire cariche sociali. Meno palesi invece, e tutte futuribili, le ragioni interne alla famiglia e soprattutto, riguardo ai rapporti tra l'ala "umbertiana" (penalizzata a lungo dai silenzi dell'Avvocato e dai diktat di Cesare Romiti ed Enrico Cuccia) e quel John Elkann che non si chiama Agnelli, ma è l'erede del nonno come capo famiglia.

Chi prenderà il posto di Andrea in Exor, più che in Stellantis? La sorella Anna che possiede la metà del loro pacchetto di azioni?

 O addirittura Allegra, la vedova di Umberto? E che effetti avrà tutto ciò sulla Giovanni Agnelli Bv, l'altra società che raccoglie tutti gli eredi della dinastia e controlla il 52 per cento di Exor?

 Oggi il 38 per cento è in mano a Dicembre (John e i fratelli Lapo e Ginevra). Sino a pochi mesi fa, Anna e Andrea erano al secondo posto con il 12 per cento, ora sono scesi all'11,85, come ha ricostruito il Sole 24 Ore, scavalcati dal ramo di Maria Sole Agnelli, salito al 12,32. Un segnale del prossimo abbandono dei discendenti di Umberto? […]

Juventus, processo plusvalenze: le armi di accusa e difesa. Giovanni Capuano su Panorama il 19 Gennaio 2023.

Abbiamo analizzato le 106 pagine con cui la Procura Figc vuole riaprire il procedimento sugli scambi di mercato. Ecco cosa c'è di realmente nuovo e cosa no J

Il titolo che compare in testa alle 106 pagine del documento con cui la Procura della Figc spera di far riaprire il processo alla Juventus sulle plusvalenze evoca un tecnicismo difficile da comprendere: "Impugnazione per revocazione parziale, ex art. 63, del C.G.S.". Un atto con pochissimi precedenti nella storia della giustizia sportiva italiana e anche per questo con esito non scontato, perché la sentenza che il procuratore capo Giuseppe Chiné e i suoi uomini sperano di riscrivere è il doppio e definitivo proscioglimento del club bianconero e degli altri dieci club assolti la scorsa estate perché - non per la prima volta - si è stabilito che in materia di calciomercato non esiste un modello di riferimento, oggettivo e applicabile a tutti, per determinare il valore dei calciatori. Non è l'unico effetto della valanga di faldoni e pagine (14mila) arrivati nella sede della Federcalcio da Torino, frutto della corposa inchiesta Prisma sui bilanci della Juventus negli ultimi tre anni. Intercettazioni, mail, fogli scritti a mano e al computer che hanno spinto la Procura Figc ad accendere i propri riflettori su almeno tre filoni: plusvalenze, manovra stipendi e legami con i club della cosiddetta 'Galassia Juventus'. Nel primo caso si va in aula (sportiva) subito. Gli altri due sono ad oggi solo fascicoli di indagine aperti e per i quali bisognerà attendere le mosse di Chiné. Panorama.it ha letto e analizzato le 106 pagine della richiesta di revocazione parziale delle assoluzioni. Cosa bisogna attendersi dal nuovo processo? Intanto va chiarito che il primo scoglio da superare sarà la sua effettiva riapertura: decideranno i giudici della Corte d'Appello della Figc che dovranno valutare se davvero il materiale selezionato dalla Procura proponga elementi nuovi e decisivi rispetto a quelli in possesso nel primo atto. Solo in caso di riscontro favorevole si procederà, altrimenti tutto sarà nuovamente archiviato. Avvertenza: la richiesta della Procura della Federcalcio non riguarda solo la Juventus ma altre 8 società, tutte con trattative con il club bianconero nel periodo finito sotto inchiesta. Fuori Napoli e Chievo, che facevano parte del primo procedimento, perché (scrive Chiné) "non sono state contestate operazioni di scambio dirette con la Juventus ma solo con altre società".

LE ARMI IN MANO ALLA PROCURA FIGC L'ipotesi di reato sportivo che muove gli inquirenti della Figc non è cambiata rispetto alla scorsa primavera. Secondo loro la Juventus e le altre hanno intessuto una tela di operazioni di scambio con valutazioni dei giocatori superiori al reale, pianificate per raggiungere risultati economici e finanziari pianificati a budget così da alleggerire passivi sempre crescenti. Quello che cambia è che ora Chiné porta in dote alla sua ricostruzione la montagna di intercettazioni, mail e documenti ereditata dall'inchiesta della Procura di Torino. Il punto di partenza è, dunque, che non vale più l'affermazione alla base del doppio proscioglimento dei mesi scorsi e cioè che il metodo indicato dalla Procura della Figc per valutare i giocatori (quello in cui comparivano anche i dati di un sito non ufficiale come Transfermarkt) non va più considerato semplicemente uno dei metodi possibili la pari di quello utilizzato dalla Juventus e dalle altre società, ma che ci sono "indizi gravi, concordanti e plurimi" che il vuoto normativo in materia di plusvalenze ha creato un'anarchia in cui c'è chi si è mosso in maniera illegittima. La quantità di carte riversate nel nuovo processo non ha precedenti e, dunque, è certamente un punto a favore dell'accusa. Disegna una sorta di "dietro le quinte" del sistema calcio italiano (bisogna sempre ricordare che le plusvalenze sono state un fenomeno arrivato nel 2021 a sfondare i 700 milioni di euro in Serie A) la cui osservazione provoca a tratti sconcerto. Più che le telefonate tra dirigenti, con discorsi e ragionamenti spesso estrapolati dal contesto o fatti senza consapevolezza che qualcuno ascoltasse, nel caso della Juventus sono inediti soprattutto i documenti e le mail scambiate ai più alti livelli dirigenziali del club in cui le operazioni di scambio di mercato vengono indicate inserendo addirittura una o più "X" al posto dei nomi dei giocatori. Nessun legame con una strategia tecnica e sportiva, solo un risultato economico da raggiungere inserito all'interno di manovre definite "correttive" per sistemare conti perennemente in sofferenza.

LE ARMI IN MANO ALLA DIFESA JUVENTUS Il confronto sulla richiesta di riaprire il processo plusvalenze sarà anche la prima occasione per verificare quale sia la linea difensiva della Juventus (e non solo). Fin qui abbiamo letto solo la ricostruzione dell'accusa, sia a livello di giustizia penale che sportiva. Davanti alla Corte d'Appello federale cominceranno a parlare anche gli avvocati del club bianconero e il quadro si arricchirà di altri elementi. Dall'analisi delle 106 pagine della richiesta di revocazione, però, alcune considerazioni emergono. Ad esempio, alcune delle prove portate a carico della Juventus e dei suoi dirigenti appaiono semplicemente l'applicazione di metodi di lavoro comuni a tutto il sistema del calcio internazionale. E' il caso della trattativa con la Sampdoria per il difensore Dragusin in cui l'allora ds Fabio Paratici e il collega blucerchiato ragionano sull'opportunità di spostare l'operazione dopo la chiusura dei bilanci per necessità contabili. Oppure l'ipotesi di inserire Poveda nella trattativa con il Leeds che vuole McKennie per abbassarne un po' il valore: pratica cui ricorrono tutti i club cercando di limitare la spesa valorizzando il proprio settore giovanile. O, ancora, nei documenti previsionali di budget in cui i ricavi del calciomercato vengono stimati per capire come si comporrà il fatturato. Oppure nella parte in cui i legali e responsabili dell'area finanziaria della Juventus si rendono conto di non essere in grado di fornire alla Consob un modello interno di processo decisionale per stabilire il valore dei propri calciatori da mettere sul mercato (alla fine decide sempre il direttore sportivo). Può essere inaccettabile per gli organi di controllo di Borsa, è da provare che si tratti di qualcosa di anomalo nel funzionamento sportivo di un qualsiasi club in giro per il mondo.

In generale, parte delle carte presentate dalla Procura sembra raccontare tre anni di gestione non virtuosa dell'azienda Juventus (Agnelli ad Arrivabene: "Da un lato abbiamo ingolfato la macchina con ammortamenti [...] E soprattutto la merda... perché è tutta a merda che sta sotto che non si può dire") dentro un sistema largamente condiviso: davvero solo i bianconeri hanno una rete di società amiche con cui intessono alleanze di mercato? O calibrano formule di prestiti o obblighi di riscatto per cercare di risparmiare denari? Secondo la Procura della Figc molte delle intercettazioni hanno un "chiaro tenore confessorio in ordine a un vero e proprio sistema" con piena consapevolezza da parte di tutti, presidente Andrea Agnelli e azionista di maggioranza John Elkann compresi. Dentro i faldoni, però, ci sono anche trascrizioni in cui la presa d'atto era arrivata prima delle richieste della Consob e molto prima dell'inchiesta sportiva. Se lo dicono Stefano Cerrato (chief financial officer) e Cesare Gabasio (legale) in una telefonata nell'ottobre del 2021: "Ti dico la verità in passato i bilanci di molte società calcistiche sono stati un po’ salvati da queste plusvalenze, da queste plusvalenze, onestamente adesso già dalla 20/21 non abbiamo fatto, abbiamo fatto un quinto delle plusvalenze che facevamo negli anni precedenti, non abbiamo messo a business plan di farne di rilevanti nel corso di questi anni, quindi se poi le faremo saranno diciamo delle sorprese positive saranno totalmente sane ma questo devo dirti la verità indipendentemente un po’ dalla verifica ispettiva di Consob [...]".

Il bianco e il nero. Report Rai PUNTATA DEL 16/01/2023 di Daniele Autieri

Collaborazione di Federico Marconi e Lorenzo Vendemiale

La Juventus, una delle squadre italiane più titolate e conosciute al mondo, è al centro di una tempesta giudiziaria.

La procura di Torino ha chiesto il rinvio a giudizio per 12 top manager tra cui anche l’ex-presidente Andrea Agnelli, mentre venerdì 20 gennaio il Tribunale federale si pronuncerà sulla richiesta della Procura federale di riaprire anche il processo sportivo contro la squadra controllata dalla famiglia Agnelli. Secondo gli inquirenti, tutto il top management della società avrebbe messo in piedi una serie di misure correttive illegali per far tornare i dati di bilancio, frodando di fatto gli azionisti. Al centro delle attività illecite ci sono le plusvalenze fittizie, ma anche la cosiddetta “manovra stipendi”, ovvero gli accordi segreti presi con alcuni calciatori per posticipare il pagamento degli stipendi, senza comunicarlo alla Borsa, assicurando alla società un apparente taglio dei costi di quasi 100 milioni di euro. L’inchiesta di Report raccoglie per la prima volta tutti gli atti d’indagine, tra cui i contenuti rimasti finora inediti di alcuni interrogatori eccellenti e la ricostruzione dettagliata di quanto accaduto con il calciatore più rappresentativo e più costoso della storia del club torinese: Cristiano Ronaldo. Un’inchiesta che risale anche alle responsabilità di chi, nelle istituzioni del calcio italiano, non ha visto e non ha affrontato un problema che era già stato più volte segnalato dalle autorità di controllo sui bilanci della Federcalcio.

Le domande rivolte alla Juventus FC e le risposte ricevute

 17 gennaio 2023: come è prassi di Report, la Nota della Juventus FC è stata pubblicata integralmente sul sito internet del programma allegandola alla stessa inchiesta. In trasmissione abbiamo riportato l’unica affermazione di contenuto presente nella nota ovvero che la Juventus “respinge fermamente le ipotesi accusatorie e rivendica la correttezza del proprio operato”. Quanto al resto delle affermazioni riportate nella Nota, facciamo presente che il nostro giornalista ha preso contatto con l’ufficio stampa della Juventus oltre un mese fa. In data 22 dicembre ha inviato un appunto in cui spiegava il taglio dell’inchiesta e poneva alcune possibili domande da rivolgere al club. Il 3 gennaio, come si vede dall’inchiesta, si è recato alla conferenza stampa dell’allenatore Allegri per porre una di queste domande. Solo una, perché il club vieta che i giornalisti facciano più di una domanda in conferenza stampa. Allo stesso modo abbiamo più volte chiesto all’ufficio stampa di poter intervistare un rappresentante della Juventus, anche legale, che spiegasse la posizione del club, ma la risposta è stata sempre negativa. In merito ai documenti di cui si parla nella nota stampa inviata ieri (documenti che in parte sosterrebbero le tesi difensive del club), nessuno di questi documenti è stato prodotto a Report, che pur ne aveva fatto richiesta per visionarli. L’unica risposta è stata: leggete i nostri comunicati stampa. Questo dimostra che da parte del programma c’è stata la massima disponibilità a dare voce alla società, una disponibilità che però non è stata accolta.

IL BIANCO E IL NERO Di Daniele Autieri Collaborazione Federico Marconi, Lorenzo Vendemiale Immagini Carlos Dias, Giovanni De Faveri, Alfredo Farina, Cristiano Forti, Fabio Martinelli Montaggio Andrea Masella Ricerca Immagini Alessia Pelagaggi Grafiche Michele Ventrone

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO A due giorni dall’Assemblea dei soci chiamata a nominare il prossimo consiglio di amministrazione, la Juventus del futuro deve fare i conti con quella del passato. La procura di Torino chiede il rinvio a giudizio per 12 alti dirigenti del club a partire dall’ex presidente Andrea Agnelli. L’inchiesta dei magistrati spazza via oltre un decennio di gestione e per il direttore finanziario Stefano Bertola le lancette della storia tornano indietro ai tempi di Calciopoli quando il trio Moggi, Bettega, Giraudo dettava la sua legge negli stadi di mezza Italia.

INTERCETTAZIONE STEFANO BERTOLA - DIRETTORE FINANZIARIO DELLA JUVENTUS FC OTTOBRE 2020 - NOVEMBRE 2021 La situazione è davvero complicata, io in 15 anni faccio un solo paragone: Calciopoli. Io solo quella l’ho vista più complicata. Ed era fuori controllo perché, minchia, c’era tutto il mondo che ti sparava merda. Questa ce la siamo creata noi!

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il filo rosso che collega l’ultimo scandalo juventino con Calciopoli viene tirato il 27 dicembre scorso quando Luciano Moggi, radiato a vita dalla Federcalcio, si presenta all’Assemblea della società e regala ad Andrea Agnelli una chiavetta USB che contiene le verità dell’ex direttore sportivo della Juve sulla tempesta giudiziaria del 2006. La stessa chiavetta che Moggi consegna a noi di Report in un hotel di Mergellina che per anni è stato il riparo preferito da Diego Armando Maradona.

DANIELE AUTIERI Stefano Bertola, uno dei manager della Juventus, intercettato dice: stavolta è peggio di Calciopoli però questa volta il casino l’abbiamo fatto noi…

LUCIANO MOGGI - DIRETTORE SPORTIVO JUVENTUS FC 1994-2006 Questo Bertola se stava zitto guadagnava un tanto, perché lui era l’amministratore, lui era quello che doveva correggere Paratici e compagni

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 28 novembre scorso il consiglio di amministrazione della Juventus si dimette in blocco. Il primo a lasciare è Andrea Agnelli, il presidente, vertice di un gruppo di manager che – secondo l’accusa – avrebbe messo in atto una serie di misure correttive illegali per far tornare i dati di bilancio, frodando di fatto gli azionisti della Juventus.

FABIO PAVESI - GIORNALISTA La Juve è solo l’epifenomeno. Il calcio italiano è fallito, inutile che stiamo qui a romperci i coglioni. Se in più scopriamo che sullo stile Juve molte che hanno fatto affari con la Juve hanno bilanci taroccati, capite che il sistema è morto

DANIELE AUTIERI Non si regge in piedi FABIO PAVESI, GIORNALISTA È finito.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Questa è la pennetta che l’evergreen Lucianone Moggi ha consegnato ad Andrea Agnelli e anche al nostro Daniele Autieri, a forma di Alce, conterrebbe la sua verità su Calciopoli. Calciopoli che ha portato alla radiazione della giustizia sportiva di lui e dell’amministratore delegato dell’epoca Giraudo. Ora invece lo scandalo che coinvolge la Juve questa volta colpisce tutta la catena gerarchica, fino ad arrivare al presidente Andrea Agnelli, per oltre 10 anni presidente della Juve, cugino di John Elkann, 9 gli scudetti vinti. Solo che per la Procura tre campionati sarebbero stati giocati dalla Juventus con carte finanziarie truccate. Le accuse, le ipotesi di reato sono falso in bilancio, false fatturazioni, aggiotaggio, ostacolo alla vigilanza Consob. Per questo la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio del presidente Andrea Agnelli, del suo vice Pavel Nedved, dell’amministratore delegato Maurizio Arrivabene e poi anche del direttore sportivo Fabio Paratici. Cosa c’era di così imbarazzante nelle chat, nelle intercettazioni, nelle carte, nel libro nero, è stato trovato un libro nero con la dicitura “libro nero FP”, che sta appunto per Fabio Paratici, il direttore sportivo. Il nostro Daniele Autieri

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO All’inizio del 2020 i vertici della Juventus si rendono conto che la società è vicina al collasso. I conti non tornano e il ticket da 300 milioni di euro pagato avere per Cristiano Ronaldo rischia di trasformarsi in un incubo finanziario. Il 22 febbraio, il giorno dopo una riunione del consiglio di amministrazione, Andrea Agnelli invia una mail confidenziale e riservata al suo gruppo di lavoro. Nella mail si parla della necessità di contenere le perdite attraverso azioni correttive per 100 milioni di euro.

FABIO PAVESI - GIORNALISTA La Juve lancia due aumenti di capitale, uno nel 2019 per 300 milioni e un altro nel 2021 per 400 milioni, totale 700 milioni, se guardiamo l’andamento delle perdite scopriamo che la Juve dal 2018 in poi ha bruciato all’incirca 620 milioni, quindi in realtà l’aumento di capitale non serve a crescere come la società dice ma serve a tappare i buchi delle perdite.

LUCIANO MOGGI - DIRETTORE SPORTIVO JUVENTUS FC 1994-2006 Quando tu praticamente ti trovi magari in un contesto che ti potrebbe dare di più di quello che vuoi, sei portato certe volte ad esagerare, no? E la Juventus evidentemente in quel contesto lì per cercare di vincere la coppa dei campioni…

DANIELE AUTIERI Ha esagerato

LUCIANO MOGGI - DIRETTORE SPORTIVO JUVENTUS FC 1994-2006 Ha esagerato.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Exor, la cassaforte della famiglia Agnelli che controlla anche la Juventus, è al corrente della disastrosa situazione finanziaria del club, e anche dei meccanismi usati nelle correzioni dei bilanci, cioè delle plusvalenze. Infatti, Il 26 agosto del 2020 Enrico Vellano, manager di Exor, invia una mail ad Andrea Agnelli nella quale cita le plusvalenze da cessioni e scrive che il dato del patrimonio netto è “probabilmente il più critico e importante da gestire”.

INTERCETTAZIONE ANDREA AGNELLI - PRESIDENTE JUVENTUS FC 2010-2022 Noi abbiamo sempre preso dei rischi e il consiglio è sempre stato informato che sono stati presi e si sono sempre trovati dei correttivi strada facendo.

JOHN ELKANN - AMMINISTRATORE DELEGATO EXOR Sì, però, come ricordi, tu avevi detto che alla fine c’è stato, da parte della direzione sportiva, si sono allargati, ci sono tutta una serie di operazioni che loro hanno fatto.

ANDREA AGNELLI - PRESIDENTE JUVENTUS FC 2010-2022 Esatto, facendo eccessivo ricorso allo strumento delle plusvalenze: se ti crolla il mercato, ti crolla il mercato. Questo è un fatto!

LUCIANO MOGGI - DIRETTORE SPORTIVO JUVENTUS FC 1994-2006 Io per esempio quando ero io e Giraudo, noi prima di fare una cosa andavamo a Ifil, che adesso è Exor, guardavamo in una bella lavagna dove c’era Galateri che era il capo dell’Ifil che ci controllava e soprattutto ci aiutava, guardavamo quella lavagna costi e ricavi e praticamente decidevamo se fare o non fare una cosa.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO La rosa della Juve è ricca e piena di campioni. Nel bilancio 2018/2019 le vendite dei calciatori valgono 166 milioni di euro, che diventano 172 milioni nel bilancio 2019/2020, quasi il 30% dei ricavi del club. E la quasi totalità di questi proventi viene proprio dalle plusvalenze. Nel 2020 su 172 milioni di proventi sui diritti dei calciatori, 166 milioni sono proprio plusvalenze.

DANIELE AUTIERI Una parte dell’inchiesta è costruita intorno alle questioni delle plusvalenze artificiali. Di cosa si tratta?

FABIO PAVESI - GIORNALISTA Vengono chiamate artificiali o a specchio quelle situazioni in cui contemporaneamente due squadre si scambiano i calciatori. Se tu scambi contemporaneamente un calciatore con un’altra squadra e lo scambio avviene contemporaneamente, non c’è scambio di denaro e quindi tu iscrivi un ricavo da plusvalenza senza che ci sia un’entrata di cassa. Servono solo, sulla carta, ad aumentare fittiziamente i ricavi, ed è quello che poi la procura ha individuato. Su circa 300 milioni di plusvalenze che la Juve ha fatto per la procura 156 sono assolutamente artificiali, sono finte.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Tra il 2020 e il 2021 fare plusvalenze diventa il mantra dei dirigenti della Juve, a partire da Fabio Paratici, allora potente direttore sportivo, fino agli uomini a lui vicini che in più occasioni si lamentano dei metodi del numero uno del mercato bianconero.

INTERCETTAZIONE MATTEO TOGNOZZI - SCOUTING MANAGER JUVENTUS FC Hanno chiesto di fa le plusvalenze, e abbiamo preso dei giocatori forti dentro, noi non abbiamo fatto mercato, noi abbiamo comprato dei giocatori senza pagarli, la verità è questa…

FEDERICO CHERUBINI - DIRETTORE SPORTIVO JUVENTUS FC Noi alle prime riunioni di marzo si parlava di fare 300 milioni di quelli eh! Io ti giuro che ho avuto delle sere che tornavo a casa e mi veniva da vomitare a pensarci.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Negli uffici di Federico Cherubini, il vice di Paratici, gli uomini della Guardia di Finanza trovano il Libro Nero FP, dove FP sono le iniziali di Fabio Paratici. Al suo interno vengono elencati gli errori che hanno portato alla disastrosa situazione patrimoniale della Juve e tra le voci compare “utilizzo eccessivo delle plusvalenze artificiali”.

INTERCETTAZIONE FEDERICO CHERUBINI - DIRETTORE SPORTIVO JUVENTUS FC Io perché sono andato in difficoltà negli ultimi anni? Mi sentivo che mi stavo vendendo l’anima… ero complice di alcune cose, anche per una questione di ruolo dovevo dire a Fabio “non sono d’accordo”.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Fabio Paratici vive oggi a Londra dove è stato chiamato a dirigere il Tottenham. Secondo la procura di Torino è lui la mente delle operazioni spregiudicate della Juventus, l’uomo che agisce di concerto con il presidente Andrea Agnelli.

FABIO PARATICI - DIRETTORE SPORTIVO JUVENTUS FC 2010-2021 In questo momento non pronto e neanche, sono un po’ non dico turbato ma mi dà fastidio anche parlarne, ma non per voi, assolutamente…

DANIELE AUTIERI Dalle intercettazioni emerge che, almeno secondo i suoi colleghi, era un po’ lei il burattinaio di tutto questo sistema…

FABIO PARATICI - DIRETTORE SPORTIVO JUVENTUS FC 2010-2021 Sì, sì, però onestamente siccome siamo ancora in una fase dove almeno ancora per un pochino, ci sono un po’ di cose non chiarite proprio a livello di schema processuale, quindi voglio stare un attimino, non mi sento pronto ecco, solo questo.

DANIELE AUTIERI Sì, sì, capisco… Mi risponda almeno a questo: è lei il responsabile di tutto questo sistema Juve che emerge dall’indagine?

FABIO PARATICI - DIRETTORE SPORTIVO JUVENTUS FC 2010-2021 Ognuno ha la sua visione ovviamente, però come dici tu adesso è veramente unilaterale, cioè c’è uno che attacca e l’altro che può solo difendere e non può passare la metà campo…

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 12 febbraio del 2021 Fabio Paratici invia una mail ad Andrea agnelli nella quale indica tutte le azioni correttive necessarie per abbattere il debito da 285 a 100 milioni di euro. Tra queste la manovra salari e le plusvalenze.

FABIO PAVESI - GIORNALISTA Si scrive nel libro nero che le plusvalenze artificiali, attenzione vengono chiamate artificiali dalla stessa Juve, creano un beneficio immediato sul bilancio ma creano anche più ammortamenti e questo ha un effetto sui costi crescente nel tempo. DANIELE AUTIERI Perché tu il costo del giocatore che prendi te lo spalmi in cinque anni…

FABIO PAVESI - GIORNALISTA Te lo spalmi in cinque anni mentre la plusvalenza la iscrivi nel primo anno.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nel gioco delle plusvalenze i calciatori sono pedine per far tornare i conti. Secondo gli inquirenti la prova di questo è in un manoscritto su carta intestata intitolato “Mercato” e trovato nell’ufficio di Cesare Gabasio, il responsabile delle questioni legali della Juventus. Nell’appunto vengono indicati i valori economici degli scambi da realizzare anche quando il giocatore è ancora da individuare, inserendo al posto dei nomi la lettera X. E che fosse il calciomercato delle figurine contabili e non dei giocatori veri lo sapeva anche chi poi avrebbe fatto i conti sul campo: l’allenatore Allegri.

INTERCETTAZIONE MASSIMILIANO ALLEGRI - ALLENATORE JUVENTUS FC Il mercato di oggi è quello vero, dove uno va a compra il giocatore che gli serve, cioè tu devi capire che il mercato dell’anno scorso era solo plusvalenze… e quindi era un mercato del cazzo.

DANIELE AUTIERI Buongiorno Mister, sono Daniele Autieri di Report. Le faccio una domanda perché di qui a poco, il 20 gennaio, il tribunale federale deciderà se riaprire l’inchiesta sportiva sulla Juventus. Visto che lei stesso in un’intercettazione parla di un mercato falsato dalle plusvalenze, in passato prima che tornasse, teme dei contraccolpi dall’inchiesta sportiva e non giudiziaria, da quello che potrà uscire il 20 gennaio?

MASSIMILIANO ALLEGRI - ALLENATORE JUVENTUS FC Innanzitutto, è un argomento su cui la società si è già espressa il 30 luglio con un comunicato quindi… no il 30 novembre con un comunicato, quindi non ho altro da aggiungere su questo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quello che pensava, Allegri l’ha detto in una intercettazione dove appunto si lamentava del mercato della Juve, dei giocatori acquistati, che non erano buoni per il campo ma per i libri contabili, per le plusvalenze, che erano state realizzate dall’ex direttore sportivo Fabio Paratici con la complicità di altre squadre di calcio. Ecco, se tutto questo è vero come si concilia con la lealtà sportiva e il regolare svolgimento di una competizione quando ci sono squadre che sono legate vite e morte finanziariamente con altre squadre. Le plusvalenze e i salari, sono questi i punti centrali dell’inchiesta della Procura di Torino. E sono proprio questi i punti che vengono indicati da Fabio Paratici in una mail che indirizza ad Andrea Agnelli, e vengono indicati come i necessari accorgimenti per sistemare i conti. Ora la Juve essendo quotata in Borsa avrebbe l’obbligo di informare il mercato e i propri azionisti delle sue azioni. Dalle chat invece sequestrate emergerebbero gli accordi riservati fra la Juventus e i suoi giocatori. Dice tagliamo gli stipendi ai calciatori, sembra anche un bel gesto nei confronti del Paese in ginocchio per il virus. In realtà dalle chat emergerebbe che l’accordo fosse diverso: ti paghiamo – dice la Juve ai giocatori – dopo la chiusura del bilancio. E in questo ci sarebbe stata anche la complicità dell’ex capitano Giorgio Chiellini. Ora, gli accordi riservati con i calciatori avvengono in tutte le squadre, l’ha detto anche Luciano Moggi. Tra quelli che però non l’hanno firmato questo accordo c’è Cristiano Ronaldo: la società avrebbe dovuto riconoscergli 19 milioni di euro che ora il campione sta chiedendo attraverso i suoi legali. Quanto fosse disastrato il bilancio della Juventus, ma anche di altre squadre, emerge da un fatto: un incontro riservato, organizzato nel settembre 2021 da Andrea Agnelli, di nascosto, nell’abitazione della madre. Incontro a cui hanno partecipato anche l’ex presidente della Lega Calcio, e l’attuale presidente della Federcalcio, Gabriele Gravina. Che cosa si sono detti?

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il marzo 2020 è il mese più nero del Covid-19. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ordina il primo lockdown della storia italiana. Il Paese chiude e anche il calcio. Il 28 marzo la Juventus annuncia che i giocatori avrebbero rinunciato a quattro mensilità. Un annuncio che si rivela falso, perché tre mensilità verranno pagate in seguito

FABIO PAVESI – GIORNALISTA Se tu restituisci tre mensilità il beneficio vero non è di 90 milioni come dice la procura ma solo di 26.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 27 marzo del 2020, un giorno prima del comunicato ufficiale della Juve, il capitano Giorgio Chiellini invia un messaggio ai suoi compagni di squadra. All’interno Chiellini spiega la proposta di Andrea Agnelli, che prevede la possibilità di posticipare il pagamento degli stipendi congelati dopo aver chiuso il bilancio. Nello stesso messaggio Chiellini chiede ai compagni di non rivelare l’accordo ai giornalisti e spiega che pubblicamente la Juve annuncerà un altro tipo di accordo, ovvero la rinuncia definitiva a quattro mensilità. La Juve comunicherà un accordo non vero, iscrivendo a bilancio meno costi di quelli che realmente sosterrà.

DANIELE AUTIERI Lei è l’agente di Chiellini. Avete mai parlato insieme di questa manovra sugli stipendi?

DAVIDE LIPPI - AGENTE GIORGIO CHIELLINI Ma sinceramente noi di tutte ste robe qua non sappiamo niente. Anche lì passi per essere mezzo coglione. Ho letto Andrea che dice: Davide non ha fatto niente…

DANIELE AUTIERI Andrea Agnelli, intende

DAVIDE LIPPI - AGENTE GIORGIO CHIELLINI Giorgio con il rapporto che aveva con Andrea, si vedevano con Andrea, si sedevano davanti a una birra e facevano il contratto.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nella manovra stipendi viene coinvolto anche Cristiano Ronaldo. Una carta che i dirigenti della Juve vogliono tenere segreta a tutti i costi. È l’accordo per il pagamento posticipato di 19 milioni di euro al campione portoghese. Ma oggi un testimone molto vicino a Ronaldo ci racconta come sono andate veramente le cose.

DANIELE AUTIERI Esiste quindi una scrittura privata che riguarda anche i compensi di Ronaldo… P

PROCURATORE SPORTIVO Sì, esiste ma Ronaldo non l’ha firmata.

DANIELE AUTIERI In che senso. Non è firmata da lui?

PROCURATORE SPORTIVO Esatto. È firmata dalla Juventus, ma non da Cristiano.

DANIELE AUTIERI Perché secondo lei Ronaldo non l’ha firmata?

PROCURATORE SPORTIVO Diciamo che è stato ben consigliato…

DANIELE AUTIER FUORI CAMPO A distanza di mesi Salvatore Pino e John Shehata, gli avvocati del fuoriclasse che ha appena firmato un contratto miliardario in Arabia Saudita, hanno avanzato una richiesta alla Juventus per recuperare quei 19 milioni di euro, parte integrante di un contratto che il club non avrebbe onorato.

DANIELE AUTIERI Con i calciatori capita di accordarsi sul pagamento delle mensilità?

LUCIANO MOGGI - DIRETTORE SPORTIVO JUVENTUS FC 1994-2006 Ecco lì lo facevano tutti, su questo non c’è dubbio, la Juventus non lo poteva fare perché era quotata in Borsa.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il problema è che la Juventus non ha informato il mercato su quello che realmente stava facendo. Le scritture di riduzione degli stipendi sono state depositate nel maggio del 2020, mentre le scritture private per integrarli sono state tenute nascoste al mercato. L’integrazione è stata depositata solo nel luglio del 2020, quindi dopo la chiusura del bilancio avvenuta il 30 giugno. Nel complesso per le stagioni 2020/2021 e 2021/2022 i contratti di integrazione stipendiale dei 21 calciatori e dell’allenatore hanno superato i 100 milioni di euro.

DANIELE AUTIERI Anche i calciatori ne escono come dei complici

FABIO PAVESI - GIORNALISTA Vige lo stile sabaudo, la Juve è una gran signora e nessuno tradisce la signora

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Dalle indagini emerge poi il ruolo degli agenti che, pur di lavorare con la Juventus, si prestano a diventare ammortizzatori dei debiti della società finendo nella contabilità in nero della squadra oppure prestandosi alla firma di mandati fittizi, che non corrispondono a nessuno scambio.

FABIO PAVESI - GIORNALISTA La Juve è comunque una macchina da soldi e quindi tutti quelli che circolano intorno alla Juve beneficiano di questo giro di denaro, ovviamente in primis i procuratori sportivi.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Sul tema della contabilità in nero Davide Lippi e la sua Reset Group risultano creditori verso la Juve di circa 450mila euro. Soldi che derivano in parte dalla vendita di Spinazzola alla Roma, giocatore seguito proprio dalla Reset. Tuttavia, il mandato per il passaggio di Spinazzola non viene firmato da Davide Lippi ma da Gabriele Giuffrida, titolare della GG11.

DANIELE AUTIERI se Spinazzola era un suo giocatore, perché l’operazione l’ha fatta Giuffrida e non lei?

DAVIDE LIPPI - AGENTE LEONARDO SPINAZZOLA Quel mese là il mese di giugno purtroppo io non ero iscritto come agente.

DANIELE AUTIERI Quindi lei non figura formalmente, però comunque l’operazione, ci sta dentro anche lei

DAVIDE LIPPI - AGENTE LEONARDO SPINAZZOLA Da quell’operazione dovevo ricevere una commissione e quando ti dico quando nelle intercettazioni dico che mi devono ancora i soldi sono quei soldi. E li vanto ancora, cioè c’ho ancora un credito.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Secondo gli inquirenti sono numerose le fatture emesse dagli agenti e viziate da un’inesistenza oggettiva, a dimostrazione che la Juve non è mai sola. Per la procura di Torino per mettere a punto le operazioni più spregiudicate è necessario avere dei club amici. La Guardia di Finanza indica la Sampdoria, l’Atalanta, il Sassuolo, l’Empoli, l’Udinese. Per gli investigatori sono rapporti che mettono “in pericolo la lealtà della competizione” e “influenzano le operazioni di acquisto e cessione dei calciatori”.

INTERCETTAZIONE FABIO PARATICI - DIRETTORE SPORTIVO JUVENTUS FC 2010-2021 «L’ho sempre fatto, tu devi darmi solo le linee, il resto lo metto a posto io, l’ho fatto per il Genoa tutta la vita, l’ho fatto per l’Atalanta tutta la vita, l’ho fatto per il Sassuolo tutta la vita, quando io ho i parametri dopo sistemo tutto. Quando io facevo l’operazione per l’Atalanta o per il Genoa non è che pensavo alla Juventus, pensavo: il Genoa deve stare bene. Se va tutto bene, troppi soldi per tutti!».

DANIELE AUTIERI Questo sistema Juve di un beneficio immediato è un sistema al quale accedono tutti. La Juve stessa in queste operazioni aveva dei partner privilegiati, l’Atalanta, la Sampdoria, il Genoa, è così?

FABIO PAVESI - GIORNALISTA In effetti il tema è proprio quello, se la Juve ha beneficiato delle plusvalenze finte, nello scambio dei calciatori anche l’altra società calcistica ha beneficiato delle plusvalenze fittizie, quindi io mi aspetto che qualche procura delle città dove operano le società di calcio si debba muovere.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 23 settembre del 2021 Andrea Agnelli organizza un pranzo riservato presso la residenza della madre, nei pressi di Torino. Intorno al tavolo ci sono Luca Percassi, amministratore delegato dell’Atalanta, Enrico Preziosi del Genoa e insieme a lui un rappresentante del fondo 777 che ha acquistato la squadra; poi Beppe Marotta dell’Inter, Paolo Scaroni del Milan, il vicepresidente dell’Udinese Campoccia e l’amministratore delegato del Bologna Fenucci. Oltre a loro anche i vertici della Lega Calcio e della Federcalcio.

INTERCETTAZIONE Telefonata tra Andrea Agnelli e Luca Percassi, Amministratore delegato Atalanta BC

ANDREA AGNELLI – PRESIDENTE JUVENTUS FC 2010-2022 «Spero solo che da ieri sera… la presenza di Gabriele e Paolo era utile… spero che nasca qualcosa perché se no non so cosa fare, ne abbiam parlato io e te quando ci siamo visti in ufficio da me. Adesso bisogna che questo elemento qua sia foriero di qualcosa di utile perché sennò ci schiantiamo pian pianino».

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Gabriele e Paolo sono Gabriele Gravina e Paolo Dal Pino, rispettivamente presidente della Federcalcio e presidente della Lega. Gabriele Gravina svela i retroscena di quell’incontro nel suo interrogatorio di fronte ai pm di Torino del 2 aprile scorso. Un interrogatorio i cui contenuti sono rimasti fino ad oggi segreti.

GABRIELE GRAVINA - PRESIDENTE FIGC - INTERROGATORIO DEL 2 APRILE 2022 “L’incontro era stato promosso da Andrea Agnelli di intesa con Dal Pino, per verificare la possibilità di dirimere contrasti all’interno della Lega e nei rapporti tra la Lega e la Federazione. Durante l’incontro si parlò anche della costituzione di una Media Company, necessaria per gestire i diritti televisivi e d’immagine delle società”.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO La Lega Calcio, la potente associazione che riunisce i presidenti dei club, è un castello di cristallo, fragile come mai prima d’ora. I padroni del calcio sono l’un contro l’altro armati. Da un lato chi rivendica una gestione oculata delle casse della propria società; dall’altro chi invece vorrebbe una massiccia iniezione di denari, attraverso l’aiuto dello Stato o con l’ingresso di un fondo al quale vendere i diritti della Serie A come accaduto in Spagna. Ma c’è chi come il presidente del Napoli non vede l’entrata dei fondi stranieri nel calcio come la soluzione giusta.

AURELIO DE LAURENTIIS – PRESIDENTE SSC NAPOLI Ho usato il signor Agnelli perché mi serviva che lui mi andasse in culo ai fondi… che erano un’altra stronzata…

DANIELE AUTIERI Ma quindi c’era una cordata di presidenti che voleva far entrare i fondi nella Lega, giusto?

AURELIO DE LAURENTIIS – PRESIDENTE SSC NAPOLI Tutti i morti di fame della Lega per un tozzo di pane stavano vendendo i prossimi sette, otto anni a un fondo.

DANIELE AUTIERI E lei ha cercato una sponda in Andrea Agnelli per osteggiarli?

AURELIO DE LAURENTIIS – PRESIDENTE SSC NAPOLI Allora io dico: ma che siete matti? Allora io ho usato Agnelli, perché chiaramente se entrava il fondo non gli permettevano di fare la Superlega, e li si è scagliato contro i fondi.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO I fondi per il momento sono rimasti alla finestra. E con essi anche le centinaia di milioni di euro che avevano promesso ai club.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Il mondo del calcio è estremamente problematico. Ogni anno consuntivano costi per 3 miliardi e mezzo di euro, e nel 2021 le società di calcio avevano debiti per 4 miliardi e mezzo di euro. È un po’ lo specchio dell’Italia, chi li paga sti debiti? Ma chi li ripaga?

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Durante l’interrogatorio con i pm di Torino, Gabriele Gravina, il numero uno del calcio italiano, parla della mancata riforma del sistema e viene sollecitato sul tema plusvalenze fittizie e su quali siano state le azioni della Federcalcio per arginare questo fenomeno. E qui Gravina rivendica la paternità delle prime indagini sportive sulla Juve.

GABRIELE GRAVINA - PRESIDENTE FIGC - INTERROGATORIO DEL 2 APRILE 2022 “A questo tema io sono sensibile, tant’è che l’attività della Covisoc è originata da un mio report fatto dal Centro Studi della Federazione”

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Tuttavia, il presidente Gravina sarebbe stato informato dello scandalo plusvalenze già molto tempo prima

MANAGER SPORTIVO Considera che il presidente Gravina era stato informato già nel settembre 2020 del fatto che la situazione relativa alle plusvalenze irregolari stava per esplodere.

DANIELE AUTIERI E poi che successe?

MANAGER SPORTIVO E poi a gennaio del 2021 la Covisoc consegna al presidente Gravina un’analisi dei bilanci e delle operazioni di mercato, quella di cui poi avete parlato pure voi…

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO L’analisi della Covisoc riporta tutte le operazioni di mercato considerate sospette. La Juventus è la squadra che ne colleziona di più.

DANIELE AUTIERI E Gravina a quel punto che fa?

MANAGER SPORTIVO Gravina a quel punto chiede un approfondimento e a febbraio 2021 la Covisoc consegna, in via informale però, queste carte delle analisi alla procura federale sportiva. Però nel frattempo la Consob aveva cominciato ad aprire fascicoli, aveva fatto indagini…

DANIELE AUTIERI Quindi non solo sulla Juve, più fascicoli?

MANAGER SPORTIVO Sì, il primo era sulla Roma, però sulla Roma è finito in un nulla di fatto. E poi è venuto questo sulla Juve.

DANIELE AUTIERI E la procura federale nel frattempo che ha fatto?

MANAGER SPORTIVO La procura federale diciamo che all’inizio si è mossa lentamente. Poi però a ottobre del 2021 il presidente Boccardelli di Covisoc manda alla procura federale sportiva le carte, questa volta in via formale, e quindi le indagini subiscono un’accelerazione.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Con oltre un anno di ritardo rispetto alle prime segnalazioni, anche la procura federale apre un’inchiesta. Ma nell’aprile del 2022 il tribunale sportivo archivia, confermando una volta ancora il principio per cui è impossibile assegnare un valore oggettivo ad un calciatore.

FABIO PAVESI - GIORNALISTA Il sospetto che viene è che le autorità sportive ben consapevoli che questo giochino è fatto da tutti sanno che se mettono il dito nella marmellata crolla l’intero sistema.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Nel suo interrogatorio Gravina ha ammesso che le plusvalenze fittizie sono un male per il calcio, un cancro per il calcio. Ma ha anche ammesso di fronte ai magistrati che non è facile trovare una soluzione, perché criteri oggettivi per la valutazione dei calciatori, perché siamo nell’ambito del libero mercato La procura federale sportiva ha indagato con la Juventus 11 squadre di calcio, 61 dirigenti, ma il tribunale sportivo poi ha archiviato. Giovedì prossimo il tribunale sportivo dovrà rivedere se ci sono gli elementi in base alle carte della Procura per revocare l’archiviazione. La Juventus ci scrive che respinge fermamente le ipotesi accusatorie e rivendica la correttezza del proprio operato. Noi le crediamo fino a prova contraria. Anche perché la signora in bianco e nero è quotata in Borsa, e deve rispettare delle regole, che se non rispetta è facilmente perseguibile rispetto alle altre squadre. Con le quali però ha realizzato con la loro complicità queste plusvalenze le faceva con il contributo di altre squadre. Nel 2021 i debiti delle società di calcio ammontavano a 4 miliardi e mezzo di euro. Chi li paga si chiedeva il nostro consulente Bellavia? Intanto è intervenuto lo Stato: nell’ultima legge di bilancio è spuntato un emendamento che consente a queste squadre di spalmare le tasse che dovevano nel periodo del Covid, in 60 comode rate, pagando solamente una mora del 3%.

Reato è quando legislatore stabilisce. Il giustizialismo sulla Juventus espone il vuoto normativo di istituzioni calcistiche inadeguate. Cataldo Intrieri su L’Inkiesta il 29 Dicembre 2022.

Nel codice sportivo manca una norma che sanzioni le «transazioni a specchio» come specifica tipologia di accordo. Anche all’interno dell’ordinamento federale, il magistrato non può sostituirsi a chi scrive le leggi

Adesso che il mondiale più anomalo della storia è finito si può provare a fare qualche considerazione sul football come «prosecuzione della politica con altri mezzi». In un recente suo libro “Le guerre del pallone”, Marco Bellinazzo, giornalista profondo conoscitore della finanza calcistica, racconta in modo assai efficace il «conflitto delle governance» che attraversa quella che pomposamente viene definita la «football industry» e che nella sostanza è un conglomerato di marchi sportivi (le franchigie) il cui fatturato d’insieme ha raggiunto una cifra stratosferica superiore ai duecento miliardi di dollari.

Le guerre sono interne ai vertici delle organizzazioni di diritto privato che governano le massime competizioni calcistiche (Fifa e Uefa, società private di diritto svizzero) o che ambirebbero a farlo (la ventilata Superlega); ma anche esterne, con il coinvolgimento di ricchissimi fondi d’investimento asiatici e statunitensi dietro i quali si possono intravedere interessi anche geopolitici.

Basti pensare alla penetrazione dei fondi sovrani arabi nel calcio mondiale che hanno dispiegato grandi capacità economiche sia nell’acquisto di club europei come Psg, Newcastle, Manchester City che nell’organizzazione dell’ultimo mondiale e all’arrivo sulla scena di fondi e franchigie statunitensi alcune delle quali pronte a rilevare ed estromettere presenze invadenti e scomode come quelle cinesi (vedi Elliott con il Milan) e russe (la vendita del Chelsea al gruppo Clearlake da parte di Abramovič, assai vicino a Putin).

In questo scenario forse anche le disavventure giudiziario-sportive del più prestigioso club della provinciale realtà calcistica italiana meriterebbero una qualche migliore riflessione delle banali dispute tifose, cui peraltro volentieri si abbandona anche la stampa “specializzata” (sic) italiana.

Lungi dall’immaginare un qualche legame tra indagini penali e il fallito «golpe di aprile» della Superlega (troppo banale), l’offensiva giudiziaria e sportiva che investe la Juventus può essere l’occasione piuttosto per chiedersi se le strutture delle istituzioni calcistiche nostrane siano adeguate allo scenario che si profila e che solo alcuni attenti osservatori sanno descrivere.

Sarebbe troppo semplice ridurre la storia degli ultimi anni della governance juventina a una farsa degna del Totò della “Banda degli onesti” con le plusvalenze al posto delle banconote false (o per restare a realtà più prossime alla vicenda dei titoli di credito fasulli del caso Parmalat).

La realtà è più complessa e racconta, come spiega Bellinazzo, del tentativo non certo velleitario della Juventus di affrontare un progetto di crescita e sviluppo sportivo ed economico di un club italiano alle prese con lo strapotere delle più ricche franchigie internazionali e di come la catastrofe sanitaria e finanziaria lo abbia bruscamente reciso.

Fatte salve le responsabilità personali e la eventuale configurazione di reati, ciò che dovrebbe preoccupare l’osservatore equilibrato è la corretta valutazione dei fatti e il rischio di una ventata giustizialista capace solo di lasciare macerie.

In questa ottica va allora detto che l’iniziativa della procura federale di richiedere la «revocazione» della sentenza di assoluzione della Juventus emessa ad aprire dalla Corte di Appello federale nella sua massima composizione a sezioni unite non può che suscitare perplessità sotto il profilo giuridico.

Innanzitutto è proprio la procedura scelta a sollevare dubbi: la revocazione di una sentenza di assoluzione è un istituto a carattere eccezionale, ignoto all’ordinamento ordinario se non in casi del tutto particolari, che tocca un principio giuridicamente delicatissimo come quello del «ne bis in idem», recepito non solo dalla Costituzione ma anche da tutte le convenzioni internazionali come una delle più pregnanti espressioni della tutela dei diritti basilari.

Non si può processare per lo stesso fatto chi è stato già assolto con pronuncia definitiva, essendo l’unica eccezione prevista dalle leggi quella a favore solo di chi sia stato ingiustamente condannato ed è un principio valido per le pronunce di ogni tipo e sede, varato per singolare coincidenza dalla Corte europea dei diritti umani proprio in un caso che riguardava nei primi anni 2000 la Exxor, allora cassaforte di famiglia degli Agnelli prima di divenire la holding transnazionale odierna del gruppo (Grande Stevens vs Italia).

È ben chiaro il concetto di «autonomia dell’ordinamento sportivo» legato alla specificità dell’attività agonistica e alla tutela integrale dei valori di correttezza e lealtà sportiva come cristallizzato nelle leggi 280/2003 e nel Codice sportivo varato nel 2019, nonché ribadito sotto diverso profilo dalla stessa Consulta nella sentenza 160/2019.

Proprio in tale occasione però la Corte costituzionale, intervenendo sulla pretesa di alcuni associati di chiedere un risarcimento al giudice ordinario per una sanzione ingiustamente inflitta in sede disciplinare ha ribadito che l’autonomia di un ordinamento come quello sportivo non può ledere in via assoluta i diritti fondamentali dei cittadini a qualunque titolo destinatari delle norme proprie dei singoli ordinamenti. Analogamente il Codice di Giustizia Sportiva prevede che «il processo sportivo attua i principi del diritto di difesa, della parità delle parti, del contraddittorio e gli altri principi del giusto processo».

Dunque il diritto di difesa e il principio di stretta legalità (articolo 24 e 25 della Costituzione) vanno integralmente rispettati anche dalle giurisdizioni autonome di settore. Se è così non è sufficiente esibire come nuove prove le intercettazioni telefoniche della procura di Torino e la delibera di ottobre della Consob sulle correzioni di bilancio del club.

La sentenza emessa ad aprile dalle sezioni unite della Corte di appello federale pronunciandosi sulla dibattuta questione delle plusvalenze (che è quella per cui la procura chiede un nuovo processo) aveva certamente ritenuto criticabili e sospette le prassi delle cosiddette «transazioni a specchio» per cui due società si scambiano giocatori con valori da loro predeterminati ed esito «a somma zero», ma si era fermata di fronte al muro della mancanza nel Codice sportivo di una norma di riferimento che sanzionasse questa specifica tipologia di accordo («mancanza di criteri definiti all’interno dell’ordinamento federale»).

Come scrive la Corte «il pieno rispetto della ripartizione di funzioni – anche all’interno dell’ordinamento federale – non consente al giudice sportivo di sostituirsi al legislatore. Questa constatazione, unitamente alle dimensioni del fenomeno che – beninteso – sono state chiaramente avvertite, impongono l’adozione di un intervento normativo urgente al momento mancante.

L’intervento della Consob ha fornito un nuovo criterio di interpretazione certamente valido (considerare le «operazioni a specchio» come un unico atto di permuta sicché le parti iscrivano a bilancio solo l’esito complessivo finale e dunque una compravendita a somma zero che non consenta di iscrivere alcuna attività nel bilancio) ma che non ha valore normativo e che in ogni caso come linea guida di riferimento, secondo il rispetto del principio di legalità può valere per il futuro non certo per il passato dove come si è visto non esistevano parametri di riferimento.

Se anche si volesse riconoscere la presunta «valenza confessoria» (che peraltro dovrebbe stabilire il giudice penale) di una intercettazione essa non sposterebbe i termini della questione: l’insussistenza di un reato. Non del giudice c’è bisogno, ma del legislatore che vari una norma apposita nel rispetto dei valori costituzionali.

Si farebbe un grave torto a un raffinato giurista come il procuratore federale se si ipotizzasse che egli non avesse chiara questa situazione: può darsi che egli si sia mosso spinto dalla comprensibile urgenza di porre rimedio a una nociva prassi diffusa, ma qui sta il rischio di una giustizia sommaria e inadeguata a un fenomeno come quello calcistico di dimensioni enormi e transnazionali che non può fare a meno del rispetto dei diritti fondamentali: pena la sua implosione.

È infatti ipotizzabile che in caso di sanzioni i difensori (non c’è solo la Juventus alla sbarra ma anche altre società) ricorrano al Tar e sollevino una nuova questione di legittimità costituzionale sulla revocazione cui la Consulta potrebbe non essere insensibile stavolta. Il fatto è che nel diritto come per i rigori il reato c’è quando il legislatore fischia: lo chiamano principio di legalità.

Da ilnapolista.it il 28 dicembre 2022.

La Stampa di John Elkann boccia l’intervento di Luciano Moggi all’assemblea degli azionisti della Juventus. Ricordiamo che dopo Calciopoli dagli ambienti di Moggi è sempre filtrato un sospetto per la famiglia Elkann, non manca chi consideri Calciopoli figlia del fuoco amico per fari sì che la Juventus si sbarazzasse di lui e Giraudo. 

La Stampa ricorda che il club bianconero sta vivendo uno dei momenti più difficili di una storia gloriosa e di successi, basti pensare all’eccezionalità e alla gravità di un gesto come le dimissioni di un intero CdA il cui vertice era occupato da un Agnelli, Andrea.

Giustizia sportiva e ordinaria chiedono conto al club di operazioni non chiare. E ci fermiamo qui, non è tema da bar sport.

Ma proprio per questo ci pare che di tutto la Juventus avesse bisogno tranne che di una rispolverata stonata e sguaiata di Calciopoli da parte di un signore che dalla vicenda ne è uscito triturato. Andrea Agnelli, pur non smettendo mai la personale battaglia per gli scudetti cancellati, ha parallelamente riportato la Juve in alto e l’ha fatto con molte e buonissime idee ma, non solo per colpa sua, negli ultimi anni anche a spregio dei bilanci. A chi gli succede spetta un’operazione per certi versi più complicata: la partita giudiziaria si presenta difficile e non priva di insidie e immaginiamo che riaprire i sepolcri non sia proprio la prima mission del nuovo Cda. 

Lo show di Moggi è stato tanto inedito quanto imprevisto, ma resta la sensazione che la nuova Juventus ne avrebbe fatto volentieri a meno, impegnata come è a preparare una strategia non per forza difensiva su plusvalenze e falsi in bilancio.

Agitare le acque e ridare vita ai fantasmi non pare essere in agenda.

(ANSA il 27 dicembre 2022)  "Se è vero che è stato riaperto il caso plusvalenze perché pensano di avere trovato cose nuove, allora dovrebbe essere riaperto anche Calcioopoli perché è una ferita che non si rimargina né per noi né per la Juventus". Così Luciano Moggi nelle repliche all'assemblea degli azionisti del club bianconero. Dall'ex direttore generale bianconero anche una critica a Maurizio Arrivabene per le ultime operazioni di mercato: "Questa squadra non ha centrocampo, si dovrebbe prima prendere quelli che danno i palloni agli attaccanti, che adesso non ci sono".

Da corrieredellosport.it il 27 dicembre 2022.

Intervento a sorpresa di Luciano Moggi, che ha preso la parola durante l'assemblea degli azionisti della Juventus di oggi, in qualità di piccolo azionista del club bianconero. L'ex direttore generale, radiato per lo scandalo di Calciopoli del 2006, è stato accolto dagli applausi: "Questo applauso mi commuove - le parole di Moggi, che ha 85 anni - In tanti si domandano perchè ho chiesto di parlare. Ho riflettuto, vi vedevo come tifosi eccezionali dalla tribuna e ora sono con voi. Mi sento di dire alcune cose, sono venuto per tre motivi: per capire, perchè non tengo molto conto di ciò che leggo. Sto sentendo cose che non sembrano quelle che sento dalla stampa.

Sono qui per ringraziare Agnelli, 9 Scudetti non si vincono con facilità. Sono quelle cose che difficilmente si riescono a capire, ma chi è dentro sa quanto sia difficile. Questa società non si è mai difesa o non si è saputa difendere ed è diventata un giocattolo nelle mani di altri soprattutto nei media. È un epiteto dato alla Juventus 'Vince perchè ruba', ma non è vero. La Juventus ha vinto sempre sul campo e non ha mai rubato niente a nessuno. Anzi hanno rubato a noi a Perugia con il campo allagato e anche l'anno dopo contro la Roma quando il presidente cambiò le regole in corso per far giocare Nakata a Torino che decise la partita con un gol. 

Voi parlate di passaporti: si canta fratelli d'Italia, poi guardate chi sta in nazionale quello che ha contraffatto il passaporto di Recoba. So come ha lavorato Agnelli, è una cosa difficile da spiegare. Io sono abituato a vivere e non a sopravvivere e lotto ancora per Calciopoli. Siamo stati indicati colpevoli di cose che hanno fatto gli altri". 

Moggi, a proposito di Alvaro Recoba, allude a Gabriele Oriali, all'epoca dirigente dell'Inter e oggi team manager della nazionale Italiana. Oriali, per il passaporto falso del calciatore uruguaiano, era stato squalificato per 10 mesi nel 2001. Per quanto riguarda Perugia, invece, il riferimento è alla vittoria dello scudetto della Lazio nel 2000, quando la Juve venne superata in extremis dai biancocelesti a causa della sconfitta contro la squadra umbra sotto la pioggia: Moggi lamenta, evidentemente, il fatto che la gara tra Perugia e bianconeri venne interrotta per oltre un'ora a causa del maltempo per poi essere conclusa, e persa, su un campo allagato.

Per quanto riguarda la Roma, invece, il riferimento è allo scudetto giallorosso del 2001: pochi giorni prima del decisivo scontro diretto con i bianconeri il regolamento di limitazione sui calciatori extracomunitari venne cambiato e la squadra di Capello potè schierare il giapponese Nakata, poi protagonista della sfida, pareggiata 2-2, con un gol.

Da editorialedomani.it il 27 dicembre 2022.

In un mondo normale, l’apparizione di Luciano Moggi all’assemblea dei soci della Juventus, in sostegno ad Andrea Agnelli, presidente uscente di un consiglio di amministrazione uscente e per cui è stato chiesto il rinvio a giudizio per falso in bilancio, sarebbe interpretato come un bacio della morte. Ma nel mondo dei soci Juventus non lo è stato. 

 Moggi, ex direttore sportivo del club juventino fino al 2006, radiato da ogni incarico nel mondo dello sport come deciso dalla Fgci, confermato dal Coni e anche dal Consiglio di stato, è stato per la Cassazione «l'ideatore di un sistema illecito di condizionamento delle gare del campionato 2004-2005 (e non solo di esse)», e la sua condanna in appello è stata annullata solo per la solita prescrizione. 

Fino al 2021 Moggi non era azionista della Juventus ma oggi si è presentato all’ultima assemblea degli azionisti dell’èra di Andrea Agnelli per sostenere il presidente e screditare la giustizia sportiva che ha deciso di riaprire il caso plusvalenze, per cui i dirigenti Juve erano stati assolti, dopo le novità dell’inchiesta della magistratura ordinaria di Torino. 

Moggi ha  acquisito di recente le azioni per poter intervenire in assemblea e ha dichiarato: «Se è vero che è stato riaperto il caso plusvalenze perché pensano di aver trovato cose nuove, allora dovrebbe essere riaperta anche Calciopoli». E ha concluso regalando ad Agnelli un cofanetto in confezione regalo contenente una chiavetta Usb in cui ha spiegato essere contenute tutte le intercettazioni dell’inchiesta che lo ha messo ai margini del calcio italiano. Il tutto applaudito dai soci, gli stessi che hanno respinto con percentuali bulgare la richiesta avanzata da un azionista di una azione di responsabilità nei confronti del management uscente. 

Allo stesso tempo, mentre applaudivano Moggi e bloccavano la possibilità di un risarcimento danni, nei confronti del cda, i soci hanno anche approvato il bilancio del club al 30 giugno 2022, riscritto per andare incontro ai rilievi della Consob e in particolare a quelli sulla seconda manovra stipendi.

Tutto si tiene in casa Juve, perché se da una parte il consiglio di amministrazione uscente ha deciso di riscrivere il bilancio per dimostrare di tenere da conto i rilievi della authority di vigilanza sul mercato, dall’altra Agnelli ha continuato a rivendicare di aver agito correttamente e che le accuse nei confronti della dirigenza sono ingiustificate. 

Se ne va con il suo ultimo stipendio da presidente in tasca, pari a 520 mila euro secondo il bilancio approvato in assemblea, mentre quello dell’amministratore delegato Maurizio Arrivabene è pari a 1,22 milioni di euro. Dal prossimo anno le remunerazioni del nuovo consiglio di amministrazione saranno legate ai risultati finanziari, magra consolazione. 

La società intanto chiude il bilancio al 30 giugno con 232 milioni di euro di rosso e una inchiesta che potrebbe farle rischiare la posizione in Serie A, ma agli azionisti per ora va bene così.

(ANSA il 27 dicembre 2022) - "Non è stata una decisione facile, mi sono sempre impegnato al massimo in questi anni, che sono stati straordinari. Tuttavia ho preso la decisione (di dimettersi, ndr) essendo del tutto convinto e in piena serenità. Personalmente credo che abbiamo fatto bene e i rilievi non sono giustificati, in ciò confortati anche dall'approfondita analisi fatta da esperti indipendenti". Così Andrea Agnelli, all'assemblea degli azionisti. "Ho ritenuto di fare un passo indietro, - ha spiegato - affinché non si potesse pensare che le scelte potessero essere anche solo in parte condizionate dal mio personale coinvolgimento".

Andrea Pedrini per “il Giornale” il 27 dicembre 2022.

La Juventus ha un nuovo consiglio di amministrazione, formato da cinque professionisti: tutti tecnici. Pochi ma buoni, almeno questo è quanto spera John Elkann, numero uno di Exor ovvero la holding di investimento controllata dalla famiglia Agnelli. Nessun colpo di scena, stavolta: quelli, in gran misura, sono già arrivati da settimane. 

Da quando cioè Andrea Agnelli e tutto il cda precedente si erano dimessi onde evitare, secondo alcuni, di venire addirittura arrestati. Adesso, si volta pagina: oggi l'assemblea degli azionisti approverà il bilancio più tribolato della storia - perdita di esercizio di 238 milioni - mentre il 18 gennaio si terrà un'altra assemblea per l'approvazione del nuovo cda. Tutto scontato, ovviamente.

Anche se le acque restano parecchio agitate visti i disastri- contabili e non- compiuti dalla precedente gestione: il bilancio che sarà approvato oggi, per esempio, terrà conto di alcune modifiche rispetto a quello in cui Consob, Deloitte e Procura avevano riscontrato varie incongruenze. Il lavoro non mancherà, insomma. Tenendo anche conto della data fissata al prossimo 20 gennaio, quando è stata fissata l'udienza davanti alla Corte d'Appello federale sul caso plusvalenze nel quale sono coinvolte la Juventus e altre otto società, con la richiesta di revocazione della Procura federale in base ai nuovi elementi di imputazione emersi dalle carte dell'inchiesta Prisma. 

Intanto, il nuovo cda. A partire da Maurizio Scanavino, scelto come direttore generale e amministratore delegato, ruolo che ricopre anche in Gedi (la media company che edita Repubblica, La Stampa, 10 testate locali, Radio Deejay e OnePodcast): poi Gianluca Ferrero, presidente indicato dallo stesso Elkann e 'uomo dei conti' degli Agnelli, quindi Diego Pistone, Laura Cappiello e Fioranna Vittoria Negri in qualità di amministratori indipendenti.

Nomi che agli appassionati di calcio non dicono nulla ma, appunto, professionisti che dovranno aiutare la società a uscire dal guado in cui si è cacciata, in Italia ma anche in Europa dove dovranno essere ricuciti i rapporti con la Uefa e l'Eca (Associazione dei Club Europei): nessuno spazio quindi, almeno oggi, per figure calcistiche tipo Del Piero. Avanti con i tecnici: Pistone è una figura storica del gruppo Fiat nell'area finance e attualmente è membro del Cda di Diasorin, Cappiello è un'avvocata dello studio legale Orrick e, in passato ha assistito società come Microsoft Corporation, Enel, Enel Green Power e Leonardo, mentre Negri ricopre cariche in Satispay, Fincantieri e Autostrade per l'Italia. 

Sullo sfondo, almeno per adesso, la squadra. Che riprenderà oggi a lavorare alla Continassa e che spera, per la partita contro la Cremonese del 4 gennaio, di non ricevere brutte sorprese da Vlahovic (pubalgia), di poter arruolare a tutti gli effetti Chiesa e di cominciare a essere ottimista sul rientro di Pogba. L'obiettivo rimane un piazzamento tra le prime quattro, pur se nessuno al momento può garantire che basti quello per partecipare alla prossima Champions League.

Gianluca Oddenino per “La Stampa” il 27 dicembre 2022. 

Un nuovo Consiglio d'amministrazione sotto l'albero e l'ultimo atto per chiudere l'era di Andrea Agnelli dopo 12 anni. Il Natale bianconero è stato di piena vacanza per la squadra di Allegri, ma intensamente operativo per i dirigenti bianconeri che stanno preparando l'atteso passaggio di consegne. Ieri Exor (azionista di maggioranza con il 63,8% delle quote) ha pubblicato la lista dei cinque nuovi consiglieri che il 18 gennaio 2023 diventeranno operativi in società, con il commercialista Gianluca Ferrero nuovo presidente e Maurizio Scanavino amministratore delegato del club dopo l'incarico di direttore generale ricevuto il mese scorso, mentre oggi l'assemblea degli azionisti dovrà approvare il bilancio 2021/2022 con oltre 239 milioni di euro di perdite.

Non si preannuncia un giorno semplice dopo tutto quel che è successo nell'ultimo periodo, anche se il passo d'addio si è già consumato lo scorso 28 novembre con le dimissioni del presidente Agnelli, del suo vice Nedved, dell'ad Arrivabene e degli altri consiglieri dopo la spaccatura del Cda sotto i colpi dell'inchiesta Prisma. 

Le correzioni della Consob I tempi tecnici della Borsa hanno allungato il cambio della guardia e di fatto solo adesso ci sarà la resa dei conti, con un appuntamento che per due volte (a ottobre e novembre) è stato rinviato dopo i rilievi della Consob. Tecnicamente sono 14,4 milioni in meno di passivo rispetto ai 254,3 milioni del documento approvato a settembre, ma cambia il dato relativo al bilancio del 2020/2021 (il "rosso" era di 209,9 milioni ed ora cresce a 226,8 milioni) e a quello del 2019/20 (da -90 a -93). «Il Consiglio - aveva spiegato il club lo scorso 2 dicembre - ha rilevato che le "manovre stipendi" sono connotate da profili complessi relativi a elementi di valutazione suscettibili di differenti interpretazioni circa il trattamento contabile applicabile». 

Per questo, «in via di adozione di una prospettiva di accentuata prudenza e dopo aver attentamente considerato potenziali trattamenti contabili alternativi», ha approvato un nuovo progetto di bilancio di esercizio e un nuovo bilancio consolidato al 30 giugno 2022. 

Da 10 a 5 consiglieri La Juventus volta pagina e ora si difenderà sui tre fronti che si sono aperti. Per questo è stato varato un Consiglio d'amministrazione più snello (da 10 a 5), composto solo da tecnici ed esperti che dovranno agire per risolvere i problemi legali ed economici esplosi nell'ultimo anno. L'avvocato Laura Cappiello, la commercialista Fioranna Negri e il manager Diego Pistone affiancheranno Ferrero e Scanavino per guidare la Juve fuori dalla tempesta. 

Non ci sono solo i conti da rimettere in ordine, dopo aver bruciato 700 milioni di euro in aumenti di capitale, ma anche evitare condanne penali e sportive nelle inchieste portate avanti dalla Procura di Torino, dalla Procura federale e anche dall'Uefa. Il lavoro non mancherà fuori dal campo, mentre Allegri avrà pieni poteri sull'area sportiva per isolare la squadra da questa rivoluzione: il 4 gennaio riparte la Serie A e la Juve vuole proseguire nella propria rincorsa dopo le sei vittorie consecutive prima della sosta mondiale. L'obiettivo è quello di spostare i riflettori dalla società e dagli imminenti processi, raggiungendo almeno il 4° posto in campionato per non perdere i ricavi Champions nel momento più difficile. Un passo alla volta, ma il nuovo corso sta iniziando.

(ANSA il 27 dicembre 2022) - L'assemblea degli azionisti della Juventus, riunita all'Allianz Stadium, ha approvato il bilancio 2021/2022, chiuso con una perdita di esercizio di oltre 238 milioni di euro.

Fabrizio Biasin per “Libero quotidiano” il 27 dicembre 2022. 

Il giorno di Santo Stefano non è solo quello del «magnamo tutti gli avanzi come se non ci fosse un domani», almeno in casa Juve. 

Da Torino arrivano nientepopodimeno che i nomi dei componenti del nuovo cda bianconero, ovvero gli incaricati a condurre la nave nella tempesta delle rogne contabili. Trattasi in realtà dei candidati indicati dall'azionista di maggioranza - la Exor - che dovranno essere eletti dal consiglio in programma il prossimo 18 gennaio. Di chi stiamo parlando? Eccoci: Gianluca Ferrero, Maurizio Scanavino, Diego Pistone e i candidati cosiddetti "indipendenti" Fioranna Vittoria Negri e Laura Cappiello. 

Se costoro non hanno una vera e propria storia "calcistica", ce l'hanno eccome a livello di "gestione aziendale" e questo significa una sola cosa: la Signora ha deciso di mettere "ordine" e "conti" al primo posto, a prescindere da quel che accadrà in sede giudiziaria.

Si va dal presidente prescelto Ferrero (commercialista, revisore e consulente tecnico del giudice presso il Tribunale di Torino, vicepresidente della Banca del Piemonte con incarichi in molte società tra cui Fincantieri, Luigi Lavazza, Biotronik Italia, Praxi Intellectual Property, Nuo e Lifenet), a Scanavino (Direttore Generale della Juve e dal 18 gennaio anche ad, nonché amministratore delegato del gruppo Gedi), dalla Negri (commercialista, revisore, 35 anni di esperienza in società di vari settori, è esperta di bilanci e controllo dei rischi), a Pistone (48 anni di esperienza nell'area "finanza e controllo" di molte società, tra cui Fiat), fino alla Cappiello (esperta di diritto e degli organismi di vigilanza, Senior Counsel presso il dipartimento di corporate law dello studio legale Orrick). 

Bene, a quali conclusioni ci porta tutto questo bla bla? Diciamo che in attesa di figure specifiche in grado di "far girare la palla" (e il mercato), la volontà di John Elkann è quella di mettere ordine da un punto di vista gestionale, affidando la macchina bianconera a una serie di tecnici e professionisti serissimi. Il tutto per dare chiari segnali. 

Il primo è rivolto a chi in queste settimane ha puntato gli occhi sulla recente e disastrosa gestione, una cosa come dire «mettiamo un punto alla cattiva amministrazione». Il secondo è rivolto ai tifosi, trattasi di una chiara indicazione su quello che la proprietà intende fare "sul campo" per il prossimo futuro.Detta in parole povere: addio spese pazze e scelte spericolate, benvenuto buonsenso e benedetto raziocinio. Una sorta di "modello Milan" che, tra l'altro, la Juve ha portato avanti per tanti anni prima ancora che i fondi americani imponessero ai rossoneri la - giusta logica del "si spende solo quello che si può". In casa sabauda questa era la legge prima che l'ossessione della vittoria in campo europeo deviasse i dirigenti dalla strada dell'amministrazione oculatissima a quella delle spese folli e sconsiderate. 

Dice il tifoso: «Ma così si rischia di stare lontani anni luce dalle altre». Non è detto: un club che ha costruito un decennio di successi in ambito nazionale spendendo pochissimo - e pensiamo ai Barzagli, ai Pirlo, ai Vidal e così via - deve augurarsi di tornare a quel tipo di gestione, magari puntando a un "garante della juventinità" che possa mettere la faccia in mezzo ai geni della contabilità. Del Piero, per dire, ha il volto perfetto per mettere d'accordo tutti.

Il discorso dell'ex Re Agnelli e la convinzione di essere nel giusto. La Juve di Elkann non è nata ora, c'era già. Ma la Signora aspetta che Andrea ritorni. Tony Damascelli su Il Giornale il 27 Dicembre 2022.

La voce di Andrea Agnelli è rimasta ferma prima delle ultime tre parole: fino alla fine. Il motto che ha contraddistinto la sua Juventus si è trasformato in un saluto che potrebbe non essere definitivo. Difficile pensare a una Juventus senza gli Agnelli, impossibile pensare ad un Agnelli, Andrea, senza la Juventus. Questa è una fetta importante della famiglia, «qualcosa per la domenica» disse Gianni, l'Avvocato, lo zio di Andrea per il quale la Juventus è stata da sempre la e non una cosa di tutti i giorni. Un tifoso che è diventato presidente del giocattolo più amato, potendo parlare con lui, dunque con i calciatori, una passione genuina e pericolosa perché il tifo porta a perdere di vista le giuste traiettorie, la voglia di vincere supera quella di competere, il desiderio di emulare inquina delicate realtà contabili. Qualcuno dice che sia nata la Juventus di John Elkann, dimenticando per ignoranza o astuzia cortigiana che già nell'estate del duemila e sei prese inizio la Juventus dell'Ingegnere con alcune scelte, politiche, umane e strategiche, non tutte in linea con la tradizione bianconera, intendo quella di un nonno e uno zio, Gianni e Umberto.

La parabola di Andrea Agnelli è stata superba per i risultati ottenuti dalla squadra accompagnati da una crescita dell'immagine e però da un investimento feroce e un rincorsa scriteriata su modelli inarrivabili. Il presidente, che non può essere ex per il popolo degli juventini, ha ogni tanto alzato la testa dalla lettura di un testo ben preparato dal suo staff stampa e legale ma avvampando nelle gote ha ribadito l'emozione e il tormento di un periodo che mai avrebbe potuto immaginare ma di cui, con il trascorrere delle settimane, ne aveva intuito l'epilogo. L'ombra del cugino è risultata fastidiosa nell'assemblea di ieri, quasi che le vicende della Juventus, controllate comunque da Exor, siano un fastidio al quale finalmente si è data conclusione ma a distanza. Il discorso ha confermato la linea tenace di Agnelli, la consapevolezza di avere agito bene e/o in maniera corretta mentre dall'assemblea si sono levate rare voci di critica o di dissenso sulla campagna acquisti.

Il nuovo governo juventino non ha alcun riferimento a quello che ha presentato le dimissioni, sia per l'identikit dei suoi componenti sia per l'incarico che questi dovranno svolgere nel prevedibile contenzioso con la giustizia penale e quella sportiva.

Andrea Agnelli resta ai margini di questo nuovo capitolo, qualche mormorio, lontano e suggestivo, ipotizza il suo rientro quando la situazione verrà chiarita e definita in tutte le sue componenti e che riguarderanno anche la squadra e il suo percorso in campionato e in Europa. L'annus horribilis della Juventus si è concluso, dopo gli applausi di affetto, nell'incertezza e nella preoccupazione che il futuro possa riservare altri colpi di scena.

Estratto dell’articolo di M.PI. per “la Repubblica” il 23 Dicembre 2022.

[…] se le accuse sono le stesse, gli elementi a disposizione invece sono molto più efficaci. Il processo sulle plusvalenze, chiuso a maggio con una assoluzione collettiva, si rifà. Il Procuratore della Federcalcio Giuseppe Chinè ha inviato ieri la notifica della revocazione (articolo 63 del nuovo codice di Giustizia sportiva), sulla base degli atti inviati dalla Procura di Torino sull'inchiesta "Prisma": un regalo di Natale non certo gradito dalla Juventus, ma la data l'ha imposta la scadenza, oggi, dei 30 giorni per riaprire il processo. 

Ma cosa hanno trovato i pm del calcio nelle carte di Torino, per rimettersi in gioco? La convinzione di Chinè è di poter molto più efficacemente sostenere l'accusa contro la Juventus di aver prodotto delle plusvalenze "artificiali". Termine che ricorre nel famoso "Libro nero di FP", dove le iniziali sono quelle dell'ex ds Fabio Paratici, e allegato agli atti. Sì, perché il cuore della questione riguarda i documenti acquisiti negli uffici dei dirigenti. In particolare, alcuni "pizzini", scritti a penna, in cui venivano appuntati nomi delle squadre, giocatori scambiare e cifre, ma delle "x" al posto dei giocatori da prendere.

Dimostrerebbero, per la Procura federale, «come lo scambio di calciatori sia preordinato solo esclusivamente con il fine di ottenere vantaggi economico/contabili, senza alcun rilievo di natura tecnico considerando che i calciatori da scambiare sono indicati da una X». 

Il giocatore da inserire nell'affare "veniva individuato solo ex post, al solo fine di aggiustare in positivo i valori di bilancio". Si nota, chiaramente, su un foglio manoscritto ritrovato nell'ufficio di Gabasio e Cerrato il 27 novembre 2021. E anche in uno del tutto simile trovato nell'ufficio di Manna riguardante le operazioni Andersson e Cotter col Sion. Prevedendo, oltre all'acquisto di Cotter, quello di un calciatore "X" per 2 milioni.

Un testo particolarmente significativo per Chinè, perché quella X dimostra «la totale indifferenza rispetto al risultato voluto».

E proprio una mail di Manna, responsabile della Juventus U19, fa particolarmente effetto. Perché si parla dello scambio tra Monzialo e Lungoy col Lugano. Scrive: «L'operazione era inizialmente impostata così: Monzialo 1.5, Lungoy 2.0 Ora operazione potrebbe essere impostata in modo diverso: Monzialo 2.0, Lungoy 2.5». Senza una apparente motivazione.

Non solo: c'è anche una singolare tabella con tutti gli affari dal 2016/17 al 2020/21 con gli affari di mercato in entrata in uscita. Un documento complesso, rinvenuto nell'ufficio di Andrea Agnelli, con accanto al nome di ogni giocatore due colonne: "valore reale" e "valore di scambio". Ad esempio: l'acquisto di Bonucci dal Milan ha valore reale 0 e valore di scambio 35. Idem Caldara in uscita.

Ma l'interpretazione è complessa, perché anche giocatori che un valore reale lo avrebbero (ad esempio Mandragora o Pjanic) risultano a zero. Insomma, non è chiarissimo, e la procura infatti non affonda. […] Le incolpazioni della Procura coinvolgono Paratici, Agnelli, Nedved, Cherubini, Arrivabene. E poi Ferrero e Romei (Samp), Accardi, Mario e Rebecca Corsi (Empoli), Preziosi (ex Genoa) e i vertici del Parma, del Pisa, del Pescara. […] In più la Procura ha un'altra indagine aperta sulla manovra stipendi: quindi "Prisma" vale, per la giustizia sportiva, tre diversi procedimenti. […]

Estratto dell’articolo di Massimiliano Nerozzi e Monica Colombo per il “Corriere della Sera” il 23 Dicembre 2022.

Setacciati documenti (e intercettazioni) contenuti nei 15 faldoni inviati dai pm torinesi che indagano sui conti della Juve […] la Procura della Federcalcio ha chiesto la revocazione parziale della sentenza sulle plusvalenze. In brutale sintesi, di rifare il processo. A maggio, la corte federale d'appello aveva rigettato il reclamo della stessa Procura […] Entro trenta giorni, proprio la Corte federale d'appello dovrà fissare l'udienza nel corso della quale la Procura potrà chiedere nuove sanzioni nei confronti della Juve e di altre otto società […] Ovvero, Sampdoria, Pro Vercelli, Genoa, Parma, Pisa, Empoli, Novara e Pescara, oltre a 52 dirigenti. […]

La giurisprudenza sportiva è per lo più contraria, in materia di revocazione, ma gli inquirenti della Figc hanno l'impressione di avere in mano «nuove prove». […] sulle plusvalenze, sarebbero stati trovati documenti che offrono riscontri «di carattere addirittura confessorio». 

A partire dal «libro nero di FP», nel quale il ds Federico Cherubini stigmatizza «l'eccessivo ricorso a plusvalenze artificiali» da parte dell'allora capo dell'area tecnica Fabio Paratici. Idem un'intercettazione del direttore finanziario, Stefano Bertola: «I bilanci di molte società calcistiche sono stati un po' salvati da queste plusvalenze». La Procura Figc, che ha aperto un fascicolo sulle manovre stipendi, ne ha avviato un altro, nei confronti della Juve e di altri club «per ulteriori e nuove condotte disciplinarmente rilevanti». Nel mirino, le «partnership» evidenziate nelle carte torinesi. […]

Estratto dell’articolo di Massimiliano Nerozzi,Simona Lorenzetti per il “Corriere della Sera” il 22 Dicembre 2022 

A un certo punto, i pubblici ministeri torinesi mostrano a Giorgio Chiellini l'accordo della prima manovra stipendi, firmato da Andrea Agnelli e dall'allora capitano della Juve, raffrontandolo con il comunicato ufficiale poi reso noto, a fine marzo 2020: «Tutti eravamo comunque a conoscenza - risponde il difensore - che il comunicato stampa sarebbe stato diverso dagli accordi. Ho capito le ragioni della vostra domanda, noi abbiamo rinunciato per il bene della società, poi nel bilancio non so cosa abbiano messo. O meglio, so che hanno messo i 90 milioni di rinuncia, non so se era corretto o meno farlo».

Per la tesi della Procura, ballano le 4 mensilità prima tagliate e poi pagate (tre), ovvero uno degli episodi alla base delle contestazioni (tra cui false comunicazioni sociali e manipolazione del mercato) contro i vertici del club e la stessa società. […]

Juventus-plusvalenze, perché il processo sportivo si può rifare. Monica Colombo e Massimiliano Nerozzi su Il Corriere della Sera il 23 Dicembre 2022

La Procura della Federcalcio ha chiesto la revocazione della sentenza sulle plusvalenze sulla base di nuove prove, in particolare quello che Cherubini ha chiamato «il libro nero di Paratici»

Setacciati documenti (e intercettazioni) contenuti nei 15 faldoni inviati dai pm torinesi che indagano sui conti della Juve — a fronte dei due decreti di perquisizione confluiti nel primo processo sportivo — la Procura della Federcalcio ha chiesto la revocazione parziale della sentenza sulle plusvalenze. In brutale sintesi, di rifare il processo. A maggio, la Corte federale d’appello aveva rigettato il reclamo della stessa Procura contro la decisione del Tribunale federale nazionale che, a sua volta, aveva prosciolto i bianconeri e gli altri deferiti, per insussistenza di qualsiasi illecito disciplinare. Il procuratore della Figc Giuseppe Chinè avrebbe dunque rinvenuto negli atti fatti nuovi e probanti, utili per riaprire il caso. La richiesta, in base all’articolo 63 del codice di giustizia sportiva, arriva alla vigilia della scadenza dei termini.

DOMANDE E RISPOSTE

Inchiesta Juventus: cosa è successo, perché e cosa rischia il club

La Juve ha risposto con una nota, in tarda serata: «La società potrà articolare le proprie difese nei termini previsti dal codice, confidando di poter ulteriormente dimostrare la correttezza del proprio operato, l’assenza di elementi nuovi sopravvenuti rilevanti per il giudizio rispetto alla decisione della Corte federale di appello e la carenza dei presupposti dell’impugnazione proposta». Entro trenta giorni, proprio la Corte federale d’appello dovrà fissare l’udienza nel corso della quale la Procura potrà chiedere nuove sanzioni nei confronti della Juve e di altre otto società, i cui nomi compaiono nelle carte dell’indagine della guardia di finanza. Ovvero, Sampdoria, Pro Vercelli, Genoa, Parma, Pisa, Empoli, Novara e Pescara, oltre a 52 dirigenti. Non c’è il Napoli (coinvolto nel primo processo sportivo): le plusvalenze per l’affare Osimhen furono fatte con il Lille, e nulla c’è nell’inchiesta torinese.

GLI SCENARI

Cosa rischia la Juve sul piano sportivo

La giurisprudenza sportiva è per lo più contraria, in materia di revocazione, ma gli inquirenti della Figc hanno l’impressione di avere in mano «nuove prove». Condensate nelle valutazioni dei pm torinesi, l’aggiunto Marco Gianoglio e i pm Mario Bendoni e Ciro Santoriello: sulle plusvalenze, sarebbero stati trovati documenti che offrono riscontri «di carattere addirittura confessorio». A partire dal «libro nero di FP», nel quale il ds Federico Cherubini stigmatizza «l’eccessivo ricorso a plusvalenze artificiali» da parte dell’allora capo dell’area tecnica Fabio Paratici. Idem un’intercettazione del direttore finanziario, Stefano Bertola: «I bilanci di molte società calcistiche sono stati un po’ salvati da queste plusvalenze». La Procura Figc, che ha aperto un fascicolo sulle manovre stipendi, ne ha avviato un altro, nei confronti della Juve e di altri club «per ulteriori e nuove condotte disciplinarmente rilevanti».

Nel mirino, le «partnership» evidenziate nelle carte torinesi. Ieri, dopo l’amichevole con il Rijeka (1-0 con gol di Moise Kean), Massimiliano Allegri aveva riportato il messaggio della società: «Il direttore generale Scanavino ha parlato alla squadra e allo staff rasserenando l’ambiente». Ma è chiaro che in questo contesto agli agenti interessati a proporre giocatori (come Ivan Fresneda del Valladolid, che pur piace) dalla Continassa si replica che ogni movimento è congelato fino alla nomina del nuovo cda, il 18 gennaio.

Sarah Martinenghi per “la Repubblica” il 22 Dicembre 2022

Difensore in campo, ma anche in Procura. Giorgio Chiellini davanti ai pm che il 4 aprile gli chiedono degli accordi stretti tra la Juventus e i calciatori sugli stipendi, ha tentato di proteggere il club bianconero: ricordi poco precisi e qualche scivolone di memoria. Correggendosi di fronte ai documenti sfoderati dai pm Marco Gianoglio, Mario Bendoni e Ciro Santoriello che gli ricordavano l'obbligo di dire la verità. 

Le sue ammissioni, a quel punto, diventano prove per i pm nell'inchiesta sui bilanci della società, per cui la Juventus sostiene di aver agito correttamente. Il verbale di sommarie informazioni racconta un clima di tensione crescente con Chiellini, che come capitano, era stato portavoce della squadra nella prima manovra stipendi. 

Dalle iniziali domande per rompere il ghiaccio, ai suoi rapporti con la società.

Chiellini sembra ricordare bene il periodo del Covid, il «pericolo che non si potesse riprendere a giocare », e il ruolo avuto: fu lui, «parlando con Fabio e Andrea (Paratici e Agnelli, ndr )» a individuare nel numero di 4 le mensilità a cui (formalmente) rinunciare.

Dopo alcune chiacchierate lui e i compagni hanno deciso di accettare «con la promessa che ripresa la stagione, sulla base di quello che sarebbe successo, una parte sarebbe tornata indietro. Una parte dei contratti sarebbe stata riadeguata in base a quanto avremmo giocato. Questa parte sarebbe oscillata tra le due e le tre mensilità». 

Ma cosa succedeva se un calciatore andava via? «Quello che a me è stato messo in busta paga l'anno dopo, sarebbe stato dato a chi andava via come un incentivo all'esodo», ammette. Ma poi i «non ricordo» e i «prendo atto» iniziano a diventare frequenti. L'accordo iniziale con la società era che «avremmo rinunciato a 1-2 mensilità: una se avessimo ripreso il campionato, 2 se non fosse ripreso». I pm gli ricordano l'obbligo di dire la verità, e gli chiedono: «Hai firmato questo accordo con il presidente?».

«No, ho firmato una grande stretta di mano». Però poi il capitano ammette: «Ho firmato un foglio, non so dove sia e se ci sia ancora». I pm gli mostrano allora il "patto" firmato il 28 marzo con Agnelli in cui tre dei quattro ratei sarebbero stati restituiti ai calciatori. Lo fanno di fronte al fatto che Chiellini continuava a ripetere che la rinuncia riguardasse solo uno o due stipendi. «Riconosco il foglio, la firma è mia, l'ho firmato a casa del presidente».

I pm gli spiegano che «tutti i compagni hanno affermato che l'accordo è sempre stato di rinuncia ad una mensilità». «Prendo atto », risponde lui. Ancora gli inquirenti: «Il recupero dei tre stipendi della stagione 2020-2021 era certo o condizionato?». «Nelle stagioni successive era certo, qualcuno lo aveva spalmato su più di un anno». Ma i problemi l'anno dopo erano rimasti: «Ci è stato chiesto non di rinunciare ma di posticipare una parte dello stipendio, se non sbaglio 2 mesi. Le trattative furono individuali», e la proposta partì «sempre da Paratici». 

Chiellini aveva firmato «poco più avanti, a maggio» anche un contratto da ambassador, «che andrà a partire da quando smetterò, per tre anni. Le due mensilità devo ancora percepirle». «Ero sempre stato in parola - aggiunge il calciatore nell'interrogatorio - che una volta finita la carriera avrei fatto qualcosa in società, non potendo essere inquadrato come dirigente, il modo migliore per avere un contratto societario era quello dell'ambassador». L'accordo raggiunto fu di «un milione e mezzo netti in tre anni. Di cui 500 mila circa erano le due mensilità differite».

Sarah Martinenghi per “la Repubblica” il 22 dicembre 2022.

Difensore in campo, ma anche in Procura. Giorgio Chiellini davanti ai pm che il 4 aprile gli chiedono degli accordi stretti tra la Juventus e i calciatori sugli stipendi, ha tentato di proteggere il club bianconero: ricordi poco precisi e qualche scivolone di memoria. Correggendosi di fronte ai documenti sfoderati dai pm Marco Gianoglio, Mario Bendoni e Ciro Santoriello che gli ricordavano l'obbligo di dire la verità.

Le sue ammissioni, a quel punto, diventano prove per i pm nell'inchiesta sui bilanci della società, per cui la Juventus sostiene di aver agito correttamente. Il verbale di sommarie informazioni racconta un clima di tensione crescente con Chiellini, che come capitano, era stato portavoce della squadra nella prima manovra stipendi. 

Dalle iniziali domande per rompere il ghiaccio, ai suoi rapporti con la società.

Chiellini sembra ricordare bene il periodo del Covid, il «pericolo che non si potesse riprendere a giocare », e il ruolo avuto: fu lui, «parlando con Fabio e Andrea (Paratici e Agnelli, ndr )» a individuare nel numero di 4 le mensilità a cui (formalmente) rinunciare.

Dopo alcune chiacchierate lui e i compagni hanno deciso di accettare «con la promessa che ripresa la stagione, sulla base di quello che sarebbe successo, una parte sarebbe tornata indietro. Una parte dei contratti sarebbe stata riadeguata in base a quanto avremmo giocato. Questa parte sarebbe oscillata tra le due e le tre mensilità». 

Ma cosa succedeva se un calciatore andava via? «Quello che a me è stato messo in busta paga l'anno dopo, sarebbe stato dato a chi andava via come un incentivo all'esodo», ammette. Ma poi i «non ricordo» e i «prendo atto» iniziano a diventare frequenti. L'accordo iniziale con la società era che «avremmo rinunciato a 1-2 mensilità: una se avessimo ripreso il campionato, 2 se non fosse ripreso». I pm gli ricordano l'obbligo di dire la verità, e gli chiedono: «Hai firmato questo accordo con il presidente?».

«No, ho firmato una grande stretta di mano». Però poi il capitano ammette: «Ho firmato un foglio, non so dove sia e se ci sia ancora». I pm gli mostrano allora il "patto" firmato il 28 marzo con Agnelli in cui tre dei quattro ratei sarebbero stati restituiti ai calciatori. Lo fanno di fronte al fatto che Chiellini continuava a ripetere che la rinuncia riguardasse solo uno o due stipendi. «Riconosco il foglio, la firma è mia, l'ho firmato a casa del presidente».

I pm gli spiegano che «tutti i compagni hanno affermato che l'accordo è sempre stato di rinuncia ad una mensilità». «Prendo atto », risponde lui. Ancora gli inquirenti: «Il recupero dei tre stipendi della stagione 2020-2021 era certo o condizionato?». «Nelle stagioni successive era certo, qualcuno lo aveva spalmato su più di un anno». Ma i problemi l'anno dopo erano rimasti: «Ci è stato chiesto non di rinunciare ma di posticipare una parte dello stipendio, se non sbaglio 2 mesi. Le trattative furono individuali», e la proposta partì «sempre da Paratici». 

Chiellini aveva firmato «poco più avanti, a maggio» anche un contratto da ambassador, «che andrà a partire da quando smetterò, per tre anni. Le due mensilità devo ancora percepirle». «Ero sempre stato in parola - aggiunge il calciatore nell'interrogatorio - che una volta finita la carriera avrei fatto qualcosa in società, non potendo essere inquadrato come dirigente, il modo migliore per avere un contratto societario era quello dell'ambassador». L'accordo raggiunto fu di «un milione e mezzo netti in tre anni. Di cui 500 mila circa erano le due mensilità differite».

Giuseppe Legato per “La Stampa” il 13 Gennaio 2023.

Emergono nuovi dettagli dagli atti di inchiesta sui conti della Juventus. Nel verbale di audizione reso in procura il 27 novembre 2021, l'attuale ds Federico Cherubini, "scarica" di fatto la gestione delle plusvalenze finita sotto la lente dei pm su Fabio Paratici, suo predecessore a capo dell'area sportiva, maestro e sponsor.

 «Non sempre sono stato contento - ha detto Cherubini (non indagato) – delle operazioni (di mercato ndr) che abbiamo fatto. Polverizzare il mercato con operazioni sui ragazzi non andava bene. Più volte mi sono lamentato con Fabio che il valore che stavamo dando a quei giocatori non era congruo».

 E alla domanda degli inquirenti («da quanti anni richiedono alla parte sportiva di fare plusvalenze da 300 milioni»») ha risposto cercando di fatto di esonerare i vertici (Agnelli in testa) dalle dinamiche specifiche sul mercato delle plusvalenze: «La pressione ce la siamo messa sempre da soli perché siamo responsabili dell'80% dei costi del club: io mi sono sempre confrontato con Fabio (Paratici ndr). Agnelli vedeva le plusvalenze quando venivano realizzate ma non c'è mai stata un'indicazione in tal senso».

Segue altra domanda: «Quindi ha deciso tutto da solo Paratici?». Replica: «Per quanto a mia conoscenza il presidente Agnelli lascia autonomia alle persone che lavorano nell'area sportiva. L'ho sperimentato io stesso in questo periodo dopo l'avvicendamento che c'è stato con Paratici».

 Ancora secondo Cherubini «è stato Paratici» a decidere i termini di un'operazione finita sotto la lente degli inquirenti e cioè quella relativa alla cessione all'Atalanta del calciatore Cristina Romero. Con Agnelli, a suo dire, «si era già valutato che si doveva andare verso un progetto tecnico diverso dalle plusvalenze».

Un lapsus sul finale dell'interrogatorio vie- ne corretto subito dopo. Prima parla di «plusvalenze artefatte» (cioè esattamente la contestazione dei magistrati), poi rettifica: «Ho fatto quest'ultima affermazione all'esito di una lunga deposizione, probabilmente ero stanco».

 Intanto ieri mattina Daniela Marilungo, la consigliera indipendente del cda Juve che ha lasciato, poco prima del resto del board, facendo mettere nero su bianco «l'impossibilità di esercitare il proprio mandato con la dovuta serenità e indipendenza anche, ma non solo, per il fatto di ritenere di non essere stata messa nella posizione di poter pienamente "agire informata" a fronte di temi di sicura complessità», è entrata alle 11 nell'ufficio del magistrato Mario Bendoni uno dei tre pm (insieme all'aggiunto Marco Gianoglio e al sostituto Ciro Santoriello) titolari dell'inchiesta sui bilanci bianconeri.

Ci è rimasta quasi per nove ore in un'audizione fiume in cui ha ricostruito tutta la vita del cda Juve dall'estate scorsa fino alle dimissioni del board quando l'inchiesta "Prisma" era nota e aveva portato a due perquisizioni e decine di interrogatori per i numero- si indagati tra cui gli ex vertici societari. Verbale blindato.

 Se questa possa divenire una testimonianza chiave anche solo per la durata del faccia a faccia coi pm si comprenderà all'udienza preliminare con il deposito di questi ulteriori atti. Fatto sta che la dottoressa Marilungo, consigliera non esecutiva e indipendente della società da diversi anni, una certa credibilità su bilanci e leggi ce l'ha nel curriculum.

Già membro del Comitato Controllo e Rischi e del Comitato ESG, origini bolognesi, ha fatto parte, anni fa dello studio legale londinese Lawrence Graham Solicitors e dell'Ufficio Europeo dei Brevetti. È stata anche European Legal Analyst per Goldman Sachs, nonché responsabile dei rapporti con le istituzioni comunitarie per l'Abi. Il tempo dirà.

Da ilnapolista.it il 23 Febbraio 2023.

Troppe minacce e campagne social, qualche giudice del Collegio di Garanzia del Coni medita di fare un passo indietro e di lasciare l’incarico. Lo scrive il Corriere dello Sport.

Colpi bassi, video rubati, frasi estrapolate dai contesti e post sui social da usare nel momento opportuno. Il clima attorno ai giudici legati (direttamente o indirettamente) al ‘caso Juve’ preoccupa le istituzioni e gli stessi magistrati. Più di qualcuno ha già subito delle minacce di morte”.

 È capitato al procuratore della Figc, Chinè e anche al pm Santoriello, come ai giudici del Collegio di Garanzia Cesaro, Maffezzoli e Sandulli. L’ultimo caso riguarda il magistrato Mario Luigi Torsello, presidente della Corte d’Appello della Figc, che ha inflitto la penalizzazione di 15 punti in classifica alla Juventus. Torsello è finito nell’occhio del ciclone per una lezione all’Università del Salento in cui spiegava i principi del diritto sportivo. Le sue parole sono state usate in modo improprio, intese come commento alla sentenza di penalizzazione.

Il magistrato ha parlato dell’importanza di un processo veloce e della possibilità di configurare come violazione del principio di lealtà e correttezza una condotta che «non risulta autonomamente come fattispecie di illecito disciplinare». Su una frase in particolare si è scatenato il finimondo: «E’ compito degli Organi di giustizia considerare meno stringenti le regole formali rispetto ad aspetti sostanziali». Ma Torsello, pronunciandola, non ha espresso un’opinione personale, bensì ha citato una sentenza del Collegio di Garanzia”.

 Il Corriere dello Sport scrive: “I giudici sportivi si sentono soli, sovraesposti e facili bersagli. E mentre si attende il ricorso della Juve al Collegio di Garanzia (in tanti cominciano a pensare che in un senso o nell’altro possa arrivare una sentenza politica) più di qualcuno comincia a riflettere sulla possibilità di fare un passo indietro, visto che gli incarichi sono di natura volontaria e in molti casi non prevedono retribuzione”.

Estratto da leggo.it il 25 febbraio 2023.

Ora tocca alle altre squadre. Dall'inchiesta sui conti della Juventus fioriscono procedimenti giudiziari in altre città italiane. I pubblici ministeri di Torino hanno trasmesso una serie di carte ai colleghi di una mezza dozzina di procure. L'iniziativa è dettata da ragioni di competenza territoriale.

 Da tempo gli accertamenti dei magistrati subalpini e della guardia di finanza avevano portato alla conclusione che la Juventus avesse intrecciato, in materia di scambio e di compravendita di giocatori, rapporti di «collaborazione e di partnership» (i termini è utilizzato nelle carte processuali) con una quantità di altri club. Condotte innestate su «relazioni personali e a volte personali tra manager e dirigenti sportivi». […]

La giustizia sportiva, in materia di plusvalenze, ha sostanzialmente 'scagionato' i campionati lo scorso 23 gennaio, quando la Corte federale di appello inflisse quindici punti di penalizzazione alla sola Juventus e prosciolse altre otto società finite sotto processo. Il motivo era che solo per il club bianconero erano state trovate - scrissero i giudici - tracce evidenti della volontà di truccare i bilanci. Ma contro quella decisione il legal team della Vecchia Signora presenterà un ricorso al Collegio di garanzia del Coni.

 Non è scontato che la mossa della procura di Torino riapra i giochi. Quello che è chiaro è che gli investigatori ritengono di avere raccolto materiale meritevole di essere segnalato ad altre procure per approfondimenti di carattere penale.

 Secondo i pm torinesi - come si ricava dagli atti assemblati lo scorso anno - i rapporti di partnership riguardavano soprattutto Sampdoria, Atalanta, Sassuolo, Empoli, Udinese; tra le carte comparivano anche Grosseto, Parma, Pisa, Monza, Cosenza, Pescara «per citarne alcune». Non è detto, però, che siano proprio queste le squadre che saranno toccate dai prossimi accertamenti. […]

Estratto dell'articolo di Simona Lorenzetti per il “Corriere della Sera” il 25 febbraio 2023.

La cessione temporanea con opzione di acquisto (poi esercitata nella finestra di mercato chiusa il 31 agosto 2019) di Romero dalla Juventus all’Atalanta sarebbe «avvenuta mediante la stipula di accordi taciti e “non federali”, cioè non depositati in Lega». Per i pm esistono «side letter», relative ad affari di mercato, da «tenere nel cassetto» e in grado di fare emergere il «falso in bilancio».

 In un’intercettazione con Paratici, all’epoca delle trattative per il passaggio di Romero al Tottenham, Luca Percassi (ad dell’Atalanta) diceva: «Io quella lettera lì non potrò mai tirarla fuori, perché dovessimo andare in giudizio viene fuori che ho fatto falso in bilancio».

Al termine di un nuovo giro di interrogatori, i pm torinesi (Marco Gianoglio, Mario Bendoni e Ciro Santoriello) hanno inviato a sei diverse Procure italiane gli atti in cui si raccontano i presunti accordi segreti tra la Juve e altre società: si tratterebbe di opzioni di cessioni e riacquisti che non troverebbero corrispondenza nei bilanci. Tra i club, che rischiano di essere travolti dalla bufera juventina, ci sono Atalanta, Udinese, Sassuolo, Bologna, Cagliari e Sampdoria.

 [...] Nei documenti sono descritti i presunti accordi segreti che avrebbero permesso alla Juve di realizzare alchimie contabili. Il tema è quello delle «call di riacquisto». Nel caso dell’Atalanta, «fuori bilancio» ci sarebbero accordi per 14,5 milioni per impegni di riacquisto «non federali» riguardanti quattro calciatori: Mattiello (per 4 milioni), Muratore (4), Caldara (3,5) e Romero (3).

I magistrati cagliaritani si occuperanno dell’affare Cerri, che nel 2018 viene ceduto dalla Juve al Cagliari: l’operazione frutta ai bianconeri una plusvalenza di 8 milioni. Ma parallelamente alla cessione con obbligo di riscatto, ci sarebbe una mail — datata 12 luglio 2018 — firmata dalla Juve e dal Cagliari che garantisce al club torinese il riacquisto.

 Dal nuovo filone investigativo emergerebbe poi il ruolo del Sassuolo — come squadra «parcheggio» della Juve —, protagonista di due diversi impegni scritti: uno per Traoré e l’altro per Demiral. Giocatori che la Juve avrebbe chiesto al Sassuolo di comprare, garantendogli il riacquisto incondizionato: le cifre sui documenti scoperti sono di 4 milioni per Demiral e 8,7 per Traoré (che la Juve non poteva comprare perché extracomunitario). Nelle mani degli inquirenti ci sarebbe persino una «side letter» tra Paratici e Carnevali. Traoré in realtà non ha mai giocato nella Juve, ma le «side letter» racconterebbero di accordi che hanno generato debiti.

Per la Sampdoria le presunte operazioni «viziate» sarebbero quelle di Audero, Peeters e Mulé. I possibili guai per l’Udinese sono legati a Mandragora; per il Bologna a quelli per l’operazione Orsolini.

Da adnkronos.com il 25 febbraio 2023.

Andrea Agnelli, ex presidente della Juventus, torna a parlare e lo fa con il quotidiano olandese Telegraaf. Un'intervista sui temi della Superlega e dei rapporti complicati con le istituzioni del calcio come la Uefa e il suo presidente Aleksander Ceferin e la Fifa guidata da Gianni Infantino: "Non è strano che ci sia un solo candidato alla presidenza sia della Uefa che della Fifa? È una situazione sana? Ci si può aspettare un cambiamento da queste persone? Ceferin e Infantino faranno di tutto per rimanere al centro del potere. Non ho alcun problema con Ceferin. Se mi chiama rispondo. Con me l'amicizia e i sentimenti personali non si intromettono negli affari. Aleksander è il padrino di una delle mie figlie. Ne sono felice. È stata la scelta del momento. Ha fatto una promessa a Dio: se mi succede qualcosa, si prenderà cura di lei. Una promessa del genere non si può restituire o ritirare".

Agnelli ha raccontato come è nata l'idea di una Superlega: "Nel 2019 eravamo pronti, Aleksander e io. I top club di tutti i campionati Eca (all'epoca circa 130 club professionistici europei) si sono accordati su un nuovo formato. I club di medie dimensioni dei grandi campionati, i dirigenti dei grandi campionati e alcune federazioni vedevano il nuovo formato come una minaccia. Per questo motivo Ceferin si tirò indietro. I club erano a favore di un sistema calcistico europeo rinnovato e migliorato. Quando la Uefa ha messo i bastoni tra le ruote, sono nati progetti esterni alla Uefa per organizzare una nuova competizione con tutti i club dell'Eca.

 Se alla fine la cosa prenderà piede dipenderà in parte dalla Corte di giustizia europea. Perché non ho lottato per il cambiamento della Uefa dall'interno? A livello interno è stata una guerra che non sono riuscito a vincere. Pur sapendo che il sistema attuale non offre un futuro ad Ajax, Anderlecht, Celtic, Benfica, Panathinaikos e Stella Rossa di Belgrado e molti altri. Allora non si resta fermi, ma si prendono altre strade per arrivare dove si vuole arrivare con il calcio di club europeo".

L'ex numero uno della Juventus è poi tornato sulla Superlega: "E' necessaria, perché se rimane prevedibile come ora, il pubblico si allontanerà dal calcio. Continueranno a guardare il calcio internazionale in Olanda se l'Ajax, il Feyenoord o il PSV non hanno mai la possibilità di vincere o di competere? Quindi un'altra lega europea con diverse divisioni con uno schema di promozione e retrocessione.

A condizioni che diano pari opportunità ai club. Pensate a sessanta-ottanta club in tutta Europa. Con i miei 13 anni di esperienza nell'industria del calcio, so come funzionano le cose, ho raccolto idee e dico che è tempo di campionati più equi. Non campionati determinati esclusivamente dal commercio, ma dai mercati in cui si spende di più per il calcio. In termini europei, i mercati più grandi ottengono anche il maggior numero di biglietti per la Champions League e quindi i maggiori introiti. Quindi, se si mantiene il sistema attuale, il divario tra i club inglesi e spagnoli in particolare e gli altri non fa che aumentare. Forse tranne che per il Psg e il Bayern Monaco. Invece si dovrebbe puntare a una maggiore democrazia sportiva. Un club polacco non ha forse il diritto di raggiungere il successo? I tifosi polacchi non hanno abbastanza passione per il calcio?".

Estratto dell’articolo di Massimiliano Nerozzi per il “Corriere della Sera” il 26 febbraio 2023.

«Sapevamo quello che era uscito, cioè il risparmio e la riduzione tout court degli stipendi. Quando abbiamo letto gli atti di questo fascicolo delle chat e delle scritture, ci siamo sorpresi e arrabbiati»: davanti alle domande sulle manovre stipendi, è quanto fa mettere a verbale Paolo Piccatti, 65 anni, presidente del collegio sindacale della Juve dal 23 novembre 2009 al 29 novembre 2021, interrogato il 25 novembre dell’anno scorso dal procuratore aggiunto Marco Gianoglio e dal pubblico ministero Mario Bendoni, due dei tre magistrati che coordinano l’inchiesta sui conti del club.

 Il commercialista — indagato, ma la cui posizione è stata stralciata, in vista di una presumibile richiesta di archiviazione — pare cadere dalle nuvole anche a proposito della scrittura privata tra l’ex presidente Andrea Agnelli e l’allora capitano Giorgio Chiellini: «Mai vista», risponde, assistito dall’avvocato Luigi Giuliano.

L’organo di controllo interno nulla avrebbe saputo anche della richiesta del capo dell’ufficio legale, Cesare Gabasio, di restituire le scritture di integrazione «without the date»: «Mai visto e mai sentito». Idem a domanda sulla seconda manovra stipendi, con gli accordi per 17 giocatori: «Assolutamente no. Noi non eravamo a conoscenza di nulla di tutto questo. Ho visto questi atti nel vostro fascicolo, tutto questo ambaradan non ci è stato comunicato. Se avessimo avuto conoscenza di fatti di questa natura, ci saremmo agitati non male».

A un certo punto, i pm chiedono a Piccatti, che fa questo mestiere «da quasi 40 anni, in una trentina di società», se le manovre stipendi avrebbero dovuto essere oggetto di comunicazione al collegio sindacale: «Sì, certamente. Soprattutto dovevano essere eseguite e recepite in modalità totalmente differenti». [...] 

Al contrario, nessuna critica sull’altro filone d’inchiesta: «Il problema delle plusvalenze non è mai giunto alla nostra attenzione. Se posso osare, siamo andati anche a leggere la nuova relazione di Deloitte, che non effettua rilievi sul tema plusvalenze». [...]

Inchiesta Juve, Daniela Marilungo e le dimissioni dal cda: «Il mio avvocato mi disse: non firmare il bilancio». Simona Lorenzetti, Massimiliano Nerozzi su Il Corriere della Sera l’1 marzo 2023.

L’ex consigliera indipendente del cda della Juve racconta ai magistrati: «Mi dimisi perché capii che stava crollando tutto. Il mio avvocato mi avvisò: non approvare il bilancio»

Per dire della tensione di quei giorni, ricorda le parole del suo avvocato: «Non approvare nulla, non approvare questo bilancio altrimenti vai dritta verso le conseguenze che tu vuoi evitare». Daniela Marilungo, 52 anni, membro indipendente del cda Juve dal 23 ottobre 2015, parla per otto ore come persona informata sui fatti davanti al procuratore aggiunto Marco Gianoglio, al pm Mario Bendoni e a tre militari della guardia di finanza, che stanno indagando sui conti bianconeri. Fu lei la prima ad andarsene, ancor prima che crollasse tutto il cda: «Mi sono dimessa con e-mail e raccomandata il 25 novembre 2022».

Ricorda quel giorno, iniziato alle 7.30, con una telefonata di due ore al suo avvocato: «La decisione la stavo meditando ma non era proprio nell’aria; a fronte dell’ultimo cda, dopo una notte insonne, mi sentivo a disagio». Il giorno precedente «sia Andrea Agnelli che John Elkann, ci avevano comunicato a noi consiglieri indipendenti che Laurence Debroux e Suzanne Heywood (consiglieri non indipendenti, ndr) avevano preannunciato a loro volta le dimissioni». Pausa: «Questa notizia fa scattare il timing delle mie dimissioni» e a sera, «mi faccio un bel pianto liberatorio». È solo l’inizio, perché le vengono chiesti i contatti del suo legale, che però respinge i civilisti che seguono la Juve: «Parlo solo con i penalisti». Il clima si scalda ulteriormente, poiché nei giorni successivi Marilungo continua a ricevere mail di convocazione, al che l’avvocato chiama quelli bianconeri dicendo che «se Juventus non rettifica questa cosa, va subito in Procura e denuncia tutti». Però, il tempo stringe: «La Juventus ha anche delle altre attività di vigilanza, per cui il motivo di queste tempistiche accelerate era che se il consiglio non depositava il bilancio non ci potevamo iscrivere ai campionati».

Di più: «La spada di Damocle che tutti ci rappresentavano (il direttore finanziario Cerrato, il capo dell’ufficio legale Gabasio, Agnelli) era questa dell’iscrizione alle varie competizioni sportive». Spuntano anche delle slides, racconta la testimone: senza presentazione del bilancio si rischiava o la mancata iscrizione o dei punti di penalizzazione. «Prima la deadline doveva essere a novembre poi venne fuori che si poteva fino a giugno 2023». Insomma, la situazione si fa ingarbugliata: «La nostra preoccupazione aumenta, ci hanno più volte rappresentato come queste conseguenze sportive potessero impattare sulla continuità aziendale». Domanda dei pm: chi nel cda propugnava la tesi di andare avanti con il progetto di bilancio approvato il 23 settembre? «Il presidente Agnelli, in maniera chiara».

Subito prima del cda del 24 novembre, Agnelli incontra i consiglieri indipendenti: «Il succo era: “Voi dovete decidere in o out; è difficile capisco ma ci sono tutte le premesse per arrivare a una decisione positiva”». E la stessa cosa, prima della pausa pranzo, avverrà davanti a Elkann, che aveva «atteggiamento soft e collaborativo». La descrizione di Agnelli era stata «più tranchant: “Hanno paura di essere indagate”», riferito alle due consigliere non indipendenti. Insomma, «una situazione surreale». Durante una pausa, parla con Spada, presidente del collegio sindacale: «Guarda che queste due si sono dimesse. Lui rimase colpito». E ancora: «Noi abbiamo richiesto questi documenti (della Procura, ndr) in varie forme e a più riprese. Io non ho mai visto alcuna documentazione». Piuttosto riceve una battuta: «Sono migliaia di pagine, vuoi leggerle tutte?». Però: «Delle side letter sono venuta a saperlo a fine ottobre». Si fece domande: «Dal momento in cui professionisti della società dicono A e Deloitte B, per me, le cose sono iniziate a cambiare». Si discuterà anche di un ricorso al Tar contro la delibera della Consob, ma alla fine si votò per evitare il «muro contro muro».

Da ilnapolista.it l’1 marzo 2023.

 Sul Corriere della Sera e su La Repubblica alcuni stralci della deposizione di Daniela Marilungo, ex membro indipendente del Cda della Juventus, davanti al procuratore aggiunto Marco Gianoglio, al pm Mario Bendoni e ai militari della guardia di finanza che indagano sui conti della Juve, lo scorso 12 gennaio. Un’audizione durata otto ore. La Marilungo è stata la prima a rassegnare le dimissioni, il 25 novembre 2022. Ricorda quel giorno.

 «La decisione la stavo meditando ma non era proprio nell’aria. A fronte dell’ultimo cda, dopo una notte insonne, mi sentivo a disagio».

 La Marilungo racconta che il giorno precedente, Andrea Agnelli e John Elkann «ci avevano comunicato, a noi consiglieri indipendenti, che Laurence Debroux e Suzanne Heywood avevano preannunciato a loro volta le dimissioni. Questa notizia fa scattare il timing delle mie dimissioni e a sera mi faccio un bel pianto liberatorio».

Nei giorni successivi, continua l’ex consigliera, ha continuato a ricevere mail di convocazione, finché il suo avvocato non ha chiamato i legali del club dicendo loro:

 «se la Juventus non rettifica questa cosa, va subito in Procura e denuncia tutti».

 La Marilungo parla della fretta della Juventus sul deposito del bilancio da parte del cda. La società di revisione Deloitte aveva espresso riserve.

«se il consiglio non depositava il bilancio non ci potevamo iscrivere ai campionati. La spada di Damocle che tutti ci rappresentavano era questa dell’iscrizione alle varie competizioni sportive».

 Continua:

 «prima la deadline doveva essere a novembre poi venne fuori che si poteva fino a giugno 2023. La nostra preoccupazione aumenta, ci hanno più volte rappresentato come queste conseguenze sportive potessero impattare sulla continuità aziendale».

I pm a questo punto le chiedono chi, nel cda, parlava della necessità di andare avanti con il progetto di bilancio approvato il 23 settembre. La Marilungo risponde che era il presidente Agnelli a voler andare avanti ad ogni costo:

 «Il presidente Agnelli, in maniera chiara».

 E ancora:

 «Noi abbiamo chiesto questi documenti (si riferisce a quelli della Procura, ndr) in varie forme e a più riprese. Io non ho mai visto alcuna documentazione».

 Anzi, racconta, in risposta ricevette una battuta:

 «Sono migliaia di pagine, vuoi leggerle tutte?».

 Il giorno del cda, in una riunione informale, i 4 consiglieri indipendenti furono convocati nell’ufficio di Agnelli. C’era anche Elkann che disse: «Sono venuto qui per rassicurarvi e dirvi tutto quello che volete richiedere sulla situazione che Andrea vi ha indicato». Mentre la dichiarazione di Agnelli fu più tranchant: «queste hanno paura di essere indagate». 

La Marilungo parla anche delle side letter.

 «Delle side letter sono venuta a sapere a fine ottobre. Dal momento in cui professionisti della società dicono A e Deloitte B, per me le cose sono iniziate a cambiare».

 Qualche mese fa, La Verità dedicò un pezzo al ruolo delle donne nello sgretolamento del Cda Juventys. A costruire la trappola per far fuori Agnelli dalla Juventus, scriveva il quotidiano, è stata una donna: Suzanne Heywood, managing director di Exor e presidente di Cnh Industrial Nv.

 A guidare le operazioni è stata una donna. Si chiama Suzanne Heywood, è managing director di Exor e presidente di Cnh Industrial Nv. È la nuova luce delle pupille di John Elkann. Sul sito della Juventus è indicata come «amministratore» (…) del club. In realtà da pochi mesi è il braccio armato di Jaky e plenipotenziaria per gli affari anche della Juve, che ormai era diventato un ex-assett.

È stata lei a costruire la trappola in cui è caduto Andrea Agnelli. Diciamolo subito: l’ex presidente della Juve non si è dimesso, è stato «dimesso», lo hanno costretto ad andarsene, si è trovato in minoranza nel consiglio (si parla di sei voti contro, un indeciso a tutto, Pavel Nedved, e solo due a favore, lo stesso Agnelli e il suo fedele Francesco Roncaglio). Secondo una ricostruzione di buona fonte, l’ex presidente della Juve si era presentato pieno di certezze e sicuro di sfangarla un’altra volta. Contava sul fatto che il cugino John Elkann – il vero proprietario della Juve -, non volesse affondare il colpo decisivo. Si basava su questa errata convinzione: «Fino a che non sarà terminata l’inchiesta della Procura della Repubblica, Jaki non avrà il coraggio di farmi fuori: sarebbe ingiusto e di cattivo gusto colpevolizzarmi e non credere nella mia innocenza fino a prova contraria e fino all’eventuale rinvio a giudizio o all’esito dell’eventuale processo. Sarebbe una sorta di dichiarazione di colpevolezza ancor prima del termine delle indagini».

Dopo di lei, una dopo l’altra Daniela Marilungo, Assia Grazioli Venier e Caitlin Mary Hughes hanno invertito la direzione del cda e della Juventus.

Da ilnapolista.it il 2 marzo 2023.

Dopo gli stralci della deposizione dell’ex consigliera del consiglio di amministrazione della Juve, Daniela Marilungo, oggi i quotidiani propongono quelli dell’audizione di Maria Cristina Zoppo, ex componente del collegio sindacale della Juve. Un’audizione durata cinque ore in cui racconta di essersi sentita «quasi sbeffeggiata» dal club, a volte. Altre «colpita e attaccata, per qualcosa che Juventus stessa aveva fatto.  Il nostro timore era che gli amministratori (cda) non sapessero nemmeno che Ronaldo aveva fatto un claim per i 19 milioni e avesse chiesto accesso agli atti».

 La Zoppo dichiara:

«Da settembre in poi c’è stata un’escalation di momenti di gestione societaria su cui io non riuscivo più a capire perché ci si volesse incanalare in un processo di valutazione di poste di bilancio oggettivamente poco condivisibile».

Continua citando le side letter Juve:

 «Noi eravamo venuti a conoscenza dell’esistenza delle carte della Procura che evidenziavano un breach nei sistemi di controllo (side letter)».

 Nonostante ciò, il consiglio di amministrazione approvò ugualmente un progetto di bilancio «senza avere contezza dell’esito dell’attività del revisore».

 Il revisore presentò dei rilievi al bilancio. La Zoppo continua:

 «Accettare questi rilievi, è una mia conclusione, avrebbe potuto sgonfiare tutta la linea difensiva in sede penale».

 La priorità del collegio sindacale, spiega, era che il bilancio fosse corretto, mentre il club spingeva per approvare il bilancio per l’iscrizione ai campionati.

«Al collegio sindacale non interessava nulla questo, perché se un bilancio è non corretto, è non corretto. Non mi è capitato che gli avvocati avessero un peso così significativo. Nel Consiglio del 2 novembre 2022 c’erano questi legali che parlavano molto ma senza alcun supporto documentale: sono abituata in modo diverso e cioè ricevo prima dei documenti per sapere cosa vado ad approvare e per agire informata e devo dire che è difficile lavorare in un cda in cui ci sono delle persone indagate. Mi sono trovata a disagio a lavorare con gente come Gabasio (Cesare, legale imputato insieme all’ex board societario) soprattutto dopo aver letto le carte della procura».

 A quel punto, i sindaci chiedono di modificare il bilancio per le manovre stipendi, mentre sulle plusvalenze:

 «Abbiamo parlato con il revisore e abbiamo ritenuto che il metodo da lui utilizzato conducesse ad esiti non irragionevoli».

La Zoppo racconta che la sera del 25 novembre Daniela Marilungo la chiamò in lacrime per comunicarle che si era dimessa dal consiglio di amministrazione della Juve. E le mandò una lettera di accompagnamento che voleva venisse letta in apertura del consiglio di tre giorni dopo. In quella sede la Zoppo chiese più volte che venisse letta la lettera di dimissioni di Marilungo, come dalla stessa richiesto, ma nessuno la ascoltò:

 «Loro volevano spingere ad arrivare subito alla deliberazione, approvare il bilancio».

 A quel punto, per 50 minuti «viene interrotto l’audio della riunione».

 La Zoppo protesta:

 «Quanto ci mettete a fare la traduzione di due pagine?».

 I pm a questo punto le chiedono se i sindaci erano stati estromessi dal consiglio. In pratica sì, risponde la Zoppo. Poi la riunione riprende e i sindaci vengono sottoposti ad una serie di domande il cui senso, spiega la Zoppo, è soltanto uno:

 «Metterci in cattiva luce e crearci una forte sensazione di disagio. Anche Forte (altro sindaco dimessosi, ndr) era in difficoltà. Questa è stata una mitragliatrice».

 La Zoppo continua:

 «Abbiamo denunciato a Consob che mancavano al 23 dicembre 2022 (e che mancano tutt’ora, 9 gennaio) i verbali del 24 e del 28 novembre, anche il 20 lo abbiamo solo in bozza». 

Cosa le hanno riferito i suoi legali? 

«Di comportamenti aggressivi». 

La Zoppo conclude: 

«In vent’anni di lavoro non ho mai visto una quotata che non recepisce i rilievi di una società di revisione. Forse perché, è una mia conclusione, avrebbe potuto sgonfiare tutta la linea difensiva in sede penale».

L'inchiesta Prisma. Inchiesta Juventus, l’ex dirigente Lombardo accusa il club: le altre società “banche” per le plusvalenze e il “sistema Paratici”. Redazione su Il Riformista il 3 Marzo 2023

Nuovi guai per la Juventus. Il club bianconero avrebbe utilizzato altri club di Serie A con cui intratteneva affari come una sorta di “banca”, che permetteva alla società guidata da Andrea Agnelli di fare le agognate plusvalenze anche acquistando giocatori tramite altre squadre “per ostacolare le altre”.

A rivelarlo è quello che la procura di Torino considera uno dei suoi teste chiave nell’inchiesta Prima che vede indagati la vecchia dirigenza juventina, dallo stesso Agnelli a Fabio Paratici e Pavel Nedved: si tratta di Maurizio Lombardo, ex segretario generale che si occupava dei contratti della società.

Ne scrive oggi Repubblica, quotidiano che tra l’altro fa parte di quella Gedi di proprietà proprio della famiglia Elkann-Agnelli. Il quotidiano sottolinea come Lombardo sia “un fiume in piena” contro gli ex colleghi quando viene sentito in procura il 17 febbraio, anche perché dopo 9 anni nel club di Torino viene messo alla porta “in cinque minuti”, quando  29 ottobre 2020 gli dicono che “Paolo Morganti è più manager di te”.

Nel mirino finisce in particolare Fabio Paratici, oggi direttore generale al Tottenham ma per anni direttore sportivo e poi amministratore delegato della Juventus. Paratici che secondo Lombardo “aveva smanie di onnipotenza, voleva acquistare giocatori anche tramite altre squadre per ostacolare le altre”.

Al centro del colloquio tra l’ex segretario generale e i pm torinese c’è in particolare un incontro del 19 luglio 2018, tra il legale della Juventus, Cesare Gabasio, e il vicepresidente dell’Udinese, Stefano Campoccia, neo eletto consigliere della Lega calcio.

I sue si incontrano proprio nella sede della Lega Calcio, in un palazzo in via Rossellini a Milano: qui Gabasio consegna consegnerebbe a Campoccia un impegno di riacquisto in una busta chiusa, le “side letter” che celavano il patto occulto tra i due club.

Ai pm Lombardo rivela che era lui a custodire le side letter “in una valigetta, sempre con me, anche a casa“, perché poteva capitare “anche di notte” di essere chiamato da Paratici. “C’erano quelle del Cagliari, dell’Atalanta.. senza dubbio firmate“, gli dicevano “tienile tu” perché “era meglio che non uscissero“.

Al centro di questi accordi occulti ci sono alcuni calciatori anche di primo piano del nostro campionato: Cerri, Mandragora, Orsolini, Demiral, Traorè, Mulè, Audero, Peeters. Con l’Atalanta, scrive Repubblica, Lombardo snocciola precisi i debiti: “14,5 milioni: 4 per Mattiello, 4 per Muratore, 3,5 per Caldara, 3 per Romero“.

Secondo l’ex manager juventino i calciatori erano a conoscenza degli accordi. E sempre stando alle dichiarazioni di Lombardo quelle side letter non venivano depostati in Lega “altrimenti non si poteva registrare la plusvalenza”. I problemi emergono con il contratto di Mandragora all’Udinese per 20 milioni, quando “si rendono conto che con questa ricompra non potevano più registrarla subito“. All’epoca Lombardo ricorda: “Era ancora il periodo di Marotta e io chiesi: perché ce lo riprendiamo che non giocherà mai nella Juventus? Mi dissero che avevamo un obbligo“.

Ai pm di Torino Lombardo ha parlato anche delle manovra sugli stipendi dei calciatori durante il periodo del Covid: “Per la prima, avevo preparato le buste, 2 per ogni calciatore, in una la riduzione, l’altra per rimetterla firmata“.

Ma non tutti sono stati pagati, come confermato anche dall’argentino Dybala, oggi in forza alla Roma: “La Juve mi deve 3 milioni per gli stipendi del 2021. Ad aprile 2023 ha l’ultima opportunità per pagarli” altrimenti il suo avvocato procederà “anche se io non voglio fare nessuna causa e uscire sui giornali, evitando problemi per me e per la Juventus“.

Estratto dell’artcolo di Sarah Martinenghi per repubblica.it il 3 marzo 2023.

Una busta chiusa, consegnata di persona da Cesare Gabasio […] nella sede della Lega Calcio. Luogo insolito per dare al consigliere neo eletto Stefano Campoccia la side letter che celava il patto occulto con l'Udinese di cui lui è il vicepresidente. Ma il 19 luglio 2018 il legale della Juventus aveva fretta di consegnargli l'impegno di riacquisto.

 Ne chiedono conto i pm che hanno messo sotto scacco la Juve a Maurizio Lombardo, l'ex segretario generale che si occupava dei contratti, prima di essere fatto fuori dopo 9 anni "in 5 minuti", quando il 29 ottobre 2020 gli dicono: "Paolo Morganti è più manager di te". Il 17 febbraio, in procura, Lombardo attacca gli ex colleghi. Così su Paratici: "Aveva smanie di onnipotenza, voleva acquistare giocatori anche tramite altre squadre per ostacolare le altre". E si trasforma nel teste chiave: spiega che alcune società hanno fatto "da banca" per permettere alla Juventus di fare le plusvalenze.

 Ed era proprio lui a custodire le side letter "in una valigetta, sempre con me, anche a casa", perché poteva capitare "anche di notte" di essere chiamato da Paratici. "C'erano quelle del Cagliari, dell'Atalanta.. senza dubbio firmate", gli dicevano "tienile tu" perché "era meglio che non uscissero". Fa importanti ammissioni ai pm che gli chiedono di Cerri, Mandragora, Orsolini, Demiral, Traorè, Mulè, Audero, Peeters.

 Con l'Atalanta snocciola precisi i debiti: "14,5 milioni: 4 per Mattiello, 4 per Muratore, 3,5 per Caldara, 3 per Romero". I calciatori sapevano degli accordi? "Sì, le scritture erano rassicurazioni". Il testo "era predisposto" da Gabasio, "il cui ruolo è cresciuto dopo Marotta, che era più prudente. Dopo di lui non c'era più un'operazione che teneva". Ma il nuovo gruppo di lavoro con "Agnelli, Nedved, Cherubini, Paratici e Gabasio" l'aveva estromesso: "All'epoca ci stavo male, ma oggi ringrazio il cielo".

Le side letter non venivano depositate in Lega: "Altrimenti non si poteva registrare la plusvalenza". Erano uscite nuove regole. "Tutti i direttori sportivi volevano una recompra. Ma non poteva essere registrata la plusvalenza fin tanto che non scadeva la condizione". La spia si accese "con Mandragora all'Udinese per 20 milioni: si rendono conto che con questa recompra non potevano più registrarla subito". Un contratto "strano" […]

Racconta anche delle manovre stipendi: "Per la prima, avevo preparato le buste, 2 per ogni calciatore, in una la riduzione, l'altra per rimetterla firmata". Non tutti sono stati pagati. E anche Dybala l'ha confermato […]

Estratto dell'articolo di Massimiliano Nerozzi per corriere.it il 3 marzo 2023.

Scaricato dalla Juve […] Paulo Dybala potrebbe avere la rivincita, n[…]: dagli atti dell’inchiesta della Procura di Torino sui conti del club, risulta infatti che uno dei legali dell’argentino, l’avvocato Luca Ferrari, «ha avanzato richiesta di risarcimento per il mancato rinnovo contrattuale, con mail del 12 maggio, lettera del 28 luglio e mail del 20 settembre 2022». L’ex numero 10 juventino, ascoltato da un capitano e un maresciallo della guardia di finanza, cade dalle nuvole: «Non ero a conoscenza di questi documenti che non ho mai visto prima». […]Sentito tre giorni fa in Procura dai pm, l’avvocato ha confermato tutto.

In sostanza, secondo la ricostruzione del legale, […] nell’autunno 2021 il contratto tra la Juve e Dybala era praticamente fatto: dopodiché improvvisamente — secondo la sua versione — il club si tirò indietro, per poi prendere Vlahovic, il gennaio seguente. Va da sé, un’operazione era alternativa all’altra. […]

Motivo: «Sicuramente si tratta degli stipendi del 2021 spostati, forse c’è dentro anche qualche bonus». Spiega ancora: «Quando abbiamo fatto l’accordo per lo spostamento delle buste paga, sapevamo che se avevo ancora un contratto, gli stipendi arretrati li pagavano in aumento sugli stipendi successivi, se invece andavo via, mi dovevano pagare tutto subito. So che ad aprile 2023 la Juve ha l’ultima opportunità per pagare questi 3 milioni circa». […] Da amato ex vorrebbe evitare una battaglia legale: «Ho parlato con i miei legali e ho fatto capire loro che ovviamente rivoglio i miei soldi, ma senza fare nessuna causa e senza uscire sui giornali, evitando problemi per me e per la Juventus».[…]

Estratto da open.online il 23 marzo 2023.

Dopo la carta Ronaldo tocca alla carta Dybala. Durante l’interrogatorio dell’ex juventino per l’inchiesta plusvalenze l’avvocato della Joya Luca Ferrari ha parlato di una richiesta record di 54 milioni di euro nei confronti della Juventus. E di una causa che arriverà se entro il mese di aprile i bianconeri non pagheranno gli stipendi arretrati all’attuale giocatore della Roma. 

 (...)

 La Joya e i soldi della Juventus

Dybala, racconta oggi Repubblica, ha sollevato dal segreto professionale il suo avvocato. E Ferrari ha spiegato alla Guardia di Finanza che il giocatore non ha mai in alcun modo rinunciato ai 3,8 milioni di euro che avanza dopo l’ormai famosa «manovra stipendi». Ma il legale ha aggiunto che esiste un altro contenzioso con i bianconeri. Che riguarda il mancato rinnovo del suo contratto con la Juventus. Sembrava fatta, secondo il legale, perché «mancava solo la firma». Di qui la richiesta di indennizzo e l’ultimatum già consegnato alla società. Secondo quanto previsto dalle scritture private tra il club e il giocatore che risalgono al 28 aprile 2021. La cifra di 54 milioni era già stata annunciata alla Juventus nell’aprile 2022 via mail. L’avvocato Ferrari ha chiesto la differenza in cinque anni tra il contratto con la Roma e quanto avrebbe percepito alla Juventus.

Spiegando che la responsabilità è a tutti gli effetti contrattuale. La trattativa era cominciata nell’estate 2021. A ottobre era stata integrata con i soldi della manovra stipendi. A quel punto, secondo la versione dell’avvocato di Dybala, si è aperto un contenzioso sulle commissioni per gli agenti. Nel mese di gennaio arriva il cambio di rotta dei bianconeri. Poi a marzo arriva una proposta molto inferiore rispetto a quella base. E si rompono le trattative. A maggio Ferrari chiede cinque milioni di euro per chiudere entrambi i contenziosi. Ma la risposta è negativa. Arriva una controproposta da tre milioni di euro subito oppure quattro in due anni. Ma senza alcun impegno scritto. Dybala dice no. E si prepara a chiedere 54 milioni alla Juventus. Gli arretrati, nel caso, andranno anche ai suoi eredi.

Dybala dalle lacrime alla causa: vuole 54 milioni dalla Juventus. Giovanni Capuano Panorama (Di giovedì 23 marzo 2023) 

Tra l'argentino e il club volano gli stracci: colpa della manovra stipendi (e del debito non ancora saldato) e della trattativa per il rinnovo sfumata al momento della firma. Con la Joya che ha perso un tesoro finendo alla Roma

Piangeva Paulo Dybala quando lo scorso 16 maggio ha salutato per l'ultima volta il popolo juventino allo Stadium. Lacrime copiose e irrefrenabili che avevano colpito e commosso i tifosi bianconeri, già dividi da un paio di mesi sullo strappo che la società aveva imposto alla trattativa per il rinnovo del contratto in scadenza, iniziata ben prima della tempesta del Covid e terminata con la fredda comunicazione di Maurizio Arrivabene sulla volontà di percorrere sentieri tecnici diversi, leggasi l'investimento su Dusan Vlahovic. Piangeva Dybala e ora viene il dubbio che non lo facesse solo perché attaccato visceralmente alla Juventus e alla sua gente. Le carte dell'inchiesta Prisma della Procura di Torino che stanno procurando una marea di guai alla Juventus e ai suoi dirigenti sputano fuori anche i retroscena della vicenda della (ex) Joya bianconera. Che, pur non essendo entrata in prima persona nella contesa, vuole indietro tutto dal suo vecchio club. Non solo le mensilità non pagate nelle due manovre stipendi finite sotto la lente di ingrandimento dei magistrati, in tutto 3,8 milioni di euro non ancora saldati nonostante gli impegni presi nelle side letter che rischiano di costare una squalifica anche all'attaccante ora della Roma. Il legale di Dybala da mesi ha comunicato alla controparte che nel conto può finire anche la differenza tra la stipendio che l'argentino avrebbe preso a Torino se quella benedetta firma fosse stata formalizzata e la cifra percepita dalla Roma. Non un dettaglio, visto che si parla di 49.497.000 euro che sono il delta tra i 69,652 lordi del quinquennale ipotetico stracciato da Arrivabene e i 20,155 del triennale strappato a Tiago Pinto per sbarcare alla corte di Mourinho. Ufficialmente Dybala non vuole piantare grane alla Juventus, ma agli atti ci sono i movimenti del suo avvocato e il fastidio (eufemismo) della famiglia per il finale della trattativa che si salda con la manovra stipendi cui l'attaccante ha sempre spiegato di aver aderito controvoglia anche per non entrare in rotta di collisione con la società in una fase delicata di discussione. E' probabilmente la prima volta che una trattativa saltata all'ultimo rischia di finire in tribunale nel mondo del calcio sotto forma di richiesta risarcimento danni per mancato guadagno. E' evidente che pesano nel rapporto chiuso male anche le vicende della gestione delle mensilità del periodo del Covid, ma se dovesse veramente finire davanti a dei giudici la storia della trattativa tra il procuratore Jorge Antun, i legali e le dirigenze juventine che si sono susseguite dal 2019 al 2022 (tanto è durato l'affaire) si creerà un precedente interessante. Ad esempio, su quanto possa pesare il tira e molla del giocatore che a lungo ha chiesto un ingaggio quasi fuori mercato quando la Juventus era disposta a firmare per tanti soldi senza, però, riconoscergli lo status di top player mondiale. O quanto incidano le pretese di commissioni e bonus alla firma, ormai quasi una tassa occulta cui i club devono sottostare. Oppure se possano essere quantificati o no i problemi fisici che hanno segnato le ultime due stagioni di Dybala in bianconero: 33 partite saltate tra il 2020 e il 2022. Uno dei parametri che alla fine convinsero Arrivabene a chiudere per sempre.

Ecco la Carta Covisoc consegnata alle difese della Juventus: cosa c’è scritto e perché è importante. Arianna Ravelli su Il Corriere della Sera l’11 Marzo 2023

Il Consiglio di Stato respinge la sospensiva chiesta dalla Figc che consegna subito il documento alle difese di Paratici, ex ds, e Cherubini, dirigente Juventus. Sono 6 pagine in cui si parla di plusvalenze, ma mai della Juventus e sembra mancare la notitia criminis. Il punto è: si può far iniziare l’inchiesta da lì? Se così fosse, la sentenza dei -15 punti non avrebbe rispettato i tempi

La famosa carta Covisoc è ora in mano agli avvocati di Fabio Paratici, ex ds della Juventus, e di Federico Cherubini, dirigente bianconero. L'hanno consegnata i legali della Figc dopo che il Consiglio di Stato oggi ha respinto la richiesta di sospensiva notificata ieri dalla stessa Federazione in cui si chiedeva di annullare i pronunciamenti del Tar che obbligavano gli uffici a consegnare la carta e fissato, per discuterne, la camera di consiglio per il 23. Ma, appunto, le difese della Juventus non hanno avuto bisogno di aspettare quella data perché la carta è già stata consegnata.

Quello che premeva alla Figc, infatti, al di là del contenuto del documento, che poi vedremo e che può risultare, dopo tanto parlare di carta segreta, anche deludente, era sottolineare l'autonomia della giustizia sportiva, la «pregiudiziale sportiva», in base alla quale è consentito rivolgersi al giudice statale solo quando si è completato il giudizio sportivo con il terzo grado e non a metà dell’iter, come avvenuto in questo caso.

La Figc aveva chiesto la misura cautelare monocratica, quindi una decisione con carattere d'urgenza: una volta consegnato il documento alle difese, non era possibile evidentemente tornare indietro. Ma per il Consiglio di Stato, si legge nel pronunciamento firmato dal presidente della V sezione Paolo Giovanni Nicolò Lotti, non sussistono i presupposti per la misura monocratica di «estrema gravità e urgenza», collegata a un danno definibile come «catastrofico» e quindi si può aspettare la camera di consiglio. Superata in qualche modo dalla consegna del documento, come detto, ma dove sarà posto appunto il tema dell’autonomia del procedimento sportivo.

La Carta Covisoc

Ma cosa c'è in questa famosa carta Covisoc, datata 14 aprile 2021, protocollata con il numero 10940? Sono sei pagine inviate dal procuratore Giuseppe Chiné al presidente della Covisoc Paolo Boccardelli (in risposta a una richiesta di chiarimenti inviata il 31 marzo), con in copia il presidente federale Gabriele Gravina, in cui si forniscono appunto chiarimenti interpretativi sulla vicenda plusvalenze e in cui non si nomina mai la Juventus. È un riassunto di come si è espressa la giurisprudenza sul tema. «A fine di fornire un contributo costruttivo e delineare un modus procedendi condiviso con tutte le componenti federali, questa Procura non può che partire dall’analisi della giurisprudenza che, da ultimo, si è formata sul tema delle plusvalenze fittizie», è l’incipit.

È importante perché, secondo gli avvocati della Juventus, da qui bisogna far partire l’inchiesta, retrodatando quindi i termini, cosa che renderebbe fuori tempo massimo la richiesta di revocazione che ha portato alla sentenza dei 15 punti di penalizzazione. È questo uno dei motivi del ricorso dei bianconeri al Collegio di garanzia, ed è per questo che le difese premevano per entrarne in possesso ed è per questo che la decisione del Tar è stata interpretata come un punto segnato dalla Juventus. Ma è tutto da stabilire che il Collegio di garanzia veda in questa carta l’inizio effettivo dell’inchiesta. Per la procura e per la Figc si tratta solo di una scrittura interna di nessuna rilevanza e che non deve rientrare negli atti processuali. L’obiettivo, come detto, era tutelare l’autonomia del procedimento sportivo.

Sei pagine

Ma vediamo che dice la carta una volta per tutte. Si parte considerando casi passati di plusvalenze come quelli relativi agli scambi tra Chievo e Cesena e tra Perugia e Atalanta. Si ricorda per esempio la vicenda della società veneta (penalizzata con 3 punti dal Tribunale federale nazionale) «che ha posto in essere una sistematica operazione di mercato, non già un’episodica operazione, legata al valore attribuito intuitu personae al particolare ipotetico talento riscontrabile in uno o più giocatori, volta inevitabilmente a sopravvalutare i dati di bilancio mediante, appunto, il sistema delle ccdd. “plusvalenze”». Ma, se si considera lecito sanzionare «l’imprudenza di una condotta gestionale» della società, dall’altra parte si ricorda soprattutto perché è stato così difficile arrivare a stabilire valutazioni oggettive dei calciatori, il punto centrale in tutti i procedimenti sulle plusvalenze. «Questo Collegio ritiene, tuttavia, non sia possibile aderire ai criteri di quantificazione operati dalla Procura Federale, condividendo sul punto la tesi difensiva dei deferiti scaligeri, secondo la quale difettano uniformi e oggettivi criteri di valutazione dell’effettivo valore del calciatore».

Una volta ricordati i casi passati (nell’altro caso Perugia-Atalanta terminato con il proscioglimento di tutti i deferiti) c’è la conclusione che dice esplicitamente «ove emergano elementi sufficienti a corroborare la necessità di indagare i casi». Secondo questa frase sembrerebbe che la «notitia criminis» ancora quindi non ci fosse in quella data e quindi sarebbe difficile far partire l’inchiesta da lì. «Sulla scorta di tali considerazioni in diritto, dalle quali questa Procura non può prescindere nell’esercizio delle proprie prerogative inquirenti e requirenti, è evidente che l’esercizio dell’azione disciplinare in questa materia, in una logica metodologica di continuità rispetto alle valutazioni già svolte nelle precedenti fattispecie disciplinarmente rilevanti esaminate, potrà essere utilmente perseguito ove emergano elementi sufficienti a corroborare la necessità di indagare su casi che fanno ragionevolmente ritenere la sussistenza di operazioni di scambio di calciatori fra due o più società professionistiche, in termini di sistematicità delle medesime operazioni di mercato, non già un’episodica operazione, finalizzati a sopravvalutare i dati di bilancio delle medesime società mediante, appunto, il sistema delle ccdd. Plusvalenze. Ritengo, peraltro, che tali considerazioni possano utilmente valere – sotto il profilo metodologico – per ogni fenomeno di elusione dei dati iscritti a bilancio che alterano l’affidabilità degli stessi, pure menzionati nella nota indicata in oggetto».

Da gazzetta.it il 14 marzo 2023.

Stavolta non sono serviti ricorsi. La Figc ha assecondato subito le richieste arrivate ieri sera dai legali di Fabio Paratici e Federico Cherubini, entrambi deferiti nel processo sportivo contro la Juve che ha portato in secondo grado a 15 punti di penalizzazione, consegnando questa mattina la cosiddetta "seconda carta Covisoc" del 31 marzo 2021.

 Si tratta della comunicazione dal presidente della Covisoc Paolo Boccardelli al procuratore federale Giuseppe Chiné che precedeva quella che aveva portato al ricorso al Tar e che secondo gli avvocati bianconeri avrebbe potuto anticipare i tempi procedurali con il rischio di far cadere l'intero iter processuale con annessa sentenza nell'udienza davanti al Collegio di garanzia del Coni.

Anche in questo caso, come per la carta consegnata sabato, la Juventus non è mai nominata e ci si limita a parlare di "situazioni gestionali che meritano un attento monitoraggio" in vista di "potenziali iniziative istituzionali". Non sembra dunque esserci la notitia criminis che la Juve cerca, anche se non era l'elemento centrale delle cento pagine di ricorso bianconero. 

(…)

Inchiesta Juventus, il pm Santoriello lascia dopo le polemiche sulla sua fede calcistica. Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 22 Marzo 2023

Il pm era finito nel mirino del popolo bianconero per alcune esternazioni in occasione di un convegno di 4 anni fa: «Lo ammetto, seguo e sono tifosissimo del Napoli e odio la Juventus»

Lunedì 27 marzo il sostituto procuratore Ciro Santoriello non sarà in aula in occasione dell’udienza preliminare del processo contro gli ex vertici della Juventus, accusati — a vario titolo — di false comunicazioni sociali, aggiotaggio, ostacolo alla vigilanza. La decisione di fare un passo indietro, presa in completa autonomia, arriva a più di un mese dalla bufera social scatenata da alcuni tifosi in relazione alla sua fede calcistica. 

Il magistrato ha comunicato questa mattina — 22 marzo — la propria posizione al procuratore capo Anna Maria Loreto, che ha preso atto della scelta apprezzando «il grande senso istituzionale, la lealtà e l’attaccamento che hanno portato il magistrato ad assumere questa decisione». Il sostituto procuratore Santoriello, grande esperto di reati economici, era finito nel mirino del popolo bianconero per alcune esternazioni in occasione di un convegno di 4 anni fa, in cui si parlava di plusvalenze e bilanci societari. In un contesto a tratti conviviale, aveva detto: «Lo ammetto, seguo e sono tifosissimo del Napoli e odio la Juventus. Come pubblico ministero sono anti-juventino, contro i ladrocini in campo».

Una frase pronunciata nell’ambito di uno scambio di battute con gli altri invitati al convegno e in relazione all'archiviazione di un procedimento che riguardava proprio la Juventus. All’epoca nessuno si scandalizzò, ma nel 2021 — quando il pm è entrato a far parte del pool di magistrati che coordina l’inchiesta sulla Juve — qualcuno ha rispolverato il filmato del 2019 e lo ha diffuso in rete, alimentando così le polemiche. Da qui la decisione di fare un passo indietro. Lunedì 27 marzo, quindi, Santoriello non sarà in aula in occasione dell’udienza preliminare. A portare avanti il procedimento saranno gli altri due magistrati che fino a oggi hanno lavorato all’inchiesta: il procuratore aggiunto Marco Gianoglio e il sostituto Mario Bendoni.

Estratto dell'articolo di Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 26 marzo 2023.

A parte essere un Agnelli, che è già tantissimo, Andrea è tre cose: imprenditore, dirigente sportivo (ex...) e antipatico. Un giornalista che lo tiene in grande stima ha detto di lui: «Non è antipatico per caso, è antipatico per scelta». E forse fa bene. Perché, come si dice nel mondo dello sport, «se sei simpatico significa che stai perdendo».

 Perdente da un punto di vista economico-finanziario (debiti, bond, mega-stipendi, spese pazze), vincente da quello calcistico (nove scudetti di fila, l’apertura dello stadio di proprietà, persino il calcio femminile)- nessuno ha mai messo in dubbio l’amore per la Juventus, un po’ invece le sue capacità manageriali –, Andrea Agnelli di tutti gli Agnelli è il meno Agnelli. Non ha lo stile dell’Avvocato. Non ha l’arguzia dialettica di Umberto, il padre. Non ha il fascino da Principe arabo che aveva Giovanni Alberto, il fratellastro.

Non ha l’inconsistenza di Lapo, il procugino minore. E neppure la cattiveria di John, il procugino maggiore. È educato, gentile, riservato, falsamente sorridente (è piemontese...).

Ha savoir-faire, ma tutti lo avremmo con un capitale sopra gli svariati milioni di euro; ha ambizione, come non puoi non averne se porti quel cognome; ha dedizione al lavoro, tipicamente sabauda. Ma non basta.

 Infatti è anche permaloso (se gli pesti un piede sul pullman se lo ricorda a dieci campionati di distanza). Insicuro (non ti guarda mai negli occhi). Infantile (da cui l’impietoso giudizio di Gigi Riva: «Andrea Agnelli è il bambino che porta il pallone e che pretende non solo di giocare sempre, ma anche di scegliere le squadre»). Cinico (tanto da esaltare il detto di Boniperti «Vincere è l’unica cosa che conta»).

Cocciuto (da cui lo slogan-tormentone «Fino alla fine»: «Siamo gente della Juventus, fino alla fine», «Ti amo fino alla fine, «La Juve prima di tutto, fino alla fine», «Lottare sempre, fino alla fine»).

 (...)

 Padre di troppi, padrone di nulla, monociglio e poliglotta (parla con l’immancabile erre arrotata l’italiano dei piemontesi, il francese degli italiani, l’inglese dei manager e il dialett turines, neeeeeeh), Andrea Agnelli soffre due cose. Il modulo a zona. E il fatto che l’Avvocato avesse indicato i suoi nipoti e non lui come successore dell’Impero, rimanendo una minoranza fra i non Agnelli, schiacciato dall’erede designato del patrimonio, il lupo John Elkann. E ora che Andrea per l’inchiesta sulle plusvalenze fittizie e il falso in bilancio si è dimesso da tutte le società del gruppo – come precipitare da diciannove tituli a nessuna carica - per lui è una doppia sconfitta.

Estratto dell’articolo di Simona Lorenzetti e Massimiliano Nerozzi per corriere.it il 26 marzo 2023.

Tutto inizia da diversi articoli di giornale che sottolineavano plusvalenze da record da parte della Juve: «Dal 30 giugno 2018 al gennaio 2021 – scriverà nella prima annotazione la Guardia di finanza – ne sono emerse per 416.933.597 euro, conseguenza delle operazioni di cessione dei diritti relativi a 71 calciatori». Così, a primavera del 2021, la Procura di Torino apre un fascicolo «modello K», ovvero «atti relativi a fatti nei quali non si ravvisano reati allo stato degli atti, ma che possono richiedere approfondimenti».

 Succede non di rado negli uffici inquirenti, e la maggior parte delle volte il tutto finisce archiviato, senza che nessuno ne sappia alcunché. In questo caso, l’indagine è relativa «a bilanci ed oscillazioni del titolo di società quotata». Non ci sono ipotesi di reato e ancor meno persone indagate.

È il 25 maggio dello stesso anno quando, con una paginetta a firma del procuratore aggiunto Marco Gianoglio e del pm Mario Bendoni, la Procura delega i primi accertamenti al nucleo di polizia economico finanziaria di Torino delle Fiamme gialle.

 Così scrivono i magistrati: «In relazione al procedimento in epigrafe – all’epoca ancora un fascicolo modello K, numero 3160/2021 – si prega di visionare gli atti e di approfondire le operazioni di trasferimento di calciatori poste in essere, in entrata e in uscita, dalla Juventus negli esercizi chiusi al 30 giugno 2018, 2019, 2020, nonché nell’esercizio in corso».

 […]

Il mese successivo arriva la prima annotazione dei militari – 34 pagine che riassumono l’attività di due marescialli della sezione Reati societari e fallimentari e del capitano Vincenzo Piccolo, che la dirige – firmata dal comandante del gruppo Tutela mercato capitali, il tenente colonnello Mauro Silvari.

 […]

 Nel documento si sottolineavano le operazioni «a specchio» e l’ipotesi che «la società potrebbe aver indicato nei bilanci valori di cessione superiori a quelli effettivi al fine di compensare le perdite di esercizio o, comunque, influire sulle stesse».

Come pure si osservava un «costante incremento» di perdite e ammortamenti, e una parallela crescita delle plusvalenze. Il 12 luglio 2021 – emerse nella relazione finanziaria – la Consob avviò poi una verifica ispettiva sul club: tre giorni più tardi, iniziarono le intercettazioni della Finanza.

Processo Juventus, atto primo della maratona (con rinvio). Giovanni Capuano su Panorama il 26 marzo 2023.

Udienza preliminare aperta e rinviata dopo aver accettato le parti civili. Si ricomincia a maggio per discutere la competenza territoriale col rischio che ci si fermi di nuovo per mandare tutto alla Corte di Cassazione

Quasi due anni di inchiesta e una manciata di minuti per il primo atto. Concluso con un rinvio al 10 maggio a testimonianza di come il procedimento sui bilanci della Juventus, nato dalle oltre 15.000 pagine di atti della Procura di Torino a corredo dell'inchiesta Prisma, sarà un'autentica maratona tra perizie, eccezioni e interpretazioni formali dei conti economici del club dal 2019 al 2021. Uno scenario diversissimo rispetto alla celerità con cui la giustizia sportiva ha deciso la stangata da 15 punti per i bianconeri, al vaglio del Collegio di Garanzia del Coni il prossimo 19 aprile. L'atto numero uno si è consumato in una mattinata. il giudice per le udienze preliminari del tribunale di Torino, Marco Picco, ha ricevuto la richiesta di costituzione di parte civile di una cinquantina di azionisti della Juventus - che denunciano di essere stati danneggiati dal modo di agire del management - e della Consob, presente in ragione del suo ruolo di vigilante sul mercato. Assenti, per ora, Agenzia delle Entrate e Figc ed assenti anche tutti gli indagati a partire dall'ex presidente Andrea Agnelli che insieme al club e ad altre 11 persone deve rispondere neo complesso di 15 capi d'accusa tra cui false comunicazioni sociali, ostacolo alla vigilanza Consob, aggiotaggio informativo e false fatturazioni. La richiesta di costituzione come parte civile è stata accolta, così come la chiamata a rispondere di eventuali responsabilità di Juventus e della società di revisione Ernst%Young che negli anni oggetto dell'inchiesta affiancava il club nella certificazione dei bilanci. E' stato l'unico atto prima del rinvio al 10 maggio quando invece sarà il momento di giocare la prima partita di questo campionato nel campionato, quella che deciderà dove l'eventuale processo sarà celebrato. La Juventus infatti vuole che gli atti vengano interamente traferiti da Torino a Milano (sede della Borsa) o Roma (dove ci sono i server cui si serve la Borsa per il trattamento del materiale informatico). La Procura si oppone e lo scenario possibile è che si vada già ai tempi supplementari e cioè che il giudice Picco decida di interrogare direttamente la Corte di Cassazione come previsto dalla recente riforma Cartabia, così da evitare un eventuale azzeramento per vizio procedurale una volta arrivati al terzo grado in giudizio. Significa che è possibile che soltanto in estate inoltrata si saprà se Juventus e gli altri 12 indagati (Agnelli, Nedved, Arrivabene, Paratici, Cerrato, Re, Bertola, Gabasio ed ex consiglieri del cda e revisori dei conti) dovranno andare a processo o se tutto si chiuderà prima. In aula l'accusa si è presentata solo con i pm Mario Bendoni e Marco Gianoglio e senza il discusso Ciro Santoriello, finito al centro delle polemiche per i video di qualche anno fa in cui si dichiarava tifoso del Napoli e soprattutto anti-juventino nello svolgimento della sua funzione. Santoriello aveva annunciato alla vigilia dell'udienza preliminare il passo indietro.

Da ilnapolista.it il 29 Marzo 2023

I processi, per la Juventus, potrebbero diventare tre. Lo scrive Giorgio Marota sul Corriere dello Sport. Domani scade domani il termine per le indagini sul club bianconero. La Procura Figc sembra orientata a chiedere un nuovo processo per la manovra stipendi e le false fatture mentre la questione delle partnership con gli altri club, su cui ora indagano anche altre procure, oltre a quella di Torino, finirebbe in un terzo filone futuro. In caso di deferimento sugli stipendi, la Juventus andrebbe a processo entro fine aprile e l’eventuale sanzione afflittiva arriverebbe già in questa stagione.

 Il quotidiano sportivo scrive: “Domani, dopo due diverse proroghe (40 e 20 giorni), suonerà il gong. E al rintocco della campana tutto quello che sta dentro il fascicolo chiamato “manovre stipendi e manovra agenti” si trasformerà in un avviso di conclusione delle indagini firmato dal procuratore federale Giuseppe Chiné. Le intenzioni sono chiare: non sembra esserci altra strada possibile per la Juve che tornare a difendersi di nuovo in tribunale, dopo una battaglia (non ancora conclusa) sulle plusvalenze e una partita appena cominciata davanti al Gup per i risvolti penali dell’inchiesta Prisma.

 Le partnership considerate “opache” con le altre società – le procure di 6 diverse città (Bologna, Genova, Cagliari, Bergamo, Udine e Modena per il Sassuolo) hanno richiesto a quella di Torino gli atti per competenza territoriale – rimarrebbero fuori dal secondo deferimento e dal successivo processo; secondo quanto filtra, Chiné non dovrebbe includere queste carte nella conclusione delle indagini poiché le indagini parallele delle varie procure della Repubblica sono ancora in corso e da lì potrebbero emergere elementi nuovi, più avanti. E così sarebbero tre i processi a carico della Juve: il plusvalenze-bis (udienza al Collegio di Garanzia il 19 aprile, terzo grado), il “manovre stipendi e agenti” (indagini da chiudere entro domani, daranno vita a un processo di primo grado) e, appunto, le “partnership sospette con le società””.

Estratto dell'articolo di Monica Colombo per il “Corriere della Sera” il 30 marzo 2023.

Mai dichiarazioni furono più intempestive di quelle pronunciate martedì da Fabio Paratici, […] a proposito della separazione consensuale da Antonio Conte: «Abbiamo preso la decisione migliore per tutti». Sono in molti ora in Inghilterra a rimproverare agli Spurs e al presidente Levy una scarsa lungimiranza nell’organizzare l’intervista dal momento che, a distanza di meno di 24 ore e con cinico tempismo, è arrivato il pronunciamento della Fifa.

Secondo il presidente della commissione disciplinare della Federcalcio mondiale l’inibizione dei dirigenti sanzionati dalla giustizia sportiva italiana deve essere estesa a livello globale. Il club londinese non ci sta e chiede «chiarimenti urgenti», contestando le «misure arrivate senza preavviso».

L’inibizione di 30 mesi nei confronti di Fabio Paratici avrà validità anche in Inghilterra, con effetto immediatamente esecutivo. […] Che cosa potrà fare dunque Fabio Paratici nel club londinese, già scosso dopo il terremoto legato al divorzio da Conte? Potrà limitarsi a riunioni interne, ma gli sarà impedito, […] di condurre trattative e contattare agenti e dirigenti per negoziare contratti e trasferimenti.

È il momento più difficile nella carriera del manager che a Torino ha vissuto uno dei cicli più vincenti della storia del club con la striscia dei nove scudetti consecutivi. È l’uomo che ha condotto l’operazione che ha portato, nonostante i dubbi dell’allora ad Beppe Marotta, Cristiano Ronaldo a Torino: l’acquisto che ha mandato fuori giri i conti del club, prima ancora che il Covid appesantisse i bilanci.  Nel 2018, dopo l’addio di Marotta, i poteri di Paratici sono aumentati e con loro la spregiudicatezza (plusvalenze a parte, si ricordi il caso Suarez). Ora dopo aver fatto spendere al Tottenham più di 300 milioni di euro in due anni è costretto a fermarsi […].

Estratto dell'articolo di Giuseppe Scarpa per “la Repubblica - Edizione Roma” il 31 marzo 2023.

Il caso delle plusvalenze dopate del calciomercato approda nella Capitale. Nel mirino degli investigatori c’è la Roma. I pm di piazzale Clodio hanno aperto un fascicolo sull’affare chiuso a ridosso del 30 giugno 2019, giorno di chiusura dei bilanci, tra la Juventus e Roma per lo scambio tra Luca Pellegrini e Leonardo Spinazzola.

 […]L’indagine è affidata al sostituto procuratore Maria Sabina Calabretta. Il pubblico ministero ha ricevuto nei giorni scorsi tutti i documenti dai colleghi torinesi. Un fascicolo corposo in cui sono allegate anche le intercettazioni che avevano da subito insospettito i militari della Guardia di Finanza.

Le conversazioni chiave sono quelle tra il direttore sportivo della Juventus, Federico Cherubini (allora da poco subentrato a Fabio Paratici) e Stefano Bertola, ex direttore finanziario del club bianconero. […]ù

 Ecco lo scambio tra i due. Parte Cherubini: « È stato il mio oggetto di discussione con Fabio tante volte, perché io dicevo... è vero che oggi faremo meno 40 ma così facendo io so già che andiamo dal presidente, diciamo che non si può fa. Fermiamo questa emorragia... cioè, hai attivato una modalità lecita ma l’hai spinta troppo, perché poi hai creato». Bertola replica: «Un fuori giri!». Cherubini ribatte e conferma: «hai fatto un fuori giri! È una coda lunghissima... e che ti ha portato a fare delle operazioni... che altrimenti in un contesto di normalità non puoi fare » .

« Spinazzola – Pellegrini non puoi farlo! » , sottolinea il ds bianconero. hai fatto un fuori giri! È una coda lunghissima... e che ti ha portato a fare delle operazioni... che altrimenti in un contesto di normalità non puoi fare  La cessione alla Roma pesa per 29 milioni e mezzo e ha consentito alla Juventus di iscrivere nel bilancio d’esercizio al 30 giugno 2019 una plusvalenza. L’operazione è avvenuta contestualmente all’acquisto, dalla stessa Roma e nel medesimo giorno, del giovane Pellegrini per 22 milioni. Altra plusvalenza sospetta.

Convocato come testimone, Cherubini aveva dichiarato agli inquirenti che quando parlava di una « modalità lecita spinta troppo » che avrebbe provocato un « fuori giri » alla macchina Juventus, riferendosi a Paratici, avrebbe commentato soltanto l’aspetto tecnico. Perché «Fabio era convinto che Spinazzola si infortunasse ». Adesso si apre il nuovo fronte, quello romano. L’intera operazione è finita sotto la lente d’ingrandimento degli inquirenti. L’inchiesta punta a verificare se anche il club giallorosso abbia commesso degli illeciti ed è appena nata. […]

Estratto dell’articolo di Elisabetta Esposito per gazzetta.it il 4 aprile 2023.

Il Consiglio di Stato ha dichiarato improcedibile il ricorso della Federcalcio contro la decisione del Tar del Lazio sulla carta Covisoc richiesta dalla Juventus per il caso plusvalenze.

 Il 7 marzo il Tar aveva accolto il ricorso presentato dai legali di Paratici e Cherubini disponendo che la Figc condividesse la comunicazione del 14 aprile 2021, su cui la difesa bianconera aveva più volte battuto nella convinzione che potesse alterare i tempi processuali invalidando l’intero percorso (quello che ha portato al -15 con pesanti inibizioni per i dirigenti).

 La Figc aveva a sua volta subito fatto ricorso al Consiglio di Stato che l’11 marzo aveva respinto l’istanza monocratica e fissato l’udienza per il 23 marzo. Oggi la decisione collegiale che, come detto, ha dichiarato il ricorso improcedibile.

(…)

  Le parti sembrano comunque entrambe parzialmente soddisfatte. La Figc vede l’improcedibilità come la mancata conferma della decisione del Tar che rischiava di compromettere seriamente l’autonomia della giustizia sportiva.

 Sul fronte bianconero invece viene vista come un potenziale strumento utile nell’udienza del 19 aprile davanti al Collegio di garanzia del Coni, che deciderà appunto sui 15 punti: al di là del contenuto della carta (in cui la Juve non veniva mai citata), la decisione del Consiglio di Stato non va contro quella del Tar e dunque i bianconeri potrebbero far valere il loro mancato diritto ad avere in mano tutti gli elementi per costruire la propria difesa.

Stipendi e partnership, cosa succede alla Juventus. Giovanni Capuano su Panorama il 12 Aprile 2023.

La Procura Figc contesta al club bianconero (ancora una volta) la "mancata lealtà". Otto riflessioni su cosa può succedere ora nel processo sportivo, anche alle altre società coinvolte

Come ampiamente annunciato e quasi allo scadere dei termini, la Procura della Figc ha notificato l'atto di chiusura delle indagini sui filoni successivi a quello delle plusvalenze, nate dalle carte dell'inchiesta Prisma della Procura di Torino e che vedono la Juventus e i suoi ex dirigenti alle prese con l'ipotesi di reato di falso in bilancio. Un passaggio atteso e che consente ora di avere maggiore chiarezza su quale sia il perimetro in cui si giocherà la prossima e più delicata partita tra la Juventus e la giustizia sportiva, dopo che il Collegio di Garanzia del Coni avrà valutato il ricorso contro la penalizzazione di 15 punti comminata a fine gennaio e che tiene al momento la squadra di Allegri ancora ai margini della zona Champions League. La procura Figc, guidata da Giuseppe Chiné, ha scelto di accorpare in un unico procedimento tutto quanto restava dalle 15.000 pagine arirvate da Torino: le due "manovre stipendi" del 2020 e del 2021, i rapporti con agenti sportivi e quelle che sono state definite già dai magistrati piemontesi le partnership sospette con altre società. La notifica di chiusura indagini, una sorta di predeferimento sportivo, è stata notificata anche ad Andrea Agnelli, Fabio Paratici, Pavel Nedved, Federico Cherubini, Giovanni Manna, Paolo Morganti, Stefano Braghin e Cesare Gabasio. Gli agenti indagati saranno saranno segnalati alla Commissione federale agenti sportivi. Restano fuori, per ora, i club della cosiddetta 'galassia Juventus' perché in mezza Italia ci sono procure che stanno indagando e gli investigatori della Figc si sono riservati per Sampdoria, Atalanta, Sassuolo, Udinese, Bologna e Cagliari la possibilità di valutare le posizioni al termine delle rispettive inchieste. Fuori anche i calciatori che con la Juventus sottoscrissero le due manovre stipendi: rischiavano lunghe sospensioni ma sono evidentemente stati giudicati da Chiné come inconsapevoli di avallare un comportamento illegittimo. Ora la Juventus e gli otto dirigenti avranno tempo 15 giorni per chiedere di essere ascoltati o depositare memorie difensive. Al termine di questo periodo, procura federale sceglierà come procedere tra archiviazione, deferimento e processo o patteggiamento (difficile). Il passaggio della notifica di chiusura indagini ha consentito di scoprire le carte del procuratore Chiné: alla Juventus è stata contestata la violazione dell'articolo 4 del Codice di Giustizia sportiva, quello ormai famoso sulla "mancata lealtà". E' lo scenario potenzialmente peggiore per i bianconeri perché è il grande cappello normativo che consente alla Procura Figc di interpretare e tradurre in pesantezza di penalizzazione l'intero materiale senza puntualizzare sulle singole violazioni. Lo stesso procedimento utilizzato nel processo per revocazione sulle plusvalenze che ha portato al -15 in classifica.

COSA SIGNIFICA L'ATTO DELLA PROCURA FIGC Ora che le carte sono sul tavolo, è possibile fare qualche riflessione su cosa potrà accadere nei prossimi mesi. Sempre ricordando che tutto si interseca con il giudizio del Collegio di Garanzia del Coni sul -15 e su quanto deciderà di fare la Uefa che aspetta notizie dall'Italia prima di prendere una posizione in merito alla partecipazione alle prossime coppe europee.

1 - Non esisterà un terzo processo sportivo perché la Procura Figc (questa è una novità) ha scelto di accorpare tutto quello che restava pendente in un unico pre-deferimento;

2 - Questo secondo e ultimo filone si svolgerà interamente dopo la sentenza del Collegio di Garanzia del Coni ed è chiaro che ne sarà enormemente influenzato. Se il -15 dovesse essere cancellato per vizi di forma nelle motivazioni della Corte federale d'Appello, ad esempio, è assai probabile che venga utilizzato come una sorta di seconda chance per penalizzare duramente la Juventus. Al contrario, in caso di conferma potrebbe semplicemente completare il quadro senza appesantirlo troppo;

3 - E' improbabile che ci possa essere un patteggiamento a fronte di un'accusa così ampia, tra l'altro contestata per la seconda volta su carte che provengono da un'unica inchiesta;

4 - L'impostazione della Procura Figc sembra quella di un organo che persegue come fine ultimo l'afflittività immediata e certa della sanzione alla Juventus. Tornano in mente le parole di Chiné durante il processo per revocazione sulle plusvalenze: i bianconeri devono stare fuori dalla zona Europa. In questo caso potrebbe avvenire a fine campionato e, quindi, in maniera più diretta e semplice anche da motivare rispetto al balletto tra il -9 richiesto e il -15 inflitto di gennaio;

5 - Gli altri club coinvolti nel filone delle partnership devono tremare perché una Juventus stangata anche su quello non potrà non trascinare altri nel gorgo delle penalizzazioni, seppure con sfumature differenti;

6 - I calciatori sono salvi: hanno firmato carte compromettenti a loro insaputa. Difficile da credere, ma Chiné non ha voluto andare oltre sulla posizione dei giocatori. Viene da chiedersi perché siano tutti dotati di studi legali se poi sono trattati alla stregua di ragazzini...

7 - Tutto si chiuderà ben prima di un qualsiasi riscontro da parte della giustizia ordinaria. A maggio si entrerà nel vivo dell'udienza preliminare a Torino, è evidente che la Figc non può aspettare anni per arrivare alle sue conclusioni ma trattandosi di materia tecnica e contabile il rischio che si assume è di validare accuse oggi non ancora riscontrate da periti e giudici terzi in un regolare contraddittorio;

8 - Calendario alla mano, il primo grado del processo sportivo potrebbe iniziare a fine maggio. Poi i tempi per il ricorso in Appello e quelli per il Collegio di Garanzia del Coni. Tradotto, significa che non si riuscirà a chiudere entro il 30 giugno e chissà quando si avrà un quadro definitivo. Bisognerà fare in fretta, molto. E questa storia insegna come la fretta sia stata e rischi ancora di essere una cattiva consigliera. La Juventus ha preso posizione con una nota: "In virtù delle ragioni già illustrate, inter alia, nella Relazione finanziaria annuale al 30 giugno 2022 e nella Relazione finanziaria semestrale consolidata al 31 dicembre 2022, la Società ritiene di aver applicato correttamente i rilevanti principi contabili internazionali, nonché di aver operato nel pieno rispetto del principio di lealtà sportiva. Per maggiori informazioni, si rinvia alle relazioni finanziarie citate, nonché ai comunicati stampa diffusi dalla Società in data 2 dicembre 2022 e 24 marzo 2023".

La giustizia sportiva si conferma una barzelletta. Caso plusvalenze, restituiti 15 punti alla Juve in attesa di nuova valutazione: la nuova classifica di serie A. Redazione su Il Riformista il 20 Aprile 2023

Tutto da rifare e poco importa se il campionato finisce il 4 giugno, tra poco più di un mese con otto giornate da disputare. La giustizia sportiva si conferma una barzelletta: mesi e mesi di indagini per poi tornare nuovamente… a fare nuove valutazioni, i cui esiti rischiano di arrivare al termine della stagione. Il Collegio di garanzia Coni ha accolto il ricorso della Juventus contro la sentenza di 15 punti di penalizzazione per il caso plusvalenze, rinviando gli atti alla Corte Federale di Appello della Figc “perché, in diversa composizione, rinnovi la sua valutazione, in particolare, in ordine alla determinazione dell’apporto causale dei singoli amministratori, fornendone adeguata motivazione e traendone le eventuali conseguenze anche in ordine alla sanzione irrogata a carico della società Juventus F.C. S.p.A.”.

Da oggi – dunque – la Juventus è di nuovo terza in classifica in Seria A a quota 59 punti, alle spalle di Napoli e Lazio ma davanti a Milan, Inter, Roma e Atalanta. Questa la classifica: Napoli 75, Lazio 61, Juventus 59, Roma 56, Milan 53, Inter 51, Atalanta 49, Bologna 44, Fiorentina 42, Sassuolo 40, Udinese, Torino 39, Monza 38, Empoli 32, Salernitana 30, Lecce 28, Spezia 26, Verona 23, Cremonese 19, Sampdoria 16.

LA NUOVA VALUTAZIONE – Ma potrebbe presto riperdere i 15, perderne meno oppure non perderli affatto. Dovrà deciderlo la Corte probabilmente tra fine maggio e inizio giugno.  Il Collegio, inoltre “ha rinviato alla Corte Federale di Appello perché, in diversa composizione, rinnovi la sua valutazione, in particolare, in ordine alla determinazione dell’apporto causale dei singoli amministratori, fornendone adeguata motivazione e traendone le eventuali conseguenze anche in ordine alla sanzione irrogata a carico della società Juventus F.C. S.p.A.”, prosegue il dispositivo

RESPINTO RICORSO AGNELLI – Accolto anche l’appello di Pavel Nedved, Paolo Garimberti e Enrico Vellano, posizioni queste che diventano determinanti secondo il Collegio per la rideterminazione della sanzione da parte della giustizia Figc. Respinti invece i ricorsi di Andrea Agnelli, Fabio Paratici e Federico Cherubini sulle squalifiche precedentemente comminate.

L’ASSISTI DEL PG TAUCER SULLA ‘CARENTE MOTIVAZIONE’ – Ieri la svolta clamorosa, alla vigilia dell’udienza del Collegio di garanzia del Coni sulla legittimità giuridica della penalizzazione di 15 punti inflitta dalla Corte d’appello federale alla Juventus nell’ambito dell’inchiesta sulle plusvalenze, sei in più della richiesta di 9 fatta dal procuratore federale Giuseppe Chiné.

Ad aprire a una nuova valutazione erano state infatti le parole di Ugo Taucer, procuratore generale dello sport, che rappresentava l’accusa. Se infatti in un primo momento del suo intervento Taucer ha sottolineato che “dal punto di vista dei comportamenti della procura federale non ho rilievi che possono essere mossi” e che il suo operato “è stato corretto e condiviso nel giudizio dalla Corte“, è su un punto chiave dell’accusa che arriva la sorpresa.

Il procuratore ha poi auspicato il “rinvio alla Corte d’appello federale con rimodulazione della sanzione” nei confronti del club bianconero, ovvero uno sconto della penalizzazione. Il motivo è presto detto: “Temo – ha aggiunto Taucer – che riguardo all’articolo 4 applicato alla società, sulla carente motivazione riguardo ai punti, un principio di fondatezza delle difese ci sia”.

IL DISPOSITIVO DEL CONI

Prot. n. 00351/2023

Nei giudizi iscritti:

IL COLLEGIO DI GARANZIA DELLO SPORT

al R.G. ricorsi n. 13/2023, presentato, in data 28 febbraio 2023, dalla società F.C. Juventus S.p.A. contro la Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) e la Procura Federale FIGC avverso la decisione della Corte Federale di Appello presso la FIGC, Sezioni Unite, n. 0063/CFA-2022-2023, emessa in data 20 gennaio 2023 e depositata in data 30 gennaio 2023, nell’ambito del procedimento Prot. 15097/233pf21-22/GC/GR/blp e n. 0077/CFA/2022-2023, nei confronti del sig. Fabio Paratici e altri, all’esito del procedimento di revocazione ex art. 63 CGS FIGC, che ha dichiarato ammissibile il ricorso per revocazione e, pertanto, ha revocato la propria pronunzia n. 0089/CFA/2021-2022 del 27 maggio 2022 e, per l’effetto, nel respingere i reclami incidentali, ha accolto parzialmente il reclamo della Procura Federale FIGC avverso la decisione n. 0128/TFN/2021-2022 – Sezione Disciplinare – del 22 aprile 2022 ed ha irrogato, in parte qua, nei confronti della ricorrente, F.C. Juventus S.p.A., la sanzione della penalizzazione di 15 punti in classifica da scontarsi nella corrente stagione sportiva;

al R.G. ricorsi n. 14/2023, presentato, in data 28 febbraio 2023, dal dott. Andrea Agnelli contro la Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) e la Procura Federale FIGC avverso la decisione della Corte Federale di Appello presso la FIGC, Sezioni Unite, n. 0063/CFA-2022-2023, emessa in data 20 gennaio 2023 e depositata in data 30 gennaio 2023, nell’ambito del procedimento Prot. 15097/233pf21-22/GC/GR/blp e n. 0077/CFA/2022-2023, nei confronti del sig. Fabio Paratici e altri, all’esito del procedimento di revocazione ex art. 63 CGS FIGC, che ha dichiarato ammissibile il ricorso per revocazione e, pertanto, ha revocato la propria pronunzia n. 0089/CFA/2021-2022 del 27 maggio 2022 e, per l’effetto, nel respingere i reclami incidentali, ha accolto parzialmente il reclamo della Procura Federale FIGC avverso la decisione n. 0128/TFN/2021-2022 – Sezione Disciplinare – del 22 aprile 2022 ed ha irrogato, in parte qua, nei confronti del ricorrente, dott. Andrea Agnelli, la sanzione della inibizione temporanea di 24 mesi a svolgere attività in ambito FIGC, con richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA;

al R.G. ricorsi n. 15/2023, presentato, in data 28 febbraio 2023, dal sig. Fabio Paratici contro la Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) e la Procura Federale FIGC avverso la decisione della Corte Federale di Appello presso la FIGC, Sezioni Unite, n. 0063/CFA-2022-2023, emessa in data 20 gennaio 2023 e depositata in data 30 gennaio 2023, nell’ambito del procedimento Prot. 15097/233pf21-22/GC/GR/blp e n. 0077/CFA/2022-2023, nei confronti del suddetto ricorrente e altri, all’esito del procedimento di revocazione ex art. 63 CGS FIGC, che ha dichiarato ammissibile il ricorso per revocazione e, pertanto, ha revocato la propria pronunzia n. 0089/CFA/2021-2022 del 27 maggio 2022 e, per l’effetto, nel respingere i reclami incidentali, ha accolto parzialmente il reclamo della Procura Federale FIGC avverso la decisione n. 0128/TFN/2021-2022 – Sezione Disciplinare – del 22 aprile 2022 ed ha irrogato, in parte qua, nei confronti del ricorrente, sig. Fabio Paratici, la sanzione della inibizione temporanea di 30 mesi a svolgere attività in ambito FIGC, con richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA;

al R.G. ricorsi n. 16/2023, presentato, in data 28 febbraio 2023, dal sig. Federico Cherubini contro la Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) e la Procura Federale FIGC avverso la decisione della Corte Federale di Appello presso la FIGC, Sezioni Unite, n. 0063/CFA-2022-2023, emessa in data 20 gennaio 2023 e depositata in data 30 gennaio 2023, nell’ambito del procedimento Prot. 15097/233pf21-22/GC/GR/blp e n. 0077/CFA/2022-2023, nei confronti del sig. Fabio Paratici e altri, all’esito del procedimento di revocazione ex art. 63 CGS FIGC, che ha dichiarato ammissibile il ricorso per revocazione e, pertanto, ha revocato la propria pronunzia n. 0089/CFA/2021-2022 del 27 maggio 2022 e, per l’effetto, nel respingere i reclami incidentali, ha accolto parzialmente il reclamo della Procura Federale FIGC avverso la decisione n. 0128/TFN/2021-2022 – Sezione Disciplinare – del 22 aprile 2022 ed ha irrogato, in parte qua, nei confronti del ricorrente, sig. Federico Cherubini, la sanzione della inibizione temporanea di 16 mesi a svolgere attività in ambito FIGC, con richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA;

al R.G. ricorsi n. 17/2023, presentato, in data 28 febbraio 2023, dal dott. Enrico Vellano contro la Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) e la Procura Federale FIGC avverso la decisione della Corte Federale di Appello presso la FIGC, Sezioni Unite, n. 0063/CFA-2022-2023, emessa in data 20 gennaio 2023 e depositata in data 30 gennaio 2023, nell’ambito del procedimento Prot. 15097/233pf21-22/GC/GR/blp e n. 0077/CFA/2022-2023, nei confronti del sig. Fabio Paratici e altri, all’esito del procedimento di revocazione ex art. 63 CGS FIGC, che ha dichiarato ammissibile il ricorso per revocazione e, pertanto, ha revocato la propria pronunzia n. 0089/CFA/2021-2022 del 27 maggio 2022 e, per l’effetto, nel respingere i reclami incidentali, ha accolto parzialmente il reclamo della Procura Federale FIGC avverso la decisione n. 0128/TFN/2021-2022 – Sezione Disciplinare – del 22 aprile 2022 ed ha irrogato, in parte qua, nei confronti del ricorrente, sig. Enrico Vellano, la sanzione della inibizione temporanea di 8 mesi a svolgere attività in ambito FIGC, con richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA;

al R.G. ricorsi n. 18/2023, presentato congiuntamente, in data 28 febbraio 2023, dai sigg. Pavel Nedved, Paolo Garimberti, Assia Grazioli – Venier, Caitlin Mary Hughes, Daniela Marilungo, Francesco Roncaglio contro la Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) e la Procura Federale FIGC avverso la decisione della Corte Federale di Appello presso la FIGC, Sezioni Unite, n. 0063/CFA-2022-2023, emessa in data 20 gennaio 2023 e depositata in data 30 gennaio 2023, nell’ambito del procedimento Prot. 15097/233pf21-22/GC/GR/blp e n. 0077/CFA/2022-2023, nei confronti del sig. Fabio Paratici e altri, all’esito del procedimento di revocazione ex art. 63 CGS FIGC, che ha dichiarato ammissibile il ricorso per revocazione e, pertanto, ha revocato la propria pronunzia n. 0089/CFA/2021-2022 del 27 maggio 2022 e, per l’effetto, nel respingere i reclami incidentali, ha accolto parzialmente il reclamo della Procura Federale FIGC avverso la decisione n. 0128/TFN/2021-2022 – Sezione Disciplinare – del 22 aprile 2022 ed ha irrogato, in parte qua, nei confronti di tutti i suddetti ricorrenti (Pavel Nedved, Paolo Garimberti, Assia Grazioli – Venier, Caitlin Mary Hughes, Daniela Marilungo, Francesco Roncaglio), la sanzione della inibizione temporanea di 8 mesi a svolgere attività in ambito FIGC, con richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA;

al R.G. ricorsi n. 19/2023, presentato, in data 28 febbraio 2023, dal sig. Maurizio Arrivabene contro la Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) e la Procura Federale FIGC avverso la decisione della Corte Federale di Appello presso la FIGC, Sezioni Unite, n. 0063/CFA-2022-2023, emessa in data 20 gennaio 2023 e depositata in data 30 gennaio 2023, nell’ambito del procedimento Prot. 15097/233pf21-22/GC/GR/blp e n. 0077/CFA/2022-2023, nei confronti del sig. Fabio Paratici e altri, all’esito del procedimento di revocazione ex art. 63 CGS FIGC, che ha dichiarato ammissibile il ricorso per revocazione e, pertanto, ha revocato la propria pronunzia n. 0089/CFA/2021-2022 del 27 maggio 2022 e, per l’effetto, nel respingere i reclami incidentali, ha accolto parzialmente il reclamo della Procura Federale FIGC avverso la decisione n. 0128/TFN/2021-2022 – Sezione Disciplinare – del 22 aprile 2022 ed ha irrogato, in parte qua, nei confronti del ricorrente, sig. Maurizio Arrivabene, la sanzione della inibizione temporanea di 24 mesi a svolgere attività in ambito FIGC, con richiesta di estensione in ambito UEFA e FIFA;

visto l’atto di intervento ad adiuvandum, depositato, in relazione al ricorso iscritto al R.G. ricorsi n. 13/2023, in data 28 febbraio 2023, dal sig. Cosimo Pulpito, in proprio, in qualità di tesserato tifoso “Membership” della F.C. Juventus S.p.A. – nonché in qualità di Presidente dell’Associazione “Juventus Club Taranto Gigi Buffon”;

visto l’atto di intervento ad opponendum, depositato, in relazione al ricorso iscritto al R.G. ricorsi n. 13/2023, in data 31 marzo 2023, dall’Associazione Club Napoli Maradona “L’Avvocato del D10S” e dal Codacons;

PQM

Dichiara l’inammissibilità dell’atto di intervento ad adiuvandum, depositato, in relazione al ricorso iscritto al R.G. ricorsi n. 13/2023, in data 28 febbraio 2023, dal sig. Cosimo Pulpito, in proprio, in qualità di tesserato tifoso “Membership” della F.C. Juventus S.p.A., nonché in qualità di Presidente dell’Associazione “Juventus Club Taranto Gigi Buffon”, e, altresì, dell’atto di intervento ad opponendum, depositato, in relazione al ricorso iscritto al R.G. ricorsi n. 13/2023, in data 31 marzo 2023, dall’Associazione Club Napoli Maradona “L’Avvocato del D10S” e dal Codacons;

Riuniti i ricorsi per connessione oggettiva e soggettiva;

Rigetta i ricorsi iscritti al R.G. n. 14/2023 (Agnelli/FIGC e altri), al R.G. n. 15/2023 (Paratici/FIGC e altri), al R.G. n. 16/2023 (Cherubini/FIGC e altri) e al R.G. n. 19/2023 (Arrivabene/FIGC e altri).

Accoglie i ricorsi iscritti al R.G. n. 17/2023 (Vellano/FIGC e altri), al R.G. n. 18/2023 (Nedved e altri/FIGC e altri) e al R.G. n. 13/2023 (Juventus/FIGC e altri), nei termini e nei limiti di cui in motivazione, e rinvia alla Corte Federale di Appello perché, in diversa composizione, rinnovi la sua valutazione, in particolare, in ordine alla determinazione dell’apporto causale dei singoli amministratori, fornendone adeguata motivazione e traendone le eventuali conseguenze anche in ordine alla sanzione irrogata a carico della società Juventus F.C. S.p.A.

Nulla per le spese.

Dispone la comunicazione della presente decisione alle parti tramite i loro difensori anche con il mezzo della posta elettronica.

Così deciso in Roma, nella sede del CONI, in data 19 aprile 2023.

Il Presidente e Relatore F.to Gabriella Palmieri

Depositato in Roma, in data 20 aprile 2023.

Il Segretario

F.to Alvio La Face

Cinquanta sfumature di giustizia sportiva portano i campionati allo sbando. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 21 Aprile 2023

I bianconeri vincono parzialmente davanti alla corte del Coni e si guadagnano un altro processo di secondo grado. Altre vicende, a Reggio Calabria in serie B e nel basket con Varese, rischiano di spostare i verdetti finali oltre la fine della stagione. Investitori e tifosi non sono più garantiti

Chi pensa che la giustizia ordinaria va male dovrebbe dare un’occhiata alla giustizia sportiva. Il processo sulle plusvalenze gonfiate della Juventus torna in appello per la terza volta. Risultati dei match precedenti: un’assoluzione e una condanna con quindici punti di penalizzazione. Il terzo incontro si occuperà di rimodulare la pena con un meno ics che risulti afflittivo. In parole povere, se i bianconeri saranno qualificati in Champions, cosa probabile, saranno almeno retrocessi in Europa league. Se si piazzeranno in Europa league andranno in Conference.

Il terzo appello non sarà necessariamente decisivo perché la Juve potrebbe tornare al terzo grado del collegio di garanzia del Coni. O potrebbe patteggiare in vista del secondo e più temibile processo, quello sugli stipendi fintamente decurtati durante il picco pandemico.

Altra possibilità molto concreta è che i collegi giudicanti, rinnovati di volta in volta con impiego di nuovo personale - e può diventare un volano occupazionale notevole -, emettano il verdetto definitivo oltre la stagione calcistica 2022-2023.

In pratica, la Juve giocherebbe la prossima Champions benché sub judice da parte della giustizia sportiva.

Se la serie A piange, la serie B non ride. Anche nella serie cadetta c’è rischio di non potere completare la griglia dei playoff perché la Reggina, penalizzata di tre punti perché il tribunale le ha vietato di pagare i contributi in modo da concedere il concordato secondo la legge Salva Imprese del 2022, ricorrerà fino al Coni e, in seguito, al Tar e al Consiglio di Stato con tempi che rischiano di essere molto più lunghi del termine della stagione, fissato al 30 giugno. 

Un terzo caso riguarda la Pallacanestro Varese sommersa da un -16 in classifica per una vicenda residuale riguardante il pagamento in ritardo di un giocatore, la meteora Milenko Tepić, ingaggiato nel lontano 2018-2019 e scartato dopo tre partite. Anche in questo caso, il club lombardo ha annunciato ricorso in appello contro una sentenza che ha portato la squadra dalla zona playoff al fondo della classifica con rischio fondato di retrocessione.

Sullo sfondo di queste tre vicende si muovono, a livelli economici diversi, realtà imprenditoriali che investono milioni di euro, centinaia di milioni per il club degli Agnelli, sui club sportivi professionistici. Il minimo che possano pretendere finanziatori e tifosi è la certezza del diritto.

In questo quadro non sono più accettabili due elementi. Uno è il conflitto della giustizia sportiva con quella ordinaria. Deve essere chiaro che lo sport gode di autonomia ma non di extraterritorialità. L’altro aspetto è che i processi infiniti, con tre gradi di giudizio che diventano cinque o sei, sono già discutibili quando si tratta di vicende a livello di corte di assise, e il caso della coppia Rosa-Olindo ne è la conferma, con il tentativo di riscrittura in extremis di una sentenza già acquisita oltre ogni ragionevole dubbio.

Ancora più inaccettabile è l’incertezza nel caso della giustizia sportiva dove, in linea di massima, la sanzione individuale non riguarda la libertà dell’individuo ma, al massimo, la chiusura delle porte di uno stadio.

Se la Juventus o la Reggina o la Pallacanestro Varese hanno commesso un illecito sportivo, devono essere sanzionate in tempi ragionevoli e con una procedura che non può scimmiottare quella del processo penale che, in ogni caso, dura meno perché non ha la coda dei tribunali amministrativi.

Se no, si facciano le cose per bene e si costituisca un Csm dello sport con tanto di procedimenti disciplinari per i giudici poco virtuosi.

Si fa per dire. Questo va aggiunto in fretta, prima che qualcuno possa prendere sul serio la proposta. Per quanto, anche quelli sarebbero posti di lavoro in più.

La surreale giustizia sportiva.  La criptica decisione del Coni e il precedente Meani a favore della Juve. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 22 Aprile 2023

La prudenza decisionale del collegio di garanzia non aiuta a fare chiarezza nella decisione sul caso plusvalenze. Ma la decisione presa nel 2006 a favore del Milan, otto punti di penalizzazione l’anno successivo, fa sperare la difesa bianconera 

La decisione del collegio di garanzia del Coni, definita «criptica» da uno dei difensori della Juventus, ha smentito certi facili ottimismi della vigilia, che pronosticavano il totale annullamento delle sanzioni ma anche le richieste dello stesso Procuratore generale del Coni, il quale aveva pur sempre richiesto la rivisitazione da parte di un nuovo giudice di tutta la sentenza, seppur limitatamente alle carenze della motivazione delle condanne inflitte dalla Corte Federale.

Prudenza impone di rinviare ogni commento alla pubblicazione delle motivazioni, ma la particolare struttura del dispositivo emesso ieri dal collegio suscita una prima riflessione che poi andrà approfondita.

Come tutti hanno sottolineato, il rigetto dei ricorsi di Andrea Agnelli, Maurizio Arrivabene, Federico Cherubini e Fabio Paratici cala il sipario sulle speranze di cancellazione degli addebiti legati all’accusa di slealtà sportiva (ex art. 4 del codice di giustizia sportiva), alla base della grave sanzione di 15 punti di penalizzazione inflitta al club.

Le Sezioni unite, presiedute da Gabriella Palmieri Sandulli, hanno con certezza superato tutte le questioni legate alla legittimità del giudizio di revisione e della nuova contestazione di slealtà sportiva.

In particolare, hanno ritenuto configurabile l’illecito previsto dall’art. 31 del medesimo codice, con riferimento alla contabilizzazione delle plusvalenze sportive nelle cosiddette «operazioni di compravendita a specchio», che sino a oggi anche diverse pronunce in sede di giustizia ordinaria hanno ritenuto prive di rilevanza penale.

Sotto questi profili la decisione del collegio del Coni stabilisce un precedente innovativo e vincolante per il futuro, soprattutto in riferimento al principio di legalità e di prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie riguardanti condotte pur non espressamente previste dalle norme, ma che ledono i principi decoubertiniani dell’ordinamento sportivo, in linea con la definizione formulata dal presidente della Corte federale Torsello, la cui sentenza è stata annullata.

La definitività delle condanne dei vertici apicali della vecchia Juventus si riflette sicuramente sulla posizione della società a titolo di responsabilità oggettiva, giacché è pacifico che le condotte sleali siano state dei vantaggi per la società.

Eppure, la formulazione generica e sibillina del dispositivo, al momento lascia spazio ad ampi margini di interpretazione.

L’inaspettato e sorprendente fulcro della decisione, infatti, riguarda la separazione delle posizioni di Agnelli e dei suoi stretti collaboratori, da quella degli altri membri del board juventino, che dovranno essere nuovamente giudicati «in ordine alla determinazione dell’apporto causale dei singoli amministratori, fornendone adeguata motivazione e traendone le eventuali conseguenze anche in ordine alla sanzione irrogata a carico della società Juventus F.C. S.p.A.».

Ciò che vuol dire il collegio è che è necessario accertare l’eventuale responsabilità degli altri membri del Cda e specificamente se gli stessi fossero non solo a conoscenza, ma anche in grado di individuare gli illeciti commessi dai vertici.

È la regola fissata nel diritto societario dalla Cassazione dell’agire informato degli amministratori, che possono rispondere dei reati societari solo nel caso ne siano stati informati (ecco spiegato il richiamo all’apporto causale).

Sempre secondo il dispositivo, non chiarissimo, tale circostanza dovrà avere delle «eventuali conseguenze anche in ordine alla sanzione irrogata a carico della Juventus». In poche parole, se i vertici della società hanno agito all’insaputa degli altri membri del Cda e degli stessi organi di controllo interni, bisogna accertare se esista una responsabilità anche a titolo di negligenza di questi ultimi o se l’inganno fosse inevitabile. In quest’ultimo caso bisognerà valutare fino a che punto la società debba risponderne sotto forma di sanzioni.

È noto che anche le società sportive sono sottoposte alla legge sulla responsabilità penale degli enti, la 231/01, sia pure limitatamente al reato di frode sportiva (mentre non sono contemplati gli illeciti del codice sportivo) per cui sono tenute a darsi modelli organizzativi di efficace controllo e prevenzione contro gli illeciti commessi dai suoi legali rappresentanti, in presenza dei quali possono attenuare (se non escludere) le conseguenze sanzionatorie legate ai reati commessi dagli amministratori.

È da ricordare come gli azionisti di riferimento della Juventus abbiano imposto immediatamente le dimissioni dell’intero board, procedendo alle correzioni di bilancio richieste dalla Consob e anche come processualmente il club abbia distinto la propria posizione da quella degli ex amministratori con diversi difensori.

Questo sarà il punto dirimente del nuovo giudizio. Sotto tale profilo esiste un importante precedente, familiare ai tifosi milanisti di buona memoria: il canone Meani. Costui era un ristoratore a cui il Milan di Silvio Berlusconi e Adriano Galliani aveva delegato eufemisticamente i rapporti con gli arbitri durante l’epoca Calciopoli. Alcune sue eloquenti telefonate portarono il Milan sull’orlo della serie B durante il processo, ma la Corte federale, anch’essa presieduta da uno dei tanti Sandulli (Piero) che popolano il panorama del diritto pubblico italiano, stabilì che il Milan venisse retrocesso al quarto posto (dal secondo) in campionato e dunque “condannato” ad affrontare il turno preliminare di Champions League e a una sanzione di otto punti da scontare l’anno successivo. Il Milan vinse la Champions, e quel precedente resta.

Disordine sportivo. Le strane motivazioni del Coni sulla Juventus e le prospettive di un caso ancora aperto. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta  maggio 2023.

La sentenza rivela un paio di torsioni pericolose sul principio di legalità: una sul fair value e la liceità delle operazioni a specchio, l’altra sul fatto che il club è stato condannato per fatti diversi da quelli per cui era stato in origine incolpato

Criticare le sentenze che danno torto è uno degli hobby preferiti degli avvocati. Non serve a molto ma attenua l’ulcera, aiuta a capire gli errori – quando ce ne sono – e soprattutto l’aria che tira. Per la Juventus, bruttissima: il Collegio di garanzia del Coni, l’equivalente nel diritto sportivo della Corte di Cassazione per la giustizia ordinaria, ha pubblicato le motivazioni della sentenza con cui ha ratificato l’operato della Corte di Appello federale e del procuratore Giuseppe Chinè per quanto riguarda la colpevolezza del club torinese e dei suoi vertici in ordine a tutte le accuse mosse sul caso plusvalenze.

E dunque piena responsabilità, non solo per l’alterazione dei bilanci ma anche e soprattutto per violazione del principio di lealtà sportiva (il famoso e stracitato art. 4 del codice di giustizia sportiva).

Di più: ha tenuto a sottolineare, il collegio, in uno dei passaggi della sentenza, che vi è piena consonanza tra il codice adottato dal Coni e regolamenti delle singole federazioni, sicché è inutile confidare per i club “ribelli” in una qualche vaga differenza di posizioni per quanto riguarda la politica giudiziario-sportiva, un messaggio chiarissimo per darsi una regolata anche in futuro.

Tuttavia ad «una prima lettura» (come dicono i giuristi) la sentenza rivela un paio di torsioni pericolose che allontanano il diritto sportivo dal processo di progressivo avvicinamento – che sembrava volesse imboccare – ai principi che regolano il giusto processo e le sentenze delle corti europee in tema di tutela dei diritti individuali.

Due i punti delicati che investono il principio di legalità – cioè il diritto che gli stati democratici riconoscono ai propri cittadini di avere chiara la conseguenza eventualmente illecita delle proprie condotte prima di porle in atto.

Nel caso della Juventus, come noto, il punto cruciale era l’illiceità delle cosiddette operazioni a specchio di compravendita dei giocatori, quelle che consentivano – la pratica non sarà più possibile in futuro – di ammortizzare in più anni di bilancio il prezzo di acquisto di un giocatore altrui ma di portare subito in attivo il prezzo di vendita del proprio con immediato sollievo della contabilità. Il collegio di garanzia ha confermato che violano i criteri posti dal paragrafo 45 dello IAS 38 (International Accounting Standard) un protocollo di riferimento per i criteri di valutazione dei beni immateriali, come sono le prestazioni degli atleti.

La norma prevede che «il costo di tale attività immateriale è valutato al fair value (valore equo) a meno che a) l’operazione di scambio manchi di sostanza commerciale, o b) né il fair value (valore equo) dell’attività ricevuta né quello dell’attività ceduta sia misurabile attendibilmente. Se l’attività acquistata non è valutata al fair value (valore equo), il suo costo è commisurato al valore contabile dell’attività ceduta».

Messa così, una dichiarazione di puro principio (checché ne pensino alcuni giuristi della domenica sportiva), non applicabile alla valutazione di beni immateriali come le prestazioni sportive per cui il fair value non è possibile salvo prendere per Vangelo le valutazioni del Fantacalcio o dei siti sportivi.

Infatti, riconosce la stessa sentenza, la prima precisa definizione della illiceità delle operazioni a specchio è stata fornita da una delibera della Consob adottata dopo i controlli sulla contabilità che ha definito tali compravendite come vere e proprie «permute» che vanno contabilizzate a «costo zero» e non separatamente.

Aggiungiamo che la cosa era tutt’altro che pacifica, al punto da indurre il governo italiano – su impulso del ministro dello Sport – a varare in tutta fretta dentro il decreto “mille proroghe” una norma ad hoc poi ritirata per difetto delle condizioni di urgenza.

Dunque non esisteva alcuna espressa regolamentazione sulla valutazione degli scambi che potesse definire i contorni dell’illecito da plusvalenza prima che si pronunciasse la Consob, e oggi il giudice sportivo. Nel “mondo di fuori” una grave violazione di un principio fondamentale.

Il secondo punto altrettanto grave concerne il fatto che la Juventus, tramite una procedura di revisione di una prima sentenza di assoluzione, è stata condannata per fatti nuovi e diversi da quelli per cui era stata in origine incolpata.

Al club era inizialmente contestato un mero illecito amministrativo (1 comma art. 31) punito con la sola sanzione pecuniaria, trasformato poi in illecito sportivo dopo l’acquisizione degli atti di indagine della procura di Torino.

Il collegio riconosce tale mutamento, ma lo ritiene legittimo come espressione del diritto del giudice sportivo a dare una qualificazione giuridica autonoma dei reati anche se divergente dall’accusa formulata dalla procura.

Ebbene, con il dovuto rispetto, tale principio nel diritto ordinario è considerato come una violazione del diritto di difesa da almeno un decennio, allorché con nota sentenza (Drassich vs Italia) la Corte europea dei diritti umani sanzionò giudice italiano che aveva cambiato nel processo di appello il tipo di reato per il quale l’imputato era stato condannato. Si noti: in un giudizio di appello, mentre nel caso della Juve ciò è avvenuto addirittura in una procedura straordinaria di revisione.

Si dirà che tutto ciò è frutto del conclamato principio di autonomia dell’ordinamento sportivo rispetto a quello della giustizia ordinaria, ma qui il discorso si fa delicato e preannuncia futuri aspri contenziosi.

Sia il Tar sia il Consiglio di Stato – cui hanno preannunciato si rivolgeranno alcuni dei condannati – con diverse pronunce, di cui qui si è scritto, ha ribadito che (autonomia o no) tutti i vari ordinamenti particolari, compreso quello sportivo, devono rispettare i principio e i diritti fondamentali dei cittadini: il principio di legalità, oltre che quello di difesa, rientra nel novero.

Sul punto, la sentenza manifesta un qualche imbarazzo – se non un vero e proprio contrasto – tra i giudici del collegio che hanno accolto i ricorsi di Pavel Nedved ed altri amministratori sul presupposto che non sia provato che gli stessi fossero informati sulla natura illecita delle transazioni.

Eppure la pratica delle plusvalenze era diffusa e nota non solo nella Juventus – che pure è l’unica a risponderne. Difficile spiegare il doppio registro, se non come espressione di un dubbio che deve aver attraversato il collegio.

Incertezza che sembra investire la posizione della stessa società, cui si riconosce di avere predisposto un modello organizzativo anche se non avrebbe fornito dati sulla sua efficacia e con ciò aprendo una strada per il futuro ai club coinvolti per responsabilità dei propri tesserati in ordine all’allenamento del principio di responsabilità oggettiva.

È probabile che si siano volute attenuare le conseguenze sanzionatorie cercando un compromesso, magari differendo la punizione alla prossima stagione.

Insomma, il caso non è chiuso: oggi va registrato l’arroccamento dell’ordinamento sportivo su se stesso ed è facile intuire il messaggio in filigrana ai grandi club che volessero coltivare eccessive ambizioni di autonomia. È da vedere quanto la cittadella resisterà al mondo di fuori che bussa. E non è un discorso che possa limitarsi ai bilanci.

Estratto da gazzetta.it il 26 aprile 2023.

"Secondo varie fonti che mi hanno parlato in condizione di anonimato, il posto di lavoro è sempre stato disfunzionale. 'Agnelli pensa di essere un visionario', mi ha detto un ex dirigente, 'ma è un sociopatico. Un completo maniaco del controllo' ". Così scrive The Guardian in un lunghissimo articolo a firma Tobias Jones in cui ripercorre tutte le tappe della recente storia juventina fino alle vicende giudiziarie che hanno coinvolto il club negli ultimi mesi: la penalizzazione, l’inchiesta Prisma, le dimissioni del blocco dirigente. Il giornalista britannico fa un excursus molto approfondito di tutte le vicende che hanno portato alla situazione attuale compreso il crescente potere politico di Andrea Agnelli all’interno dell’Uefa e il suo rapporto strettissimo con Ceferin.

Ma i giudizi affilati citati dal Guardian non sono solo per Agnelli. Ce n’è anche per Fabio Paratici, descritto dal giornalista, riportando una fonte interna al club, come "Un tipo carismatico, molto socievole. Un tipo divertente, sorrideva sempre. Si vedeva che gli piaceva la bella vita, far parte dell’alta società, circondato da belle donne".

Stipendi e club amici, nuovo deferimento per la Juventus. Giovanni Capuano su Panorama il 19 Maggio 2023

Il procuratore della Figc ha depositato la richiesta di processo per il club e 7 dirigenti. L'ipotesi è ancora la mancanza di lealtà sportiva. Mancato accordo (per ora) sul patteggiamento

La Procura della Figc ha rotto gli indugi e ha depositato il deferimento per la Juventus e per 7 dirigenti in relazione al secondo filone dei processi sportivi nati dall'inchiesta della Procura di Torino sui bilanci del club bianconero. Una mossa a sorpresa almeno dal punto di vista dei tempi, visto che l'attesa era che non si muovesse nulla prima del nuovo verdetto della Corte federale d'Appello chiamata lunedì prossimo a dire una parola definitiva sulla rimodulazione del -15 inflitto nel gennaio scorso per la vicenda plusvalenze. Il procuratore capo della Figc, Giuseppe Chiné, ha anticipato i tempi e deferito al Tribunale Federale Nazionale la Juventus, a titolo di responsabilità diretta e oggettiva, ai sensi dell'articolo 6 del Codice di Giustizia Sportiva e i dirigenti (a partire dall'ex presidente Andrea Agnelli) per violazione dell'articolo 4. Quello ormai celebre che evoca il rispetto della "lealtà sportiva". Un'accelerazione dettata dalla mancanza di un accordo sul patteggiamento, previsto dal Codice. Da settimane i legali del club bianconero e la Procura Figc ne parlavano ma su posizioni troppo distanti: solo un'ammenda da affiancare alla penalizzazione per la vicenda plusvalenze era la richiesta della Juventus mentre per Chiné serviva (e serve) anche un nuovo intervento sul piano sportivo in considerazione della portata delle accuse. La mossa di depositare i deferimenti stringe il sentiero che porta al patteggiamento anche se non lo esclude del tutto, essendo possibile anche in un secondo momento sempre previa l'accettazione da parte del Presidente della Federcalcio e della Procura Generale del Coni.

Cosa significa in concreto? Che l'impostazione della Procura federale, partendo dall'evocazione dell'articolo 4 sulla mancanza di lealtà sportiva così come nel primo filone, porta a ritenere che la volontà sia quella di arrivare a una nuova penalizzazione da scontare nella prossima stagione sportiva visto che un eventuale processo non potrà concludersi entro la fine di giugno. Nessuna apertura verso ipotesi differenti, almeno per ora. Anche perché la lettura delle motivazioni del Collegio di Garanzia del Coni sul primo atto delle vicende giudiziarie juventine ha rafforzato la posizione di Chiné. Molto sarà chiaro dopo il nuovo e definitivo verdetto sulle plusvalenze. Il Collegio di Garanzia del Coni ha rimandato la questione alla Corte federale d'Appello dopo aver assolto alcuni dirigenti, tutti senza potere di firma, per mancanza di motivazioni, chiedendo ai giudici di rivalutare il loro impatto nel dosaggio delle pena alla società. L'idea è che possa esserci uno sconto pur mantenendo inalterato il principio dell'afflittività, manovra non semplice essendo il campionato ancora in corso e la Juventus posizionata alle spalle del Napoli e con un vantaggio notevole sulla zona Champions League e sulla zona Europa. Sul club pende sempre anche la spada di Damocle del giudizio della Uefa che ha a sua volta aperto un fascicolo di indagine in attesa del pronunciamento della giustizia sportiva italiana. Il nuovo deferimento riguarda tutti i punti dell'inchiesta ereditata dall'indagine Prisma di Torino. Ci sono le manovre stipendi del 2020 e 2021 nelle quali, secondo l'accusa, la Juventus e i suoi dirigenti avrebbero omesso di depositare gli accordi già presi per la restituzione di 3 delle 4 mensilità scontate durante la pandemia Covid. Una parte è dedicata a rapporti considerati irregolari con alcuni procuratori e agenti e il terzo filone è riferito alle partnership sospette con altre società. Secondo la Procura Figc le alleanze di mercato con Sampdoria, Atalanta, Sassuolo, Udinese, Bologna e Cagliari avrebbero prodotto una serie di "accordi confidenziali senza provvedere al deposito della relativa modulistica federale presso la Lega di Serie A" alterando così la leale competizione. Va ricordato che il deferimento non riguarda le altre società menzionate solo perché su di esse sono state avviate ulteriori indagini da parte delle rispettive procure della Repubblica il cui materiale verrà poi richiesto dalla Procura Figc una volta...

Juventus, meno 10 punti. Ma la partita si apre adesso.  Giovanni Capuano su Panorama il 23 Maggio 2023

Bianconeri a quota 59, poi il crollo con l'Empoli che cancella le residue speranze di qualificazione Champions. Dopo le motivazioni la decisione su un eventuale ricorso al Collegio di Garanzia del Coni

Dieci punti di penalizzazione, un verdetto che scaraventa la Juventus ai confini della zona Europa e chiude definitivamente (anche se ci sarà un altro passaggio al Collegio di Garanzia del Coni) il lungo processo sulle plusvalenze bianconere. Meno 10 che significa per la squadra di Massimiliano Allegri ritrovarsi a quota 59 punti dietro a Roma (60), Atalanta (61) e Milan (64). Una stangata superiore al -9 richiesto a gennaio dalla Procura della Figc durante l’udienza per revocazione e inferiore al -15 inflitto allora dalla Corte presieduta dal giudice Torsello e poi rimandata per nuova definizione dopo il passaggio al Collegio di Garanzia del Coni. Certamente una mazzata resa ancora più dura dal crollo in campo contro l'Empoli. La penalizzazione, infatti, aveva lasciato intatta la chance di prendersi il pass per la Champions League in caso di percorso netto nelle ultime tre giornate del campionato. Finestra chiusa dal crollo al Castellani che è stato emotivo prima che tecnico. E ora la situazione dei bianconeri si è ulteriormente complicata anche nella gestione del secondo filone del processo sportivo. La Corte federale d'Appello ha invece prosciolto Pavel Nedved e gli altri 6 dirigenti bianconeri componenti del cda ma senza deleghe.

Juventus Football Club prende atto di quanto deciso poco fa dalla Corte d’Appello della FIGC e si riserva di leggere le motivazioni per valutare un eventuale ricorso al Collegio di Garanzia presso il CONI. Quanto statuito dal quinto grado di giudizio in questa vicenda, iniziata… Mostra altro 8:42 PM · 22 mag 2023 6.448 Rispondi Condividi Leggi 2.171 risposte Per settimane si è dibattuto intorno al concetto di afflittività della pena, da scaricare su questa stagione sportiva o in ipotesi da traslare sulla prossima. A gennaio la ratio del -9 richiesto dal procuratore capo Giuseppe Chiné, inasprita dalla Corte, era stata mettere la Juventus fuori dall’Europa con una ragionevole certezza. La sentenza-tris sulla carta non garantiva nulla, nemmeno che i bianconeri non si potessero qualificaer per la prossima Champions League sul campo. In linea puramente teorica, scontato il -10 e battendo l’Empoli in una partita che si è giocata con la surreale cappa del verdetto di Roma, la Juventus avrebbe potuto arrampicarsi fino a 68 punti, superando nel confronto diretto il Milan e costringendo i rossoneri a sperare perché potrebbe non sarebbe bastato vincere l’ultima contro il Verona in corsa per non retrocedere. La Roma si era fatta fuori sciupando la sua chance con la Salernitana mentre l’Atalanta era dietro anche negli scontri diretti. La caduta di Empoli ha inasprito il -10 e spedito la Juventus al settimo posto della classifica che non è detto possa valere nemmeno la Conference League nel complesso intreccio di scenari che comprende anche le finali italiane in Europa e quella della Coppa Italia con protagoniste Inter e Fiorentina. Un vero caos che interseca con le valutazioni anche dei legali bianconeri.

L’udienza davanti alla Corte federale d’Appello presieduta da Ida Raiola, presidente della sezione interna del Tar del Veneto, è durata poco meno di tre ore. Poi la camera di consiglio e il verdetto. Le motivazioni saranno pubblicate nelle prossime settimane: a gennaio ci vollero 10 giorni per avere accesso al ragionamento che aveva portato al -15. E’ probabile che la Juventus si appellerà nuovamente al Collegio di Garanzia del Coni. In un comunicato il club si è detto amareggiato per la sentenza e ha rimandato ogfni decisione alla lettura delle motivazioni. In generale pesa il mancato accordo sul secondo filone, quello relativo a stipendi, partnership sospette e rapporti con gli agenti: l'udienza davanti al Tribunale federale è stata fissata per il 15 giugno con l'obiettivo di arrivare al primo verdetto entro la fine della stagione. La vera partita si apre adesso. La scelta della Procura Figc di ufficializzare il deferimento della Juventus e dei suoi (ex e attuali) manager per il secondo filone, ufficializzata venerdì scorso in anticipo rispetto a quanto atteso, non ha chiuso all’ipotesi del patteggiamento. I dialoghi non sono stati proficui e non hanno portato a un accordo che soddisfacesse in pieno Procura Figc, Juventus e Procura generale dello Sport presso il Coni: il sentiero si fa più stretto ma sempre possibile. Ad oggi lo scenario è quello di un nuovo processo con eventuale penalizzazione da scaricare sull’attuale campionato senza trascinamenti futuri. Possibile? Sì. Sicuro? No perché la giurisprudenza in materia è contraddittoria. Soprattutto la manovra stipendi, però, rappresenta terreno minato per i legali bianconeri: l’accusa contesta 17 irregolarità tra il 2020 e il 2021, una quantità che potrebbe spingere Chiné a calcare la mano in sede di richiesta di penalizzazione che è l’orientamento più probabile vista la contestazione dell’ormai celebre articolo 4 sulla slealtà sportiva che è contenuta nel dispositivo di deferimento per i dirigenti (da Andrea Agnelli a scendere) con la Juventus chiamata a rispondere “per responsabilità diretta e oggettiva”. Un accordo potrebbe essere conveniente per il club e, se l’esito del -10 sulle plusvalenze avesse ottenuto nel frattempo il raggiungimento dell’afflittività, potrebbe anche trovare meglio disposto il procuratore Chiné uscito fin qui vincitore dai processi sportivi. Rimane poi lo scoglio della Uefa. Nyon non vuole la Juventus nelle coppe europee, tanto meno in Champions League, come ha ribadito anche Evelina Christillin in un intervento a udienza da celebrare che è parso poco opportuno perché fatto da un membro della stessa Uefa. Un intreccio di questioni giudiziarie, economiche (in gioco c’è il settlement agreement trovato per rientrare nei paletti del Fair Play finanziario) e politiche, con la disputa sulla Superlega sullo sfondo. Il presidente della Uefa, Aleksandr Ceferin, si attendeva dalla “nuovo” Juventus una dissociazione formale rispetto alle scelte di Andrea Agnelli che non è mai arrivata. Tra qualche settimana la Corte di Giustizia UE renderà pubblico il suo verdetto sul monopolio di Uefa e Fifa.

Una Juventus fuori dall’Europa come effetto delle sentenze della giustizia sportiva italiana sarà sufficiente per Ceferin? O esporrà i bianconeri all’effetto domino di più stagioni lontano dall’Europa e dai suoi ricavi che tengono in piedi i bilanci?

L’unico a vincere sempre lo scudetto è Azzeccagarbugli. Con la penalizzazione alla Juve la giustizia sportiva ha trasformato i colpevoli in vittime. Ivan Zazzaroni (direttore Il Corriere dello Sport) su Il Riformista il 25 Maggio 2023 

Il caso plusvalenze e la nuova penalizzazione inflitta alla Juventus (-10) protagonista del “Si&No” del Riformista. Due opinioni differenti: favorevole alla penalizzazione, che ritiene legittima perché la differenza con le altre società sta nelle prove lasciate, il giornalista nonché tifoso bianconero Federico Ruffo. Contrario invece il direttore del Corriere dello Sport Ivan Zazzaroni secondo cui “sarebbe stato sufficiente e opportuno congelare le sentenze fino al termine del torneo e armonizzare le varie inchieste, così da emettere un verdetto complessivo, chiaro e definitivo“.

Qui l’opinione di Ivan Zazzaroni:

Sarebbe bastato un minimo di buonsenso. Lo ha scritto il Corriere dello Sport martedì con Alessandro Barbano, lo ha ripetuto ieri il Corriere della Sera con Massimo Gramellini. Sarebbe stato sufficiente e opportuno congelare le sentenze fino al termine del torneo e armonizzare le varie inchieste, così da emettere un verdetto complessivo, chiaro e definitivo.

Invece, a livello sportivo, si ripropone in forma grottesca il vizio che tanti imprenditori stranieri e semplici cittadini imputano alla nostra giustizia ordinaria: l’incertezza e l’illogicità dei meccanismi processuali, che paralizzano qualsiasi iniziativa e soffocano il desiderio di investire soldi ed emozioni in un paese dove da secoli l’unico a vincere sempre lo scudetto è Azzeccagarbugli.

Queste prime righe descrivono perfettamente quello che è accaduto negli ultimi mesi, relativamente al caso Juve-plusvalenze – e non è ancora finita. Oltre a falsare il campionato, la giustizia sportiva è riuscita nell’impresa di trasformare i colpevoli in vittime. Vittime di un “complotto”: questa è la percezione dei tifosi juventini, sostenuta da elementi quali le modalità dei vari gradi di giudizio e la tempistica dell’atto per il momento conclusivo, ovvero la comunicazione del -10 fatta pochi istanti dopo la fine di Roma-Salernitana e pochi minuti prima di Empoli-Juventus.

Fin troppo naturale pensare che quel punto tolto con una puntualità disarmante dalla Corte federale altro non fosse che il ricalcolo dei punti necessari per estromettere la Juventus dalla zona Champions, partendo dal pareggio della squadra di Mourinho. Non posso parlare di malafede, guai: ma certamente di insensibilità. Un autentico disastro: non entro nel merito della punizione, condanno la dinamica processuale. Mi sono trovato peraltro d’accordo col ministro Giorgetti quando – purtroppo in corso d’opera – ha chiesto che gli organi di giustizia sportiva fossero svincolati dalla federazione per evitare sospetti, retropensieri e il timore di pericolose ingerenze.

Sarà interessante adesso leggere le motivazioni della Corte d’Appello per capire con quali artifici lessicali ed equilibrismi giuridici motiverà una sentenza sartoriale confezionata contro il club bianconero da parte di una giustizia sportiva che sentenzia secondo morale, in assenza di qualunque determinazione edittale della pena proporzionata all’illecito e prevedibile. Neanche se quanto accaduto fosse una nemesi, dopo decenni di arrogante egemonia bianconera culminata nell’onta della Superlega, potrebbe giustificarsi un’odissea giudiziaria che somiglia terribilmente a una vendetta. Anche se si tratta di un retropensiero (we are italians), non posso evitare di sospettare che dietro questa decisione si nasconda la tentazione di stravincere. Non mi pare il modo migliore per risanare le ferite apertesi in questi anni nel sistema.

Ivan Zazzaroni (direttore Il Corriere dello Sport)

Ma la condanna non è giusta perché figlia di un sistema sbagliato. Perché la penalizzazione alla Juve è legittima: la differenza con le altre società coinvolte sta nelle prove lasciate. Federico Ruffo (conduttore Mi Manda Raitre) su Il Riformista il 25 Maggio 2023 

Il caso plusvalenze e la nuova penalizzazione inflitta alla Juventus (-10) protagonista del “Si&No” del Riformista. Due opinioni differenti: favorevole alla penalizzazione, che ritiene legittima perché la differenza con le altre società sta nelle prove lasciate, il giornalista nonché tifoso bianconero Federico Ruffo. Contrario invece il direttore del Corriere dello Sport Ivan Zazzaroni secondo cui “sarebbe stato sufficiente e opportuno congelare le sentenze fino al termine del torneo e armonizzare le varie inchieste, così da emettere un verdetto complessivo, chiaro e definitivo“.

Qui l’opinione di Federico Ruffo:

Sul recente blitz di Ultima Generazione avvenuto lo scorso weekend nella Fontana di Trevi a Roma, abbiamo chiesto nel nostro “Si&No” al sindaco di Roma Roberto Gualtieri e al leader dei Verdi Angelo Bonelli se gli attivisti di Ultima Generazione sono solo dei vandali?

C’è un malinteso di fondo che si presenta nelle istanze di molti tifosi attorno alla condanna della Juve. Una frase che torna, quasi un riflesso condizionato. “Perché paga solo la Juve? E la altre che hanno fatto plusvalenze?”. Intendiamoci, hanno ragione: la Juventus non è l’unica ad aver realizzato plusvalenze fittizie, che da oltre un ventennio rappresentano una costante con cui praticamente tutte le società hanno fatto quadrare i conti, rimesso in piedi bilanci altrimenti insostenibili, ottenuto iscrizioni ai campionati che altrimenti impossibili, ma questo non toglie la colpevolezza delle società e dei suoi dirigenti.

Non è dato sapere neanche se la Juve sia quella che ne ha realizzate di più. A dirla tutta non le ha neanche inventate. La prima volta che due squadre hanno letteralmente “fabbricato” soldi che non esistevano risale all’estate 2003: Inter e Milan nel giro di pochi giorni si scambiano 8 calciatori della primavera, 8 perfetti sconosciuti che non si possono neanche definire “promesse” visto che scompariranno nei 12 mesi successivi senza lasciare traccia, ma che sui bilanci finiscono per un valore complessivo di 26 milioni di euro. La Procura di Milano ci prova: apre un fascicolo che i giudici saranno costretti a chiudere senza un nulla di fatto qualche tempo dopo, perché quel reato non si può dimostrare.

Ed eccoci al “perché solo la Juve”: le plusvalenze fittizie, nel calcio, sono pressoché indimostrabili perché non esiste un modo, una formula, un metro per stabilire a quanto ammontano le prestazioni future di un calciatore. È un accordo tra due privati che ritengono che quell’atleta e il suo gioco valgano una certa cifra. Se tutti gli altri la ritengono esagerata non ha importanza, deve star bene alle società coinvolte. Per questo negli anni (anche di recente) nessuna indagine ha prodotto risultati. C’è un unico modo per dimostrare che una plusvalenza è finta: qualcuno deve confessarlo.

E i dirigenti bianconeri lo hanno fatto: intercettati, perquisiti, hanno lasciato alle loro spalle ore di conversazioni e documenti (uno fra tutti “Il Libro nero di FP” ritrovato tra i documenti del Ds Cherubini con l’elenco dettagliato delle malefatte del suo predecessore Fabio Paratici) che raccontano di un sistema collaudato e stabile nel tempo, tale da falsare i bilanci. Lo stesso calciomercato dei bianconeri, senza questa “contabilità creativa” sarebbe stato impossibile.

Rimane la questione: perché le altre società coinvolte (Empoli, Genoa, Pisa, Pro Vercelli, Parma, Novara, Pescara, Sampdoria) non sono state sanzionate? Perché le carte raccontano di un sistema attentamente programmato e sistematico per i bianconeri, le altre squadre sono invece attenzionate per singole operazioni rispetto alle quali non esiste “confessione”. Niente intercettazioni, niente documenti, nessun sistema provato.

Per tutto questo il -10 inflitto alla Juventus è (purtroppo) legittimo e tecnicamente ineccepibile: secondo la Procura sportiva la Juve ha barato sui conti, ha falsato i suoi bilanci e le proprie disponibilità, falsando così anche la competizione.

Questa condanna è anche giusta? No, è chiaro. Non perché i dirigenti della Juve non siano colpevoli, ma perché è figlia di un sistema sbagliato in cui i punti si danno e si levano a competizione in corso, in cui il campionato finirà con un verdetto ancora da emettere, in cui anche la giustizia sportiva ha in questo modo falsato la corsa. Più di tutto non è giusta perché anche le altre società hanno fatto ricorso a operazioni “creative”, lo sappiamo. Perfino il Napoli delle meraviglie, campione d’Italia, celebrato da Guardiola (e da tutti gli amanti del bel calcio) è sotto la lente degli investigatori per l’acquisto del suo giocatore migliore, Osimhen, comprato dal Lilla in un’operazione da 70 milioni, 20 dei quali tornati nelle casse nel Napoli per l’acquisto da parte dei francesi di 4 giocatori: il terzo portiere Karnezis (36 anni, 1 presenza in tutto) e 3 giocatori della primavera partenopea che in Francia non sono mai arrivati. Firmano a Castel Volturno il contratto, poi subito in prestito in Serie C per poi scomparire.

Nell’insieme il quadro non sembra giusto, ma il punto resta: se anche gli altri sono colpevoli (per quanto al momento indimostrabile) questo significa che la Juventus è innocente? Purtroppo no.

Federico Ruffo (conduttore Mi Manda Raitre)

L’unico a vincere sempre lo scudetto è Azzeccagarbugli. Con la penalizzazione alla Juve la giustizia sportiva ha trasformato i colpevoli in vittime. Ivan Zazzaroni (direttore Il Corriere dello Sport) su Il Riformista il 25 Maggio 2023 

Il caso plusvalenze e la nuova penalizzazione inflitta alla Juventus (-10) protagonista del “Si&No” del Riformista. Due opinioni differenti: favorevole alla penalizzazione, che ritiene legittima perché la differenza con le altre società sta nelle prove lasciate, il giornalista nonché tifoso bianconero Federico Ruffo. Contrario invece il direttore del Corriere dello Sport Ivan Zazzaroni secondo cui “sarebbe stato sufficiente e opportuno congelare le sentenze fino al termine del torneo e armonizzare le varie inchieste, così da emettere un verdetto complessivo, chiaro e definitivo“.

Qui l’opinione di Ivan Zazzaroni:

Sarebbe bastato un minimo di buonsenso. Lo ha scritto il Corriere dello Sport martedì con Alessandro Barbano, lo ha ripetuto ieri il Corriere della Sera con Massimo Gramellini. Sarebbe stato sufficiente e opportuno congelare le sentenze fino al termine del torneo e armonizzare le varie inchieste, così da emettere un verdetto complessivo, chiaro e definitivo.

Invece, a livello sportivo, si ripropone in forma grottesca il vizio che tanti imprenditori stranieri e semplici cittadini imputano alla nostra giustizia ordinaria: l’incertezza e l’illogicità dei meccanismi processuali, che paralizzano qualsiasi iniziativa e soffocano il desiderio di investire soldi ed emozioni in un paese dove da secoli l’unico a vincere sempre lo scudetto è Azzeccagarbugli.

Queste prime righe descrivono perfettamente quello che è accaduto negli ultimi mesi, relativamente al caso Juve-plusvalenze – e non è ancora finita. Oltre a falsare il campionato, la giustizia sportiva è riuscita nell’impresa di trasformare i colpevoli in vittime. Vittime di un “complotto”: questa è la percezione dei tifosi juventini, sostenuta da elementi quali le modalità dei vari gradi di giudizio e la tempistica dell’atto per il momento conclusivo, ovvero la comunicazione del -10 fatta pochi istanti dopo la fine di Roma-Salernitana e pochi minuti prima di Empoli-Juventus.

Fin troppo naturale pensare che quel punto tolto con una puntualità disarmante dalla Corte federale altro non fosse che il ricalcolo dei punti necessari per estromettere la Juventus dalla zona Champions, partendo dal pareggio della squadra di Mourinho. Non posso parlare di malafede, guai: ma certamente di insensibilità. Un autentico disastro: non entro nel merito della punizione, condanno la dinamica processuale. Mi sono trovato peraltro d’accordo col ministro Giorgetti quando – purtroppo in corso d’opera – ha chiesto che gli organi di giustizia sportiva fossero svincolati dalla federazione per evitare sospetti, retropensieri e il timore di pericolose ingerenze.

Sarà interessante adesso leggere le motivazioni della Corte d’Appello per capire con quali artifici lessicali ed equilibrismi giuridici motiverà una sentenza sartoriale confezionata contro il club bianconero da parte di una giustizia sportiva che sentenzia secondo morale, in assenza di qualunque determinazione edittale della pena proporzionata all’illecito e prevedibile. Neanche se quanto accaduto fosse una nemesi, dopo decenni di arrogante egemonia bianconera culminata nell’onta della Superlega, potrebbe giustificarsi un’odissea giudiziaria che somiglia terribilmente a una vendetta. Anche se si tratta di un retropensiero (we are italians), non posso evitare di sospettare che dietro questa decisione si nasconda la tentazione di stravincere. Non mi pare il modo migliore per risanare le ferite apertesi in questi anni nel sistema.

Ivan Zazzaroni (direttore Il Corriere dello Sport)

Ma la condanna non è giusta perché figlia di un sistema sbagliato. Perché la penalizzazione alla Juve è legittima: la differenza con le altre società coinvolte sta nelle prove lasciate. Federico Ruffo (conduttore Mi Manda Raitre) su Il Riformista il 25 Maggio 2023 

Il caso plusvalenze e la nuova penalizzazione inflitta alla Juventus (-10) protagonista del “Si&No” del Riformista. Due opinioni differenti: favorevole alla penalizzazione, che ritiene legittima perché la differenza con le altre società sta nelle prove lasciate, il giornalista nonché tifoso bianconero Federico Ruffo. Contrario invece il direttore del Corriere dello Sport Ivan Zazzaroni secondo cui “sarebbe stato sufficiente e opportuno congelare le sentenze fino al termine del torneo e armonizzare le varie inchieste, così da emettere un verdetto complessivo, chiaro e definitivo“.

Qui l’opinione di Federico Ruffo:

Sul recente blitz di Ultima Generazione avvenuto lo scorso weekend nella Fontana di Trevi a Roma, abbiamo chiesto nel nostro “Si&No” al sindaco di Roma Roberto Gualtieri e al leader dei Verdi Angelo Bonelli se gli attivisti di Ultima Generazione sono solo dei vandali?

C’è un malinteso di fondo che si presenta nelle istanze di molti tifosi attorno alla condanna della Juve. Una frase che torna, quasi un riflesso condizionato. “Perché paga solo la Juve? E la altre che hanno fatto plusvalenze?”. Intendiamoci, hanno ragione: la Juventus non è l’unica ad aver realizzato plusvalenze fittizie, che da oltre un ventennio rappresentano una costante con cui praticamente tutte le società hanno fatto quadrare i conti, rimesso in piedi bilanci altrimenti insostenibili, ottenuto iscrizioni ai campionati che altrimenti impossibili, ma questo non toglie la colpevolezza delle società e dei suoi dirigenti.

Non è dato sapere neanche se la Juve sia quella che ne ha realizzate di più. A dirla tutta non le ha neanche inventate. La prima volta che due squadre hanno letteralmente “fabbricato” soldi che non esistevano risale all’estate 2003: Inter e Milan nel giro di pochi giorni si scambiano 8 calciatori della primavera, 8 perfetti sconosciuti che non si possono neanche definire “promesse” visto che scompariranno nei 12 mesi successivi senza lasciare traccia, ma che sui bilanci finiscono per un valore complessivo di 26 milioni di euro. La Procura di Milano ci prova: apre un fascicolo che i giudici saranno costretti a chiudere senza un nulla di fatto qualche tempo dopo, perché quel reato non si può dimostrare.

Ed eccoci al “perché solo la Juve”: le plusvalenze fittizie, nel calcio, sono pressoché indimostrabili perché non esiste un modo, una formula, un metro per stabilire a quanto ammontano le prestazioni future di un calciatore. È un accordo tra due privati che ritengono che quell’atleta e il suo gioco valgano una certa cifra. Se tutti gli altri la ritengono esagerata non ha importanza, deve star bene alle società coinvolte. Per questo negli anni (anche di recente) nessuna indagine ha prodotto risultati. C’è un unico modo per dimostrare che una plusvalenza è finta: qualcuno deve confessarlo.

E i dirigenti bianconeri lo hanno fatto: intercettati, perquisiti, hanno lasciato alle loro spalle ore di conversazioni e documenti (uno fra tutti “Il Libro nero di FP” ritrovato tra i documenti del Ds Cherubini con l’elenco dettagliato delle malefatte del suo predecessore Fabio Paratici) che raccontano di un sistema collaudato e stabile nel tempo, tale da falsare i bilanci. Lo stesso calciomercato dei bianconeri, senza questa “contabilità creativa” sarebbe stato impossibile.

Rimane la questione: perché le altre società coinvolte (Empoli, Genoa, Pisa, Pro Vercelli, Parma, Novara, Pescara, Sampdoria) non sono state sanzionate? Perché le carte raccontano di un sistema attentamente programmato e sistematico per i bianconeri, le altre squadre sono invece attenzionate per singole operazioni rispetto alle quali non esiste “confessione”. Niente intercettazioni, niente documenti, nessun sistema provato.

Per tutto questo il -10 inflitto alla Juventus è (purtroppo) legittimo e tecnicamente ineccepibile: secondo la Procura sportiva la Juve ha barato sui conti, ha falsato i suoi bilanci e le proprie disponibilità, falsando così anche la competizione.

Questa condanna è anche giusta? No, è chiaro. Non perché i dirigenti della Juve non siano colpevoli, ma perché è figlia di un sistema sbagliato in cui i punti si danno e si levano a competizione in corso, in cui il campionato finirà con un verdetto ancora da emettere, in cui anche la giustizia sportiva ha in questo modo falsato la corsa. Più di tutto non è giusta perché anche le altre società hanno fatto ricorso a operazioni “creative”, lo sappiamo. Perfino il Napoli delle meraviglie, campione d’Italia, celebrato da Guardiola (e da tutti gli amanti del bel calcio) è sotto la lente degli investigatori per l’acquisto del suo giocatore migliore, Osimhen, comprato dal Lilla in un’operazione da 70 milioni, 20 dei quali tornati nelle casse nel Napoli per l’acquisto da parte dei francesi di 4 giocatori: il terzo portiere Karnezis (36 anni, 1 presenza in tutto) e 3 giocatori della primavera partenopea che in Francia non sono mai arrivati. Firmano a Castel Volturno il contratto, poi subito in prestito in Serie C per poi scomparire.

Nell’insieme il quadro non sembra giusto, ma il punto resta: se anche gli altri sono colpevoli (per quanto al momento indimostrabile) questo significa che la Juventus è innocente? Purtroppo no.

Federico Ruffo (conduttore Mi Manda Raitre)

Processo politico. La fine della saga contro la Juve e le pene inflitte a furor di popolo. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 30 Maggio 2023

La vicenda giudiziaria del club bianconero si conclude con un patteggiamento, che sottolinea la natura non giuridica di tutta la faccenda: è legittimo sospettare che l’apparato sportivo abbia colto l’occasione dell’indagine penale della procura per punire i responsabili del progetto della Superlega

Dunque è finita con una semplice multa la saga della Juventus e della giustizia sportiva. Una degna conclusione di compromesso che sottolinea – ammesso ve ne fosse bisogno – la natura politica del processo al club bianconero. Vediamo perché.

Il patteggiamento, come espressamente riportato nel dispositivo è stato applicato ai sensi dall’art. 127 del codice sportivo che stabilisce che «dopo il deferimento l’incolpato può accordarsi con la procura federale per chiedere all’organo giudicante l’applicazione di una sanzione ridotta o commutata».

Ridurre la pena vuol dire, ovviamente, una semplice diminuzione di quella che il giudice ritenga giusta da infliggere mentre la “commutazione” (istituto, pare di capire, dibattuto dalla giurisprudenza sportiva) vuol dire tramutare una pena di un certo tipo – ad esempio una squalifica o una privazione di punti – in un’altra di diversa natura (solitamente una sanzione pecuniaria).

In questi casi, sia nell’enunciazione dell’accordo fra le parti sia nel dispositivo della sentenza se ne dovrebbe fare menzione indicando la pena originaria. Nella sentenza del tribunale sportivo non ve ne è menzione, sicché si desume che sia applicata una semplice riduzione del tipo di pena che procura e tribunale hanno ritenuta adeguata al caso: una ammenda.

Se è così allora è legittimo chiedersi perché in sede di revisione (e non di giudizio di merito) per la contestazione delle plusvalenze si sia invece applicata una sanzione di tipo diverso, come la sottrazione di punti.

Non c’è alcuna logica spiegazione: tutti gli esperti erano concordi nel ritenere assai più rilevante e grave la questione degli stipendi rispetto a quella dell’alterazione dei bilanci. Diciamo che le due incolpazioni sono di analoga natura, risolvendosi entrambe in una falsificazione delle scritture contabili e nella violazione dei principi contabili internazionali.

Allora perché due pesi e due misure? Non c’è altra risposta che in motivi di opportunità politica. In realtà la vicenda delle plusvalenze era solo un problema di ordinario diritto penale di competenza esclusiva della giustizia dello Stato italiano e non di quella sportiva.

Nessuna prova e nessuna contestazione è stata mossa contro il club di Torino per aver influito con l’alterazione dei bilanci sulla regolarità delle competizioni sportive.

È legittimo allora sospettare che l’apparato sportivo abbia colto al balzo l’occasione dell’indagine penale della procura torinese (peraltro probabilmente incompetente a indagare, deve decidere la Cassazione) per una esemplare esecuzione pubblica contro gli autori del “golpe della Superlega”.

È questo il terribile spettro che si aggira per l’Europa calcistica e sulla cui legittimità dovrà pronunciarsi prossimamente la Corte di giustizia europea.

Nei sistemi autoritari è consuetudine infliggere pene “coram populo” che servano di monito, contro coloro che attentino alla loro sovranità per poi magari mostrarsi magnanimi e concedere la grazia dopo che il reprobo si emendi della colpa.

Il pellegrinaggio di John Elkann a Napoli e la richiesta di patteggiamento sono da ritenersi una manifestazione di pubblico pentimento che un Paese intriso di senso cattolico come il nostro non può non approvare.

C’è solo da chiedersi se l’Italia e la sua industria sportiva abbiano bisogno di questo e debbano accontentarsi di un simile sistema di giustizia, nello sport e altrove. E se per caso dietro l’offensiva anti-Juventus non si celi l’atto finale di un processo di trapasso di potere.

La Juventus in oltre un secolo è stata l’immagine e l’estensione di un indiscusso potere finanziario capace di sopravvivere anche al suo declino industriale e a quello della sua città, di misurarsi con i grandi cambiamenti della storia politica (si pensi al Berlusconismo che pure non ha intaccato il predominio calcistico).

Oggi è l’epoca dei fondi di investimento e dei sovranismi finanziari: Torino è solo un piccolo punto in un panorama geopolitico e sportivo divenuto troppo grande. 

Juventus, il patteggiamento è il giusto finale. Giovanni Capuano su Panorama il 30 Maggio 2023

La multa per il processo stipendi dopo la penalizzazione per le plusvalenze: verdetto che divide, ma il calcio italiano aveva bisogno di tornare a programmare il futuro - DIRIGENTE PER DIRIGENTE, ECCO COME SI E' ARRIVATI AL -10 PER LA JUVE

Non c'è dubbio che l'entità dell'ammenda con cui la Juventus ha chiuso il filone stipendi, partnership e rapporti con i procuratori, uscendo dalle secche di una vicenda giudiziaria sportiva che rischiava di inquinarne anche la prossima stagione, possa apparire a una prima lettura un regalo all'italiana. Settecentodiciottomila e duecentoquaranta euro sono una goccia nell'oceano del fatturato di un'azienda che muove centinaia di milioni ogni anno, ma sono anche il modo sbagliato di leggere come si è conclusa la storia che ha condizionato un anno di calcio italiano. Non si può discutere del patteggiamento concordato con la Procura Figc e accettato dal Tribunale Federale Nazionale dimenticando anche gli tasselli del puzzle. A cominciare dal -10 ereditato per la storia delle plusvalenze, dalla mancata punizione delle altre società coinvolte e dalla necessità primaria per il sistema calcio italiano di riuscire a mettere un punto all'interno delle proprie regole e del proprio ordinamento. Facendo un passo indietro per osservare il quadro complessivo, la Juventus esce dalla vicenda nata dall'inchiesta di Torino con la retrocessione dalla zona Champions League ai margini dell'Europa (forse fuori per intervento della Uefa), un danno indiretto di non meno di 80-90 milioni di euro, l'azzeramento dei propri vertici societari, la rinuncia a qualsiasi ricorso dentro e fuori l'ordinamento sportivo e poi - anche - 718.240 euro di multa. Troppo? Poco?

Non esiste possibilità di mettere d'accordo chi pensa che la Juventus sia stata vittima di un agguato (la maggior parte del popolo bianconero) e chi considera l'esito dei due filoni come un regalo alla Vecchia Signora. Non serve nemmeno. Ha detto il presidente della Figc, Gabriele Gravina, che esiste "un momento per gli accertamenti giudiziari" e uno "per guardare al futuro con maggiore serenità", sempre "nel rispetto delle regole". Una posizione non troppo distante da quella della Juventus, che ha ribadito "la correttezza del proprio operato", ma ha giustificato la scelta di accordarsi con la Procura con la necessità di "mettere un punto fermo superando lo stato di tensione e instabilità". E' la ragione per cui il finale di questa storia è un compromesso pragmatico funzionale alla riduzione del danno. Per la Juventus e per il calcio italiano, che ha assistito con non celata preoccupazione allo scontro frontale che si è consumato nei mesi dell'inverno, quelli del balletto di sentenze, ricorsi e penalizzazioni tra i vari gradi della giustizia sportiva. Da oggi si può ripartire: la Juventus può programmare un nuovo ciclo, che dovrà scontare i danni fatti da questa vicenda, i vertici del calcio italiano mettere sul mercato un prodotto non più penalizzato dall'incertezza e i tifosi sanno che da agosto assisteranno a un campionato senza asterischi. Almeno fino a quando le procure sparse in mezza Italia non spediranno a Roma l'esito delle indagini sugli altri club nate come costole di quella di Torino. Allora sarà lecito attendersi un intervento della giustizia sportiva, altrimenti la sensazione di ingiustizia sarebbe ineliminabile. Siglata la pax italiana, restano sul tavolo due grandi temi: la riforma della giustizia sportiva, che ha mostrato qualche crepa e che andrà adattata allo scorrere dei tempi, e la gestione del rapporto conflittuale tra la Juventus (vecchia e nuova) e la Uefa. Su questo bisogna essere chiari: la Figc non può accettare un trattamento ad hoc riservato da Ceferin ai bianconeri come forma di pressione per le questioni legate alla Superlega. Qualunque sia la posizione sul tema - Gravina è legittimamente schierato con la Uefa - ogni ritorsione sarebbe da rimandare al mittente. Non esiste una Juventus senza coppe e un lasciapassare per Barcellona e Manchester City che di vicende imbarazzanti in casa propria ne stanno ugualmente affrontando, evidentemente senza entrare nel mirino di Nyon. PS - Resta fuori la posizione di Andrea Agnelli. Ha lasciato il passo alla Juventus, fatto in modo che i legali potessero prendere la strada più utile per dare certezze sportive alla società, senza appesantire il quadro con una posizione che pesa per mille ed evidenti ragioni anche di natura politicosportiva. Non è detto che anche per l'ex presidente non si arrivi a un accordo. Anzi. Solo, serve il tempo e il contesto adatto.

Reati che non lo erano. I pm chiedono l’archiviazione per la Juventus sulle plusvalenze. L'Inkiesta il 22 Giugno 2023

Secondo la stessa procura di Torino, la società bianconera non ha tratto alcun vantaggio fiscale dagli scambi dei giocatori e non ha emesso fatture false

La Juventus non ha tratto nessun vantaggio fiscale dalle cosiddette plusvalenze fittizie. È così che cade l’accusa di fatture inesistenti per gli ex vertici della società bianconera. Secondo la procura di Torino, che ha fatto richiesta di archiviazione per Andrea Agnelli, Pavel Nedved, Fabio Paratici, Marco Re, Stefano Bertola e Stefano Cerrato, «è emersa la finalità prevalentemente bilancistica e non fiscale delle operazioni di scambio contestate. Queste operazioni risultano neutre, “a somma zero”, sotto il profilo finanziario, tese solo a consentire di registrare un ricavo immediato, spalmando i costi negli anni successivi».

Questo vuol dire che pur volendo ritenere gonfiati artificialmente i valori contrattuali dei giocatori inseriti nelle trattative, e non è dimostrato, viene meno uno dei quattro capi d’imputazione – si tratta di false comunicazioni sociali di società quotata in borsa per i bilanci del triennio che va dal 2019 al 2021, ostacolo agli organi di vigilanza, false fatturazioni e manipolazione del mercato.

E, come riporta l’edizione torinese de La Repubblica, «non sapevano nulla i tre ex “sindaci” della Juventus, della manovra stipendi, delle side letter, o della famosa carta segreta da 19 milioni di euro di Ronaldo». Né dai documenti in sequestro, come le mail, né dalle intercettazioni, è emerso un loro coinvolgimento nelle condotte illecite relative alla seconda manovra stipendi. In questo caso, scrivono i pm, «non vi sono più elementi per addebitare al collegio il segmento di falso in bilancio che deriva dalle manovre stipendi, operazioni addebitabili all’organo amministrativo della società».

Va ricordato che l’ex presidente del collegio sindacale Paolo Piccatti aveva espresso il suo stupore ai pm: «Quando abbiamo letto sugli atti di questo fascicolo delle chat e delle scritture, ci siamo sorpresi e arrabbiati». Tutti e tre si erano dichiarati all’oscuro delle operazioni di asserito risparmio e conseguente restituzione degli stipendi dei calciatori: «Avessimo avuto anche solo sentore di queste cose, avremmo sicuramente approfondito» aveva spiegato Nicoletta Paracchini.

Da corrieredellosport.it il 10 luglio 2023.

Sedici mesi di inibizione e 60 mila euro di ammenda. È la sentenza ai danni di Andrea Agnelli, immediatamente esecutiva, appena pronunciata dal tribunale federale presieduto da Carlo Sica per il secondo filone figlio dell’inchiesta Prisma che riguarda in particolare le manovre stipendi della Juventus relative alle stagioni 2020 e 2021. 

Juve, la sentenza sulla nuova squalifica di Agnelli

Durante l’udienza di questa mattina in via Campania, il procuratore federale Giuseppe Chiné aveva chiesto per Agnelli 20 mesi di squalifica, da aggiungere ai 2 anni già comminati e confermati dal collegio di Garanzia dello sport per il caso plusvalenze. Per il secondo filone d'indagine Agnelli era rimasto l’unico imputato dopo i patteggiamenti (con multe) dello scorso 30 maggio per gli altri dirigenti deferiti.

L'ex presidente non aveva accettato l'accordo con la procura, che prevedeva la rinuncia a tutti i reclami, e domani tornerà in udienza al Tar con la speranza di veder ribaltato il verdetto sulle plusvalenze. In attesa della pronuncia del giudice amministrativo, il totale della squalifica di Agnelli è arrivato a 3 anni e 4 mesi (2 anni per le plusvalenze, 1 anno e 4 mesi per gli stipendi). 

Il comunicato della Figc su Agnelli

Di seguito il comunicato della Figc sulla nuova squalifica di Agnelli, arriva dopo l'udienza di primo grado del secondo filone dell'inchiesta Prisma: "Il Tribunale Federale Nazionale, presieduto da Carlo Sica, ha sanzionato l'ex presidente della Juventus Andrea Agnelli con un'inibizione di 16 mesi e un'ammenda di 60mila euro in merito al procedimento avente ad oggetto le manovre stipendi, i rapporti con gli agenti e le partnership con altri club".

Da ilnapolista.it l'11 luglio 2023.

Andrea Agnelli è stato punito con altri 16 mesi di inibizione dal Tribunale della Figc. L’ex presidente della Juventus dovrà anche pagare una multa di 60mila euro. A pesare, sulla condanna, è stato il rifiuto di Agnelli a rinunciare a futuri reclami, cosa che invece aveva accettato la Juventus al momento del patteggiamento. Il Corriere dello Sport scrive: 

“E’ rimasto solo Andrea Agnelli sul banco degli imputati, ma la sua, del resto, è una battaglia di principio. Ha voluto separare la sua posizione da quella della Juve (che patteggiando, pur senza ammettere colpe, ha chiuso l’intera vicenda con 718mila euro di ammenda) e anche ieri i legali, in assenza dell’imputato, hanno di nuovo professato l’innocenza dell’ex presidente, che si dice già pronto al ricorso.

I tentativi di accordo con Chiné sono andati avanti per settimane, ma si sono arenati su un punto: l’impegno scritto a non procedere oltre con i reclami, accettando in questo modo le squalifiche per le plusvalenze (come Paratici e Cherubini). Agnelli è andato invece allo scontro e oggi la sua vicenda (per il caso plusvalenze) farà tappa al Tar”. 

Per quanto riguarda le contestazioni del Tribunale Figc, scrive il Corriere dello Sport,

“per i giudici Agnelli ha violato l’articolo 4.1 del codice di giustizia sportiva (lealtà, probità e correttezza) con responsabilità diretta negli accordi di riduzione di 4 mensilità nel 2020 (da marzo a giugno) di 21 calciatori e dell’allenatore Sarri con l’omissione di depositare le integrazioni già concluse con gli stessi (e nella consapevolezza che tali accordi sarebbero stati depositati a bilancio)”.

Lo stesso si sarebbe ripetuto nel 2021. Per quanto riguarda invece il rinnovo di capitan Chiellini, per giudici l’agente del giocatore ebbe un mandato fittizio. 

“Per quanto riguarda il rinnovo di capitan Chiellini, invece, a inchiodare Agnelli sarebbe stata un’intercettazione nella quale spiegherebbe come il ruolo del procuratore sarebbe stato a dir poco marginale, pur avendogli conferito ufficialmente un mandato”.

Estratto dell’articolo dal “Corriere della Sera” il 21 luglio 2023.

«Il Collegio ritiene provata con ragionevole certezza la responsabilità del dott. Andrea Agnelli». Così si legge nelle motivazioni che il Tribunale federale nazionale (Tfn) ha reso note ieri dopo la sentenza emessa contro l’ex presidente della Juventus per il caso «manovra stipendi». Agnelli in primo grado è stato condannato a 16 mesi di inibizione più 60mila euro di multa. 

Secondo il Tfn, dunque, Agnelli «è stato parte integrante» della manovra stipendi, ma nelle motivazioni si legge anche che si esclude «che il presidente Agnelli sia stato l’unico ideatore della manovra».

Il dispositivo prosegue spiegando che «la manovra stipendi 2019-2020 [...] costituisce dato di fatto oggettivo che la stessa abbia avuto quale effetto immediato e concreto di evitare l’appostazione in bilancio di costi e/o debiti per circa 90 milioni, onde non può dubitarsi della contrarietà di siffatto modus operandi al principio contabile di competenza economica e conseguentemente anche della violazione del principio di par condicio con le altre società».

[…] Agnelli potrebbe fare ricorso alla Corte federale d’Appello.

Gianluca Oddenino per lastampa.it venerdì 28 luglio 2023.

Fuori dalle coppe per un anno. L’Uefa ha deciso di punire la Juventus per le violazioni del fair play finanziario con una pena che chiude le porte europee per la stagione 2023/24. La decisione di Nyon è stata comunicata stasera e include anche una multa, ma soprattutto chiude il lungo capitolo con la giustizia sportiva apertosi dopo le inchieste di Consob e Procura di Torino sui conti del club. 

A maggio era maturata la penalizzazione di 10 punti in Serie A, che ha retrocesso la squadra di Allegri dal 3° al 7° posto in classifica, e ora arriva la decisione Uefa di escludere i bianconeri definitivamente dalle competizioni europee. La Champions era già sfumata dopo la sentenza del Collegio di garanzia del Coni, mentre ora salta anche il posto in Conference League. Verrà così ripescata la Fiorentina, che aveva sfiorato il successo nella finale di Praga persa contro il West Ham due mesi fa.

Niente Conference e niente ricorsi: ma la Juventus ora riparte. Giovanni Capuano su Panorama il 28 Luglio 2023

La Uefa esclude i bianconeri per un anno (con forte multa): il conto dell'inchiesta Prisma è pesantissimo ma la scelta di rinunciare al Tas di Losanna indica la volontà di cominciare subito la risalita

Ora è ufficiale. La Juventus non giocherà la Conference League nella prossima stagione e dovrà pagare alla Uefa una multa di 20 milioni di cui una parte (la metà) per il momento congelata in attesa di verificare se nei bilanci dal 2023 al 2025 il club torinese sarà stato capace di rispettare i parametri delle norme Uefa. Impresa non semplice, considerando lo squilibrio da cui si parte e l'handicap di un'annata da portare avanti senza i ricavi della Champions League, competizione che la squadra di Massimiliano Allegri si era conquistata sul campo al netto della penalizzazione inflitta per le note vicende legate all'inchiesta Prisma della Procura di Torino. La Uefa si è presa fino all'ultimo momento utile o quasi (il 7 agosto sono in programma i sorteggi) per esprimere il proprio verdetto contro il quale la Juventus non farà ricorso pur "non condividendo l’interpretazione che è stata data delle nostre tesi difensive" ha detto il presidente, Gianluca Ferrero, e restando "fermamente convinti della correttezza del nostro operato e della fondatezza delle nostre argomentazioni". Un percorso già compiuto in Italia con il patteggiamento per il filone stipendi con rinuncia a tutti i ricorsi, la stessa cosa che avviene ora a livello europeo perché la Juventus non andrà al Tas di Losanna per far valere le proprie ragioni. La vicenda processuale del club bianconero, dunque, si chiude qui. L'inchiesta sui bilanci della gestione precedente ha portato un autentico terremoto, è costata un centinaio di milioni di euro di mancati ricavi nella prossima stagione, l'azzeramento dei vertici operativi della società e un danno evidente di immagine e reputazione oltre al passo indietro sulla Superlega, a lungo il convitato di pietra nei rapporti con la Uefa del presidente Ceferin a caccia di rivalsa su Andrea Agnelli. Piaccia o non piaccia, questo è il conto pagato sulla base delle pagine di un'inchiesta non ancora arrivata nemmeno all'udienza preliminare e la cui competenza è stata tolta a Torino e trasferita a Milano. La giustizia sportiva ha tempi, modi e necessità differenti ma quanto accadrà nei prossimi anni davanti a un tribunale ordinario, tra perizie e accese contrapposizioni, racconterà molto di una storia che oggi vede un solo colpevole (la Juventus) e tutti gli altri che sono rimasti al di fuori della tempesta. La Juventus si ferma qui perché, come hanno spiegato più volte i manager incaricati di traghettarla nel futuro, ha bisogno di certezze. Il tempo dei tribunali non poteva essere dilatato all'infinito col rischio di una sterile guerra di trincea con poco da guadagnare e molto da perdere. Molti tifosi bianconeri non condividono la resa, ma la scelta è dettata dal pragmatismo e anche dalla consapevolezza che proprietà e società ora devono correre per recuperare il tempo perduto. L'appuntamento è con la Champions League del 2024, la prima con la nuova formula e con introiti superiori rispetto a quelli attuali. E poi ci sarà da ricostruire il peso politico di un club che fino al 2021 era potentissimo anche nelle stanze che contano in Italia ed Europa e negli ultimi tre anni è stato spazzato via. E' amaro e paradossale che tutto ciò avvenga nei giorni del centenario della storia che lega la famiglia Agnelli alla Juventus. Mai ricorrenza è stata celebrata in modo peggiore, ma la decisione di dare un taglio netto - pur non condividendo forma e sostanza - apre a una nuova era. Il calcio italiano ha più che mai bisogno di ritrovare serenità e una società che ne ha rappresentato per decenni una parte virtuosa; lo raccontano le difficoltà attuali a vendere il prodotto Serie A e la ristrettezza di cui godono anche altri club della filiera, abituati a vivere anche dei tanti soldi investiti a beneficio di tutto il sistema.

Juventus esclusa per un anno dalle competizioni europee. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Luglio 2023

La decisione adottata dalla Prima Camera dell'organo di controllo finanziario della Uefa che ha stabilito anche una multa da 20 milioni di euro

La Juventus esclusa dalle competizioni Uefa per la stagione 2023/2024. La decisione arriva dalla Prima Camera dell’organo di controllo finanziario della Uefa (CFCB) che ha stabilito che “il club bianconero ha violato il quadro normativo e l’accordo transattivo firmato nell’agosto 2022. Di conseguenza, la Prima Camera del CFCB ha risolto l’accordo transattivo concluso con il club”, decretandone la conseguente “esclusione dalle competizioni per la stagione 2023-2024”.

La società è stata sanzionata inoltre con “un ulteriore contributo finanziario di 20 milioni di euro. Di questo importo, 10 milioni di euro sono condizionali e saranno applicati solo se i bilanci annuali del club per gli anni finanziari 2023, 2024 e 2025 non saranno conformi ai requisiti contabili definiti dal regolamento per le licenze per club e la sostenibilità finanziaria Uefa“.  

I bianconeri non disputeranno quindi nel 2023-2024 la terza competizione europea conquistata con il settimo posto dello scorso anno in Serie A per gli illeciti legati alla vicenda plusvalenze e stipendi. Al suo posto della squadra bianconera, in Conference League, ci sarà la Fiorentina. Lo ha deciso la Prima Camera del CFCB della Uefa, presieduta da Sunil Gulati, in violazione del quadro normativo e dell’accordo transattivo firmato nell’agosto 2022.

La nota della Juventus

“Juventus, pur continuando a ritenere inconsistenti le asserite violazioni e corretto il proprio operato, ha dichiarato di accettare la decisione rinunciando a proporre appello, escludendo espressamente, e lo UEFA CFCB prendendone nota, che questo possa costituire ammissione di qualsiasi responsabilità a proprio carico”. È quanto si legge in una nota stampa della Juventus.

“La decisione della Prima Camera dello UEFA CFCB comporta la risoluzione del Settlement Agreement tra UEFA e Juventus del 31 agosto 2022 e l’esclusione di Juventus dalla UEFA Conference League della stagione sportiva 2023/2024 – si legge nel comunicato – Per effetto della decisione, Juventus sarà tenuta al pagamento di un contributo economico di 10 milioni di euro in parte trattenuto dagli introiti della partecipazione alle competizioni UEFA nelle prossime stagioni sportive e potrebbe essere tenuta al pagamento di un ulteriore contributo economico condizionale pari a 10 milioni di euro nel caso in cui i bilanci di Juventus al 30 giugno 2023, 2024 e 2025 presentassero significative violazioni delle UEFA Club Licensing and Financial Sustainability Regulations (“CL&FS“); tale importo condizionale sarebbe eventualmente trattenuto dagli introiti della partecipazione alle competizioni UEFA nelle prossime stagioni sportive“ 

Juve, le parole di Ferrero: “Siamo dispiaciuti per la decisione del UEFA Club Financial Control Body. Non condividiamo l’interpretazione che è stata data delle nostre tesi difensive e restiamo fermamente convinti della correttezza del nostro operato e della fondatezza delle nostre argomentazioni. Tuttavia, abbiamo deciso di non presentare appello contro questo giudizio. Questa decisione è in linea con quella presa lo scorso maggio nell’ambito dei contenziosi con la FIGC. Come in quel caso, preferiamo mettere fine al periodo delle incertezze e assicurare ai nostri stakeholders interni ed esterni la totale visibilità e certezza sulla partecipazione del club alle future competizioni internazionali. Andare in appello ed eventualmente in altri gradi di giudizio, incerti negli esiti e nei tempi, aumenterebbe l’incertezza rispetto alla nostra eventuale partecipazione alla UEFA Champions League 2024/25. Vogliamo invece che la prima squadra, i nostri tifosi, i nostri sponsor, fornitori e partner finanziari possano vivere la stagione 2023-24 con la massima serenità e certezza rispetto ai risultati conseguibili sul campo, soprattutto dopo la turbolenta stagione passata. Nonostante questa sofferta decisione possiamo adesso affrontare la nuova stagione guardando il campo e non i tribunali sportivi.. Adesso testa al Campionato e alla Coppa Italia: ci impegneremo al massimo per dare ai nostri tifosi le più grandi soddisfazioni possibili in queste competizioni“. Sono le parole del presidente bianconero Gianluca Ferrero riportate sul sito della Juventus. Redazione CdG 1947

Estratto da corrieredellosport.it lunedì 28 agosto 2023

L'ex presidente della Juventus, Andrea Agnelli, vede ridursi a 10 mesi la squalifica per il caso legato alla famosa manovra stipendi, filone per il quale il club e gli altri dirigenti bianconeri deferiti avevano viceversa patteggiato delle multe con la procura della Federcalcio. Lo ha deciso poco fa la Corte federale d'Appello, riducendo l'iniziale inibizione di 16 mesi inflitta a fine luglio dal tribunale federale. Ridotta anche la sanzione pecuniaria: da 60 mila a 40 mila euro. La sentenza è stata pronunciata dalla CFA a sezioni unite, presieduta da Mario Luigi Torsello.

Cosa è successo fino ad ora

Per le manovre stipendi finite sotto la lente d'ingrandimento della giustizia sportiva in seguito all'inchiesta Prisma, che riguardano le stagioni 2019-20 e 2020-21, Paratici aveva patteggiato una multa di 47 mila euro, Nedved di 35 mila e 250, Cherubini di 32 mila e 500, Gabasio di 18.500 euro, Morganti di 15 mila, Manna di 11.750 e Braghin di 10 mila. La Juventus ha chiuso l'intera vicenda con una multa di 718 mila euro, rinunciando a qualsiasi ulteriore ricorso in merito al caso delle plusvalenze.

Agnelli era stato già sanzionato con 2 anni di inibizione per il caso plusvalenze (quello che ha portato il -10 in classifica per la formazione di Allegri nel 2022-23), sentenza passata in giudicato per lo sport dopo la sentenza del Collegio di Garanzia. Quindi la  squalifica dell'ex n.1 del club, adesso, è di 2 anni e 10 mesi.

Sorpresa, i pm di Torino non potevano indagare sulla Juventus...Inchiesta trasferita a Roma, dove i magistrati si occupano anche del trasferimento al Napoli di Osimhen. Monica Musso Il Dubbio il 7 settembre 2023

I magistrati di Torino non potevano indagare sulla Juventus. A deciderlo è stata la Corte di Cassazione, che ha accolto l'eccezione sollevata dagli avvocati difensori dei manager bianconeri, indagati per presunte violazioni contabili, di spostare al Tribunale penale di Roma l'eventuale processo che verrà incardinato.

La richiesta era stata motivata sulla base di un assunto autoevidente: il presunto reato di “false comunicazioni di bilancio” si sarebbe consumato dove il comunicato ufficiale e la documentazione del bilancio vengono resi noti - ovvero a Milano, sede della borsa o Roma, sede dei server - e non nel luogo in cui tali documenti sono stati redatti o caricati sul sistema informatico, come ipotizzato dai pm torinesi. Che dunque hanno indagato senza avere la competenza per farlo. A dare man forte alla Juventus era stato anche il sostituto procuratore generale della Cassazione, che nella sua richiesta aveva individuato la sede del reato nel capoluogo lombardo, confermando, di fatto, la tesi dei legali del club.

La difesa aveva chiesto il trasferimento anche per l’atmosfera “da caccia al colpevole” che si è respirata a Torino, di certo non mitigata dalle parole di Ciro Santoriello, uno dei pm che hanno condotto le indagini, che nel 2019, durante un convegno, si dichiarò tifoso del Napoli e anti-juventino (“odio la Juventus” la frase incriminata). Dichiarazioni, le sue, rispolverate nei mesi scorsi e diventate virali. Al tavolo con Santoriello - che poi ha lasciato l’inchiesta ed è stato promosso procuratore aggiunto a Cuneo - era presente anche il vicepresidente del Collegio di Garanzia Coni Sandulli, poi autosospesosi durante il procedimento che ha coinvolto il club bianconero, e l'avvocato del Napoli Mattia Grassani.

I magistrati romani dovranno ora ripartire dalla fase istruttoria, di fatto rifacendo il lavoro da capo. Lavoro che però era servito da base per “riaprire” il processo sportivo, che ha di fatto catapultato la società negli inferi del calcio italiano, con l’eliminazione dalle coppe, una pesante penalizzazione e i conseguenti danni economici - stimati attorno al centinaio di milioni . per un club da sempre tra le prime squadre d’Europa. A ciò si aggiunge la gogna: l’inchiesta è stata condotta infatti disponendo intercettazioni a tappeto, oggetto poi di una fuga di atti secretati.

Che fosse necessario togliere le carte a Torino era chiaro già da tempo: i legali del club, infatti, avevano chiesto che a condurre l’inchiesta Prisma fossero i magistrati milanesi - dove i precedenti di Milan e Inter sono peraltro favorevoli - già nel 2021. Nonostante ciò, la procura aveva continuato a scavare nei conti della Juventus, facendo deragliare il club. Ma le crepe nella vicenda sono molteplici, a partire dalla decisione della procura di Bologna di archiviare il caso Orsolini, non ravvisando alcun illecito. Un caso che, per la procura torinese, rappresentava un esempio lampante delle violazioni commesse dalla Juventus, nonché uno degli elementi per la condanna a livello sportivo. A ciò si aggiungono le decine di operazioni sospette condotte da altri club, che però non sono state sfiorate da indagini penali o sportive. A Roma è finito anche il caso plusvalenze relativo al trasferimento di Osimhen al Napoli poi laureatosi campione d’Italia, club che però non è stato sfiorato dalla giustizia sportiva.

Calciopoli.

(ANSA lunedì 21 agosto 2023) Il Consiglio di Stato scrive la parola fine sulla querelle Juve per l'assegnazione dello scudetto 2006 all'Inter dopo la revoca del titolo bianconero. E' stato infatti respinto, apprende l'ANSA, il ricorso del club bianconero contro Figc, Inter e Coni (tutti costituiti in giudizio), ultimo anello di una catena di opposizioni legali alla decisione del commissario straordinario della Federcalcio, Guido Rossi, che nel 2006 aveva assegnato all'Inter il titolo, rimasto vacante dopo le decisioni della giustizia sportiva per lo scandalo di Calciopoli. 

Calciopoli, ecco le intercettazioni che hanno ignorato: l'ultima bomba. Luciano Moggi su Libero Quotidiano il 25 aprile 2023

Luciano Moggi nasce a Monticiano il 10 luglio 1937. Dirigente di Roma, Lazio, Torino, Napoli e Juventus, vince sei scudetti (più uno revocato), tre Coppe Italia, cinque Supercoppe italiane, una Champions League, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa europea, una Coppa Intertoto e una Coppa Uefa. Dal 2006 collabora con Libero e dal 13 settembre 2015 è giornalista pubblicista.

Strano ma vero, il magistrato Pino Narducci che parla di Calciopoli dopo 17 anni: evidentemente la trasmissione Report ha colpito nel segno provocando la sua stizzita reazione, sfociata in soli tecnicismi che non chiariscono niente. E più ancora è rimasta indigesta al giornalista Maurizio Mannoni di Rai 3, che dai microfoni dell’Ente pubblico ha tuonato di non parlare più di Calciopoli, trascurando il particolare che la Rai, cui noi tutti paghiamo il canone, non permette esternazioni da tifoso di parte. Anche perché Sigfrido Ranucci, nel suo programma Report, con prove visive, dialettiche e documentali inconfutabili, ha smentito il pm sull’acquisizione delle schede svizzere, facendo in proposito ascoltare la confessione del maresciallo che andò a prelevarle senza rogatoria, addirittura passando la frontiera, con la macchina del proprietario del negozio svizzero.

Lo stesso maresciallo che, chiedendo l’anonimato, qualche tempo prima aveva rilasciato un’intervista al giornalista Alfredo Pedullà del Corriere dello Sport, sempre su Calciopoli, per dire che non c’erano gli estremi per fare quel processo. Report ha contestato poi a Narducci di aver ignorato completamente le intercettazioni delle altre squadre e ha raccontato una verità documentata e diversa da quella subdola e bugiarda sbandierata fino ad oggi. Il pm aveva impostato il processo dicendo «Piaccia o non piaccia non ci sono telefonate dell’Inter e di altre società», e invece ne sono state trovate in quantità industriale. E la differenza si è notata tra la sentenza del processo di Napoli e la sentenza 2166 del 2018 della Corte d’Appello di Milano che, pur trattando gli stessi argomenti di Napoli, ha condannato Gianfelice Facchetti (il querelante figlio del presidente interista), sul di lui padre (Giacinto Facchetti) ha affermato che «faceva lobbing con gli arbitri» e ha assolto il sottoscritto.

Va detto, ad onor del vero, che quel giudice aveva però ascoltato tutte le intercettazioni che a Napoli non vollero né sentire né vedere, in netto contrasto con la tesi sostenuta da Narducci, e aveva finito per sentenziare anche che «non era da addossare la colpa al cosiddetto sistema Moggi perché si trattava di una corruttela generale del calcio di quel tempo». Probabilmente per questo motivo Narducci, non avendo di Moggi intercettazioni di carattere penale, aveva costruito il teorema sul «reato a consumazione anticipata» con illazioni personali, non suffragate da prove, che aveva partorito la sentenza in cui si leggeva anche che «il dibattimento non ha prodotto prove di alterazione del campionato 2004/05». Come d’altra parte la sentenza del processo sportivo letta dal prof. Serio: «Campionato 2004/05 regolare, nessuna partita alterata». Alla fine arbitri assolti, associazione composta da sole due persone (Moggi e Giraudo), con Narducci che ha ricusato per ben due volte il presidente del tribunale, dottoressa Casoria, perdendo due anni di tempo e causando così la prescrizione di tutto.

Per mancanza di spazio possiamo elencare soltanto alcune delle tantissime “disattenzioni” di Narducci. Eccole:

- Il dirigente addetto agli arbitri del Milan, Meani, che dice all’arbitro Rodomonti, dopo un Milan-Chievo vinta dai rossoneri 1-0 su calcio di rigore, che gli aveva fatto dare il voto 7 dal giornalista Cecere, e che il suo presidente gli avrebbe fatto fare i capelli gratis in Svizzera.

- 29 aprile 2005, in occasione di Fiorentina-Milan, Meani telefonava all’arbitro della partita, De Santis , dicendo di non ammonire Nesta che, diffidato, avrebbe saltato successivamente Milan-Juventus. Minacciandolo che se lo avesse ammonito sarebbero andati in mille a prenderlo.

- Meani telefonava all’arbitro Paparesta per dirgli che Galliani aveva dato la sua pratica in buone mani, al sottosegretario Gianni Letta.

- Il presidente dell’Inter (Facchetti) andò nello spogliatoio dell’arbitro Bertini a dirgli di far vincere la sua squadra (Inter) nella semifinale di Coppa Italia Cagliari-Inter.

- Moratti, DD13473 del 25/12/04, chiedeva al designatore Bergamo di vedersi, loro due da soli, nella sua casa di Forte dei Marmi.

- Galliani che a seguito della morte di Papa Wojtyla rinviava la giornata di campionato di 20 giorni e diceva telefonicamente a Meani e Costacurta: «ho spostato le partite di 20 giorni, così potremo recuperare Kakà infortunato per la partita di Siena». - Meani chiedeva a Galliani se poteva spingere per inserire alcuni suoi amici di spessore nel settore arbitrale delle serie minori per avere il controllo anche in quelle serie... oltre naturalmente alla serie A. Galliani rispondeva: «Spinga, spinga». Mi fermo qui dottor Narducci, penso sia sufficiente per farle capire che avrebbe fatto meglio a non scrivere a Report anche perché le sue “disattenzioni” sono state veramente troppe.

Estratto dell’articolo di Luciano Moggi per “Libero quotidiano” il 17 aprile 2023.

Si chiama Calciopoli quel processo che 17 anni fa coinvolse persone innocenti e distrusse il calcio in Italia. […] adesso un cofanetto con dentro la chiavetta contenente tutte le intercettazioni, che il tribunale di Napoli non volle sentire, ripercorre la storia di quel brutto periodo raccontato, purtroppo, in maniera distorta da chi avrebbe dovuto gestire la verità. 

È stato recapitato a diverse persone, in modo particolare a Gravina, presidente della Figc che non ha dato colpevolmente alcuna risposta circa il contenuto, magari l’avrà anche buttato nel cestino dell’immondizia senza riflettere che con quel gesto stava buttando via la vita di tante persone per bene.

A lui evidentemente basta aver salda la poltrona sotto il sedere e, soprattutto, che nessuno parli del Castel di Sangro, del periodo cioè in cui ricopriva la carica di presidente di quella società. Chissà perché...Per questa ragione il cofanetto contenente la chiavetta è stato fatto recapitare anche al presidente del Coni Giovanni Malagò e al ministro dello Sport Andrea Abodi. 

Poi la Rai, evidentemente trovando materiale diverso da quello raccontato, lo ha fatto proprio per la trasmissione di Report che andrà’ in onda […] stasera su Rai Tre in prima serata alle ore 21.20. Così tutti potranno capire dalla viva voce di chi veramente “impicciava” cosa sia effettivamente successo in quel tempo. 

Premetto che quanto sto scrivendo non deve essere considerato un atto di accusa, soltanto una ribellione a quanto capitato a persone oneste, colpevoli soltanto di aver saputo fare il proprio lavoro meglio di altri.

Sarebbe intanto interessante che il presidente federale Gravina potesse illuminarci sul motivo della radiazione, visto che il processo sportivo era terminato con sentenza letta dal professore Serio, componente di quel Tribunale: «campionato regolare nessuna partita alterata», che ad abundatiam commentava anche: «sentenza che segue il sentimento popolare». […] Mentre il Tribunale di Napoli, non avendo trovato reati, nonostante 170mila intercettazioni e tanti soldi fatti spendere allo Stato e di conseguenza ai cittadini italiani, concludeva in sentenza dopo cinque lunghi anni di processo: «reato a consumazione anticipata, non potuto provare in udienza».

[…] Il tutto dopo ben tre ricusazioni del pm Narducci al presidente del Tribunale, dottoressa Casoria, colpevole di aver detto «facciamo processi più seri». Totalmente in contrasto con quella di Napoli la sentenza 2166 del 2018, emessa dalla Corte di Appello di Milano che aveva sentito tutte le intercettazioni che a Napoli non avevano voluto né vedere, né sentire. 

Condannava Gianfelice Facchetti, figlio del defunto presidente interista e il di lui padre venne nell’occasione accusato di aver fatto «Lobbing con gli arbitri». Ma più importante ancora è che quella sentenza specificava «non è colpa del cosiddetto sistema Moggi, ma di un sistema generale di corruttela di tutto il calcio di quel tempo». […]

Report su Calciopoli, Moggi: «Berlusconi mi avvisò delle intercettazioni». Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 17 Aprile 2023 

La trasmissione di Rai 3 ripercorre Calciopoli. L’ex designatore Paolo Bergamo racconta di una cena con Massimo Moratti a Milano e parla delle schede sim

Dopo 17 anni Report torna a parlare di Calciopoli. Lo fa partendo dalla chiavetta Usb che l’ex direttore generale Luciano Moggi ha consegnato e che conterrebbe tutte le intercettazioni non entrate nel processo («Su 170mila solo 25 riguardavano la Juve»). Intercettazioni di cui un po’ tutti, a quanto pare, erano al corrente, se è vero che Moggi — così racconta — era stato avvisato da Silvio Berlusconi («Guarda che sei intercettato, ma non c’è niente di penale»), e se il politico Pd Nicola Latorre aveva preannunciato all’ex designatore Paolo Bergamo (indagato all’epoca con l’altro designatore Pierluigi Pairetto) che «stava cadendo la prima Repubblica del calcio». La tesi che, secondo la stessa trasmissione resta «tutta da dimostrare», è che ci fu «un patto industriale» fra gli imprenditori Massimo Moratti e Marco Tronchetti Provera, in orbita Inter, e Luca di Montezemolo con altri a Torino. L’obiettivo era portare John Elkann al vertice del gruppo Fiat, mentre alla Juventus con Antonio Giraudo, all’epoca ad, sarebbe toccata ad Andrea Agnelli, figlio di Umberto Agnelli, al quale Giraudo era molto legato.

Calciopoli e le schede svizzere

Berlusconi in realtà si sbagliava, però, perché alla procura di Napoli qualcosa di rilevante sul piano penale, com’è noto, lo trovarono tanto da aprire l’inchiesta che ha poi sconvolto il calcio italiano: il 12 maggio 2006 partono 41 avvisi di garanzia. L’impianto accusatorio che ha sostenuto le sentenze dei primi due gradi di giudizio poggiava su un passaggio chiave: le sim svizzere date in dotazione ai membri dell’associazione (e a molti arbitri, definiti «di famiglia») servivano a dare tutte le disposizioni utili a ottenere certi risultati. Questo impianto sostanzialmente ha retto fino alla fine in Cassazione: a parte un paio di capi di imputazione di frode sportiva di cui anche Moggi è stato sgravato, l’ex direttore generale della Juventus si è visto negare il proscioglimento nel merito in relazione all’associazione a delinquere aggravata (per cui in Appello era stato condannato a 2 anni e 4 mesi), per la quale nel frattempo era però sopraggiunta la prescrizione.

Al proposito delle schede svizzere, Bergamo a Report ammette: «Me l’ha data Moggi, mi ha detto “quando parliamo di arbitri magari usiamo questa perché possiamo essere intercettati anche noi”. Ma ho fatto 2-3 telefonate, poi ho detto, io non ce la faccio a usarla, e l’ha usata mia moglie. Era anomalo? Sì, era anomalo».

Baldini «informatore» dei carabinieri

Un ex carabiniere dell’operazione Offside rivela che Franco Baldini, all’epoca dg della Roma, era un informatore dei carabinieri che indagavano su Moggi: «Baldini veniva sempre in caserma, sarà venuto 7-8 volte, stava sempre là, parlava solo con Auricchio perché poi non rilasciava mai dichiarazioni. Noi ufficialmente non avevamo un c... in mano. Poi il comandante ci diceva: mettete sotto controllo a questo, mettete sotto controllo a quest’altro, andate ad acchiappare questo, andate ad acchiappare quest’altro». C’è anche un’intercettazione dello stesso Baldini con l’ex vicepresidente della Figc Innocenzo Mazzini che risale al 2005, un anno prima di Calciopoli: «Ascolta, io ti dico una cosa, Innocenzo. Forse se te ti comporti bene, quando farò il ribaltone — tanto lo farò perché io vivo per quello, fare il ribaltone e buttar tutti di sotto dalla poltrona… — io ti salverò, forse».

Meani e il Milan

C’è anche un approfondimento sul ruolo di Leonardo Meani, l’addetto agli arbitri del Milan, e, al di là delle intercettazioni già emerse all’epoca con Pierluigi Collina, viene rivelata un'intercettazione in cui Meani si vanta con un giornalista di essere in grado di «scansare» l’arbitro Massimo De Santis considerato vicino alla Juventus. «All’Inter si devono svegliare però perché quando è toccato a me giocare contro la Juventus De Santis non era neanche in griglia», dice con riferimento al meccanismo delle griglie che presiedevano ai sorteggi degli arbitri.

L’Inter e la cena di Moratti

Per quanto riguarda l’Inter, vengono ripetute le circostanze emerse già nel 2011 con le intercettazioni di Giacinto Facchetti. Bergamo ha poi raccontato che dopo lo scudetto nerazzurro sfumato il 5 maggio 2002 fu invitato da Moratti per una cena, presenti anche le rispettive mogli: «Mi chiese perché gli arbitri ce l’avevano con l’Inter».

C'era una volta Calciopoli. Reporti Rai PUNTATA DEL 17/04/2023 di Daniele Autieri

Collaborazione di Federico Marconi

Cosa c’è dentro la pennetta USB che Luciano Moggi ha consegnato nelle mani di Andrea Agnelli durante l’Assemblea degli azionisti della Juventus del gennaio scorso?

Report ha ottenuto il contenuto di quella pennetta, il totale delle 170mila intercettazioni, molte rimaste inedite, registrate durante l’inchiesta “offside”, che 17 anni fa diede vita allo scandalo di Calciopoli.Tutti gli arbitri coinvolti, tranne uno, sono stati assolti, così come la quasi totalità dei dirigenti sportivi rinviati a giudizio. Per quelli non assolti, come Luciano Moggi, il potente direttore sportivo della Juventus condannato in appello per associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva, è intervenuta la prescrizione. Per la prima volta Report raccoglie le testimonianze e le rivelazioni dei protagonisti di quella vicenda: lo stesso Moggi, l’allora presidente della Federcalcio Franco Carraro, il designatore degli arbitri Paolo Bergamo, l’allora presidente della Lega Calcio Massimo Cellino, l’allenatore della Nazionale Campione del Mondo Marcello Lippi. Interviste che ricostruiscono un quadro del tutto inedito su quali furono le forze che si misero in moto per scardinare quel sistema di potere, accompagnate ad atti giudiziari ancora inediti che offrono la prova delle attività di spionaggio condotte da altri club nei confronti dei dirigenti della Juventus, oltre che di alcuni arbitri. Alle spalle una battaglia di potere tra i grandi padroni del calcio, da Silvio Berlusconi a Massimo Moratti, dalla famiglia Agnelli a Franco Sensi, dai fratelli Della Valle alle banche che avevano messo un piede nel calcio italiano.

C’ERA UNA VOLTA CALCIOPOLI Di Daniele Autieri Collaborazione di Federico Marconi Immagini Giovanni De Faveri, Carlos Dias, Alfredo Farina, Davide Fonda, Cristiano Forti, Fabio Martinelli, Andrea Lilli, Marco Ronca Montaggio di Andrea Masella Grafiche di Michele Ventrone Ricerca immagini Silvia Scognamiglio

MASSIMO CELLINO – PRESIDENTE BRESCIA CALCIO Chi salva il calcio italiano è la vittoria dei Mondiali, che in quel merdaio totale vinciamo i Mondiali e risorgiamo come calcio.

MARCELLO LIPPI – CT ITALIA CAMPIONE DEL MONDO 2006 Ho sempre pensato solo ed esclusivamente a costruire la squadra per andare a fare questa importante manifestazione.

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 L’uomo ovunque era lui, ma non l’avevamo deciso noi… Moggi era Moggi, era quello che dava timore.

DANILO NUCINI – ARBITRO [DA UN GIORNO IN PRETURA] Se sbagliavi a favore della Juve, andavi in Serie A, se sbagliavi contro la Juve andavi in Serie B.

DANIELE AUTIERI Moggi era il grande manovratore di tutto questo sistema?

GIANDOMENICO LEPORE – PROCURATORE GENERALE NAPOLI 2004-2011 debbo dire di sì, era il grande manovratore.

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS FC 1994-2006 Una sudditanza per il potente che non è una legge scritta, è una legge mentale

TIZIANO PIERI – EX ARBITRO Non avevo un’intercettazione a mio carico, né a mio favore né a danno.

FRANCO CARRARO – PRESIDENTE FEDERCALCIO 2001-2006 Io ho una sola intercettazione nella quale mi lamento a favore di una squadra, una sola, ed è una intercettazione per la Lazio…

INTERCETTAZIONE DEL 28/11/2004 CARRARO–BERGAMO

FRANCO CARRARO – PRESIDENTE FEDERCALCIO 2001-2006 Chi c’è lì a Juventus…

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Rodomonti, Inter-Juventus

FRANCO CARRARO – PRESIDENTE FEDERCALCIO 2001-2006 Mi raccomando che non aiuti la Juventus per carità di Dio

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS FC 1994-2006 C’è addirittura chi va tra primo e secondo tempo, io non ci sono andato. Facchetti per esempio ha preso tre mesi di inibizione…

VOCE TELECRONISTA L’annullamento del gol di Cannavaro rimane di difficile comprensione e merita ulteriori approfondimenti anche in sede di moviola.

DANIELE AUTIERI Voi presidenti delle società di calcio avevate avvertito che c’era qualche cosa che non andava nel sistema?

MASSIMO CELLINO – PRESIDENTE BRESCIA CALCIO Avvertito? Eravamo tutti spaventati… Era un momento di terrore del calcio, me lo ricordo, però almeno sapevi chi era…

DANIELE AUTIERI Chi era il tuo nemico?

MASSIMO CELLINO – PRESIDENTE BRESCIA CALCIO Sì, sapevi da quale parte stare, con i buoni o con i cattivi.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Quello che indicavano come il cattivo numero uno è lui, Lucky Luciano, il potente direttore generale della Juventus, l’uomo dalle mille relazioni: politici, industriali, poliziotti, finanzieri, uomini dei servizi. L’anima nera del calcio italiano.

DANIELE AUTIERI Lei c’ha dato questa chiavetta, no? L’ha data a noi e ad Andrea Agnelli, che c’è qua dentro?

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS FC 1994-2006 Io qui ho portato le voci di chi nella sostanza è intercettato e quello che dicono.

DANIELE AUTIERI Le intercettazioni non sono finite a processo?

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS FC 1994-2006 Di 170mila intercettazioni, solo 25 riguardavano la Juventus.

SIGRFRIO RANUCCI IN STUDIO Insomma, la chiavetta ce l’ha spacciata come un’esclusiva da furbacchione qual è, in realtà l’ha seminata in questi anni un po’ ovunque. Tuttavia, gratta gratta, qualcosa di inedito lo abbiamo trovato e poi abbiamo aggiunto del nostro: le testimonianze inedite dei protagonisti di allora che raccontano di incontri segreti, di operazioni di spionaggio, di modalità con cui si sono svolte le indagini, che svelano un’altra faccia dell’inchiesta di Calciopoli, fino a oggi rimasta, come quella della luna: nell’ombra. Quella nota, invece, era uscita il 12 maggio del 2006, quando, dopo alcune intercettazioni pubblicate, emerge che la procura di Napoli ha indagato 41 persone tra manager, presidenti delle squadre di calcio, vertici della Figc- federazione Giuoco Calcio – gli arbitri, addirittura giornalisti e agenti della DIGOS. Tutto ruota intorno al sistema, cosiddetto, Moggi, l’allora direttore sportivo della Juventus, che con i suoi rapporti con altri dirigenti di altre squadre di calcio, con il controllo di alcuni giocatori e anche la sua influenza su alcuni giornalisti ai quali sussurrava la notizia più favorevole per la Juventus. Aveva messo in piedi un sistema di potere. Affianco a lui, Antonio Giraudo; amministratore delegato della Juventus. Insieme, secondo quanto scrive la Cassazione, partecipavano alla “predisposizione delle griglie arbitrali» che erano «manovrate» dai designatori Pierluigi Pairetto e Paolo Bergamo per favorire sul campo la Juventus. Tuttavia, diciassette anni dopo, alla fine di quell’enorme scandalo è emerso che nessuna partita presa in considerazione era stata condizionata. E poi la singola posizione degli accusati si è risolta con assoluzione, prescrizione, sospensione di condanna. Più dura la giustizia sportiva che ha radiato a vita Moggi e Giraudo e ha penalizzato la Juventus schiaffandola in serie B. Poi c’è qualcuno che invece l’ha fatta franca e vedremo come. Ma quello di Calciopoli, fu l’anelito verso un calcio più puro, migliore, più pulito o il passaggio dalla prima alla seconda repubblica del calcio? La storia comincia il 5 maggio del 2002, quando nell’ultima partita di campionato l’Inter perde in casa della Lazio e perde anche lo scudetto che va a finire alla Juventus. Subito dopo si consuma una cena a 4 rimasta fino a oggi segreta. Il nostro Daniele Autieri.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Da una parte le gioie incontenibili delle vittorie, dall’altra i dolori inconsolabili delle sconfitte. Alle quali si cerca sempre una giustificazione. La fine della prima repubblica del calcio inizia il 5 maggio del 2002. L’Inter perde lo scudetto dopo una sconfitta all’ultima partita contro la Lazio e l’erba dell’Olimpico viene bagnata dalle lacrime del fenomeno Ronaldo. Per alcuni il sistema è ormai fuori controllo e forze invisibili si mettono in moto per sovvertire l’ordine costituito, quello di Luciano Moggi. Una storia che inizia con un incontro segreto che si svolge a Milano, rivelato solo oggi dall’ex designatore degli arbitri Paolo Bergamo.

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Finisce il campionato del 2002 quando lui perde l’ultima giornata

DANIELE AUTIERI L’Inter…

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Mi chiama

DANIELE AUTIERI Moratti

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Sì, io vorrei fare una cena insieme a lei… e parlare. Sono andato a casa sua ai primi di luglio, ci mettiamo a sedere io, lui, mia moglie e sua moglie: nemmeno cinque minuti e mi fa: Bergamo lei mi deve dire perché gli arbitri ce l’hanno con l’Inter e noi non vinciamo mai. E da lì è iniziata la discussione, cioè lui sosteneva che noi si mandavano arbitri che erano ostili all’Inter per farla perdere.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Dopo quell’incontro Massimo Moratti condivide i suoi dubbi sugli arbitraggi con Giuliano Tavaroli, l’uomo dei dossieraggi illeciti di Telecom Italia allora capo della security di Pirelli.

GIULIANO TAVAROLI Ricevo l’ingaggio da Moratti in persona. L’Inter si rivolge alla Pirelli e noi gli forniamo il fornitore… Che era la Police d’Istinto, che era una società di investigazioni.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il lavoro di intelligence viene affidato alla Police d’Istinto, una società di Firenze di cui Tavaroli abitualmente si serve. Il primo compito è quello di verificare le rivelazioni che l’arbitro Danilo Nucini ha fatto all’allora presidente dell’Inter, Giacinto Facchetti, dichiarazioni che lo stesso Nucini avrebbe ribadito anche nel corso del processo Calciopoli e che riguardavano un incontro segreto tra Nucini e Moggi finalizzato a condizionare positivamente la carriera dell’arbitro.

DANILO NUCINI - ARBITRO SERIE A E B 1995-2005 [DA UN GIORNO IN PRETURA] Ci diamo appuntamento a Greggio, sull’autostrada Milano-Torino e mi porta di fronte all’Hotel Concord. Entriamo in una camera dove non c’è nessuno, aspettiamo qualche minuto ed entra Moggi, telefona ai due designatori, gli fa capire ai due designatori che io devo essere trattato bene e che devo essere valorizzato e che devo essere mandato in Serie A.

DANIELE AUTIERI Nucini l’ha incontrato qua… quello che lui dice…

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS FC 1994-2006 No…

DANIELE AUTIERI A processo… quella storia che dice…

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS FC 1994-2006 Ma te l’immagini casa mia sta a 20 metri, che l’incontro in albergo?

FUORI CAMPO AUTIERI Una volta verificata la correttezza della ricostruzione di Nucini e raccolti altri elementi dalle indagini condotte dalla Police d’Istinto, il capo della security di Telecom Giuliano Tavaroli compila un’informativa e la consegna nelle mani dei carabinieri di cui lo stesso Tavaroli aveva fatto parte negli anni ‘80.

GIULIANO TAVAROLI Io do una informativa ai carabinieri del nucleo investigativo, informativo…

DANIELE AUTIERI Quello di Roma?

GIULIANO TAVAROLI No, Milano. Viene fatto un esposto a Greco, al tempo Greco non è procuratore ancora ma procuratore aggiunto e Greco dice: mandatelo alla Boccassini, vede lei.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Sulla scrivania di Ilda Boccassini finisce un esposto generico. La Pm interroga Nucini ma non emergono elementi sufficienti per istruire un’indagine e la denuncia cade nel vuoto. Tuttavia, le indagini dell’agenzia di investigazione incaricata da Tavaroli su mandato di Moratti non si interrompono e oltre a Moggi gli investigatori cominciano a scandagliare nelle vite di Paolo Bergamo e di alcuni arbitri.

DANIELE AUTIERI A un certo punto Moratti si accorda per incaricare Tavaroli, che era il capo della security di Telecom, di fare delle indagini su di lei, lei l’aveva saputo questo?

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS FC 1994-2006 quando si sono trovati in ufficio, Moratti, Tavaroli e Facchetti, Moratti ha detto no Moggi lasciamolo da parte è un amico, e invece Facchetti ha insistito per dare i numeri miei a Tavaroli.

DANIELE AUTIERI Ma erano legali queste indagini? P

AOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 No, assolutamente no. Hanno dato origine anche a richieste di risarcimento danni…

DANIELE AUTIERI Anche lei l’ha chiesto no?

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Sì, l’ho chiesta anche io, era una cosa riservata tra me e il tribunale, sono certo di quello che sto dicendo.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO L’”Operazione ladroni” finisce in tribunale e si chiude con un accordo tra le parti rimasto fino ad oggi segreto che obbliga l’Inter a risarcire alcune delle vittime delle indagini illegali. Le investigazioni di Tavaroli si fermano a Milano, mentre la procura di Napoli apre una piccola inchiesta su due arbitri senza però immaginare cosa sarebbe venuto fuori.

EX-CARABINIERE OPERAZIONE OFF-SIDE Mettendo sotto controllo questi arbitri, venivano fuori questi nomi dove c’era sempre qualcosa nei discorsi che facevano.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Quello che parla è uno dei carabinieri che ha preso parte all’inchiesta “off-side”, quella che ha dato vita a Calciopoli. È lui a rivelare oggi che ad alimentare l’interesse dei pm di Napoli c’era non solo la sete di giustizia, ma anche una sincera rivalsa calcistica.

EX-CARABINIERE OPERAZIONE OFF-SIDE La questione è nata quando il Napoli andò in Serie B. Il magistrato che ha seguito tutto quanto stava sempre in tribuna, e quando hanno trovato il problema di Carraro che ha deciso che il Napoli doveva andare in serie B credo che se la siano un po’ legata.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Sono gli anni che anticipano l’arrivo di Aurelio De Laurentiis, quelli in cui il Napoli fallisce e crolla prima in serie B, quindi in serie C. Un crollo che secondo i tifosi sarebbe responsabilità anche dell’allora presidente della Federcalcio, Franco Carraro. Una ferita che a Napoli nessuno dimentica. Delegati dalla procura di Napoli, i carabinieri del reparto operativo di Roma intercettano tutti, ma il sistema è forte e coeso, e Moggi viene subito messo in guardia sui rischi che sta correndo.

DANIELE AUTIERI È vero che Berlusconi le disse anche che lei era intercettato?

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS FC 1994-2006 sì, mi disse: guarda ci sono delle intercettazioni che però non c’è niente di penale… per cui il problema non si pone.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Ma la garanzia del presidente del consiglio non basta, anche perché sono in tanti che lavorano per scardinare il sistema Moggi. Oltre all’Inter anche la Roma di Franco Sensi, che mette al servizio delle indagini il suo direttore sportivo, Franco Baldini.

INTERCETTAZIONE DEL 4/6/2005 BALDINI–MAZZINI FRANCO BALDINI Ascolta io ti dico una cosa Innocenzo, forse se tu ti comporti bene, quando farò il ribaltone, tanto lo farò perché io vivo per quello, fare il ribaltone, buttare tutti di sotto dalla poltrona, io ti salverò… forse…

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Baldini pronuncia queste parole il 4 giugno del 2005, un anno prima l’esplosione dello scandalo, parlando con l’ex-vicepresidente della Federcalcio che era intercettato dai carabinieri. Ma quella che appare una profezia viene oggi spiegata da un ex-carabiniere del nucleo operativo di Roma che partecipò alle indagini su Moggi. Baldini era infatti una fonte segreta dei Carabinieri.

EX-CARABINIERE INDAGINE “OFFSIDE” Baldini veniva sempre in caserma, sarà venuto sei o sette volte, stava sempre là.… parlava solo con Auricchio però poi non rilasciava mai dichiarazioni, noi non avevamo un cazzo in mano, poi il comandante ci diceva mettete sotto controllo a questo, mettete sotto controllo a quest’altro. Andate ad acchiappare questo, andate ad acchiappare quest’altro…

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 12 maggio del 2006 la procura di Napoli iscrive sul registro degli indagati 41 persone. Oltre a Luciano Moggi ci sono i vertici della Federcalcio, il presidente Franco Carraro e il vicepresidente Innocenzo Mazzini, alcuni dirigenti sportivi e numerosi arbitri. Ma attenzione alle date: il 16 maggio l’Italia cambia rotta politica. Romano Prodi viene nominato per la seconda volta presidente del Consiglio. Nello stesso giorno, il Coni nomina commissario della Federcalcio Guido Rossi, lo stesso giurista che era stato membro del consiglio di amministrazione dell’Inter e che solo un anno dopo sarebbe diventato il presidente di Telecom Italia.

DANIELE AUTIERI Quest’operazione Guido Rossi che operazione è, come nasce?

FRANCO CARRARO – PRESIDENTE FEDERCALCIO 2001-2006 È stato suggerito al Coni da qualcuno del governo, o della maggioranza

DANIELE AUTIERI Della maggioranza di centrosinistra perché era stato eletto Prodi

FRANCO CARRARO – PRESIDENTE FEDERCALCIO 2001-2006 Il governo Prodi. Diciamo che la politica in quel momento forse cerca di metterci le mani, però poi dopo lascia stare.

DANIELE AUTIERI Guido Rossi non la voleva più in nazionale, né lei, né Buffon, né Cannavaro. È vera questa storia? MARCELLO LIPPI – CT ITALIA CAMPIONE DEL MONDO 2006 La sento adesso da lei per la prima volta

DANIELE AUTIERI È un’invenzione di…

MARCELLO LIPPI – CT ITALIA CAMPIONE DEL MONDO 2006 Non lo so, la sento da lei per la prima volta

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS FC 1994-2006 Questo è successo prima della partenza per i campionati del Mondo, non volevano praticamente né Lippi, né Cannavaro, né Buffon… però dopo io la parte mia l’ho fatta con questi ragazzi che erano demoralizzati.

DANIELE AUTIERI Cioè lei è intervenuto…

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS FC 1994-2006 Beh, io ho parlato con loro, erano giocatori miei, era l’allenatore mio. E questi qui sono andati a difendere l’Italia nel migliore dei modi e soprattutto non tenendo conto di quelli che li volevano far restare a casa.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Ma secondo una testimonianza fino a oggi inedita, ad abbattere il sistema Moggi sarebbe stato il fuoco amico.

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Si dice che ci fosse un accordo industriale fra Tronchetti Provera e Luca di Montezemolo, Grande Stevens e Gabetti e gli Elkann… L’accordo industriale che c’era lo so, perché io l’ho saputo prima che Moggi e Giraudo li stavano facendo fuori. Chi me l’ha detto? Me l’ha detto il segretario di D’Alema, l’onorevole Latorre, fece una telefonata mi disse: fai attenzione. La cordata che si era formata, quindi Luca di Montezemolo, Grande Stevens, Gabetti e Elkann dovevano portare John Elkann a capo del Gruppo Fiat… Mentre invece la presenza di Giraudo e Moggi prevedeva che Andrea sarebbe andato a capo, perché Giraudo la sua vita è stata come consulente di Umberto.

DANIELE AUTIERI Bergamo ci ha detto che voi vi sentivate in quel periodo, lei l’aveva avvisato di quello che stava per succedere, è così?

NICOLA LATORRE – EX PARLAMENTARE PD Per un certo periodo ci siamo parlati, gli segnalai che secondo me stava finendo la Prima Repubblica del calcio

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 La cordata che si era formata, quindi Luca di Montezemolo, Grande Stevens, Gabetti e Elkann dovevano portare John Elkann a capo del Gruppo Fiat… Mentre invece la presenza di Giraudo e Moggi prevedeva che Andrea sarebbe andato a capo, perché Giraudo la sua vita è stata come consulente di Umberto.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO I legami tra Giraudo, Andrea Agnelli e suo padre Umberto sono strettissimi tanto che fino al 2006, l’anno dello scandalo, l’amministratore delegato della Juventus è anche socio amministratore della FLM 75, la società di Umberto Agnelli ancora oggi di proprietà di Andrea, della sorella Anna e della madre Allegra. DANIELE AUTIERI Ma secondo lei c’è stata questa saldatura tra una parte della famiglia Agnelli dopo la morte dell’avvocato e la morte del dottor Agnelli, e Moratti o quel mondo lì?

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS FC 1994-2006 Io questo qui con precisione non lo so, so soltanto che il difensore della Juventus, l’avvocato Zaccone, è andato a processo a chiedere la serie B con penalizzazione.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Incredibilmente ritira il ricorso al Tar e accetta la retrocessione in Serie B. Da un lato per paura di ricevere nuove sanzioni dalla Figc, e dall’altro per vie dell’esternazioni del presidente della Fifa, Joseph Blatter, che minaccia di escludere la Juventus per 5 anni dalle competizioni europee. È lo stesso Blatter più avanti a ringraziare Luca Cordero di Montezemolo per la decisione presa. Una decisione in linea con il cosiddetto stile Juve, oppure animata dalla volontà dei nuovi padroni di sbarazzarsi di due manager ingombranti? È ancora una volta l’ex designatore Paolo Bergamo a regalarci una testimonianza inedita.

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Riuscii dopo tanti tentativi ad essere ricevuto dall’allora avvocato degli Agnelli, l’avvocato Galasso. E lui mi disse testualmente, guardi io sono l’avvocato della Juventus, in casa Agnelli si è preso in giro dieci milioni di tifosi facendo apparire cose… nelle quali noi sappiamo che non sono vere. Io non lo dico altro perché il mio ruolo non lo consente. Però non se la prenda perché tanto è una cosa che nasce sopra le nostre teste.

DANIELE AUTIERI Dopo Calciopoli per cinque anni vince lo scudetto l’Inter… Era diciamo un modo un po’ per pareggiare i conti?

MARCELLO LIPPI – CT ITALIA CAMPIONE DEL MONDO 2006 Non lo so, non lo so perché io non c’ero più nella Juventus… diciamo che è per questo che hanno vinto il campionato…

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Sulle ceneri della Tangentopoli del calcio, basta un sogno per riaccendere la speranza. Il 9 luglio del 2006 quel sogno prende la forma della Coppa del Mondo e il colore azzurro del cielo sopra Berlino.

DANIELE AUTIERI Lei si trovò in un momento a guidare la Nazionale, anche in un momento in cui le istituzioni del calcio erano tutte sottosopra… la Federcalcio, la Lega, le creò dei problemi non avere dei referenti?

MARCELLO LIPPI – CT NAZIONALE ITALIANA CAMPIONE DEL MONDO 2006 No, no, noi ci siamo estraniati da tutto. Andavamo a Coverciano, lavoravamo, e stavamo insieme, si lavorava con serietà, con voglia, con entusiasmo… c’era già la consapevolezza che stavamo costruendo qualcosa di forte e non si pensava ad altro.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Dopo le dimissioni e il commissariamento della Federcalcio con Rossi, anche la Lega cambia i suoi vertici. Adriano Galliani lascia e Massimo Cellino viene nominato presidente pro tempore. È tra i più giovani nella storia della Lega, tuttavia il suo contributo per salvare la baracca lo dà… eccome!

MASSIMO CELLINO – PRESIDENTE BRESCIA CALCIO Cercammo di tenere la baracca in piedi perché stava crollando tutto. Io che ero uno dei più giovani presidenti della Lega a governare, a organizzare la Lega, a pulire tutte le schifezze che c’erano là dentro… non sapevo da quale parte cominciare. Ricordo che eravamo in Lega sei, sette presidenti riuniti, sempre a cercare di organizzare il campionato. C’era un contenitore di metallo grosso, con tutti i cassetti, tutti i dossier: sono tutte società, chi era iscritto al campionato con la fideiussione falsa, chi si scaricava come Irpef il trasporto. Andammo nel piazzale giù, c’era un bidone di ferro così buttammo tutto dentro, con la trielina e bruciammo tutto. L’indomani quando vennero, cercarono quel faldone, non c’era un cazzo. E io non c’ero eh… pensi che cazzo ho fatto io per la Lega.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Le ceneri di Calciopoli vengono spazzate via dalla vittoria dei Mondiali di Calcio del 2006. Quelle del falò di Cellino invece spazzano via la responsabilità delle squadre di calcio e di quei presidenti, sette/otto che erano presenti. Chissà cosa c’era in quei faldoni. E poi invece dalle ceneri del sistema Moggi risorge l’Inter. Moggi ci dice: guardate che sono stato avvisato dell’esistenza di alcune intercettazioni che mi riguardavano, da Silvio Berlusconi. - aveva anche avvisato Cuffaro, ce lo ricordiamo – Berlusconi mi aveva però rassicurato: mi aveva detto che non c’era nulla di penalmente importante. E invece si sbagliava perché Moggi poi finisce a processo. A maggio del 2006, dopo la pubblicazione di alcune intercettazioni, emerge che Napoli sta indagando sul calcio italiano. Nasce un terremoto. Si dimette l’intero Consiglio di Amministrazione della Juventus, Moggi e Giraudo di conseguenza, si autosospendono gli arbitri coinvolti, si dimettono i vertici della FIGC Mazzini e Carraro. Al posto di Carraro arriva il commissario Guido Rossi, contestualmente con il cambio del governo. Guido Rossi che era stato un ex-membro del cda dell’Inter e sarà il futuro presidente della Telecom di Tronchetti Provera che era anche il vicepresidente dell’Inter. Lui, Rossi, che istituisce una commissione di saggi che poi affiderà lo scudetto, quello controverso del 2006 all’Inter dopo averlo sfilato alla Juventus ormai penalizzata. Solo che poi succederà che nel 2011, dalle carte della procura federale, emerge che ci sarebbe stato da indagare anche sull’Inter e altre 10 squadre; in particolare, scrive il procuratore Palazzi, di indagare sul presidente dell’Inter Giacinto Facchetti, che nel frattempo era scomparso, e sull’azionista di riferimento Massimo Moratti. Secondo la Procura federale avrebbero “messo in piedi una rete consolidata di rapporti, di natura non regolamentare, diretti ad alterare i principi di terzietà, imparzialità e indipendenza del settore arbitrale», finalizzati ad assicurare un vantaggio in classifica» all’Inter. Ma non fu fatto alcun accertamento perché tutto ormai era prescritto. A quel punto qualcuno pose il dubbio: ma lo scudetto che era stato dato all’Inter, se doveva essere indagata, è legittimo o no? Perché non lo togliamo? E qui intervenne con un comunicato, l'ex commissario Rossi, che disse che era impensabile, non si sapeva all’epoca che c’erano intercettazioni già del 2005 a carico dell’Inter. E tutto finisce in una bolla di sapone. Tanto ormai l’epoca Moggi era lontana. Da Bergamo e dall’ex parlamentare Latorre sappiamo che c’era in atto un cambiamento importante in quegli anni e che agli Elkann poi non dispiacesse così tanto sbarazzarsi di Moggi e Giraudo, due dirigenti ingombranti. Lo stesso Bergamo poi si dice a conoscenza di un patto politico-industriale tra Tronchetti Provera e Montezemolo – tutto ovviamente da dimostrare - e di una cordata con a capo Montezemolo e l’avvocato Grande Stevens e Gabetti, finalizzata a portare a capo del Fiat e anche della Juventus, Elkann. Mentre invece Giraudo e Moggi avrebbero pensato a una Juventus con a capo Andrea Agnelli. L’epoca Moggi viene archiviata e dal suo mondo, da quello che si scoprirà dopo, non c’erano né santi e né eroi.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Erano gli anni dei poteri forti. Silvio Berlusconi presidente del Consiglio e del Milan, la finanza espressione del banchiere Cesare Geronzi con una mano sul calcio, Massimo Moratti all’Inter, Diego Della Valle alla Fiorentina, Franco Sensi alla Roma e Claudio Lotito appena lanciato nell’avventura della Lazio dopo che il crac della Cirio ha cancellato dalla storia Sergio Cragnotti.

FRANCO CARRARO – PRESIDENTE FEDERCALCIO 2001-2006 In quell’epoca avevamo dei problemi, perché l’Italia comunque aveva un grande debito pubblico ecc., però era imprenditorialmente un Paese più importante di quello che è oggi. Il calcio italiano oggi è meno importante perché l’Italia è sul piano imprenditoriale meno importante di quello che eravamo allora.

MASSIMO CELLINO – PRESIDENTE BRESCIA CALCIO Mi chiama Berlusconi: ti devi candidare a tutti i costi perché contro i comunisti… e non rompere i coglioni.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nel 2003 Massimo Cellino è il presidente del Cagliari, ma Silvio Berlusconi lo vuole candidare alla presidenza della Regione Sardegna contro l’uomo del centrosinistra Renato Soru. Ma lui si rifiuta

MASSIMO CELLINO – PRESIDENTE BRESCIA CALCIO E io gli dissi: un presidente di una squadra di calcio non deve avere colore politico. Riprende il campionato, tre, quattro arbitraggi contro… devastanti. Perdevo tre partite di seguito in maniera vergognosa. Vado a Roma a casa di Berlusconi e c’è Franco Pisanu, Berlusconi, e io… Ti devi candidare perché tu mi hai… Sì, gli faccio… Primo: gli arbitri mi stanno massacrando, smettetela con gli arbitri. Berlusconi guarda Pisanu e gli dice: ministro, chiami lei Carraro, gli arbitri devono essere giusti nei confronti del Cagliari e devono smettere… E Franco Pisanu disse: no, chiamo Moggi che è meglio. Berlusconi mi guardò… diventò bianco.

DANIELE AUTIERI Lei che rapporto aveva con Pisanu?

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS FC 1994-2006 Io Pisanu avevo un rapporto che era praticamente un amico mio in quanto che aveva vissuto al paese mio. Eravamo rimasti amici fin da ragazzini e gli davo anche del tu.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il ministro degli Interni non è l’unico a riconoscere il potere di Luciano Moggi. Dentro gli stadi italiani sono in tanti a temere l’ex-ferroviere di Monticiano.

MASSIMO CELLINO – PRESIDENTE BRESCIA CALCIO Io perdetti una partita col Milan per un errore arbitrale, me lo ricordo ancora come se fosse oggi, andai dopo la partita a salutare l’arbitro a San Siro e mi disse, questo arbitro: Oh diglielo a Luciano eh. Poi mi sono reso conto che la vittoria del Milan quella volta portava il Milan allo stesso livello della Juve, erano primi tutti e due in campionato DANIELE AUTIERI E l’arbitro era preoccupato…

MASSIMO CELLINO – PRESIDENTE BRESCIA CALCIO Molto preoccupato diceva… Diglielo a Luciano…

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS FC 1994-2006 Io non ho mai minacciato nessuno né avevo voglia di minacciare. Anche perché…

DANIELE AUTIERI Faceva sentire però la sua autorità

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS FC 1994-2006 Questo è un altro discorso, ma io ero un dirigente pagato, quindi volevo essere rispettato, su questo non c’è dubbio.

DANIELE AUTIERI Però si difendeva bene… gli artigli ce li aveva…

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS FC 1994-2006 Sì, ma c’avevo la squadra, e gli artigli per me erano la squadra, attenzione.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Oltre agli artigli Luciano Moggi aveva anche armi non convenzionali, come le schede telefoniche svizzere che aveva distribuito a designatori e arbitri per parlare senza essere intercettati.

DANIELE AUTIERI Lei queste sim le ha date?

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS FC 1994-2006 Le ho date solo a Bergamo… le avevo date a Pairetto. Parlando delle cose che possono succedere nel calcio, e soprattutto parlando di cose che non possono succedere sul calcio… parliamoci chiaro

DANIELE AUTIERI Di donne diciamo

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS FC 1994-2006 può essere… avevo detto che c’era un sistema, quello delle sim non conosciute, nella fattispecie le svizzere e Bergamo mi disse: dammene una anche a me… e io gliela diedi…

DANIELE AUTIERI Ma lei questa scheda ce l’aveva?

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Pairetto mi portò una scheda e disse: guarda questa scheda me l’ha data Moggi. Quando abbiamo bisogno di parlare magari di arbitri usiamo la scheda, perché possiamo essere anche noi intercettati. Ho provato una settimana, abbiamo fatto due o tre telefonate poi dissi: guarda Gigi io non ce la faccio a tenere anche questa. La scheda la detti a mia moglie, che l’ha esaurita qui in zona.

DANIELE AUTIERI Era un po’ anomalo però

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Sì, era anomalo

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO I segreti di quelle schede svizzere sono serbati nella memoria di chi le sequestrò, il carabiniere incaricato di incontrare Arturo De Cillis, il titolare di un negozio di telefonia di Chiasso che le aveva vendute a un uomo mandato da Moggi.

EX-CARABINIERE OPERAZIONE “OFFSIDE” Lì c’è una dichiarazione mi ricordo benissimo perché l’ho fatta io… falsa di De Cillis.

DANIELE AUTIERI Che era il venditore delle schede.

EX-CARABINIERE OPERAZIONE “OFFSIDE” Io andai al comando provinciale di Como, cominciammo a fare il verbale e lui disse: sì io tengo delle… ma ce l’hai qua? “No”. E dove stanno?

DANIELE AUTIERI In Svizzera

EX-CARABINIERE OPERAZIONE “OFFSIDE” In Svizzera. Io chiamai il comandante e dissi: noi stiamo facendo l’interrogatorio a questo, ma ha detto che le schede stanno là. Ah, stanno là. Eh sì, stanno là. Va bene, tu vai ma non vai. E quindi mi misi in macchina con lui, e andammo in Svizzera, e questo sotto lì in una busta aveva tutti i fogli… DANIELE AUTIERI C’erano i numeri praticamente…

EX-CARABINIERE OPERAZIONE “OFFSIDE” I numeri, tutti i numeri di telefono

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO L’ex carabiniere di fatto conferma che una delle prove principali per sostenere il sistema Moggi nel processo viene sequestrata in modo illegittimo, perché senza rogatoria. Le schede svizzere danno i loro frutti e contribuiscono a confermare il quadro accusatorio dei pm che considerano Moggi il vertice di un’associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva. Il tribunale sportivo lo riconosce colpevole e lo radia a vita. Quello ordinario lo condanna a due anni e quattro mesi di reclusione ma il reato si prescrive. Per la Cassazione Moggi ha commesso sia il reato di associazione a delinquere sia quello di frode sportiva in favore della Juventus, oltre ad aver ottenuto vantaggi personali in termini di accrescimento del suo potere.

DANIELE AUTIERI Come ci si sente ad essere considerato l’anima nera del calcio italiano?

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS FC 1994-2006 Ci si sente male. C’era tutta un’aggregazione a voler cambiare da una parte la gestione della Juventus e da quell’altra di annientare la Juventus, non sul campo perché non erano capaci, ma con artifizi particolari.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Secondo il tribunale di Napoli Luciano Moggi è il vertice di un sistema che si è adoperato per influenzare le decisioni degli arbitri. Sono infatti 11 i fischietti coinvolti nell’inchiesta e accusati di aver tradito la lealtà sportiva.

PAOLO BERTINI – EX ARBITRO Ricordo a Coverciano un raduno nel mese di maggio mi sembra quando arrivarono i carabinieri di via Inselci a Roma e notificarono gli avvisi di garanzia a tutti coloro che erano interessati

TIZIANO PIERI – EX ARBITRO L’avviso di garanzia mi venne consegnato a casa, ricevetti una telefonata, durante il volo di rientro da una trasferta, era la mia prima Champions League.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Non sapendo di essere intercettato, Moggi si vanta di aver chiuso un arbitro nello spogliatoio e per questo viene accusato di sequestro di persona. Siamo al termine di una turbolenta Reggina Juventus, conclusa tra le proteste dei dirigenti della Juve, e il malcapitato è Gianluca Paparesta.

DANIELE AUTIERI Ma Moggi la chiuse veramente nello spogliatoio? Come andò?

GIANLUCA PAPARESTA – EX ARBITRO Assolutamente no! Erano venuti sia lui che Giraudo a lamentarsi. è una vergogna, come si fa, ogni volta che arbitri la Juventus veniamo penalizzati.

DANIELE AUTIERI Lei allora non segnalò il fatto?

GIANLUCA PAPARESTA – EX ARBITRO No della protesta non segnalai, ma non potevo segnalare una chiusura che non c’era stata….

DANIELE AUTIERI Perché non segnalò la protesta?

GIANLUCA PAPARESTA – EX ARBITRO Ci sono stati altri casi di altri dirigenti che sono venuti nello spogliatoio… Non è che li stai a sottolineare come il maestrino

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Paparesta viene considerato un sodale di Moggi e in possesso di una delle schede svizzere, ma poi viene archiviato. La giustizia sportiva lo inibisce per due mesi dai campi da gioco. Alla fine del lungo iter giudiziario l’unico fischietto condannato è Massimo De Santis, anche se la Cassazione sospende la condanna. Secondo i giudici De Santis ha influenzato il risultato di due partite, Lecce-Parma e Fiorentina-Bologna. La procura sportiva chiude invece l’indagine dichiarando che nessuna partita del campionato 2004- 2005 è stata alterata. Moggi è davvero l’unico dirigente sportivo ad aver soffiato nell’orecchio degli arbitri? A distanza di 17 anni l’ex procuratore Lepore racconta la sua verità

GIANDOMENICO LEPORE – PROCURATORE GENERALE NAPOLI 2004-2011 Incominciammo con la Juventus perché era la prima di cui avevamo più elementi raccolti, ma dovevamo passare un po’ a tutte le altre squadre

DANIELE AUTIERI C’erano anche altre squadre?

GIANDOMENICO LEPORE – PROCURATORE GENERALE NAPOLI 2004-2011 Sì, c’erano altre squadre, quasi tutte le squadre, diciamo le cose come sono. Senonché un bel giorno uscì su un supplemento dell’Espresso mi ricordo, che aveva tutte le intercettazioni…

DANIELE AUTIERI Quando stavate ancora in fase istruttoria?

GIANDOMENICO LEPORE – PROCURATORE GENERALE NAPOLI 2004-2011 Sì e quindi automaticamente si interruppe, i telefoni furono chiusi perché nessuno più parlava, e rimase solo la Juventus.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nel maggio del 2006 il settimanale Espresso esce con il libro nero del calcio che riporta il contenuto integrale dell’informativa dei carabinieri quando una costola delle indagini è ancora in corso. DANIELE AUTIERI Voi siete riusciti a capire chi ha dato quelle carte all’Espresso, chi vi ha bruciato?

GIANDOMENICO LEPORE – PROCURATORE GENERALE NAPOLI 2004-2011 Purtroppo no, avevamo dei sospetti ma elementi di prova non ne abbiamo avuti

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Una risposta, anche se parziale, arriva dal tribunale di Roma secondo il quale la fuga di notizie nasce proprio all’interno del nucleo investigativo di via Inselci, il reparto che sta conducendo le indagini su delega della procura di Napoli, per mano di “un pubblico ufficiale infedele”.

GIANDOMENICO LEPORE – PROCURATORE GENERALE NAPOLI 2004-2011 Se fossimo andati avanti ci sarebbero state altre squadre.

DANIELE AUTIERI Quali secondo lei?

GIANDOMENICO LEPORE – PROCURATORE GENERALE NAPOLI 2004-2011 Ma una subito dopo la Juventus che era pronta era l’Inter

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO La fuga di notizie azzoppa le potenziali indagini sugli altri club, ma che tutti giocassero una loro partita viene confermato oggi anche dal designatore Paolo Bergamo.

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Le pressioni le avevamo? Eccome se le avevamo DANIELE AUTIERI Ma da tutti?

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Ma da tutti, questo non c’è dubbio…

DANIELE AUTIERI C’è qualche squadra che non l’ha mai chiamata?

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 No.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Negli ultimi dieci anni Luciano Moggi ha disseminato intercettazioni come fossero briciole di Pollicino. Alcune di queste sono cadute nel dimenticatoio, altre non sono mai uscite dal cilindro del prestigiatore e sono rimaste inedite, come quella successiva alla partita Juventus-Inter del 20 aprile del 2005, terminata con la vittoria dell’Inter per 1 a 0.

INTERCETTAZIONE DEL 20/4/2005 DE SANTIS-BERGAMO PAOLO

BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Massimo

MASSIMO DE SANTIS – ARBITRO SERIE A Paoletto

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Allora…

MASSIMO DE SANTIS Mamma mia

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Mamma mia... Eh ma son giù eh

MASSIMO DE SANTIS Comunque Paolo l’importante è che questa è andata bene perché sennò sai che casino che succedeva

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Sì eh… Massimo, te se esci con quello… con campionato non d’oro, di più!

MASSIMO DE SANTIS Ma che scherzi

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Quello che parla è Massimo De Santis, uno degli arbitri coinvolti dall’inchiesta perché considerato una pedina di Moggi. In questo caso l’arbitro si confida con il suo designatore e si dice sollevato dopo la vittoria dell’Inter.

DANIELE AUTIERI Dopo un Inter-Juventus De Santis le dice: menomale che è andata bene sennò qui sarebbe successo un casino…

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 mi chiamò mi disse: siamo stati fortunati che è andato tutto nel verso per cui accuse non ce ne possono fare, era così

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Gli scontri tra la Juventus e l’Inter sono sicuramente tra i più delicati da arbitrare. Un match sotto i riflettori che prima dell’incontro di andata del 28 novembre del 2004 richiede persino l’intervento dell’allora presidente della Federcalcio, Franco Carraro.

INTERCETTAZIONE DEL 28/11/2004 CARRARO–BERGAMO FRANCO CARRARO – PRESIDENTE FEDERCALCIO 2001-2006 Chi c’è li a Juventus…

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Rodomonti… Inter-Juventus

FRANCO CARRARO – PRESIDENTE FEDERCALCIO 2001-2006 Mi raccomando che non aiuti la Juventus per carità di dio eh… che è una partita delicatissima in un momento delicatissimo della Lega per carità di dio… che non aiuti la Juventus

DANIELE AUTIERI C’è un’intercettazione di Bergamo dove parla con lei e lei gli dice prima di uno JuventusInter, mi raccomando non favorite la Juventus.

FRANCO CARRARO – PRESIDENTE FEDERCALCIO 2001-2006 Io dico guardi che se fosse Collina non sarebbe problema perché se sbaglia Collina nessuno dice niente. Rodomonti è un arbitro che non ha una grande reputazione… per carità di dio se va Rodomonti e sbaglia contro l’Inter succede un casino.

DANIELE AUTIERI Lo stesso Carraro, che le telefona e le dice, state attenti alla Juve piuttosto fate vincere l’Inter… lei come le viveva queste? Non come pressioni?

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Le vivevo come una situazione che dovevo affrontare… cioè che questa pressione fosse su di me per quello era il mio compito… gli arbitri non hanno mai saputo niente di queste pressioni

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Almeno in questo caso non è andata così, perché dopo la telefonata di Carraro, Bergamo chiama Rodomonti, l’arbitro designato e lo mette in guardia.

INTERCETTAZIONE DEL 28/11/2004 RODOMONTI–BERGAMO PASQUALE RODOMONTI Paolo

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Mi raccomando Pasquale perché hai faticato per arrivare lì, per ritornarci; quindi, io mi aspetto credimi che tu non sbagli niente…

PASQUALE RODOMONTI Mi fa immensamente piacere quello che mi hai detto perché è la verità

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Oltretutto c’è una differenza tra le due squadre di 15 punti, capito. Se ti dico proprio la mia in questo momento se hai un dubbio, pensa più a chi è dietro che a chi è davanti, dammi retta

FUORI CAMPO DANIELE AUTIERI Mentre la Juve sta vincendo 2-0, il portiere dell’Inter Toldo commette un fallo da espulsione, ma Rodomonti non tira fuori il cartellino rosso. L’episodio controverso anticipa la rimonta della squadra di Moratti, che chiude la partita con un pareggio. DANIELE AUTIERI Rodomonti lei lo chiamò dopo Carraro…

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 L’unico, è vero. Quando fu sorteggiato sfortunatamente ancora per una gara delicata che c’era la Juventus dissi: guarda, bene, fai attenzione, è vero, non certo mi voglio nascondere dietro a un dito, se hai dei dubbi cerca di risolverli bene e non ti creare danni.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Come la Juventus le intercettazioni dimostrano che anche il Milan, allora il principale contendente alla vittoria dello scudetto, brigava per avere degli arbitraggi “amici”. L’uomo designato era Leonardo Meani, ex-arbitro, una famiglia di ristoratori, vicinissimo al vicepresidente del Milan e allora presidente di Lega, Adriano Galliani.

LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 Ero qua, nel mio ristorante, e ad un certo punto ricevo una telefonata. E dico: chi è. Sono il maresciallo tal dei tali, della Procura di Napoli e sto venendo perché le devo consegnare un avviso di garanzia.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Meani viene rinviato a giudizio per associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva, perché avrebbe fatto pesare il suo ruolo per influenzare l’operato di alcuni arbitri. Il tribunale di Napoli lo condanna in primo grado, ma anche la sua vicenda si chiude con la prescrizione. È lui l’anello di congiunzione tra gli arbitri e Adriano Galliani, vicepresidente del Milan e presidente della Lega Calcio, l’uomo che organizza l’incontro segreto con Pierluigi Collina, l’ex-numero uno dei fischietti italiani oggi presidente della Commissione Arbitri della Fifa

INTERCETTAZIONE DEL 13/04/2005 COLLINA-MEANI LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 Lui addirittura a me ha detto organizziamo lì da te a Lodi … però io dico anche da me sai, perché sennò la cosa per incontrarsi… o lui ha detto anche a casa sua, a casa di Galliani

PIERLUIGI COLLINA Però il problema è che sia io che lui siamo ben riconoscibili, per cui non vorrei che qualcuno vede così… forse l’ideale potrebbe essere proprio la sera di chiusura del tuo locale…

LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 Esatto a Lodi

PIERLUIGI COLLINA una volta che io entro nel parcheggio, sei nel tuo ristorante, non ti vede nessuno

LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 Cancello chiuso…

PIERLUIGI COLLINA Ecco appunto nessuno ti vede, lì nessuno ti vede

LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 Collina un giorno mi chiama e mi dice: mi ha chiamato Carraro e mi ha proposto di fare il designatore. Però, sempre mi dice, io ho ancora due anni per arbitrare e chiaramente prima di dire sì e di accettare vorrei sentire il parere del presidente della Lega. DANIELE AUTIERI Non era anomalo secondo lei che incontrasse Galliani?

LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 Eh no, presidente di Lega, purtroppo o per fortuna Galliani aveva questo doppio ruolo, rivestiva questo doppio ruolo.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Da presidente della Lega Calcio e uomo di Silvio Berlusconi Galliani agisce su livelli più alti e in alcuni casi l’ascensore delle richieste parte dai campi di calcio e arriva fino alla presidenza del Consiglio.

INTERCETTAZIONE DEL 27/4/2005 MEANI–GALLIANI ADRIANO GALLIANI – VICEPRESIDENTE MILAN Dica a Paparesta allora, il dossier, ecc. è nelle mani di Letta.

LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 Perfetto

ADRIANO GALLIANI – VICEPRESIDENTE MILAN Che questa mattina mi ha chiamato, mi ha detto che conosce la vicenda, che interverrà…

DANIELE AUTIERI C’è un’intercettazione in cui Galliani le dice che il dossier di Paparesta è nelle mani di Gianni Letta

LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 Paparesta viene a fare una partita a Milano, finita la partita mi dice: ah io mi occupo, sono il revisore dei conti di questa azienda che si occupa di energie rinnovabili, una cosa del genere. Avrei piacere se fosse possibile far arrivare questo studio agli uffici della presidenza del consiglio. DANIELE AUTIERI Un favore…

LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 Era un favore, ma di lavoro.

GIANLUCA PAPARESTA – EX ARBITRO diciamo io faccio il dottore commercialista, mi sono sempre occupato di operazioni legate anche al mondo dell’energia, della finanza, tutto il resto…

DANIELE AUTIERI Non era un po’ inopportuno secondo lei?

GIANLUCA PAPARESTA – EX ARBITRO Sicuramente col senno di poi sì

INTERCETTAZIONE DEL 27/4/2005 MEANI–PAPARESTA LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 allora il tuo dossier è già nelle mani di Letta… Il quale conosceva già, aveva già, conosceva già…

LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 Tu puoi dire ai tuoi clienti… mi ha chiamato poco fa Galliani, ha detto me lo saluti tanto e di stare in gas …

PAPARESTA Ahahaha, cerchiamo sempre di stare in gas, è importante

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Prima dell’intercettazione incriminata, Paparesta era già finito nell’occhio del ciclone perché accusato di aver favorito il Milan in altre occasioni. Una di queste è la partita Milan-Empoli del 10 aprile 2004, quando a pochi minuti dalla fine Paparesta fischia un rigore discusso a favore del Milan ed espelle il portiere dell’Empoli. Il match finirà con la vittoria della squadra di Berlusconi. E oggi Leonardo Meani rivela qual era il sistema per operare le pressioni sugli arbitri.

LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 Poi ti do un’altra dritta… certo che dice: non ci sono soldi. Ma sai quali erano i soldi: i soldi erano che per fare le partite prendevano 5mila euro a partita sti arbitri di serie A. E se io rompevo il cazzo o qualcun altro e diceva… come fai di cognome? Autieri per due mesi lo tieni fermo… non lo mandi più in Serie A questo qui… E tu dentro la tua testa dici: cazzo, ma io perdo sei partite, sei per cinque, sono 30mila euro… son soldi eh.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’intercettazione inedita che abbiamo ascoltato tra De Santis e Bergamo, considerati due pupilli di Moggi, insomma, fa un po’ effetto sentirli esultare di una vittoria dell’Inter ai danni della Juve. Questo dimostra che la realtà è piena di sfumature, così come l’altra intercettazione, che vede coinvolti l’arbitro Paparesta, ritenuto vicino al Milan, e l’ex dirigente del Milan, Meani. È la prova che, oltre a sventolare minacce, sventolavano anche la possibilità di fare affari. Questa volta a creare il link tra l’arbitro Paparesta e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, perché prendesse a cura gli affari dell’arbitro, è il vicepresidente del Milan Adriano Galliani, che è anche presidente della Lega. Gli interessi del calcio arrivano fino alla presidenza del Consiglio dove c’è Silvio Berlusconi. E il Milan è una fonte importantissima di voti, ma deve contendersi lo scudetto con la Juventus di quel Luciano Moggi a cui tutti si rivolgono anche per chiedere favori. L’ha fatto, intercettato, anche l’ex ministro dell’Interno, Pisanu, per chiedergli aiuti arbitrali per la sua squadra, Torres Sassari, che militava all’epoca in C1, ma Sassari è il collegio dove racimolava voti, dove è stato eletto. Per quello che riguarda, invece, le SIM svizzere, che sono state considerate una prova principe nell’ambito di uno dei filoni dei processi nati da Calciopoli, che hanno consentito di ricostruire la rete di rapporti di Luciano Moggi, l’investigatore che le ha recuperate ha detto: guardate che sono state recuperate in maniera anomala, non c’è stata una rogatoria per andare a prenderle in Svizzera, ci sono andato io ed è stato anche firmato, stilato un verbale falso, si è detto che sono state raccolte a Como e non è vero. Poi, che fine ha fatto invece chi è che ha coordinato le indagini? L’ex maggiore dei Carabinieri, Attilio Auricchio, era stato chiamato dall’ex magistrato De Magistris, quando era diventato sindaco di Napoli, a dare una mano al Comune come dirigente esterno. Oggi si occupa della bonifica di Bagnoli. Tra 30 secondi poi mostreremo altre intercettazioni inedite. Chi altro era coinvolto?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora: 2006. Calciopoli. Dopo la Juventus anche la Fiorentina viene coinvolta con Andrea e Diego Della Valle, che sono presidente e presidente onorario della squadra di calcio. Secondo quello che scrive la Cassazione, si avvicinano al sistema perché erano stati emarginati e danneggiati, ma non chiedono poi degli arbitraggi imparziali bensì pensano di poter recuperare i presunti torti ricevuti. Si avvicinano anche, per compiacenza, a quel sistema di potere che era all’interno della FIGC per garantirsi scelte oculate negli arbitraggi del futuro. Un sistema che avrebbe operato a sé stante rispetto al “mondo Moggi”. E poi c’è anche il patron della Lazio, Claudio Lotito. Anche qui la Cassazione scrive che sono state numerose le telefonate con pressioni sugli arbitri. E poi si inserisce, Lotito, anche nelle dinamiche della successione alla guida della FIGC, una volta uscito Carraro, per favorire l’entrata di Abete. Questo per garantirsi il «salvataggio» della Lazio. Coinvolto anche, come abbiamo visto, il dirigente Meani, del Milan. Ma altre squadre sarebbero dovute entrare nelle indagini, dice Lepore. Non si è fatto in tempo perché c’è stata una fuga di notizie: tutti coloro che erano intercettati da un certo punto in poi non parlano più. E qui è utile un po’ la chiavetta, invece, di Moggi che contiene due telefonate inedite, una di Facchetti e l’altra di Carraro.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Dentro gli spogliatoi, nelle salette riservate, nei tunnel degli stadi, i grandi club si agitano per portare gli arbitri dalla loro, arrivando a stringere alleanze insolite, come quella tra l’Inter di Moratti e il Milan di Berlusconi.

INTERCETTAZIONE DEL 20/4/2005 MEANI-GIORNALISTA GIORNALISTA Qui dicono che con De Santis l’Inter non vince

LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 Eh, lo so anche io…

GIORNALISTA Io ho avuto due parole, non ti dico con chi, poi te lo dirò a voce… mi dicono qui quelli del Milan hanno lavorato male, perché ci siamo trovati De Santis sulle palle che cosa facciamo…

LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 Quelli del Milan? Devono svegliarsi quelli dell’Inter…

GIORNALISTA Ma qui la posta in palio non è più quella dell’Inter, la posta in palio è quella del Milan. Quindi è il Milan che ha dormito.

LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 vedi la differenza, io quando ho giocato Juve-Milan De Santis non ce l’avevo neanche in griglia…

GIORNALISTA Ahahah …

LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 È vero eh…

LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 Io ho preso il telefono e ho detto: se c’è in griglia De Santis spariamo i cannoni di Navarone

DANIELE AUTIERI Se non ricordo male c’è un’intercettazione sua con un giornalista in cui parlate della partita Inter-Juve…

LEONARDO MEANI Sa che sinceramente non me la ricordo questa telefonata…

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Dopo la vittoria dell’Inter per 1-0 la Juventus si lamenta della conduzione arbitrale e si chiude in silenzio stampa. È allora lo stesso De Santis, da molti considerato un sodale di Luciano Moggi che chiama il dirigente del Milan Meani, congratulandosi con sé stesso per la sconfitta della Juventus.

INTERCETTAZIONE DEL 20/4/2005 DE SANTIS-MEANI LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 Aho

MASSIMO DE SANTIS Allora

LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 Cazzo ormai ti voglio bene solo io, puttana eva

MASSIMO DE SANTIS Ormai niente… ho fatto fa’ il silenzio stampa alla Juve ma ti rendi conto… non c’era riuscito nessuno nella storia del calcio.

DANIELE AUTIERI Anche l’Inter diciamo cercava di difendersi…

LEONARDO MEANI – RESPONSABILE ARBITRI AC MILAN 2001-2005 Sa adesso, è una persona che stimavo tantissimo, c’è qualcosa che riguarda molto marginale Facchetti, è proprio la dimostrazione che… ognuno faceva… DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Giacinto Facchetti è stato uno dei più grandi calciatori italiani, oltre ad aver ricoperto la carica di Presidente dell’Inter dal 2004 al 4 settembre del 2006, giorno della sua morte. E proprio in quegli anni anche l’Inter gioca la sua partita di potere. Mancini, allora allenatore del club, rivuole il suo pupillo Andreolli e il medico – secondo l’allora vicepresidente della Federcalcio – invia alla Nazionale un certificato falso.

INTERCETTAZIONE DEL 26/5/2005 MAZZINI–FACCHETTI

INNOCENZO MAZZINI – VICEPRESIDENTE FEDERCALCIO Ma che sta succedendo con questo Andreolli… prima fate un certificato falso, poi lo rivolete…

GIACINTO FACCHETTI – PRESIDENTE FC INTER Ma no, no quello lì del certificato falso è veramente una palla grossa come una casa INNOCENZO MAZZINI – VICEPRESIDENTE FEDERCALCIO L’avete mandato però

GIACINTO FACCHETTI – PRESIDENTE FC INTER E perché il nostro medico ha fatto questa ecografia e secondo lui c’era una lesione tra il primo e il secondo grado. Poi è venuto a fare l’allenamento, scaldandosi così non ha sentito male. Adesso Mancini chiama e dice, ma io domenica devo farlo giocare…

NNOCENZO MAZZINI – VICEPRESIDENTE FEDERCALCIO Ma questo ragazzo è a fare l’Europeo domani gioca eh.. È in Ungheria questo ragazzo…

GIACINTO FACCHETTI – PRESIDENTE FC INTER Ah, in Ungheria.

INNOCENZO MAZZINI – VICEPRESIDENTE FEDERCALCIO Giacinto io fo qualunque cosa, però un minimo di decenza bisogna averlo…

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO La società fa anche altro e quando arrivano le partite che contano si fa sentire con il designatore degli arbitri.

INTERCETTAZIONE DELL’11/5/2005 FACCHETTI-BERGAMO

GIACINTO FACCHETTI – PRESIDENTE FC INTER Ho guardato lo score di Bertini, 4 vittorie, 4 pareggi, 4 sconfitte

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Porca miseria, facciamo 5, 4, 4 allora… Eh sì, ma vittorie però

GIACINTO FACCHETTI – PRESIDENTE FC INTER Diglielo che è determinante domani…

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 È un ragazzo intelligente… ha capito ora come si cammina, ci è voluto un po’ a capire ma insomma... meglio tardi che mai, dai!

DANIELE AUTIERI Facchetti la chiama per una semifinale di Coppa Italia su Bertini e le dice: mi raccomando facciamo in modo…

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 e io gli rispondo facendo una mezza battuta alla livornese

DANIELE AUTIERI una capriola PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 eh si, facendo una capriola, certamente non mi sono permesso di dire a Bertini, fai attenzione al quinto risultato.

DANIELE AUTIERI Bergamo la chiamò dopo quella telefonata con Facchetti?

PAOLO BERTINI – ARBITRO SERIE A 1999-2007 No, assolutamente.

DANIELE AUTIERI è vero che la chiamò Moratti e che Facchetti venne nello spogliatoio da lei a dirle qualcosa, insomma a chiederle…

PAOLO BERTINI – ARBITRO SERIE A 1999-2007 Non ricordo che fosse venuto Moratti nello spogliatoio, sicuramente Facchetti DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Bertini non la dice tutta. Interrogato nel corso di un processo lo stesso arbitro rivela che, in quell’occasione, Facchetti disse: “Speriamo di correggere la prima casella con questa partita”, ovvero la casella delle vittorie dell’Inter. Dalla testa alla coda della classifica in tanti sono alla ricerca di un santo in paradiso, anche la Fiorentina di Diego Della Valle che rischia la retrocessione e smania per ottenere un aiuto, cercando una sponda prima in Luciano Moggi quindi nel presidente della Federcalcio, Franco Carraro.

DANIELE AUTIERI Ci stanno un paio di intercettazioni sulla Fiorentina… anche sue

FRANCO CARRARO – PRESIDENTE FEDERCALCIO 2001-2006 Mie no…

DANIELE AUTIERI Di protezione della Fiorentina

FRANCO CARRARO – PRESIDENTE FEDERCALCIO 2001-2006 No. Fiorentina non è vero

INTERCETTAZIONE DELL’8/5/2005 CARRARO-BERGAMO

FRANCO CARRARO – PRESIDENTE FEDERCALCIO 2001-2006 Chi ha dato Chievo-Fiorentina?

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Dondarini… FRANCO CARRARO – PRESIDENTE FEDERCALCIO 2001-2006 Ah buono no?

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Sì, internazionale, però ha avuto una partita sfortunata con la Fiorentina… è quello della doppia espulsione dottore…

FRANCO CARRARO – PRESIDENTE FEDERCALCIO 2001-2006 Eh vabbè avrà imparato.

PAOLO BERGAMO – DESIGNATORE ARBITRI SERIE A 1999-2005 Penso proprio di sì.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO La Fiorentina vince 2-1 grazie anche a un presunto rigore non concesso al Chievo. Una vittoria che permette alla squadra di Della Valle di credere ancora nella salvezza. Allo stesso modo Carraro interviene in sostegno della Lazio, e in un’intercettazione del 3 febbraio 2005, dopo l’ennesima sconfitta del club, chiama il designatore Bergamo: “domenica giocano a Milano e vabbè – dice Carraro -, ed è una partita oggettivamente difficile, poi però bisogna dargli una mano”. E Bergamo lo rassicura: “Recuperiamo, recuperiamo”.

FRANCO CARRARO – PRESIDENTE FEDERCALCIO 2001-2006 La Lazio aveva subito una serie di ingiustizie. Giocano la partita, qui a Roma, e gli negano un rigore plateale, ma plateale. Io avevo detto a Bergamo, per favore state attenti, per favore diamo una mano alla Lazio

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nel 2006 Claudio Lotito viene deferito per 4 mesi perché avrebbe esercitato pressioni sulla classe arbitrale, mentre per la giustizia ordinaria il reato di frode sportiva si prescrive. Nel 2017 la Corte dei Conti condanna in appello i designatori Bergamo e Pairetto e altre 10 persone tra arbitri e dirigenti a restituire alla Federcalcio oltre un milione di euro. Ma ancora oggi non è stato versato un euro perché si attende il pronunciamento finale della Cassazione

DANIELE AUTIERI Dopo Calciopoli ha visto più il calcio allo stesso modo di come lo vedeva prima?

GIANDOMENICO LEPORE – PROCURATORE GENERALE NAPOLI 2004-2011 Dopo Calciopoli a me m’hanno fatto un guaio perché io andavo a vedere le partite e, debbo dire la verità, quando vedevo correre l’attaccante verso la porta, mi chiedevo sempre: ma questo adesso si è messo d’accordo con il portiere e con il difensore o sta correndo per i fatti suoi e va a segnare “legalmente”, diciamo così? E così ho preferito non andare allo stadio.

DANIELE AUTIERI Un po’ disamorato, diciamo.

GIANDOMENICO LEPORE – PROCURATORE GENERALE NAPOLI 2004-2011 Ah.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E pensare che lui apparteneva a quella schiera di magistrati super tifosi del Napoli che avevano condotto con tigna l’inchiesta su Calciopoli. Su Moggi si è anche espressa la Corte d’Appello del tribunale di Milano in merito a una causa per diffamazione intentata dal figlio di Giacinto Facchetti. Scrive la Corte d’Appello che ha riconosciuto che su Calciopoli il problema non fosse ascrivibile al solo sistema Moggi, ma si trattasse di una corruttela diffusa. Gianfelice Facchetti invece ci scrive che “in quella causa il giudice è arrivato a sentenza senza dibattimento in aula e che suo padre Giacinto non avrebbe mai chiesto favori per sé o per l’Inter al designatore Bergamo”. Senza ovviamente gettare ombre sulla figura di Giacinto Facchetti, esemplare giocatore e galantuomo, va ricordato per amore di verità, che nel 2011 il procuratore Palazzi, il procuratore federale, aveva detto che bisognava indagare invece sull’Inter e sull’operato dei suoi dirigenti, perché erano emerse dalle intercettazioni delle presunte irregolarità. Però non si è approfondito perché era caduto tutto già in prescrizione. Calciopoli alla fine, ha spazzato via il trio Giraudo-Moggi-Bettega che aveva dominato la scena calcistica di quegli anni. Tuttavia immaginiamo che nessuno a Torino, abbia versato lacrime.

Estratto da ilfattoquotidiano.it il 19 aprile 2023.

Silvio Berlusconi mi disse che c’erano delle intercettazioni, ma aggiunse che non c’era niente di illegale e che non dovevo preoccuparmi”. Luciano Moggi racconta che fu avvisato dell’inchiesta che poi esploderà nel caso Calciopoli dall’ex premier e leader di Forza Italia, che all’epoca era anche presidente del Milan. Diciassette anni dopo Report torna a parlare di Calciopoli, proprio partendo dal contenuto di una chiavetta Usb consegnata dall’ex direttore generale della Juventus. 

La tesi di fondo, che secondo la stessa trasmissione resta “tutta da dimostrare“, è che dietro l’inchiesta di Calciopoli ci fosse un “patto politico-industriale“. Una suggestione avanzata da Paolo Bergamo, ex designatore degli arbitri che si dimise dopo lo scoppio dello scandalo. Proprio dalle dichiarazioni di Bergamo emergono anche nuovi dettagli sul ruolo dell’Inter e di Massimo Moratti: da una cena nel 2002 agli accertamenti sui favoritismi arbitrali che, secondo Report, furono commissionati dall’allora capo della security di Telecom, Giuliano Tavaroli, proprio su richiesta dell’allora presidente nerazzurro.

Il “patto politico-industriale” – Berlusconi, stando a quanto racconta Moggi, avvisò il dirigente bianconero delle intercettazioni, ma lo tranquillizzò sugli esiti dell’inchiesta. Alla fine invece lo scandalo è scoppiato, ma secondo la ricostruzione di Report in molti ne erano già al corrente. Bergamo ha detto che in proposito ebbe una conversazione con Nicola Latorre, senatore del Pd: “Mi disse che secondo lui stava finendo la prima repubblica del calcio italiano“. Secondo il designatore arbitrale, ci fu un’intesa fra gli imprenditori Massimo Moratti e Marco Tronchetti Provera, in orbita Inter, e alcuni personaggi di Torino che gravitavano intorno alla famiglia Agnelli, compreso Luca di Montezemolo. L’obiettivo era portare John Elkann al vertice del gruppo Fiat, mentre alla Juventus con Antonio Giraudo, all’epoca amministratore delegato, sarebbe toccata ad Andrea Agnelli, figlio di Umberto Agnelli, al quale Giraudo era molto legato. Report, più in generale, parla di “una battaglia di potere tra i grandi padroni del calcio”, da Berlusconi a Moratti, dalla famiglia Agnelli a Franco Sensi, dai fratelli Della Valle alle banche che avevano messo un piede nel calcio italiano. 

Le “indagini illegali” di Moratti e Tavaroli – La ricostruzione della trasmissione di Rai 3 riporta poi “le attività di spionaggio condotte da altri club nei confronti dei dirigenti della Juventus, oltre che di alcuni arbitri”. Si parla appunto dell’Inter e di Moratti. La ricostruzione parte da una “cena segreta” tra l’allora presidente dell’Inter e il designatore degli arbitri Bergamo. È uno dei retroscena rivelati a Report dallo stesso Bergamo. Moratti, racconta, lo aveva invitato dopo la sconfitta del 5 maggio 2002 con la Lazio costata ai nerazzurri lo scudetto. La cena ci fu a luglio. “Moratti – ha raccontato Bergamo – mi chiese perché gli arbitri ce l’avevano con l’Inter“. In seguito, secondo la ricostruzione di Report, Moratti si rivolse all’allora capo della security di Telecom, Giuliano Tavaroli, per fare svolgere degli accertamenti sui favoritismi arbitrali: un “lavoro di intelligence” che Tavaroli commissionò alla società Polis Distinto. “Ma erano indagini illegali e io quando lo seppi feci causa”, ha commentato Bergamo. 

(...)

Da ilnapolista.it il 24 gennaio 2023.

 La Repubblica, con Dario Del Porto, intervista Stefano Capuano uno dei pm di Calciopoli.

«Ero convinto che la vicenda Calciopoli potesse rappresentare l’opportunità per voltare finalmente pagina, invece si è persa un’occasione».

 «Il clamore che aveva accompagnato quell’indagine e le sentenze, sia della giustizia ordinaria, sia di quella sportiva, mi avevano fatto credere che si potesse tirare una riga rispetto a un passato dove si tentava di raggiungere il risultato ad ogni costo, dimenticando che il calcio rimane innanzitutto uno sport. Purtroppo, devo prendere atto che è finito tutto nel dimenticatoio».

A cosa si riferisce?

«Molti dei protagonisti di quell’inchiesta continuano ad avere ruoli nel mondo del calcio. E non sto parlando solo del principale imputato (Luciano Moggi ndr) per il quale è stato più difficile far dimenticare il suo coinvolgimento, ma di dirigenti, presidenti e anche esponenti del mondo arbitrale. È inutile fare nomi, nelle sentenze c’è tutto. È un peccato, il calcio italiano poteva intraprendere una strada diversa».

Secondo lei la Federcalcio avrebbe dovuto regolamentare il regime delle plusvalenze?

«Sicuramente occorre fissare dei parametri proprio per evitare ciò che accade oggi, dove le norme sono talmente aleatorie da consentire, almeno in linea teorica, di giustificare qualsiasi operazione. Ma mi rendo conto che non è facile (…). Per lavorare a questa riforma ci vorrebbe una struttura federale forte che in questo momento, a mio avviso, manca».

Abodi ha perso le mie chiavette? Allora riascolti Report...Luciano Moggi su Libero Quotidiano il 19 aprile 2023

Luciano Moggi nasce a Monticiano il 10 luglio 1937. Dirigente di Roma, Lazio, Torino, Napoli e Juventus, vince sei scudetti (più uno revocato), tre Coppe Italia, cinque Supercoppe italiane, una Champions League, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa europea, una Coppa Intertoto e una Coppa Uefa. Dal 2006 collabora con Libero e dal 13 settembre 2015 è giornalista pubblicista.

Mi dispiace signor ministro Abodi, per lo smarrimento della chiavetta... Comunque dopo la trasmissione di Report non ne avrà più bisogno e visto che a Radio Anch’io, il giorno stesso della trasmissione, ebbe a dichiarare che se ne fosse stato in possesso, avrebbe allertato “immediatamente” le autorità competenti, spero adesso che lo faccia perché Report ha scoperchiato la pentola. Basterà mettere in fila le dichiarazioni di Franco Carraro, il vero manovratore del campionato, intese a salvaguardare alcune società dalla retrocessione, con intromissione anche nella lotta al vertice: prima di Inter-Juventus del 2004, telefonava a Bergamo imponendogli di dire all’arbitro Rodomonti di non fare favori alla Juventus e di pensare magari a chi stava dietro (Inter).

E Bergamo, eseguendo l’ordine del presidente, telefonava all’arbitro Rodomonti per dirgli di non fare favori alla Juve. In altra occasione, Bergamo, riferendosi questa volta alla squalifica di Ibrahimovic e al ricorso fatto dalla Juve contro la squalifica, disse a Meani (dirigente addetto agli arbitri del Milan) di non preoccuparsi perché l’assistente Griselli, la cui testimonianza poteva far respingere il ricorso, era di Livorno come lui (Bergamo) e di conseguenza il ricorso poteva considerarsi respinto (e così avvenne). Dalle intercettazioni emergeva poi che Meani, aveva colloqui giornalieri con Collina, a cui fissò persino un appuntamento con Galliani, all’epoca presidente di Lega. E anche quanto emerso su Galliani e il Milan stesso, che usava addirittura la politica allertando il sottosegretario Gianni Letta per favorire l’arbitro Paparesta.

O quanto emerso sul compianto presidente dell’Inter che andava nello spogliatoio degli arbitri prima della semifinale di Coppa Italia a chiedere all’arbitro Bertini di far vincere la sua squadra. Questa signor ministro Abodi era la vera associazione a delinquere, non la Juventus e i suoi dirigenti. Si domandi come abbiano fatto Auricchio, gran regista e il pm Narducci a dire: «piaccia o non piaccia non ci sono telefonate di Inter e Milan e altre società con arbitri e designatori». Un magistrato, il dottor Magi, che scavando su tutte le intercettazioni non volute sentire a Napoli, aveva evidentemente capito tutto, infatti nella sentenza della Corte D’Appello di Milano 2166 del 2018, oltre a smentire i colleghi di Napoli, condannava Gianfelice Facchetti, autore della querela contro il sottoscritto, scrivendo che il di lui padre, «faceva lobbing con gli arbitri» e il procuratore federale Palazzi addirittura aumentava la dose, «l’Inter è la società che rischia più di tutte per il comportamento illegale del suo Presidente». E per finire fu scritto in sentenza che, «non erano da ascrivere colpe al cosiddetto sistema Moggi perché era una corruttela generale vigente nel calcio di quel tempo».

Dal 2006 è passato tanto tempo, ma la verità non ha età. Mi auguro che il presidente Mattarella abbia seguito tutte le incongruenze del processo ordinario e voglia dare un contributo a questa verità che non ha niente a che vedere con quella sbandierata dai Palamara, Auricchio e Narducci. E, assieme al premier Giorgia Meloni, al ministro dello Sport Abodi riesca a far dire al presidente federale Gabriele Gravina i motivi della radiazione, visto che il processo sportivo cosi sentenziava: «campionato regolare, nessuna partita alterata». Sentenza che tra l’altro spingeva un maresciallo dei carabinieri di Roma, che indagava sul caso, a dire che non c’erano le basi per fare un processo. Così facendo sarà reso anche un servizio alla credibilità della giustizia. Basterà osservare la diversità tra le due sentenze: quella del processo di Napoli e quella della corte d’appello di Milano. E il motivo del contendere era sempre lo stesso per entrambi i processi. 

Caso Juventus, Moggi regala a Agnelli la chiavetta Usb con le prove di Calciopoli. Luca De Lellis su Il Tempo il 27 dicembre 2022

È una ferita che non si rimarginerà mai. Nemmeno all'alba dei suoi 85 anni. Luciano Moggi rompe il silenzio. "Dato che io sono uno abituato a vivere e non a esistere, continuo a combattere per Calciopoli. Noi siamo considerati colpevoli di cose che hanno fatto altri. Ho qui una chiavetta che finalmente è completa di tutto". Intervenuto durante l'assemblea degli azionisti della Juventus (lui detiene una minima parte), l'ultima presieduta da Andrea Agnelli, l'ex dirigente della società bianconera ha svelato l'ennesima storia di una saga interminabile, contenuta all'interno di una chiavetta Usb. "Carraro diceva che la Fiorentina non poteva retrocedere e neanche la Lazio, ma chiedeva di non aiutare la Juventus prima di una partita contro il Milan. E ci sono le registrazioni di Meani che parla degli arbitri. Le intercettazioni le potete sentire pure voi". E quindi, come la giustizia sportiva ha "riaperto il caso plusvalenze, si può anche riaprire Calciopoli".

Moggi ha poi regalato quella chiavetta ad Andrea Agnelli. Un passaggio di consegne, per un uomo che stima e per il quale spende parole di ringraziamento. Questa la ragione della sua partecipazione. "Sono venuto per ringraziare Andrea. Nove scudetti consecutivi non si vincono con facilità. Solo chi c'è dentro sa le difficoltà che ci sono per vincere". Lui non ha dubbi. L'ombra che da molti anni aleggia sull'operato delle varie dirigenze juventine "è solo una leggenda". Per Moggi dire che "la Juventus vince perché ruba è assurdo". Non solo, "la società ha vinto sempre sul campo, anzi forse hanno rubato qualcosa a noi. Come a Perugia con il naufragio del Curi (stagione 1999/00 nella quale vinse la Lazio al fotofinish n.d.r), ma anche l'anno dopo cambiando le regole in corsa per la Roma facendo giocare Nakata". 

Mai banale, sempre polemico e polarizzante. C'è chi sta con lui e chi gli rema contro. Anche perché non sempre si fa volere bene, come quando ha attaccato, pur senza nominarlo, l'ex dirigente dell'Inter Lele Oriali. "Ricordate cos’è successo con i passaporti. L’Italia è questa. Guardate chi sta in panchina a fare il Team Manager nella Nazionale, quello che ha falsificato il passaporto di Recoba". Si parla di un altro caso, "Passaportopoli", che portò nel 2006 alla condanna per ricettazione e concorso in falso di Oriali e di Recoba. Ma questa è un'altra storia. O meglio, un'altra ferita, per Luciano Moggi.

Moggi a sorpresa in assemblea Juve. Consegna ad Agnelli una chiavetta Usb: «Qui c’è tutta Calciopoli». Nicola Balice e Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 27 dicembre 2022

L'ex dg: «Sono qui per ringraziare Andrea. La Juventus ha vinto sempre sul campo, anzi forse hanno rubato qualcosa a noi»

C'è anche un intervento a sorpresa, ma non troppo, tra un azionista e l'altro. È quello di Luciano Moggi, che sale al microfono e parte all'attacco per difendere la Juventus: «Sono qui per capire, a leggere i giornali sono catastrofi e invece sento cose diverse. Poi sono venuto per ringraziare Andrea Agnelli, nove scudetti non si vincono con facilità, solo chi c'è dentro conosce le difficoltà che ci sono per vincere. La leggenda che la Juve vince perché ruba è assurda. La Juventus ha vinto sempre sul campo, anzi forse hanno rubato qualcosa a noi». L'elenco degli episodi potrebbe essere lungo, secondo Moggi. E così l'ex dirigente bianconero ne sceglie alcuni che ritiene significativi: «A Perugia, col diluvio del Curi. E l'anno dopo, quando hanno cambiato le regole in corsa per favore la Roma facendo giocare Nakata che segnò contro di noi proprio il gol scudetto. E poi guardate chi c'è in panchina a fare il team manager (riferendosi ad Orial, ndr), quello che ha contraffatto il passaporto di Recoba. Io ancora combatto per Calciopoli, noi siamo stati ritenuti colpevoli per cose che hanno fatto altri». 

La battaglia di Moggi non finisce qui e passa anche da un regalo per lo stesso Agnelli: «Ho portato un cofanetto con una chiavetta, qui c'è tutta Calciopoli. Sentirai Carraro dire che Lazio e Fiorentina non possono retrocedere, e di non aiutare la Juventus». L'ex direttore generale insiste: «Volevo continuare dicendo che, se è vero che è stato riaperto il caso plusvalenze perché pensano di aver trovato cose nuove è altrettanto vero che dovrebbe essere riaperta Calciopoli. È una ferita che non si rimargina né per noi né per la Juve, sono sei anni che lavoriamo per questo cofanetto. Meani, dopo un Milan-Chievo 1-0, dice: “Ti ho fatto dare 7 da Cecere, il giornalista della Gazzetta, ti faremo fare gratis in Svizzera un trapianto di capelli”. Ma non mi piace il discorso di Arrivabene sul piano tecnico, la Juventus non ha un centrocampo all'altezza, non bisognava pensare agli attaccanti, ma a chi deve dare la palla agli attaccanti».

Ancora l'ex direttore generale bianconero: «Un mio pensiero sul prossimo Cda, perché voglio bene alla Juventus. Vorrei venisse fatto come era prima del 2006, quando c'era gente che si intendeva di calcio. Finita la Juventus di quel tempo, la Nazionale è sparita completamente dalla circolazione. Credo sarebbe opportuno che le figurine come gli ex giocatori non debbano servire alla Juventus, ora bisogna tornare a ricreare la Juventus che vince tutto. Come era la nostra e pure quella di Andrea Agnelli fino a qualche anno fa. Ci sono dei cicli, si è aperto un ciclo nuovo, bisogna proporre giocatori giovani. Prestiamo attenzione al Cda perché è la macchina, serve chi sa amministrare ma anche chi deve occuparsi dell'area sportiva. Bisogna sapere vendere, comprare, scovare giocatori da giovani. Voi vi ricorderete che Cristiano Ronaldo l'avevamo preso quando aveva 17 anni, poi un giocatore (Salas, ndr) ha rifiutato il trasferimento e tutto andò a monte. La Juventus deve essere sempre vincente. E non ha mai rubato per vincere, questo è il punto».

I Ricordi.

Quando la Juventus era sovietica: Zavarov, Alejnikov e quel deprimente flop. Il primo arrivò per sostituire Platini, il secondo per farlo sentire meno isolato. Entrambe le intuizioni si rivelarono fallimentari. Paolo Lazzari su Il Giornale il 27 Maggio 2023

Scivola tra le vie di Torino a bordo di una dimenticabile Fiat Duna, poi apre lo sportello e fa scendere il figlio, che imbraccia lo zainetto. La macchina la paga la Juventus. Le spese scolastiche pure. Anche perché lui prenderebbe pure 2 milioni di lire al mese, ma a conti fatti uno viene devoluto tutto al Governo sovietico. Bella fregatura. Quella ancora più grossa però pare averla presa la vecchia Signora, che si era infatuata di questo talentuoso trequartista in estate, al punto di consegnargli la dieci che era appartenuta al divino Michel Platini. Invece Oleksandr Zavarov, per i più intimi semplicemente Sasha, è un calciatore smarrito per tutto il suo tempo italico. I bianconeri l'hanno ingaggiato per la stagione 1988/89, sborsando 7 miliardi delle vecchie lire. Una parte è andata alla Dinamo Kiev, detentrice del cartellino. Un'altra al Ministero dello Sport. Un'ultima fetta direttamente allo Stato.

Zavarov sarebbe pure un fantasista munito di intuizioni e applicazioni sontuose. Ha trascinato l'Urss a Euro '88, sbattendo fuori l'Italia e cedendo soltanto in finale, al cospetto della fotonica Olanda di Gullit e Van Basten. Anche alla Dinamo è leader carsico e fattuale. Il colonnello Lobanovs’kyj, al timone di entrambe le squadre, stravede per lui: "Come Maradona, Zavarov ha una tecnica incredibile, può decidere una partita in qualsiasi momento, sa organizzare il gioco e difendersi". Magari giusto un tantinello esagerato, ma se lo dice uno così come fai a dubitare? Oleksandr diventa così il primo calciatore sovietico in Serie A, anche e soprattutto grazie ai buoni e remunerati uffici del governo Gorbaciov. Quel Cremlino lì apre finalmente le porte all'Occidente. Esporta i suo talenti più fulgidi come operazione di marketing tangibile.

Sascha, banalmente e in fretta ribattezzato "Zar", diventa anche a tutti gli effetti un calciatore professionista, visto che in Unione Sovietica le cose funzionano diversamente. Ma la grande attesa per quelle presunte giocate risolutive evapora in fretta. Al timone della Juve c'è Zoff. Contemplandone le prime movenze, decide che il russo detiene l'acume tattico per disimpegnarsi da regista. Arretrato rispetto alla sua naturale vocazione, Zavarov tentenna, si ingolfa, fluttua evanescente sulla mediana. Eppoi c'è quella cosa che non si ambienta nemmeno fuori dal campo. Rifiuta categoricamente di imparare l'italiano. Viaggia tutto il tempo con l'interprete. Mica facile imporsi se prima non comunichi. Il primo anno in maglia bianconera si rivela in fretta fallimentare. Sbatte un paio di palloni dentro a inizio stagione, poi si dissolve gradualmente. Il pubblico gli rumina contro preposizioni velenose. La dirigenza è perplessa. 

La Juve però c'ha puntato e non intende arrendersi. Per questo, nel tentativo estremo di indurre una catarsi, decide di affiancargli un connazionale nella stagione successiva. Il prescelto è Sergeij Alejnikov: arriva dalla Dinamo Minsk, fa il centrocampista e i bianconeri l'hanno strappato al Genoa. L'hanno chiamato per risollevare il morale a Zavarov, ma i due condividono in sostanza soltanto l'idioma. Sergeij viene dalla scuola di Malofeev, agli antipodi rispetto al Colonnello. Inoltre è vitale, estroverso, desideroso di intersecarsi con il nuovo ambiente. La società suggerisce che le due famiglie si frequentino, la cosa va anche avanti per un po', ma l'amicizia non decolla mai. In campo nemmeno lui è il giocatore scintillante ammirato a Minsk, ma quantomeno se la cava. Anche se sul suo conto Brera sentenzia, inflessibile: "Lento e legnoso". I tifosi invece si sentono di nuovo sedotti e raggirati dal sogno sovietico. Lo osservano muoversi compassato nel mezzo e gli affibbiano crudelmente il nomignolo "Alentikov".

Il resto è un progressivo avvitarsi. Zavarov, pur spostato accanto alla punta, continua a ciondolare e sempre più spesso invoca provvidenziali infortuni. Nel frattempo si sbriciola il muro di Berlino e l'entourage che l'aveva sponsorizzato vacilla. Sul finire della stagione fa sapere a tutti che vuole tornare alla Dinamo Kiev. Zoff lo esclude dalla doppia finale di coppa Uefa contro la Fiorentina. E quando segna al Lecce, all'ultima di campionato, la scena è surreale: non esulta e nessuno lo festeggia. Con la rifondazione Juve se ne andrà paradossalmente al Nancy, la squadra che aveva lanciato Platini. Con 7 gol in sessanta presenze ed una serie di prestazioni da arresti domiciliari, la già intricata missione di rimpiazzarlo degnamente è naufragata di brutto. Anche Alejnikov fa i bagagli a fine anno: il nuovo tecnico Maifredi fa sapere che ci dorme comunque benissimo la notte.

Epilogo mesto di un flirt mai scoccato. Marketing sovietico 0 - Vecchia Signora 1.

Zidane, Del Piero e quella sosta in autogrill nel cuore della notte. Uno scatto rubato che testimonia sentimenti dirompenti: amicizia, amore, semplicità. Paolo Lazzari il 21 Gennaio 2023 su Il Giornale.

La macchina imbocca distrattamente lo svincolo. In sottofondo la radio passa un pezzo orecchiabile: i quattro occupanti provano a intonare un paio di strofe, ma lo fanno a pezzi. Tanto comunque non li sentirebbe nessuno. Finestrini che si abbassano. Aria primaverile effervescente, che entra per ispezionare i corpi.

Nel parcheggio non c’è anima viva. L’unico non italiano dei quattro - infatti è francese - sfrega la patina che si è creata sul vetro dell’orologio per raccapezzarsi. Notte fonda. Stomaci gorgoglianti. Le luci al neon che si stagliano a pochi passi sono la risposta esatta alle giaculatorie forsennate di un gruppetto strambo. Due calciatori che ci sanno fare, visto che giocano in Serie A, peraltro nella Juve. La ragazza di uno di loro. Un fotografo che ha fame di Camogli, ma anche di scatti destinati a durare.

Tornello superato agile. Dentro risuona una musichetta incerta, di quelle che non sai se alzare il volume o prendere a martellate le casse. Comunque, anche in questo caso, non la sente praticamente nessuno. Alla cassa si erge una donna assonnata. Fluttua dietro il banco una collega, altrettanto provata da un turno estenuante. C’è ancora da fare però: i nostri, si diceva, stanno letteralmente svenendo dalla fame.

Sono fuggiti da un evento dell’Adidas che prevedeva un buffet, ma loro hanno preferito fare forca. A Milano avevano centinaia di pupille incollate addosso. Ora è diverso. In questo autogrill senza nome, sospeso a metà strada verso Torino, li scruta giusto la trama di mattonelle gialle e rosse che riveste le pareti appannate dalla condensa.

Anche se è molto tardi il rifornimento non manca. Forse qua non servono i flute di champagne che avrebbero potuto scolarsi alla premiere, ma comunque la coca cola con ghiaccio si difende bene e se la abbini ad un panino con la cotoletta magari vai a letto più sereno. Come quando sono in campo, Alessandro e Zinedine provano a suggerirsi a vicenda. Sonia, che poi sarebbe la compagna del primo, li contempla con aria divertita. Deve ammetterlo: è alquanto buffo osservare il numero dieci della Juve ed il suo amico fuoriclasse mentre pigolano su quel che l’altro dovrebbe ingurgitare. Anche il fotografo, che poi si chiamerebbe Gianni Giansanti, soppesa la scena. Lui però se ne sta più defilato, in cerca della traiettoria giusta.

Alla fine si trovano d’accordo. Margherita e bibita gelata. Alex getta le chiavi della macchina sul tavolino rotondo e divora il pasto con irrituale ferocia. La fame è fame, pensa lui. Quell’altro invece è più compassato, meditabondo: si lavora quella pizza gommosa quasi fosse una reliquia, maneggiandola con lo stesso ossequioso riserbo che dedica al pallone quando opta per un controllo orientato.

Anche Gianni ha già finito di ruminare. Infatti approfitta per fare qualche scatto. Senza avvisarli, cogliendo l’istante, che in fondo le cose più vere abitano proprio da queste parti. Del Piero, capello lungo e impomatato è voltato di spalle: sta baciando Sonia. Zidane, giubbotto di pelle e chierica incipiente, è ancora alle prese con la sua cena. Sullo sfondo si intravede una signora che addomestica la macchina del caffè. La macchina fotografica di Giansanti cattura un momento intriso di venature sapide. Non sarà Doisneau, certo, ma non ci va mica troppo lontano.

La foto che amo di più”, vi risponde ancora oggi Del Piero se glielo chiedete. Mica un gol a giro o un assist prodigioso. No, quello scatto lì: un’amicizia sincera, l’amore totalizzante, pretese sconosciute, il tutto ancora da fare. Un contenitore tascabile di felicità.

Con le pance piene il gruppo si riavvia verso la macchina. Volume di nuovo alzato, che c’è ancora strada da fare. Rannicchiato sul sedile posteriore Gianni tamburella benevolo sulla reflex. Come quando quei due fanno una delle loro giocate, pensa. Su quel rullino, ancora non ne è certo, ha inciso un pezzo di prestigio.

Andrea agnelli.

Estratto da gazzetta.it il 2 maggio 2023.

Lisciano Niccone, un piccolo comune in provincia di Perugia, il 29 aprile è stato teatro del matrimonio fra l'ex presidente della Juve Andrea Agnelli, 47 anni, e la compagna Deniz Akalin, con una cerimonia che si è svolta in gran segreto e della quale si è avuta notizia solo attraverso qualche post sui social. 

Insieme dal 2015, gli sposi hanno due figlie, Livia Selin e Vera Lin. Ed alla attuale moglie Agnelli aveva rivolto un sentito ringraziamento in uno dei giorni per lui più difficili, quello dell'addio alla presidenza bianconera, a novembre scorso. 

[…] IL FUTURO—   Dopo il "sì" riservatissimo davanti al sindaco Gianluca Moscioni nel municipio del piccolo Comune umbro, Andrea e Deniz hanno continuato la festa insieme a una quarantina di invitati in un esclusivo resort della zona, ovvero il Castello di Reschio che in passato ha ospitato molte star internazionali. Ora nel futuro della famiglia Agnelli ci sarà probabilmente l'Olanda, da dove gestirà la Agnelli BV di cui è azionista insieme al cugino John Elkann.

Andrea Agnelli si è sposato con Deniz Akalin, tre giorni di festa, Nedved sempre accanto. Il matrimonio segreto a Lisciano Niccone. Nicola Balice su Il Corriere della Sera il 2 Maggio 2023 

Dara Rolins, compagna di Pavel Nedved: «È stata una festa bellissima, elegante, piena di emozioni»

I primi video del matrimonio di Andrea Agnelli e Deniz Alkalin, svoltosi in gran segreto il 29 aprile a Lisciano Niccone, piccolo comune in provincia di Perugia nello scorso weekend, sono diventati virali grazie ai racconti social di Dara Rolins compagna di Pavel Nedved. Dopo il «sì» nel municipio del piccolo Comune umbro gli sposi hanno continuato la festa con una quarantina di invitati in un esclusivo resort al Castello di Reschio. Il fatidico sì è arrivato quindi, dopo otto anni circa di relazione. Da cui erano nati nel frattempo anche le piccole Livia Selin e Vera Lin. Anche se proprio la storia tra Andrea Agnelli e Deniz Akalin all'epoca aveva riempito le pagine dei rotocalchi di gossip, anche perché l'ex modella turca era ancora legata a Francesco Calvo, in quel momento dirigente della Juve e grande amico dello stesso Agnelli. Da lì in poi è stata la riservatezza a farla da padrona.

Rolins ha poi commentato così le nozze vip: «L'Italia è bella e l'Umbria è un altro posto magico che ho visitato per la prima volta insieme al mio meraviglioso compagno. Così come il matrimonio italiano di uno dei suoi più cari amici. È stata una festa bellissima, elegante, è durata tre giorni ed è stata piena di emozioni».

Sempre Nedved è il rappresentante illustre del mondo Juve a essere sempre rimasto al fianco di Agnelli, in questi momenti di festa ma anche in quelli più difficili vissuti insieme nel lungo ciclo alla guida del club bianconero. 

La lettera d'amore

Ed è stato proprio nel giorno emotivamente più complicato per l'Agnelli presidente della Juve, quello dell'addio, che era arrivata la testimonianza pubblica più famosa ed emozionante da parte di Deniz, una lettera d'amore e di stima: «Da dove iniziare. Dopo 12 anni di lavoro giorno e notte, oggi chiudi un capitolo della tua vita da Presidente della Juventus. Solo io e te sapremo tutti i sacrifici che hai fatto, tutti gli sforzi che ci hai messo... Mi chiedi sempre cosa amo di più di te e io rispondo sempre come lavori: non ti fermi, insisti, sei perseverante e determinato. La responsabilità ce l’hai nel sangue e non sei scappato mai una volta, anche quando significava prenderti la colpa per gli altri o errori che non erano tuoi. Ci metti sempre la faccia nelle sconfitte, nei momenti difficili, nelle decisioni difficili. Vorrei avere la metà del coraggio, dell’integrità e della decenza che hai tu». E ancora: «Oggi non solo sono al tuo fianco, ma sono con orgoglio e ti ringrazio per tutto quello che hai realizzato in questi anni per la Juventus, per la tua famiglia, per noi. C’è solo un Presidente, e per me lo sarai per sempre tu. Non vedo l’ora di vedere di sapere cosa ci riserva il futuro, amore mio. Sono semplicemente certa che lo renderemo migliore di qualsiasi cosa ci aspettiamo. Ti amo! Ieri, oggi, e domani». Da qualche giorno, come marito e moglie.

Stefano Tacconi.

Stefano Tacconi a Verissimo dopo l'aneurisma: «Pensavo di essere immortale, in ospedale caduto 7 volte». Storia di Redazione Sport su Il Corriere della Sera domenica 5 novembre 2023.

«Pensavo di essere immortale. Invece dietro l'angolo c'è sempre qualcosa di inaspettato. È capitato a me. Per fortuna, in macchina con me c'era mio figlio Andrea». Così Stefano Tacconi, oggi ospite di «Verissimo», in diretta su Canale 5. L'ex portiere della Juventus e della Nazionale azzurra, 66 anni, parla per la prima volta in tv — era tornato in pubblico in agosto, con un pranzo al ristorante — dopo la malattia e la lunga riabilitazione: tutto è cominciato ad aprile del 2022 con un aneurisma e un'emorragia cerebrale.

«Erano un paio di giorni che ero stanco morto. Avevo mal di testa, avevo preso delle semplici pillole, ma non pensavo di certo ad altro. Era il 23 aprile, il giorno del compleanno di mia moglie. Adesso, però, sono qui e questo è quello che conta», ha aggiunto.

Stefano Tacconi: il malore, la Juventus, le sigarette con Platini, la geisha a Tokyo, il vino, cuoco e stilista

Lo stesso figlio di Stefano, Andrea, ha spiegato: «Quella mattina papà era pallido ma pensavo fosse un semplice mal di testa. Scesi dalla macchina, è subito caduto e io l'ho preso al volo. Lui aveva le convulsioni e l'ho girato su un fianco per farlo respirare bene. Ho chiamato subito i soccorsi e per fortuna sono arrivati in 5 minuti. In questi casi il tempismo è tutto». Da lì, due mesi di ricovero ad Alessandria, i difficili tentativi di comunicare con la moglie e i figli, la riabilitazione.

«Ho scoperto come ero 66 anni fa: senza camminare e senza parlare. In ospedale sono caduto circa sette volte, sia quando ho provato a scendere dal letto, slegandomi, sia dalla carrozzina», ha raccontato poi l'ex portiere bianconero, che ha ripreso a stare in piedi e usare le gambe solo a dicembre, arrivato negli studi di Canale 5 seduto su una carrozzina. «La fede è stata importante. Padre Pio — era ricoverato al centro di riabilitazione di San Giovanni Rotondo — mi ha dato la forza di lottare». A fine ottobre, finalmente, il ritorno a casa, a Milano.

A ruota sono arrivati vari messaggi-video da ex colleghi e amici. «Ciao fratellone Stefano. Sei sempre stato il numero uno, mi manchi, ti voglio bene, un abbraccio»: ha detto Totò Schillaci. «Ciao Stefano. Ti aspetto, ti voglio vedere presto», ha affermato invece Antonio Cabrini. «Ciao "Tacco". Siamo sempre stati amici-nemici. Volevo dirti "vinci". Forza amico mio», ha dichiarato infine Walter Zenga.

Tacconi, il racconto dopo l'aneurisma: "Credevo di essere immortale, ma..." L'ex portiere della Juventus, dimesso dopo la riabilitazione, racconta a Verissimo il difficile periodo affrontato dopo l'aneurisma cerebrale. Le lacrime in studio. Federico Garau il 5 Novembre 2023 su Il Giornale.

A un anno e mezzo da quella terribile giornata di aprile 2022, in cui venne colpito da aneurisma cerebrale, l'ex portiere della Juventus Stefano Tacconi racconta a Verissimo la durissima esperienza vissuta. Lo scorso 28 aprile Tacconi è stato dimesso dall'ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, dove si trovava ricoverato dallo scorso 21 giugno per portare avanti il suo percorso riabilitativo, ma è difficile, forse impossibile, lasciarsi tutto alle spalle.

"Pensavo di essere immortale"

L'aneurisma celebrale ha segnato profondamente l'ex giocatore, che ha dovuto fare i conti con la fragilità della vita. Quell'aprile del 2022, proprio nel giorno del compleanno della moglie, Tacconi ha accusato il malessere, ma aveva comunque deciso di recarsi a una fiera col figlio Andrea. "Stavo male quel giorno ma non avevo capito quanto fosse grave. Pensavo di essere immortale e invece… Arrivati alla fiera sono caduto non appena sceso dall'auto, è stato mio figlio a salvarmi la vita. I tifosi? Non mi hanno mai abbandonato - racconta - sono venuti fuori l'ospedale con gli striscioni".

In lacrime, seduto su una sedia a rotelle, Tacconi si è sfogato, parlando del dolore e della fatica di quei giorni terribili, soprattutto quelli dopo il coma. "Ho faticato tantissimo, nonostante sia stato un atleta, perché la riabilitazione è stata molto dura. Erano 25 anni che non toccavo una palestra, e ho dovuto ricominciare daccapo. Per mia moglie, i miei figli, sono stati importanti in quel periodo. Facevano avanti e indietro".

Fondamentale, nei primi momenti dopo aver accusato l'aneurisma, l'intervento del figlio Andrea, che era con lui e lo ha soccorso, capendo subito la gravità della situazione.

Un paziente difficile

L'ex portiere ringrazia anche i professionisti sanitari che si sono occupati di lui, primi fra tutti i fisioterapisti, che lo hanno spronato e incoraggiato a eseguire sempre gli esercizi. "In ospedale sono stato un paziente difficile, mi hanno dovuto legare al letto", rivela. "Ho avuto la tracheotomia e sono stato intubato, non mi muovevo e non parlavo. Oggi torno in ospedale due volte a settimana per i controlli, non posso smettere la palestra altrimenti peggioro", aggiunge.

Tacconi ha poi rivelato che lui e la sua famiglia sono devoti a Padre Pio e questo è stato determinante nell'affrontare quel periodo così difficile. "In quei mesi bui la fede è stata importante, in famiglia siamo devoti a Padre Pio da sempre e mia moglie non appena potevo mi portava a pregare nel santuario del Santo", ha raccontato l'ex giocatore. Federico Garau

Michel Platini.

Michel Platini: «I burocrati della Fifa mi hanno fatto fuori. Il calcio è divertimento, non solo denaro». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 15 agosto 2023.

I successi, gli scandali e il futuro. «Infantino e Ceferin non sono nessuno. Le offerte degli arabi? I calciatori sono come uccelli, migrano dove si sta meglio. A Pablito rubavo le sigarette, quando morì fui io ad avvisare gli ex compagni». E sulla presidenza della Juve...

Michel Platini, la intervisto il 10 agosto alle ore 10. Cosa significa quel numero sulle spalle di un giocatore di calcio?

«Quel numero ha quella magia perché identificava, fin dall’inizio della storia del calcio, tutti i più forti: Puskas, Pelè, Rivera. I leader delle squadre, tecnici e carismatici, avevano quel numero. Nel sogno dei bambini della nostra epoca c’erano due stelle: il numero dieci e il portiere, ruoli totalmente differenti. Ho passato il mio tempo a cercare di fregarli, i portieri, per cui non posso capire l’amore per quel ruolo. Ma la gente gli voleva bene...».

I numeri dieci non sono tutti uguali...

«C’è il numero dieci europeo, che era più un regista, e quello sudamericano che giocava più avanti, quasi da seconda punta. Più un nove e mezzo che un dieci, un secondo attaccante. Zidane, io, Rivera, Puskas eravamo più organizzatori di gioco, anche se abbiamo fatti tanti gol...».

Lei è nato in Rue de Saint Exupéry. È solo una coincidenza ma certo magnifica, a proposito di leggerezza...

«Più che un valore, per me la leggerezza è stato un sentimento. Direi un sentimento francese. Quando sono arrivato in Italia ho capito che voi siete matti per il pallone, non parlate d’altro dalla mattina alla sera. In Francia era semplicemente un gioco, si faceva in allegria. Non c’erano tifosi, ma spettatori. La Francia non aveva mai vinto nulla, forse per questo. Per cui io non capivo tutta la pressione che c’era da voi. In Italia il calcio è complicato per sei giorni su sette, poi finalmente arriva la partita. In quel momento nessuno ti rompe le scatole con le polemiche e le indiscrezioni. Quella, quella sola è la verità del calcio. I novanta minuti sono bellissimi. Il resto no».

Secondo me hanno contato anche le sue radici italiane, l’odore del sugo preparato a Joeuf da sua nonna...

«Sì, era un momento magico per me. Andavo a scuola, poi giocavo a pallone, tornavo a casa per fare i compiti e quindi mi addormentavo. Mi svegliavo con quell’odore meraviglioso di sugo di pomodoro che annunciava il piatto di pasta. Lo mangiavamo mercoledì, giovedì, sabato e domenica perché il mio papà era allenatore, in quei giorni arrivava tardi e mia nonna gli preparava quel piatto speciale il cui profumo riempiva la casa. Ancora oggi cerco la pasta col pomodoro anche se ieri sera, a Cassis dove abito, ho mangiato una buonissima cacio e pepe».

Suo nonno muratore emigrato dall’Italia, suo padre professore di matematica, lei campione di calcio. Sembra la storia sociale del novecento in una sola famiglia...

«Mio nonno è arrivato in Francia negli anni Venti. Non ne so tanto, in verità. Ho il rimpianto di non aver ricostruito fino in fondo la nostra storia. Loro non ne parlavano volentieri. C’era stata la Prima guerra mondiale, poi la Seconda. Non era facile in quel periodo essere italiani in Francia. I miei genitori, figli di italiani, non parlavano la vostra lingua, quella dei miei nonni. La mia mamma lavorava nel Cafè des Sportifs, mio padre insegnava e allenava i ragazzi, per cui non abbiamo mai avuto quei bei pranzi tutti insieme in cui ci si racconta le storie di famiglia. I miei nonni non hanno mai parlato della loro vita, mai».

Il suo rapporto con l’Avvocato...

«Non era certo un amico, non era una persona con cui mi prendevo a pacche sulle spalle, aveva tanti anni più di me e la sua indiscutibile autorevolezza. Io direi così: ho reso orgoglioso l’Avvocato. È lui che mi ha voluto. Credo pensasse, tra sé, che era stato lui, non Boniperti o altri, a scegliermi e ciò che avevo fatto era la conferma che lui capiva di calcio e quindi nessuno poteva rompergli le scatole sul tema. Lui mi ha consentito di avere la massima libertà, in campo e fuori. Sì, credo di averlo reso orgoglioso. E questo fa felice me».

Tardelli mi ha raccontato di aver saputo della morte di Paolo Rossi al mattino da una sua telefonata.

«È vero, ho chiamato Marco, Antonio Cabrini, Zibi Boniek. Avevo visto Paolo poco tempo prima a Forte dei Marmi e non mi era sembrato che stesse male. È stata una terribile sorpresa, un autentico choc. Paolo era davvero una brava, bella persona. Lui non era matto di calcio, con lui si poteva parlare di tutto. Io gli rubavo le sigarette, lui si arrabbiava moltissimo. Sono stati anni speciali, ci siamo divertiti tanto e abbiamo vinto tanto. Giocavo non solo con grandi calciatori, ma con uomini speciali, molti dei quali sono restati miei amici. E quel mattino ci siamo ritrovati ancora insieme, per condividere l’assurdità della scomparsa di Paolo».

Che ricordo ha dell’Heysel?

«Brutto, bruttissimo. Un bruttissimo ricordo. I momenti successivi alla partita sono stati tremendi. Sono andato con Gaetano Scirea due giorni dopo a visitare i feriti all’ospedale di Bruxelles. È stata una cosa bruttissima. Quando pensi che delle persone erano venute fin lì per vederti e non sono più tornate a casa, dalla propria famiglia... Io non mi sono quasi mai espresso su quel giorno, non mi piace parlare del dolore altrui, ma è stato davvero terribile. Mia madre, che era molto cattolica, mi ha sempre parlato della fatalità come di un arbitro dell’esistenza di ciascuno. E per me è stato così, sempre. La morte fa parte della vita, lo so. E so che bisogna sempre rialzarsi e ripartire. Queste sono le cose che mi hanno insegnato, che ho nella mia testa dura di piemontese della Lorraine. Ho fatto così, anche in quei giorni orribili che porto sempre con me».

Quanto ha sofferto per la vicenda che l’ha riguardata per gli scandali Fifa e che si è conclusa con la sentenza a suo favore del Tribunale svizzero?

«Io niente, sapevo di non avere nulla da rimproverarmi, ho sempre fatto tutto correttamente. Ho visto la sofferenza della mia famiglia e delle persone che mi sono vicine. La battaglia che ho condotto era contro l’ingiustizia. L’obiettivo di quella campagna era di farmi fuori dalla Fifa. Mi hanno messo sotto accusa le commissioni della Fifa che gestiscono “loro”. Appena si è usciti dal mondo dei funzionari del calcio, che volevano impedirmi di diventare presidente, la giustizia ordinaria mi ha dato ragione. E per me, ovviamente, conta quello. Fuori dagli apparati del calcio ho vinto, dentro ho perso. Per questo non mollerò, è stata un’ingiustizia. C’è gente che mi ha fatto del male, molto. Non mi interessa tanto dell’universo Fifa. Per Infantino, Ceferin quel mondo è tutto perché non hanno vissuto niente prima e, fuori da lì, sono nessuno. Non hanno mai giocato al calcio. Loro, come Blatter, sono diventati importanti là, dentro quei palazzi, e sono importanti solo là. Ho sofferto per dieci giorni, mi sono battuto per difendermi ma poi ho presto capito che la verità era solo che volevano farmi fuori, e basta».

Per paradosso lei sarebbe stato, nella storia della Fifa, l’unico giocatore di calcio a diventare presidente. Era una colpa?

«Non so se fosse una colpa, certo è che l’amministrazione della Fifa si è schierata contro di me. I presidenti delle federazioni nazionali mi volevano presidente, gli apparati della Fifa no. Si può capire perché. E hanno cercato qualcosa per bloccarmi. Hanno trovato un pagamento fatto cinque anni prima e qui è l’ironia della cosa: la Fifa prima mi paga per il mio lavoro e poi mi punisce per avermi pagato. Assurdo, questo è il massimo. Il calcio mi voleva, la politica del calcio no».

Cosa pensa di questo spostamento dell’asse del calcio verso il mondo arabo?

«I calciatori, i migliori calciatori, sono come uccelli che migrano cercando i luoghi dove vivere meglio. E dove sono attesi dalla gente e quindi ci sono più soldi. Io sono venuto in Italia, all’inizio degli anni Ottanta, perché era il Paese che pagava di più, era il cuore del calcio mondiale. Maradona, Falcao, Zico giocavano qui. Erano gli anni di Mantovani, di Berlusconi, dell’Avvocato, gli azzurri avevano vinto il campionato del mondo, l’economia andava bene, il terrorismo stava finendo. Si sentiva un’aria di ripresa, di entusiasmo nella società italiana. E quindi anche nel calcio. Oggi i calciatori vanno dove gli danno più soldi. Io credo che ci sia stato un errore della Commissione Europea nello sposare integralmente la Bosman senza un disegno complessivo per lo sport europeo. Ora i ricchi possono comprare chi vogliono. E quei Paesi sono ricchi, molto ricchi».

Ma questo sistema regge? Le società calcistiche, non solo in Italia, sono piene di debiti...

«Il sistema è fatto per produrre debiti. Il sistema è: tanti soldi arrivano e tante persone li prendono. Il meccanismo dei trasferimenti è questo. Tu prendi dei calciatori sperando che due anni prima della scadenza del contratto vengano venduti per fare soldi. Io negli anni Settanta ho fatto sciopero per consentire ai calciatori di scegliere loro, a fine contratto, dove andare a giocare. Sono andato al Saint Etienne quando ero libero e lo stesso alla Juve. Deve essere il calciatore a scegliere, è la sua vita. Poi attorno al mondo del calcio c’è tanta gente... Dove circolano tanti soldi arrivano quelli a cui i soldi piacciono tanto, troppo».

I procuratori sono parte della malattia del calcio moderno?

«Non penso, no. I procuratori finalmente difendono i calciatori che si sono fatti fregare per tanti anni».

Cosa è stata la sconfitta di quella fantastica Juventus nella finale di Coppa dei Campioni del 1983 ad Atene contro l’Amburgo?

«Boniek mi dice sempre che se avessimo vinto quella partita avremmo conquistato la Coppa dei campioni per quattro anni di fila. E ha ragione. Era una finale, partita unica, complicatissima. Se i pianeti si allineano male. È successo, purtroppo. Ma è anche la bellezza del calcio. In quel periodo tutti potevano vincere e tutti potevano perdere. Oggi no. Oggi tre o quattro squadre vincono sempre scudetti e coppe perché hanno più soldi e quindi migliori giocatori».

C’è un giocatore che le piaccia, oggi?

«Ora il calcio è differente dal nostro. Si gioca meglio perché i giocatori oggi sono molto più preparati di un tempo. Noi, a diciassette anni, eravamo per strada, ora hanno già quattro anni di scuola calcio. I difensori di oggi sono migliori, giocano a pallone, non picchiano più, non possono più picchiare. Messi, Neymar, Haaland, Mbappè sono grandi calciatori».

Tolto Messi nessuno è un numero dieci.

«Il numero dieci non esiste più. Ora è il portiere o il difensore centrale il regista, quello che organizza il gioco».

C’è un giocatore della storia del calcio a cui vorrebbe fare un assist, qualcuno che vorrebbe rendere felice?

«Nei miei sogni di ragazzo c’era Johan Cruijff. Lui giocava in quel modo meraviglioso in un tempo in cui era molto difficile farlo. Se facevi un dribbling, allora, era possibile che ti ritrovassi all’ospedale. I difensori usavano il tackle da dietro, cattivissimo, e tempo per inventare calcio ce n’era poco. Ho giocato per la sua partita d’addio, Barcellona contro il Resto d’Europa. È stato bellissimo. Era il mio sogno, quando avevo quindici anni».

Se lei potesse, per magia, telefonare a Michel bambino, che consiglio per la vita gli darebbe?

«Bella domanda, questa. Gli direi la stessa cosa che mi dissero i miei genitori: “Divertiti. Divertiti nel calcio. Il calcio è divertimento”. Sono riuscito ad arrivare dove sono arrivato perché ho vissuto il calcio così. Io lo dico sempre ai bambini: divertitevi e se sarete bravi, se mostrerete talento, le cose verranno da loro. Invece oggi vogliono prima diventare calciatori professionisti e poi toccare la palla. In Francia, ai miei tempi, non sapevamo neanche che esistesse il calcio professionistico. Questo direi a Michel piccolo: “Divertiti! E se un giorno arriva Boniperti, firma con la Juve”».

Una persona come lei in questo momento non ha ruoli nel calcio. C’è una prospettiva?

«Per ora no. Ho già fatto tutto. Sono stato calciatore, allenatore, dirigente. E dunque bisognerebbe ci fosse un progetto interessante, nuovo, strano, davvero rivoluzionario. Oggi ho 68 anni, sono segnato da quarant’anni di pressione, di costante esposizione. Mi hanno fatto diverse proposte, ma ho sempre rifiutato. Ora sto godendo la mia vita».

Farebbe, per esempio, il Presidente della Juventus?

«Nessuno me lo ha mai chiesto...».

Un’ultima cosa, Michel. Quell’immagine a Tokyo, lei sdraiato, sul prato verde, appoggiato su un gomito, che guarda uno sciagurato arbitro che le ha annullato uno dei gol più belli che si possano immaginare nella finale della Coppa intercontinentale tra Juventus e Argentinos Juniors...

«Tokyo era il punto di arrivo di una generazione di giocatori che avevano vissuto insieme anni bellissimi. Avevamo vinto tutto e ci mancava solo di conquistare la Coppa del mondo per club. Quel giorno c’era a Tokyo anche il figlio dell’Avvocato, Edoardo. Era una partita decisiva. Arriva un arbitro che mi annulla quel gol. Quel gol: palla fatta passare sulla testa del difensore e tiro al volo nell’angolo. L’avrei ammazzato. Quel gesto era un atto di disperazione. Che faccio: gli vado addosso, gli rifilo due sberle, lo ammazzo, lo strangolo? Mi faccio espellere e lascio la squadra in dieci? Ma come, mi annulli un gol così, nella finale della Coppa del mondo? Sono quei gol che già se ti vengono in allenamento... Ma in una finale... Come quello di Van Basten nella partita decisiva dell’Europeo 1988. Sono reti che girano il mondo, che restano nella storia. Quel giorno faccio un gol così bello e tu me lo annulli per un fuorigioco passivo segnalato da un guardialinee di Singapore? Era da ammazzarlo. Mi sono sdraiato a terra, mi sono appoggiato su un gomito, l’ho guardato. Era un gesto di protesta non violenta. Non era per la televisione, era pura disperazione».

 Estratto dell'articolo di Paolo Brusorio per “la Stampa” l'8 maggio 2023. 

(...)

Oggi avrebbe potuto imitare Ronaldo e farsi ricoprire d'oro nei paesi arabi? Come giudica la sua scelta?

«Non giudico. E poi le dico che se ti offrono duecento milioni, diventa quasi immorale rifiutarli. Anche se sei straricco». 

Quanto calcio guarda?

«Non tanto. Non è nella mia agenda. Ho smesso di mettere il calcio nei miei programmi quando ho finito di essere il presidente dell'Uefa. Seguo, so chi vince, ma non organizzo la mia vita in base ai calendari. L'ultima partita vista? Lens-Marsiglia sabato sera. Allo stadio non ci vado, con me in tribuna la squadra di casa perde sempre, così non mi vogliono più». 

Che cosa le piace del calcio di oggi?

«I giocatori. Ora è tutto cambiato. C'è un gioco muscolare, in mezzo al campo c'è molto traffico, si gioca sulle fasce. Poi arriva Mbappè e fa sfracelli». 

Lo mettiamo nella categoria fenomeni?

«Decisamente sì».

Invece, che cosa detesta?

«Oggi contano le statistiche, ma fanno male. Rendono individualista il rapporto tra il calcio e i giocatori, si contano i passaggi, gli assist, i dribbling. Numeri e statistiche sono usati da chi non capisce nulla di pallone». 

Ma le statistiche di Haaland sono impressionanti, non si può far finta di nulla.

«Guardi con chi gioca Haaland. La legge Bosman e i soldi degli sceicchi hanno rivoluzionato il calcio. Io a 18 anni giocavo nel Nancy, lui nel Borussia Dortmund, c'è una bella differenza».

Che fine ha fatto il suo Fair Play Finanziario? Non è stato calpestato?

«Chieda a quelli dell'Uefa. Qualcosa resiste ma è complicato per il presidente dell'Uefa Ceferin farlo rispettare se il suo principale sostenitore è l'emiro Al Khelaifi del Psg. La verità è che sia Ceferin sia il presidente della Fifa Infantino sono degli usurpatori di poltrone. Io facevo calcio, loro politica». 

Spieghi?

«Non c'è una riforma nei loro programmi, se non fare più partite e incassare più soldi.

E così non rispettano le competizioni che hanno fatto la storia del calcio». 

Oltre alle sentenze, che cosa rimane della sua vicenda giudiziaria?

«Solo l'idea di un complotto per farmi fuori». 

Nessun rimpianto?

«Solo quello di non avere più vent'anni e non giocare più a pallone. Chi mi ha sostituito non sa nulla di calcio». 

Platini che cosa farebbe ora?

«Ho delle idee ma senza potere le idee non valgono nulla. E io sono vecchio. Mi piacerebbe però mettermi a disposizione di qualcuno che la pensi come me. Anche in politica mi servirebbe uno come era Bonini in campo».

Farebbe il regista?

«Ecco, si farei il regista». 

Tra le sue idee c'è la Superlega?

«Prima o poi si farà, ma non così. E... non mi faccia dire di più». 

(...)

E una che non rigiocherebbe?

«Neanche. All'Heysel dovevamo giocare per proteggere la gente dentro lo stadio.

Non mi sono mai pentito di quella scelta». 

Ieri a Bergano Vlahovic è stato ricoperto di insulti razzisti, prima di lui Lukaku. Perché non si riesce ad estirpare il razzismo dagli stadi?

«La società è razzista. Il calcio ci prova a tenere fuori il razzismo dagli stadi, ma è complicato. Se avessi avuto un'idea quando ero presidente dell'Uefa l'avrei applicata. So solo che si dovrebbe partire dalle scuole per debellarlo». 

La Francia è un paese razzista?

«Non credo. Ma sono sicuro che come l'Italia vuole combattere il razzismo». 

Il nostro governo contro quello francese, Meloni contro Macron. Non è che l'Eliseo l'ha mandata in missione di pace?

«Non ancora... La verità è che la questione dei migranti complica i rapporti tra i Paesi: ma i francesi hanno sempre amato l'Italia, forse gli italiani un po' meno la Francia anche per le questioni legate alle precedenti immigrazioni». 

Che cosa le è rimasto di italiano?

«Brera diceva che facevo il francese in Italia e l'italiano in Francia. Io adoro l'Italia, le persone, l'arte. Tutto». 

Come guarda ora il calcio?

«Smetto di essere Michel Platini, guardo la partita e un minuto dopo la fine cambio canale. Se mi rompo, cambio dopo dieci minuti». 

Una squadra in cui giocherebbe Platini?

«Non sono andato in Inghilterra perché non c'erano le feste a Natale e si doveva giocare sempre. Andiamo in Italia, dicevo, quello è un paese cattolico e a Natale vanno tutti in chiesa e non si si gioca. Conta dove hai voglia di vivere e so che a New York avrei vissuto molto bene». 

Per la Juventus è una stagione complicata, ma adesso è seconda. Che giudizio dà al campionato?

«L'ho vista giocare poco, l'ultima volta con l'Eintracht, non posso dare un giudizio tecnico».

Ma una penalizzazione sulla testa può condizionare?

«Molto, se sei attaccato alla società. Altrimenti i giocatori se ne possono anche fregare, tanto sanno di poter cambiare facilmente squadra. Non certo come ai miei tempi, quando cambiavi solo se Boniperti era d'accordo». 

La Juve le ha mai offerto un ruolo da dirigente?

«No. Tornare qui dopo oltre trent'anni non avrebbe avuto più senso. Di quel mondo non ci sarebbe stato più nessuno. Le storie d'amore non si vivono due volte». 

Ci sono cinque squadre italiane impegnate nelle semifinali di coppa: successo del sistema o dei club?

«Sono contento. Non credo sia l'inizio di un ciclo, ma abbiamo bisogno che l'Italia torni al vertice. Fa bene al calcio e anche a tutti i Platini sparsi per il mondo con le radici italiane».

Da dirigente era contro la Var. Sempre di quell'idea?

«Sì. La Var ha solo spostato il problema, ha fatto di ogni tocco un fallo, l'interpretazione la si dà sul campo, non davanti a uno schermo. La applicherei solo alla gol line technology e al fuorigioco. Così sta uccidendo gli arbitri, sono molto più scarsi di prima. Ma non si tornerà più indietro, l'avevo detto a Blatter anni fa. Finiremo a giocare senza arbitri e come ai primordi del calcio».

(...)

Alessandro Del Piero.

Del Piero compie 49 anni: gli Oasis, Holly e Benji, l’allenatore nel pallone 2. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera giovedì 9 novembre 2023.

Alessandro Del Piero, che con Juventus e Nazionale ha vinto tutto, compie oggi 49 anni: le curiosità da sapere su di lui e le tappe di una carriera leggendaria

Bandiera

Alessandro Del Piero oggi, giovedì 9 novembre, compie 49 anni. È nato a Conegliano, in provincia di Treviso, e ha iniziato a giocare nel San Vendemiano, per poi crescere nel Padova e sbarcare nel 1993 alla Juventus, club nel quale è rimasto fino al 2012, decidendo anche di giocare in serie B nella stagione 2006-2007 dopo la retrocessione per i fatti di Calciopoli. Una delle ultime bandiere del nostro calcio, prima di chiudere nel 2014 dopo le esperienze in Australia e in India indossando rispettivamente le maglie del Sydney Fc e del Delhi Dynamos. Con la Juventus ha vinto tutto, collezionando 705 presenze e segnando 290 gol. In Nazionale 91 partite, 27 reti e un Mondiale.

Una vita alla Juventus

Del Piero non è stato soltanto la bandiera della Juventus. È stato anche un grande tifoso dei bianconeri. Racconterà in una delle sue tante interviste in merito: «Seguivo l’esempio di mio fratello Stefano, più grande: giocava nella primavera della Sampdoria, con Lippi. Nel mio cortile spesso giocavo da solo: serviva tanta immaginazione. Così qualche volta ero un campione della Juve e passavo la palla a Tardelli, a Cabrini, a Scirea, scambiavo con Platini. E la mia Juve del cortile era anche piena di stranieri: Maradona, Van Basten, Zico e io facevo gol».

Alex portiere e l’interesse del Milan

La signora Bruna, la madre di Del Piero, sperava che suo figlio diventasse portiere per evitare gli infortuni. Fu diversa l’opinione di suo fratello Stefano, che invece lo spostò nel ruolo di numero 10, quello nel quale fece la fortuna di Juventus e Nazionale. Quando si dice, un’intuizione vincente. Quando giocava nel Padova, il suo talento attirò le big del calcio italiano, in particolare Juventus e Milan. Franco Causio, storico ex-giocatore juventino, vide Alex giocare e se innamorò, tanto da fare pressione su Giampiero Boniperti per acquistarlo. Anche il Milan era ingolosito dal suo talento e il presidente del Padova, Marino Puggina, era di fede rossonera. Ma alla fine ebbero la meglio i bianconeri

Il taglio di capelli

Sono in tanti i fuoriclasse a essere partiti dal nulla e ad aver conquistato un certo tenore di vita proprio con il calcio. E la prima cosa che hanno comprato a volte è decisamente insolito. In questa lista c’è anche Del Piero. Con i primi soldi guadagnati in bianconero è andato dal barbiere. Giampiero Boniperti gli aveva imposto di tagliarsi i capelli, in perfetto stile bianconero. E al «Sommo» juventino non si poteva dire di no.

Il motivo del soprannome Pinturicchio

Fu l’avvocato Gianni Agnelli a dare a Del Piero il soprannome di Pinturicchio. «Per l’estetica, per il modo di giocare. I suoi gol sono sempre eccellenti», la sua spiegazione. Pinturicchio, pittore della scuola umbra dell’Ottocento, dal fisico minuto ma dal grande estro artistico e dalla straordinaria abilità pittorica.

L’amicizia con Ronaldo

Ronaldo il Fenomeno voleva Del Piero all’Inter: fece pressione su Massimo Moratti per strapparlo alla Juventus: «Inutile comprare tanti giocatori, basta prendere Del Piero e saremo fortissimi». Come già si sa, Del Piero rimase alla Juventus, ma in nerazzurro sbarcò un altro Del Piero: Yago, centrocampista brasiliano classe 1994.

Del Piero con Holly e Benji

Nel 2001 Yoichi Takahashi, il mangaka papà di «Captain Tsubasa» («Holly e Benji» per i non nipponici) iniziava le pubblicazioni di «Road to 2002», nuova serie legata agli imminenti Mondiali di Calcio di Giappone-Corea del Sud. Quando Mark Lenders arriva alla Juventus, ad accoglierlo e a fargli da mentore c’è proprio Del Piero.

Oronzo Canà e il bagnino

Non solo fumetti e manga. Del Piero è apparso ne «L’Allenatore nel Pallone 2», sequel de «L’Allenatore nel Pallone». Alex appare al fianco del mitico Oronzo Canà. Invece, nella sua parentesi australiana, appare in una puntata di «Bondi Rescue», il Baywatch nella terra dei Canguri.

Campione del mondo

Il 9 luglio 2006 vincendo ai rigori contro la Francia (e lui trasformò uno dei cinque) Del Piero alzò a Berlino la Coppa del Mondo. Qualche mese dopo sarebbe sceso in serie B con la Juve. È raro, ma non per Del Piero, ricevere la standing ovation del Santiago Bernabeu. Real Madrid-Juventus, gironi di Champions 2008-2009. È il 5 novembre 2008, quando Del Piero fa alzare in piedi gli oltre 70mila tifosi che hanno deciso di omaggiarne le qualità dopo la doppietta che costò la sconfitta ai Blancos.

L’esperienza in Australia

La prima tappa post Juve lo porta dall’altra parte del pianeta: in Australia. Destinazione Sydney, dove «la Federazione voleva far crescere il movimento calcistico australiano». L’impatto, racconta Alex, fu anzitutto sulla strada: «Gli australiani guidavano a sinistra, e parlavano una lingua che ancora non conoscevo. Ma lì ho visto il calcio sotto un aspetto diverso». L’ha conosciuto nelle «surfate e nelle grigliate fatte post-allenamento» dei suoi compagni e nei secondi lavori dei calciatori: «Un caro amico della mia squadra era un filmmaker».

Passione golf

Insieme ad Alessio Tacchinardi, nel 2004 Del Piero si avvicina al mondo del golf. Una passione grandissima. Tanto che, appena appese gli scarpini al chiodo, sale sul Caddy e diventa un golfista professionista. Nel 2016 ha partecipato alla Ryder Cup in una sorta di partita delle celebrità.

La famiglia

Il 12 giugno 2005 Del Piero ha sposato in segreto, sui colli di Torino, Sonia Amoruso che non ha mai amato i riflettori. Dal loro amore sono nati i tre figli: Tobias (22 ottobre 2007), Dorotea (4 maggio 2009) e Sasha (27 dicembre 2010). Lei lavorava presso un negozio di scarpe e galeotto sarebbe stato uno scambio di sguardi in un bar, durante una delle pause lavorativa. Secondo alcuni il calciatore avrebbe visto per la prima volta la Amoruso nel punto vendita in cui lavorava, tanto da averle poi comprato l’intero negozio. C’è stato un periodo nel quale si sono separati, ma non si conoscono le reali motivazioni della temporanea rottura. Oggi vivono a Los Angeles, città nella quale il marito è impegnato professionalmente. Ha aperto anche un ristorante, dal nome N.10. Un omaggio al numero che ha portato sulle spalle per tutta la carriera.

Tedoforo olimpico

Poco prima del trionfo a Berlino il 9 luglio 2006 con la Nazionale di Marcello Lippi, Del Piero ha anche ricoperto il ruolo di tedoforo all’Olimpiade. Il capitano bianconero fu scelto per portare la torcia olimpica ai Giochi Invernali del 2006, svolti nella città di Torino della quale è divenuto simbolo sportivo.

Il video degli Oasis

Nel corso degli anni Del Piero è diventato un grande amico dei fratelli Gallagher (specialmente di Noel), fondatori della band degli Oasis. Tanto che i due hanno scelto di farlo comparire nel video della canzone «Lord Don’t Slow Me Down» del 2001. L’apice di questa amicizia è, però, legato a Italia-Germania, semifinale Mondiale del 2006. Noel gli chiede un biglietto e a un amico non si può dire di no, specie se è il chitarrista della tua band preferita: Del Piero lo accontenta con un posto sugli spalti vicino a moglie e amici.

La musica

Nel 2004 uscì la «Alessandro Del Piero selections», una raccolta di testi internazionali selezionati dall’ex numero 10. In quel disco inserì brani straordinari: Wonderwall degli Oasis, Faith di George Michael, Right here, right now di Fatboy Slim e Thursday’s child di David Bowie. La raccolta non comprendeva nessuna canzone italiana.

Via Alessandro Del Piero

Incredibile, ma vero. Del Piero può passeggiare in Via Alessandro Del Piero: la città di Jesolo ha, infatti, deciso di dedicargli un tratto del proprio litorale come riconoscimento per i suoi meriti sportivi.

Le auto

Un’altra delle passioni di Del Piero è quella per le auto. Da giocatore ha avuto un modello Hammer, una Infiniti e una 500. Ha collaborato anche con la Porsche, entrando in possesso della Porsche 911 Carrera, la Cayenne e la Porsche 718 Boxster. L’ultima è una Lamborghini Urus arancione, con la quale accompagna il figlio Tobias a scuola.

Cosa fa oggi

Come detto, Del Piero vive a Los Angeles con la sua famiglia e lì gestisce un ristorante. Una volta appesi gli scarpini al chiodo, dal 2015 è tra gli opinionisti di Sky Sport. In precedenza, nel 2014 era stato nominato global ambassador della Coppa d’Asia 2015. Dall’estate 2018 è proprietario di un club dilettantistico di Los Angeles, il LA 10. Fuori dal calcio, nel 2013 ha fondato, assieme all’attore Patrick Dempsey, il team automobilistico Dempsey/Del Piero Racing, che ha esordito nello stesso anno nella 24 Ore di Le Mans e nel campionato American Le Mans Series.

Futuro in Arabia?

Da un mese circolano voci di una sua possibile nuova esperienza. Non alla Juventus, come sperano tutti i tifosi bianconeri, ma in Arabia Saudita. Del Piero, infatti, è stato contattato dall’Al Nassr di Cristiano Ronaldo per ricoprire un ruolo di dirigente all’interno dell’organigramma del club.

Del Piero: «In Italia ormai il calcio è diventato noioso, chi fa scommesse rovina il suo sogno. Il giorno che vorrei rivivere». Waletr Veltroni su Il Corriere della Sera il 20 ottobre 2023
«I numeri 10 sono tramontati perché refrattari alle regole. Il caso Mancini? Una brutta figura per tutti. Il mio infortunio a 24 anni fu terribile, ma scoprii una forza d’animo che non conoscevo».

Del numero dieci Alessandro Del Piero parlò così, anni fa: «È il numero che portano i più talentuosi, quelli che uniscono fantasia e genialità, dribbling e visione del gioco. Il dieci è un modo di concepire il calcio».
«Non cambio idea: racchiude genialità, imprevedibilità, la capacità di far vedere cose che gli altri neanche pensano siano possibili o immaginabili. Spesso si dice che i numeri dieci sono incompresi. È vero, perché non stanno nelle regole. La storia calcistica del numero dieci racconta di un ruolo i cui interpreti avevano la possibilità, rispetto ad altri giocatori, di curare più il proprio gioco, erano meno assillati dai doveri tattici. Assicuravano estro, fantasia, capacità di risolvere situazioni o partite ma in cambio godevano di libertà. Poi il calcio ha cominciato a cambiare, proprio nel mio periodo. Si è cominciato a chiedere al dieci di essere come gli altri, di farsi carico delle esigenze tattiche, di essere imbrigliato in un meccanismo che deve essere perfetto».
Anche il calcio è passato dalla fantasia all’algoritmo…

«Si è passati dal lasciarli tranquilli a esprimere la loro creatività a chiedergli di correre come il quattro, come l’otto. Però questa scelta conteneva, contiene, un paradosso. Comunque al dieci si chiede di fare tutto come gli altri, ma poi di inventare soluzioni decisive. Gli si chiede di tirare le punizioni, di tentare il colpo di tacco. Cose per le quali devi essere lucido, fresco e libero, in testa e nei polmoni. Il dieci, nella storia, ha sempre fatto un po’ fatica a correre. Era la sua caratteristica: meno chilometri, più fantasia. Ora domina la fisicità, anche se l’ultimo mondiale l’ha vinto il vecchio calcio, quello in cui la squadra, l’Argentina, era dedicata al suo numero dieci, gli consentiva di prendere le pause che voleva per sfruttarne meglio la genialità e l’immaginazione».

Zola, nella sua intervista, mi ha detto che è con Sacchi che il numero dieci comincia a tramontare…

«Sacchi ha cambiato il calcio, il suo modo di intenderlo è diventato un riferimento. Il suo numero dieci era Ruud Gullit, mio amico, che, non me ne voglia, ha mille doti ma quelle precipue non attengono alla sfera tecnica o alla fantasia. Aveva altre specialità. In quel Milan era perfetto. Sacchi esigeva molto. In quella squadra era Donadoni, giocatore troppo sottovalutato, ad assicurare, oltre alla quantità, una qualità sopraffina. Zola ha ragione: in quel tempo è nato un calcio diverso, in cui la priorità è correre. Correre e rispettare canoni tattici molto importanti e molto rigidi».

Nel calcio con cui sono cresciuto esistevano due figure «pensanti», in campo, il libero e il numero dieci: Picchi e Suarez, Moore e Charlton, Maldini e Rivera, Scirea e Platini. Non è che anche il dieci finirà come il libero, nel palio delle contrade morte?

«Non voglio essere definitivo. È difficile paragonare le stagioni, nel calcio come nella storia. Io sono cresciuto con quel calcio lì, con Scirea e Platini. Scirea è stato, con Beckenbauer, il giocatore che dalla difesa sapeva impostare, andava avanti, sfruttava la sua libertà per costruire gioco. Oggi si è tornati a giocare a uomo — Gasperini, Juric, Tudor — ma c’è il desiderio di un tatticismo integrale, il far muovere in massa la squadra, sincronizzata. L’obiettivo è conquistare palla, tenere palla. Ci sono anche esempi contrari, in giro. Ma in generale, nel calcio moderno, tutti devono saper fare tutto. Non c’è difensore, persino il portiere, che oggi non sappia toccare bene il pallone».

Quindi l’irregolarità del dieci tende a sparire? Andiamo verso un calcio più freddo, quasi autoritario?

«Molte nuove generazioni di allenatori e giocatori crescono nel mito di Guardiola, che applica quella filosofia di gioco. Poi lui fa bene, vince, quindi, nel senso comune, ha ragione. Però in Inghilterra ci sono realtà che si esprimono in modo diverso. Klopp ha un’altra filosofia, pensa il calcio in verticale. E anche lui ha vinto. Questo rende difficile immaginare che, anche nel calcio, possa dominare un “pensiero unico”.

Aggiungo: per fortuna».

Platini mi ha detto che esistono i dieci e i nove e mezzo. I primi in Europa e i secondi nel calcio sudamericano. Ha ragione? E tu dove ti collocheresti?

«Platini credo mi piazzerebbe tra i nove e mezzo perché spesso ho ricoperto il ruolo di seconda punta, talvolta persino di prima. Io però sarei curioso di sapere Platini come considera sé stesso. Perché l’ho visto varie volte agire come attaccante, cercare il gol, tanto che è stato anche capocannoniere del campionato.

Tardelli, Furino, Bonini lo hanno aiutato parecchio...».

C’è una solitudine del numero dieci, in campo?

«Sì, c’è sempre grande aspettativa nei confronti di chi indossa quella maglia. C’è solitudine anche nella tipologia delle giocate che vengono richieste, anche nel calcio di oggi. Da Messi ci si aspetta il gol o l’assist, non solo che faccia girare la squadra. Se fa solo quello, non basta. C’è solitudine, tanta, nella scelta delle giocate e persino nella loro ideazione».

Ti sembra che nelle scuole calcio si insegni più tattica che tecnica? È difficile, ormai, trovare giocatori che sappiano saltare l’uomo o fare lanci di venti metri.

«Hai già risposto. Non conosco bene i settori giovanili, ma riconosco la filosofia di molti tecnici, la loro concezione del gioco. Oggi la prima richiesta è quella della fisicità. Ci sono settori giovanili nei quali se un ragazzo non è nato entro marzo, neanche ti guardano. Calcola che io sono di novembre e giocavo con ragazzi nati a gennaio, che avevano quasi un anno in più di me. E a tredici o quattordici anni quel tempo fa la differenza, in primo luogo fisicamente. L’allenatore delle giovanili bravo non è quello che vince il campionato della sua categoria, ma chi porta il maggior numero di ragazzi al livello superiore. Chi fa quel mestiere deve sentirsi un formatore, un insegnante di calcio e invece spesso si punta solo a vincere, perché se si arriva primi nella propria categoria allora si farà carriera. È il metro di giudizio, che è sbagliato. Ciò che conta è quanti ragazzi sono migliorati, non quanti punti hai fatto nella stagione».
Ma non è che il calcio sta diventando noioso? Nella società istantanea nella quale viviamo forse i novanta, ormai cento, minuti di una partita sono diventati anacronistici? I dati parlano di una disaffezione dei ragazzi digitali dal football…

«Qui si apre un argomento complesso. I dati sono chiari. Il calcio in Italia è diventato noioso, perché il livello si è abbassato, rispetto al passato. Qui venivano a giocare i più forti, i più grandi, tutti desideravano competere qua. Ora i più forti, i più grandi, vanno a giocare in Premier, nella Liga, persino in Francia o in Germania. Non qui. Questo vale per noi. Ma in Inghilterra il calcio non è noioso. Secondo me in questa disaffezione contano anche altri fattori. In primo luogo l’irruzione delle tecnologie. I telefoni, i videogames hanno un livello di soddisfazione del bisogno di divertimento incomparabile con quello della mia infanzia. La società digitale ci fa vivere meglio, ma ci toglie creatività».

Che differenza c’è tra il divertimento di due bambini di oggi e di ieri?

«La domenica io andavo a messa ma non vedevo l’ora di andare al bar a giocare a flipper o a calciobalilla. Mi bastava, era bellissimo. Oggi purtroppo viviamo in una società sempre più veloce, che pretende risultati immediati. Però l’uva arriva una volta l’anno. E se la vuoi buona devi aspettare, devi curare la vite, arare il terreno, dargli acqua, proteggerla della grandine... La natura ha un suo corso e noi facciamo parte della natura. Si esagera con le aspettative nei confronti dei ragazzi e i ragazzi lo sentono. Si chiede loro di vincere, di avere successo, di essere sempre competitivi. Queste attese sono un fardello pesante su spalle in formazione. I ragazzi se le caricano addosso e, siccome non tutti ce la possono fare, si diffondono disagio, stress, insicurezza, senso del fallimento, ansia. Il tempo della vita, anche nello sport, va vissuto, non consumato».
E la televisione?

«Indubbiamente l’avvento di un’offerta così massiccia, il vedere calcio continuamente, non aiuta. Quando hai voglia di un buon dolce ma puoi mangiarlo tutti giorni, alla fine ti stanchi. C’è bisogno del desiderio, c’è bisogno dell’attesa. In tutto. Ma la televisione e i social, se fatti bene, possono aiutare a trasmettere il bello del calcio, i valori positivi, la voglia di giocare».

Ti sconcerta la vicenda dei giovani calciatori che scommettono sulle partite?

«È un argomento grande e complesso, per me sono cose difficili da comprendere. Lo sport deve bastare. Per me c’era solo il campo. Esistevano regole precise che riguardavano droghe e scommesse. Non avrei mai fatto nulla che potesse in nessun mondo rovinare il mio sogno. Né prima, quando ero giovane, né dopo, quando ho avuto successo».

Che sta succedendo alla Juve? Non parlo dei risultati, capita di non vincere sempre, ci mancherebbe. Parlo della sua immagine…

«Nella Juve sei sempre sotto pressione. Quella società è, comunque, un punto di riferimento. Non solo per i tifosi bianconeri. Credo che tutti, dopo aver chiesto del risultato della formazione del cuore, si informino di cosa ha fatto la Juve. Sperando il meglio o il peggio. Comunque è una società centrale, nella storia del calcio italiano. È molto di più di una squadra di football. Quando hai tante pressioni, tante responsabilità e affronti momenti di cambiamento, passaggi generazionali e conclusioni di cicli fortunati, è ovvio che non tutto possa andare nel verso giusto. È in corso un riassestamento, e da tifoso mi auguro che le scelte fatte siano corrette perché speriamo di tornare a vedere una Juve che possa dire la sua non solo in Italia, ma in Europa».

Tu nella Juventus, Totti nella Roma, Maldini nel Milan. Perché voi che avete scritto la storia restando, nei momenti fortunati e in quelli sfortunati, con quella maglia, non siete ai vertici delle società?

«Per il mio percorso, per tutti gli anni nei quali abbiamo condiviso tantissime gioie e anche il momento più buio della serie B, con la Juve ho costruito un rapporto speciale. Non solo perché tifo bianconero, ma perché diciannove anni sono davvero tanti. Le persone mi chiedono: “Perché non torni alla Juve?”. Io rispondo che non devo tornare, perché non sono mai andato via. Quando passi tanto tempo e tante esperienze in una comunità le radici affondano nel terreno. Ok, oggi non ci lavoro, va bene — magari in futuro le cose cambieranno, chi lo sa? —, ma non mi sentirò mai lontano. Una parte importante del mio cuore è lì. E lo sarà per sempre. Sempre dalla stessa parte».

Il caso Mancini, i campioni in Arabia. I soldi sono tutto?

«C’è la volontà da parte del mondo saudita di dire la propria sul calcio: si stanno organizzando, hanno dei fondi incredibili e questo, diciamoci la verità, aiuta il loro progetto. Delle volte è veramente difficile dire di no, altre ci si può riuscire. Dipende, dipende anche da quello che ciascuno cerca. Sul discorso Mancini posso solo dire, vivendo tanto all’estero, che, in generale, abbiamo veramente fatto una brutta figura».
Penso proprio a quella fase: Totti e Del Piero, prima Baggio e Zola. Possibile che la fabbrica dell’estro e del talento abbia chiuso i battenti?

«Oggi si cerca tantissimo la fisicità e questo non aiuta chi ha talento. Nel calcio se non hai qualità fisiche ti specializzi in qualcos’altro. È la legge della sopravvivenza. Nessuno di noi era fisicamente prorompente. Anzi. Noi ci specializzavamo in fantasia e tecnica. Imparavamo a casa, all’oratorio, nel campetto del quartiere, a scuola. Io durante la ricreazione mica facevo merenda, giocavo a pallone, solo a pallone. Mi sono anche sfasciato la testa, contro un cestino. E d’estate inseguivamo il pallone sulla sabbia, al mare. Si aspettava il tramonto e che arrivasse la bassa marea per giocare sul bagnasciuga. Ci sfondavamo i piedi, perché il pallone si appesantiva con l’acqua e la sabbia. Ma è proprio così che abbiamo imparato a essere numeri dieci».

C’è un giorno della tua vita da calciatore che vorresti rivivere?

«Il 9 luglio 2006, quando vincemmo i mondiali. Ho tutto dentro, di quel giorno. Come fai a spiegare la completezza sportiva, emozionale, persino spirituale che vive in quel momento un ragazzo che ha passato tutta la vita con quel sogno, che ha vissuto il calcio come una passione che ha occupato ogni momento, che non ha pensato ad altro per anni e, alla fine, riesce a farcela? Farcela con quella semifinale, con quei rigori che se li sbagliavi precipitavi in un incubo... È una bellezza totale, quella che ho vissuto in quel momento. Una piena, integrale bellezza. Inspiegabile, irripetibile».

E quello che non vorresti rivivere?

«L’8 novembre 1998, il giorno dell’infortunio. È stato terribile. Fermo un anno, quando ne avevo ventiquattro, con l’ansia e l’incertezza del recupero. Però ho scoperto una forza d’animo che non conoscevo, una capacità di sofferenza e di reazione che mi ha consentito di trarre il meglio anche da quel dramma».
Mi parli di tuo padre?

«Mio padre era un leader silenzioso. Crescendo, diventando a mia volta padre, ho capito tante cose in più di lui. Io l’ho vissuto poco, a tredici anni sono andato via di casa. In quel momento pensi ad altro, sei in crescita. Non riuscivo a dare il giusto peso ai miei, ma poi riesci a renderti conto della loro importanza e questo ti consente di avere con loro un rapporto bello, come è giusto che sia. Mio padre faceva l’elettricista, mia madre prima la colf e poi la baby sitter. Era una persona di un’umiltà pazzesca, si rimboccava le maniche, si spezzava la schiena per far star bene la sua famiglia. Papà non parlava tanto, ma ricordo quando incontrai lui e mamma dopo che avevamo vinto la Champions. Penso che in quei momenti loro due abbiano rivisto tutto il nostro percorso di vita, tutte le paura e i sacrifici vissuti. Avevano le lacrime agli occhi. Erano orgogliosi non di Del Piero, ma del loro Alessandro».

Zinedine Zidane.

"Platini mi ha fregato!" Così Agnelli bocciò Zidane. Difficile a credersi oggi, ma l'ambientamento del francese in bianconero fu macchinoso. Al punto da far credere all'Avvocato di aver sbagliato tutto. Paolo Lazzari il 29 Luglio 2023 su Il Giornale.

Il fatto è che quel francese lì ciondola per il campo. Fluttua tra le linee, anche se l'hanno preso per fare il regista. Sembra che non sappia nemmeno lui quali zolle occupare e, quando gli recapitano il pallone, pare che diventi improvvisamente materia magmatica. Gianni Agnelli scuote la testa sconsolato, appollaiato su in tribuna, al Delle Alpi. E dire che fino a qualche mese fa pareva un fenomeno. Uno capace di ordire e pennellare trame che si sottraggono all'arredamento mentale altrui. Però a lui quel ragazzo arrivato da Bordeaux non gliel'aveva mai contata giusta. Perché Agnelli preferiva Christophe Dugarry. Mica Zinedine Zidane.

Lo aveva pure detto nitidamente al suo più fidato confidente calcistico, Michel Platini, prima di allentare i cordoni della borsa per cacciare 7 miliardi e mezzo delle vecchie lire. "Guarda Michel, io prenderei Dugarry. Che dici?". E Le Roi: "Meglio Zidane, prendi lui". Era rimasto perplesso, l'avvocato. Se l'era visionato una manciata di volte, Zizou, il nastro della cassetta mangiato in avanti e all'indietro, per tentare di carpire il segreto di quel giocatore che non riusciva proprio a raccontargli nulla di concreto. Ma Agnelli era anche un uomo innamorato dei campioni del gioco. La loro opinione aveva un peso specifico differente. E se il suo fidato Platini sosteneva che Zidane avesse i numeri, allora doveva averli.

Sboccia l'estate del 1996. Tenera, per la Juventus di Marcello Lippi, fresca vincitrice della sua seconda coppa dei campioni. Che notte, a Roma. Il gol da posizione defilatissima di Ravanelli. La contesa tiratissima con l'Ajax di Jari Litmanen e degli altri prodigi. Poi i calci di rigore, con quel sigillo angolatissimo di Jugovic e Van der Sar che si distende, ma non ci arriva. Però adesso si parla anche di rifondazione. Di ciclo da rinnovare. Via i senatori Vialli, Carrera, Ravanelli, Paulo Sousa e Vierchowood. Largo al bionico Alen Boksic e ad un pugno di giovani di luccicanti speranze: Vieri, Nick Amoruso e Zidane, appunto, che all'epoca ha ventiquattro anni. Con loro arrivano anche Paolo Montero e Mark Iuliano.

Nuova spinta, dunque. Colata lavica di muscoli ed energie. Ma il tratto distintivo della fantasia resta materiale per prescelti. Affidarsi prevalentemente ad Alex Del Piero, che ha trascinato l'attempata dama in finale con quei suoi gol dalle traiettorie imponderabili non basta. Dentro Zizou, allora. Uno che per l'avvocato avrà pure molti difetti, ma di sicuro gli riconosce una cifra tecnica che si colloca ben oltre le penose vicende della normalità pallonara. 

Però il francese appare fin da subito cincischiante. Condizione fisica rivedibile. Idee appannate. Al punto che Lippi lo fa pure accomodare in panchina a Vienna, in Champions. "Semplice turnover", derubrica la questione il condottiero viareggino. Nel frattempo il connazionale Platini sguaina la sciabola: "Lasciatelo divertire, vedrete che ne varrà la pena". L'avvocato però è tutt'altro che persuaso. Quel numero 21 traccheggia davanti alla difesa senza costrutto: "Il mio amico Platini mi ha tirato una fregatura", sbotta misuratamente, un giorno. Poi però cambia tutto quanto. Lippi avanza Zidane dietro le punte. Contro l'Inter, il 20 ottobre 1996, il francese stappa definitivamente tutta quella classe soltanto promessa. Gol dopo sette mesi dall'ultima segnatura (risalente ai tempi del Bordeaux) e giocate sontuose in serie. Il voto minimo è ovunque sette.

La Juventus ha trovato il suo nuovo profeta. Zidane la conquisterà a forza di reti, veroniche, tocchi vellutati, assist. Anche l'avvocato sarà costretto a deporre le armi. A gongolare per quella felice intuizione di Platini. A chiamare Zizou alle cinque del mattino seguente ad ogni partita vinta, per parlare di calcio. Eppure, oltre agli applausi, Gianni Agnelli non gli risparmierà una delle consuete staffilate assestate ai suoi campionissimi, da Boniek a Baggio, passando per Del Piero. "Zidane? Più divertente che utile", sarà il giudizio finale, tranchant. Ma pronunciato col sorriso. E con la consapevolezza che accanto a quelle forme seducenti c'era anche moltissima sostanza.

Paolo Montero.

Antonio Barillà per la Stampa - Estratti il 10 ottobre 2023.

Paolo Montero raggiunge il J Museum con l’amico Gianluca Pessotto. Erano inseparabili da calciatori, benché così diversi, l’uno focoso, l’altro pacato, e lo sono oggi che lavorano accanto nel settore giovanile bianconero, l’uruguaiano tecnico dell’Under 19, Pesso con un ruolo dirigenziale. Una doppia veste, la loro, in questo Centenario: tesserati di oggi e leggende di ieri, custodi di ricordi che risalgono all’Avvocato Giovanni e al fratello Umberto. 

«Arrivare alla Juventus con loro è stata una fortuna» esclama Montero, riepilogando immagini lontane: fu acquistato nel 1996 ed è rimasto nove stagioni, lasciando una traccia profonda nel cuore dei tifosi per il rendimento ma, ancor prima, per l’impegno: ogni partita una battaglia, a volte perfino esagerando, la fama del cattivo ma con un suo codice d’onore. 

Montero, in un recente commento sulla celebrazione del secolo bianconero degli Agnelli ha definito la Juventus una famiglia.

«Lo penso sinceramente. La Juventus è tutto ciò che la parola famiglia racchiude: unione, sacrificio, aiuto a crescere. Amore. E non c’è ombra di retorica».

Lei arrivò ragazzo e andò via uomo dopo 278 partite.

«Il primo giorno mi colpirono due cose: la straordinaria organizzazione e il senso d’appartenenza. La società era vicinissima alla squadra. Mi aveva voluto Lippi, mio allenatore nella prima stagione all’Atalanta, ma oltre a lui, a seguirci, c’erano sempre proprietà e dirigenza: l’Avvocato Agnelli e il dottor Umberto venivano spesso al Comunale, Giraudo, Moggi e Bettega erano al campo tutti i giorni. Sentivamo il loro sostegno e c’era una straordinaria unità. Anche nello spogliatoio, non vedevamo l’ora di ritrovarci per i ritiri perché stavamo bene insieme al di là del calcio». 

(...)

«Cento anni di proprietà rappresentano qualcosa di unico. Personalmente non riesco a immaginare la Juventus senza gli Agnelli».

Andrea, l’ultimo presidente della Famiglia, la indicava come suo calciatore preferito.

(sorride) «Capisce poco di calcio».

Ricordi?

«L’ho conosciuto adolescente, stava spesso con la squadra. E da presidente, mi ha riportato alla Juventus dopo diciassette anni: per me è stato tornare a casa, un’emozione indescrivibile». 

La chiamò lui?

«No, Pesso. La prima telefonata in realtà non fu per me, ma per mio figlio (Alfonso, difensore centrale nell’Under 17): giocava nel Defensor, lo volle in bianconero. La seconda, dopo una settimana, fu per offrirmi la panchina della Primavera».

A proposito di telefonate, l’Avvocato chiamava anche lei all’alba?

«Sì, e non dimenticherò mai la prima volta: mio padre, e al secondo tentativo io, staccammo la comunicazione pensando a uno scherzo. Immaginate come mi sentii quando scoprii che era davvero lui».

A distanza di anni, è storia o leggenda la battuta dopo il pugno all’interista Di Biagio?

«Verità. “Paolo - mi disse al campo - non mi sei piaciuto per niente”. Io mi preoccupai, immaginavo già la predica, invece aggiunse: “Non l’hai preso bene: un bravo pugile con un gancio così l’avrebbe fatto cadere”».

Il duro Montero: è cambiato con gli anni?

«Sono cresciuto, mi controllo, ma lo spirito resta quello». 

Un aneddoto sul Dottor Umberto?

«Una battuta. Ero stato espulso a Lecce e alla ripresa degli allenamenti mi disse che così non perdevo l’abitudine».

Anche Elkann ha conosciuto da ragazzo?

«Poco, lui è come me: riservato. Ho conosciuto meglio Lapo, carattere ben diverso».

La Juventus ha allargato la sala dei trofei del J Museum…

«Spero debba ingrandirla sempre di più. E spero che ospiti presto la terza Champions. L’ho solo sfiorata, la vogliamo tutti noi tifosi».

Pasquale Bruno.

Estratto dell'articolo di Maurizio Crosetti per repubblica.it sabato 8 luglio 2023.

Dicono sia stato il difensore più duro e crudele della storia del calcio italiano, uno stopper assetato di sangue. Pasquale Bruno, ‘O animale, come lo battezzò un suo compagno di squadra alla Juventus. Ma è stato anche tra i più forti marcatori in un’epoca fenomenale per il nostro football, gli anni Novanta. Oggi è un sessantunenne “malato” di mountain bike, ed è una persona mitissima.

Pasquale, ma lei era davvero così tremendo?

“Dottor Jekyll e Mister Hyde. Fuori dal campo ero un tipo tranquillo, ma già nel tunnel degli spogliatoi mi partiva l’embolo. Mi sarebbe servito uno psichiatra, ero un caso grave”.

Ma perché?

“La sconfitta, un dolore insopportabile. A volte piangevo sotto la doccia. Due anni fa, mia figlia Sandra mi ha confessato che da piccolina, diciamo verso i sei/sette anni, dal passo che avevo entrando in casa lei capiva se avessi vinto o perso. Non ci potevo credere. Pensate come ero messo! Peggio di Shining”.

Cosa ricorda di quei momenti?

Non avevo amici tra i calciatori, ero troppo orgoglioso per chiedere la maglia a un Maradona o a un Van Basten. E poi, visto come li menavo, non me l’avrebbero neanche data. Ero come accecato”. 

Cento ammonizioni, cinquanta giornate di squalifica: con lei, gli arbitri non potevano sbagliarsi.

“I cartellini rossi o gialli erano automatici, ma non sempre meritati. Diciamo che con Pasquale Bruno si andava sul sicuro. Però, io non ero solo questo. Ero proprio forte. Mai sbagliato una partita importante o una finale. Annullai lo spagnolo Butragueño, stella del Real Madrid, marcandolo a uomo a tutto campo: vorrei vederne uno di adesso, giocare così”. 

Lei odiava Roberto Baggio?

“È stato il più grande giocatore italiano di tutti i tempi però mi pativa, mi insultava. E più lui parlava, più io lo menavo. Ma che gol mi fece in un derby! Con una finta mi mandò a rotolare in curva Maratona. Fenomeno”.

Un’altra volta, sempre in un derby contro la Juve, lei si prese otto giornate di squalifica: come andò?

“Il bianconero Casiraghi, fortissimo, l’avversario più cattivo che io abbia mai affrontato, simulò di avere subìto un fallo da parte mia. Ed eravamo già ammoniti tutti e due dopo neanche un quarto d’ora. L’arbitro Ceccarini, guarda caso quello di Iuliano e Ronaldo, estrasse un altro giallo e mi cacciò. Mi prese una crisi isterica, stavo vivendo una clamorosa ingiustizia, i compagni provarono a tenermi, Lentini mi stringeva, mi faceva male e io mi infuriavo ancora di più”. 

Come finì?

“Otto turni di stop. Il martedì, Moggi venne negli spogliatoi e annunciò: ‘Pasquale, sono quaranta milioni di multa’, ovviamente in lire. Risposi: ‘Direttore, se devo pagare quaranta milioni, smetto di giocare’. E Moggi: ‘Allora puoi pure smettere’. Me li tolsero dallo stipendio fino all’ultimo centesimo”.

Cosa voleva dire, essere un difensore in quegli anni?

“Dover affrontare ogni settimana Maradona, Van Basten, Roberto Baggio, Vialli, Careca, Batistuta. Se non eri un fenomeno non giocavi in serie A, e anch’io modestamente lo ero. Rispetto ai marcatori di oggi, Pasquale Bruno era un fuoriclasse. Tra i miei colleghi attuali, neppure uno sarebbe titolare in quel Milan, in quella Juve, in quel Torino. Oggi Gullit segnerebbe 150 gol”.

Il più grande?

“Beh, Maradona. Lo menavi e non cadeva mai, con quel baricentro basso che aveva. Se facevi spalla a spalla con lui, che era tostissimo, finivi a terra tu. Non lo abbatteva nemmeno Vierchowod, cioè il più forte marcatore di quell’epoca”.

Una volta Van Basten si mise a ballare sopra di lei, a terra. Perché?

“Avevo appena fatto autogol, e non mi rendevo conto della sua presa in giro. Quando mi rialzai e tornai in me, dissi all’olandese: ‘Resta in campo, ti prego resta in campo’. Purtroppo, e per fortuna per lui, Capello lo sostituì”.

Lei se la prese anche con Ancelotti.

“Un gigante, Carletto, forte forte, mica un fighetta. Gli dicevo: ‘Oggi ti faccio finire la carriera’. E lui, sempre a battersi senza scappare. Un altro che non scappava mai era Vialli. Lo menavo di brutto e Luca, imperterrito, mi guardava e mi diceva: ‘Pasquale, stai tranquillo’. Così mi disarmava”.

L’ avversario più indisponente?

“Forse Paolo Di Canio, grande giocatore e gran cacacazzi. Appena lo sfioravi, si buttava a terra e piagnucolava”.

(…)

Pasquale, ci dica: che fine ha fatto ‘O animale?

“Un giorno il mio compagno Roberto Tricella, dopo un allenamento alla Juve, si rivolse ai giornalisti: ‘Adesso accompagno a casa Pasquale Bruno detto ‘O animale’. Io sorrisi ma non capivo. Poi, feci delle ricerche e scoprii che Tricella si riferiva a Pasquale Barra, un celebre sicario della camorra che era soprannominato così. La presi male: non potevo essere chiamato come un assassino. Poi, si sa come sono i giornalisti, e da quel momento fui ‘O animale per sempre. Dovetti sopportarlo”. 

È vero che Dino Zoff è stato il suo maestro?

“Mi convocò nell’Olimpica quand’ero al Como. Mi ripeteva: ‘Pasquale, tu potresti giocare benissimo a calcio ma ti piace menare la gente. Io non capisco, ma fa’ come vuoi’”.

Come spiegherebbe il vostro calcio a un ragazzo di oggi?

“Gli direi che dopo una sconfitta io ero ferito, soffrivo, piangevo e mi disperavo, mentre i giocatori di adesso perdono una finale e vanno in discoteca o al ristorante. A un ragazzo di oggi, direi: non sapete cosa vi siete persi”.

Claudio Gentile.

Claudio Gentile: “Fatto fuori dalla Nazionale per aver rifiutato i soldi dei procuratori, una lobby come la mafia. Pedalo ogni giorno per scaricare la rabbia”. Maurizio Crosetti su La Repubblica riportato dal Il Napista.it il 4 Agosto 2023 

Con l’U21 nel 2004 ha vinto l’Europeo e il bronzo olimpico. Da 17 anni l’ex ct si chiede perché sia stato messo da parte. “Potevo firmare per la Juve, non lo feci per correttezza”. Sulla carriera da giocatore e sul Mondiale ‘82: “Ho fermato Zico e Maradona senza picchiarli, non ero un difensore cattivo”.  

Ci sono dolori e domande che restano dentro per una vita, nodi che non si sciolgono più. Claudio Gentile da 17 anni si chiede perché lo abbiano fatto fuori dalla Nazionale: dalla Under 21, che allenava, e dalla Nazionale A che gli avevano promesso. Se lo ripete ogni giorno, si può dire ogni momento. E non ha risposta.

Gentile: «Cacciato dalla Nazionale perché minacciai di denunciare alcuni procuratori, la mafia del calcio»

A La Repubblica: «Volevano offrirmi denaro per convocare in Nazionale i loro giocatori. Li cacciai. Qualcuno me l’ha giurata, mi hanno rovinato».

Maurizio Crosetti intervista Claudio Gentile per La Repubblica. Sono 17 anni che Gentile è stato fatto fuori dalla Nazionale e ancora non si capacita del perché. Allenava l’Under 21, gli era stata promessa la Nazionale A. Promessa mai mantenuta. Un sospetto sulle motivazioni Gentile lo ha.

«Avevo minacciato di denunciare alcuni procuratori che volevano offrirmi denaro, molto denaro, per convocare in Nazionale i loro giocatori. Li cacciai tutti! Io stesso non ho mai avuto un agente. Guarda caso, da quel momento qualcuno me l’ha giurata».

Gentile parla di Albertini, che gli fece promesse poi disattese.

«Potrebbe chiarire qualcosa Demetrio Albertini, al quale spiegai che avevo ricevuto l’offerta di un club importante (la Juventus, ndr) e che mi invitò a rifiutare. “Abbiamo progetti importanti per te”, mi disse Albertini. Come no! Il progetto di distruggermi la carriera. Da chi prendevano ordini quei dirigenti? Sono stato ingenuo a non firmare un altro contratto e a non abbandonare la Figc. L’ho fatto per troppa correttezza».

Da quel momento, Gentile non ha più allenato in Italia.

«Ricevo ancora messaggi di persone che mi chiedono perché. La gente a volte mi ferma per strada e mi dice: “Ci sono asini che allenano e lei no, come mai?” Non so cosa rispondere. Eppure, questi asini li vedo andare e venire, cadere e ritornare in ballo: questione di scuderie. Ma io ho sempre fatto da solo, e da allenatore ho permesso a tanti ragazzi di crescere e diventare uomini. Soltanto con uno di loro non è stato possibile, eppure passava per un genio del calcio».

Non fa nomi.

«Lasciamo perdere che è meglio».

Gentile parla dei procuratori:

«La parola che mi viene in mente è mafia, senza neppure un Totò Riina al quale dare la colpa: io non so chi mi abbia fatto saltare in aria. Rubavo? Ero corrotto? Ero antipatico? Me lo dicano. Almeno, dopo quasi vent’anni saprò finalmente qualcosa in più. Ma poi si preparino alle denunce dei miei avvocati».

Gentile si sente solo. Cos’ha fatto l’Italia per lei in senso calcistico? Risponde:

«Mi ha rovinato».

Gentile conclude:

«Adesso ho solo un enorme nodo allo stomaco. Alcuni miei compagni e amici di allora hanno avuto altre occasioni, penso a Zoff, Tardelli, Oriali, Cabrini, Antognoni, Bruno Conti, Bettega, Graziani. Perché Gentile no? Ma io avevo vinto più di tutti sulla panchina azzurra. Sarei rimasto volentieri all’Under 21, non ci stavo male, anche se ormai la Nazionale A mi faceva gola. E invece mi hanno tolto di mezzo senza un perché». 

Napolistailnapolista

Claudio Gentile contro la “mafia dei procuratori”: «Mi offrivano soldi per convocare i loro giocatori». Da open.online il 4 AGOSTO 2023

Claudio Gentile è uno degli eroi di Spagna 1982. Terzino destro e marcatore della Nazionale di Enzo Bearzot campione del mondo, la sua prestazione migliore fu quella contro l’Argentina nel “gironcino”, quando non fece toccare palla (con le buone e con le cattive) a Diego Armando Maradona. L’ex giocatore di Juventus e Fiorentina è diventato allenatore. Nel 2004 è stato il commissario tecnico della Nazionale italiana under 21 che ha vinto l’Europeo e la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Atene. Ma da quel periodo non ha allenato più. Nemmeno la nazionale maggiore, che a suo dire gli era stata promessa. Per questo oggi in un’intervista a Repubblica si sfoga. E dice che ha farlo fuori è stata “la mafia dei procuratori” del calcio. Che lui voleva denunciare.

I soldi per giocare

«Avevo minacciato di denunciare alcuni procuratori che volevano offrirmi denaro, molto denaro, per convocare in Nazionale i loro giocatori. Li cacciai tutti! Io stesso non ho mai avuto un agente. Guarda caso, da quel momento qualcuno me l’ha giurata», dice nel colloquio con Maurizio Crosetti. E ancora: «La risposta avrebbe dovuto darla Guido Rossi, che era commissario straordinario della Figc e decise di farmi fuori: ma purtroppo è morto. Potrebbe chiarire qualcosa Demetrio Albertini, al quale spiegai che avevo ricevuto l’offerta di un club importante (la Juventus, ndr) e che mi invitò a rifiutare. “Abbiamo progetti importanti per te”, mi disse Albertini. Come no! Il progetto di distruggermi la carriera. Da chi prendevano ordini quei dirigenti? Sono stato ingenuo a non firmare un altro contratto e a non abbandonare la Figc. L’ho fatto per troppa correttezza». 

La storia

Gentile sostiene che all’epoca la federazione gli aveva promesso che sarebbe diventato l’allenatore degli Azzurri. Per questo rifiutò di allenare la Juventus. Ma poi qualcuno si rimangiò la parola. E da quel momento lui è restato senza lavoro. E oggi dice: «Quando a casa passo davanti a quel cerchietto di bronzo, mi girano soltanto le scatole. Ci sto ancora male da morire, forse più di prima. Sono vittima di una cattiveria gigantesca. Cosa ho fatto di male nella vita? Voi che siete giornalisti, aiutatemi a trovare una risposta. Forse ho vinto troppo? A chi ho dato fastidio?». Poi aggiunge minaccioso: «Io non so chi mi abbia fatto saltare in aria. Rubavo? Ero corrotto? Ero antipatico? Me lo dicano. Almeno, dopo quasi vent’anni ne saprò finalmente qualcosa in più. Ma poi si preparino alle denunce dei miei avvocati».

Il Mundial

Gentile rievoca il Mondiale ’82. Partendo dalla sua fama di difensore cattivo: «Eppure nella mia carriera non sono mai stato espulso per gioco scorretto. Mai una volta in 520 partite. Ho preso un cartellino rosso in Coppa dei Campioni per un fallo di mano volontario. Anche questa è una cosa che mi ferisce». Sulla maglia strappata a Zico durante la partita con il Brasile che valse all’Italia la semifinale è categorico: «Era di carta velina, un tessuto delicatissimo! Appena la toccavi si rompeva. E poi in quell’azione Zico era in fuorigioco. Dunque, non esiste al mondo che fosse rigore. E lui lo sa».

Poi rivela che nella partita con l’Argentina inizialmente lui doveva marcare Mario Kempes. Ovvero l’attaccante eroe del mondiale del 1978, che aveva fatto una doppietta in finale con l’Olanda. «Diego doveva toccare a Tardelli. Poi Bearzot cambiò idea alla vigilia: «La sera prima della partita, venne in camera e mi fece un sacco di complimenti, io ascoltavo in silenzio e non capivo dove volesse andare a parare. Poi, di colpo mi chiese: “Claudio, te la senti di marcare Maradona?”. E io, d’istinto: “Mister, e dov’è il problema?”. Quando Bearzot uscì dalla stanza, pensai: “Claudio, sei proprio un deficiente”».

La marcatura

Gentile poi spiega la marcatura nel calcio: «È un duello western, però serve anche tanta testa. Sapevo che quel fenomeno, il più grande calciatore di tutti i tempi, lo avrei potuto fermare soltanto con l’anticipo. Non con le botte: con l’anticipo. Decisi che mi sarei messo sempre tra lui e il pallone: i compagni di Diego non dovevano riuscire a vederlo, io lo dovevo impallare e andò proprio così. Maradona non l’ho picchiato, l’ho isolato. Gli ho creato il vuoto intorno». Oggi invece va a vedere le partite dei ragazzini. «Sarei rimasto volentieri all’Under 21 anche se la Nazionale A mi faceva gola. E invece mi hanno tolto di mezzo senza un perché».

Da ilnapolista.it il 22 giugno 2023.

Avvenire intervista Claudio Gentile, l’ex campione del mondo dell’82 ed ex ct che con l’Under 21 nel 2004 vinse l’ultimo titolo europeo e ai Giochi di Atene anche l’ultima medaglia (bronzo) olimpica. A settembre compie 70 anni. Da circa 19 anni non allena più. Gentile commenta: 

«La mia vita è fatta di primati sempre un po’ particolari. Nessuno ad esempio ha mai scritto che in quella Nazionale campione del mondo dell’82 ero l’unico “meridionale titolare”. Così come penso di essere stato l’unico selezionatore al mondo mandato via per aver ottenuto dei risultati, per giunta storici e da allora mai più raggiunti. Troppo no?». 

Gentile rivendica il fatto che la Nazionale di Lippi che vinse il Mondiale del 2006 aveva in campo sei giocatori della sua Under 21.

«Parliamo di De Rossi, Gilardino, Amelia, Iaquinta, Zaccardo e Barzagli. Con questi ragazzi avevamo costruito una squadra capace, sia in qualificazione che nella fase finale, di mostrare il miglior attacco e la migliore difesa. Ma evidentemente non era sufficiente e per qualcuno al quale non stavo simpatico sarà stato un motivo in più per dirmi arrivederci e grazie». 

Nessuno ha più cercato Gentile dalla Federcalcio.

«Nessuno mi ha cercato e io non sono andato a bussare alla porta di nessuno. I club, quelli sì, tanti mi hanno contattato, dall’Argentina, dalla Grecia, dal Portogallo, dall’Africa… Ma ho sempre declinato l’offerta per un motivo semplice, perché, mi chiedevo e mi chiedo ancora adesso, non posso allenare nel mio Paese?». 

Forse perché non ha un procuratore?

«Mai avuto un procuratore neppure quando ero calciatore. Molti di loro poi ritengo che non siano persone che lavorano per il bene del calcio. Mi ricordo ancora quando ero ct dell’Under 21, quanti di questi signori provavano a sponsorizzarmi il loro pupillo… Ma con me sbattevano male, io ho sempre chiamato solo ed esclusivamente i più meritevoli. E infatti i risultati mi hanno dato ragione. Poi, che io sia uno scomodo e che evidentemente non sto simpatico a chi gestisce il “potere”, questo è un altro discorso. 

Ma sono fiero di provenire dalla migliore scuola calcistica degli anni -70-‘80. La scuola del n. 1 al mondo degli allenatori, Giovanni Trapattoni. Con il Trap tanto dialogo proficuo e poi mi ha insegnato a giocare da terzino destro e sinistro. Un anno alla Juve mi ha fatto fare anche lo stopper. Finito l’allenamento, lui lanciava e io dovevo stoppare il pallone e crossare, una volta di destro, una volta col mancino… Il periodo che ho trascorso con il Trap come vice della Nazionale ho imparato tutto quello che c’era da imparare, e specie sul piano motivazionale mi è servito tantissimo».

Gianni Rivera ha detto che vuole allenare, anche Gentile non può ricominciare dalla prossima stagione?

«Beh, per uno come Rivera, che non ha mai allenato, debuttare in panchina a 80 anni sarebbe un record mondiale – sorride divertito – . Io non faccio distinzioni di categoria, ma per allenare un club pongo solo due condizioni: lavorare con gente seria e che creda ciecamente come me nella meritocrazia».

Antonio Conte.

Dagospia lunedì 16 ottobre 2023. Anticipazione da Belve

A “Belve” arriva l’attesissismo Antonio Conte con un’intervista inedita sulla sua vita privata e dove fa luce anche su alcuni temi caldissimi come quelli di un suo passaggio alla Roma e al Napoli. Quando la Fagnani chiede se gli piacerebbe allenare Napoli e Roma, Conte confessa: “Sicuramente sono due piazze che vorrei vivere, per la passione che ti trasferiscono. Mi auguro un domani che ci sia la possibilità di fare questa esperienza”. la Fagnani a quel punto chiede: non prenderebbe una squadra in corsa? e Conte: “No, perché sono situazioni create prima”. a quel punto la conduttrice chiede: del Napoli sappiamo, dalla Roma qualcuno si è fatto vivo? E il mister risponde…. 

IL mister parla del “caso mancini” e delle discusse dimissioni dalla Nazionale. “Non voglio entrare nella questione e fare qualcosa che a me ha dato fastidio in altre circostanze”. Ma la Fagnani torna all’attacco: “Quindi lei non ci sarebbe andato in Arabia Aaudita. Non avrebbe lasciato la Nazionale”, Conte elabora: “Stando ai giornali l’arabia saudita avrebbe fatto offerte a tutti, mi ci metto dentro anche io”. E la Fagnani: “quindi hanno fatto un’offerta anche a lei?”, e Conte confessa: “Io ho rifiutato”. 

Quando la Fagnani gli fa notare che quindi ci ha risposto, non avrebbe lasciato la Nazionale per l’Arabia Saudita, Conte specifica: “No, la Nazionale è un discorso, stiamo parlando di proposte di club” e poi aggiunge: “Penso che mancini abbia fatto qualcosa di storico vincendo l’Europeo. poi c’è stata sicuramente la non partecipazione ai Mondiali… sono delle situazioni che lasciano delle ferite”. Alla battuta della Fagnani: “Lei non si sarebbe più ripreso!”, Conte conclude chiarendo: “sarebbe stata durissima. ma in quel caso, forse sì, dopo sarei andato via”. 

Non manca una rivelazione sull’addio più sofferto, conte stupisce tutti e confessa: “Quello sicuramente di cui mi sono un po’ pentito è quello alla Juventus dopo tre anni. Sai quando anche per le piccole cose vedi grandi problemi… decisi poi di andare via”.

Conte parla anche del suo rapporto travagliato con il collega José Mourinho e quando Francesca Fagnani ricorda a Conte di avergli detto una volta “vediamoci in ufficio” con tono minaccioso, il Mister commenta serafico: “Io vengo dalla strada, non se lo dimentichi mai”.  

C’è spazio anche per scherzare sull’atteggiamento controllante di Conte con i giocatori delle sue squadre. La Fagnani ricorda al Mister le sue “istruzioni” sui rapporti sessuali in periodo di competizione, di breve durata e con minor sforzo possibile, e Conte afferma: “Avendo un trascorso da calciatore ho esperienze pratiche che posso trasferire. Uno non può mettere dei limiti o proibire alcune situazioni, però sicuramente nell’imminenza della partita il consiglio è fare minimo sforzo possibile”. E quando la Fagnani scherzando chiede a quanto corrisponde, il Mister afferma: “Il minimo sforzo possibile significa essere passivi, l’altra parte deve essere molto attiva”.

Tra i vari argomenti si tocca anche la vicenda riguardante la truffa di Massimo Bochicchio. Quando la Fagnani chiede che idea si è fatto della vicenda, Conte commenta: “Mi è sembrato strano, tutto quello che è accaduto nel momento in cui è tornato in Italia, tutta questa libertà che gli è stata data. Era chiaro che aveva truffato tantissime persone. Ci sarebbe voluta molta più attenzione e io penso che ci sia stato un po’ di lassismo da questo punto di vista. La Fagnani chiede: lei è riuscito a recuperare qualcosa? E Conte rivela: “Una parte, l’altra vedremo cosa accadrà”.

Estratto dell'articolo di Antonio Barillà per lastampa.it il 28 marzo 2023.

Il divorzio è consensuale, non sereno. Restano incomprensioni, fraintesi, parole dure. Antonio Conte è fatto così: dà l’anima, ma se un progetto non lo convince più l’interrompe. E spesso consuma lo strappo sommando frecciate pubbliche a confronti privati. L’epilogo del rapporto con il Tottenham è un dejavu, un concentrato di tensioni che né il comunicato asettico del club né il miele social del tecnico («Ringrazio profondamente tutti gli Spurs che hanno apprezzato e condiviso la mia passione e il mio intenso modo di vivere il calcio») cancellano.

 D’altronde lui taccia i calciatori d’egoismo, rinfaccia vent’anni senza successi, le repliche non sono tenere e i tabloid ritraggono uno spogliatoio stufo, un feeling deteriorato, un ambiente «tossico». Il punto è capire che cosa ci sia dietro: la schiettezza dell’uomo, quindi una virtù, o un’allergia al compromesso che lo rende, alla lunga, inaffidabile? In fondo tende sempre a prendersela con società che lo pagano lautamente e così il confine tra libertà e irriconoscenza s’assottiglia, soffiando anche sul sospetto di un allenatore vincente che però, se le cose non girano, non esita a scaricare le responsabilità.

È così da sempre, Antonio da Lecce. La sua carriera è fitta di successi - nei campionati, in verità: le coppe europee restano un sortilegio -, di legami intensi, tattiche scaltre e motivazioni portate alle stelle, ma anche di lacerazioni, dita puntate e porte sbattute. La narrazione classica comincia dalla Juventus, dall’addio improvviso dopo tre stagioni felici, dalla battuta sul ristorante da 100 euro in cui con 10 non puoi sederti, dalla convinzione d’una squadra svuotata che invece, assegnata ad Allegri, si spinse fino alla finale di Champions, in realtà anche le precedenti esperienze sono un compendio di toni alti e rotture.

Ad Arezzo, dopo la retrocessione in C, si scaglia proprio contro la Juve sconfitta in casa dallo Spezia che guadagna così i play out («Rispetto per i tifosi, non per la squadra»), a Bari dopo la promozione in Serie A e il rinnovo si dimette ritenendo il progetto non all’altezza mentre Ventura, erede designato, s’arrampica al decimo posto, a Bergamo dura poco più di cento giorni litigando con Doni, il capitano, e con i tifosi, a Siena non c’è addio traumatico ma diventa cult la conferenza contro i «gufi che vogliono il male della squadra».

Dopo la Juve, la Nazionale. Archiviato l’Europeo, Conte non rinnova il contratto e firma con il Chelsea. Rimarca la promessa non mantenuta di avere un ruolo più ampio e spiega di non voler stare «dentro un garage». A Londra non va meglio, contesta il mercato, dopo aver vinto la Premier chiude al quinto posto e viene esonerato: fa causa al club. Tappa successiva l’Inter, stesso copione: scudetto, lamentele su una campagna acquisti che non segue le sue direttive e su una società ritenuta debole. Anche al Tottenham è addio al secondo anno, se la prende con l’ambiente ma ignora i 170 milioni investiti e le ambizioni perdute, ultima la Champions interrotta davanti al Milan. 

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Estratto dell'articolo di Antonio Barillà per “la Stampa” il 28 marzo 2023.

[…] Antonio Conte è fatto così: dà l'anima, ma se un progetto non lo convince più l'interrompe. E spesso consuma lo strappo sommando frecciate pubbliche a confronti privati. L'epilogo del rapporto con il Tottenham è un dejavu, un concentrato di tensioni che né il comunicato asettico del club né il miele social del tecnico […] cancellano.

 D'altronde lui taccia i calciatori d'egoismo, rinfaccia vent'anni senza successi, le repliche non sono tenere e i tabloid ritraggono uno spogliatoio stufo, un feeling deteriorato, un ambiente «tossico». Il punto è capire che cosa ci sia dietro: la schiettezza dell'uomo, quindi una virtù, o un'allergia al compromesso che lo rende, alla lunga, inaffidabile? […]

La sua carriera è fitta di successi - nei campionati, in verità: le coppe europee restano un sortilegio -, di legami intensi, tattiche scaltre e motivazioni portate alle stelle, ma anche di lacerazioni, dita puntate e porte sbattute. La narrazione classica comincia dalla Juventus, dall'addio improvviso dopo tre stagioni felici, dalla battuta sul ristorante da 100 euro in cui con 10 non puoi sederti, dalla convinzione d'una squadra svuotata che invece, assegnata ad Allegri, si spinse fino alla finale di Champions, in realtà anche le precedenti esperienze sono un compendio di toni alti e rotture.

Ad Arezzo, dopo la retrocessione in C, si scaglia proprio contro la Juve sconfitta in casa dallo Spezia che guadagna così i play out («Rispetto per i tifosi, non per la squadra»), a Bari dopo la promozione in Serie A e il rinnovo si dimette ritenendo il progetto non all'altezza mentre Ventura, erede designato, s'arrampica al decimo posto, a Bergamo dura poco più di cento giorni litigando con Doni, il capitano, e con i tifosi, a Siena non c'è addio traumatico ma diventa cult la conferenza contro i «gufi che vogliono il male della squadra».

 Dopo la Juve, la Nazionale. Archiviato l'Europeo, Conte non rinnova il contratto e firma con il Chelsea. Rimarca la promessa non mantenuta di avere un ruolo più ampio e spiega di non voler stare «dentro un garage». A Londra non va meglio, contesta il mercato, dopo aver vinto la Premier chiude al quinto posto e viene esonerato: fa causa al club. Tappa successiva l'Inter, stesso copione: scudetto, lamentele su una campagna acquisti che non segue le sue direttive e su una società ritenuta debole.

Anche al Tottenmham è addio al secondo anno, se la prende con l'ambiente ma ignora i 170 milioni investiti e le ambizioni perdute, ultima la Champions interrotta davanti al Milan. […]

 Bisbigliano che l'Inter possa riabbracciarlo se dovesse separarsi da Inzaghi, mentre a Roma può sostituire Mourinho e lui spera un giorno di chiudere il cerchio alla Juve, ma al momento non ci sono basi. Certo chi lo ingaggerà, non avrà segreti: assumerà un allenatore vincente, un cultore del lavoro, un motivatore unico, ma anche un personaggio così sincero da diventare scomodo.

Estratto dell'articolo di Paolo Tomaselli per il “Corriere della Sera” il 28 marzo 2023.

[…] Tecnicamente non è un esonero, Conte avrà la sua buonuscita (circa 5 milioni), mentre la clausola di rinnovo automatica in caso di quarto posto non si attiverà. Toccherà a Christian Stellini, suo vice storico, centrare la seconda qualificazione Champions in 17 mesi.

 Se Luis Enrique, Nagelsmann, Pochettino e De Zerbi hanno già puntato il navigatore su North London, sul ring italiano si registra il rientro di uno dei pesi massimi: Conte ha lasciato in questi anni Juve e Inter in modo burrascoso, niente nel calcio però è insanabile e dove si è stati bene si può sempre tornare. Tutto è legato al piazzamento Champions delle singole squadre, comprese Milan (dove Pioli però appare saldo) e Roma, dove è Mou a scegliere il suo futuro. Ma un’ombra si allunga sulle panchine delle nostre big.

[…] Se Inzaghi non dovesse essere confermato, piace De Zerbi, che ha una clausola elevata per lasciare il Brighton (15 milioni). E i rapporti tra Conte e Marotta restano buoni: per i bookmaker è la destinazione più probabile, seguita dalla Juve. […]

 Conte oggi è un tecnico che dovrà forse fare un passo indietro dal punto di vista delle ambizioni e delle richieste economiche, ma che non smetterà certo di imporre la sua idea di calcio, così viscerale da finire spesso malintesa da una parte dei suoi giocatori e dei suoi dirigenti. E anche dei suoi tifosi. […]

 L’ex c.t. azzurro non è un tecnico per tutte le stagioni, per tutte le piazze e nemmeno per tutti i giocatori, visto che il suo 3-5-2 richiede uno sforzo notevole per stare al passo con l’evoluzione del gioco ad altissimo livello. Conte è tornato a Torino ormai da una settimana. […]  ha vissuto anche difficili momenti privati per la morte di due figure di riferimento come Gian Piero Ventrone e Gianluca Vialli.

A questo si è aggiunto il problema alla cistifellea, risolto con un intervento, un grosso spavento e una riabilitazione che Conte ha accelerato, salvo poi doversi fermare più a lungo, piuttosto provato. L’ipotesi di un anno sabbatico a studiare calcio, senza farsi logorare dalle pressioni di vincere a ogni costo, non è a priori da scartare. Sempre che non arrivi una chiamata da Parigi per il dopo Galtier: le risorse dello sceicco stimolerebbero le ambizioni dell’ex c.t. azzurro.

Gianluigi Buffon.

Estratto dell'articolo di Claudio De Carli per “il Giornale” mercoledì 2 agosto 2023.

Ci siamo, lascia. Una epopea nata un giorno a caso.

Big match della decima di campionato, Parma-Milan, 19 novembre 1995, Tardini esaurito, 200mila lire per la tribuna centrale, la laterale viene via per 160, curva a 32mila lire. 

Parata di potenziali Palloni d'Oro, Roberto Baggio e Hristo Stoichkov l'hanno già vinto, George Weah e Gianfranco Zola lo inseguono, i titoli sono tutti per loro. C'è solo una spallina sulla destra del quotidiano, informa che Nevio Scala ha la squadra già decisa da un pezzo, un solo dubbio in porta fra Nista e Buffon, Bucci è infortunato.

Gianluigi Buffon non ha mai messo piede in serie A, in settimana il tecnico ha avuto un lungo colloquio con i due, deciderà all'ultimo momento ma Gigi non ci casca, anche contro la Cremonese sembrava arrivato il momento del suo esordio, poi niente, meglio non pensarci, meglio non illudersi. Invece gioca lui, si trova davanti a Desailly, Roberto Baggio, Boban e quella peste del liberiano […]  

Squadre in campo, sole, un mucchio di gente che gira sul prato, foto di rito, e nessuno si accorge che quelli del Parma in posa sono uno in meno, decine di scatti ma manca Buffon, è sotto la curva ad applaudire i suoi tifosi : Ero sempre lì a vedere la partita con loro, questa volta sono in campo e non volevo che credessero che mi ero montato la testa. Poi quando ho visto la foto della squadra mi sono accorto che non c'ero, adesso non ci crederà nessuno, invece quella partita io l'ho giocata.

Capello alla fine parla solo di lui: Le uscite sui piedi di Weah e Eranio sono da antologia e il colpo di reni sul tiro di Simone è stato straordinario, questo è uno che parlerà a lungo di se.

Finisce 0-0 ea fine gara i taccuini sono aperti solo per lui: Mai avrei immaginato di esordire proprio contro il Milan. La parata più difficile? Mah, comunque su quel tiro deviato di Roberto Baggio mi sono piaciuto, sono uscito alla disperata, qualcosa prendo mi sono detto, è andata bene, ma quasi mi vergogno ripensando alla faccia di Weah quando mi sono tuffato e gli ho tolto la palla dai piedi , lui era sbigottito. 

[…]

Buffon ha 17 anni ma un istante dopo il triplice fischio di Boggi la situazione è completamente ribaltata. Non è lui che gioca nella squadra di Brolin, Cannavaro, Couto e Zola, sono loro che giocano in quella di Gigi. Subito leggenda, fra i pochi a uscire dal tifo surrogato dei bar sport, juventino e bianconero totale ma portiere della Nazionale, hanno preso le sue difese perfino i più acerrimi nemici della Signora, anche quando ha scritto a pennarello sulla maglia Boia chi molla o ha scelto l'88: Ma di politica non m'intendo, e poi 88 perché sono quattro palloni. 

[…]  Ha passato anche lui quei bei momenti duri che ti spengono o ti fanno resuscitare, lo ha detto senza vergogna, una crisi depressiva forte che ha chiesto l'intervento di una psicologa: “Filava tutto storto, come se avessi sul collo la testa di un altro , ero dentro un buco nero dell'anima. Perché succede proprio a me, mi chiedevo, eppure sono bello, ricco e famoso. La svolta è stata poco prima di un incontro di campionato con la Reggina quando sono stato assalito da un improvviso attacco di panico. Stavo per chiedere la sostituzione ma se lo avessi fatto poi ogni volta sarebbe andata così. Ho reagito, abbiamo vinto, quella partita ha rappresentato una scossa clamorosa, un elettroshock”.

Al Psg niente di bello da ricordare, anche se lui l'ha vista in un altro modo: “Una stagione indimenticabile ma desiderava far giocare Areola al mio posto, e no, il secondo lo faccio solo alla Juve”. Amato anche per le sue debolezze, i disastri negli investimenti, il gioco e le scommesse, anche pesanti, ma sono sempre stati gli altri a giocare nella sua squadra, un superio grande come una montagna per andare avanti, sempre sotto tiro[…]

Adesso lascia davvero, stanco di incontrare altri arbitri con il bidone della spazzatura al posto del cuore, e questa volta è una cosa seria, risoluzione del contratto col Parma, manca solo la data per i saluti e servirà una piazza per farci stare tutti. Ha vinto anche quello che non è esposto in bacheca, ma è sempre complicato mollare, fosse arrivata la promozione nessun problema e adesso gira la voce che lo vorrebbero al posto di Vialli accanto a Mancini, una sua uscita di qualche anno fa, stagione 2016, pare premonitrice: In nazionale giochi perché lo meriti, ci tornerò quando smetto.

Ha avuto tutto eppure qualcosa gli manca: “Vorrei leggere su Wikipedia, accanto al nome Gianluigi Buffon, che ha vinto una Champions”. Quella scritta non ci sarà mai, come lui in quella foto del Tardini.

L'addio al calcio di Gigi Buffon, numero uno dei numeri uno. L’ex portiere della Juventus e della Nazionale appende i guanti al chiodo dopo una carriera piena di successi e di mille contraddizioni. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 2 agosto 2023

«Zidane…allarga ancora per Sagnol…arriva il traversone di Sagnol, cerca Zidaaaane…Buffon! Buffon!». Se al centoquattroesimo minuto della finale del Mondiale 2006 il portiere più forte della storia del calcio non fosse riuscito, nel pieno della carriera, a dare un colpo di reni impressionante e appoggiare la palla sopra la traversa, probabilmente oggi staremmo parlando di Zinedine Zidane come dell’uomo che diede la seconda coppa del Mondo alla Francia.

E invece no. Buffon quel colpo di reni l’ha dato, pochi minuti dopo Zidane avrebbe chiuso una delle più scintillanti carriere della storia sportiva con un episodio disdicevole fino a che Fabio Grosso, mettendo sotto al sette l’ultimo di cinque, perfetti, rigori, avrebbe regalato il Mondiale all’Italia di Marcello Lippi.

Oggi, diciassette anni dopo quei momenti che sembrano essere accaduti ieri, Gigi Buffon ha annunciato il ritiro dopo aver vinto tanto, e perso, anche.

«Finisce qua, mi hai dato tutto, ti ho dato tutto, abbiamo vinto insieme», ha scritto il portiere del Parma rivolto al gioco del calcio, a corredo di un lungo video su Instagram che ripercorre le tappe principali della sua carriera.

Portiere del Parma, sì, perché è lì che Buffon, nato a Carrara 45 anni fa, ha cominciato la sua carriera, giovanissimo, dimostrando da subito doti fuori dal normale tra i pali. Ed è lì che ha voluto concluderla, dopo una vita alla Juventus, un salto in Francia e lunghi anni in Nazionale.

In mezzo, l’esordio in serie A a 17 anni e quello a 19 con l’Italia, quando il Ct Cesare Maldini lo chiama a difendere per la prima volta la porta della Nazionale, a Mosca, in una fredda sera di ottobre del 1997. Pochi mesi dopo, durante sua seconda partita con l’Italia compie una delle parate più belle della storia del calcio, letteralmente togliendo dalla porta un tiro del paraguaiano Brizuela. Anche in quel caso un colpo di reni, gesto che tornerà spesso nella sua carriera (se non l’avete mai visto, andate su YouTube e mandate il video a ripetizione, poi chiamate un buon professore di Fisica e fatevi spiegare come sia stato possibile).

Poi arriva la Juve, acquistato nel 2001 quando il mercato più pazzo della stria bianconera vede la partenza di Zidane e l’arrivo di Buffon, Thuram e Nedved. E comincia l’epopea. Il 5 maggio 2002, con lo scudetto vinto scavalcando all’ultima giornata gli eterni rivali dell’Inter (che finiranno terzi, dietro anche alla Roma di Totti), e la finale di Champions del 2003, persa contro il Milan dopo un’altra parata sensazionale, a inizio partita su un colpo di testa di Pippo Inzaghi. Ne perderà altre due, di finali di Champions, e saranno quelle la sua più grande delusione calcistica.

Negli anni più alti, il crollo. La depressione, il gioco, il fumo. Ne esce grazie al calcio e alla prima moglie, la modella ceca Alena Seredova, dalla quale avrà tre figli. Poi il mondiale 2006, la parata su Podolski in semifinale e quella su Zidane sopracitata, il bacio alla coppa del Mondo. Ma di nuovo, nel punto più alto, il crollo. La Juventus viene condannata alla serie B per lo scandalo cosiddetto “Calciopoli”, ma lui va a fondo con lei e torna a galla, in un caldissimo pomeriggio di primavera ad Arezzo. Da lì, l’inizio dell’epopea. Nove campionato di fila con la Vecchia Signora e altre due finali di Champions, perse contro Barcellona e Real Madrid.

Poi l’avventura in Francia, quando la voglia di continuare a giocare, di sognare d’essere ancora quel bambino che si tuffava nel giardino di casa, prevale sul conto degli anni. Vince uno scudetto e una coppa di Francia con il Psg con accanto una nuova ragione di vita, la giornalista Ilaria D’Amico, e un altro figlio. Poi il ritorno a Parma, lì dove tutto era cominciato. E l’addio. Meditato, riflettuto, infine accettato. Anche perché quel che Buffon ha dato al calcio, lo dicono i record. Detiene quello di imbattibili nella Serie A a girone unico, 974 minuti nella stagione 2015-2016. Quello di maggior campionati di serie A vinti, 10, e quello di presenze con la Nazionale, 176. Ha partecipato a cinque mondiali, record che condivide con Antonio Carbajal, Rafael Márquez, Guillermo Ochoa, Lionel Messi, Cristiano Ronaldo e Lothar Matthäus).

È il giocatore con più apparizioni nella storia della Serie A, nonché quello che ha giocato più partite nel massimo campionato italiano con la maglia della Juventus, club del quale è il giocatore più titolato nella storia con 19 trofei vinti. Insieme a Paolo Maldini, è uno dei due calciatori italiani ad aver superato le 1000 presenze in carriera.

Carismatico, contraddittorio (più volte accostato all’estrema destra), tifoso del Genoa e del Borussia Moenchengladbach.

Prima di tutto, umano. Appena dopo, portiere.

Estratto da corriere.it il 21 marzo 2023.

[…] Gianluigi Buffon, […] è stato ospite della Bobo tv, dove ha parlato di tutto fra aneddoti, retroscena, curiosità e affermazioni inaspettate. Come quella sul Psg, che lo accolse nel 2018 dopo 17 anni di Juventus: «È stata l’esperienza più bella della mia vita […] lì mi sentivo un uomo libero. Dopo poco parlavo già francese, mi intrattenevo con le persone per strada, visitavo musei. E poi avevo la sensazione di essere in una squadra fortissima, il torello con cui aprivamo gli allenamenti era di una qualità incredibile. Ero convinto di poter vincere la Champions, eravamo superiori a tutti. […] siamo stati eliminati e quella resta ad oggi la delusione più grande della mia carriera. All’ambiente mancava l’attudine che c’era alla Juve, quella voglia di lottare come un Chiellini qualunque».

A Parigi anche l’errore più grosso della sua vita: «Cioè decidere di andarmene via. Rinunciai perfino a 10 milioni. Mi dissero in ritiro che mi avrebbero tenuto volentieri ma che in Champions avrebbero voluto puntare su Areola, un prodotto delle loro giovanili. Non l’ho accettato, per me nello sport deve giocare chi merita. perché dovevo fare il secondo in Francia? Al massimo lo avrei potuto fare in Italia e infatti poi sono tornato alla Juventus. Però mi sono mangiato le mani, perché succede che Areola fa male e al suo posto prendono Keylor Navas».

 Dal Psg è passato pure Thiago Motta, […] : «In Italia non capiscono un c... — ha sentenziato il portiere — e sapete quando me ne sono reso conto? Quando andavo in Nazionale e lo criticavano. Lui, il giocatore più forte dello spazio. Aveva un peso specifico enorme».

Il discorso poi cade nuovamente sulla Juventus, casa sua per 19 anni. Prima di tutto Buffon difende Allegri: «Non è vero che allena il catenaccio, dà semplicemente ampia libertà di interpretazione ai giocatori. Si affida a loro, un Neymar per dire lo vorrebbe subito un allenatore così. E poi parliamoci chiaro, è l’unico che non si lamenta mai». Un profilo opposto a Sarri, durato appena una stagione a Torino: «Io so cosa non ha funzionato, purtroppo alcune volte per difendere le scelte bisogna inimicarsi qualcuno. Lo hanno lasciato subito alla mercé dei risultati. […] . Peccato, non ha funzionato ma avrebbe potuto funzionare». […]

Alla Juve non ha mai messo piede […] «Abbiamo provato a portarcelo. Pur con i limiti e le intemperanze, era un talento talmente brillante che meritava di giocare con noi e gli avrebbe fatto pure bene. L’avrebbe migliorato e gli avrebbe fatto fare una carriera migliore. Sarebbe durato, aveva la stima mia e di Chiellini. È un competitivo, il calcio lo ama e gli piace dare sfoggio del proprio talento. Quando iniziava a giocare partite di livello, poi capiva che valeva la pena stare zitto ogni tanto».

 Infine sul ritiro: «Mi piacerebbe smettere al massimo dopo la prossima stagione, non di più. Sono un competitivo, non voglio essere considerato un numero 2. Sono un insoddisfatto perenne, vado sempre al campo per migliorarmi».

L'addio al calcio di una leggenda. Grazie Gigi Buffon, italiano vero che ha parato anche la depressione. Andrea Ruggieri su Il Riformista il 3 Agosto 2023 

“Mi hai dato tutto. Ti ho dato tutto. Abbiamo vinto insieme”. Gianluigi Buffon detto Gigi dice addio al calcio. Uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi, per usare la definizione di Giovanni Malagò, Presidente del Coni, dice addio e se ne va.

Lo fa con post su Instagram rivolto ai suoi 10 milioni e settecentomila followers, a corredo di un bellissimo video che sulle note dei Coldplay ripercorre alcune sue gesta con le maglie di Parma, Juventus e soprattutto Italia, narrate da telecronisti di diverse generazioni, che conferma quanto di lui, bandiera della Nazionale italiana, portierone campione del Mondo nel 2006, sappiamo tutti.

E cioè che Gigi Buffon è un ragazzo che è diventato uomo: serio, generoso, attaccato ai suoi amici dell’adolescenza che ancora oggi frequenta tra Parma e Carrara, disponibile verso chi lo ama o lo avvicina. Un italiano vero, nel senso migliore del termine.

Davvero un bel personaggio lui, sempre molto espansivo e pieno di buon senso, come d’altronde sottolineano in queste ore tutti i suoi compagni di squadra che ci hanno convissuto in 28 anni di carriera stellare, iniziati e finiti a Parma, ma consumati prevalentemente a Torino, sponda Juventus di cui è stato bandiera anche nell’anno in cui face un’esperienza al Paris Saint Germain.

Una cavalcata che ha conosciuto successi incredibili (il Mondiale, appunto e una scorpacciata di scudetti e coppe che è inutile richiamare, tanto la conoscono tutti) e un grandissimo rimpianto: la Champions League mai afferrata e tante volte sfiorata, nei teatri di Manchester (contro il Milan, forse la delusione più grande), Berlino contro il Barcellona, e Cardiff contro il Real Madrid.

Ma Buffon è uno di quei rari casi (dovrebbero essere di più, in effetti, se fossimo davvero una nazione sana) in cui a un divo viene per fortuna perdonato il successo. Per la sua modestia, umiltà evidente e simpatia, ma forse anche perché fama, amore degli italiani anche non juventini, stima di colleghi e inevitabile, meritatissima ricchezza non gli hanno risparmiato l’incontro, da lui stesso candidamente confessato con un avversario terribile: la depressione.

Da cui è uscito e oltre cui è andato anche allargando i suoi interessi. Perché’ Buffon in campo è stato un super professionista, un campionissimo, ma fuori un uomo pieno di curiosità e interesse per l’attualità e il fare le cose. Da qui nascono iniziative come quella del tentativo di salvare l’azienda tessile della Zucchi, e il varo de La Romanina, bagno di successo che gestisce a Cinquale, in zona Versilia. Per questo c’è da scommettere che Buffon, una volta smesso di giocare e dispensare quei guizzi isterici per quanto fulminei erano, che ci hanno fatto esultare tutti e reso per alcune notti magiche davvero una nazione di fratelli, farà altro, e quindi lo rivedremo.

Umile, per bene, disponibile, sensibile alla simpatia della gente, ammiratore del talento altrui che lo spingeva fino alla sportività di applaudire anche prodezze consumate contro di lui, è rimasto impressionato da pochi avversari: Ronaldo il Fenomeno, Zinedine Zidane suo compagno alla Juve per cinque anni, e più recentemente Leo Messi. Gli altri li ha sempre rispettati, e da loro è sempre stato considerato un monumento. Coerente in pubblico quanto nel privato, ha dovuto affrontare una separazione dalla prima moglie, e poi un’unione con una donna celebre che proprio di calcio si occupava. Malgrado ciò, ha sempre tenuto un profilo discreto, poco alla ricerca di visibilità gossippara, di cui al massimo è stato vittima, mai carnefice.

Come discreto è stato il suo post di addio (“Mi hai dato tutto. Ti ho dato tutto. Abbiamo vinto insieme”) che si rivolge al calcio. Ma è lo stesso significato che motivò la sua scelta ammirevole, da fresco campione del mondo nel 2006, di seguire la Juventus in serie B.

Lo avrebbe ingaggiato a suon di miliardi qualunque top club d’Europa, ma lui decise di ricambiare quanto ricevuto fino a quel momento dalla Juventus, e cosi dallo stadio di Berlino dove miliardi di persone nel mondo lo avevano visto, con l’Italia, battere la Francia in finale si ritrovò osannato a Rimini, per l’esordio con la Juventus retrocessa.

Oggi, se è vero che la Federcalcio gli ha offerto di diventare il successore di Gianluca Vialli, e prima ancora di Gigi Riva, nel ruolo di team manager della nazionale, la sua storia d’amore con una nazione che ama la propria nazionale e lui che l’ha difesa, volta pagina e prosegue.

È anche questo uno dei motivi per cui è stato un calciatore applauditissimo da noi italiani: ne abbiamo percepito il talento, l’esuberanza tipica dei portieri, la crescita da ragazzo scapigliato a uomo impegnato, e osservato anche insuccessi, sofferenze, delusioni, che non ha mai nascosto, anzi ha condiviso con tutti noi, consentendoci riflessioni che moltissimi altri grandi atleti non autorizzano minimamente.

È la differenza tra essere protagonisti e comparse, leader anziché follower. E lui si capì subito, dal suo esordio, da quale parte sarebbe finito. Grazie mille Gianluigi e buona vita. Sono sicuro che ti rivedremo.

Andrea Ruggieri

Estratto da Il Messaggero il 18 Settembre 2023 

Torna oggi a Verissimo  Alena Seredova con una nuova luce negli occhi e una brillante fede al dito. Si è sposata qualche mese fa con Alessandro Nasi in Sicilia e ora è pronta a condividere con i telespettatori le sue immagini più belle di quel giorno. 

Alena Seredova ospite a Verissimo, chi è la showgirl: il tradimento di Buffon, la dolorosa separazione, i figli e il matrimonio con Alessandro Nasi 

Si mette così alle spalle il doloroso passato e riesce ora a togliersi anche quache sassolino dalla scarpa. A 10 anni dalla separazione dall'ex Gigi Buffon l'ex modella torna a parlare del tradimento subito in una recente intervista con Harper's Bazar svelando come, all'epoca, si sia sentita tradita non solo dal marito ma anche da chi si professava amico ma sapeva tutto del flirt di gigi con Ilaria D'Amico. «Andavo allo stadio ma tutti lo sapevano.

Tutti i cosiddetti amici e conoscenti del calcio alla fine mi hanno detto che lo sapevano - ha rivelato Seredova -. Ho smesso di frequentarli». Lo scoprì dalla radio per caso, gli speaker parlavano di indiscrezioni, ma la realtà è che non erano solo indiscrezioni

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Giovanni Trapattoni.

Giovanni Trapattoni compie 84 anni: le vittorie, la moglie conosciuta in cantina, Strunz, la sorella suora, l’attentato in Costa d’Avorio. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 17 marzo 2023

L'allenatore-totem del calcio italiano tra curiosità, aneddoti, l'incontro con Pelé, le frasi celebri e le vacanze alle Maldive. I suoi segreti

Buon compleanno Trap

Una vita nel pallone. Da calciatore, allenatore, uomo innamorato del calcio. Giovanni Trapattoni compie oggi 17 marzo 84 anni, tutti vissuti inseguendo il sogno che aveva da ragazzo, sempre con un sorriso sornione, gli occhi chiari e vivaci, un po' come lui. Moduli e umanità, arrabbiature e empatia. Personaggio vincente e amato, tra sfoghi furiosi e battute, riti scaramantici e risate. Una storia di successo. La ricordiamo dall'inizio, tra aneddoti e piccoli segreti.

Trap calciatore: quando annullò Pelé

Di Trapattoni calciatore ricordiamo, tra le varie cose, la celebre marcatura su Pelé. Di cui lui stesso ha parlato al Corriere: «Nell'amichevole del 1963 Italia-Brasile lui non era al top della forma. Quando invece lo incontrai in Milan-Santos per la Coppa Intercontinentale la storia fu diversa: Pelé era un giocatore di un'altra categoria rispetto a me».

Lo sfogo al Bayern e Thomas Strunz

10 marzo 1998. Il Bayern Monaco ha perso tre partite di fila in Bundesliga. L'allenatore è Trapattoni, che rimprovera in una ormai celebre conferenza stampa i suoi giocatori. Soprattutto uno, Thomas Strunz: «Struuuunz! È qui da due anni, ma ha giocato dieci partite. È sempre infortunato». Gesti plateali, pugni sbattuti sul tavolo, occhi fuori dalle orbite: «Ha giocato 25 partite in questa squadra, in questo club. Deve rispettare gli altri colleghi».

I litigi con Edmundo

Nel 1999 Trap è allenatore della Fiorentina, che lotta per vincere lo scudetto. Il 7 febbraio i viola sono primi con 42 punti, davanti alla Lazio. Ma Batistuta si infortuna al ginocchio, e Edmundo scappa al Carnevale di Rio: «Me ne vado al sole — dice l'attaccante brasiliano mentre fugge da Malpensa direzione Brasile —. E forse non torno neanche». Litiga con Trapattoni (non la prima volta), che non lo perdonerà. E la Fiorentina vede svanire i sogni scudetto.

Trap e Cassano

Non solo Edmundo. Trapattoni ha avuto a che fare anche con un giovane e turbolento Cassano, protagonista all'Europeo del 2004: «Gli parlavo come un padre, magari bussavo alla sua camera a mezzanotte, entravo, "scusa stai già dormendo? Devo dirti delle cose importanti". Anche con un giocatore della Nazionale irlandese ho avuto grossi problemi: risolti», ha raccontato.

Le frasi celebri

Alcune, solo alcune, delle sue frasi divenute celebri. «Mai dire gatto se non ce l'hai nel sacco», tradotto da c.t. dell'Irlanda in: «Not say the cat is in the sac, when you have not the cat in the sac». «Non mettiamo il carro davanti ai buoi, ma lasciamo i buoi dietro al carro». E ancora: «Non sono né la Lollobrigida né Marylin, non merito tante attenzioni, sebbene anche io ho un bel sedere».

La sconfitta più bruciante

Non ha dubbi, Trapattoni, nell'individuare la sconfitta più bruciante. «Italia-Corea del Sud 1-2, Mondiale 2002, con il celebre arbitraggio di Byron Moreno — ha ricordato nell'intervista al Corriere per gli 80 anni —. Non ce la meritavamo».

L'attentato in Costa d'Avorio

Nel 2016 il Trap è vicino alla panchina della nazionale della Costa D'Avorio. Ecco cosa succede: «Sono vivo per miracolo. Devo proprio avere un santo che mi protegge in paradiso — raccontò il tecnico a Calciomercato.com — oppure può darsi che è intervenuta mia sorella Romilde, venuta a mancare due anni fa». Cosa era successo? «La settimana scorsa avevo in programma di partire per andare in Costa d'Avorio per diventare il nuovo ct della nazionale ivoriana. Era pronto un anno di contratto e avevo un posto fantastico dove poter vivere. Penso che il posto sarebbe stato proprio quel resort lussuoso, lì dove quegli animali sono arrivati con le barche direttamente dal mare e, nascosti dietro quell'alibi di una guerra di religione, hanno iniziato a fare una strage. Credo che ormai non sia più tempo di andare per il mondo». Il Trap si riferiva a un attentato nel resort di Gran Bassam, appunto in Costa d'Avorio, rivendicato da terroristi islamici, che causò 18 morti e oltre 30 feriti.

La sorella suora

Trapattoni aveva anche una sorella, Romilda, che prese i voti e divenne suora, scomparsa nel 2013, a 83 anni. Leggenda vuole che fosse lei a fornire al fratello l'acqua santa che lui, puntualmente, spargeva tra panchina e campo prima di ogni partita. Un gesto divenuto iconico, come il fischio con le due dita in bocca. Anche per lei Giovanni andava in chiesa, a recitare una preghiera, ogni domenica. Nonostante i dieci anni di differenza avevano un rapporto molto stretto.

La moglie Paola

Trapattoni conosce a Roma, durante le Olimpiadi del 1960, Paola Miceli. «Tutto iniziò con un bicchiere di vino nella cantina dei suoi nonni — ha raccontato Trap —. Fu amore a prima vista, ma eravamo giovani e timidi e ci volle l'aiuto dei miei compagni per farci coraggio». Il matrimonio dopo quattro anni, poi insieme per sempre. Hanno avuto due figli, Alberto e Alessandra, e diversi nipoti. Tra loro c'è Riccardo Felici, il figlio di Alessandra, che cura i canali social del nonno, protagonista anche di simpatici sketch su Instagram.

Alle Maldive con la moglie Paola

Negli ultimi anni si è finalmente concesso qualche vacanza, sempre con accanto la moglie Paola. Insieme sono andati anche alle Maldive. «Il tempo di fianco a quella bellissima ragazza è volato», ripete spesso. Trap ha sempre detto che deve alla moglie il 51 per cento dei suoi successi.

Lessico per la vittoria. Dagospia l’11 Marzo 2023. "STRUNZ!" - LA STAMPA TEDESCA CELEBRA I 25 ANNI DELLA LEGGENDARIA SFURIATA DI GIOVANNI TRAPATTONI AI TEMPI DEL BAYERN MONACO: "MESCOLANDO EMOZIONE, PATHOS E LEGGERA CONFUSIONE LINGUISTICA, TRAPATTONI HA CREATO QUALCOSA DI SPECIALE: HA CONTRIBUITO A PLASMARE IL LINGUAGGIO” - "È RIUSCITO IN QUALCOSA CHE GABRIELE D’ANNUNZIO (“MEMENTO AUDERE SEMPER!”), CESARE (“VENI, VIDI, VICI”) O ORAZIO (“CARPE DIEM!”) RAPPRESENTANO ALLO STESSO MODO: LA CREAZIONE DI NUOVI MODI DI DIRE…"

Da ilnapolista.it l’11 Marzo 2023

Strunz!”. La stampa tedesca festeggia oggi i 25 anni del mitico sfogo di Giovanni Trapattoni contro il suo Bayern Monaco. Era il 10 marzo 1998: la conferenza stampa – scrive la Süddeutsche Zeitung – si trasformò in un esemplare “sfoggio di grande retorica. Le vivaci formulazioni scelte da Trapattoni sono entrate da tempo nell’uso tedesco: «Strunz», «debole come una bottiglia vuota»…”.

Trapattoni se la prese con i suoi giocatori “piagnucoloni, i poveri Scholl, Basler e Strunz. Per la SZ “mescolando emozione, pathos e leggera confusione linguistica, Trapattoni ha creato qualcosa di speciale: ha contribuito a plasmare il linguaggio. In seguito avrebbe modestamente detto che non poteva essere orgoglioso di uno scatto d’ira in cui aveva commesso un mucchio di errori grammaticali, ma non è questo il punto”.

Quel suo perentorio “sono finito!” (commise un errore) è diventato talmente celebre in Germania da essere usato, ad esempio, sui manifesti elettorali socialdemocratici (con riferimento all’allora cancelliere Helmut Kohl). “Cosa vuole Strunz?” divenne il titolo di un programma televisivo, e lo stesso Trapattoni grazie alla “bottiglia vuota” divenne testimonial del sistema di resto dei vuoti di una catena di supermercati tedesca.

 Non solo, continua il quotidiano tedesco, il suo discorso è usato ancora oggi nei manuali di lingua tedesca della nota casa editrice Klett come esempio eccezionale di “varietà di transizione”. Ovviamente in Germania ricordano che il Trap è quello di “mai dire gatto se non ce l’hai nel sacco”.

 “A Monaco, tuttavia, Giovanni Trapattoni è riuscito in qualcosa che Gabriele D’Annunzio (“Memento audere semper!”), Cesare (“Veni, vidi, vici”) o Orazio (“Carpe diem!”) rappresentano allo stesso modo: la creazione di nuovi modi di dire. Se si trascura l’aspetto della lingua straniera, che non è del tutto impeccabile, resta la turbolenta dinamica di Trapattoni, che ricorda quella di Roberto Benigni agli Oscar del 1999, così come di altri grandi attori italiani come Totò”.

La Sz cita anche “la bellissima frase di Sergio Mattarella poco prima di un intervento televisivo in piena pandemia”, con il suo “Eh, Giovanni, dal barbiere non ci vado neanche io”.

 “In ogni caso – conclude la Süddeutsche – il discorso di Trapattoni non è affatto ridicolo. Al contrario: anche dopo un quarto di secolo è ancora vivo e rappresenta una cosa che sembra mancare sempre di più nel calcio professionistico tedesco: la vera passione!”

Marcello Lippi.

Dagospia il 12 aprile 2023. Da “Un Giorno da Pecora” – Rai Radio 1

Oggi compio 75 anni ma ne sento molti di meno, una 60ina, ho solo qualche dolorino alle ginocchia per via del mio passato da calciatore”. A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è il ct della nazionale campione del mondo Marcello Lippi, raggiunto nel giorno del suo compleanno.

Le hanno scritto i suoi giocatori campion del mondo per farle gli auguri? “Si, lo hanno fatto tutti, chi al telefono chi via messaggio”. Chi è stato il primo? “Gattuso, il più mattiniero. Lui si sveglia alle 6 di mattina e va a correre”. Accetterebbe di perdere la vittoria mondiale per tornare ad avere 20 anni? “Il mondiale è tanta roba…direi che va bene come sono andate le cose, mi tengo i 75 anni che ho con i miei problemini”.

Gigi Maifredi.

Estratto dell'articolo di Simone Monari per repubblica.it il 13 marzo 2023.

Il 20 aprile compirà 76 anni, ma Gigi Maifredi è sempre lui. Quello del calcio champagne. Ogni frase un titolo, a volte un titolone. “Dopo la Juve non è che mi sono spento, ma ho mollato, sbagliando. Ho accettato diverse altre proposte, per guadagnare, ma non ero più io”.

[…]

 Maifredi, ovvero il gioco a zona . Ma tutti pensano a Sacchi. 

“Io dico sempre che la zona l’ho inventata io, con Zeman, che però era laggiù, dai. Sacchi viene dopo, a parte che Arrigo a Parma giocava a cinque. Ma a dirla tutta, se proprio vogliamo dare a Cesare quel che è di Cesare, il primo a fare la zona fu Catuzzi, a Bari, inizio anni ‘80. Enrico, bravo, e sfortunato. Io sono venuto subito dopo. Ci ragionavo, su quel calcio lì. Allora si giocava col tornante a destra, il fluidificante a sinistra, ma perché? Così m’inventai il calcio simmetrico. Quattro difensori con due centrali e due laterali, e davanti un riferimento con due ali, in mezzo un regista basso e due interni”.

[…]

 È il calcio champagne che diventerà famoso a Bologna. Quanto le è servito fare il rappresentante?

“Moltissimo, nelle relazioni umane, ovviamente. Prima vendevo champagne. Anzi, ferma: comincio all’Alemagna, anni ’70, panettoni e non solo, poi passo alla Stock di Trieste, liquori e distillati”.

 […] Alla Juve non andò. 

“Io sono uno geniale, non ci piove”.

 Modesto meno.

“Attenzione a non scambiare la presunzione con la personalità”.

 In un’intervista a Xavier Jacobelli nel 2017 ha detto però d’esserlo stato, presuntuoso.

“Dicevo prima, sono geniale ma non ho grande volontà. Sono uno che dà tutto e subito. La presunzione sta lì, poi mi brucio, come Icaro. Chi va alla Juve è il Papa, io che oltretutto sono cattolico e vado a messa la domenica, mi sentivo così. Seduto alla destra di Dio, che era l’avvocato Agnelli. Solo che son stato Papa Luciani, con tutto il rispetto naturalmente. Voglio dire che sono durato pochissimo”.

Poco accettato dall’ambiente? Ancora oggi c’è chi ricorda i problemi con Tacconi, il portiere di allora che non voleva fare il “libero”.

“Quante sciocchezze, Stefano era un bravissimo ragazzo, anche se capiva d’aver iniziato la parabola discendente della sua carriera, […] Solo che lui senza volerlo si prestava al gioco dei giornalisti, […] Il mio problema fu che avevo dimostrato a Bologna di essere il più bravo, e andai a Torino senza preparare nulla, convinto che bastasse. Pensavo d’aver già dimostrato, ma lì ogni mattina c’erano trenta giornalisti e venti televisioni. Non ci ero abituato. Era la mia prima vera occasione, magari mi sarebbe servita, dopo Bologna, un’altra esperienza. […]

Torniamo agli errori.

“Avrei dovuto partire dalla devozione di alcuni della vecchia guardia nei confronti di Zoff, persona stimabilissima con cui avevano vinto Uefa e Coppa Italia facendo gruppo quasi contro il mio arrivo, avrei dovuto ritemprarli, convincerli. Non lo feci. Poi anziché provare a dare un’identità nuova e diversa alla Juve, pensai a riprodurre il Bologna e fu un altro errore”.

L’avvocato Agnelli però avrebbe voluto farle firmare un triennale, all’inizio dell’avventura.

“Verissimo, e io gli dissi di no, che un anno sarebbe bastato, che io ero fatto così, lui non capì che era un atto d’amore verso il club, ma non scrivere così, io che dico che l’Avvocato non capì non sta bene. Forse neanche è vero”.

 […] Gli avesse dato retta?

  “Sarei ancora lì, avrei vinto molto prima che i cinque anni che occorsero. Ma come dicevo, ci furono anche momenti belli, la squadra prese a giocare benissimo”.

 Poi finì tutto a Marassi, contro la Samp.

“Dopo un’ora di gioco in panchina, siamo 0-0, penso a quanto siamo bravi, mi dico ehi Gigi stiamo dominando la Samp prima in classifica”.

 […] Era metà febbraio del 1991.

“E mi girano i coglioni. Mollai. Invece avrei dovuto tener duro. Sarebbe servita la società, ma Montezemolo non c’era mai, veniva solo la domenica, per un allenatore la società è determinante, ti dà forza, sicurezza”.

[…]

 La leadership in panchina cos’è?

“Ci sono due tipi di leader. Il leader all’esterno, che deve essere autoritario, e quello all’interno, che deve essere autorevole. Io ho sempre preferito questa soluzione, devi avere personalità, basarti non sul potere di farti fare una certa cosa, ma sul convincimento, che è ben diverso”.

[…] Fra l’altro Agnelli pensò a lei già nell’88, dopo la sua prima stagione in rossoblù. 

«Una mattina squilla il telefono, risponde Bruna, mia moglie. ‘Pronto, sono Giampiero Boniperti’. E lei: “Certo, e io sono Grace Kelly”. E riappende. Va detto che di scherzi a casa mia i miei amici me ne facevano tanti in quel periodo. Il giorno dopo suonano alla porta, è il fiorista con un gigantesco mazzo di rose. Era di Boniperti, che fra l‘altro aveva richiamato subito”. 

 Un tecnico che ammira.

“De Zerbi, bresciano, ambizioso, la Premier – allena il Brighton da metà settembre - gli farà bene perché lo obbliga a un altro tipo di calcio, tempo fa glielo dissi, non copiare troppo Guardiola”.

 Mica è l’unico.

“Vero, quel suo tiki taka resta fantastico, ma aveva giocatori fantastici, lui stesso ha cambiato, guardate ora con Haaland, ha un riferimento e fa un altro calcio”.

 Bravo a cambiare.

“Molto. E furbo anche di più, lui è il Dio degli allenatori e può fare quel che vuole. È uno che se fa la pipì a letto può dire che ha sudato”.

 Meglio Ancelotti?

“Carletto è fortunato”.

 Insomma…

“Quando andò via dal Bayern Lewandoski disse: ‘Ora la smetteremo di fare ‘sti allenamenti da asilo’. I bravi allenatori non sono necessariamente quelli che vincono, ma quelli che migliorano i giocatori”.

[…]

Il calcio d’oggi?

“La Premier mi piace più della nostra A, campionato imperfetto, il più imperfetto di tutti, quello inglese. Il calcio ha bisogno dei contasti, se no diventa un gioco da fermo”.

 Del Var che pensa?

“Funziona se non toglie personalità all’arbitro”. 

 […]

Torniamo a Miami, e al Marocco. 

“Andrei solo, senza mia moglie, con un paio di collaboratori. Ma son restio. Miami sono oltre 12 ore di volo, è troppo. Il Marocco è molto più comodo. Fra poco dobbiamo prendere una decisione. Pensi che oltre vent’anni fa andai in Spagna, all’Albacete. Appena finiva la partita prendevo la macchina per tornare qui a Brescia, 1600 km. Sono fatto così”. […]

Totò Schillaci.

Estratto dell’articolo di Maria Elena Barnabi per Gente il 12 maggio 2023.

Questa è la storia di un uomo e una donna che si sono rincorsi per quasi 15 anni prima di sposarsi, nel 2013. È la storia di una coppia che in tutto ha quattro figli (uno lei e tre lui), un cane e una casa con l’orto dove vivono anche i genitori anziani di lei. Ed è la storia di una coppia che insieme ha affrontato il cancro di lui, un cancro brutto, e che ha deciso, a poche settimane dalla fine della chemioterapia, di partire per un’impresa matta: viaggiare zaino in spalla tra India, Borneo e Cambogia partecipando al reality di Sky Pechino Express, arrivando fino alla penultima puntata. Insomma la storia di Totò Schillaci e della moglie Barbara Lombardo, entrambi palermitani doc, è una bella storia.  

(...)

Come scopriremo durante questa conversazione, infatti, Totò ha ripreso a fare la chemio perché la partita con il cancro non è finita. Cominciamo dall’inizio. Come vi siete conosciuti?

Barbara: «Ero in un locale con mia cugina, lui era con amici, vollero presentarsi.

Io non seguivo il calcio, facevo l’odontoiatra, ero fuori dai suoi giri».

Totò: «L’avevo già notata: bellissima, in Sicilia aveva vinto tutti i concorsi per Miss Italia. La incontrai di nuovo, la invitai a bere un caffè e poi a cena. Cominciai a chiamarla. Per anni ci sentimmo tutti i giorni, ma eravamo impegnati». 

Una corte serrata...

Barbara: «Non mi fidavo, era famoso. Mi dicevo: me lo tengo come amico. Diventammo confidenti. Venne a trovarmi in ospedale quando partorii. Quando partì per L’isola dei Famosi (era il 2004, ndr) mi disse che se avevo bisogno di qualsiasi cosa potevo chiamare un suo amico. A mia madre, quando si ammalò dello stesso tumore di Totò, le disse: “Maria un giorno tua figlia me la sposo”». 

Schillaci, fu di parola.

«Da vero siciliano quale sono. Nel 2011 ci ritrovammo single, lasciai Roma per tornare a Palermo con un unico scopo: “Vado lì e me la prendo. Ora o mai più”». 

(…)

«Nel 2020. Avevo forti dolori, un medico mi consigliò di fare l’esame del sangue occulto nelle feci. Risultato: cancro al retto. Feci un primo intervento, otto ore di sala operatoria, mi misero la stomia, il sacchetto. Lo portai per due mesi. Fu difficile, i punti fecero infezione». 

Barbara: «Per due settimane lo lasciai da solo in ospedale, c’erano ancora le regole del Covid. Quando lo sentivo al telefono cercavo di dargli forza. Mettevo giù e mi consumavo di lacrime a saperlo lì». 

Come andò avanti il suo decorso?

«Feci la radio: ti devasta, ti distrugge i tessuti, ma serve per rimpicciolire il cancro. E poi un secondo intervento per eliminare il sacchetto, togliere lo sfintere e ricanalizzare il colon. E poi, a seguire, feci anche la chemioterapia: avevo le vene del braccio in fiamme». 

Furono mesi bui?

«Avevo sempre paura di morire, di lasciare mia moglie e i miei figli da soli. Il mio corpo non era più mio. Ero depresso». 

Prese dei farmaci?

Totò: «È stata Barbara il mio antidepressivo. Una vera guerriera. Mi diceva: “Che vogliamo fare? Vogliamo combattere o no? Inutile che ti fai abbattere”. Tutti i giorni mi spronava». 

Barbara:

«Ad agosto del 2022 Totò finì la chemioterapia e arrivò la chiamata del casting di Pechino Express. Una manna dal cielo. I medici ci dissero che poteva, anzi, che doveva andarci. A novembre siamo partiti per riprenderci la nostra vita». 

Totò: «Ero distrutto. Gli interventi, la radio, la chemio... Non volevo andarci. È stata Barbara a insistere. L’ho fatto perché c’era lei». 

Ha incontrato molte difficoltà?

«È stata dura, lo ammetto. Stancante. E poi senza sfintere, chi ha il mio cancro lo sa, devi sempre andare in bagno. È un disagio. Però ci siamo divertiti, ci siamo distratti e siamo arrivati quasi alla fine. Per me fare Pechino è stata una vera rivincita. Mi ha dato la carica». 

E ora come sta?

«Tornato a casa, ho fatto dei controlli e mi hanno trovato tre macchioline di cellule “scappate” sulla cervicale. Ho fatto di nuovo la radio, e due sono andate via. Ora, per giocare d’anticipo, sto facendo una nuova chemioterapia: sei infusioni ogni 15 giorni. Ne ho fatte due. Mi hanno messo un catetere sul petto, così fa meno male e non mi brucia più il braccio. Ma dopo ho vomito, dolori. È una chemio pesante. In ospedale ne ho viste di ogni, cameroni pieni di gente che fa i trattamenti, che soffre molto... Questo è il terzo cancro più diffuso al mondo. Bisogna fare prevenzione». 

Ha paura?

«Dopo il cancro non sono più lo stesso. Sono sempre stato uno sorridente, felice. Ora invece ogni tanto mi assento, mi vengono i brutti pensieri. Penso a Vialli, a Mihajlovic...».

È molto sincero. Perché ha deciso di raccontare la sua malattia?

«Per lanciare un messaggio. Ascolti, non sono qui per piangere. Sono qui per dire che con la malattia si può vivere. Se uno ha un cancro, non vuol dire che sia finito. La vita va avanti, bisogna viverla a 360 gradi, facendo quello che si vuole. E io ora sono qui».

Totò Schillaci parla del tumore al colon: «Ho subito due operazioni». Storia di Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 5 marzo 2023.

Dal 9 marzo i suoi vecchi tifosi potranno vedere Totò Schillaci, il trascinatore della Nazionale di Azeglio Vicini a Italia ’90, alle prese con Pechino Express (reality show trasmesso da Sky) insieme alla moglie (ci sono altre due coppie di sportivi, Federica Pellegrini e il marito Matteo Giunta da una parte, Martina Colombari — moglie di Costacurta — e suo figlio Achille dall'altra ). Per l’ex attaccante azzurro, che ha fatto sognare un popolo intero nell’estate di quasi 33 anni fa, non è stato un periodo facile. Ne ha parlato per la prima volta a Sportweek: «A gennaio di un anno fa mi hanno trovato un tumore al colon retto, a febbraio mi hanno operato per la prima volta, due mesi dopo la seconda». Ed è per questo che il 16 gennaio — nel giorno della cattura del latitante di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro — anche Schillaci si trovava nella clinica La Maddalena di Palermo, specializzata in cure oncologiche.

Schillaci e l'arresto di Messina Denaro: «Pensato a un attentato»

«Erano le 8.15, aspettavo la mia visita di controllo perché lì sono in cura. Avevo appena finito la colazione al bar, in un attimo mi sono ritrovato circondato da persone incappucciate con le armi spianate. Ho pensato a un attentato. Poi i carabinieri si sono qualificati, ma per un attimo io e quelli intorno a me ci siamo spaventati, c’era confusione», ha aggiunto. E ancora: «. Ho una mia teoria, ma ben venga se un problema che si trascinava da 30 anni è stato risolto. Di sicuro adoro Palermo e mi dà molto fastidio vederla associata solo alla criminalità perché offre tante cose belle. Bisogna investire sui quartieri, togliendo i giovani dalle strade. Ho rilevato un centro sportivo, il Louis Ribolla, in una zona popolare, proprio per restituire qualcosa di quanto mi è stato dato dalla città. Mi rimane un solo rimpianto: non aver mai vestito la maglia del Palermo. Lo avrei fatto anche gratis».

«La tv una rivincita sulla malattia»

Poi ha parlato anche di Pechino Express: «Quando arriva la proposta, mi prendono i dubbi perché sapevo che sarebbe stata tosta. I medici mi dicono “Sei guarito, riprenditi la tua vita”. Barbara, mia moglie, insiste. Dico sì solo perché lei sarebbe stata con me. Questa avventura è stata una rivincita sulla malattia e su quello che si era portata dietro: depressione e pensieri di morte. L’India? Impatto devastante. Mi aspettavo un’India di colori e profumi, ho trovato molta povertà. Traffico, sporcizia, bagni a cielo aperto, puzza dappertutto, bambini laceri e a piedi nudi. Ma la gente ha un cuore grande: ti ospita, ti offre da mangiare. Facevo vedere la mia foto in Nazionale, venivo riconosciuto e mi davano indicazioni su dove andare».

Infine qualche parola anche sul mondo del pallone: «Il calcio è cambiato in peggio, si gioca troppo, non esiste più l’attaccamento alla maglia, è tutto basato sui soldi. I giocatori fanno meno sacrifici, a 14 anni si perdono perché non hanno voglia di rinunciare a certe distrazioni. Si arriva in alto troppo in fretta, ma il livello tecnico, anche nei settori giovanili, è sceso tantissimo. C’è pochissimo talento. E troppo presto si arriva in Nazionale. Una volta la maglia azzurra era il premio alla carriera; oggi, con così pochi italiani in serie A, Mancini è costretto a pescare dappertutto, anche all’estero e in B. E in questa maniera dove vuoi andare?».

Totò Schillaci: «Il tumore mi ha segnato. Salvo grazie a mia moglie. Lasciai la Juventus per il gossip». Paolo Tomaselli su Il Corriere della Sera il 9 marzo 2023.

Totò Schillaci, 58 anni, protagonista ai Mondiali del ‘90, ha partecipato al reality Pechino Express. Ha avuto un tumore al colon ed è stato operato due volte: «Mia moglie mi ha salvato dalla depressione»

Palermo, 16 gennaio: Totò Schillaci riemerge dopo un lungo silenzio, perché si trova per alcuni controlli nella clinica dove viene arrestato Messina Denaro, a Palermo.

Che momenti sono stati?

«Avevo fatto colazione al bar della clinica, stavo cercando di accendermi una sigaretta e mi sono trovato addosso tutti. Pensavo fosse un attentato, l’impatto è stato forte, poi ci hanno rassicurato».

Quattordici mesi fa ha dovuto affrontare un tumore.

«Il mondo mi è caduto addosso, sono andato in depressione, avevo paura di morire. In mente mi è venuto di tutto, ma fortunatamente questo brutto male era circoscritto al colon, non ha danneggiato altri organi ed è stato tolto. Non ho più il retto e lo sfintere. Però tra morire e avere questi problemi, meglio qualche piccolo problema».

Gli esami continuano?

«Sono stato operato due volte, poi a distanza di sei mesi mi hanno trovato una piccola macchiolina sulla cervicale, me l’hanno bruciata una settimana fa con la radioterapia e oggi ho i controlli per sapere se tutto è a posto. Ma mi sento bene, vorrei continuare a vivere. E l’esperienza nel reality Pechino Express, girato in India, mi ha dato nuovo coraggio e forza: nonostante le difficoltà la vita va avanti».

Che ne pensa delle parole allarmate di Dino Baggio?

«Prendevamo qualsiasi cosa ci davano, ma sotto controllo medico. Collegare queste malattie al passato? Non ci voglio nemmeno credere, spero non sia così e voglio avere fiducia nei medici».

Sua moglie Barbara quanto è stata importante?

«Tantissimo. È stata il mio medico personale, in tutto. Mi è stata sempre vicino: non volevo uscire, ero depresso, ho sofferto, ho avuto dolori. Lei c’era, mi ha preso per i capelli e mi ha detto di riprendermi la mia vita. È stata una guerriera, mi ha tenuto in piedi».

Lei che padre è?

«Lascio vivere i miei figli, non li ho mai ostacolati. Del resto sono bravissimi: Jessica fa l’infermiera a Verona, Mattia studia odontoiatria in Portogallo, Nicole fa l’Artistico a Chiasso e lavora già per la moda. Alberto, il figlio di Barbara, studia con Mattia. Siamo una famiglia allargata, abbiamo un bellissimo rapporto».

È vero che Boniperti venne a casa sua per ricomporre la crisi con sua moglie Rita nel periodo dei pettegolezzi per la storia con Lentini?

«La società sapeva che c’erano dei problemi nel mio matrimonio, per i quali poi mi separai. E questo ha influito su certe scelte».

Lasciò la Juve per i gossip?

«Ci sono stati momenti difficili, molto brutti, anche a causa dei tifosi avversari. Questo può avere condizionato il mio rendimento e la Juve magari ha voluto cedermi».

Con Rita che rapporto ha?

«Ne parlo il meno possibile. Ognuno faccia quello che vuole, i rapporti sono finiti. L’importante è che è stata una buona mamma, ha cresciuto Jessica e Mattia con dei valori. Il resto non mi riguarda».

Nessuna Nazionale, tra quelle che non hanno vinto, è stata così amata come quella del 1990. Come mai?

«Perché eravamo la squadra più forte, perché si giocava in Italia e anche per la canzone delle Notti Magiche. Il mio exploit ha contribuito, nemmeno io me l’aspettavo».

Si è mai sentito intrappolato in quella magia?

«No, perché una favola così era inimmaginabile: tutto quello che toccavo diventava oro, ho avuto una grande occasione e l’ho sfruttata. Se mi chiede come mai ero così, non so dare una spiegazione. Avevo fatto 21 gol con la Juve, vinto la Coppa Italia e la Uefa, è vero, ma in Nazionale ero un debuttante: sono stato eletto miglior giocatore del torneo e sono arrivato secondo al Pallone d’Oro».

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È vero che Tacconi predisse il suo gol con l’Austria?

«Stefanuccio ne aveva previsti due, di cui uno di testa come poi è avvenuto. Con lui siamo più che fratelli: sento sempre il figlio Andrea per sapere come va la riabilitazione dopo l’ischemia: il colpo è stato forte, la strada è molto lunga, ma sta migliorando».

Non tutti ricordano l’importanza dell’assist di Vialli.

«Vero. Se lui non avesse fatto quel cross forte e teso, io non avrei segnato e forse non ci sarebbe stato tutto il resto. Gianluca era un uomo squadra, un capitano, uno che lottava sempre. Una persona perbene, fondamentale per la mia carriera: anche il gol all’Argentina fu merito suo».

In «Tre Uomini e una gamba» c’è uno sketch nel quale lei viene definito «Gran visir di tutti i terroni». Tra i cori dei tifosi («Ruba le gomme») e altri insulti, però non è stato tutto facile.

«Ho avuto delle difficoltà, con le scritte “terrone” sui muri di Torino e poi i cori negli stadi. Sono orgoglioso di essere siciliano e felice di aver portato la sicilianità nel mondo: noi del Sud abbiamo questo calore dentro».

Lei un po’ ha unito l’Italia?

«Ho sfruttato la mia occasione e ho un rapporto molto bello con le persone, anche con quelle del Nord ovviamente: forse ho trasmesso qualcosa. Poi ci saranno sempre i contestatori, pure su Pechino Express ho letto commenti contro di me. Mi possono dire tutto, anche sui capelli, sull’ignoranza, anche se l’ignoranza si vede da come ti comporti e io non mi sento ignorante. Accetto tutto, tranne che si dica una cosa».

Quale?

«Che cerco visibilità».

Essere Schillaci le è servito nella gara del reality?

«Sì, perché non parlo bene inglese e ho cercato di sfruttare la mia immagine per chiedere passaggi e aiuto. Quando dicevo alle persone di mettere il mio nome su google, cambiavano atteggiamento: un signore invece del terrazzo mi ha dato la sua camera».

Un reality così impegnativo è simile allo sport?

«Sì, perché si è tutti amici, ma poi quando c’è da gareggiare, giochi per vincere. Sapevo che sarebbe stata un’esperienza dura, ma strepitosa, me lo aveva raccontato anche Ciro Ferrara. Ero perplesso perché mi ero appena ristabilito dal tumore, ma le rassicurazioni dei medici e la volontà di mia moglie hanno fatto la differenza. Non sono partito in condizioni ottimali, ma lo spirito di adattamento non mi è mai mancato».

Una costante per lei.

«Sì e tutto quello che si vede nel reality è vero. Mi aspettavo un’India diversa, invece ho visto tanta povertà. Questa è un’esperienza che paragono a quella dei Mondiali, perché mi ha segnato e per il rapporto con la gente».

Dino Zoff.

Estratto dell’articolo di Simone Golia per corriere.it venerdì 4 agosto 2023.

«I numeri sono numeri e i suoi parlano chiaro: è stato un grande». Dino Zoff risponde da Sabaudia, dove il fragore delle onde lo costringe a tenere alto il volume della voce. L’ultima volta che ha visto Buffon fu a Pescara, nel 2011, quando la Figc li premiò insieme a Cannavaro e Maldini per le 100 presenze con l’Italia. 

[…] «Ho capito fin da subito con chi avremmo avuto a che fare. Era un portiere completo, nonostante la giovane età. Se è stato più forte di me? Beh, è quello che dicono tutti. Io non la penso così. Diciamo che può andarmi bene un podio con lui ed Enrico Albertosi».

Quest’ultimo – 83 anni, campione d’Italia con Cagliari e Milan, sul tetto d’Europa con la Nazionale nel ‘68 – è un po’ più generoso: «Ha battuto ogni record e ha vinto tutto, tranne la Champions. Sono d’accordo col podio di Zoff, ma forse Buffon è stato un po’ di più – sorride – Quel che è certo è che tre portieri così l’Italia non li riavrà». 

Entrambi toscani, si vedono spesso nei pressi del Bagno La Romanina, lo stabilimento balneare di proprietà di Gigi a Marina di Massa: «Che bello quando usciva sui piedi degli avversari. Oggi non lo fa nessuno, hanno paura di rompersi il naso o i denti. Cosa gli invidio? I cinque Mondiali. Io ne ho fatti solo quattro...».

Sui social la Juventus ha definito il suo ex portiere (10 scudetti, record assoluto) il «numero uno per eccellenza». Lo pensa anche Giovanni Galli, che a Parma lo ha visto crescere: «Io al mio ultimo anno in A, lui aggregato dalla Primavera. Il suo punto di forza era il coraggio, usciva basso come i portieri anni 50. Poi l’infortunio alla spalla del 2005 (scontro con Kakà nel trofeo Berlusconi) lo ha spaventato, ma per me è stato il portiere italiano più forte di sempre davanti a Zoff e Albertosi. Il migliore in ogni epoca, quando sono cambiate le regole sul retropassaggio e anche quando i palloni si sono alleggeriti».

[…] 

Con l’Italia Buffon ha giocato 176 partite, la prima in Russia nell’ottobre del ‘97 sotto una bufera di neve: «Mi feci male e subentrò lui — ricorda Gianluca Pagliuca, il titolare di allora — una volta lasciato il campo, prima ancora di festeggiare, mi vide sul lettino col ghiaccio sul ginocchio e venne subito a sincerarsi delle mie condizioni».

La prima esperienza insieme alle Olimpiadi di Atlanta nel ‘96, poi i Mondiali del ‘98: «Era il mio secondo, lo racconto con orgoglio perché è stato il portiere più forte della storia — sorride Pagliuca — era già felice di esserci, come lo ero stato io a Italia ‘90 dietro Zenga e Tacconi. Sapeva che il futuro sarebbe stato tutto suo». Nella carriera di Buffon non sono mancate polemiche e accuse: «Spesso è stato vittima di invidia, pagando anche il fatto di essere diventato una bandiera della Juve. E poi quando parlava lo faceva senza peli sulla lingua, non è mai sceso a compromessi» [….]

Paolo Graldi per “il Messaggero” il 25 febbraio 2023.

 Zoff, parliamo di calcio: ieri, oggi, domani.

«Il calcio è cambiato come sono cambiate le generazioni. Paghiamo l'esasperazione mediatica».

 Il calcio è malato? Troppi soldi?

«Il calcio non è malato, non per i troppi soldi. Quelli li produce il mercato. È il mercato che fa il prezzo: se è malato il calcio è malato il mercato».

 Lo sport è maestro di vita?

«Lo è per me. È importante per il miglioramento dell'uomo. Perché ci sono delle regole, c'è un arbitro, c'è il pubblico, c'è un comportamento morale. Sennò è inutile mandare i bambini a fare sport solamente per fargli migliorare i muscoli».

Oltre ai palloni in partita cos'è importante parare nella vita?

«Parare l'esistenza. Il modo di essere. La più o meno grande felicità che si può tirar fuori dalla vita».

 Qual è il peggior difetto per un giocatore?

«Credersi immortale».

 Ed il pregio più prezioso?

«La consapevolezza di dover migliorare. Almeno quando si è in attività, sempre».

 Regole del gioco e regole della vita: qualcosa le unisce?

«Dovrebbe unirle. Le regole dello sport per me sono straordinarie, mi hanno permesso di migliorare come persona e dunque nello sport».

Razzismo e tifoseria violenta: come li giudica?

«Oggi questi sono fenomeni molto superficiali. Ai miei tempi ho fatto dei viaggi protetto sul cellulare della polizia. Negli Anni Settanta le cose erano molto più violente. Adesso ogni grande o piccola contestazione viene amplificata molte volte, a dismisura».

 C'è una frase ascoltata nella sua infanzia che l'ha guidata?

«No al vittimismo. È una frase di mio padre. Quando prendevo un gol e dicevo che non me lo aspettavo che tirasse così, lui mi rispondeva: "Perché, mica fai il farmacista tu". A casa mia non c'erano scuse, non ti esonerava un raffreddore».

 Qual è la parola più bella che le viene in mente?

«Dignità».

 Che cos'è per lei l'istinto?

«Ho sempre cercato di capire l'istinto: se istinto è frutto anche del modo di essere nella vita. I grandi artisti forse non lo sanno da dove arriva la loro ispirazione. Io invece, che sono un lavoratore, ho creato l'istinto con l'esperienza».

 Le è mai capitato di dover decidere se perdonare o no?

«Non è questione di decisioni. Il perdono è naturale».

 Un punto di riferimento nella sua vita?

«Io credo che sia nella formazione familiare, quindi nelle regole, nei doveri da rispettare. Ecco, in Friuli dove sono cresciuto c'erano i diritti ma anche i doveri. Questa proporzione al giorno d'oggi è un po' saltata».

 C'è una cosa che avrebbe voluto fare e non ha potuto?

«No. Ho fatto il massimo, sempre. Ma non sono del tutto contento. Non mi accontento mai. È una mia presunzione: non sono così umile come appaio».

 La rabbia è un sentimento che le appartiene?

«Non ne soffro però ce l'ho, eccome. La rabbia mi assale per comportamenti in campo non in linea con lo spirito sportivo».

 Si ricorda che sensazione provava quando subiva un gol?

«Per prima cosa valutavo se c'era della mia responsabilità. Tante volte l'ho trovata e quindi non stavo particolarmente bene».

 E quando parava, magari un rigore?

«Bravo, mi sentivo bravo. Però ho sempre pensato che bisognasse lavorare bene, un concetto derivato anche dalle regole della mia casa. Bisognava lavorare bene, qualsiasi cosa si facesse».

Massimiliano Allegri.

Estratto dell'articolo di Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 12 giugno 2023.

Il calcio non è solo teoria, e in fondo non lo è neanche la vita. Uno e l’altra sono, secondo il modulo Allegri, praticità.

Pratico, pragmatico («Lo spettacolo si fa al circo»), presuntuoso, scabro ed essenziale come il suo giuoco e i versi di Eugenio Montale, conservatore sul campo e progressista fuori, irritabile (dalle sue parti si dice fumantino), arrogante (anche questa cosa di andarsene un minuto prima che finisca la partita perché lui ha già capito tutto...), ombroso, 

Allegri ma non troppo, sereno anche quando è condannato a vincere, Massimiliano Allegri, labronico di triglia, d’Acciughina e di cacciucco, cocciuto e orgoglioso, è un simpatico che fa di tutto per non esserlo. E sempre col sorrisino tirato, come una rasoiata da centrocampo. Personaggio al centro del calcio, uomo di carattere e allenatore di successo, il Conte Max, nato da famiglia operaia e rossa, quartiere rossissimo della comunista Livorno, è abituato a non essere amato. 

Uno. Allegri non è mai stato davvero amato dai tifosi: il popolo milanista non si è innamorato di lui, quello bianconero lo ha sopportato per i successi («Vince sì, ma non gioca bene») e appena ha cominciato a perdere si sono spalancati i cancelli degli haters, vedi i social alla voce «Allegri». 

Due. Non è mai stato considerato insostituibile da presidenti e società. Berlusconi all’inizio dubitava di lui: pensava fosse comunista, poi ha iniziato a dire «Non capisce un c...»; e, al netto dell’amicizia di ferro con Andrea Agnelli, non c’è un dirigente della Juventus antica e contemporanea con cui abbia legato: né Nedved, né Arrivabene, né Paratici, né Calvo... 

Tre. Non ha mai davvero legato neanche coi calciatori («E questi vogliono giocare nella Juventus?»). Come fanno notare i maligni, quando i suoi segnano, non corrono mai verso di lui, piuttosto abbracciano una riserva. Allegri è accettato, rispettato, ma non amato. Media punti: alta.

Empatia: zero.

Zero tattica e molto intuito «Devo ancora trovare quello che mi spiega l’utilità di uno schema» -, già giocatore mediocre e senza rimpianti, prima trequartista, poi mediano basso e autostima altissima, Massimiliano Allegri è un allenatore bravo ma datato, in controtendenza rispetto a tutte le teorie moderne, i numeri, i tablet, gli algoritmi, le statistiche, i moduli («Ohh.. quanto valgono? ’oco o nulla»). 

Detto “Massimiliano l’Arretrato”, non perché sposta indietro la linea di gioco ma proprio perché è obsoleto, non studia e non si è mai aggiornato, soprattutto non ha colto il cambio di passo post Covid, Allegri ha la sua forza nelle trovate geniali, la più geniale delle quali è confidare nella genialità dei giocatori.  

(...)

Poi, certo: Massimiliano Allegri è bravo a gestire il materiale umano fornito dalla società per cui lavora (da cui l’insulto «aziendalista» o peggio ancora «gestore»: nel senso che fa quel che può con quel che ha). La brillantissima carriera di Mister Allegri (sei scudetti di cui cinque di fila, coppe, coppette e due Grandi tirate d’Orecchie) parla da sé, e Chapeau. Ma come tecnico resta il portabandiera di un calcio d’antan, pensato da uno che giocava sulla strada (e nel Gabbione sulla spiaggia di Livorno, certo: e infatti nel piccolo, in quel camposanto di cemento, senza schemi, vinceva tutti i tornei...), l’alfiere dei «risultatisti» contro i «giochisti», quello che in una partita urlò – didascalia di un Mister No – la frase tanto banale quanto mortificante: «Fate girare la palla fino a quando trovate un buco». Ci credo che uno come Arrigo Sacchi non lo può vedere.

«Ci vuole un po’ di halma».

Forse ad Allegri, troppo calmo per giocare un certo calcio, manca una cosa - come gli ringhiò una volta dopo una sostituzione un po’ codina Carlitos Tevez, attaccante senza paura né tatto – ossia il coraggio. «Cagooooon!».

E tutte le regole si infransero sul cappottino a bordo campo di Allegri. 

Regole di Massimiliano Allegri. «Alli zoppi... pedate nelli stinchi». Se incontri Luciano Spalletti picchia per primo che picchi du’ volte. Mai discutere con Lele Adani. Mai fidarsi delle giovani promesse. Se proprio devi buttarne uno nella mischia, buttaci Mandzukic. Mai, ma mai, lasciare la comfort zone di Torino, che è un po’ come Livorno, dove puoi passeggiare senza che nessuno ti rompa i coglioni (dubbio: ma la storia che ha rifiutato la panchina del Real Madrid è vera?). 

(...) 

Incapace di andarsene dall’Italia (sul piano internazionale è un fantasma), inguaribile provinciale (Quattro Mori, le mura, il mare e le marine), però mondano, uno che apprezza i piemontesi di Gaja, i rossi toscani, le bionde del Sud o del Nord è uguale, malato di fig* (i fugoni, le due mogli, gli amori, gli amorazzi, i paparazzi, quando lo chiamavano “Ambro”, e comunque hanno sempre detto che lei era una cagacazz* di Serie A), permalosissimo (ha il gusto per la battuta ma non sopporta quelle sudi lui), cavallaro della prima epoca, entrate altissime e uscite più o meno in pareggio (case, alimenti, ristoranti, quadri, purosangue, alla fine è uno che se la gode) e amante soprattutto della solitudine, Massimiliano Allegri, un uomo solo al comando, e oggineppure più al comando, più che un allenatore è un maestro di vita. 

«Corto muso». Il cazzeggio creativo. Il cavallo Minnesota. 

«Le parole le porta via ’r vento, le bicicrette i livornesi». «La magia o la possiedi o non la compri al supermercato». Ma soprattutto: «Nella vita ci sono le categorie: ci sono i giocatori che vincono le Champions e le perdono, giocatori che vincono i campionati e retrocedono, allenatori che vincono o non vincono, e se uno non vince mai ci sarà un motivo».

Molte certezze, un solo dubbio: ora che la storia dell’ex giovane di belle speranze con la Vecchia Signora rischia di morire Oh i bej coronn!Aleghér!/ Oh i bej lumitt! Oh i pizzi - se Massimiliano Allegri si mette sul mercato, chilo prende? Caro Max, devi stare attento. Come hai detto tu una volta: «I cavalli dopo un po’ che vincono si mandano a riposare al prato».

O sulle spiagge di Livorno.

Ma non preoccuparti, Mister.

Ricordatelo sempre. «Il calcio è solo un gioco stupido per persone intelligenti».

Allegri nonno, chi è la figlia Valentina: il video «censurato» dalla Juventus, «il Volo» lo spogliarello a Le Iene. Simone Golia su Il Corriere della Sera il 19 Febbraio 2023.

Ex influencer da 400mila follower, si cancellò improvvisamente dai social. Nel 2016 decise di andare a vivere con papà Max per conoscerlo meglio. Il giorno dopo il pareggio beffa col Nantes ha dato alla luce il piccolo Filippo

Allegri nonno. E quel bigliettino sugli 1-0…

Dopo il pareggio beffa contro il Nantes, le polemiche per il mancato rigore nel finale e lo sfogo ai microfoni di Sky, a Massimiliano Allegri serviva una bella notizia. Ha ricevuto la migliore possibile, perché la ventottenne Valentina — la figlia maggiore avuta con l’ex moglie Gloria — lo ha fatto diventare nonno mettendo al mondo il piccolo Filippo. A darne l’annuncio sui vari canali social è stata direttamente la Juventus, con l’allenatore livornese che si è precipitato in ospedale per conoscere il nipote: «Sono andato da lui e addosso aveva un bigliettino particolare: “Nonno mi raccomando, non 1-0. Ha capito tutto, è sveglio”», ha scherzato lo stesso Allegri alla vigilia del match con lo Spezia, riprendendo così la polemica che lo aveva visto coinvolto nel post gara di Europa League. Valentina, di cui da anni si sa poco o niente, si era sposata in gran segreto a Napoli nel settembre 2021, cioè pochi mesi dopo il ritorno di Max a Torino: «Il nipotino? Mi ha scritto un messaggio, è molto contento per il 2-0», la battuta dell’allenatore dopo la vittoria del Picco.

Aspirante influencer, poi il passo indietro

Sarà difficile, se non impossibile, vedere qualche foto del piccolo Filippo. Valentina un tempo era seguitissima e lasciava presagire un futuro da influencer. Simpatica, spigliata, un sorriso raggiante a illuminarle sempre il volto. Su Instagram, dove postava le proprie vacanze alle Maldive e ogni altro aspetto della sua quotidianità, ha sfiorato quota 400mila follower. Papà Max spesso storceva il naso e ogni tanto le inviava gli screen: «Guarda cosa hai pubblicato…». L’allenatore della Juventus non ha mai amato i social e nel febbraio del 2019, dopo la sconfitta nell’andata degli ottavi di Champions con l’Atletico Madrid, decide di cancellarsi da tutte le piattaforme per i troppi insulti. Qualche mese dopo lo imitano pure l’allora compagna Ambra Angiolini e la stessa Valentina. Se la prima è tornata una volta conclusa la storia d’amore con Max, della seconda non si è più avuto traccia.

Il video che fece arrabbiare la Juve

Anche perché la passione social di Valentina qualche grattacapo lo aveva causato. Nel maggio 2016, con la Juventus già campione d’Italia per la sesta volta consecutiva (record assoluto), realizza un video di due minuti scarsi insieme al noto youtuber torinese Edoardo Mecca, una clip in cui imitava papà Max nelle sue arrabbiature e nei suoi tic e in cui ironizzava sulla maledizione Champions. In poche ore la parodia registra 500mila follower, salvo poi dover essere rimossa perché ritenuta offensiva dai responsabili della comunicazione bianconera: «Non sono infuriato — la spiegazione di Allegri in conferenza stampa — l’idea è stata geniale, l’interpretazione ha lasciato a desiderare. Diciamo che mia figlia a 21 anni deve fare la studentessa». E non l’attrice, cioè il sogno cullato da Valentina negli anni di università alla Cattolica di Milano.

La scelta di andare a vivere con papà Max

Valentina ha vissuto le situazioni tipiche di ogni figlio con genitori separati. Papà Max e mamma Gloria sono stati sposati dal 1994 al 1998, poi l’addio. Nel 2016 la figlia ha deciso di andare a vivere con il padre per poterlo conoscere meglio. Una scelta che lo ha reso certamente felice ma che lo ha anche un po’ spaventato. Allegri le ha dato da subito molte regole, come quella di rientrare a casa alle 23. Non un problema per Valentina, che non ha mai amato le discoteche e che a queste ha sempre preferito le serate al bowling, i film al cinema, le cene al ristorante o il karaoke a casa con gli amici. Papà Max, da cui ha preso la determinazione, è sempre stato molto protettivo, temendo che la propria popolarità potesse influire negativamente sulla figlia, di cui si è goduto anche le abilità culinarie apprese dalla nonna paterna a Livorno. Pare sappia cucinare ottime lasagne e uno squisito coniglio al forno.

La storia con Piero de Il Volo

Prima di sposarsi e di diventare mamma, Valentina è stata fidanzata anche con Piero Barone, uno dei tre artisti de Il Volo, trio conosciuto in tutto il mondo. Quest’ultimo, che con i compagni Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble vince Sanremo nel 2015, partecipa pure al Festival del 2019 con «Musica che resta», con la speranza di bissare il trionfo. Valentina non si vedrà all’Ariston, colpa delle ultime nottate da passare sulla tesi prima di laurearsi. Fra i due fu amore a prima vista, con tanto di presentazioni a casa e di pranzi in doppia coppia con Max e Ambra. D’altronde papà ha sempre preferito i ragazzi in camicia a quelli tatuati, anche se poi la figlia ha sempre deciso di testa sua. Con Piero Barone è finita dopo qualche mese, troppa la distanza dovuta ai vari impegni del cantante.

Lo spogliarello a Le Iene

A tentare di risollevarle il morale dopo la fine della storia d’amore con Piero Barone sono Le Iene, che le fanno visita dopo la clamorosa rimonta della Juventus nel ritorno di Champions con l’Atletico Madrid (3-0 e passaggio del turno ai danni di Simeone). I giornalisti Stefano Corti e Alessandro Onnis decidono di portarla in un locale per farla assistere a uno spogliarello maschile, così da farle dimenticare la delusione con un sorriso. Arrivata sul posto non c’è nessun calciatore («Non ci provano con me perché sennò la loro carriera finirebbe subito», ha più volte scherzato Valentina) ma due spogliarellisti improvvisati che con il pallone non c’entrano niente. Il primo è alto, muscoloso e piuttosto sexy, l’altro è più basso di lei, ha qualche chilo di troppo e pochissimi capelli in testa. Valentina sceglie il bello, salvo poi cambiare idea quando il secondo la sorprende mostrandosi con la maglia della Juventus, di cui lei è sempre stata tifosa presenziando spessissimo allo Stadium.

Marco Tardelli.

Myrta Merlino, pesante rivelazione su Marco Tardelli: "C'erano case e figli..." Libero Quotidiano il 20 luglio 2023

Pausa estiva per Myrta Merlino prima della nuova attesissima sfida a Mediaset, dove prenderà il posto di Barbara D'Urso nel pomeriggio di Canale 5. Già, Myrta ha lasciato La7 e L'aria che tira per il Biscione, il tutto dopo dodici anni trascorsi nella rete di Urbano Cairo.

In questi giorni la Merlino si trova a Pantelleria, in Barca, insieme al compagno Marco Tardelli: le foto dei paparazzi sono state pubblicate su Chi. E la conduttrice si sbottona, parlando proprio del suo compagno, di come si sono conosciuti a Roma, a cena, e di come soltanto due giorni dopo lui fosse con lei.

Ma non è stato semplice. "Fu un gesto di grande coraggio, eravamo persone strutturate con una vita alle spalle, con case, figli, abitudini", spiega Myrta Merlino. E ancora: "Era difficile smontare tutto all'improvviso, ma lui lo ha fatto". "Avevo mille paure ma il coraggio è contagioso", ha concluso Myrta Merlino. Già, tra lei e Tardelli è stato un colpo di fulmine, ingestibile e passionale. Un amore che continua a viaggiare a gonfie vele.

Estratto dell’articolo di Andrea Bene e Andrea Scarpa per “Il Messaggero” il 18 giugno 2023.

È stato un grande calciatore, un buon allenatore, uno stimato opinionista televisivo. Ma è con una corsa irrefrenabile e un urlo liberatorio di sette secondi che Marco Tardelli l'11 luglio 1982 è entrato nella Storia non solo sportiva del nostro Paese. 

[…] Tardelli […] nella sua nuova avventura tv, L'avversario - L'altra faccia del campione, sei incontri settimanali - in onda dal 5 giugno ogni lunedì, in seconda serata, su Rai3 - con altrettanti fuoriclasse: Antonio Cassano (nella puntata d'esordio), Federica Pellegrini (in programma domani), Roberto Mancini (sarà recuperata perché prevista il 12 giugno, giorno della morte di Berlusconi), Lea Pericoli, Michel Platini e Franco Menichelli. 

[…] 

In assoluto il suo avversario più duro chi è stato?

«Mia madre. Che non voleva assolutamente lasciarmi fare il calciatore: per lei ero mingherlino, sudavo troppo, e rovinavo i pochi vestiti che avevo. Mamma era anche manesca, al contrario di papà - operaio Anas e contadino - ma quando capì che potevo fare qualcosa mi lasciò giocare». 

In quei sette meravigliosi secondi c'era anche questo?

«Sì, c'era tutto quello che aveva passato e superato fino a quel momento».

Sognando, nella sua cameretta, era arrivato fino al Mondiale?

«No. Io volevo solo giocare nel Pisa, la squadra della città, perché così in vista avrei potuto agganciare qualche ragazza in più». 

A proposito, nel 1983 lei ebbe una relazione con Moana Pozzi e durante un ritiro le prese una stanza nello stesso albergo della squadra. Per raggiungerla usò le scale antincendio ma rimase bloccato fuori: unica soluzione salire sul tetto... Ne ha vissute tante di situazioni così?

«Non mi sembra. Moana comunque era bellissima». 

[…]

In quegli anni litigò pesantemente con Gianni Brera che in un articolo aveva scritto "Tardelli ha le ruote sgonfie".

«È vero. Venivo da un'annata difficile e Brera mi castigava sempre. Lui mi piaceva, raccontava benissimo il calcio e i suoi protagonisti, e in quel caso esagerai: volarono parole grosse». 

Nella vita fuori dal campo le gomme bucate quando le ha avute?

«Ho avuto i problemi della vita come tutti: separazioni, errori di valutazione, ma niente di gravissimo».

Federica Pellegrini le ha raccontato dei suoi problemi con gli attacchi di panico, e lei ha detto che - arrivato alla Juventus - prima di ogni partita vomitava l'anima: perché? Il problema qual era?

«Ansia da prestazione. Avevo 20 anni e mi avevano preso dal Como spendendo un sacco di soldi: 950 milioni di lire. Da me si aspettavano grandi cose e io pativo la pressione psicologica». 

Come la superò?

«Con il training autogeno. Un professore nello spogliatoio mi fece fare esercizi per rilassarmi con la respirazione e la concentrazione. Superai il problema dopo una decina di partite». 

Mancini le parla del suo rapporto tormentato con Bearzot e i Mondiali, quello che lui definisce "lo scherzo del destino": per lei qual è stato?

«Non l'ho avuta una cosa così. Roberto, invece, è stato sfortunato perché ha trovato me... Nel 1984 lui venne convocato per la prima volta in Nazionale per un'amichevole a New York. La sera prima della partita, dopo la cena, io e gli altri "vecchi" decidemmo di uscire, lui si aggregò, tornammo alle 5 del mattino e Bearzot scoprì tutto. A lui disse: "Mancini, lei con la Nazionale ha chiuso". E così fu. Il Mister in realtà aspettava solo una sua telefonata di scuse, ma Mancini per orgoglio non lo chiamò mai. Vabbè, quella sera andammo anche a ballare allo Studio 54...».

E rimorchiaste?

«Diciamo che fu una serata di divertimento in giro per la città... Eravamo a New York, eravamo giovani». 

A Mancini a un certo punto chiede se si è pentito di non aver fatto quella famosa telefonata: lei di cosa è pentito?

«Di aver lasciato male la Juventus. Ero deluso dalle discussioni con Boniperti e me ne andai più per ripicca che per altro. Oggi posso dire senza alcun dubbio che è stato il mio miglior presidente». 

Il bilancio della seconda parte della sua vita professionale, quella da allenatore, com'è?

«È andata come doveva andare. Non sono mai stato un grande patteggiatore, quello è sicuro: quando avevo le mie idee le esternavo ai dirigenti e ai presidenti e quindi con me c'è sempre stata una certa tensione. E poi anticipare i tempi è probabile che non aiuti». 

A cosa si riferisce?

«Forse non dovevo lasciare la Nazionale e proseguire ad allenare l'Under 21, maturare un po' di più e aspettare nuove opportunità». 

Si è sempre dichiarato comunista: anche oggi?

«Certo. Sono sempre fedele a quelle idee anche se dirlo oggi sembra anacronista. Diciamo che sono sempre di sinistra, anche se oggi nessuno mi rappresenta».

Quindi alle ultime Politiche non ha votato?

«Non sono andato. Se la Meloni fa il bene del Paese, però, a me va bene lo stesso». 

Con Berlusconi ha mai interagito?

«Sì. Anni fa lo contattai perché volevo organizzare un torneo di vecchie glorie. Lui mi disse: "Se viene da me le giro tutto il materiale che ho già preparato per un progetto simile al suo. Le devo dire però che non sta funzionando... Nessuno sponsor ci mette i soldi". Ho lasciato perdere: se non funzionava con lui, figuriamoci con me». 

È vero che sta per sposare a Pantelleria, dove ha una casa, la sua compagna Myrta Merlino (la giornalista napoletana ha appena lasciato La7 per Retequattro, ndr)?

«No. C'è una possibilità, ma ancora non è fissato niente».

Si dice che lei sia particolarmente geloso: a che livello? Scenate, pedinamenti, controlli del telefonino?

«Nooo... Sono tranquillo, non ammazzo nessuno. Però se uno vuol bene a una persona un po' è geloso». 

Ha detto di pregare solo quando le serve: quindi?

«Mi è capitato di farlo per qualche partita, quando avevo tanta voglia di vincere. Sarà che ho fatto il chierichetto, che mio padre era democristiano... Non so se ci credevo tanto, ma di sicuro cercavo qualcuno che mi desse una mano». […]

Estratto dell'articolo di Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 5 giugno 2023. 

«Mi ha già chiesto di Moana Pozzi», dice ridendo al figlio, che è sceso un attimo dal suo ufficio per salutarlo. «Tu sei molto orgoglioso, eh...», lo prende in giro il padre. «Dicevano sempre che ero il figlio di Moana, a scuola», replica il ragazzo.

«Chissà la mamma come si arrabbiava! (la giornalista Stella Pende, ndr )». «Mi arrabbiavo io, non lei!», sbuffa Nicola Tardelli, 32 anni, secondogenito di Marco, il semidio del calcio che con i suoi compagni risollevò il morale di un Paese intero l’11 luglio 1982, battendo la Germania Ovest per 3-1 e conquistando la Coppa del Mondo davanti a uno scatenato Sandro Pertini. 

(...)

Oggi i tifosi dovrebbero essere più arrabbiati con la dirigenza o con la giustizia sportiva?

«Dovrebbero essere arrabbiati con chi ha sbagliato e secondo me ce ne sono tanti».

E non è sbagliato un processo a campionato in corso?

«Questo è un problema, perché falsa tutto». 

Un ricordo dell’Avvocato?

«Le sue telefonate alle 6 del mattino. O quando mi feci male a una gamba e mi mandò il suo fisioterapista: prima della partita chiamò per chiedermi come stavo, risposi “vorrei tagliarmela, questa gamba”. E lui: “Lo dica a me...”. L’Avvocato non sarebbe potuto stare in questo calcio. Lui è quello che dopo la finale di Coppa dei Campioni persa ad Amburgo disse: “Doveva andare così”».

Perché andaste a festeggiare sotto la curva dopo la vittoria all’Heysel, nel 1985?

«Siamo solo andati a salutare i tifosi. Ma io ho sempre detto che non ho vinto quella Coppa». 

Di chi fu l’errore?

«Di tutto il calcio: ci hanno obbligati a giocare. Era stata una scelta sbagliata mettere i tifosi in una curva sola». 

Chi prese la decisione?

«Penso l’Uefa. E la polizia di Bruxelles decise di farci giocare perché sarebbe stato un dramma disperdere i tifosi».

(...)

Chi è adesso il calciatore italiano più forte?

«Barella è uno dei più forti. Poi ce ne sono altri, come Zaniolo, ma devono cambiare mentalità: lui è un giovane che ha bisogno di una guida». 

Gioca a calcio con Tancredi e Fiamma, i figli di Sara?

«No, altrimenti direbbero che non è vero che sono stato un calciatore».

Lunedì debutta con «L’Avversario», su Rai 3. Parte con Antonio Cassano.

«L’avversario di Cassano è Cassano. E l’autorità maschile. Segue solo quella della mamma e della moglie». 

In quale puntata si è emozionato di più?

«Tutti gli incontri sono stati emozionanti. Platini si è messo a disposizione e ho per lui un affetto particolare. Mancini appare diverso, sorridente. Pericoli ha una storia incredibile». 

E chi è il suo avversario?

«Mi reputo un uomo fortunato. Potrei dire mia mamma quando non voleva che giocassi a calcio, o le squadre che mi hanno rifiutato all’inizio. Con il Pisa il mio avversario era l’ansia: mi faceva rimettere prima di ogni partita». 

Suo padre Domenico, operaio dell’Anas, è mancato nel ‘95. Cosa avrebbe voluto che vedesse, di quello che è successo dopo?

«Avrei voluto che si godesse quello che ho goduto io, assieme a me. Con mia madre sono riuscito a condividere tante vacanze al mare, la portavo in Sardegna, a Santa Margherita di Pula: l’amava». 

 Quale soprannome le piace di più: Coyote, Schizzo o Triglia innamorata?

Ride. «Sono simpatici tutti e tre. Il primo me lo aveva messo Bearzot perché non dormivo la notte e andavo a dar fastidio ai compagni. Schizzo è di Spinosi, perché ero molto magro. Triglia è di Nunzia De Girolamo, per gli occhi con la mia compagna». 

Myrta Merlino. La sposa?

«Ma che domande fa?».

Non le piacerebbe?

«E se dico sì e lei dice no?».

Che cos’è per lei?

«È la mia compagna, è una donna molto protettiva, mi ha fatto crescere come uomo». 

In che modo?

«Intanto nella scrittura. Ho una rubrica sulla Stampa . Non volevo farla perché non avevo mai scritto in vita mia. Lei mi ha incoraggiato; mi rilegge i pezzi, se può». 

Perché non ci sono calciatori gay nella nostra Serie A?

«Beh, non è detto...». 

Nessuno fa coming out.

«È vero. Ma non è una prova. Secondo me ci sono: è statisticamente impossibile che non ci siano. E comunque non vedrei il problema».

E perché non lo dicono?

 «Forse sentono che non è il momento, che non c’è il clima giusto. Ma il mondo attorno a noi è cambiato: non vedo perché non debba cambiare anche il calcio». 

Le hanno mai chiesto di entrare in politica?

 «Sì, tre-quattro anni fa, in area centrosinistra. Ma una persona non era d’accordo e allora non ho accettato».

Questa intervista esce sotto il cappello del Gran Toscano. In cosa si riconosce toscano?

«Sono un po’ fumantino».

Allora è andata bene!

Franco Causio.

Estratto dell'articolo Maurizio Crosetti per “La Repubblica” lunedì 11 settembre 2023.

La maglia numero sette, un paio di memorabili baffi, una divisa quasi sempre bianconera, le finte, il dribbling micidiale, i cross perfetti. Questo era Franco Causio detto “Brazil” ma anche “il Barone”, per l’eleganza del gesto oltre che per gli estri sudamericani. Campione del mondo a 32 anni con l’Italia di Bearzot, nel 1982 […]

Causio, le piace il calcio di oggi?

"Mi addormento. Ci sono giocatori che non so neanche da dove arrivino: ma l’ultimo mercato dove sono andati a farlo? Chiedo a mio figlio come si pronunciano quei nomi, e a volte nemmeno lui lo sa”.

Poi, però vanno in campo. Con quali risultati?

"Spesso, approssimativi. Non c’è più la sensibilità del piede, abbiamo perso un organo vitale. Io ho indossato le prime scarpette da calciatore a 15 anni[…] Erano nere, con i tacchetti. […]”. 

Eleganti le scarpette nere, non trova?

"Uniche, irripetibili. Oggi i calciatori portano ai piedi pennarelli fosforescenti. Ma io dico: si può giocare al football con scarpe rosa o azzurre? Al limite, se c’è la nebbia…”

Quando si è accorto di essere Causio?

"Ero piccolo, e mi facevano fare due partite a settimana contro i più grandi. Lì ho avuto il sospetto che qualcosa di particolare la possedevo”. 

Cosa?

"La fantasia che ti insegna la strada. Oggi, se dei bambini si mettono a prendere a calci una palla all’aperto, le automobili li investono dopo due minuti. Esistono solo le scuole calcio a pagamento, chi non se le può permettere non va. Infatti, a calcio si gioca molto meno. […]”.

Questi ragazzoni grandi e grossi, però, sono uno spettacolo.

"Hanno muscoli ma scarso talento, partono da un metro e 90 in su. Il risultato è uno sport ipertrofico, tutto fisico, non soltanto il calcio. Prendiamo il tennis: che noia queste partite con servizi a 200 all’ora e nessuno che si sposti dal fondo del campo. Io mi esaltavo guardando Panatta, Connors, Vilas”. 

Forse lei non sta parlando solo di sport.

"Tutta la nostra vita è diventata una faccenda muscolare, se non sei potente e veloce non rendi, non ti considerano. Non c’è posto per la lentezza bella, quella della riflessione e della calma. Così viviamo peggio”.

[…]

È una deriva inarrestabile?

"A volte mi chiedo se il calcio non sia impazzito, se non si stia buttando via”. 

Si riferisce ai soldi degli arabi?

"Beh, se queste offerte le avessero fatte a me a fine carriera, mi sa che sarei andato a Riad invece che a Trieste. Ma finché mi sono divertito e basta, ai soldi non ho pensato. […]”. 

Magari, quelli nella lista del Pallone d’oro.

"L’ho letta. E penso che tra i primi venti di quell’elenco, ben pochi potrebbero competere con noi, faticherebbero a esserci. […]”

Causio, ma se adesso le diciamo Juve?

"Mi dite tutto. La mia vita meravigliosa. Arrivai a Villar Perosa che ero un bambino e mi misero in camera con Castano e Leoncini, il capitano e il vice: me la facevo sotto, però quei giganti mi hanno aiutato in tutto[…] Il mio maestro è stato Helmut Haller, uno dei campioni più formidabili che siano mai venuti in Italia. Crossava da fondo campo di collo pieno, destro o sinistro senza differenze. Alla fine degli allenamenti, lo prendevo da parte e gli dicevo: “Tedescaccio, vieni qui e fammi vedere come fai”. Nessuno degli stranieri del nostro campionato, oggi, può essere paragonato ad Haller”. 

[…] E come finì, invece?

"Trapattoni non mi voleva più, preferiva Fanna e Marocchino. Così andai via e fu la mia fortuna. A Udine sono rinato perché non ero mai morto, nonostante le critiche di certa stampa. Oggi giocano fino a quarant’anni e io ero vecchio a trenta? Ma per favore… A Torino mi dissero arrivederci e grazie, loro fanno così da sempre e con tutti e hanno ragione, perché le persone passano mentre la Juve resta. Però, quando seppero che da Udine sarei andato all’Inter, mi telefonò Boniperti per chiedermi di tornare. Gli dissi “presidente, mi spiace, ma chi non mi vuole è ancora lì da voi”. Nove anni ho giocato, dopo avere lasciato Torino da dove non sarei andato via per niente al mondo”. 

Come giocatore dell’Udinese, lei vinse la Coppa al Bernabeu. La gioia più grande?

"Senza dubbio. Quando andai a Udine, la prima telefonata me la fece il vecio Bearzot. Mi disse: “Mona, sei nella mia terra e fai vedere a quelli di Torino cosa sai ancora fare. E poi io ti porto in Spagna, anche se il titolare sarà Bruno Conti”. Andò proprio così. Gli risposi che insieme a lui sarei arrivato in capo al mondo. E poi quella partita a scopone in aereo con Pertini, e la Coppa del mondo sul tavolino come una bottiglia di acqua minerale. Il presidente, ma vi rendete conto? Gli incontri che ho fatto io, neanche in dieci vite una in fila all’altra. Forse è proprio questa la ricchezza più grande”.

[…]

Quanto conta la felicità, in campo?

"In campo e fuori, è tutto. Come ha detto mister Claudio Ranieri, resto finché mi diverto. E io mi sono divertito proprio tanto”.

[…]

Nicolò Fagioli.

Il patteggiamento. Fagioli è stato squalificato per 12 mesi, cinque dei quali da scontare con pena alternativa. Una sospensione di un anno, un'ammenda da 12.500 euro e l'obbligo di scontare 150 giorni presso centri dilettantistici in attività contro la dipendenza dal gioco d'azzardo. Redazione Web su L'Unità il 17 Ottobre 2023

La Procura Federale – apprende l’Ansa – ha appena raggiunto un accordo con il calciatore Nicolò Fagioli a seguito del quale lo juventino “verrà sanzionato con una squalifica di 12 mesi, 5 dei quali commutati in prescrizioni alternative, e una ammenda di 12.500 euro, per la violazione dell’art.24 del CGS che vieta la possibilità di effettuare scommesse su eventi calcistici organizzati da Figc, Uefa e Fifa“.

Fagioli è stato squalificato

Riguardo le prescrizioni alternative, Fagioli “dovrà partecipare ad un piano terapeutico della durata minima di 6 mesi e ad un ciclo di almeno 10 incontri pubblici, da svolgersi nell’arco di 5 mesi, presso Associazioni sportive dilettantistiche, Centri federali territoriali, Centri per il recupero dalla dipendenza dal gioco d’azzardo, e comunque secondo le indicazioni e il programma proposti dalla Figc“.

Sospensione e pene alternative

La Procura Federale vigilerà sul rispetto di queste indicazioni, e, in caso di violazioni, “adotterà i provvedimenti di propria competenza, ai sensi del CGS, con risoluzione dell’accordo e prosecuzione del procedimento disciplinare davanti agli Organi giudicanti di giustizia sportiva“. Redazione Web 17 Ottobre 2023

Fabrizio Corona e il caso scommesse: «Dopo Fagioli coinvolto anche un calciatore della Nazionale». Storia di Redazione Sport su Il Corriere della Sera mercoledì 11 ottobre 2023.

Ci ha preso una volta, si prepara il bis? Circa due mesi fa, erano i primi di agosto, Fabrizio Corona parlava sul suo canale Telegram di una «clamorosa dipendenza, ha un milione di euro di debiti, è ludopatia» per Nicolò Fagioli, finito poi in un’indagine della Squadra mobile di Torino, coordinata dal pubblico ministero Manuela Pedrotta, per un giro di scommesse illegali. Corona non si ferma a Fagioli. Su Instagram annuncia: «Domani alle 18 secondo giocatore famosissimo coinvolto nel calcioscommesse». Un calciatore, si legge nel messaggio che accompagna il video, che fa parte della Nazionale.

Corona poi aggiunge a TvPlay: «Fagioli non è l’unico che fa questo nel campionato italiano, soprattutto di giocatori che ora sono in attività. Io, nell’arco delle prossime settimane, a partire da domani, attraverso il mio sito Dillinger News, comunicherò il secondo calciatore coinvolto, che è molto più famoso di Fagioli e in questo momento gioca all’estero. Non solo scommetteva, ma lo faceva sulla propria squadra mentre era in panchina».

Chi è Nicolò Fagioli, centrocampista della Juventus

Un’anticipazione, come quella lanciata due mesi fa sul suo canale Telegram: «Quando ho saputo la notizia non ci credevo — le sue parole all’epoca — , perché di solito a pelle riesco a capire come sono fatte le persone, anche guardando semplici fotografie, video e immagini. La notizia, infatti, mi ha sconvolto. Lo scrivere a tutte le ragazze in direct su Instagram è una prassi comune del giovane calciatore medio senza arte né parte, ma avere una grave dipendenza dalle scommesse/gioco “ludopatia”, specie a 20 anni, è un problema a dir poco clamoroso».

Sul caso Fagioli aggiunge ora, sempre a TvPlay: «Quando ho dato questa notizia cinque mesi fa, di cui ho tutte le carte possibili e immaginabili, cioè che Fagioli era inguaiato, perché scommetteva da tantissimo tempo e aveva debiti con gente pesante, serba, è stato messo fuori rosa da Allegri, trovando motivi diversi dalla realtà dei fatti. . Quindi, oltre la responsabilità di Fagioli vi è anche quella della Juventus». Informazioni non precise: le sue dichiarazioni su Fagioli, su Telegram, sono di agosto, non di cinque mesi fa. Inoltre non risultano periodi in cui il giovane centrocampista bianconero è stato messo fuori rosa. Questo su Fagioli, ora il nuovo indizio. A chi si riferirà?

Fagioli: «Ho scommesso sul calcio», l’ammissione in Procura a Torino. Storia di Massimiliano Nerozzi su Il Corriere della Sera il 12 11 ottobre 2023.

Dal talento per il gioco (del calcio) alla febbre del gioco (le scommesse), il passo è stato fin troppo breve se, ad appena 22 anni, Nicolò Fagioli s’è trovato in mezzo a un’indagine (molto) più grande di lui: «Ho fatto puntate su partite di calcio», ha ammesso, nella sostanza, quando è stato sentito dagli investigatori della Squadra mobile di Torino che, coordinati dal pubblico ministero Manuela Pedrotta, erano (e sono) sulle tracce di un giro di scommesse illegali, attraverso piattaforme on line. Setacciando quel mondo, popolato da gente non sempre raccomandabile, sono saltati fuori decine di utenti e, tra questi, pure quelle tracce, digitali, che portavano al centrocampista della Juve.

Chi è Nicolò Fagioli, centrocampista della Juventus

È fine estate quando alla giovane promessa dei bianconeri, e della Nazionale, arriva un invito a comparire per essere interrogato come indagato, a proposito delle sue grosse puntate on line e, va da sé, dell’ipotetica violazione delle norme previste dalla legge 401 del 1989: quelle che intervennero «nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini» a «tutela della correttezza nello svolgimento delle manifestazioni sportive». In questo caso, però, si parlerebbe di puntate su partite, ma non della propria squadra. È chiaro che gli investigatori hanno già in mano diversi elementi e che, mentire, non servirebbe a nulla. Così, Fagioli racconta come sono andate le cose, anche se è evidente che gli agenti hanno nel mirino soprattutto chi sta dietro all’organizzazione illegale. Insomma, presunti criminali. Subito dopo, gli avvocati del giocatore — Luca Ferrari e Armando Simbari — si fanno vivi con la Procura della Federcalcio, a Roma: , almeno per quanto riguarda l’ambito sportivo. Ed ora è «sereno — spiegano ancora i legali — ed è massimamente concentrato sulla Juventus e sul campionato». Così come del fatto, fin da subito, era stato messo al corrente il club bianconero.

Il gioco d’azzardo non è un reato, se non su piattaforme illegali, appunto: ma uno sportivo, qualunque sia il ruolo (atleta, allenatore o dirigente) non può scommettere sullo sport che pratica. Nel caso, il calcio. Su questo, è chiarissimo l’articolo 24 del Codice di giustizia sportiva: c’è il divieto per «i soggetti dell’ordinamento federale, dirigenti, soci e tesserati delle società appartenenti al settore professionistico di effettuare o accettare scommesse, direttamente o indirettamente, anche presso soggetti autorizzati a riceverle, che abbiano ad oggetto risultati relativi a incontri ufficiali organizzati nell’ambito della Figc, della Fifa e della Uefa».

Per la giustizia sportiva, potenzialmente, Fagioli rischia fino a un massimo di 3 anni di squalifica. Dopodiché, giovane e club se ne aspettano — in caso di colpevolezza — molti meno. È insomma un caso delicato, sportivamente e umanamente, se è vero che Fagioli è attratto dal gioco fin dai tempi delle giovanili, quando — raccontano — il tocco felpato del pallone fosse già accompagnato dalle partite di poker. Una presunta «ludopatia» che potrebbe essere spiegata nell’ambito della linea difensiva davanti alla giustizia sportiva. E se nulla rischia la Juve, discorso diverso potrebbe esserci per altri tesserati, anche se in via del tutto ipotetica: poiché, lo stesso articolo 24, parla di un «obbligo di informare la Procura federale» se venuti a conoscenza che società o altri tesserati siano dediti a scommesse. Perché una volta uscita la notizia, ieri, nel mondo del pallone pare che quasi tutti sapessero del demone di Fagioli.

Chi è Fagioli, il centrocampista della Juventus indagato per scommesse illegali. Nel 2018 il Guardian lo inserì tra i 60 talenti migliori del mondo. Allegri ne rimase colpito subito appena lo vide giocare. Ecco chi è il baby talento bianconero. Antonio Prisco il 12 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Tra Juve e Cremona

 L'investitura di Allegri

 Il primo gol con la Juve

 Tutti i ruoli di Fagioli

 Vita privata

Vive il momento più difficile della sua carriera, Nicolò Fagioli, il centrocampista della Juventus, finito nella lista degli indagati della Procura di Torino perché avrebbe scommesso su piattaforme on line illegali. Ma chi è il baby talento che adesso rischia un brusco stop alla sua carriera? Scopriamolo da vicino.

Quando nello scorso aprile scoppiò a piangere, dopo un suo errore marchiano che aveva causato un gol del Sassuolo e fu sostituito subito da Allegri, venne consolato da Pinsoglio e Kostic perché non riusciva a trattenere le lacrime. Quelle immagini fecero il giro del web, facendogli conquistare le simpatie dei tifosi bianconeri e non.

Classe 2001, piacentino doc, le stimmate del predestinato, Fagioli ha fatto una breve ma intensa gavetta prima di sfondare alla Juve. Il Guardian ci ha avevo visto lungo prima di tanti altri: nel 2018 il giornale inglese lo aveva inserito tra i 60 talenti migliori del mondo, uno dei tre italiani, insieme a Salcedo e Pellegri.

Tra Juve e Cremona

Dalle giovanili del Piacenza alla Cremonese fino alla Juve dove ha fatto tutta la trafila. Stesso percorso in parallelo anche in nazionale: dall’Under 15, all’Under 17, fino all’Under 19 e all’Under 21 e alla chiamata dell’ex ct Mancini. La prima convocazione in Serie A risale al 27 gennaio 2019, all’Olimpico contro la Lazio, qualche giorno prima del suo diciottesimo compleanno.

Nell’estate del 2021 va in prestito alla Cremonese, dove aveva trascorso qualche anno nel settore giovanile. Prestito annuale nel club di Serie B. Con la maglia grigiorossa inizia la sua esplosione. Nel maggio 2022 la Cremo chiude il campionato al secondo posto e torna in A dopo 26 anni. Fagioli colleziona 33 presenze, 3 gol e 7 assist ed è uno dei protagonisti della promozione. Da lì il ritorno alla Juve dove comincia subito ad entrare nelle rotazioni dei titolari.

L'investitura di Allegri

Nel 2018 Fagioli era un 17enne che iniziava a mettersi in mostra a Vinovo e nelle giovanili della Juventus perché per lui — nato a Piacenza e transitato nelle categorie Under della Cremonese ma juventino da sempre — quello era un sogno che aveva sin da bambino. Sempre nel 2018 Massimiliano Allegri lo nota e ne rimane colpito: "Abbiamo un ragazzo, che è del 2001, e vederlo giocare a calcio è un piacere. Si chiama Nicolò Fagioli, è un piacere perché conosce il gioco. Ha i tempi di gioco giusti, sa come smarcarsi, quando e come passare la palla. È bello vederlo giocare".

Il primo gol con la Juve

Una prodezza di Fagioli permette di sbloccare il risultato a Lecce e regala i 3 punti alla Juve in una difficile trasferta di serie A. Era il 29 ottobre 2022: Iling serve al compagno il pallone quasi al limite dell’area, Nicolò si gira, si coordina e fa partire un tiro a giro verso il secondo palo che finisce all’incrocio. Un gol alla Del Piero. A fine serata sui social commentò così quella gioia tanto attesa: "Wow, un sogno. Lo aspettavo da 21 anni". Da quel momento Allegri lo utilizza con continuità. Nella passata stagione ha collezionato 37 presenze condite da 3 gol e 5 assist.

Tutti i ruoli di Fagioli

Non ha mai avuto problemi di ruolo, perché li ha coperti un po’ tutti in carriera. Fabio Pecchia nell’U23 della Juventus lo spostò dalla trequarti alla mediana, e lo aveva paragonato a Jorginho: "Io ho lavorato con Jorginho che è molto simile a Nicolò, guardate ora dov’è arrivato". Dice di ispirarsi a Luka Modric, ma di avere capelli più belli. Non è Modric certo, non copre il volume di campo di centrocampisti come Barella e Tonali, né possiede la loro intensità nelle transizioni ma non è neanche solo un regista. Grazie a un bagaglio tecnico rarissimo, con la palla tra i piedi pare poter camminare sulle acque.

Vita privata

Con 1,1 milioni di followers, è seguitissimo su Instagram. Fidanzato da oltre due anni con la modella Giulia Bernacci, il calciatore bianconero ha più volte condiviso sui social foto insieme a lei. Suo padre Marco è stato calciatore nella Bobbiese e nel Carpaneto (club che attualmente militano in Promozione emiliana).

Oltre al calcio ama anche il tennis. Ci ha giocato a lungo prima di dedicarsi esclusivamente al calcio. Uno dei suoi tennisti preferiti è Andrej Rublev che ha incontrato alle ultime Atp Finals a Torino. Inoltre è un grande appassionato di basket, e non è raro vederlo con addosso la divisa di squadre Nba o citare il suo idolo Michael Jordan.

Fagioli, le scommesse, il rapporto difficile con il padre Marco, i debiti: come ha iniziato e perché. Storia di Monica Scozzafava su Il Corriere della Sera il 16 ottobre 2023.

Fagioli, le scommesse, il rapporto difficile con il padre Marco, i debiti: come ha iniziato e perché© Fornito da Corriere della Sera

Il Guardianci ha aveva visto lungo: nel 2018 aveva inserito Nicolò Fagioli tra i 60 talenti migliori del mondo, uno dei tre italiani, insieme a Salcedo e Pellegri. Aveva 17 anni, il predestinato di Piacenza, da due era a Torino, abitava in un convitto, precursore di quella Next Gen inaugurata dalla Juventus. Marco e Laura, i genitori, avevano assecondato il suo percorso (da quando ne aveva 5 di anni inseguiva il sogno Juventus) prima di dirsi tra di loro addio, separarsi.

Le scommesse illegali

Gli esperti di dipendenze che un po’ hanno studiato il suo caso, ritengono che anche questo possa essere stato un possibile fattore di rischio: Nicolò a 22 anni si ritrova nella rete delle scommesse sportive illegali, si autodenuncia alla Procura della Figc, decide di affidarsi a un terapeuta per guarire dalla ludopatia, con la quale combatte da qualche anno. Ma come ci è arrivato a ridursi così? Bambino cresciuto in fretta, punta tutto sul pallone. Via di casa e catapultato da solo in un mondo dove esistono soltanto il calcio e i soldi. Senza una base culturale, con qualche valore e tanta solitudine. È timido, si imbarazza facilmente, diventa subito rosso. Si è perso così, Nicolò. Neanche immaginando a cosa poteva andare incontro. E non è certamente un alibi.

Nella sua famiglia ci sono storie di dipendenze: un parente a lui molto vicino ha combattuto con un altro tipo di assuefazione, di quelle con conseguenze più visibili, che alterano gli umori e i comportamenti. Nicolò ci ha dovuto fare i conti durante l’adolescenza a luci e ombre: da un lato il grande sogno del calcio che si realizza, dall’altro i rapporti difficili con il padre, le liti in famiglia, l’assenza di un punto di riferimento. Ed è questo il secondo fattore di rischio. Fagioli è un ragazzo solitario: pochi amici, una fidanzata storica, il cellulare come un’appendice del corpo. Da lì scommetteva, inizialmente per gioco, successivamente per necessità. Perché si era esposto finanziariamente e anche tanto. Deve restituire le somme che allibratori senza scrupoli gli hanno anticipato. Puntate su ogni cosa, ogni sport: calcio e non solo. Ammonizioni, tiri in porta, espulsioni. Mai sulla sua Juventus, pare. Così ha dichiarato agli investigatori che avranno riscontri dai suoi dispositivi mobili, cellulare e tablet sequestrati. Nicolò si è indebitato, la sua esposizione finanziaria è pari quasi a un milione di euro, il contratto (l’ultimo lo ha fatto lo scorso anno) non gli sarebbe bastato ad assecondare richieste così alte.

Ha sbagliato, lo ha ammesso, e pagherà per questo. Possibile che nessuno — anche gli affetti più stretti — non si siano resi conto di quanto gli stesse succedendo? Nicolò ha pochi amici, con qualcuno deve averne parlato: il peso era diventato insopportabile, qualche compagno lo ha aiutato. Richieste di soldi, minacce e ricatti. Vittima di un vizio e pure terrorizzato dalle relazioni pericolose. A settembre ne parla con la madre Laura, si autodenuncia e il mondo Juve prova a proteggerlo in qualche modo. La scelta di curarsi, di collaborare. Nicolò adesso fa terapia con uno psicologo esperto di dipendenze, serve tempo. E molto anche.

Estratto dell'articolo di Massimiliano Nerozzi per il "Corriere della Sera" lunedì 16 ottobre 2023.

Contava la puntata più che la categoria, almeno per certi giocatori, vedendo come rischia di allargarsi la ragnatela di contatti (e scommesse) che sta emergendo dall’inchiesta della Squadra mobile di Torino, coordinata dal pubblico ministero Manuela Pedrotta: scommettere era (o è) davvero un vizio trasversale, […]. Al momento i nomi restano tre: Nicolò Fagioli, Sandro Tonali e Nicolò Zaniolo.

[…]

Di certo scommetteva (anche) sul pallone Fagioli, cui gli agenti della Squadra mobile — diretti da Luigi Mitola — sono arrivati nella primavera scorsa, e non (solo) per tracce digitali e informatiche, seguendo le piattaforme illegali. Il centrocampista della Juve, infatti, sarebbe finito dentro l’inchiesta quasi all’improvviso, mentre i poliziotti avevano puntato gli occhi su un personaggio sospettato di avere contatti con la criminalità organizzata oltre a essere indiziato di essere tra le figure che tenevano le fila delle piattaforme. E, va da sé, pure i conti dei crediti da recuperare. Agli atti ci sarebbe pure un incontro in un bar di Torino, mentre nel dialogo tra due procuratori sportivi, nell’aprile scorso, si parlerebbe di un «brutto giro di Piacenza».

 La terra natale di Fagioli. In fondo, della febbre per le scommesse del giocatore bianconero erano al corrente in molti, anche se non per questo c’è la certezza che sapessero anche della natura illegale delle piattaforme usate dal giovane talento. Per dire però, già a gennaio, il giorno di Cremonese-Juventus, alcuni agenti sportivi chiacchierarono proprio del «problema» di Fagioli. Appuntamento non casuale, poiché a Cremona, il centrocampista ci aveva giocato la stagione precedente. L’inchiesta rimane comunque sconfinata e delicata, visto che all’inizio si fece l’ipotesi che dietro a Fagioli ci potesse essere un giro di prestiti e di estorsioni: dietro, nel senso che lui ne fosse la vittima. […]

Estratto dell'articolo di Monica Scozzafava per corriere.it lunedì 16 ottobre 2023.  

[…] Nicolò Fagioli a 22 anni si ritrova nella rete delle scommesse sportive illegali, si autodenuncia alla Procura della Figc, decide di affidarsi a un terapeuta per guarire dalla ludopatia, con la quale combatte da qualche anno. Ma come ci è arrivato a ridursi così? Bambino cresciuto in fretta, punta tutto sul pallone. Via di casa e catapultato da solo in un mondo dove esistono soltanto il calcio e i soldi. Senza una base culturale, con qualche valore e tanta solitudine. […]

Nella sua famiglia ci sono storie di dipendenze: un parente a lui molto vicino ha combattuto con un altro tipo di assuefazione, di quelle con conseguenze più visibili, che alterano gli umori e i comportamenti. Nicolò ci ha dovuto fare i conti durante l’adolescenza a luci e ombre: da un lato il grande sogno del calcio che si realizza, dall’altro i rapporti difficili con il padre, le liti in famiglia, l’assenza di un punto di riferimento. Ed è questo il secondo fattore di rischio. Fagioli è un ragazzo solitario: pochi amici, una fidanzata storica, il cellulare come un’appendice del corpo. […] 

si era esposto finanziariamente e anche tanto. Deve restituire le somme che allibratori senza scrupoli gli hanno anticipato. Puntate su ogni cosa, ogni sport: calcio e non solo. Ammonizioni, tiri in porta, espulsioni. Mai sulla sua Juventus, pare. […] Nicolò si è indebitato, la sua esposizione finanziaria è pari quasi a un milione di euro, il contratto (l’ultimo lo ha fatto lo scorso anno) non gli sarebbe bastato ad assecondare richieste così alte.

Ha sbagliato, lo ha ammesso, e pagherà per questo. Possibile che nessuno — anche gli affetti più stretti — non si siano resi conto di quanto gli stesse succedendo? Nicolò ha pochi amici, con qualcuno deve averne parlato: il peso era diventato insopportabile, qualche compagno lo ha aiutato. Richieste di soldi, minacce e ricatti. Vittima di un vizio e pure terrorizzato dalle relazioni pericolose. A settembre ne parla con la madre Laura, si autodenuncia e il mondo Juve prova a proteggerlo in qualche modo. La scelta di curarsi, di collaborare. Nicolò adesso fa terapia con uno psicologo esperto di dipendenze, serve tempo. E molto anche.

Estratto da sportmediaset.mediaset.it lunedì 16 ottobre 2023.

Il vizio del gioco di Nicolò Fagioli non era un mistero in casa Juventus. L'ex capitano Leonardo Bonucci sapeva: come riferisce 'Repubblica', agli atti della Procura di Torino ci sarebbero conversazioni tra i due sul tema delle scommesse ma non esiste prova che il difensore partecipasse alle puntate. Insieme a Bonucci dalle chat sul cellulare di Fagioli emergerebbero anche altri due giocatori bianconeri, giovani e stranieri, e un membro dello staff tecnico di Massimiliano Allegri. E qui - scrive Repubblica - si fa largo l'ipotesi dell'omessa denuncia […] la sanzione è di non meno di sei mesi di squalifica.

[…]

La notizia del suo "coinvolgimento", ha colto di sorpresa e fatto arrabbiare lo stesso Leonardo Bonucci, che ha deciso di affidare la questione allo studio legale romano degli avvocati Antonio Conte e Gabriele Zuccheretti, lo stesso che lo segue dall'estate per la causa alla Juventus. "Quanto riportato stamani su particolari organi di informazione è gravemente lesivo della propria immagine professionale e della propria reputazione personale e che per questo intenderà tutelarsi nelle sedi opportune", […]

Estratto da gazzetta.it mercoledì 18 ottobre 2023.

 “All’inizio un calciatore, avendo molto tempo libero (…) finisce con il provare l’ebrezza della scommessa per vincere la noia. Con il passare del tempo diventa un’ossessione”. In alcuni passaggi della sua deposizione al procuratore federale Giuseppe Chiné, Nicolò Fagioli ricostruisce le sue scommesse nel calcio: “Ho iniziato a scommettere a Tirrenia nel ritiro della Nazionale Under 21”. Spiega come in un primo momento si trattasse solo di “divertimento”. Col tempo però “mi sono trovato in condizione di stress determinato dai debiti”. Il periodo più brutto “lo passai a marzo-aprile 2023 (…) durante Sassuolo-Juventus feci un errore tecnico e fui sostituito”, le lacrime in panchina “pensando ai miei debiti delle scommesse”.

Già a settembre 2022 Fagioli aveva 250 mila euro di debiti. "Quando ero alla Cremonese mia madre mi consigliò di recarmi al Sert per farmi curare, io ci andai alcune volte". Poi basta: "Ebbi l'illusione di poterne fare a meno" e il periodo successivo "giocavo in modo compulsivo davanti alla tv su qualsiasi evento sportivo che stessi vedendo, calcio compreso... anche Serie B e Lega Pro".

 Il centrocampista della Juventus riferisce ai pm che “esistono le scommesse sui falli e ammonizioni (…) a me è stato proposto, ma io non ho accettato perché contrario alla mia etica”. Davanti al procuratore Giuseppe Chiné, nel verbale del 5 settembre, spiega che “fu Tonali che mi suggerì di giocare sul sito Icebet (…) 

Fu Tonali stesso a farmi registrare tramite un account al sito in questione”, dicendo pure di non essere “in grado di riferire se scommetteva su eventi calcistici (…) in ambiente ho sentito dire che aveva molti debiti di gioco”. Alla Procura della Figc ricostruisce che “le prime scommesse le feci su eventi di tennis e poi sul calcio” e chiarisce “di non aver mai scommesso sulla Cremonese e/o sulla Juventus”. Dunque alcuni esempi: “Torino-Milan del 30 ottobre 2022 (…) puntai sul pareggio o sulla vittoria del Milan. Persi perché finì due a uno per il Torino”. 

Nella versione fornita alla Procura federale Fagioli nega che alla Juve sapessero delle sue scommesse e racconta di alcuni prestiti a compagni di squadra, estranei all’indagine. A Gatti “chiesi 40 mila euro, ma dicendogli che mi servivano per compare un orologio e che avevo i conti bloccati da mia madre". Dragusin (ora al Genoa) “mi prestò 40 mila euro nell’ottobre 2022”. Poi spiega che servivano per ripagare il debito: "Provvedevo ad acquistare a Milano dei Rolex di valore" con un bonifico. "Gli orologi a volte li ho consegnati io, a volte passavano i titolari delle piattaforme a ritirarli presso le gioiellerie". Una serie di debiti accumulati anche con i banchi di scommesse fuori legge: “Circa 110 mila euro con le betar.bet e specialebet.bet, circa 1,5 milioni con la piattaforma illegale bullbet23.com, circa 1,3 milioni con altra piattaforma illegale (…), circa 17 mila euro con una agenzia legale (…) in provincia di Pordenone e circa 31 mila euro con un banco illegale (…) swissbet in provincia di Como”. E così “aumentando il mio debito e ricevendo pesanti minacce fisiche (tipo: “Ti spezzo le gambe”) (…) pensavo di giocare solo per recuperare il debito”.

Parla Fagioli: «Perché scommettevo su siti illegali: usavo il nome XFarenz e un’app per non essere tracciato». Arianna Ravelli su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2023.

Il centrocampista della Juventus rivela al procuratore Figc Giuseppe Chine: «La app si chiama Treema, li arrivavano le ricevute delle giocate». Lo strano furto dell’iPhone 

Si può raccontare la storia di Nicolò Fagioli anche partendo dalla fine, da quella che per lui è stata una liberazione. Quando il 28 settembre, accompagnato dai suoi legali Luca Ferrari e Armando Simbari, si è seduto di fronte al procuratore Figc Giuseppe Chiné, sarebbe ipocrita dire che non sapesse che, collaborando, avrebbe potuto accedere a uno sconto di pena, ma sarebbe altrettanto ingiusto non riconoscere in quel momento uno sfogo liberatorio, un grido d’aiuto, di sicuro la voglia di voltare pagina, di lasciarsi alle spalle le minacce («Ti spezzo le gambe»), le angosce («Durante la notte pensavo di giocare solo per tentare di recuperare il mio debito»), le lacrime, come quelle viste in campo in Sassuolo-Juventus e che tutti avevano ricondotto a un errore tecnico e invece, racconta, «ho pianto, pensando ai miei debiti legati alle scommesse».

Ma già il 23 giugno quando si siede davanti alla pm di Torino Manuela Pedrotta, il percorso di recupero è iniziato.

Prima, ci sono tentativi di uscirne, poi abortiti. La madre Laura dopo avergli consigliato «di rivolgersi al Sert di Cremona» (ci andai qualche volta»), ha preso il controllo dei suoi conti (ed è per questo che lui racconta di aver chiesto in prestito «40 mila euro ai suoi compagni Gatti e Dragusin»), ma Nicolò si ribella e le revoca la firma, deve ripagare i debiti. Agli atti c’è anche lo strano furto di un iPhone, nell’estate 2022, «ma per le scommesse usavo un secondo cellulare».

La app e il nick name

Ormai si sa tutto del vortice in cui era precipitato. A Torino Nicolò spiega che in campo lo chiamano tutti «Fagio», ma sulla piattaforma Treema era «XFarenz» e «XFarenz0!». Così coltiva la convinzione di non essere tracciabile. «Le ricevute delle singole giocate pervenivano sul mio cellulare da parte del referente della piattaforma, legale o illegale. Mi arrivavano tramite un’app Treema, che, per quanto mi avevano detto, garantiva al mittente la riservatezza nelle trasmissioni». Guadagni zero: «Non ho mai percepito un euro perché un’eventuale vincita andava a compensare i debiti». Ed è così che, dal tennis, passa a scommettere sul calcio.

Le partite su cui scommette

Qualche limite però se lo pone. A Torino precisa: «Esistono le scommesse sui falli e ammonizioni, mi è stato proposto ma io assolutamente non ho accettato perché contrario alle mia etica e comunque sarei stato scoperto perché esistono delle segnalazioni rispetto ai picchi di scommesse». In Figc precisa di aver scommesso «su Torino-Milan del 30 ottobre 2022»: «si è trattato di una scommessa live. In quell’occasione puntai sul pareggio o sulla vittoria del Milan. Persi perché finì 2-1 per il Torino». E poi «nelle partite di Champions Porto-Atletico e Real Madrid-lnter ho scommesso che avrebbero segnato meno di 3 o 4 gol. La mia scommessa tipo era sulla vincente e/o su under-over. Non ho mai scommesso sul nome del marcatore o sul risultato esatto», che sono in genere gli indizi che ci si trova di fronte a frodi sportive.

L’alleanza con Tonali

Non è questo il caso. Questa è una storia di una malattia che, racconta Nicolò, parte «dalla noia», prosegue con il «divertimento» e finisce in un’«ossessione». E se c’era stato un disagio prima, l’origine del male è un giorno del 2021, quando in ritiro a Tirrenia vide il compagno di U21 Sandro Tonali scommettere su un sito illegale e decise di imitarlo. «Fu Tonali stesso a farmi registrare tramite un account al sito. Non ricordo se fu Tonali a darmi le credenziali per scommettere o se fui io a farlo direttamente contattando un referente, via Whatsapp».

I Rolex e i bonifici

L’ingresso è facile facile: «Scommettevo sui siti illegali perché, all’inizio, facevano credito». «A settembre 2022», quindi in un solo anno, «avevo accumulato un debito di 250mila euro». Destinati ad arrivare a 3 milioni. Nicolò e Sandro, i due volti della Meglio gioventù del calcio, hanno preso una strada (a precipizio) simile: l’accumulo di debiti («Non so dire se Tonali avesse accumulato ingenti debiti, posso dire che in ambiente ho sentito dire che aveva molti debiti di gioco», mette a verbale Fagioli), il tentativo di rifarsi giocando sempre di più, e probabilmente gli stessi metodi di rimborso, almeno a giudicare dalle foto social che vedono Tonali e Fagioli clienti della stessa gioielleria milanese. «Ogni tanto, per restituire almeno in parte queste somme provvedevo ad acquistare a Milano degli orologi Rolex. Pagavo con bonifico. Gli orologi alcune volte li ho consegnati io, altre volte passavano i titolari delle piattaforme e li ritiravano presso la gioielleria». Le strade poi un po’ si dividono: Tonali ha ammesso di aver scommesso anche sulla sua squadra, Fagioli no: «Mai su Cremonese o Juventus». È la fine che deve essere uguale: assieme devono dimostrare che da questa malattia si può guarire. «Adesso mi sento molto meglio», dice Nicolò.

Paul Pogba.

Pogba, squalifica di 4 anni: la richiesta della Procura antidoping. Massimiliano Nerozzi su Il Corriere delle Sera giovedì 7 dicembre 2023.

Il 30enne centrocampista della Juventus era risultato positivo al Dhea, il cosiddetto «ormone della giovinezza», dopo il match contro l’Udinese del 20 agosto nel quale non era nemmeno sceso in campo

Se non è la fine della carriera, a trent’anni suonati lo scorso marzo, è la fine delle ambizioni, e dei sogni, per uno che, con la testa a posto e le scarpe sul prato, aveva fatto sognare: la Procura ha infatti chiesto 4 anni di squalifica per Paul Pogba, trovato positivo al doping lo scorso settembre, per una non-presenza in Udinese-Juve, beffa nella beffa, (con controanalisi che avevano confermato il testosterone, a ottobre).

Lui, nella sostanza, ammise la sciocchezza, già davanti ai dirigente e allo staff medico bianconero, basito: «Ho preso questo integratore - la spiegazione, in pratica - sulla cui confezione c’era proprio l’avvertimento per doping». Consiglio di un medico di Miami, solo l’ultimo dei tanti “amici” che hanno malamente influenzato la carriera del francese, negli ultimi tempi.

Va da sé, se questa sarà pure la squalifica, e non solo la richiesta, la sua seconda avventura con la Juve - mai davvero iniziata - finirà lì. Con pochi minuti giocati e tante grane, come il rinvio dell’operazione al ginocchio, che gli fece saltare l’ultima stagione.

Estratto da La Repubblica venerdì 6 ottobre 2023. 

Paul Pogba è risultato positivo al testosterone anche nelle controanalisi effettuate ieri presso l'Acqua Acetosa. La conferma è arrivata a ridosso della conferenza stampa di Allegri in vista del derby: anche le analisi sul campione B sono risultate positive, trasformando il calciatore da "non negativo" a "positivo al testosterone". Si apre così il procedimento del Tribunale Nazionale Antidoping nei confronti del centrocampista della Juventus: la presenza di testosterone nelle urine è stata riscontrata in occasione della sfida di Udine del 20 agosto, in cui Pogba non scese neanche in campo. "Non lo sapevo - sono state le prime parole di Allegri in conferenza stampa -, attendiamo l'esito ufficiale. Dire qualcosa ora non serve a niente, umanamente mi dispiace".

Addio alla Juventus

Cambia radicalmente il futuro di Pogba, che attendeva l'esito delle controanalisi nella villa nella collina di Torino che fu di Cristiano Ronaldo. Entro sette giorni il centrocampista potrà chiedere di essere interrogato o mandare delle memorie, scelta che dirà molto sulla strategia difensiva: l'obiettivo dei legali del Polpo è escludere l'assunzione dolosa, dimezzando di fatto la pena che potrebbe arrivare a quattro anni. Una riduzione simile a quella che otterrebbe patteggiando, mettendo in evidenza l'involontarietà dell'assunzione. Per quanto riguarda il club, la strada più logica porterà alla rescissione del contratto da 8 milioni più bonus,

Pogba, le controanalisi confermano la positività al doping: cosa succede ora. Arrivata la conferma della positività al testosterone, il centrocampista francese rischia fino a quattro anni di squalifica. La Juventus potrebbe rescindere il contratto. Antonio Prisco il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Cosa succede ora

 Il patteggiamento

 Il processo

 Cosa farà la Juventus?

Si mette male per Paul Pogba. Le controanalisi del campione B svolte ieri dal centrocampista francese al laboratorio romano dell'Acqua Acetosa dopo la positività al testosterone riscontrata in occasione del match della Juventus a Udine lo scorso 20 agosto, hanno confermato la positività del giocatore bianconero.

Cosa succede ora

Pogba viene ufficialmente dichiarato "positivo" (non più "non negativo"). Da questo momento si apre il fronte giudiziario sportivo, che offre al giocatore francese, che invierà le proprie memorie difensive con la possibilità di essere presto interrogato, diverse opzioni. L'obiettivo principale resta chiaramente quello di scongiurare i 4 anni di squalifica previsti in casi come questo. La prima mossa sarà dimostrare la "non intenzionalità" all'assunzione della sostanza dopante, che se accertata dimezzerebbe la pena. Ma su questo tema convincere il procuratore Pierfilippo Laviani non appare così scontato. Pogba dovrà poi decidere se ammettere la propria colpa, per quanto involontaria, come sarebbe già emerso nel primo confronto all'interno della Juve subito dopo la sospensione in via cautelare del 12 settembre.

Il patteggiamento

In questo caso si aprirebbe la strada all'ipotesi patteggiamento, che può essere richiesto sia dal giocatore sia dalla stessa Procura Antidoping. Per procedere però servirebbe qualcosa in più della semplice ammissione. Si legge nelle Norme Sportive Antidoping: "In tale istanza devono essere indicati espressamente, in maniera accurata e veritiera gli elementi di fatto alla base della violazione, non limitandosi a una mera ammissione di responsabilità". Lo sconto non potrebbe comunque essere superiore al 50% della proposta di squalifica formulata dalla Procura Antidoping. Se si partirà da due anni, il patteggiamento potrebbe portare a un solo anno di squalifica. Sia chiaro, un risultato non sarebbe affatto facile, visto che si potrebbe configurare soltanto se tutte le ipotesi di sconto si combinassero.

Il processo

Resta ovviamente in piedi l'ipotesi dello scontro legale. In questo caso si passerebbe dal Tribunale Nazionale Antidoping e poi dal Tas in sede di appello. Anche se le procedure prevedono, su richiesta del giocatore, la possibilità di un'udienza unica e immediata proprio davanti al Tas, qualora Nado Italia e Wada fossero d’accordo. Una strada comunque rischiosa, soprattutto per un calciatore di 30 anni.

Cosa farà la Juventus?

Ora il club bianconero (In base agli accordi Figc-Lega-AIC) potrebbe sospendere il pagamento dell’ingaggio al calciatore, garantendo il minimo salariale (39mila euro lordi). In caso si arrivi a squalifica, invece, l'ipotesi più concreta sarebbe quella della rescissione del contratto in scadenza a giugno 2026. La Juventus potrebbe così risparmiare diversi milioni: Pogba, infatti, ne guadagna 8 netti a stagione e pesa sul bilancio del club poco più di 11. Moltiplicato per i 3 anni che restano, meno la parte di stipendio pagata finora nella stagione in corso, ecco che la Juventus cancellerebbe dal bilancio una voce che nel prossimo triennio peserebbe più di 30 milioni. Antonio Prisco

Pogba positivo al doping, cos’è successo: l’ipotesi integratore, la certezza che il testosterone è sintetico. Storia di Marco Bonarrigo il 12 Settembre 2023 su Il Corriere della Sera

Dal laboratorio della Federazione medico sportiva di Roma, uno dei centri più qualificati dell’antidoping mondiale specie sul fronte degli anabolizzanti, non trapela una sillaba. Ma chi conosce le procedure dell’Acquacetosa sa bene cosa c’è dietro la scoperta di una delle non negatività più clamorose degli ultimi anni e quanto — nel 2023 — un referto come quello che accusa Paul Pogba sia scientificamente inattaccabile.

Rigorosamente anonime, le urine prelevate al termine di Udinese-Juventus sono arrivate a Roma subito dopo il match del 20 agosto con centinaia di altre per la ricerca delle sostanze vietate dalla Wada. Tra le analisi di routine, l’elaborazione di un profilo steroideo tramite sei diversi marcatori, cinque in più del passato, per individuare con un primo test eventuali molecole proibite. Nel caso di Pogba, il sistema ha segnalato un profilo anomalo e i dati sono stati comparati con quelli del francese in archivio (Passaporto Steroideo) per capire se ci fossero variazioni rispetto al passato, magari dovute a una malattia: le variazioni c’erano ed erano altamente sospette, quindi le urine sono state sottoposte a una sofisticata gascromatografia-spettrometria di massa che ha identificato le sostanze proibite. E quando ieri mattina l’Acquacetosa ha notificato il referto a Nado Italia (l’autorità antidoping che ha abbinato la provetta al nome di Pogba, sospendendolo) l’ha fatto con la certezza che il testosterone e i suoi metaboliti in quelle urine sono sintetici.

Che sostanza ? Due possibilità, secondo gli esperti: un prodotto dopante (atto insensato, vista l’accuratezza dei controlli) o un integratore (proibito) di cui in Italia è vietata anche la vendita perché a differenza di anabolizzanti come il clostebol (contenuto in alcune pomate, vedi il caso Palomino) o il clenbuterolo (carne) il testosterone non è un contaminante abituale e non può essere associato a un utilizzo terapeutico (Tue) per curare una patologia, come altri prodotti.

Le positività attuali sono collegate solo al fai-da-te di atleti amatoriali e l’unico caso clamoroso nel calcio è quello di Edgard Davids, sempre con la Juve e sempre dopo un match con l’Udinese, ma ben 22 anni fa. In tempi diversi, con la legge antidoping appena approvata e la Juve schierata compatta in difesa dell’olandese, Davids venne squalificato per 16 mesi poi ridotti a 4 con una motivazione («assunzione occasionale») che oggi farebbe inorridire i giuristi sportivi.

Per non rischiare il massimo della pena (4 anni) Pogba dovrà spiegare al Tribunale Antidoping come (anche non intenzionalmente), dove e da chi ha assunto la sostanza trovata nelle sue urine o collaborare con la giustizia, magari rinunciando alle controanalisi. Le stesse domande della Procura Antidoping le porrà a breve a Pogba un pubblico ministero (a Udine o Torino) perché il doping in Italia è un reato penale per chi lo assume, lo procaccia o lo copre.

Da adnkronos.it martedì 12 settembre 2023 

"Il sistema dei controlli funziona, il nostro laboratorio anti doping è il migliore di tutti, quindi è impossibile che abbia commesso errori. Tuttavia, mi auguro che la vicenda che coinvolge Paul Pogba venga chiarita il prima possibile nell'interesse del giocatore". Giuseppe Capua, presidente della commissione federale antidoping della Figc, all'Adnkronos Salute commenta la positività al testosterone del numero 10 della Juventus.

Sulla vicenda si esprime anche Enrico Castellacci, ex medico dalla Nazionale. Il testosterone "non può essergli stato prescritto. Tutto quello che viene ritenuto doping non può essere assunto tranne in casi eccezionali. Non è un problema di quantità. Assumerlo per errore è possibile. Di solito potrebbe avvenire tramite pomate o gel che erroneamente vengono considerati innocui. La cosa grave sarebbe se gli fosse stato consigliato di prenderlo. Ci può essere la non volontarietà, ed è importante. In caso contrario si raddoppierebbe la pena".

"È una notizia piuttosto clamorosa, il controllo ha trovato tracce di testosterone -aggiunge Castellacci a tvplay-. Non so quale, di solito è il nandrolone. Si trova in compresse, fiale, pomate. Si reperisce facilmente. Bisogna vedere le contro analisi e poi il tribunale antidoping. Nel frattempo il giocatore viene sospeso. Le pene sono risapute. Le pene sono fino a 2 anni, anche sino a 4 in caso di accertata intenzionalità. Ci auguriamo che tutto questo non ci sia. Ci auguriamo che le controanalisi ribaltino tutto o che in caso non ci sia intenzionalità".

Juventus, Pogba positivo al test antidoping: trovate tracce di testosterone. Il francese positivo a un controllo effettuato dopo Udinese-Juventus. Adesso rischia da due a quattro anni di squalifica. Antonio Prisco l'11 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Cos'è il testosterone

 Cosa succede ora

 Pogba sospeso in via cautelare

 Il comunicato della Juve

 "Ho pensato di smettere"

Paul Pogba è risultato positivo al doping: la sostanza proibita è il testosterone. È successo nella prima gara della stagione: Udinese-Juventus del 20 agosto, gara in cui lui non era neanche entrato in campo. La notizia filtrata da ambienti calcistici, si è diffusa nella mattinata di oggi, lunedì 11 settembre, ed è stato un rincorrersi di voci. Il centrocampista francese ha poi giocato nelle partite successive contro Bologna e Empoli, in tutto 52 minuti.

Cos'è il testosterone

Il testosterone rientra negli steroidi androgeni anabolizzanti. La Wada riconosce come cause valide per la prescrizione del testosterone nell’atleta, solamente il comprovato ipogonadismo maschile da cause organiche, escludendo l’ipogonadismo late onset (ipogonadismo del paziente anziano) e l’ipogonadismo funzionale (es. da abuso di alcool o cannabinoidi, oppure secondario ad obesità, disturbi del comportamento alimentare, sindrome metabolica, farmaci). In quali farmaci è contenuto? Molti prodotti da banco che si vendono nelle farmacie contengono l’ormone steroideo, che serve per aumentare la massa muscolare. Tracce di testosterone sono però presenti anche in pomate e gel antinfiammatori.

Cosa succede ora

Il centrocampista bianconero sarà sospeso in via cautelare e avrà tre giorni di tempo per richiedere le controanalisi. Se la positività dovesse essere confermata, Pogba verrà giudicato dal tribunale nazionale antidoping a meno che non si opti per un patteggiamento. La squalifica, in casi di doping, arriva fino a due anni, che potrebbero diventare quattro in caso di accertata intenzionalità.

Il testosterone è una sostanza che non può essere assunta con un'esenzione terapeutica. Per questo motivo il calciatore rischia dunque la pena massima anche se è presto per fare qualsiasi ipotesi. Come nell'ultimo caso in Serie A, che aveva riguardato Palomino dell'Atalanta, positivo al nandrolone e poi assolto dopo aver perso quattro mesi, il francese dovrebbe essere fermato per la violazione degli articoli 2.1 e 2.2, quelli riguardanti la "presenza di una sostanza proibita" e "l'uso o il tentato uso di una sostanza proibita".

Pogba sospeso in via cautelare

Dopo la positività al testosterone, il calciatore francese è stato sospeso in via cautelare dal Tribunale Antidoping:"Il Tribunale Nazionale Antidoping comunica che, in accoglimento dell’istanza proposta dalla Procura Nazionale Antidoping, ha provveduto a sospendere in via cautelare l’atleta Paul Pogba per violazione degli articoli 2.1 e 2.2. Sostanza riscontrata: metaboliti del testosterone di origine non endogena".

Il comunicato della Juve

Intanto è arrivato anche il comunicato del club bianconero. "Juventus Football Club comunica che in data odierna il calciatore Paul Labile Pogba ha ricevuto, da parte del Tribunale Nazionale Antidoping, il provvedimento di sospensione cautelare a seguito dell’esito avverso alle analisi effettuate in data 20 agosto 2023. La Società si riserva di valutare i prossimi passaggi procedurali".

"Ho pensato di smettere"

Proprio oggi erano state pubblicate alcune sue dichiarazioni con Al Jazeera. Pogba reduce da un lungo infortunio si è detto recentemente pronto a riconquistare il suo posto e a dimostrare il suo valore nella Juventus. "Voglio fargli rimangiare le loro parole e mostrare loro che non sono debole. Possono parlare male di me. Non mi arrenderò mai".

Certo, tornare a certi livelli non sarà un'impresa semplice. Ma le intenzioni di rimettersi in carreggiata e lasciarsi alle spalle i tanti problemi fisici ci sono tutte. Anche perché gli ultimi anni non sono stati facili per Pogba nemmeno a livello privato. "Il denaro cambia le persone e può distruggere una famiglia, può creare una guerra - ha raccontato il centrocampista in riferimento alle recenti denunce di estorsione che hanno coinvolto anche alcuni familiari -. A volte, quand'ero da solo, pensavo 'Non voglio più avere soldi, non voglio più giocare a calcio. Voglio solo stare con persone normali, così mi ameranno per quello che sono, non per la fama, non per i soldi'...". "A volte è dura", ha concluso Pogba.

Pogba fregato da "stregoni" e finti amici: come è finito malissimo. Luca Beatrice Libero Quotidiano il 14 settembre 2023

Rabbia e tristezza sono i sentimenti provati dai tifosi juventini nei confronti di Paul Pogba. Increduli di fronte all’ennesimo episodio che in poco più di un anno ha segnato il disastroso ritorno del centrocampista francese, campione del mondo, nella squadra che lo ha lanciato a livelli internazionali e se l’è ripreso a parametro zero ma con uno stipendio d’oro. Sconcertati perché quando vien meno il fisico c’è da supplire con il cervello, e in questo caso manca clamorosamente.

Pogba non sarebbe mai dovuto tornare alla Juve e la sua recompra è stata l’errore clamoroso nel mercato 2022-23, in compagnia di un altro mezzo rottame, l’argentino Di Maria, che a Torino ha fatto quasi sempre vacanza. Eppure, erano provati gli indizi che il Polpo fosse un ex giocatore, spesso infortunato a Manchester, le ultime stagioni disputate a singhiozzo, pochissimi gol e stima da parte dei tecnici. Lui vuole tornare alla Juve, pubblica tweet da innamorato, dice che questa è casa sua, assetato di rivincita e determinato a riprendersi anche la nazionale per il mondiale in Qatar.

INVOLUZIONE

Con il solito look cafone da rapper miliardario ritorna alla Continassa nel luglio 2022 salutato come un messia dai tifosi più accesi e da parecchio scetticismo da chi si basava sui dati. Ci ingannò il ricordo: nei primi quattro anni bianconeri il giovanissimo Pogba fu un’autentica rivelazione, centrocampista in grado di spaccare le partite, di gran personalità e propensione al gol. Prese la maglia numero 6, che fu di Gaetano Scirea, e si guadagnò la 10 che dopo l’addio di Alex Del Piero il solo Carlitos Tevez non ha usurpato. Ma torniamo a quel luglio, partenza per la tournée Usa, allenamento a Los Angeles e il ginocchio fa crack. Rapido consulto medico, si deve operare dicono dallo staff, ma lui non ci crede perché vuole il mondiale e i “luminari” attorno a lui lo convincono a provare una terapia conservativa, 5-6 settimane di riposo e sarà di nuovo pronto. Ai primi di settembre la resa, bisogna andare sotto i ferri, il che significa girone d’andata buttato e mondiali persi.

In società prime avvisaglie di nervosismo, si fa quadrato ma qualcuno comincia a pensare che l’affare sia stato un colossale pacco. Nel frattempo, su Pogba escono fuori notizie sconcertanti: legami con la criminalità organizzata, stregoni chiamati marabù pagati anche 100mila euro per mandare il malocchio ad altri giocatori, soprattutto Mbappé che ha sempre detestato. La sua guida si chiama Ibrahim il grande, un delinquente.

Poi la faida con il fratello Mathias, incarcerato con l’accusa di estorsione e associazione a delinquere, che in un video definisce Paul un «ipocrita, manipolatore, subdolo, pessimo uomo, egoista e criminale». Altra campana, il giocatore subisce continui ricatti e non riesce a uscire dalla spirale. Nella Juventus di Boniperti questo signore sarebbe stato allontanato di corsa, ma i tempi sono cambiati, i procuratori sono potenti e Pogba è assistito da Rafaela Pimenta, erede di Mino Raiola. Arrogante o maldestro, pochi giorni prima di Natale Pogba si fa un bel selfie sulle piste di sci, tutto questo senza aver mai giocato un solo minuto. Per inciso, il suo contratto vale 8 milioni all’anno: quanto costa Pogba alla Juve per ogni partita persa?

Nel gennaio 2023 si rivede in panchina, però in allenamento si fa male tirando calci di punizione. A fine febbraio fa il suo debutto, 23’ nel derby.

Fine del calvario? Niente affatto, denuncia un infortunio agli adduttori. Prima partita da titolare il 14 maggio con la Cremonese, dura nemmeno un tempo, si accascia a terra ed esce.

CALVARIO INFINITO

Max Allegri, intanto, ha capito che su un giocatore così malconcio non potrà contare, dallo staff tecnico pensano che al massimo potrà fare qualche scampolo di partita. Se la scorsa fu una stagione disgraziata (ma senza penalità la Juve sarebbe arrivata comoda terza), quest’anno ci sono meno partite, niente coppe, testa al campionato, situazione ideale per provare a ripartire, con Cristiano Giuntoli, direttore sportivo e revisore dei conti, che prova in ogni modo a liberarsi di Pogba offrendolo agli arabi anche se è tutto scassato, ma quelli non hanno mica l’anello al naso e non lo comprano. Tanto vale riprovarci, due scampoli di match nelle prime tre giornate, un’intervista piena di orgoglio, dove dice «ho pensato di smettere col calcio. I detrattori? Voglio fargli rimangiare le loro parole e dimostrare che non sono debole. Possono parlare male di me, ma io non mi arrenderò mai». 

Poche ore dopo scoppia il caso testosterone, fortunatamente per la società (intanto alle prese con la grana Bonucci) assunto prima di Udinese-Juventus, dove non giocò e meno male sennò sarebbero stati altri guai per la società. Lo avrebbe assunto per errore, su consiglio di uno di quei mediconzoli-stregoni che gli girano attorno, e lui furbo come una volpe gli ha dato retta. Sospeso in maniera cautelativa mentre si attendono le controanalisi, c’è da sperare che ci siano gli estremi per rescindere il contratto, liberarsi dell’ingaggio più alto e inutile e provare a ritrovare quell’antico spirito Juve dove gli errori si pagavano e i diversamente intelligenti si mandavano via. Magari l’hanno messo in mezzo anche stavolta, l’hanno fregato, comunque sia adieu e a mai più rivederci. 

Pogback andata senza ritorno. Pogba positivo al doping, quando il talento non basta: dal 2016 più problemi che gol, più gossip che assist. Giorgia Rossi su Il Riformista il 13 Settembre 2023 

Pogback andata senza ritorno. Anacronistico forse visto i tempi e i modi del suo “buen retiro” torinese iniziato pressappoco un anno fa. Poteva sembrare l’inizio di una nuova storia in maglia bianconera. Poteva. Perché la realtà ci racconta un’evidente collisione con i fattacci che lo hanno perseguitato prima e che si è trovato ad affrontare poi. Dall’infortunio con l’operazione al ginocchio inizialmente rimandata, all’estorsione subita con il placet del fratello, fino alla fine di un tunnel che sembrava vicina dopo una stagione da dimenticare con il mondiale saltato. Se non fosse stato per quel test antidoping dopo la prima giornata di campionato che riporta alla luce un tema scottante dello sport.

Positività al testosterone tradotto “Doping”. Parola usata e talvolta abusata. Il distinguo però è d’obbligo. C’è il tema della volontarietà che sposta e in questo caso la cifra del reato può essere valutata soltanto dopo le controanalisi che, se confermate, porteranno alla squalifica del francese e probabilmente alla fine della sua carriera da calciatore con conseguente possibilità di risoluzione del contratto da parte del club bianconero. Per il momento sembra troppo presto per fare ipotesi, Pogba è stato comunque sospeso in via cautelare dal tribunale antidoping con la Juventus che resta alla finestra. La sua agente Rafaela Pimenta punta sulla tesi dell’assunzione involontaria della sostanza anche perché, e a questo ci risulta facile credere, il testosterone non migliora così evidentemente le prestazioni di un atleta e può essere assunto in tanti modi anche inconsapevolmente.

E in questa direzione arriva anche la versione del giocatore, ovvero l’assunzione della sostanza incriminata attraverso un integratore acquistato negli Stati Uniti e consigliatogli da un amico medico estraneo alla Juventus. Peccato che le regole antidoping americane siano diverse da quelle vigenti in Italia. Ma al di là del risultato la questione più lampante di tutta la vicenda Pogba 2.0 è una. Il talento non basta. Non ci si può adagiare su quel (poco o tanto) che si ha. Perché a perdere tutto e a buttarsi via è davvero un attimo. Vale nella vita come nello sport dove di esempi così ce ne sono davvero troppi. Dal punto di vista umano la storia dell’ultimo Pogba è devastante. E non può essere solo sfortuna o casualità. Non migliorare equivale a peggiorare e Pogba ha intrapreso, suo malgrado e involontariamente, ma inevitabilmente, una parabola folle dal suo addio alla Juventus. Dal 2016 in avanti non è stato più lui, più problemi che gol. Più gossip che assist. Per questo forse era arrivata anche la scelta, una delle poche apparentemente corrette negli ultimi anni, di tornare alla Juventus. Per dimostrare di potersi riprendere tutto. Come nei sogni, che se cavalcati male rischiano però di trasformarsi in un incubo. Giorgia Rossi

"Pogba come Schwazer. È la solitudine dei numeri primi". Donati: "Quante analogie. Oro, mondiali e soldi, poi caduta e bisogno di tornare. Ma con le persone sbagliate accanto". Pier Augusto Stagi il 13 Settembre 2023 su Il Giornale.

Una marcia lenta e dolorosa, rallentata dal dubbio e dalla paura, quella di non tornare più dove si era stati così bene. Là, in cima a tutto, dove c'è gloria e trionfi, persino estasi. Paul Pogba si è trovato anche lui per troppo tempo senza un pallone fra i piedi e con quella dannatissima strada da percorrere con il peso del dubbio. Una marcia verso l'ignoto e la rinascita, spostata a più riprese un po' più in là. Una marcia inesplorata in una notte buia piena di fantasmi che non ne vogliono sapere di uscire da quelle teste intossicate da dolore e fatica, attese e date.

Una marcia lenta e faticosa dicevamo, come se Paul fosse un Alex Schwazer alle prese con un destino che improvvisamente cambia direzione. Entrambi campioni adorati e glorificati, entrambi atleti di vaglio assoluto con onori, ori e denari, per Pogba molti, molti denari. Poi il buio. Il marciatore altoatesino che si ritrova improvvisamente senza un guida, quel Sandro Damilano amico e allenatore di primo livello. «Se mi si chiede un punto di congiunzione tra la storia di Pogba e quella Schwazer dico la solitudine esordisce Sandro Donati, allenatore, amico e convinto assertore dell'innocenza del marciatore altoatesino -. Alex, ad un certo punto della sua carriera, dopo la consacrazione olimpica di Pechino 2008 e prima che fosse fermato il 6 agosto del 2012 per una positività all'eritropoietina ricombinante, era un ragazzo solo e spaesato: credo come Paul. Alex era in una situazione di depressione e di confusione totale. Aveva dovuto rinunciare al suo allenatore storico Sandro Damilano e non gli era stata prospettata né dalla Federazione né dal gruppo sportivo una alternativa adeguata». Sandro Donati si ricorda bene quello che fu costretto a passare Alex Schwazer, quando fu squalificato per tre anni e sei mesi e, nel 2015, la II Sezione del Tribunale nazionale antidoping del Coni gli aggiunse tre mesi per aver eluso il prelievo dei campioni biologici: il marciatore aveva chiesto in quell'occasione all'allora fidanzata (Carolina Kostner, ndr) di dire che non era a casa. «È facile finire in un girone infernale aggiunge sempre Donati -. In certe situazioni finisci in un futuro distopico. Gli errori si sommano e si confondono: errori in allenamento, involuzione tecnica, non ne esci più». Uomini di talento che si trasformano in Uroboro, in quel drago o serpente che si morde la coda. «È la solitudine dei numeri uno e primi, ma ancor prima di quella solitudine, si cela probabilmente la mancanza di competenze adeguate. Per competenze intendo persone che grazie alla qualità dei loro interventi assicurano all'atleta un'assistenza adeguata nella rieducazione post infortunio, atte a colmare le lacune che l'atleta ha accentuato durante l'infortunio per quella naturale bramosia di ritornare». Una marcia lenta e dolorosa, che accomuna Paul ad Alex, due fenomeni, due fuoriclasse adorati e glorificati, entrambi oggi accomunati da un destino comune: un viaggio all'inferno. «Alla base di tutti i miei infortuni c'era la testa e il mio corpo ha reagito di conseguenza. Io ero stressato, il corpo era teso», questo è quello che il francese diceva solo a giugno, quando in fondo al tunnel cominciava a intravedere un po' di luce.

«Quello che mi fa specie di tutta questa vicenda, sono le considerazioni fatte da molti medici sulla sostanza assunta: il testosterone aggiunge Donati -. È un doping sorpassato, ho letto. Non è questo il punto. Il punto è che il testosterone è doping, dà forza, toglie la fatica, aumenta la produzione dei globuli rossi e di conseguenza migliora l'ossigenazione. Forse è il caso che si vadano a ripassare qualche lezione».

Fabio Cannavaro.

Cannavaro: «Ho lasciato l’Al Nassr perché non mi pagava. Viaggio solo in business. Mia moglie Daniela? Gelosissima». Monica Scozzafava su Il Corriere della Sera mercoledì 13 settembre 2023.

L’ex Pallone d’Oro oggi allenatore: «Questa è l’età della serenità, della consapevolezza. Ho giocato ad alti livelli ma c’è voluto tanto rigore. Una panchina in Italia? Non ce l’ho perché molti non capiscono la gavetta che ho fatto all’estero»

Sarà una festa tranquilla, ho invitato un po’ di amici». Fabio Cannavaro compie oggi 50 anni, traguardo («non è un numero come un altro») che stasera celebra in un locale nel centro di Napoli. La preoccupazione della vigilia: «Speriamo non aver dimenticato qualcuno, non vorrei fare gaffe». Gli invitati sono 400, il tenore è tutt’altro che intimo. «Vale per tutti i compleanni che non ho festeggiato, ho trascorso mezza vita lontano da casa e mi sono perso tante ricorrenze, mie e dei miei figli».

Che effetto fa?

«È una tappa importante. L’età della serenità, ecco. Oggi sono un uomo più vecchietto (ma anche no, sorride), ma mi sento bene e in forma e di questo ringrazio Dio. Tiro la linea: ho fatto calcio ad alti livelli, ho iniziato nella squadra della mia città, ho vinto in piazze importanti. Sono l’ultimo italiano che ha un Pallone d’oro in bacheca. Ho avuto fortuna? Forse sì. Ma sono stato anche bravo a farmi trovare pronto. Bisogna saperci salire sui treni, quando passano. Non ho mollato nulla. E mica è finita…».

Nei prossimi 50?

«Non esageriamo! Voglio allenare. Ho fatto gavetta e carriera all’estero, sono stato in Iran, Arabia, Qatar, Cina. Ho vinto e adesso vorrei tornare in panchina. Sono uno caparbio, sa?

Al Benevento, in serie B, non è andata bene.

«Non ho trovato una situazione florida e se fossero arrivati giocatori nel mercato di gennaio forse le cose sarebbero andate diversamente. Resta un’esperienza importante».

Perché, secondo lei, non ha ancora una squadra?

«Perché sono tutti convinti che l’allenatore debba fare la gavetta in Italia, come se l’esperienza all’estero non contasse. Invece è fondamentale, ti apre la mente, ti forma».

È stato tra i primissimi ad allenare in Arabia.

«Ero all’Al Nassr, la squadra dove adesso gioca Ronaldo. Altri tempi: andammo via quasi tutti perché non ci pagavano gli stipendi. Raccontarlo ora sembra un paradosso».

L’Arabia è oggi il nuovo Eldorado, contano così tanto i soldi per un calciatore?

«Non facciamo gli ipocriti, è difficile dire no a tutti quei soldi. Ma in ogni caso è anacronistico continuare a pensare che l’Italia sia il campionato più difficile, la Premier quello più bello. Il calcio è cambiato, e poi i giocatori hanno 10 anni di attività, non possono permettersi di dire qui sì e qui no».

Ha un’idea di quanto ha guadagnato? Da calciatore e da allenatore?

«Certo che ce l’ho. Ed è tanto. Ma ho anche speso. I soldi servono ma come mezzo. Non ti fanno felice, ma devono garantirti benessere. Compro e mi faccio regali, viaggio in business e non economy, per esempio».

Da 30 a 50, cos’è cambiato?

«All’epoca mi sentivo Superman. Bello, forte, con gli addominali scolpiti. Avevo il mondo ai piedi ma mi godevo poco: dovevo fare, costruire, raggiungere. Mi sfuggiva il piacere delle piccole cose. A 50 anni ho scoperto il mare, la montagna, le passeggiate, la bicicletta che oggi per me è una compagna di vita».

Che calciatore è stato?

«Un soldato: allenamenti, rigore, pasti salutari e lavoro. Concentrato solo sull’obiettivo. Ho fatto sacrifici, tantissimi. ma non mi pesavano. Sono partito dalla strada, arrivare a giocare a certi livelli non era semplice. Ci devi mettere tutto te stesso. Mi auguro di essere un esempio per i miei figli».

Un rimpianto e un desiderio.

«Chiedo scusa ai miei genitori per il tempo che gli ho sottratto, oggi me ne rendo conto perché li vedo più anziani e in qualche modo più fragili. Il desiderio è appunto recuperare».

Sua moglie Daniela, sposata giovanissima: ha visto poco anche lei?

«Senza il suo sostegno sarebbe stato più difficile. Sono tornato dalla Cina dopo il Covid perché ne sentivo la mancanza. Abbiamo tre figli e la famiglia è un motivo di orgoglio: non è facile tenerla in piedi spesso anche a distanza. Ci vuole pazienza e tanta complicità».

Daniela è gelosa?

«Tantissimo, lo è stata e ancora adesso lo è».

Ha vissuto tanto all’estero, si sentiva straniero?

«Mi sentivo lontano mai straniero, nè a disagio. Casa per me è solo Napoli, tornarci era sempre riconciliarsi col cuore».

Quando si guarda allo specchio cosa pensa?

«Sono sereno e... bello! Meno vanitoso rispetto a 20 anni fa, meno narciso ma più consapevole».

Ha l’etichetta di presuntuoso, concorda?

«Ho vinto tanto da calciatore e pure da allenatore mi sono fatto rispettare, ne sono orgoglioso. Se questa è presunzione, ho ragione ad esserlo. dal punto di vista professionale ha fatto tutto quello che potevo, ho realizzato i miei obiettivi. Qualcuno dice anche che ho una postura un po’ impettita, lo so. Ma sin da ragazzino camminavo e mi muovevo così. Cosa devo farci? Chi mi conosce bene, sa anche che in realtà sono un semplicione».

È stato in tante squadre, qual è quella che l’ha resa più felice?

«Il Napoli, iniziare lì è stato un sogno e poi tutte quelle dove ho vinto. Non ci sono maglie o bandiere: ho dato il massimo ovunque».

All’Inter sembrava in declino, va alla Juve e sfonda.

«Avevo un infortunio alla caviglia, il secondo anno non si sono fidati e probabilmente quando sono andato via si sono pentiti».

Un pensiero speciale?

«Per Marcello Lippi, il mio secondo papà».

Un’intervista per i suoi 50 anni. Che rapporto ha con i giornalisti?

«Li rispetto, ma certi limiti non vanno superati. Quando giocavo ero più distante, gli spogliatoi di una volta erano sacri. Se usciva qualcosa il principale indiziato era sempre quello che era stato visto a parlare con i giornalisti. Oggi non è più così, ma in ogni caso anche sotto quest’aspetto mi è servita l’esperienza europea. A Madrid, per esempio, il rapporto con la stampa viene vissuto in maniera naturale, normale».

Leonardo Bonucci.

Estratto da gazzetta.it giovedì 14 settembre 2023.

Un addio al veleno senza fine, una rabbia che non si placa. "Ho letto e sentito cose non vere dette dalla Juventus e dall'allenatore (Allegri, ndr). È falso che a ottobre e a febbraio mi era stata comunicata la volontà di interrompere il rapporto alla fine della stagione. Anzi, a fine maggio avevo dato la mia disponibilità per essere la quinta/sesta scelta in difesa, a fare la chioccia": così Leonardo Bonucci da Berlino in un'intervista esclusiva rilasciata a Mediaset.

E poi ancora: "Ho annusato qualcosa - ha proseguito Bonucci - solo leggendolo sui giornali, fino a quando il 13 luglio Giuntoli e Manna mi hanno comunicato, venendo a casa mia, che non avrei più fatto parte della rosa della Juventus e che la mia presenza in campo avrebbe ostacolato la crescita della squadra. Questa è stata l'umiliazione che ho subito dopo 500 e passa partite in bianconero. Ho apprezzato la solidarietà di tanti giocatori, anche attuali, della Juve e di altre società. Tutti mi hanno manifestato la loro vicinanza per il comportamento irrispettoso della società".

Da corrieredellosport.it mercoledì 13 settembre 2023.

Martina Maccari si è affidata a Instagram per dedicare un lungo post alla Juventus dopo la tumultuosa cessione del marito, Leonardo Bonucci, all'Union Berlino. Il difensore, come noto, ha anche fatto causa al club bianconero. 

Il messaggio d'addio della moglie di Bonucci

"Cosa ci rimane quindi? Nemmeno un squallido, ultimo abbraccio. È in una mattina di pioggia torinese che dovevo venirti a guardare. Perché guardarti mi fa credere che per un momento, forse, tu possa sentirmi. 13 anni. Per tredici lunghi anni Tu ed Io siamo state Amiche. E Tu lo sai. Di quelle che una è più grande e una è più piccola, una è amata da tutti e l’altra deve invece faticare per trovare il suo spazio. Amiche trascinate per passione, anche all’antagonismo. 

Amiche che non si scelgono ma che la vita avvicina, chissà per quale strano disegno. Tu ed Io abbiamo condiviso la passione per lo stesso uomo, e tu (adesso posso confessarlo) hai sempre vinto. Sei stata Tu, sempre, il primo pensiero, Tu quella della priorità, ed Io quella del tempo che rimane. Sei sempre stata quella che c’è anche quando non la vedi… Proprio come le Amiche che ti fanno sentire sempre un po’ in ombra, ma che alla fine ti fanno sentire protetta. Quelle che sai di essere seconda ma dopo una prima irraggiungibile. Quelle che la guardi e trovi sempre l’ispirazione giusta".

"Ti ho odiata spesso, ma mi dispiace"

"Anche quando le cose vanno male Lei è in grado di passare la giusta ispirazione e Tu, sei lì a stupirti ogni volta. È per questo, forse, che in questo mio amore assorbito per osmosi, ti ho odiata spesso. Ti ho odiata nell’ombra della solitudine a cui mi costringevi con cadenza programmata, calendarizzata. Oltre l’orizzonte dei sentimenti incontrollabili come l’amore e l’odio, avevo certezza però che saresti stata un faro per sempre. Quella della cosa giusta al momento giusto, anche fosse l’ultimo momento, quello agli sgoccioli del tempo a disposizione.

Pensavo che nonostante la vita ed i meccanismi normali del corso del tempo che conosciamo benissimo, avremmo continuato a riconoscerci. Pensavo saremmo state fedeli per sempre ad una storia che parla di vita, di dare e prendere, di sacrificio e riconoscenza, di lavoro e amore, una storia di vita che parlava di un patto di cura. Oltre il moderno tritacarne, pensavo avremmo continuato a curarci l’una con l’altra. Mi dispiace tanto. Non cambierò strada incontrandoti. Ai patti io tengo fede. Perdendo tanto, rinunciando anche a quello che per tanti anni ci siamo contese. Buona Vita".

Leonardo Bonucci "ossessionato dalla Juve": né soldi, né amore. Luca Beatrice su Libero Quotidiano il 16 settembre 2023

Non per soldi e nemmeno per amore. Leonardo Bonucci avrebbe voluto battere altri record personali tra bianconero e azzurro, perciò si è impuntato: restare a tutti i costi alla Juventus nonostante Massimiliano Allegri gli avesse detto già a metà della scorsa stagione che non sarebbe stato più nei suoi piani, invitandolo a cercarsi un’altra squadra. Risaputo che tra i due non è mai corso buon sangue, secondo voci attendibili il giocatore fu tra i fomentatori di un esonero del tecnico dopo l’eliminazione dalla Champions League. Era abbastanza chiaro, insomma, che ne sarebbe rimasto solo uno dei due e la società, giustamente, ha puntato su Max visto che in campo non deve scendere lui e che c’è bisogno di gente integra, affidabile, oltre alla necessità di alleggerire il monte ingaggi.

Da tifoso ho molto amato Leo e sono stato tra i primi a perdonarlo nonostante il passaggio al Milan e il gesto di sciacquarsi la bocca sotto la curva Nord, non proprio il massimo dell’eleganza. Si è pentito ed è tornato a casa, l’ho subito applaudito cercando di convincere gli scettici. Ora invece penso che abbia perso la testa e sia fuori dalla realtà, perché nel calcio le belle storie finiscono, neppure i campioni sono eterni, la gratitudine non si misura con un altro ricco contratto, a un certo punto uno dei due dice basta, è una legge scritta e a Torino è successo con Del Piero e Chiellini, persino più bandiere di lui, o con Marchisio e pure quella volta c’entrava Allegri che non credeva più a un giocatore infortunato nonostante l’affetto dei tifosi.

Da qualche giorno Bonucci si è accasato all’Union Berlino, buona squadra che giocherà la Champions a differenza della Juventus, ma invece di pensare a nuove sfide, alla possibilità di un altra stagione ad altro livello, la sua ossessione si chiama ancora Torino e il dente è sempre più avvelenato, vuole fare causa manco fosse stato vittima di mobbing, decisione che probabilmente non porterà a nulla tranne destabilizzare ancora una volta un ambiente già provato da un anno senza Europa, dalle casse vuote e dal caso Pogba. E dove ci vuole tutta la pazienza e la “halma” di Max per non perdere per strada altri pezzi. Non so quanto i tedeschi l’abbiano presa bene che nella sua prima intervista da tedesco Leo si sia concentrato solo sulla Juve non facendo cenno alla nuova destinazione. Lo sfogo segue quello della moglie Martina e dell’insulso post sui social non tanto a difesa del marito quanto a chiarire che lei come donna si è sempre sentita messa in secondo piano rispetto alla Vecchia Signora. Neppure un ultimo squallido abbraccio, un addio davanti ai tifosi, questo il succo del discorso. La famiglia non è mai tanto lucida; a Bonucci continuerò a volere bene però chi getta fango contro la mia squadra è colpevole a prescindere. Aufidersen Leo, e guarda che a Berlino ci sono dei musei meravigliosi, non c’è il tempo per annoiarsi. 

Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport venerdì 15 settembre 2023. 

Dopo aver letto il primo lancio dell’intervista-fiume di Riccardo Trevisani a Bonucci, ho inviato questo messaggio a Leonardo: “Aiutami a scrivere qualcosa di intelligente su Bonucci che oggi ha raccontato le sue verità”. Sciacquati in fretta e furia la bocca e lo smartphone, l’ho cancellato e ho fatto da solo. Sulla qualità del mio intervento nutro qualche dubbio...  

La partita d’addio di Bonucci alla Juve si giocherà in tribunale. Come un divorzio qualunque, ed è questo l’aspetto più triste. Dodici anni insieme - tra molti alti, qualche basso e alcuni bassissimi - si chiudono nel peggiore dei modi. Davanti a un arbitro seduto. 

Al giornalista di Mediaset Bonucci ha dichiarato di essersi sentito umiliato dalla Juve; dalla Nuova Juve che - particolare importante - aveva ereditato una situazione complicatissima per immagine pubblica, conti e altro ancora, e ha così deciso che non avrebbe potuto permettersi di fare sconti a nessuno, nemmeno al capitano. 

Di finali antipatici è piena la storia del calcio e dei campioni. Penso all’addio di Paolo Maldini al Milan di Berlusconi e Galliani, a Totti maltrattato dalla Roma di Pallotta (le colpe ricaddero tutte su Spalletti, che fu solo strumento). Anche la chiusura del rapporto tra Del Piero e la Juve di Agnelli non fu il massimo, pur se consumatasi con modalità differenti, giro di campo, applausi e lacrime: Andrea usò attenzioni superiori anche perché da fuoriclasse come Alex e Buffon aveva ottenuto sacrifici e successi.

A tal proposito ricordo che il recordman italiano di separazioni dolorose, Roberto Baggio (Fiorentina, Juventus, Milan, Inter), ha ricevuto quel che avrebbe meritato anche altrove soltanto dal Brescia che ancora oggi lo beatifica. 

Bonucci ne ha avute ovviamente per Allegri, il quale sostiene di aver spiegato mesi prima - febbraio, marzo - al difensore che era giunto il momento di chiudere poiché un ciclo si stava esaurendo. La stessa cosa avrebbe (ha) fatto Cherubini e in seguito anche Calvo.

Non mi sono sciroppato tutti e trentatré i minuti della chiacchierata-sfogo, ma quel che ho ascoltato mi è bastato. E avanzato. 

Da Torino avevo raccolto nel tempo altre verità, ognuno ha le proprie: la prima è che la società chiese a Leonardo se volesse salutare tifosi e compagni in occasione di Juve-Milan, l’ultima in casa, ma il giocatore si rifiutò di farlo, perché convinto di restare, immagino. Tra amore e ostinazione. La seconda, che Allegri gli permise di disputare la partita numero 500 e di venire convocato da Mancini dopo l’ultima della scorsa stagione, il 4 giugno: un membro dello staff dell’ex ct gli aveva infatti spiegato che se Leo non avesse giocato a Udine non sarebbe stato chiamato e il tecnico, proprio per consentirgli di non perdere l’azzurro, lo mandò in campo dal primo minuto. 

Un’ultima annotazione. Molti tifosi rimproverano ancora a Bonucci il passaggio al Milan del 2017: mi risulta che non fu lui a chiedere di andar via, ma la società che aveva bisogno di fare plusvalenza. Inoltre Leo non risultava più in cima alle preferenze di Allegri. L’agente del giocatore, Lucci, creò perciò le condizioni per il passaggio in rossonero e infine convinse il suo assistito che fino al giorno prima aveva sognato la fascia di capitano di Buffon. Esattamente un anno dopo la Juve lo riportò a Torino.

Nel calcio, come nella vita, lasciarsi male è spesso l’unico modo.

Da tuttosport.com il 18 Settembre 2023

Dopo l'intervista sfogo e la risposta in conferenza di Max Allegri, continua a tenere banco il caso tra Bonucci e la Juventus. Il difensore azzurro, ora in forza all'Union Berlino, sta proseguendo la sua battaglia contro il club bianconero per veder risarciti i danni subiti dopo l'esclusione dalla rosa in questa nuova stagione. 

Bonucci è determinato nel proseguire la sua azione legale nei confronti della società che, come detto dal diretto interessato nell'intervista, ha umiliato il calciatore dopo 500 partite con la maglia della Juventus. La situazione tra Bonucci è stata argomento di discussione anche nel prepartita della sfida dello Stadium tra gli uomini di Allegri e la Lazio, sul tema è intervenuto Riccardo Montolivo che con il Milan ha vissuto una situazione simile a quella di Bonucci. 

Montolivo, che attacco a Gattuso

Parlando del caso Bonucci, Montolivo ha riservato un attacco frontale a Gennaro Gattuso, tecnico del Milan quando l'ex centrocampista è stato messo fuori rosa. Queste le sue parole sulla situazione di Bonucci: "Anche a me è capitato di finire fuori rosa, al Milan. Ho trovato un allenatore scorretto che senza neanche comunicarmelo di persona mi ha messo fuori rosa, in malafede. Per il bene della squadra ho preferito incassare". Questa l'opinione di Montolivo che aggiunge: "Non biasimo Bonucci, capisco la sua reazione, ma sarà una battaglia amara senza vincitori".

Labour Weekly. Leonardo Bonucci e il diritto del lavoro per i calciatori. L'Inkiesta il 23 Settembre 2023

Anche chi guadagna stipendi a sei zeri ha dei diritti che possono essere violati. L’ex calciatore della Juventus non è certamente il primo a contestare la violazione dell’art. 7 

Il diritto del lavoro non si applica soltanto agli operai in tuta blu. Anche chi guadagna stipendi a sei zeri ha dei diritti che possono essere violati. Lo dimostra il contenzioso instaurato da Leonardo Bonucci, storico giocatore della nazionale e (fino a qualche giorno fa) della Juventus, contro la sua ex squadra che sarebbe colpevole di non aver garantito al difensore adeguate condizioni di allenamento e di preparazione nel corso dei mesi estivi. Da questa violazione deriva la richiesta di risarcimento danni da parte di Bonucci, che ha instaurato il giudizio arbitrale previsto dall’accordo collettivo per questo genere di cause.

L’accordo collettivo che disciplina la prestazione sportiva (e, quindi, lavorativa) dei giocatori di Serie A, oltre al suddetto arbitrato, prevede all’articolo 7 che «la Società fornisce al Calciatore attrezzature idonee alla preparazione e mette a sua disposizione un ambiente consono alla sua dignità professionale» e che il calciatore «ha diritto di partecipare agli allenamenti e alla preparazione precampionato con la prima squadra del rispettivo campionato». Dalla lettura delle dichiarazioni di Bonucci, sembra che la sua intenzione sia quella di contestare la violazione delle predette clausole per ottenere il risarcimento dei danni professionali e all’immagine asseritamente subiti.

Bonucci non è certamente il primo calciatore a contestare la violazione dell’art. 7. In passato, ad esempio, alcuni calciatori della Lazio (Pandev o Negro) o del Catania (Pantanelli e Colucci) hanno instaurato azioni simili. Alcuni di loro vinsero la causa riuscendo addirittura a far accertare la sussistenza di mobbing nei loro confronti. Le squadre di appartenenza furono costrette a reintegrarli e/o a versare una parte dello stipendio lordo annuo spettante al calciatore a titolo di risarcimento.

Lo so, fa una certa impressione, ma se anche i ricchi piangono, perché mai i calciatori non possono essere mobbizzati?

*La newsletter “Labour Weekly. Una pillola di lavoro una volta alla settimana” è prodotta dallo studio legale Laward e curata dall’avvocato Alessio Amorelli. Linkiesta ne pubblica i contenuti ogni. 

Michele Padovano.

Estratto dell'articolo di Marco Spiridigliozzi per “il Giornale” il 10 aprile 2023.

Lo scorso 31 gennaio, la Corte d’Appello di Torino ha assolto l’ex calciatore Michele Padovano dall’accusa di aver finanziato un traffico di stupefacenti nel 2006, chiudendo una parentesi lunga 17 anni, durante i quali si è battuto con determinazione al fine di dimostrare la sua innocenza.

 (…)

 Cosa ricorda di quel 10 maggio del 2006, il giorno in cui venne arrestato?

«Ricordo le modalità davvero assurde con cui venni condotto in questura, come se fossi l’Escobar italiano. E dopo le impronte digitali venni immediatamente trasferito nel carcere di Cuneo. In isolamento. Ricordo bene che quando venni prelevato da casa e condotto in questura, pensai che fosse tutto uno scherzo. O almeno lo sperai fortemente».

 In che senso?

«Erano gli anni in cui Scherzi a parte aveva preso di mira i calciatori. Allora pensai ad uno scherzo architettato ben bene, ma una volta entrato in questura e prese le impronte, capii che era tutto vero. Giuro che sperai tanto che si trattasse di uno scherzo».

 Cosa le accadde a livello fisico?

«È stata durissima. A Cuneo mi misero in isolamento per 10 giorni. Senza doccia, in condizioni terribili. In seguito, acquisita l’ordinanza, iniziai a leggerla attentamente. Anzi la studiai a memoria e più la studiavo, più mi rendevo conto dell’errore sulla mia figura.

Dopo quei 10 giorni atroci di Cuneo, venni trasferito a Bergamo per 3 mesi.

Fisicamente fu devastante».

 E mentalmente?

«La mia fortuna sono state la consapevolezza di essere innocente e la forza del mio carattere. Sono un combattente, non ho mai mollato in campo e non potevo certo mollare in quel momento. Come detto, studiai attentamente l’ordinanza del mio arresto, e decisi che dovevo combattere fino alla fine per dimostrare la mia innocenza e non ho chiesto il rito abbreviato, che mi avrebbe garantito sconti di pena, io volevo l’assoluzione piena perché ero innocente».

 Dopo 200 giorni circa di carcere, tornò a casa.

«Ogni giorno i carabinieri venivano 2-3 volte. Chissà, pensavano volessi scappare! E dopo 9 mesi di domiciliari, altri 5 mesi con l’obbligo di firma».

 Quindi tutto l’iter processuale.

«Nel 2011 la sentenza di primo grado fu 8 anni e 8 mesi, in appello 6 anni e 8 mesi. Ma credo che la mossa fondamentale sia stata cambiare i miei avvocati. E con Michele Galasso e Giacomo Francini è iniziato un viaggio tutto nuovo che è terminato poche settimane fa con l’assoluzione».

 Cosa ha provato nel leggere la sentenza di assoluzione?

«Sono un combattente, ma faccio fatica ad esternare determinate emozioni, soprattutto quando sono così forti. Ho pianto, ma ho provato anche una gioia immensa. Parliamo di diciassette annidi vita, durante i quali sono accadute tantissime cose. Mio padre non c’è più...».

 In tutti questi anni come ha gestito la sua figura di marito e di padre?

«Devo tutto a mia moglie Adriana. È lei che ha reso possibile che io continuassi ad essere marito e padre di Denis. La famiglia è tutto nella vita».

 E dal mondo del pallone chi ricorda al suo fianco?

«Non porto rancore ma cito solo due persone che mi sono state realmente vicine: Gianluca Presicci e purtroppo un amico e collega che non c’è più...».

 Gianluca Vialli.

«Esatto. Luca telefonava sempre a mia moglie quando ero in carcere. Eravamo amici, molto amici. La mia scelta di andare a Londra al Crystal Palace fu determinata dal fatto che lui era lì. Con lui se n’è andato un pezzo di me».

 (…)

Michele Padovano assolto dall’accusa di droga: «Vialli era ammalato e non mi ha lasciato solo». Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 19 marzo 2023

L’ex calciatore della Juventus assolto dall’accusa di traffico di droga dopo 17 anni: «Non ho mai smesso di credere alla giustizia. Dedico questo risultato a mia moglie e a mio figlio»

Un incubo durato 17 anni quello di Michele Padovano, ex attaccante della Juventus, club con il quale vinse la Champions del 1996 all’Olimpico di Roma contro l’Ajax. Una brutta, bruttissima, storia che ha un inizio: il 10 maggio 2006, quando il mondo gli è crollato addosso. «Ci segua in caserma», quando le forze dell’ordine piombano a casa sua. Padovano non capisce, pensa sia su «Scherzi a parte», sorride a chi gli spiega che lo stanno arrestando. L’accusa è devastante: traffico internazionale di droga. In manette finiscono 33 persone e l’ex bianconero resta in carcere per 90 giorni. Gli sembrano un’eternità. Poi altri otto mesi ai domiciliari nell’attesa delle sentenze. In primo grado condanna a otto anni e otto mesi. In appello diventano sei anni e otto mesi. La svolta in Cassazione: tutto annullato. Fine di un incubo il 31 gennaio 2023. Diciassette anni vissuti con il solo sostegno della famiglia. Amici spariti, tranne qualcuno. «Vialli mi è sempre stato vicino, anche quando si ammalò mi diede coraggio».

«Ho sempre creduto nella giustizia, anche quando mi ha bastonato. Sapevo di essere innocente, ho rifiutato il rito abbreviato e i possibili benefici. Ho lottato come facevo in campo, non potevo crollare. Ho pianto quando sono stato prosciolto. Ho pianto e abbracciato mio figlio, mia moglie e i miei avvocati. Mi sarei perso senza di loro», ha raccontato nell’intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport. «I momenti più difficili? Quando da Cuneo mi hanno trasferito nella sezione speciale del carcere di Bergamo. Avevo passato 10 giorni in isolamento, ho imparato a memoria l’ordinanza dell’arresto e pensavo potessero capire fosse un equivoco. Pensavo di uscire e invece. Devo ringraziare i miei legali, che hanno lottato come dei leoni. Io non ho mai rinnegato le mie origini, sono cresciuto nella periferia torinese. C’è un po’ di tutto. Ma gli amici restano amici anche quando scelgono strade sbagliate. E mi sembrava giusto aiutare uno di loro, prestargli del denaro senza sapere l’uso che ne avrebbe fatto. Ecco, una cosa ho imparato: prima pensavo che dei propri soldi uno può farne ciò che vuole. Ora so che non è così...», ha continuato.

Il rapporto con Vialli

Come accade spesso in queste circostanze, tanti amici si sono dileguati. Padovano è rimasto (quasi) da solo. «Tutti spariti — racconta — specie quelli del calcio. Tranne due: Gianluca Presicci, compagno a Cosenza, e Gianluca Vialli. Dicevano che a lui gli vendessi la droga. Accusa assurda, caduta subito. Luca è stato commovente: per me ha fatto tantissimo. Anche quando si è ammalato, continuava a farmi coraggio. Basta, mi viene da piangere». Con la Juventus Padovano si è tolto grandi soddisfazioni: «Nel 1996 c’era il ritorno dei quarti di Champions, segnai al Real il 2-0 e andammo in semifinale. Poi ci fu la finale vinta contro l’Ajax ai rigori, uno porta la mia firma. La Juve resta la mia squadra». E sul futuro: «Se ho voglia di rientrare nel calcio? Enorme. Basta un progetto serio. Spero solo che dopo 17 anni qualcuno si ricordi ancora di me. Una chiamata della Juve? Sarebbe il massimo. Sono qui...». Chissà…

Michele Padovano: perché fu arrestato. La carriera dell’ex calciatore e il rapporto con Vialli. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 2 Febbraio 2023

Michele Padovano, l’ex Juventus assolto dopo 17 anni fa dall’accusa di traffico di droga. Cosa è successo

Assolto dopo 17 anni

La fine di un incubo. Michele Padovano assolto dall’accusa di aver finanziato un traffico di droga dal Marocco. Un calvario lungo 17 anni: «La giustizia è stata lenta, ma non ho mai smesso di crederci — ha raccontato nell’intervista al Corriere della Sera — . E oggi voglio dedicare questo risultato a mia moglie e a mio figlio, che mi hanno accompagnato in questa battaglia». Una storia strana quella di Padovano, 55 anni tifoso del Toro ma decisivo nell’ultimo trionfo in Champions League della Juventus. Perché, innanzitutto, fu arrestato?

Il caso

Partiamo dall’inizio. L’anno è il 2006, Padovano viene coinvolto in una vasta inchiesta della procura di Torino su traffico di hashish, che porta dietro le sbarre 33 persone. La banda, secondo le iniziali accuse, importava grandi quantità di hashish in Italia dal Marocco, tramite la Spagna. Vengono sequestrati 23 quintali di droga. Iniziano così i guai di Padovano, in quel momento direttore generale dell’Alessandria calcio e candidato alle comunali a Torino per i Moderati.

Il ruolo di Padovano: perché fu arrestato

Le indagini sull’ex calciatore partono nell’ottobre del 2004. Padovano, sosteneva l’accusa, avrebbe avuto un ruolo di finanziatore nell’organizzazione che spacciava l’hashish giunto dal Marocco. Anche perché Padovano era (ed è) amico di Luca Mosole, ritenuto uno dei capi dell’organizzazione. «E non rinnego la nostra amicizia: l’ho detto anche in Tribunale. Lui con me si è sempre comportato bene ha sempre detto che non c’entravo nulla. Ma non hanno creduto a me e neanche a lui», ha detto di recente Michele. Il risultato è l’arresto di Padovano, che si è sempre dichiarato innocente, nella sua casa di San Gillio torinese, il 9 maggio 2006. Poi i processi. In primo grado arriva una condanna a 8 anni e 8 mesi, e poi in appello ridotti a 6 anni e 8 mesi. Poi nel gennaio del 2021 la Cassazione annulla con rinvio la condanna, stabilendo che il processo è da rifare. Infine la sentenza di questi giorni: assolto.

Il carcere

Tra le brutte esperienze vissute in questi 17 anni, anche il carcere. Padovano c’è stato tre mesi. «I primi dieci giorni a Cuneo: non potevo parlare con nessuno e nemmeno farmi una doccia. Sembrava avessero arrestato Pablo Escobar. Poi mi trasferirono a Bergamo e lì incontrai una grande umanità. All’inizio pensavo fossero gentili perché ero Padovano. Invece lo erano con tutti. Gli altri detenuti hanno capito subito che quello non era il mio posto. Ero spaesato e il mio compagno di cella mi ha aiutato molto. Ancora oggi ci scambiamo qualche messaggio».

L’amicizia di Vialli

Tra le persone che non hanno mai voltato le spalle a Padovano c’è Luca Vialli: «Quando mi hanno arrestato, Vialli chiamava tutti i giorni mia moglie. Era una persona e un amico, so che oggi sarebbe felice per me. Mi manca molto».

Padovano calciatore: la telefonata con Moggi

Attaccante bravo in acrobazia e con un ottimo stacco di testa, Padovano fa il suo esordio in serie A nel 1990 col Pisa, poi gioca anche con Napoli, Genoa e Reggiana, la squadra che lo lancia e con cui si fa notare dalla Juventus di Lippi. «Ricordo che mi chiamò Luciano Moggi, ma alla prima telefonata non credetti che fosse lui veramente e misi giù il telefono — ha raccontato —. Mi richiamò dicendo che la terza telefonata non l’avrebbe più fatta. Mi aspettava il giorno dopo in sede perché voleva portarmi alla Juve».

La Champions con la Juventus

Negli anni in bianconero ottiene i suoi maggiori successi. Vince uno scudetto (nel 1997), due volte la Supercoppa italiana (1996, 1997), ma soprattutto Champions League e Coppa Intercontinentale. In Champions è suo il gol del 2-0 nel ritorno dei quarti di finale contro il Real Madrid che qualifica i bianconeri alla semifinale. E in finale Padovano subentra a gara in corso a Ravanelli e segna uno dei rigori decisivi per il successo: «Effettivamente non ero male a tirare i rigori. In serie A ne ho sbagliato solamente uno. Quella sera a Roma è vero che Van der Sar intuì il mio calcio di rigore, ma io ero talmente sicuro di fare gol che non mi sono preoccupato per niente, perché in quei momenti ciò che più conta è la sicurezza che hai sul viso e a me non mancava. A livello professionale è stata sicuramente l’emozione più importante della mia carriera».

Il soprannome Harley Davidson

Da calciatore il suo soprannome era Harley Davidson. Gli viene dato ai tempi della Reggiana. Il motivo? Una passione smodata per le moto, ne possiede due.

Michele Padovano: «Diciassette anni di buio in mano alla giustizia, ora posso tornare a vivere».

Michele Padovano assolto 17 anni dopo dall'accusa di narcotraffico

L’ex attaccante, che in carriera ha indossato tra le altre le maglie di Cosenza, Pisa, Napoli, Reggiana e Juventus, assolto dall’accusa di narcotraffico. Incubo finito quindi per l’uomo che nel 1996 vinse una Champions League con la squadra bianconera. Simona Musco su Il Dubbio il 2 febbraio 2023

Con il traffico di droga non c’entrava nulla. Ma Michele Padovano, tra gli eroi di quella Juventus che vinse la Champions League del 1996, ha dovuto attendere 17 anni per sentirselo dire in un’aula di Tribunale. Anni di gogna, sospetti e di isolamento arrivato anche da quel mondo nel quale era nato e cresciuto, il calcio, che all’improvviso lo ha trattato come un estraneo. Lo hanno evitato tutti o quasi. Qualcuno, come Gianluca Vialli, capitano di quella squadra che alzò al cielo la coppa dalle grandi orecchie, ha deciso di rimanergli accanto.

L’ex attaccante e dirigente sportivo, nel 2006, era stato raggiunto da tre macchine della polizia davanti al ristorante dove aveva cenato con degli amici. Le manette ai polsi, la perquisizione in casa e poi il carcere. Un buco nero che ha ingoiato tutto, fino a martedì, quando la Corte d’Appello di Torino, dove il processo era tornato dopo l’annullamento in Cassazione del 2021 della condanna a sei anni e otto mesi rimediata nel primo processo d’appello, ha sentenziato la sua innocenza. «Diciassette anni fa un clic ha spento la luce nella mia vita - ha spiegato subito dopo l’assoluzione -. Oggi il buio se n’è andato via. E spero di riprendermi qualcosa di quello che mi è stato tolto con tanta violenza».

Diciassette anni in mano alla giustizia sono tanti. Come li ha vissuti?

Sono stati molto difficili, perché quando vieni travolto da una situazione del genere viene messo tutto in discussione. Ieri dopo l'assoluzione, ho provato un sentimento che fatico a trasmettere: abbiamo smesso di piangere soltanto oggi, perché 17 anni di tensioni del genere vi assicuro che non sono uno scherzo. Ho provato una gioia immensa, che mi permetterà di ricominciare a vivere senza quel peso.

Cosa ricorda del suo arresto?

Ho pensato ad uno scherzo. Mi aspettavo che di lì a breve saltassero fuori le telecamere e mi dicessero che ero su Scherzi a parte. Purtroppo più passava il tempo più mi rendevo conto che uno scherzo non era. Mi hanno arrestato davanti al ristorante dove mi trovavo a cena con amici. Mi portarono a casa, dove fecero una perquisizione senza trovare nulla. Ma dissero che l’esito era positivo, perché mi sequestrarono il telefonino. Dopo la perquisizione mi portarono in questura a Venaria per le impronte digitali e le foto segnaletiche e subito dopo a Cuneo, dove arrivai alle 5 del mattino. Finì in cella di isolamento, con una branda e una turca. È stata dura. Dopo dieci giorni mi dissero di preparare le mie cose: pensavo che si fossero resi conto dell’errore. Invece mi fecero salire su un blindo per un viaggio lungo quattro ore e mezza. Continuavo a chiedere dove stessimo andando ma nessuno mi rispondeva. Arrivammo a Bergamo, al carcere speciale, dove ero un pesce fuori dell'acqua. Finì in cella con una persona che stava lì da 18 anni. Dovevo avere la forza di reagire, anche per chi era a casa, i miei familiari, che hanno subito forse quanto me i pregiudizi della gente.

Come sono stati quei tre mesi in carcere?

Del carcere ne avrei fatto sicuramente a meno, ma la mia forma mentis mi porta a trovare sempre il lato positivo, anche nelle situazioni più difficili. Devo dire che ci sono riuscito, perché ho trovato all'interno del carcere grande umanità, cosa che non posso dire per la vita di tutti i giorni. Ho cominciato a fare sport, assieme ad un gruppo di ragazzi per i quali ero un po’ un allenatore. Le è pesato ciò che dicevano i giornali di lei? Per i primi dieci giorni non ho avuto contezza di ciò che si scriveva sui giornali. Gli agenti mi dicevano che ero su tutte le prime pagine, che al telegiornale per giorni si faceva sempre il mio nome. Io non potevo far altro che cercare di uscire da quella situazione con la quale non c’entravo nulla.

E il mondo del calcio è stato solidale o si è visto voltare le spalle?

Gli unici che mi sono stati vicini e mi hanno creduto sono stati Gianluca Vialli, che chiamava mia moglie per sapere come stavo, e Gianluca Presicci, che ha giocato con me nel Cosenza. Siamo rimasti sempre in ottimi rapporti e non ha mai avuto dubbi. Per quanto riguarda gli altri miei ex compagni, ho sempre percepito un pregiudizio, che non capivo, ma comunque ne ho preso atto e sono andato avanti per la mia strada.

Tra le altre cose Vialli era stato anche tirato in ballo come una delle persone alle quali lei avrebbe ceduto hashish, cosa poi smentita processualmente.

Una cosa assurda. Gli atti hanno dimostrato che le cose non sono andate così, se ne sono uscito io non poteva che uscirne anche lui.

Però sono serviti 17 anni. Quali sono state le conseguenze sulla sua vita lavorativa?

È stata una tragedia sotto tutti i punti di vista. Di quello che ho costruito, prima che mi succedesse questa brutta vicenda, è rimasta la mia famiglia, che oggi posso dire più unita che mai. Per il resto all'epoca avevo proprietà immobiliari importanti che oggi non ho più, avevo un lavoro nel mondo del calcio che di fatto mi avrebbe proiettato in una carriera dirigenziale importante e che ho perso, mi sono ritrovato senza entrate. Un danno economico e psicologico non indifferente. Io pensavo di uscirne subito ma così non è stato. Dopo la condanna ho deciso di affidarmi a Giacomo Francini e Michele Galasso, i miei avvocati, che sono stati anche i miei angeli custodi. Hanno creduto in me sin dal primo momento e oggi assieme alla mia famiglia li ringrazio perché hanno fatto un lavoro strepitoso.

Crede ancora nella giustizia?

Credo che una giustizia che funzioni non possa tenere in piedi un processo per 17 anni. È un’intera vita. Per carità, io ho sempre creduto nei giudici e ringrazio quelli che mi hanno assolto. Io ho avuto la forza di affrontare il tutto con grande carattere e consapevole della mia innocenza ho lottato. Ma chi non ci riesce e si ammala per questo con chi dovrebbe prendersela? Come è finito in mezzo a questa storia?

Per un prestito a un amico di infanzia, poi coinvolto nell’operazione. Sono cresciuto con delle persone che poi hanno fatto delle scelte differenti, ma non per questo ho rinnegato l’amicizia che ci legava. E non la rinnego neanche oggi. Ho prestato dei soldi ad un amico per comprare un cavallo, com’è stato dimostrato anche in dibattimento. Ma non mi credevano.

È stato ingenuo?

No, il mio amico non mi ha ingannato e lo abbiamo dimostrato in aula. Purtroppo questa vicenda mi ha fatto capire che con i miei soldi non potevo fare quello che volevo.

Lei ha continuato a bussare alle porte delle società per continuare a lavorare, così come faceva prima di essere arrestato. Cosa le hanno risposto?

Nei colloqui di lavoro percepivo il pregiudizio dell’interlocutore. Non potevo che prenderne atto e continuare a cercare qualcuno che mi desse fiducia e un’opportunità. Devo dire con scarsi risultati. Dopo 25 anni di carriera calcistica conoscevo tutti e ho contattato tutti chiedendo un lavoro e non ho mai ricevuto risposta. Alcuni non mi ricevevano nemmeno.

Come è riuscito a mantenersi in piedi?

Mi sono inventato di tutto e di più. Ho investito in un bar, in un’azienda che si occupava di ristrutturazione di barche, ho aperto un parco giochi per bimbi. Ho dovuto reinventarmi, perché il mio mondo non mi dava spazio e non riusciva in nessuna maniera a darmi una mano.

Cosa vuole dire a chi ha creduto che lei potesse essersi macchiato dei reati di cui era accusato?

Non me la prendo con chi ha giudicato troppo in fretta avendo dei grandi pregiudizi. Io da questa vicenda ho imparato che non bisogna mai giudicare nessuno, almeno io sono fatto così. E se si vuole veramente essere garantisti, bisogna esserlo fino a che i tre gradi di giudizio non si sono espressi. Anche dopo una condanna di primo grado e di appello.

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"Mi devo riprendere in mano ciò che mi è stato tolto con tanta forza". Michele Padovano non era un narcos, l’ex Juventus assolto dopo 17 anni: “Carriera distrutta, Vialli tra i pochi a starmi vicino”. Antonio Lamorte su Il Riformista l’1 Febbraio 2023

Michele Padovano non è, non era, non è stato un narcotrafficante. Dopo 17 anni si è conclusa la sua battaglia legale, già definita retoricamente la sua partita più importante: la Corte d’Assise d’Appello ha assolto l’ex calciatore della Juventus e della Nazionale dall’accusa di traffico di droga. “È un’emozione veramente molto forte. Io e la mia famiglia abbiamo smesso di piangere poco fa, perché era una notizia che aspettavamo da tempo. Dopo 17 anni finalmente abbiamo rivisto la luce. E le assicuro che 17 anni, sapendoti innocente, sono tanti”, ha raccontato in un’intervista a Il Foglio.

Padovano, quando venne arrestato, aveva 38 anni. Era il 2006. Aveva giocato nell’ultima Juve campione d’Europa nel 1996, nella Reggiana e nel Genoa. Non era più un calciatore ma era un dirigente dell’Alessandria. Sognava di continuare la sua carriera nel calcio. Fu accusato di finanziare un’associazione che trafficava droga dal Marocco attraverso la Spagna. Aveva prestato soldi a un amico d’infanzia, ritenuto a capo di un gruppo dedito al narcotraffico. “Non ho mai rinnegato l’amicizia con questa persona e non la rinnego certo adesso – ha spiegato Padovano – Gli feci un prestito in maniera molto tranquilla, perché mi venne motivata: gli servivano soldi per comprare dei cavalli. Noi al processo abbiamo dimostrato che l’acquisto dei cavalli avvenne. Ma sia in tribunale che in appello non siamo stati creduti. Ci sono serviti 17 anni”.

Padovano venne condannato in primo grado a 8 anni e 8 mesi di reclusione, in secondo grado a 6 anni e 8 mesi. A gennaio 2021 la Cassazione aveva annullato la condanna a sei anni e otto mesi e rinviato gli atti a Torino per un nuovo giudizio d’appello. Era stato il gancio cui si era aggrappato il calciatore e su cui aveva lavorato la difesa. Ieri l’assoluzione. “Venni arrestato il 10 maggio 2006 – racconta Padovano, assistito al processo dagli avvocati Michele Galasso e Giacomo Francini -. Un arresto in flagranza, con tre macchine della polizia, nove persone, le manette ai polsi. In quel frangente sinceramente pensai di essere su ‘Scherzi a parte’. Poi col passare dei minuti mi sono reso conto che non era uno scherzo. Mi portarono prima in caserma, poi al carcere di Cuneo, dove stetti per dieci giorni in isolamento. Poi da lì mi trasferirono nel carcere di Bergamo, reparto speciale. Ci sono rimasto altri due mesi e mezzo, per un totale di tre mesi di carcere”.

Dopo il carcere gli arresti domiciliari, dopo i domiciliari l’obbligo di firma in caserma. Oggi Padovano ha 55 anni. Quella carriera da dirigente è saltata, andata in fumo. “La mia carriera è stata distrutta. All’epoca avevo molte proprietà, un lavoro che mi permetteva di essere in rampa di lancio per una carriera importante da dirigente. Ma quando ti succede una cosa del genere ti voltano tutti le spalle. Non colpevolizzo nessuno, anche se io nei confronti di un mio ex collega mi sarei comportato diversamente. È andata così, da oggi mi devo riprendere in mano ciò che mi è stato tolto con tanta forza”. Vuole ritornare e ripartire nel mondo del calcio.

Al quotidiano Padovano ha ricordato il titolo di un giornale che coinvolgeva nella vicenda anche Gianluca Vialli, l’ex Juve e Sampdoria, suo compagno di squadra, recentemente scomparso per un tumore al pancreas. “Ma vi rendete conto? Pazzesco… Provo tanta amarezza, perché era una falsità sotto tutti i punti di vista, come poi è emerso anche a livello processuale. Non c’entravo niente io, figuriamoci Vialli. Lui poi è stato uno dei pochissimi a starmi sempre vicino durante questa vicenda giudiziaria. Di Gianluca ho un ricordo meraviglioso e non c’è giorno in cui io non gli dedichi un pensiero”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Estratto dell’articolo di Maurizio Crosetti per repubblica.it il 3 Febbraio 2023.

Michi ha la faccia contenta, Michi è al circolo dove gioca a biliardo tra la fabbrica e l’autostrada. A Michi tutti adesso dicono “bravo, che bello, siamo felici, lo sapevamo che eri innocente”. Ma Michele Padovano, 56 anni, una Champions e uno scudetto con la Juventus, una carriera di attaccante fra Cosenza, Pisa, Napoli, Genoa, Reggiana, Crystal Palace, Metz e Como, ha dovuto aspettare 17 anni per non essere più guardato come un delinquente, come un trafficante di droga.

 Quanta vita c’è, dentro 17 anni?

"Tanta, troppa. Quasi tutta. E non torna indietro. Chi me la rende? Ogni mattina mi svegliavo con l’ossessione, e poi restava sempre con me: fine pena mai. È un miracolo se non impazzisci o non ti ammali di brutto".

 La arrestano il 10 maggio 2006.

"Dopo una pizza con gli amici. Mi bloccarono due volanti, gli agenti armati, pistole in pugno. Tutti in borghese. Nessuno parlava, nessuno mi spiegava. La spada mi è entrata in testa in quel momento e c’è rimasta una vita".

Da campione a narcotrafficante.

"Mi portarono subito in caserma a Venaria: le foto segnaletiche, le impronte digitali. Poi mi diedero i trecento fogli dell’ordinanza: “Tieni, studia e capirai”. Ma io non capivo proprio niente. Questi sono pazzi, pensavo".

 Quale l’umiliazione peggiore?

"Con le manette ai polsi provi dolore, senti freddo e vergogna. Nella notte mi trasferirono a Cuneo sul blindato, si sta seduti dentro una specie di gabbia. Mi scappava la pipì, non volevano farmela fare. Alla fine ci fermammo in un autogrill semivuoto, c’era solo una famiglia, mi guardarono strano. La mia forza è nata lì. Dimostrerò di essere innocente, mi ripetevo, servisse anche tutta la vita. Mangiavo solo mele".

 Poi il carcere speciale di Bergamo. Cosa accadde?

"Lì ho conosciuto un fratello, Bonnie Bonera che stava dentro già da diciotto anni. Mi capì al volo. Disse: 'Tu qui non c’entri niente ma sta’ zitto, non lamentarti e non rompere i coglioni a nessuno'. La mattina, sveglia alle 6 con i manganelli che sbattono sulle sbarre, come nei film. Allenavo la squadra dei detenuti, e la domenica la partita: meraviglioso. Dalla cella vedevamo il campetto d’erba, che bello, pensavo, però era quello delle guardie. Il nostro, solo terra battuta".

 In quella cella lei ha visto la finale dei Mondiali.

"I miei amici in campo, Del Piero, Ferrara che aiutava Lippi, Cannavaro che a Napoli mi chiedeva la macchina se doveva uscire con una ragazza, e io in gabbia. Per fortuna c’era la tivù. Le guardie mi chiedevano: 'Michele, che dici, si vince?'".

 Cosa ricorda del ritorno a casa?

"Giocavo a carte. Venne un agente gridando 'liberante!', ma nessuno tra noi sapeva chi fosse anche se tutti speravamo di esserlo. Non te lo dicono prima, è una delle tante forme di violenza, per piegarti. Poi i domiciliari, nove mesi, e la prima condanna: 8 anni e 8 mesi, diventati 6 anni e otto mesi in appello. Senza la Cassazione sarei ancora dentro. Alle udienze di primo grado, uno dei giudici ogni tanto si addormentava".

(...)

 E gli amici?

"Spariti quasi tutti. Non Gianluca Presicci che giocava con me a Cosenza, non Gianluca Vialli che era meraviglioso e mi ripeteva 'Michi, non mollare un cazzo'. Il mio leader. Venne a testimoniare, provarono a tirare dentro pure lui. Padovano, Vialli e la cocaina: ma quando?".

 È vero che ha perso tutto?

"Sì. Ho dovuto vendere quello che avevo, 17 anni sono lunghi. Mi sono reinventato, prima ho preso un bar, poi un parco giochi per bambini ma il Covid ci ha fregato. Quando mi arrestarono avevo 38 anni, ero un dirigente del calcio. Ora vorrei che attraverso il lavoro mi venisse restituito un po’ di quello che ho perduto. Sono un uomo di campo e vorrei ricominciare da lì, va bene anche come magazziniere".

Avrà pur chiesto aiuto a qualche vecchio amico, no?

"Soltanto porte chiuse: spariti tutti. Negli sguardi degli altri vedevo il pregiudizio, il sospetto, pensavano fossi Pablo Escobar e non un errore giudiziario".

 Il suo, forse, è stato non rinnegare un amico.

"Si chiama Luca Mosole, siamo cresciuti insieme. Faceva cose con le quali non c’entravo: lo intercettarono e conclusero che ci fossi di mezzo anch’io. Ma gli avevo solo prestato dei soldi per comprare cavalli: l’ho dimostrato".

(...)

Gianfranco Zigoni.

Gianfranco Zigoni: «Whisky e fughe dal campo, mai pentito di nulla. Ho ubbidito solo ad Agnelli». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 25 gennaio 2023.

Il George Best italiano, ex calciatore di Juventus, Roma e Verona: «Mi credevo più forte di Pelé, poi ci ho giocato contro. Amavo il Che, però i soldi non mi dispiacevano»

«Pronto, Zigoni?».

«Dimmi dai, chi sei?».

Due parole ed è già lui, Gianfranco Zigoni, il geniaccio ribelle del calcio italiano. L’avevamo lasciato capellone nell’album dei calciatori Panini degli anni Settanta. Lo ritroviamo al telefono mezzo secolo dopo, burbero e simpatico settantottenne che ci concede un incontro solo dopo una certa insistenza.

«Ma t’avverto, se vieni stai al freddo... non prima delle dieci che dormo».

Appuntamento al Bronx, così Zigoni chiama il quartiere Marconi di Oderzo esagerando un po’. Qui è nato e cresciuto e qui è tornato dopo aver girato l’Italia con le maglie di Juventus, Genoa, Roma, Brescia e, soprattutto, Verona. Capello lungo e bianco, montgomery, camicia variopinta, scarpe da ginnastica, prima di stringerti la mano Zigoni ti osserva e prende la mira: «Mah, seguimi». Ferma l’Opel Meriva duecento metri più in là, davanti a una casetta. È il circolo della Compagnia Opitergina, una stanza dove tutto parla della sua vita: sciarpe e striscioni del Verona, lui e i sette fratelli, lui e Claudio Chiappucci... la tessera di Rifondazione comunista, falci e martelli, un primo piano del Che, una foto di Padre Pio...

E la statuetta di Mussolini?

«Quella l’ha messa il presidente, lui la vede così, amen».

Zigoni cammina avanti e indietro perché fa davvero freddo, come promesso. «Non so accendere ’sto c... di caminetto... fame e domande dai ». La lingua è il dialetto, fra silenzi, smorfie, mugugni. Ai tempi della serie A lui era Zigo il talento, Zigo l’anarchico, il matto, il George Best italiano, Zigo che beve e fuma, che dribbla segna e se ne va, che mette la pelliccia in panchina e rifiuta la nazionale.

«Eh — dicevano — se Zigo avesse avuto testa sarebbe stato meglio di Pelé». Pentito di qualcosa?

«Nemmeno di essermi tagliato i capelli quando sono andato alla Juve perché ero troppo giovane per dire di no ad Agnelli. Mi dà fastidio chi dice “se avesse avuto un’altra testa”. Non ha senso. Io ho questa testa e questo sono, nel bene e nel male. Magari non ho avuto molta passione ma sono stato sempre me stesso, felice di esserlo. Per me il calcio è divertimento, è il patronato dove scartavo tutti. Ero più forte di Pelé... Non ridere! Avevo 12 anni e giocavo con quelli di 16, da solo contro cinque, dieci. Me divertie. Adesso non me ne frega più niente».

Gianfranco Zigoni, espulso in un Milan-Verona, ha una crisi di nervi: lo trattiene il massaggiatore Mario Tasson , mentre il compagno Maddè lo minaccia

Perché?

«Vedo pochi giocatori e molti calciatori, gente che calcia la palla e basta. Oggi gioca solo l’allenatore, tattica, ma che due maroni, in campo si passano la palla di piatto e spesso la danno indietro. Io giocavo con l’esterno, li prendevo tutti per il culo, altra storia. Questi se escono prendono a calci le panchine. Par mi iera el contrario».

In che senso?

«Io volevo uscire, perché magari non avevo più voglia o per far entrare un compagno che così si beccava il premio pieno, ma Valcareggi mi teneva dentro».

E l’abbandono del campo in un Verona-Vicenza?

«Mancava mezz’ora alla fine, eravamo sull’1-1, lo stadio urlava Zigo-Zigo, finta di corpo, controfinta, serpentina e bomba sul sette di destro. Di destro! Io che il destro lo uso solo per salire sul tram. Ho pensato qui c’è di mezzo Dio, per me è abbastanza, saluti».

Non segue più il calcio?

«No, solo la Juve Stabia dove gioca mio figlio, attaccante, forte».

Zigoni va a prendere qualcosa da bere, ti aspetti che torni con un vinello: succo di mela e sfogliatine.

È uno scherzo?

«Quando giocavo e non potevo, bevevo whisky e fumavo, anche 40 sigarette al giorno. E adesso che potrei non bevo e non fumo. Non m’interessa. Ogni tanto un bicchiere, quando vengono gli amici, Mauro Corona, Renato Faloppa, Renica, Briaschi, quelli di Verona che passano a trovarmi. Questo è un posto magico, il Bronx era magico, guarda quella foto: i fea la sagra, la cuccagna, bellissima, io giravo con la fionda».

Dal Bronx alla Juventus in un paio d’anni, come andò?

«Sono passato prima per il Patronato Turroni, qui dietro, dopo andiamo. Don Pietro è andato da mia madre a chiederle di farmi tentare il provino con il Pordenone, che era collegato alla Juventus. Lei l’ha avvertito: don, guarda che è matto Gianfranco. Ma la convinse e così a 14 anni feci il provino e mi presero subito. Ma non ero felice lì, quattro allenamenti a settimana, orari. L’anno dopo ero a Torino. Dura lasciare Oderzo, mia mamma, mio papà, gli amici».

Una convocazione in nazionale e il gran rifiuto per fastidio, cioè?

«Perché non mi facevano giocare e perché non avevo un grande attaccamento alla nazionale, per me il mondo è libero, cosa sono queste nazionali? Bianchi, rossi, neri, verdi, non c’è differenza».

Zigoni batte Albertosi e segna il primo gol del Verona nella partita Verona-Milan 2-2 del 25 aprile 1976 (Ansa)

Perché Padre Pio e il Che uno a fianco all’altro?

«Due esempi di uguaglianza e giustizia. Padre Pio ha salvato mia mamma quando era praticamente morta, il Che ha scritto i Diari della motocicletta, mitico. Io però non sono mai stato davvero comunista perché i soldi non mi hanno mai fatto schifo, anche se adesso vivo con poco».

Problemi economici?

«No, ho una pensioncina, un negozietto che do in affitto. Mi accontento, io arrivo dal Bronx, uhè. Una volta avevo la Porsche azzurra, adesso non la vorrei neanche regalata».

Che fa oggi Zigoni?

«Che domanda del c... Quien sabe, chi lo sa. Ogni giorno è diverso, amo l’ozio e adoro moglie, figli e nipoti».

Si va al campo del patronato. «Ciao Zigo». «Zigo, ricordati...». «Quando vieni, Zigo?». A Oderzo, dove si era messo ad allenare i bambini, è un mito. Esiste pure una squadra che porta il suo nome, il Zigoni Oderzo, seconda categoria, dove lui giocò la sua ultima partita a 43 anni, 4 reti.

Pelé, Mihajlovic, Vialli, anno nero.

«Con Pelé ho giocato un’amichevole Roma-Santos. Io ero convinto di essere più forte di lui, anche perché l’aveva detto Trapattoni dopo il 3-1 di Genoa-Milan, tripletta mia. Ho pensato oggi il mondo capirà che Zigo-gol è più forte di Pelé. Poi lo vedo dal vivo e mi prende un colpo: madonna che giocatore, mi è venuta la depressione...Vialli e Miha, troppo giovani».

L’addio al calcio in silenzio, come mai?

«Con il grande Gigi Simoni avevamo riportato in A il Brescia ma io avevo le scatole piene, zero stimoli. A dire la verità non li ho mai avuti. Ho fatto la valigia e sono tornato finalmente a casa senza dire niente a nessuno. Mi sto ben qua... e adesso basta che non ho più voglia, saluti».

Mark Iuliano.

Mark Iuliano compie 50 anni, che fine ha fatto: il rigore su Ronaldo, la cocaina, aggredì un arbitro da allenatore. Simone Golia su Il Corriere della Sera sabato 12 agosto 2023.

L’ex difensore di Juventus e Nazionale, Mark Iuliano, compie oggi 50 anni. Ha vinto tanto (e perso altrettanto), con il ricordo perenne del contatto con Ronaldo nel famoso Juve-Inter del 26 aprile 1998

Calciatore, allenatore e ora... giocatore di Padel

Mark Iuliano, ex difensore con oltre 200 presenze in serie A e vicecampione d’Europa con la Nazionale nel 2000, compie oggi 50 anni. Dall’esordio in B con la Salernitana nel ‘91 all’esperienza nella prima categoria lombarda con il San Genesio nel 2010, poi il ritiro ormai 38enne. Nel mezzo nove stagioni con la Juventus e il celebre episodio che lo ha visto protagonista nel ‘98 con Ronaldo. Si è concesso una seconda vita nel calcio da allenatore, dal Pavia al Partizani Tirana passando per il Latina. Infine la parentesi da vice di Tudor a Udine nel 2018, dopo la quale non gli sono state concesse altre possibilità. Ora è un grande appassionato di Padel ed è una presenza fissa sui campi insieme agli ex compagni.

Le tre retrocessioni e la Juve

Gli inizi da calciatore non sono incoraggianti. Il giovane Iuliano ci sa fare, ma si trova sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato, tanto da mettere insieme ben tre retrocessioni dalla B alla C, prima con la Salernitana e poi con Bologna e Monza. Dal ‘94 al ‘96 gioca altri due anni con i campani, con Delio Rossi che ne fa il pilastro della difesa. Un atto di fiducia che gli svolta la carriera, tanto da guadagnarsi la chiamata della Juventus, in piena rivoluzione dopo la finale di Champions vinta a Roma contro l’Ajax. In bianconero Mark vincerà quattro scudetti, tre Supercoppe italiane, un Mondiale per club, un Intertoto e una Supercoppa europea. L’episodio più celebre è ovviamente il contatto con Ronaldo nel campionato 97/98, ancora oggi condito da feroci polemiche, aneddoti e retroscena (come il pugno di Pagliuca, allora portiere dell’Inter, ai danni dell’arbitro Ceccarini).

Il fallo su Ronaldo

Il 23 maggio 1997 realizza, a Bergamo, la rete del definitivo 1-1 contro l’Atalanta, che regalerà alla Juventus la certezza matematica del 24° Scudetto. Quasi un anno dopo, il 26 aprile del ‘98, la Juve batte di misura l’Inter (1-0) nel big match che di fatto permette ai bianconeri di mettere le mani sul tricolore. La partita però passerà alla storia per il contrasto fra Iuliano e Ronaldo, con i nerazzurri che al 25’ della ripresa reclamano il rigore salvo poi vedersene fischiare uno contro nell’azione immediatamente successiva per l’intervento di Taribo West su Del Piero. Subito un gran polverone, perfino il sempre pacato Gigi Simoni non riuscì a trattenersi e le immagini della sua rabbia sono diventate immortali, proprio come le polemiche: «Il fallo fu di Ronaldo, sbagliai a non fischiare punizione per la Juve», spiegò ad anni di distanza l’allora arbitro Ceccarini. E fu di nuovo caos: «Quell’episodio mi ha reso immortale», la sincerità di Iuliano.

Le sconfitte

Ha vinto tanto Mark Iuliano, ma perso altrettanto. Uno scudetto sfumato all’ultima giornata sotto il diluvio di Perugia (14 maggio 2000, a fare festa fu la Lazio), tre finali di Champions perse, contro il Borussia Dortmund (1997), il Real Madrid (1998) e il Milan (2003). Infine l’Europeo del 2000, sfumato a causa del golden gol di Trezeguet nella finalissima contro la Francia: «Non ho mai pianto — rivendicò con orgoglio — a Torino ho vinto imparando anche a perdere».

Amico di Zidane

Fra i suoi compagni di squadra, sia alla Juve sia in Nazionale, tantissimi campioni. Da Del Piero a Inzaghi, da Nedved a Trezeguet e Buffon. Senza dimenticarsi di Zinedine Zidane, con cui ha condiviso lo spogliatoio dal 1996 al 2001. Un’intesa forte più fuori che dentro al campo: «Un grande uomo ancora prima che un giocatore unico», le parole che spesso l’ex difensore ha riservato al francese. Una volta, tornati all’aeroporto dopo una cocente eliminazione europea in quel di Atene, Zidane viene insultato da alcuni tifosi, imbestialiti per le immagini del giorno prima che, squalificato, lo avevano ripreso sorridente al telefono malgrado la sconfitta: «Ci buttammo come un branco a difenderlo. Ci volevamo tutti bene», il ricordo di Iuliano.

La cocaina

Nell’estate del 2008, qualche mese dopo il trasferimento al Ravenna, Iuliano viene trovato positivo al benzoilecgonina, un metabolita della cocaina, in seguito a un test antidoping eseguito dopo un derby contro il Cesena. Da lì la condanna a due anni di squalifica e il ritorno nel 2010 nella prima categoria lombarda con la maglia del San Genesio. Un errore dipeso dall’angoscia per la fine sempre più imminente della carriera e da alcune tensioni di troppo con dei parenti: «Mia moglie, straordinaria, e la mia famiglia mi hanno salvato».

La squalifica

A quel punto Iuliano ha cercato di crearsi una seconda vita nel mondo del calcio, non più come calciatore ma come allenatore. Inizia a farsi le ossa allenando gli Allievi nazionali del Pavia e torna agli onori della cronaca nel 2013 in occasione di una pesante sconfitta (6-1) contro il Novara per aver aggredito l’arbitro negli spogliatoi, quindi una nuova squalifica di sei mesi: «Mark può avere tanti difetti tranne quello di essere violento. Per tutta la sua carriera ho cercato di spingerlo a essere meno timido. È incapace di un minimo gesto di violenza», scrive il padre sdegnato su Facebook. Secondo le ricostruzioni, Iuliano avrebbe reagito alle offese razziste rivolte dall’arbitro a un suo calciatore.

Moreno Torricelli.

Moreno Torricelli compie 53 anni: la falegnameria, il soprannome Geppetto, il dramma della moglie e la nuova vita in Val d’Aosta. Pierfrancesco Catucci su Il Corriere della Sera il 23 Gennaio 2023.

Ex terzino di Juventus e Nazionale, con la maglia bianconera ha vinto la Champions League del 1996 e la successiva Intercontinentale, ma anche tre scudetti

Un comprimario d’eccellenza

Moreno Torricelli, chi era costui? Una domanda che non va fatta al tifoso juventino, consapevole che, pur non essendo un calciatore dalla tecnica sopraffina, ha sempre apprezzato di lui la determinazione e l’abnegazione. Moreno Torricelli era uno di quei terzini che hanno dato sempre tutto alla maglia bianconera. Nato il 23 gennaio 1970 (auguri) Moreno ha avuto la fortuna di vestire la casacca della Juventus in uno dei momenti storicamente migliori della Vecchia Signora, tanto da poter vantare una bacheca ricchissima di trofei, a cominciare dalla Champions League vinta nel 1996 (l’ultima dei bianconeri), oltre alla successiva coppa Intercontinentale, la coppa Uefa vinta qualche stagione prima, tre scudetti, eccetera. Moreno Torricelli oggi compie 53 anni.

Il falegname «Geppetto»

Quella di Moreno Torricelli è la storia di un ragazzo della provincia lombarda ritrovatosi d’un tratto sul tetto d’Europa. Giocava in difesa in squadre dilettantistiche nel tempo libero. Per vivere, invece, lavorava in un mobilificio. Faceva il magazziniere e il falegname, hobby che ha conservato anche dopo aver lasciato il calcio, ragion per cui Roberto Baggio lo soprannominò «Geppetto», nomignolo che si è portato dietro per tutta la carriera.

Dalla D alla A in un attimo

Il suo passaggio dai dilettanti ai professionisti nel 1992 fu improvviso. Merito di Giovanni Trapattoni (che allenava i bianconeri) e Claudio Gentile che, appese le scarpe al chiodo, era tornato da collaboratore nel club con cui aveva giocato per oltre un decennio. I due lo apprezzarono in occasione di una partita amichevole contro la Caratese, in cui Torricelli faceva il terzino, e gli proposero di trasferirsi a Torino.

Da 1,2 a 80 milioni (di lire)

Ad attendere Torricelli per la firma del contratto, l’allora amministratore delegato della Juve Giampiero Boniperti. Un incontro raccontato dallo stesso ex calciatore in un’intervista: «Andai da Boniperti con i miei due procuratori. Lui uscì dall’ufficio e disse: “Buongiorno Moreno, vieni con me. Voi potete aspettare fuori, grazie”. Non gli piacevano i procuratori. Dentro, c’erano le sue scarpe, i trofei, i palloni in cuoio: che emozione. Mi diede uno stipendio di 80 milioni di lire. Per me, che come falegname ne guadagnavo un milione e 200 mila al mese, era un’enormità».

Il primo stipendio

Con il primo stipendio il terzino compra una Lancia Thema e una cassetta dei Black Sabbath, anche perché nel frattempo gli avevano rubato la sua vecchia Bmw di seconda mano acquistata qualche anno prima.

Trapattoni come un padre

«Al Trap devo tutto. Ha avuto il coraggio di lanciare un dilettante. E all’inizio la sua umanità è stata fondamentale. Aveva l’età di mio padre, era brianzolo, mi son trovato subito a mio agio. Mi parlava in dialetto, mi chiamava legnamè (falegname in dialetto). Quando finiva l’allenamento mi teneva a migliorare il sinistro perché avevo una zappa al posto del piede. Ma lo faceva anche con altri, con Conte per esempio».

Il dramma della moglie

Dopo la Juventus e la Fiorentina, Torricelli va per due anni all’Espanyol, prima di rientrare in Italia all’Arezzo, dove conclude la carriera nel 2005. Comincia ad allenare, ma nel 2010 la sua vita arriva a una drammatica svolta. La moglie Barbara si ammala di leucemia e muore dopo poco tempo a 40 anni. Lui decide di lasciare il calcio e dedicarsi in tutto e per tutto ai tre figli Arianna, Alessio e Aurora. «Ho deciso di smettere col calcio —ha raccontato — da quando una malattia ha portato via mia moglie e io sono rimasto a casa per seguire i ragazzi nella loro crescita. Abitavamo in una villetta in collina a Firenze, da quando avevo iniziato ad allenare. L’ho conosciuta che eravamo giovanissimi, frequentavamo gli stessi amici e gli stessi posti. Lei ha lottato con tutte le sue forze fino all’ultimo giorno. Da quando Barbara ci ha lasciati la mia vita non è stata più la stessa».

In Valle d’Aosta

Qualche anno più tardi Torricelli decide di trasferirsi con i figli in Valle d’Aosta, nel piccolo comune di Lillianes, terra d’origine della sua seconda moglie. Lì è tornato a occuparsi di calcio e a seguire i settori giovanili di un piccolo club locale.

I corsi di formazione

Negli ultimi anni, Torricelli ha cominciato anche a raccontare la sua esperienza in occasione di seminari e corsi di formazione organizzati dalle aziende e dalle scuole.

Roberto Baggio.

Roberto Baggio: «La gente mi amava, ecco perché davo fastidio a tanti allenatori. Non riesco a liberarmi di quel rigore contro il Brasile». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 2 dicembre 2023.

«A 18 anni mi esplose un ginocchio, la sofferenza non mi ha mai abbandonato. Negli Usa volevo vendicare Riva, dopo il rigore avrei voluto avere un badile per sotterrarmi. Boninsegna mi ha regalato una sua maglia, che emozione: le mie le ho scambiate quasi tutte, sono stato un pirla»

Roberto Baggio, è difficile essere un numero 10?

«Sì, lo è sempre stato. Era già complicato ai miei tempi. Eravamo sempre discussi. Zola, ad esempio, per giocare è andato a Londra. Ora ce ne sono di meno, sono un genere in via di estinzione. Bisognerebbe stare dentro il mondo del calcio di oggi per capire le ragioni di questa eclissi della fantasia. Io non ci sono. So solo che per me quel numero corrispondeva al desiderio di fare le giocate, di inventare, di sentirsi liberi».

Tu hai sofferto di questo processo?

«Quando giocavo in nazionale sono uscito dal mondiale e non mi hanno più convocato. Sembrava che il calcio non avesse più bisogno di fantasia, che considerasse l’estro un reato. Tutto era finito in mano alla tattica. Le partite non le vincevano più i giocatori, le vincevano gli allenatori».

Chi sono stati i tuoi modelli?

«Sentimentalmente Paolo Rossi. Lui giocava a Vicenza, la mia città. E io andavo in bicicletta con mio padre a vederlo. Ed era sempre uno spettacolo. Dal punto di vista del gioco mi innamorai di Zico. Lo sognavo di notte».

Quante volte gli allenatori ti hanno gridato «Torna!»?

«Qualche volta è successo, ma io facevo finta di non avere sentito. Lo facevo, ma per aiutare i miei compagni, non per astrusi dettati tattici».

La tua vita calcistica, quindi la tua vita da ragazzo, è stata dominata non solo dal tuo talento ma dal dolore che hai conosciuto…

«Sono stati tanti. Quello fisico, conosciuto all’inizio della mia carriera, poteva davvero costarmi caro. La sofferenza era terribile ma ho imparato a conviverci, solo in quei momenti rimetti a posto le gerarchie della vita e ne capisci il senso profondo».

Ti ricordi quel giorno? Era il 5 maggio, data inquietante, del 1985.

«Fu un incidente stupido, avevo appena fatto gol, mi sono buttato in scivolata per un contrasto, ho toccato la palla ma quando mi sono rialzato era come se mi fosse scoppiato un ginocchio. Un dolore impensabile. Ci sono voluti due anni per tornare a giocare. Ma mi ha segnato per la vita. È stato un compagno fedele, non mi ha mai lasciato».

Facesti in Francia un’operazione chirurgica molto difficile.

«Quando mi sono svegliato dall’anestesia e ho visto come era ridotta la gamba mi sono sentito svenire. Mi hanno tolto il muscolo vasto mediale, quello che sostiene ginocchio e gamba, ed era come se mi avessero tagliato i muscoli e ridotto la gamba. Il mio braccio era più grande della mia gamba. Avevano fatto un buco nella tibia, con il trapano, allora unico modo in cui si poteva attraversare il muscolo. Per fissarlo nella parte esterna mi misero 220 punti di sutura con le graffette di ferro. Io non potevo prendere gli antinfiammatori perché ero allergico. Se dormivo non sentivo dolore, ma da sveglio era una tortura, avevo dentro qualcosa di incandescente. Piangevo tutto il giorno, non mangiavo. Ho perso dodici chili. Quando mi svegliai e vidi la mia gamba in quello stato dissi a mia madre che, se mi voleva bene, doveva ammazzarmi».

Ti ha perseguitato a lungo?

«Ho faticato tanto a rimettermi in piedi e a trovare la forza per ripartire. Quando stai male ti può picchiare anche un bambino. Se ti senti meglio tutto torna ad essere possibile, anche giocare al calcio con quella gamba maciullata. La passione mi ha fatto soffrire per soddisfare il mio sogno di bambino».

Quante volte, poi, hai giocato senza sentire dolore?

«Poche, davvero poche. Ho avuto sei operazioni al ginocchio nella mia carriera, non mi sono fatto mancare nulla. A Brescia la mattina mi svegliavo chiedendomi quale dei due mi avrebbe fatto meno male quel giorno. È stata dura, davvero. Ma ne è valsa la pena, eccome. E forse nel mio modo di giocare c’era il segno di quella fatica. E anche il fatto che oggi sia così sereno, a posto con la mia coscienza e il mio passato, felice di quello che provo, forse ha le sue radici nella sofferenza e nella lotta per vincerla».

Quante botte hai preso, con il modo che avevi di saltare facilmente l’avversario?

«Noi attaccanti o giocatori di fantasia non eravamo protetti. Ora, se ti prendono per la maglia il difensore è ammonito. Per noi l’entrata da dietro era punibile a discrezione dell’arbitro. Una follia. Guarda la punizione. Oggi la barriera è a nove metri e quindici, persino con la schiuma per terra. Quando battevamo noi stava a sei metri, poi venivano avanti e saltavano pure. È cambiato, giustamente».

Qual è la partita che vorresti rigiocare?

«La finale dei mondiali del 1994 a Pasadena, Italia-Brasile. Non la posso dimenticare. Quella sì vorrei rigiocarla. Siamo arrivati un po’ cotti, avevamo fatto i supplementari con la Nigeria e mezz’ora in più, a quelle temperature, ti stronca. Se fossimo stati più lucidi forse sarebbe stata un’altra partita».

Cosa hai fatto dopo aver sbagliato quel maledetto rigore?

«Cercavo un badile, mi volevo sotterrare, cazzo. Mamma mia, mamma mia. Non si possono cancellare cose così. Quella partita, proprio Italia-Brasile, l’avevo sognata e immaginata tante volte quando ero bambino. Avevo tre anni ma la sconfitta del 1970 non riuscivo a dimenticarla. Volevo vendicare Riva e gli altri. Era il mio sogno, davvero. E quando è finita così mi è crollato il mondo addosso».

Sempre ai mondiali, ma a quelli del ’90 e del ’98 tu facesti due tiri meravigliosi contro Argentina e Francia che, se non fossero andati fuori di poco, avrebbero cambiato la storia azzurra. Quelli sono io a non dimenticarli...

«Non sono stato fortunato. Ho fatto tre mondiali in cui sono uscito sempre per i calci di rigore. Il tiro con la Francia, se fosse entrato, ci avrebbe portato in semifinale con la Croazia, allora c’era ancora il golden goal. Fu un’azione bellissima, un lancio di Albertini, ma io sbagliai a colpire al volo, volevo anticipare Barthez che mi stava venendo addosso ma lui ha fatto un passo in avanti e poi si è fermato. Se avessi aspettato che rimbalzasse, poi potevo metterla dove volevo».

Cos’è il gol per te? E ne ricordi uno con particolare piacere?

«Quello con la Nigeria. È stato molto importante. Ma, credimi, a me piace segnare. Ma mi piace ancora di più far segnare, condividere con altri la gioia di un lavoro comune».

Come hai vissuto il fatto che per due volte non abbiamo giocato ai mondiali?

«Una sensazione strana, alla quale non siamo abituati. Però a me sembra assurdo che una nazionale che ha vinto gli europei non sia ai mondiali di diritto. Avevamo vinto a Wembley, mica poco. Ora spero. Noi italiani siamo fatti così. Se ci attaccano, se ci mettono in discussione, diamo il meglio. Così fu nel 1982, nel 2006 e anche nel 1994. Abbiamo un orgoglio invidiabile. Non solo nel calcio, in tutti gli sport».

Quante delle tue magliette hai tenuto? E se dovessi sceglierne una per andare a dormire?

«Molte, ma sono stato anche un pirla, ho dato via un sacco di roba nei cambi di maglia. Pensa che sono andato a cena con Boninsegna, gli ho chiesto una delle sue maglie. Lui ne ha tenute molto poche. Però mi ha regalato la sua, roba da brividi, e io gli ho dato una mia del mondiale. Ecco, la maglia azzurra è quella che preferisco su tutte. Quella del ’70 e tutte le altre, di sempre».

I primi ricordi legati al calcio?

«Potessi, pagherei per tornare a giocare contro il muro della mia casa da bambino con il portone di ferro di mio padre con i vetri. Ogni tanto li spaccavo e dovevo essere più veloce io a prendere il pallone che lui a prendere me».

Quale era il lavoro di tuo padre?

«Lui realizzava serramenta in alluminio. Era un genio, sapeva fare tutto. Era nato per lavorare, aveva una passione infinita. Erano gli uomini di una volta. Come tutti quelli della sua generazione, che hanno ritirato su il Paese dopo la guerra. Lo hanno fatto con il lavoro, non con i cellulari».

La guerra.

«A cosa porta la guerra? Se sapessero la legge di causa ed effetto, che tutto, in questa vita o nella prossima, torna, qualche riflessione la farebbero. Ci sono troppi interessi e troppo io, in giro».

Perché tu, Del Piero, Totti, Maldini, non siete attivi nel mondo del calcio? Non è strano?

«Mah, io sono sempre stato in giro, sempre via, viaggi, ritiri, partite. Poi ti rendi conto che la vita ti sfugge di mano, che il tempo vola. Arrivi a una certa età e cominci a fare i conti con il tempo. Io, non voglio parlare per altri, voglio vivere questi anni in modo semplice, facendo cose semplici, godendo le mie passioni con la mia famiglia, i miei amici. E rispettando il mondo del calcio, che mi ha dato tantissimo.

Tu però ci hai provato con la Figc qualche anno fa...

«Sì, sono stato due anni al settore tecnico. Ma contavo meno del due di coppe quando regna bastoni. Avevo fatto un progetto per i giovani, ma le mie idee e le loro non combaciavano. Ne ho preso atto».

Tu non sei andato molto d’accordo con gli allenatori, vero?

«Io sono sempre stato scomodo. Quando giocavo ho incontrato la fase della tattica esasperata. Chi aveva il mio ruolo non rientrava negli schemi di moda. Ormai schieravano tutti il 4-4-2 e noi eravamo qualcosa che stonava. Poi se segnavamo dicevano che aveva vinto la squadra di Baggio, di Zola, di Mancini e gli allenatori soffrivano. Se oscuri gli altri, se entri in conflitto con gli ego, diventa tutto più difficile.…»

Qual è l’allenatore a cui sei più legato?

«Io sono grato a tutti, da tutti ho imparato qualcosa. A cominciare dal mio primo, che di mestiere faceva il fornaio a Caldogno. Ma se tu ti nascondi o parli male di me perché ti oscuro, allora non possiamo andare d’accordo. Questo era il problema. Io ero pesante. Per questo non facevo interviste, non volevo apparire. La gente mi voleva bene, avevo grandi attenzioni e questo dava fastidio a molti».

C’è qualcuno dei tuoi compagni che non ci sono più con i quali, se potessi, vorresti stare a cena una volta?

«Tanti: Paolo Rossi, Gaetano Scirea, Luca Vialli. E Vittorio Mero, mio compagno di squadra, morto a 27 anni per un incidente d’auto. Li vorrei a cena tutti insieme. Però pago io…».

E se invece incontrassi Roberto Baggio bambino, che consiglio gli daresti?

«Di essere meno buono. Io, se tornassi indietro rifarei tutto quello che ho fatto. Credo di aver attraversato la mia vita con umiltà e coerenza. Per questo ho pagato dei dazi, ma va bene così. Qualche volta, per bontà o quieto vivere, ho seguito i consigli di altri e non le mie sensazioni».

Tu a me sei sempre sembrato un eroe malinconico o, se preferisci, poetico…

«Ho sempre rispettato gli altri. Me lo hanno insegnato i miei. Quando giocavo non ero estroverso. Non mi sono mai esaltato, viaggiavo sempre ad altezza della terra. Tendevo a chiudermi, ero molto sensibile. Forse pesava quell’incidente. A diciotto anni ti sei rovinato la vita e tutti ti dicono che non ce la farai, che non giocherai mai più… E tu non sai e non vuoi fare altro nella vita».

C’è un errore, nella tua vita, che non rifaresti?

«Sì, c’è. Il rigore di Pasadena. Non riesco a liberarmene».

Roberto Baggio e quel dipinto contro la Juventus. Il primo aprile del 2001, con la maglia del Brescia, il divin codino gratta via le speranze scudetto dei bianconeri con una segnatura incantevole. Paolo Lazzari il 24 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Carletto scava un solco lungo la linea laterale, meditabondo. I suoi stanno sotto, ma comunque la Juve non è riuscita a dilagare. Solo che adesso la partita è praticamente finita. Il Brescia continua a contendere palloni in mezzo al campo, ma i bianconeri sono assetati: sanno che soltanto vincendo si resta in scia alla formidabile Roma di Capello.

Per rimetterla in pari servirebbe un mezzo miracolo. Una di quelle provvidenziali botte del destino che poi, in realtà, mica nascono del tutto dal caso fortuito. Perché per riuscire a fare certe cose occorre prima pensarle, ma non è che basti socchiudere le palpebre. Il giochino non viene giù naturale a tutti. Deve essere inciso nel tuo corredo genetico. Che poi, impudentemente applicato al calcio, il concetto fa tutta la differenza possibile tra un onesto pedatore ed un inafferrabile fuoriclasse.

Certo, la vecchia dama che arranca dietro la lupa ne ha diversi sparsi per il campo. Quelli del Brescia, invece, sono anelli infilati alle dita di mezza mano. Mazzone li contempla mentre fluttuano per il campo. Magari si affida anche ad un gesto apotropaico, ma sa che la fortuna da sola non basta. Devi gettare il talento nell’impasto e poi agitare con vigore. Uno è un ragazzino rientrato alla base dopo un deludente prestito all’Inter. Se foste stati lì per vedere la faccia che ha fatto quando Carletto gli ha comunicato la notizia. Dicono che sia stata una delle rarissime volte in cui il viso si è contratto in una smorfia. “Senti regazzino, io ti abbasso. Per me sei regista, non trequartista”.

Anche perché più avanti ci deve giocare un tizio con il codino sventolante. Roby Baggio è arrivato quell’estate del 2001 alle rondinelle. Giunge quando il crepuscolo della sua carriera ha già iniziato a srotolarsi. Gli anni sono trentatré. Il morale a pezzi. Il rapporto con Marcello Lippi, all’Inter, lo ha logorato. Ne è uscito con i nervi consunti e senza un contratto.

Si fanno avanti dal Giappone, dove lo idolatrano al pari dell’imperatore. Lui però vuole restare in Italia. Ci prova il Napoli, ma non se ne fa di nulla. Sta per firmare con la Reggina quando lo viene a sapere Mazzone. Corre dal suo presidente per implorarlo di formulare un’offerta, poi lo chiama personalmente al telefono. Roby ci sta: l’empatia con il tecnico è la scintilla. Firma facendosi inserire una clausola apposita. Se Carletto se ne va, può fare le valigie anche lui.

Così sono lì, in questo giorno d’aprile di oltre vent’anni fa, che si scrutano a vicenda. Baggio ha tradito le attese a causa di una caterva di problemi fisici. Però il mister lo sa che se c’è qualcuno che può piegare e dirigere altrove un fato ostinato, quello è Roberto. Quattro minuti alla fine. La Juventus già pregusta una vittoria sudata. Contrasto furioso a centrocampo. La palla schizza tra i piedi di Pirlo. Quando Andrea alza la testa vede Baggio che già scorre dietro la linea dei difensori bianconeri.

Il lancio racchiude la precisione della chirurgia robotica e la lucida sfrontatezza connaturata ai geni. Pirlo ne fabbricherà in serie da lì in poi, ma essendo ancora una creatura primordiale fa un certo effetto riguardarlo. Palla esattamente lì, dove doveva arrivare. Il vero pezzo di magia però si consuma adesso. Perché Baggio riesce a far sembrare semplice una giocata con un coefficiente di difficoltà monumentale. Sfera in caduta libera, difensori bianconeri che rinculano disperatamente, il lunghissimo e sinuoso Edwin Van der Sar in uscita. Roby fa spallucce mentalmente. Surfa sopra uno tsunami di ostacoli. Stop al volo a seguire di destro per domare un oggetto di gomma imbizzarrito, e già qui sarebbe da alzarsi e smettere di seguire la serie A per il resto della stagione. Tanto una roba più bella non risuccede.

Ma un’azione miracolosa, si diceva, è collegata ad un pensiero profondo. Con quello stop direziona il pallone per prendere il tempo al portiere olandese. Quello si getta per terra - ed è altro quasi due metri - nel tentativo di afferrare il pallone. Baggio però ne ha fatto una propaggine. Lo salta in scioltezza e deposita in rete di sinistro.

Una pennellata che sbriciola il sogno tricolore della sua ex squadra. Un gesto talmente irreale da apparire uno scherzo, considerando che è pure il 1 di aprile. Ora Carletto ha i pugni levati contro il cielo. Forse ci ha messo un po’, ma Baggio ha risposto davvero a quella telefonata. Segnerà altri sette gol prima della fine del campionato, issando il provinciale Brescia in zona Europa, a dare del tu a categorie inedite. Quella rete però resterà il frammento migliore della sua stagione. E, probabilmente, il gol manifesto di una carriera da dieci illuminato.

Gianluca Vialli.

(ANSA il 6 gennaio 2023) - Altro grave lutto per il mondo del calcio. E' morto Gianluca Vialli: a 58 anni l'ex attaccante si è spento a Londra, dopo aver combattuto contro un tumore al pancreas

(ANSA il 6 gennaio 2023) - "Quello che ha fatto per la maglia azzurra non sarà mai dimenticato". Il presidente della Figc, Gabriele Gravina ricorda così Gianluca Vialli, scomparso oggi dopo aver combattuto a lungo con la malattia. "Sono profondamente addolorato - aggiunge Gravina - ho sperato fino all'ultimo che riuscisse a compiere un altro miracolo, eppure mi conforta la certezza che quello che ha fatto per il calcio italiano e la maglia azzurra non sarà mai dimenticato. Senza giri di parole: Gianluca era una splendida persona e lascia un vuoto incolmabile, in Nazionale e in tutti coloro che ne hanno apprezzato le straordinarie qualità umane".

(ANSA il 6 gennaio 2023) - Il calcio piange Gianluca Vialli e la Figc per ricordarlo la Federazione ha disposto un minuto di raccoglimento da osservare prima di tutte le gare dei campionati di calcio in programma nel prossimo fine settimana.

(ANSA il 6 gennaio 2023) - "Ciao Gianluca": la Juventus saluta così Gianluca Vialli, scomparso all'età di 58 anni a causa di un tumore al pancreas. Sui social, il club bianconero ha voluto omaggiare l'ex bianconero postando una foto dell'ex calciatore che alza al cielo la Champions League, dopo la vittoria nella finalissima del maggio 1996 contro l'Ajax

Da ansa.it il 6 gennaio 2023.

"Sorrisi, gioie e tanti gol, questo era e resta per tutti noi Gianluca Vialli.

 Un numero 9 indimenticabile.

 Ciao campione". Così il presidente del Senato, Ignazio La Russa.

 "Una preghiera per Gianluca Vialli. Un grande campione, dentro e fuori dal campo, un grande uomo e un esempio. Ci mancherai". Lo scrive su twitter il presidente della Camera Lorenzo Fontana.

"Non dimenticheremo i tuoi i gol, le tue leggendarie rovesciate, la gioia e l'emozione che hai regalato all'intera nazione in quell'abbraccio con Mancini dopo la vittoria dell'Europeo. Ma non dimenticheremo soprattutto l'uomo. A Dio Gianluca Vialli, Re Leone in campo e nella vita". Così la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

"Un grande campione e un maestro del calcio se n'è andato. Resterà il ricordo di Gianluca Vialli". Lo scrive in un tweet il commissario Ue agli Affari Economici Paolo Gentiloni rilanciando l'immagine dell'ex attaccante che, nel 1996, sollevava con la Juventus la Coppa dei Campioni.

 "La scomparsa di Gianluca Vialli provoca grande dolore. Se ne va un grande uomo prima che un campione, che ha affrontato tutte le sfide della vita e, in particolare, la più difficile, quella contro la malattia, con coraggio, senza mai arrendersi. Un abbraccio ai suoi familiari". Lo scrive sui social il presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi.

"Che grande tristezza. È una parte di tutti noi che se ne va oggi. Classe, passione ed eleganza. Come sempre lo abbiamo ammirato". Lo scrive su Twitter il segretario del Pd Enrico Letta, dopo la scomparsa di Gianluca Vialli.

 "Che brutta, brutta notizia. Addio campione, dentro e fuori dal campo, modello di un calcio che milioni di italiani ricordano con amore e nostalgia. Buon viaggio Gianluca Vialli". Così twitta il leader della Lega, Matteo Salvini postando una foto del calciatore scomparso che bacia una coppa.

"'Non ti devi dare delle arie, devi ascoltare di più e parlare di meno, migliorare ogni giorno, devi aiutare gli altri. Secondo me questo è un po' il segreto della felicità'. Con queste parole Gianluca Vialli ha affrontato i mesi più duri della sua vita, sfidando la malattia come gli avversari sul campo, con forza, tenacia, passione. Ci lascia prodezze e gioie sportive indimenticabili, ci lascia un grande esempio fuori dal campo. Ciao Gianluca". Così il leader del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte cita su Twitter una dichiarazione del calciatore scomparso.

"La scomparsa di Gianluca Vialli è un grande dispiacere, abbiamo perso un campione vero." Lo afferma Elly Schlein in una nota.

Le reazioni alla morte di Gianluca Vialli, il cordoglio del mondo del calcio e della politica. Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.

L'ex calciatore di Samp e Juventus poi del Chelsea di cui è stato anche allenatore è morto per le conseguenze di un tumore al pancreas, aveva 58 anni

Gianluca Vialli è scomparso oggi all’età di 58 anni a causa di un tumore al pancreas

Vialli in tv parla della malattia VIDEO

Italia-Austria l’abbraccio tra Vialli e Mancini VIDEO

• Vialli, la malattia e la forza dell’esempio di Aldo Cazzullo

Ore 10:57 - Enrico Letta: «Con Vialli se ne va una parte di noi»

«Che grande tristezza. È una parte di tutti noi che se ne va oggi. Classe, passione ed eleganza. Come sempre lo abbiamo ammirato. #Vialli». Così su twitter il segretario Pd Enrico Letta

Ore 11:10 - Gravina: «Splendida persona, lascia un vuoto incolmabile»

«Sono profondamente addolorato. Ho sperato fino all'ultimo che riuscisse a compiere un altro miracolo, eppure mi conforta la certezza che quello che ha fatto per il calcio italiano e la maglia azzurra non sarà mai dimenticato. Senza giri di parole: Gianluca era una splendida persona e lascia un vuoto incolmabile, in Nazionale e in tutti coloro che ne hanno apprezzato le straordinarie qualità umane». A dirlo in una nota il presidente della Figc, Gabriele Gravina

Ore 11:13 - Il cuore spezzato della Samp

«Ciao Luca», con una foto con la maglia della Sampdoria e l'emoticon del cuore spezzato. E' il saluto a Gianluca Vialli della squadra ligure con cui vinse lo scudetto nel campionato '90-'91.

Ore 11:18 - Giuseppe Conte: «Ci lascia prodezze e gioie sportive indimenticabili»

Su Facebook è arrivato anche il messaggio di cordoglio del leader del M5S Giuseppe Conte: «"Non ti devi dare delle arie, devi ascoltare di più e parlare di meno, migliorare ogni giorno, devi aiutare gli altri. Secondo me questo è un po' il segreto della felicità". Con queste parole Gianluca Vialli ha affrontato i mesi più duri della sua vita, sfidando la malattia come gli avversari sul campo, con forza, tenacia, passione. Ci lascia prodezze e gioie sportive indimenticabili, ci lascia un grande esempio fuori dal campo. Ciao Gianluca»

Ore 11:21 - Giorgia Meloni, presidente del Consiglio: «Vialli, Re Leone in campo tutta la vita»

«Non dimenticheremo i tuoi i gol, le tue leggendarie rovesciate, la gioia e l'emozione che hai regalato all'intera Nazione in quell'abbraccio con Mancini dopo la vittoria dell'Europeo. Ma non dimenticheremo soprattutto l'uomo. A Dio Gianluca Vialli, Re Leone in campo e nella vita». Lo scrive sui social il presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni.

Ore 11:23 - Attilio Fontana: «Grande calciatore, grandissimo uomo»

«Un grande calciatore. Un grandissimo uomo. Con una dignità immensa». Così lo ricorda il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana.

Ore 11:25 - La Russa: «Vialli era un n.9 indimenticabile»

«Sorrisi, gioie e tanti gol, questo era e resta per tutti noi Gianluca Vialli. Un numero 9 indimenticabile. Ciao campione». Così il presidente del Senato, Ignazio La Russa.

Ore 11:27 - Il Chelsea: «Mancherai a tanti sei una leggenda per il calcio»

«Mancherai a tanti. Una leggenda per noi e per tutto il calcio. Riposa in pace, Gianluca Vialli». Così il Chelsea lo ricorda. L'ex calciatore, nella squadra inglese ha giocato negli ultimi anni della sua carriera e lo ha anche allenato. Il Chelsea pubblica infatti una sua bella foto con la maglia della squadra.

Ore 11:29 - Il ricordo della Juventus

«Ciao Gianluca Vialli». Così sui canali social la Juventus ricorda Gianluca Vialli, scomparso oggi a 58 anni, e pubblicando la foto della vittoria della Champions del 1996.

Ore 11:32 - Adolfo Urso: «Campione nello sport e nella vita»

«Un grande campione nello sport e nella vita. Addio Gianluca e grazie! #GianlucaVialli»: lo scrive su Twitter Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy.

Ore 12:02 - Ancelotti: «Ciao, amico mio»

« Ciao amico mio. RIP Gianluca Vialli». Lo scrive su Twitter l'attuale tecnico del Real Madrid, Carlo Ancelotti, uno dei più grandi allenatori della storia del calcio.

Ore 11:41 - Tajani: «Ciao Gianluca, riposa in pace»

«Capitano della mia Juve campione d'Europa. Ciao Gianluca, riposa in pace». Cosi' il ministro degli Esteri Antonio Tajani su Twitter, commentando la scomparsa di Gianluca Vialli.

Ore 11:50 - Casini (Lega di A): «Ci ha lasciato una lezione di vita»

«Con profondo dolore e commozione, la Lega Serie A si stringe alla famiglia di Gianluca Vialli, indiscusso protagonista del calcio italiano e mondiale». Così il presidente della Lega Serie A Lorenzo Casini ricorda Gianluca Vialli. «Gianluca ha lottato strenuamente, lasciandoci un'indimenticabile lezione di vita, e lo ricorderemo per sempre come uomo che ha affrontato a testa alta una tremenda malattia. Lui, come Sinisa, ha percorso con coraggio un sentiero difficile, fornendo un esempio che è stato di grande aiuto per tutti. Sono stati campioni in campo e fuori».

Ore 11:57 - Panatta: «Aveva sempre il sorriso»

«Un uomo di grande intelligenza, sempre con il sorriso, di grande ironia, con grande senso dell'umorismo». Cosi Adriano Panatta ricorda Gianluca Vialli. «Di lui - prosegue l'ex tennista - ricorderò per sempre quel meraviglioso abbraccio con Roberto Mancini, sul campo di Wembly, la sera della vittoria azzurra all'Eurpeo. Quello è il modo migliore».

Ore 11:59 - Cabrini: «Ha smesso di soffrire»

«C'è poco da dire, solo pregare per Luca, ha smesso di soffrire. Luca era un ragazzo a modo, che veniva dalla terra cremonese, e chi sa cosa significa sa cosa voglio dire in questo momento». Queste le parole di Antonio Cabrini, ex campione della Juventus e della Nazionale che di Vialli era molto amico.

Ore 11:33 - L'Inter: «Campione e nobile avversario»

«Un campione in campo e nella vita: Vialli è stato un nobile avversario e un esempio di coraggio. Il nostro cordoglio va alla famiglia e agli amici di Gianluca». Così l'Inter ha ricordato su Twitter Gianluca Vialli.

Ore 12:04 - Fedez: «Gianluca mi hai dato tanto»

Particolarmente toccante il ricordo del cantante Fedez che ha vissuto un'esperienza simile a quella di Vialli anche se finora con un esito più fortunato. «Non ci siamo mai conosciuti di persona - ricorda Fedez in una storia su Instagram - ma mi hai dato tanto. Con te ho pianto al telefono, pur non avendoti mai visto di persona». Fedez racconta che Vialli gli aveva dimostrato grande vicinanza e affatto durante la sua malattia, e che ne era nata una conoscenza anche se soltanto virtuale. «Avevamo in programma di incontrarci per fotografarci assieme mostrando le rispettive cicatrici, ma purtroppo non è stato possibile».

Ore 12:07 - Allegri: «Gianluca un esempio da seguire»

«Gianluca ha rappresentato tanto come giocatore e come uomo, un esempio da seguire. Mancherà sicuramente a tutti noi» ha detto l'allenatore della Juventus Massimiliano Allegri ricordandolo in conferenza stampa.

Ore 12:09 - Tardelli: «Resterai sempre nei miei pensieri e nel mio cuore»

«Ciao Luca resterai sempre nei miei pensieri e nel mio cuore come un grande e magnifico combattente... Prima sui campi di calcio e poi nella battaglia della vita! La tua coppa Europea è la vittoria del coraggio e della resilienza. Riposa in pace amico ed esempio luminoso». Così su Twitter il campione del mondo Marco Tardelli ricorda Gianluca Vialli.

Ore 12:11 - Zoff: «Una persona a modo, un uomo per bene»

«Una persona a modo, un uomo per bene. Non ho avuto un rapporto diretto da compagno di squadra ma era una persona piacevole sotto tutti gli aspetti, come calciatore è stato sempre alla grande. E' una perdita e un dispiacere notevole». Questo il ricordo di Dino Zoff prima campione e poi allenatore della Nazionale italiana e storico portiere bianconero.

Ore 12:15 - Garrone: «Se ne è andato via un amico vero»

«Se ne è andato via un amico vero. Troppo presto. Ho perfino pensato che ce la potesse fare ad accompagnare alla porta quel suo ospite indesiderato, come lui era solito definire la sua malattia, con le sue maniere gentili, ironiche e con la forza irrinunciabile degli affetti e delle passioni che lo hanno sempre ispirato. Luca?un punto di riferimento e un grande esempio di tenacia, determinazione e stile». Così l'ex presidente della Sampdoria Edoardo Garrone ricorda Vialli.

Ore 12:22 - Domenicali: «Abbiamo perso un uomo incredibile»

«Abbiamo perso un uomo incredibile con la scomparsa di Gianluca Vialli. Era un talento straordinario: gentile, premuroso e generoso con un amore per la vita. Era un amico e mi mancherà moltissimo. I nostri pensieri e le nostre preghiere sono con la sua famiglia in questo momento molto triste». Così Stefano Domenicali, presidente della F1, ricorda su Twitter Gianluca Vialli.

Ore 12:23 - Del Piero: «Sarai il mio capitano per sempre»

«Nostro capitano, mio capitano. Sempre. Ciao Luca». Alex Del Piero ricorda così Gianluca Vialli, con un post sui social e una foto che li ritrae in un momento di esultanza in campo ai tempi della Juve.

Ore 12:47 - Malagò: «Portò la bandiera olimpica ai Giochi di Torino»

«Lo sport italiano e il calcio in particolare oggi hanno perso un campione ma soprattutto un uomo tutto di un pezzo». È l'omaggio a Gianluca Vialli del presidente del Coni Giovanni Malagò, che ricorda una tra le tante immagini legate al campione scomparsa. «Quella del 26 febbraio 2006, quando Vialli, assieme ad altri illustri campioni, portò la bandiera olimpica nel corso della cerimonia di chiusura dei Giochi Invernali di Torino 2006, unico calciatore ad aver avuto questo onore» sottolinea il presidente del Coni.

Ore 12:50 - La Fifa: «Una leggenda Italiana»

«Una leggenda italiana, ci mancherai Gianluca». Con queste parole su Twitter e due foto, una da calciatore e l'altra da dirigente della Nazionale, anche la Fifa ricorda Gianluca Vialli

Ore 12:54 - Salvini: «Fu il modello di un calcio che in milioni ricordano con amore»

«Che brutta, brutta notizia. Addio campione, dentro e fuori dal campo, modello di un calcio che milioni di italiani ricordano con amore e nostalgia. Buon viaggio Gianluca Vialli». Così twitta il leader della Lega, Matteo Salvini.

Ore 13:02 - Il sindaco di Cremona: «Sarebbe bello intitolargli lo stadio»

«Intitolare lo stadio a Vialli? Dovremo sentire la famiglia e la Cremonese ma sarebbe una cosa bellissima. Sono abituato a prendere le decisioni come gioco di squadra, penso che condividerebbero. Queste cose vanno condivise perchè Vialli è un patrimonio della città». Queste le parole di Gianluca Galimberti sindaco di Cremona. «Sono convinto che rappresenti un enorme orgoglio per la città, la cosa più rilevante è la sua straordinaria umanità - afferma Galimberti ricordando l'ex attaccante di Juve e Samp, nativo di Cremona -. Abbiamo imparato da lui molto negli ultimi tempi in particolare, è venuto a Cremona diverse volte, in una occasione in particolare è stato invitato a parlare della sua storia davanti a tante persone. Ho un ricordo di quella serata in cui la sua umanità ha aiutato davvero tanti, di sicuro me, ha insegnato cos'è il coraggio e l'amore per la vita».

Ore 13:06 - Collina: «Suo discorso prima della finale degli Europei resta indimenticabile»

«E' una notizia che mi ha scioccato, la prima cosa che ho fatto è ricordare le partite che abbiamo vissuto insieme in campo tanti anni fa, quando eravamo entrambi giovani. Il ricordo è andato a quei momenti. Ho visto alcune sue foto di quegli anni ed è per me il più bel modo per ricordarlo. Credo che il suo discorso a Coverciano fatto alla Nazionale nel corso dell'Europeo poco prima della finale è qualche cosa che commuove, che ha commosso e che continuerà a commuovere tutti quanti». Così l'ex arbitro Pierluigi Collina, attuale presidente della Commissione Arbitrale della Fifa, ha ricordato Gianluca Vialli.

Ore 13:18 - Bruno Conti: «Ciao Gianluca, buon viaggio amico mio»

«Ciao Gianluca, grande esempio in campo che nella vita. Condoglianze alla famiglia, buon viaggio amico mio». Cosi Bruno Conti, campione del mondo di Spagna 1982 ed ex ala della Roma, ricorda Gianluca Vialli.

Ore 13:42 - Chiara Ferragni: «Sei stato una grande persona»

«Sei una grande persona e non smetterò mai di ringraziarti per l'energia e dolcezza che hai condiviso con Fede prima dell'operazione. Grazie per quello che hai fatto per noi e per tutti quanti»: così la cremonese Chiara Ferragni, influencer e imprenditrice ricorda il suo concittadino.

Ore 13:46 - Infantino: «Il calcio perde uno dei sorrisi più belli»

«Il calcio perde uno dei suoi sorrisi più belli e positivamente contagiosi, quello di Gianluca Vialli. Il sorriso di chi ha giocato e allenato. Il sorriso di chi ha vinto, trascinando nella propria felicità i piccoli che stavano diventando grandi, come ai tempi della Sampdoria. Il sorriso mantenuto nonostante la malattia, durante la sua ultima esperienza con la Nazionale italiana». Con questo post, su Instagram, il presidente della Fifa, Gianni Infantino, ricorda Giancluca Vialli.

Ore 13:50 - Immobile: «In ogni tua parola c'era tutto quello di cui avevo bisogno»

«Caro Luca mi sarebbe piaciuto parlare ancora una volta con te, in ogni tua parola, in ogni tuo discorso c'era tutto quello di cui avevo bisogno, come se mi conoscessi da una vita. Ma non mi stupivo di ciò perché ti osservavo e guardavo un uomo vero, gentile e sempre cortese con tutti». È questo il ricordo di Ciro Immobile attaccante della Lazio e della Nazionale.

Ore 13:55 - Insigne: «Così vero, così importante. Grazie Luca»

Così vero, così importante. Grazie Luca. Con te un periodo fantastico, un ricordo per sempre. Così Lorenzo Insigne, attaccante della Nazionale e del Toronto, ha salutato Gianluca Vialli sui social

Ore 14:00 - Alba Parietti: «Fai buon viaggio Luca, proteggi la tua famiglia»

Alba Parietti, amica trentennale di Gianluca Vialli lo ricorda così: «Caro Gianluca, questa mattina sono stata svegliata da una notizia orribile… Una notizia che toglie speranza, una notizia che atterrisce le persone che con te hanno sperato che il miracolo fosse accaduto. Perché tu di miracoli ne hai fatti tanti. Ci conosciamo da trent’anni, ci siamo sempre rispettati voluti bene siamo stati grandi amici. Oltre essere stato il grande campione che sei sempre stato il grande condottiero, la persona simpatica empatica e generosa, sei sempre stato un essere umano speciale, dolce elegante, umile. Troppo giovane Luca, troppo giovane, troppo buono troppo simpatico troppo generoso troppa ingiusta la vita. Mi stringo a tutte le persone che ti hanno voluto bene e sono davvero tante. Ricorderò per sempre la tua signorilità e la tua amicizia la tua eleganza . Fai buon viaggio e da lì proteggi la tua famiglia, le tue figlie, accompagnandole per sempre nella vita da lassù. Ciao Gianluca ci siamo voluti tanto bene»

Ore 14:09 - Gigi Buffon: «Luca, lasci un vuoto immenso»

«Non è semplice trovare le parole in questo momento. Sei stato un gigante, così in campo come nella vita. Hai lottato fino alla fine a testa alta con una dignità unica». Gigi Buffon con un ricordo personale omaggia Gianluca Vialli: lo fa postando la foto della maglia numero 9 della Samp indossata dall’attaccante scomparso oggi a 58 anni. «Questa maglia — scrive l’ex portiere della Nazionale — che mi regalasti ha un valore inestimabile e ogni volta che la guarderò non potrò che dirti grazie peer tutto quello che hai fatto. Il vuoto che lasci è immenso».

Ore 14:11 - Lippi: «Rimarrai scolpito nel nostro cuore»

«Grande Luca, grande amico, rimarrai scolpito nel nostro cuore, non ti dimenticherò mai...GRAZIE MIO CAPITANO...». Lo scrive su Instagram Marcello Lippi, ex ct della Nazionale e tecnico della Juventus che vinse, con Gianluca Vialli, la Champions League del 1996.

Ore 14:27 - Zola: «Siamo sempre stati noi stessi: due ragazzi italiani e un pallone»

«Abbiamo vinto, insieme, tante partite e condiviso alcuni dei momenti più belli delle nostre vite. Per amore del nostro pallone ci siamo qualche volta scontrati. Senza sconti ma sempre con il massimo rispetto. Perché, in fondo, siamo sempre stati noi stessi: due ragazzi italiani e un pallone. Ciao Luca, compagno di viaggio». Gianfranco Zola, campione di Napoli, Chelsea e della Nazionale ricorda così, sui social, l'ex compagno di squadra ai tempi del Chelsea, Gianluca Vialli.

Ore 14:35 - Pippo Inzaghi: «Sei stato un esempio e un idolo»

«Ciao Gianluca, sono distrutto da questa notizia. Per me sei stato un esempio oltre che un idolo. È stato un orgoglio indossare la tua 9. Riposa in pace Campione». Lo scrive su Instagram l’ex bomber di Juve e Milan Pippo Inzaghi, attuale tecnico della Reggina.

Ore 14:37 - Florenzi: «Hai conquistato il nostro cuore. Grazie di tutto»

« Non ho chiesto quasi nulla a Babbo Natale quest’anno, solamente che tu potessi rispondermi a quel messaggio ma così non è stato e non lo sarà mai. Lasci un vuoto incolmabile dentro il nostro gruppo. Il tuo esempio di come hai affrontato tutto e della forza che incredibilmente tu davi a noi ogni giorno». Lo scrive su Instagram Alessandro Florenzi, terzino del Milan e della Nazionale, ricordando Gianluca Vialli. Florenzi posta una foto che li ritrae insieme, sorridenti, con la Coppa dell’Europeo appena vinta in mano. «Insieme siamo arrivati sul tetto d’Europa ma tu hai fatto una cosa ancora più grande, sei rimasto nel cuore di tutti noi e ti assicuro, amico, che è più importante questo di ogni vittoria —aggiunge —. Ho fatto una promessa e farò di tutto per mantenerla. Quando farò la mia 50esima presenza in nazionale ti penserò. Ciao Gianlu grazie per tutti gli insegnamenti che mi hai dato e che porterò per sempre con me. Riposa in pace campione di vita».

Ore 14:44 - Christillin: «Vialli ha tracciato un solco non solo sportivo»

«Lo ricordiamo tutti con una nostalgia allegra. La Uefa sicuramente penserà a fare qualche cosa per ricordarlo». Così Evelina Christillin, membro aggiuntivo Uefa nel consiglio della Fifa, nel ricordare Gianluca Vialli. «Bello e tragicamente profetico è stato quello striscione dei tifosi grigiorossi a Cremona di due giorni fa nella sfida contro la Juventus `Vialli segna per noi´ — ha aggiunto —. É una persona che con la sua storia e personalità ha tracciato un solco che non era solo sportivo».

Ore 14:50 - Mourinho: «Gianluca siamo tristi»

Anche il tecnico della Roma José Mourinho ha voluto ricordare Gianluca Vialli, ex attaccante di Sampdoria, Juventus e Chelsea e capo delegazione della Nazionale italiana scomparso oggi all'età di 58 anni dopo una lunga malattia. Il tecnico portoghese su Instagram ha condiviso due scatti della squadra giallorossa mentre osserva un minuto di raccoglimento a Trigoria: «Siamo tristi Gianluca… RIP… Le nostre condoglianze alla famiglia».

Ore 14:52 - Beckham: «Un vero gentleman dal cuore grande»

«Un vero gentleman dal cuore grande. Ti vogliamo bene Gianluca, ciao amico mio». Anche il grande ex centrocampista dello United e della Nazionale inglese David Beckham saluta Vialli con un messaggio su Instagram: nel post la foto del giocatore scomparso di spalle con la maglia n.9 ai tempi in cui era alla Juve.

Ore 15:20 - Raspadori: «Grazie dei momenti che abbiamo trascorso insieme»

Giacomo Raspadori, attaccante del Napoli e della Nazionale: «Penso che tu non voglia che noi piangiamo, solo i bei ricordi possono alleviare il dolore, sono grato dei momenti in cui ho potuto condividere la tua presenza... Sarai sempre un esempio per tutti! È stato un onore averti conosciuto».

Ore 15:09 - Ciro Ferrara: «Come si fa a lasciarti andare via?»

Commosso ricordo anche da parte di Ciro Ferrara indimenticato campione di Napoli Juve e Nazionale che lo ricorda con questo tweet:

Come si fa a lasciarti andare via? Eri come un fratello.? 

Ore 15:05 - Berlusconi: «Ha affrontato tutte le sfide della vita senza mai arrendersi»

Appassionato ricordo anche del presidente di Forza Italia ex premier ed presidente del Milan Silvio Berlusconi: «La scomparsa di Gianluca Vialli provoca grande dolore. Se ne va un grande uomo prima che un campione, che ha affrontato tutte le sfide della vita e, in particolare, la più difficile, quella contro la malattia, con coraggio, senza mai arrendersi. Un abbraccio ai suoi familiari».

Ore 15:07 - Shevchenko: «Un campione in campo e nella vita»

«Un campione in campo e di vita. Rimarrai sempre nei nostri cuori. Riposa In Pace amico mio». Così Andryi Shevchenko ricorda Gianluca Vialli.

Ore 15:37 - Abodi: «La malattia ci aveva uniti»

«Se n'è andato un amico, non di una vita ma della vita. Con Luca c'era un rapporto di stima che è diventato umano, ancora più profondamente umano quando all'inizio del 2021 gli ho detto che eravamo diventati "colleghi". Da quel momento, regolarmente, era lui che mi mandava messaggi, anche vocali, per informarsi della mia salute e per darmi forza. Lui stava male, ma aveva pensieri buoni per me e io non avrei potuto non averli per lui. Quando, mesi dopo, gli raccontai che i medici mi avevano detto "per ora sei guarito" era felice per me e io per il suo star meglio, ovvero ancora stabile». Così in una nota il ministro per lo Sport e per i Giovani Andrea Abodi ricorda Gianluca Vialli

Ore 15:56 - Arianna Mihajlovic: «Sai quante partite lassù...»

«Sai quante partite lassù...». Arianna Mihajlovic ricorda Gianluca Vialli scomparso oggi, tre settimane dopo la morte di Sinisa: lo fa mettendo un cuore e la foto di Vialli e Mihajlovic avversari in campo, il primo con la maglia della Juve e suo marito con quella della Sampdoria. Tra i commentatori, Antonio Cabrini con l'icona delle mani giunte.

Ore 16:04 - Bonucci: «Vivrai in ognuno di noi»

«G rande, I ntelligente, A mabile, N obile, L eader, U mile, C arismatico, A mico». Leonardo Bonucci, capitano della Juventus, con un acronimo di aggettivi con le otto lettere del nome di Vialli ricorda il giocatore stroncato da un tumore a 58 anni.

Ore 16:08 - Ulivieri: «L'abbraccio con Mancini un testamento di vita»

Il presidente dell'Assoallenatori, Renzo Ulivieri, si è unito al dolore di tutto il mondo del calcio per la morte di Gianluca Vialli. «Il tempo non è stato generoso con Gianluca Vialli ma la sua vita lo è stata — ha detto —. Non è certo una bella stagione questa per noi, che continuiamo a piangere grandi campioni e uomini davvero importanti che ci lasciano a un'età ancora piena, piegati da malattie inesorabili, affrontate con coraggio e dignità. La Bella stagione, piuttosto, è il film che ha appena celebrato i 30 anni dello storico scudetto della Sampdoria, documento prezioso nato da una sua idea». E ancora: «Vialli se ne è andato nel giorno che celebra la nascita della maglia azzurra, 112 anni fa, lui che a quei colori ha legato il suo ultimo trionfo sportivo. Il suo abbraccio fraterno con Roberto Mancini sul prato di Wembley , con l'Italia appena divenuta campione d'Europa, nel luglio 2021, è il suo vero testamento ideale».

Ore 16:14 - I funerali in forma privata a Londra

I funerali di Gianluca Vialli si terranno in forma privata a Londra. Familiari e amici dall'Italia stanno raggiungendo la capitale britannica. Ancora non sono stati comunicati gli orari.

Ore 16:18 - Moglie Paolo Rossi: «Che Pablito ti accolga tra le braccia»

«Spero solo che Paolo possa accoglierti fra le sue braccia rassicuranti»: la vedova di Paolo Rossi, la giornalista perugina Federica Cappelletti, saluta così Gianluca Vialli. Lo fa con un post su Instagram dove ha pubblicato una foto dei due campioni abbracciati e sorridenti. «Ciao Luca... Anima bella!», scrive. «Nonostante la malattia e la tua battaglia per la vita — aggiunge — mi sei stato vicino da quando Pablito (così ti piaceva chiamarlo) se n'è andato. Sei stato un combattente vero... È un dolore che si rinnova».

Ore 16:36 - Il Parma: «Campione di vita, portatore di grandi valori»

«Ciao Gianluca, il Parma Calcio di vuole ricordare così, con l'immagine di te che lotti e corri dentro al campo di gioco. Per sempre. Campione di vita, in campo e fuori; campione di gentilezza, di sport e portatore di grandi valori. Il nostro Club è profondamente commosso e si unisce all'immenso dolore per la tua scomparsa». Il messaggio è stato pubblicato, poco fa, sulla pagina ufficiale del Parma Calcio.

Ore 16:46 - Schillaci: «Con te ricordi e legami che non può portare via nessuno»

«Non ci sono parole per descrivere questo momento. L’unica cosa è trovare nel tempo, ricordi e legami che non può portare via nessuno, nemmeno la morte. Non so dove tu sia ora che sei andato via, ma so per certo dove resterai per sempre. Grazie di tutto, buon viaggio compagno». Così su Instagram Totò Schillaci, capocannoniere azzurro dei Mondiali di Italia 1990, ricorda Vialli.

Ore 16:55 - Vialli sui giornali europei

La notizia della morte di Gianluca Vialli è messa in risalto da un po’ tutti i quotidiani europei. «Il mondo ha perso una leggenda» titola il Sun e di «leggenda» parlano anche il Mirror, la Bild tedesca e il foglio spagnolo As. Il Mundo Deportivo lo indica come «mito del calcio italiano». Il Daily Mail riassume l’accaduto, ricordando anche il suo passato al Chelsea, e pubblica una foto con la moglie, la modella inglese Catheryn White Cooper. I francesi dell’Equipe danno la notizia della morte e pubblicano sul sito una carrellata di immagini del campione quando era in attività, ricordando l’amicizia «eterna» con il ct Mancini fin dal tempo in cui calcavano il prato palla al piede: «l’Europa piange Gianluca Vialli», il sottotitolo.

Ore 17:03 - Dybala: «È stato un grande onore conoscerti»

«È stato un grande onore conoscerti». Paulo Dybala, attaccante campione del mondo della Roma ed ex Juventus, ricorda con queste parole, in una storia su Instagram, riprendendo il post della Lega Calcio, Gianluca Vialli.

Ore 17:22 - Zanetti: «Il tuo sorriso resterà per sempre»

« Sei stato classe, eleganza, rispetto. In campo e fuori, ogni giorno. Il tuo sorriso resterà per sempre. Riposa in pace, Gianluca». Così Javier Zanetti, vicepresidente dell'Inter, ricorda Vialli su Twitter.

Sei stato classe, eleganza, rispetto. In campo e fuori, ogni giorno. Il tuo sorriso resterá per sempre.

Ore 17:26 - Souness: «Benedetto chi ha incontrato quell'anima meravigliosa»

(Salvatore Riggio) La scomparsa di Gianluca Vialli ha toccato tutto il mondo del calcio. Graeme Souness, centrocampista scozzese, è stato compagno di squadra di Vialli ai tempi della Sampdoria, dal 1984 al 1986, e non ha trattenuto la commozione quando ha parlato dell’ex compagno ai tempi blucerchiati. «Ho sentito solo la notizia», ha detto, commuovendosi a Sky Sports. «Ho sentito la notizia solo 10 minuti fa e non posso spiegarvi quanto fosse un bravo ragazzo. Dimenticate il calcio per un minuto, era solo un’anima meravigliosa. Era un essere umano davvero piacevole. Sono andato in Italia quando avevo 32 anni e lui 20. Era fantastico essere vicino a lui». E ancora: «Le mie condoglianze vanno alla sua famiglia e a sua moglie, sono stati benedetti che le loro strade si siano incrociate. Le figlie sono state benedette ad avere un padre così, sua moglie è stata benedetta ad avere un uomo così. Non sono un dottore, ma quando l’ho visto l’anno scorso mi è sembrato di vedere un uomo che lottava ancora, quando era qui durante gli Europei vinti con l’Italia. Penso che sia stato così tipico da parte sua mantenere la vicenda molto privata, molto personale e l’ha accettata come mi sarei aspettato che facesse. Era la sua lotta, voleva affrontarla da solo, non voleva gravare su altre persone». Qui lo scozzese scoppia in lacrime. La presentatrice di Sky Sports capisce la situazione e si riprende la linea ringraziando Souness per aver reso onore in maniera così sincera al compagno e amico scomparso.

Ore 17:30 - Antonio Conte: «Ti ho detto e scritto che mi hai sempre ispirato»

«A cena insieme a Londra pochi mesi fa mentre ci divertivamo a ricordare tutte le nostre avventure e le battaglie sul campo. Purtroppo in questi ultimi anni ne hai dovuta combattere una grande e terribile di battaglia nella Vita — ricorda Antonio Conte, commosso: il tecnico del Tottenham oggi non è riuscito a parlare in conferenza stampa e si è espresso con un post su Instagram — Ti ho detto e scritto che sei sempre stato una fonte d'ispirazione per me come mio Capitano e per come ti stavi dimostrando Forte, Fiero e Coraggioso, lottando come un leone contro questa malattia. Sempre nel mio cuore Amico mio. Ciao Gianluca».

Ore 17:35 - Attilio Lombardo: «Perdo un fratello, lo voglio ricordare per il sorriso»

«Oggi ho perso un fratello. Mi chiamava "Attila", abbiamo giocato per 5 anni insieme ma poi siamo rimasti vicini tutta la vita, anche con l'ultima esperienza in Nazionale — ricorda Attilio Lombardo con la voce rotta dall'emozione in un'intervista all'agenzia LaPresse — La fortuna è stata non esserci mai persi per strada. Purtroppo Gianluca mi ha fatto lo "scherzo" più brutto che poteva farmi, proprio nel giorno del mio compleanno. Non si è mai preparati, speri sempre in qualche miracolo. Non è andata così ma Luca lo vogliamo ricordare per quello che è stato e per il suo sorriso alla presentazione del documentario sulla Sampdoria, l'ultima volta insieme a Genova. È stata quasi un'impresa quella di tornare proprio qua, forse anche un segno, il destino o non lo so, nonostante fosse già molto stanco. Qualche giorno dopo è stato ricoverato e non è mai uscito dall'ospedale».

Ore 18:12 - L’omaggio della Regione Liguria

La Regione Liguria omaggia Gianluca Vialli con una serie di immagini proiettata sul palazzo in piazza De Ferrari. Su Instagram, a corredo delle foto, il messaggio: «Ciao Gianluca, la Liguria ti vuole ricordare come il campione di sport e di vita che sei stato, con questo omaggio in Piazza De Ferrari»

Ore 18:22 - Roberto Baggio: «Nel tuo viaggio celeste porta l'amato pallone»

«È sempre difficile accettare e comprendere il mistero della vita. Soprattutto quando vieni strappato all'affetto dei cari così giovane e così presto. Caro Gianluca, auguro al tuo viaggio celeste di essere avvolto dalla luce tranquilla per il tuo eterno riposo». Roberto Baggio ricorda, con una dichiarazione all'agenzia di stampa Ansa, l'amico-rivale in campo in azzurro, e compagno anche alla Juventus. «Il mio più profondo pensiero lo rivolgo a sua moglie, ai figli, ai genitori, ai fratelli, ai cari amici. Con il tuo sorriso e l'allegria porta anche lassù il tuo amato pallone. A noi rimarrà per sempre il tuo coraggio ed il tuo prezioso esempio. Buon viaggio Gianluca»

Ore 18:27 - La Sampdoria chiede il lutto al braccio

Per rendere omaggio a Gianluca Vialli la Sampdoria ha chiesto alla Lega Calcio di poter giocare col lutto al braccio nella sfida casalinga in programma domenica alle 18.30 contro il Napoli.

Ore 18:28 - Lazio: «Un altro giorno triste per il mondo del calcio»

«È un altro giorno triste per il mondo del calcio. Il presidente Claudio Lotito e tutta la S.S. Lazio salutano con affetto e commozione Gianluca Vialli, leggenda dello sport italiano e internazionale. Un campione e un grande combattente in campo e nella vita, che è stato capace di rappresentare nel corso della sua lunga e dolorosa malattia un esempio di tenacia e allo stesso tempo di grande serenità». Così la Lazio in una nota ricorda la figura di Gianluca Vialli.

Ore 18:29 - Zenga: «Ci mancherai tantissimo»

«Ciao Luca. Ti voglio ricordare così. Riposa in Pace Amico mio. Ci mancherai tantissimo...». Così su Instagram Walter Zenga, che posta una foto sorridente assieme a Gianluca Vialli.

Ore 18:37 - Costacurta: «Noi avversari lo amavamo, era un uomo esemplare»

«Gianluca amava particolarmente lo spirito di squadra. Per me, per tanti, è stato un esempio, ma io, e glielo dicevo sempre, sono sempre stato attratto dal suo modo di parlare, di vestire, è stata una persona di riferimento e non solo per come si comportava in campo. Aveva una capacità di coinvolgere tutti unica». Con queste parole Alessandro Costacurta, in collegamento con Sky Sport 24, ricorda Vialli, ex avversario di mille battaglie tra Milan e Samp, ma anche amico e compagno di squadra in Nazionale. «Lui e Mancini erano diversi, con Roberto in campo litigavo sempre, con lui no. Aveva una grande capacità di ripartire, un grandissimo senza della profondità e grande forza nelle gambe. Ma noi avversari lo amavamo, così come Maradona, per il suo modo di reagire dopo i falli, ti diceva di non preoccuparti o che per fermarlo si doveva fare così, veramente un campione in tutti i sensi».

Ore 18:54 - Panucci: «Al Chelsea grazie a lui, era un uomo per bene»

«Il mio primo incontro con Gianluca è stato durante un derby Samp-Genoa, io ero un ragazzino, lui già un giocatore forte è importante, ma un ricordo di lui che mi porterò sempre nel cuore è una partita di golf che giocammo insieme per la fondazione Vialli e Mauro per La Ricerca e Lo Sport a Torino che coincise sempre con un derby di Genova. Era circa 3 o 4 anni fa, Gianluca già non stava bene e mi chiese di vedere il derby con lui. Ciò mi rese molto felice, io rappresentavo la parte genoana, lui doriana». Christian Panucci affida all'agenzia di stampa Agi il suo ricordo su Vialli. «Con lui avevo un rapporto speciale, unico — confessa Panucci —. Come avversario era un grande campione, forte, un temperamento incredibile, molto leale in campo, un grandissimo centravanti. È stato un onore per me che mi abbia voluto al Chelsea e che sia stato il mio mister in quella stagione. Aveva molta stima di me, e poi da lì si è creata una grande amicizia. La sua più grande qualità? Era molto intelligente. Lui alle volte si definiva borghese, io la definivo una persona per bene, molto educata»

Ore 18:59 - Barella: «Sei stato tanto per noi»

«Per sentirmi realizzato mi basterebbe essere, per qualcuno, quello che tu sei stato per noi in questi anni». Con queste parole e con il video di Vialli che legge Roosvelt prima della finale di Euro2020, Nicolò Barella ricorda in una storia su Instagram l'ex capodelegazione della Nazionale azzurra.

Ore 18:57 - Dossena: «Persona generosa, un "mostro" di empatia»

«Una persona generosa, che amava vivere. Ricordi ce ne sono tanti, io ho condiviso con lui 2 anni e mezzo di attività agonistica. Gianluca aveva una dote straordinaria, lui era un "mostro" di empatia, non è stato difficile volergli bene. I ricordi ce li porteremo dietro». Lo afferma in un video di Regione Liguria Beppe Dossena, ex centrocampista della Sampdoria, commemorando l'amico Gianluca. « Io non voglio ricordarlo per il suo coraggio, anche se ne ha avuto tanto basti pensare al suo ultimo viaggio a Genova, tutti quanti avevamo capito che era un modo per salutarci, in maniera discreta. Voglio ricordarlo per il suo atteggiamento dentro e fuori dal campo, che deve essere un esempio».

Ore 19:11 - Lanna: «Idea di un trofeo con Samp, Chelsea, Cremonese e Juve»

«Mi piacerebbe organizzare un quadrangolare con Sampdoria, Chelsea, Cremonese, e Juventus. Un trofeo Luca Vialli il cui ricavato andrebbe in beneficenza. In questo lui era un maestro, vorrei che diventasse qualcosa di indelebile. Vedremo anche in città qualche altra iniziativa». Lo ha detto il presidente della Sampdoria, Marco Lanna a Sky Sport nel giorno della morte dell'amico ed ex compagno in blucerchiato. «La Samp l'aveva sempre nel cuore, mi chiamava per sapere come andavano le cose, le varie dinamiche interne. È sempre stato molto legato a questo club. Mancherà a tanti. E mancherà tanto anche a me. Era un guerriero, un combattente, un grande trascinatore. Lascerà un vuoto veramente grande».

Ore 19:40 - Lippi: «Grazie, rimarrai per sempre il mio capitano»

«Grande Luca, grande amico, rimarrai scolpito nel nostro cuore, non ti dimenticherò mai... GRAZIE MIO CAPITANO...». È il post con il quale Marcello Lippi, che allenò Vialli alla Juventus, ricorda su Instagram — in un profilo ufficiale aperto per l'occasione — l'ex bianconero morto oggi.

Ore 19:45 - Acerbi: «Come un compagno di squadra, grazie per la passione trasmessa»

« Sei stato come un compagno di squadra, eri semplicemente un grande. Grazie per la passione che sei stato in grado di trasmettermi, per gli insegnamenti che ci hai dato e ringrazio di averti conosciuto. Potrei andare avanti a ricordarti con tutte le tue qualità ma le conservo nel mio cuore perché tutti sanno che Uomo eri e mi limito a dirti che siamo stati Campioni d'Europa insieme. Ciao Gianluca». Lo scrive su Instagram il difensore dell'Inter e della Nazionale, Francesco Acerbi, che in passato è stato colpito da un tumore ed è guarito.

Ore 19:57 - Lineker: «Una delle persone più gradevoli che si potessero incontrare»

«Sono profondamente addolorato nell'apprendere che ci ha lasciati Vialli - il tweet di Gary Lineker, ex centravanti inglese, oggi volto tv d'Oltremanica -. Una delle persone più gradevoli che si potessero incontrare. Un fantastico calciatore che ci mancherà tantissimo».

Ore 19:58 - Peter Crouch: «Sono affranto, avevo le maglie della Samp per lui»

Peter Crouch, ex nazionale inglese, che in un tweet ricorda come Vialli sia stato il suo idolo da bambino: «Sono realmente affranto. Avevo la maglia della Sampdoria, di casa e trasferta, per lui. Cercavo di imitare le sue rovesciate al parco».

Ore 20:05 - Andrea Agnelli: «Grazie Luca, grazie di tutto»

«In certi momenti le parole non servono, questo è uno di quei momenti...Grazie Luca, grazie di tutto». Lo scrive su Twitter l'ex presidente della Juventus, Andrea Agnelli, che ricorda con queste parole e con una foto giovanile davanti allo stadio di Wembley, l'ex attaccante bianconero.

Ore 20:14 - De Sanctis: «Un grande protagonista, vicini alla famiglia»

«Ci tengo a nome di tutta la Salernitana a ricordare Gianluca Vialli che è stato un grande protagonista del nostro calcio, ci teniamo a mandare il nostro ricordo a tutta la sua famiglia». Il direttore sportivo della Salernitana, Morgan De Sanctis, prima della conferenza stampa di presentazione di Hans Nicolussi Caviglia, ha voluto ricordare con queste parole l'attaccante scomparso.

Ore 20:35 - Zaki: «Una leggenda che si distingueva per il sorriso»

«È una grande perdita che Gianluca Vialli, una vera leggenda, sia venuto a mancare oggi. Si è sempre distinto per il suo sorriso, oltre ad essere uno dei giocatori più intelligenti e abili in circolazione. Le mie condoglianze alla sua famiglia e al calcio italiano»: lo ha scritto Patrick Zaki su Twitter. Lo studente egiziano dell'ateneo bolognese, dopo aver passato 22 mesi in custodia cautelare in carcere, è sotto processo in Egitto da oltre un anno per il contenuto di un suo articolo ed è dichiaratamente un grande appassionato di calcio, tifoso del Bologna.

Ore 21:07 - Guardiola: «Ciao Gianluca, riposa in pac»

«Ciao Gianluca (in italiano nel testo, ndr)! Possa la tua anima riposare in pace». Questo il pensiero che, su Instagram, il tecnico del Manchester City, Pep Guardiola, rivolge a Vialli pubblicando anche la foto che ritrae l'ex attaccante con il trofeo di Euro2020 tra le mani.

Ore 21:32 - Bernardeschi: «Senza Vialli non avremmo mai vinto gli Europei»

«Gianluca è stato tutto, ha fatto tantissime cose per tante persone. Mi ritengo molto fortunato ad averlo incontrato, ho avuto la fortuna di passare tanto tempo con lui, era un uomo straordinario, con i suoi insegnamenti, i suoi discorsi e le parole che usava con noi durante gli Europei è stata una delle chiavi per far sì che tutto quello che è avvenuto accadesse». Così Federico Bernardeschi, in collegamento con Sky Sport 24, ricorda Gianluca Vialli. «Quello che ha toccato tutti noi è che Luca andava oltre il calcio, senza di lui quell'Europeo non l'avremmo vinto, lo dico per tutto quello che ci ha dato e per quello che ha tirato fuori da ognuno di noi con i suoi ideali. Conta la squadra e non l'io, lo ripeteva sempre, e io voglio ringraziarlo pubblicamente per tutto quello che ci ha dato, era una persona rara, una di quelle che si trovano difficilmente».

Ore 22:02 - Van Basten: «Era un bravo, simpatico ragazzo»

«Che perdita... E che bravo, simpatico ragazzo era Gianluca! Ci siamo incontrati su un campo da golf, a Torino, subito dopo che aveva trascorso un periodo di cure per la malattia e si sentiva di nuovo meglio.. RIP». È il messaggio postato da Marco Van Basten, ex centravanti del Milan e tre volte Pallone d'Oro, su Instagram, accompagnato da una fotografia insieme, su un campo da golf. E tra i primi a commentare, Daniele Massaro che aggiunge: «Avversario leale . Buon viaggio campione»

Ore 22:54 - De Laurentiis: «Uomo fantastico, sosteniamo la ricerca»

«Un male terribile si porta via un uomo fantastico come Gianluca Vialli. Nel suo ricordo facciamo ogni sforzo per sostenere la ricerca contro i tumori. Ciao Gianluca, grande campione». Lo scrive su Twitter il presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis

 Ore 23:04 - Filippo Galli: «Sarai sempre il mio "vecchio"»

«Ciao Gianluca, riposa in pace. ️Condoglianze alla famiglia. Sarai per sempre il mio Gaffer», il mio "vecchio", è il saluto affettuoso di Filippo Galli, ex difensore del Milan e con un trascorso al Watford proprio quando era allenato da Vialli

BIOGRAFIA DI GIANLUCA VIALLI

Da cinquantamila.it – La storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

Gianluca Vialli, nato a Cremona il 9 luglio 1964. Ex calciatore. Attaccante. Ex allenatore. Dirigente sportivo. Dal novembre 2019 capo delegazione della nazionale italiana. Da calciatore ha giocato per Cremonese (1980-1984), Sampdoria (1984-1992), Juventus (1992-1996) e Chelsea (1996-1999). Ha vinto due scudetti (Sampdoria 1991, Juventus 1995) e tutte e tre le Coppe Europee (Champions League con la Juventus nel 1996, Uefa con la Juventus nel 1993, Coppa delle Coppe con la Sampdoria nel 1990).

 In Nazionale 59 presenze e 16 gol (terzo agli europei 88 e ai mondiali 90). Settimo nella classifica del Pallone d’Oro 1988 e 1991, 8° nel 1987, 19° nel 1995, 23° nel 1989. Da allenatore ha guidato Watford e poi Chelsea, con cui ha vinto una Coppa della Coppe (1998), una Supercoppa Europea (1998), una Carabao Cup (1998), una Fa Cup (2000) e Charity Shield (2000). È stato anche commentatore tv per Sky. «Ancora mi capita di sognare i gol sbagliati».

 Vita «Sono l’ultimo di cinque figli, Mila, Nino, Marco, Maffo. Forse per questo ho sempre voluto dare il massimo. Essendo un perfezionista non potevo accettare di perdere, già a otto anni, era una cosa istintiva. I miei genitori non mi hanno mai fatto grandi complimenti. Forse inconsciamente cercavo di conquistarli. Non avessi fatto il calciatore? Sarei comunque diventato uno sportivo professionista, possibilmente di uno sport di squadra perché mi piace il team spirit. Se non ci fossi riuscito sarei andato a lavorare nell’azienda di mio padre, come i

«Suo padre non amava il calcio? “Zero, pensava solo al lavoro, era un costruttore. Oggi ho il rimpianto di non averli coinvolti abbastanza: loro non chiedevano di venire a vedere le partite, io ero concentrato sugli allenamenti e non ho mai insistito, forse avrei dovuto: nella mia famiglia non siamo stati bravi a dimostrarci l’affetto”. Il suo background familiare la rendeva diverso dal calciatore medio. Se ne accorgeva? “La verità è che, appena entriamo in uno spogliatoio, diventiamo parecchio simili. Alla Samp, poi, avevamo tutti più o meno la stessa età, la stessa filosofia di vita, ed eravamo legati da un senso di appartenenza che aveva saputo creare il nostro presidente, Paolo Mantovani. Bastava parlargli mezz’ora e uscivi dal suo ufficio pensando di poter camminare sull’acqua”. 

Sta parlando di carisma? “Per noi era un padre che ci aveva dato una missione: sfidare lo status quo e dimostrare che anche una squadra piccola può competere e battere le grandi. Per questo, per anni, abbiamo tutti rifiutato le offerte delle altre squadre: dovevamo prima vincere lo scudetto”. Mantovani si comportava diversamente con lei e con Mancini? “Sì, perché avevamo caratteri differenti. Con me, che sono sempre stato concreto, preferiva essere pragmatico. Con Roby, che aveva lasciato casa quando aveva 14 anni, era sicuramente più affettuoso e presente. Credo che Roberto lo divertisse di più, ma si fidasse più di me, perché ero più costante”» (a Sara Faillaci)

Sul suo rapporto con Roberto Mancini: «Ci piaceva tanto stare insieme, eravamo come in trincea: io coprivo le spalle a lui, e lui a me. Ci sentivamo al sicuro, condividevamo tutto, ogni più piccolo segreto. Ancora oggi custodisco quei pezzetti di storia con grande gelosia. Dormire uno di fianco all’altro per quasi dieci anni, e negli anni più belli della tua vita, crea qualcosa di indissolubile. È stato poi lui a voler andare in una stanza da solo... diceva che russavo la notte... bah, mi sa che non era vero! Invece, era lui che si svegliava perché voleva farsi da mangiare di notte! […]

Vivevamo tra Quinto e Nervi, e gli allenamenti erano a Bogliasco: ci muovevamo anche con i mezzi pubblici, o il treno. Il ristorante a tre minuti da casa, il campo a cinque, era tutto vicino, e a quei tempi il nostro gruppo non pensava al successo o alla fama, eravamo io, Roberto, Pagliuca, Mannini, Lombardo, e tutti gli altri, tutti fratelli, con le nostre paure e le nostre sicurezze, che gli altri compensavano» (a Gabriella Greison)

 • «La sua forza era il “Delta” bassissimo, un differenziale quasi zero nel rendimento su sforzi ripetuti, vale a dire la potenza costante sull’arco di 15-20 scatti, finché il difensore avversario, magari più veloce, non crollava nel confronto fisico» (Edmondo Berselli)

«Un trascinatore in tutte le squadre in cui ha giocato: dalla Cremonese, la rampa di lancio, alla Sampdoria, sospinta - con Roberto Mancini – al primo e unico scudetto. Dalla Juventus al Chelsea. La Juve costituisce una scelta professionale ed economica, vi approda nel 1992, dopo la Coppa dei Campioni persa dalla Samp a Wembley contro il Barcellona. Sono Boniperti e Trapattoni a reclutarlo, ma sarà Lippi – un altro ex doriano – a ricaricarne le batterie fino a trasformarlo nel perno avanzato della manovra e nel cuore del complesso. Vialli segna e fa segnare, la sua fisicità molto chiacchierata gli consente di rivaleggiare con i difensori anche sul piano della forza pura e bruta. Le sue rovesciate non hanno nulla da invidiare alle mitiche acrobazie di Carlo Parola» (La Stampa)

 • «Com’è giocare nella Juve? “Un onore, e un onere. Senti il peso della maglia, il dovere di riconsegnarla piegandola per bene e riponendola un po’ più in alto di dove l’avevi presa. E poi Torino, che aveva fama di città fredda e grigia, in realtà è meravigliosa”. A guastare la poesia arrivò Moggi. Com’era? “Un dirigente che ti metteva nelle condizioni di dare il massimo; e i calciatori pesano i dirigenti da questo. Non dal mercato o dalla politica”. La gestione Moggi costò alla Juve la Serie B. “Quella Juve avrebbe potuto vincere 6 o 7 scudetti su 10, rispettando le regole. Ma poi la gola ha fatto sì che tentasse di vincerli tutti, non rispettando le regole”. Ma lei ha mai avuto la sensazione che gli arbitri vi favorissero? “No. Ne ho anche discusso con i colleghi. Vede, un calciatore tende sempre a pensare che gli arbitri stiano complottando contro la sua squadra. A volte diventa uno sprone a reagire e dare il meglio”. 

Lei fu testimone al processo per doping. La Juve fu assolta, ma venne fuori un largo uso di farmaci. “Posso parlare per me. Avrei potuto vivere più serenamente quella vicenda, come altri colleghi. Non ce l’ho fatta. Fu un’ingiustizia”. Zeman indicò lei e Del Piero. “Non voglio riaprire vecchie polemiche. È possibile discutere se sia meglio per una distorsione dare il Voltaren, o andare 15 giorni in montagna a riposare. Non è possibile mettere in dubbio i risultati di una carriera. All’inizio ci ho sofferto. Poi ho capito che se ti preoccupi di quello che pensano gli altri appartieni a loro”. 

 Alla Juve prendevate anche la creatina. “Per qualche mese. Come tutti. Lecitamente”. In due anni vinceste lo scudetto e, nel 1996, la Champions. “Finale all’Olimpico di Roma. Segna subito Ravanelli, pareggia Litmanen. Grande partita, finita ai rigori. La chiude Jugovic segnando il quarto”. Lei quale doveva tirare? “Il quinto o il sesto. Fu un sollievo infinito. All’Olimpico avevo sbagliato un rigore al Mondiale del ’90 contro gli Stati Uniti, e mi ero rotto un piede tirandone un altro contro la Roma. Quella notte sapevo che era la mia ultima occasione per vincere la Champions. Pensi gli incubi, se no”» (ad Aldo Cazzullo)

 • «È stato, insieme a Fabrizio Ravanelli, il primo campione della Serie A ad emigrare nella Premiership inglese. Era il giugno del ’96 e aveva quasi 32 anni. La Juventus gli aveva offerto molti soldi, ma un contratto di un solo anno. Il Chelsea, vecchia squadra popolare di Londra guidata dal suo amico Ruud Gullit, gli proponeva metà stipendio, ma tre anni in squadra. Poche settimane dopo scorrazzava per King’s Road su una Vespa e pranzava al San Lorenzo, seduto al tavolo accanto a quello della principessa Diana. Non nascondeva la sua felicità: “È un sollievo essere a Londra. Qui il calcio ha una dimensione ancora umana”. Sei anni dopo, ha fatto in tempo a sperimentare anche la dimensione, per così dire, meno umana del football inglese. “Da allenatore hai molte più preoccupazioni. Non ti devi allenare, ma devi essere sempre un passo avanti agli altri. Pensare a loro. Motivarli. Mi sento responsabile di tutto ciò che succede nel club. Difficile rilassarsi, farci sopra una risata, perché sei quello che deve far filare tutto per il verso giusto”» (a Riccardo Orizio)

Con Gabriele Marcotti ha scritto un’autobiografia, The Italian Job, uscita prima in Inghilterra e poi in Italia (Mondadori 2007). Da ultimo ha firmato a quattro mani con Roberto Mancini La bella stagione, racconto dello scudetto vinto con la Sampdoria (Mondadori, 2021).

 Malattia Nel libro Goals, 98 storie + 1 per affrontare le sfide più difficili (Mondadori, 2018) ha racconta la battaglia contro il tumore al pancreas, scoperto nel 2017 e per cui si è sottoposto a un intervento, a otto mesi di chemioterapia e sei di radioterapia. «Ne avrei fatto volentieri a meno. Ma non è stato possibile. E allora l’ho considerata semplicemente una fase della mia vita che andava vissuta con coraggio e dalla quale imparare qualcosa. Sapevo che era duro e difficile doverlo dire agli altri, alla mia famiglia.

 Non vorresti mai far soffrire le persone che ti vogliono bene: i miei genitori, i miei fratelli e mia sorella, mia moglie Cathryn, le nostre bambine Olivia e Sofia. E ti prende come un senso di vergogna, come se quel che ti è successo fosse colpa tua. Giravo con un maglione sotto la camicia, perché gli altri non si accorgessero di nulla, per essere ancora il Vialli che conoscevano. Poi ho deciso di raccontare la mia storia e metterla nel libro» (a Cazzullo)

 • «È successo in maniera improvvisa e l’ho affrontata come quando facevo il calciatore. Mi sono dato subito degli obiettivi a lunga scadenza: non morire prima dei miei genitori e portare le mie figlie all’altare quando si sposeranno. E poi degli obiettivi a breve scadenza: l’operazione, la degenza, la chemio, la radio, andare di nuovo in vacanza in Sardegna con un fisico da far vedere» (a Fabio Fazio, a Che tempo che fa, nel dicembre 2018)

 • «Io con il cancro non ci sto facendo una battaglia perché non credo che sarei in grado di vincerla, è un avversario molto più forte di me. Il cancro è un compagno di viaggio indesiderato, però non posso farci niente. È salito sul treno con me e io devo andare avanti, viaggiare a testa bassa, senza mollare mai, sperando che un giorno questo ospite indesiderato si stanchi e mi lasci vivere serenamente ancora per tanti anni perché ci sono ancora molte cose che voglio fare» (nel giugno 2021, nella miniserie Rai Sogno Azzurro).

Vizi Sui giornali dell’11 maggio 2006 comparve la notizia dell’arresto di Michele Padovano, ex attaccante della Juventus e di altre squadre, nell’ambito di un’indagine su un traffico di hascisc condotta dal magistrato torinese Antonio Rinaudo. Vennero pubblicati anche i testi di alcune intercettazioni riguardanti altri due ex juventini, Nicola Caricola, indagato per cessione di stupefacenti, e Gianluca Vialli. La posizione di Vialli, che nelle intercettazioni viene chiamato «Besson», non era penalmente rilevante, si evinceva, però, che fosse un abituale consumatore di cocaina.

«Non sono un santo: a carriera finita e prima di diventare padre, in qualche serata fra amici mi è capitato di fumare una canna. Penso sia successo alla maggioranza delle persone. Ma dalla cocaina sono sempre rimasto distante, perché so quanto faccia male. Questa storia ha messo a dura prova il mio equilibrio di padre, di figlio e di marito. Nel corso della mia carriera sono stato definito gay, e non lo sono pur non avendo nulla contro gli omosessuali; sono stato definito dopato, e non lo ero; cocainomane

È stata l’ultima etichetta, e per quanto abbia le spalle larghe questa mi ha fatto vacillare. Trovo che il mio caso sia lo specchio del modo sbagliato con cui vengono trattati certi argomenti in Italia. A parte la falsità dell’assunto, la mia immagine È stata sporcata per un fatto che penalmente era comunque irrilevante. Oggi, quando vado al ristorante, evito di fare pipì anche se mi scappa, perché ho paura che la gente pensi “ecco, Vialli va alla toilette a tirare cocaina”. È un meccanismo infernale» (a Paolo Condò).

 Amori Sposato dal 2003 con l’arredatrice sudafricana Cathryn White-Cooper. Hanno due figlie, Olivia e Sofia • «Ai tempi della Samp era fidanzato con una ragazza di Cremona, Giovanna, con cui è stato 13 anni ma che alla fine non ha sposato. “Ero innamorato, ma la mia priorità in quegli anni è sempre stata il calcio, e quasi senza accorgermene ho evitato tutto quello che avrebbe potuto essere una distrazione: matrimonio, figli. Ho iniziato a pensarci solo quando ho smesso, ma a quel punto il sentimento con Giovanna si era spento”. Ha conosciuto sua moglie Cathryn, sudafricana, a Londra. “Si stupì che non l’avessi baciata la prima sera, da buon italiano. Ma io non sono mai stato aggressivo con le ragazze, e poi sentivo molto la responsabilità di essere giocatore e allenatore del Chelsea, non mi sentivo pronto. Alla fine però è successo”» (a Faillaci)

 • «Il sesso è sempre stato il mio punto debole. Lo facevo il giorno prima e spesso lo stesso giorno del match. Mi faceva giocare meglio».

 Politica «Da ragazzo cosa votava? “Partito repubblicano, come papà”. Nella Seconda Repubblica cosa votava? “Per fortuna ero già a Londra. La Seconda Repubblica me la sono risparmiata» (a Cazzullo).

Vialli, le figlie e la moglie Cathryn White Cooper, la famiglia a Cremona. Francesca Morandi e Arianna Ravelli su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.

Gianluca Vialli aveva sposato Cathryn a Londra in gran segreto: lei è un’arredatrice di interni, hanno due figlie Olivia e Sofia. La famiglia del campione vive ancora a Cremona dove lui è cresciuto

«Mi sono dato subito degli obiettivi a lunga scadenza: non morire prima dei miei genitori e portare le mie figlie all’altare».

Non c’è riuscito. Due dei pochi gol che Gianluca Vialli ha sbagliato in una vita di successi: e oggi che si fa fatica a rassegnarsi che sia davvero finita così, ci sono solo le lacrime.

A Londra, dove si trova la moglie Cathryn White Cooper con le figlie Olivia, 18 anni, e Sofia, 16, che si sposeranno, forse, un giorno pensando sicuramente al papà a cui erano legatissime, e dove si terranno i funerali in forma privata, una cerimonia non grigia, allegra, come aveva chiesto Luca, e chissà come diavolo ci riusciranno.

E lo stesso a Cremona, dove restano i genitori, la mamma Maria Teresa, 87 anni, che tutti in città conoscono come Marioli e che, prima di Natale, era volata a Londra per fare gli auguri al suo Gianluca dando a tutti noi il senso della tragicità del momento, e poi papà Gianfranco, 92 (imprenditore che costruiva prefabbricati con la sua azienda, CasaItalia), e i quattro fratelli, tutti più grandi di Luca: Mila, Nino (che è partito per Londra diversi giorni fa con l’intenzione di fermarsi poco, ma poi ha capito che serviva stare a fianco del fratello), Marco e Maffo (un nome di un antenato, asburgico, d’altronde le origini della famiglia si trovano a Cles, in Trentino, dove molti cremonesi hanno la seconda casa).

Gianluca era riuscito a tenere tutto assieme, il profilo da calciatore di successo, uno dei primi cittadini del mondo (giocatore, e poi allenatore al Chelsea, è a Londra che conosce la futura moglie, che sposa nel 2003, è lì che sceglie di vivere e di morire; ad Aldo Cazzullo aveva detto «è un mix di disciplina e libertà: si pagano le tasse, si fa la coda, ci si ferma alle strisce pedonali»), le radici salde a Cremona, dove la famiglia vive in centro e dove lui è nato calcisticamente, tirando i primi palloni sul campo di Cristo Re, l’oratorio del Villaggio Po, poi con la maglia del Pizzighettone e della Cremonese, il cespuglio di riccioli, i modi sempre garbati da ragazzo di provincia.

Una famiglia benestante, la sua — possiede un castello a Grumello Cremonese, Villa Affaitati, dove Luca soggiornava quando tornava in Italia —, molto unita e molto riservata.

Un tratto che ha caratterizzato anche la famiglia formata poi con la moglie Cathryn, origini sudafricane, sposata in gran segreto il 26 agosto 2003 dando poi la notizia con un comunicato a nozze già avvenute (con festa nel castello di Ashby a Northampton), conquistata dopo un corteggiamento durato molti mesi, e con la quale ha diviso vent’anni lontanissimi dai social.

La moglie Cathryn

Raccontava Gianluca che Cathryn si arrabbiava quando veniva definita «ex modella», perché l’esperienza nella moda era stata un’episodica parentesi giovanile, lei voleva essere riconosciuta per il suo mestiere, l’arredatrice d’interni, nel quale aveva successo.

Le figlie Olivia e Sofia sono vissute sempre protette dalle attenzioni mediatiche, su di loro e per loro restano le parole spese dal padre in questi anni, scene di vita e amore famigliare durante la malattia: «Le mie figlie mi hanno aiutato disegnandomi le sopracciglia, e ho anche chiesto a mia moglie quali trucchi usare. Abbiamo riso, devi ridere, hai bisogno di trovare il lato divertente», come quando ha raccontato nel 2020 al Times. E poi la lezione-testamento che Vialli ha lasciato nell’intervista ad Alessandro Cattelan: «Sono convinto che i nostri figli seguano il nostro esempio più che le nostre parole. Sento di avere meno tempo per essere un buon padre ed essere per loro un esempio. Cerco di insegnare loro che la felicità dipende dalla prospettiva con cui guardi la vita, che non ti devi dare delle arie, ascoltare di più e parlare di meno. Ridere spesso, aiutare gli altri. Questo è il segreto della felicità».

Vialli, il saluto pieno d’amore della moglie Cathryn: «Eri il padre e il marito più affettuoso». Paolo Tomaselli, inviato a Londra su Il Corriere della Sera l’8 Gennaio 2023.

Un biglietto scritto al computer fatto recapitare ai cronisti davanti alla casa londinese di Luca. La cognata Libby: «Affetto incredibile, Luca era una grande persona: non solo un campione, ma anche un simbolo». Lunedì messa a Cremona, funerali in forma privata a Londra in data e luogo segreti

Il biglietto della moglie di Gianluca Vialli

«Luca non solo era uno sportivo di grande talento, rispettato da tutti, ma era soprattutto il marito e il padre più affettuoso. Siamo devastati. Grazie per tutto il vostro sincero amore e supporto».

Cathryn White Cooper Vialli consegna il suo messaggio agli italiani che hanno amato il marito in una busta, che contiene un foglio di carta scritto al computer. E lo fa per mano di Martina Vian, assistente dell’ex campione negli ultimi quattro anni e mezzo, che apre la porta della casa di Chelsea mentre su Londra la pioggerella sottile è diventata un acquazzone. È il massimo che la privacy condivisa e sempre difesa in maniera maniacale da Luca e dalla moglie sudafricana, arredatrice di interni che non ama per nulla essere definita ex modella, può concedere ai pochissimi cronisti presenti: lunedì alle 18.30 ci sarà una messa a Cremona in ricordo del ragazzo riccioluto partito dall’oratorio di Cristo Re che «ha conquistato i trofei e le menti» di Italia e Inghilterra, come ha scritto il Guardian. Ma sulla data e sul luogo del funerale nulla trapela: per volere di Gianluca sarà riservato soltanto alle due famiglie e agli amici più stretti, la segretezza è assoluta. L’unica certezza è che non sarà celebrato domani.

DIETRO LE QUINTE

Vialli privato, la moglie Cath, le nozze segrete, le due figlie

Il messaggio di Cath però fa capire quanto la moglie, le figlie Olivia e Sofia di 18 e 16 anni, siano commosse e in qualche modo quasi stupite da tutto l’affetto che arriva dall’Italia. Un fiume di ricordi, di passione e di nostalgia, che ieri si è espresso nel minuto di silenzio intensissimo dello Juventus Stadium (con commovente lettera letta dall’ex compagno in bianconero Pessotto) . E che irradia anche le strade della Londra più ricca e riservata: la Londra di Vialli, che da fine anni 90 ha cambiato casa diverse volte e si è poi stabilito in questa piccola laterale di Old Church Street. Libby White Cooper, gemella di Cath e cognata di Luca, esce a fare due passi: «Non è il momento giusto per parlare — spiega con gentilezza —, sono giorni molto tristi. L’affetto che ci sta arrivando dall’Italia è incredibile, mio figlio che è lì me l’ha raccontato. Luca era una grande persona: non era più solo un campione, ma un simbolo».

LE ESEQUIE

Un addio non grigio: Vialli e le disposizioni per il funerale a Londra

La clinica dove Vialli è morto nella notte di giovedì è a cinque minuti a piedi da qui. Rimosso in fretta lo striscione dei tifosi sampdoriani comparso venerdì, c’è solo un mazzo di fiori con una vecchia maglia della Juventus arrotolata alla cancellata. Stamford Bridge, la casa del Chelsea, è a un quarto d’ora di passeggiata: lì il memoriale si riempie di fiori, biglietti, occhi arrossati al pensiero dei giorni belli, quando Luca al debutto da giocatore-allenatore prima della partita con l’Arsenal brindò con i suoi calciatori facendo bere loro champagne: «Sono inglese — c’è scritto su un cartoncino bagnato dalla pioggia — ma mio padre mi ha battezzato Gianluca come il suo giocatore del Chelsea preferito. Più cresco e più sono orgoglioso di questo privilegio, perché sei stato un gentleman della vita. Riposa in pace».

L’ESCLUSIVA

Un maglione sotto la camicia: così parlò del tumore la prima volta

Vialli, grazie al suo carisma, alla filosofia di vita che lo ha sempre accompagnato e grazie anche al suo inglese perfetto, è stato davvero il bomber dei due mondi. E qui ha lasciato una traccia significativa nella cultura popolare, come dimostrano i messaggi dei Simply Red, di Gary Lineker e David Beckham. La sua Londra è stata anche la Royal Albert Hall, in un memorabile concerto del suo amico Eros Ramazzotti, è stata il torneo di Wimbledon, con le fragole, meglio senza panna.

Vialli a Londra è arrivato come un pioniere a caccia dell’oro che oggi rende la Premier il campionato più importante del globo: quando nel ‘96 da campione d’Europa sbarcò al Chelsea, chiamato da Gullit, non c’era nemmeno la sala pesi. Con l’arrivo di Zola e Di Matteo, the italian job ha sventolato la sua bandiera sulla globalizzazione del football ed è stato Vialli il primo allenatore a schierare 11 Blues di nazionalità diverse.

Ma questa resta anche una Little Italy dei sentimenti e delle relazioni custodite anche quelle gelosamente, come racconta Lucio Altana, l’amico ristoratore a due passi da casa: «Durante l’Europeo io stavo male e lui mi ha aiutato tanto. Quando veniva mi avvertiva un po’ prima e mi diceva di buttare gli spaghetti integrali, da mangiare sempre con le vongole e l’aglio in camicia. Nell’attesa gli preparavo l’insalata Vialli, che nel menù non c’è, con le pere e il pecorino. A dicembre l’ho visto per l’ultima volta, aveva il volto sofferente. Ma sempre con il sorriso».

Emanuela Minucci per lastampa.it il 7 gennaio 2023.

Gianluca Vialli era sposato con Cathryn White Cooper donna bellissima e altrettanto forte che ha sposato nel 2003 e che le è stata accanto in modo esemplare in questi lunghi anni di malattia.

 Cathryn White Cooper è originaria del Sud Africa. Non si hanno molte notizie in merito alla sua data di nascita, ma sappiamo che, da giovanissima, fu una modella molto apprezzata. In seguito, lasciate le passerelle si è dedicata al mondo dell’arredo ed è molto conosciuta e stimata nel Regno Unito. E fu proprio nel momento in cui decise di stabilirsi nel Regno Unito per lavorare come arredatrice d’interni che avvenne la magia. In Inghilterra, Cathryn White Cooper non solo riuscì ad affermarsi nella sua professione, riuscendo a seguire alcuni importanti progetti di interior design, ma conobbe anche quello che sarebbe stato il suo futuro marito. La coppia si conobbe quando il giocatore militava nel Chelsea. Vivevano a Londra con le due figlie, Olivia e Sofia. Il teatro delle nozze era stato il castello di Ashbly, a Northampton, location da favola. Gianluca era innamorato pazzo di quella bionda che gli aveva subito fatto girare la testa e che aveva resistito quattro mesi alla sua corte incessante.

Ma alla fine gli ha detto sì e lo ha reso padre per due volte: con Sofia e Olivia. L’intera famiglia si è sempre tenuta ben lontana dal gossip, tanto che le due figlie di Vialli e Cathryn non possiedono neppure account sui social media a proprio nome. L’estrema riservatezza di Cathryn White Cooper non le ha però impedito di comparire spesso al fianco di Vialli durante eventi e occasioni ufficiali. L’affiatatissima coppia è rimasta unita anche dal momento in cui, nel 2017, Vialli ha scoperto di avere un tumore al pancreas. Un male che, purtroppo, ormai un mese fa, lo ha costretto ad abbandonare tutti gli incarichi sportivi attualmente in attivo. Il tutto per potersi dedicare alle cure, circondato dall’affetto di moglie e figlie. Anche le due ragazze, così come la madre, hanno dato tutto il proprio affetto in questi giorni al padre, come da lui stesso dichiarato durante una commovente intervista al The Times.

 Da quando nell’estate 1996 sbarcò al Chelsea Vialli non ha mai pensato di tornare Italia. A Grumello Cremonese c’è la sua famiglia che va spesso a trovare, ma Londra è la città dove ha messo le radici. La casa nel quartiere Chelsea, in una delle traverse di Fulham Road, è diventata il suo quartier generale, poi il matrimonio, la nascita delle bimbe che hanno fatto le scuole oltre Manica. La loro è una famiglia che vive lontana dalla luce dei riflettori, a differenza di tanti ex calciatori che, nonostante il passare degli anni, trovano modo di far parlare di loro, non sempre in maniera positiva. Gianluca e Cathryn invece sono sempre stati discreti e lei non ha neppure profili social, né su Twitter né su Instagram.

È l’opposto delle moderne Wags, pronte a qualsiasi cosa per essere notate. Di lei non si conosce neppure la data di nascita, ma si sa che ha una sorella gemella. I genitori di Cathryn vivono ancora in Sudafrica che in passato per la famiglia Vialli è stata meta delle vacanze natalizie. L’ultima volta è successo un anno fa. Lady Vialli non ha mai concesso interviste e si è fatta vedere in pubblico poche volte, sempre accanto al marito. Una delle ultime è stata in occasione del premio «Facchetti» ricevuto da Gianluca nel febbraio 2019. Quella volta non trattenne le lacrime sentendogli dire che «la battaglia per la malattia continua e io non mollo».

 Le figlie Olivia e Sofia

A parlare delle figlie era stato, con il consueto stile sobrio, lo stesso Vialli, ricordando le prime chemioterapie e il modo in cui Olivia e Sofia avevano vissuto la malattia del padre, sostenendolo: «Mi hanno aiutato disegnandomi le sopracciglia» aveva raccontato Vialli nel 2020 al The Times, aggiungendo: «Ho anche chiesto a mia moglie quali trucchi usare. Abbiamo riso, devi ridere, hai bisogno di trovare il lato divertente, ma c'erano anche giorni in cui mi chiudevo in bagno per piangere».

 Proprio per le figlie e la moglie l’ex campione (dentro e fuori dai campi di calcio) aveva trovato nuova e ulteriore forza per combattere, come «un leone», come hanno sempre detto i suoi più cari amici, come Roberto Mancini. Intervistato da Alessandro Cattelan nella sua docu-serie su Netflix Una

Semplice Domanda, Gianluca Vialli aveva definito il cancro come “una fase della vita, un compagno di viaggio», ma soprattutto non aveva fatto a meno di parlare della sua famiglia: «Oggi so che ho il dovere di comportarmi in un certo modo nei confronti delle persone, di mia moglie delle mie figlie, perché non so quanto vivrò. Quindi hai questa opportunità di scrivere le lettere e sistemare le cose». Lontane anche dai social, ora sono loro – moglie e figlie, insieme alla madre 87enne – che forse sentono il dovere di continuare a comportarsi in modo “gentile” che Gianluca Vialli ha insegnato loro, vivendo il dolore in modo privato e facendo tesoro del suo esempio.

Cremona, l'addio a Vialli: dai primi calci in oratorio ai tifosi in piedi per omaggiarlo. «Dedichiamogli lo stadio». Federica Bandirali e Giovanni Gardani su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.

Il campione era saldamente legato alla città in cui era nato. Il video della Cremonese: «Esempio indelebile della nostra essenza». Chiara Ferragni: «Grazie di tutto». La foto icona e gli striscioni

Cremona piange il suo grande campione, Gianluca Vialli. Lui che, seppur abitando ultimamente a Londra, non l’ha mai lasciata. E la città (dove è stato decretato il lutto cittadino e in cui le bandiere ora sono a mezz'asta) non ha mai lasciato lui. I primi calci al pallone nel campo dell’oratorio dalla parrocchia di Cristo Re proprio a Cremona e nel Pizzighettone. Alla notizia della morte la città si è come fermata: tutto è passato in secondo piano. Ed è un attimo che in piazza del Duomo, sotto il Torrazzo, scendono le lacrime a tutti, ai più anziani (che magari l’hanno visto anche giocare con la maglia della Cremonese) ma anche ai più giovani: «Era un mito», dicono con gli occhi lucidi, continuando a leggere sul cellulare le notizie che arrivano da Londra.

 Gianluca, la cui famiglia abita ancora oggi a Cremona, era stato visto allo Stadio Zini a vedere una partita della “Sua” Cremonese lo scorso 5 settembre per vedere i grigiorossi - tornati in serie A dopo 26 anni - contro il Sassuolo. Già gravemente malato, per Vialli si era alzato in piedi l’intero stadio e lui, come sempre, aveva contraccambiato con la gentilezza elegante che l’ha contraddistinto nel corso della sua vita. Concedendosi a foto, parole e sorrisi con tutti i cremonesi. 

Ma al richiamo di Cremona Vialli non ha mai detto no: nel 2019 era stato ospite del progetto “Thisability” e aveva parlato davanti a tutti della sua malattia. «Vorrei ispirare la gente a non mollare mai», aveva detto, commosso. E’ stato un simbolo della città, che lui stesso elogiava sul suo account Instagram con foto nuove e d’epoca, tra cui, la più iconica, quella con la sua massa di capelli ricci e la maglia storica della Cremo. È così che tutti qui vogliono ricordarlo, come un combattente leone fuori e dentro dal campo.

A Cremona la commozione parlando della malattia

Non ha mancato di ricordarlo e celebrarlo la U.S. Cremonese che, con un video su Instagram, ha mostrato alcuni suoi momenti storici in grigiorosso, con la didascalia «Resterai un esempio indelebile della nostra essenza». E la voce di Gianluca, fuoricampo, che dice: «Oggi vorrei che un bambino mi guardasse e mi dicesse: “Anche io un giorno voglio essere ambasciatore di Cremona”».

Vialli e la Cremonese, i momenti più belli: «Per sempre uno di noi»

Anche alla società sportiva Baldesio di Cremona, luogo del cuore di Vialli, l’umore dei soci è affranto. Così come sono arrivate poco dopo la notizia della morte anche le parole di un’altra cremonese celebre, Chiara Ferragni, che ringrazia Vialli per il sostegno dato al marito Fedez durante la battaglia che anche il cantante ha affrontato la scorsa estate: «Sei una grande persona e non smetterò mai di ringraziati per l’energia e la dolcezza che hai condiviso con Fede prima dell’operazione. 

Grazie per quello che hai fatto per noi e per tutti quanti», ha scritto la cremonese condividendo il post del Corriere che annunciava la morte del campione. Allo stadio Zini contro la Juventus, giovedì sera, era comparso uno striscione per Gianluca: «Gianluca segna per noi», gli urlavano i suoi tifosi, di qualunque squadra, di qualunque fede calcistica. Gianluca univa e ha unito tutti.

Intanto prende piede una proposta: dedicare al campione lo stadio cittadino.  L'idea di intitolare l'arena «Vialli-Zini» potrebbe diventare molto concreta nei prossimi giorni. Il consigliere comunale Marcello Ventura, poche ore dopo la scomparsa del campione cresciuto proprio nella Cremonese, ha spiegato di avere coinvolto maggioranza e minoranza «per portare avanti in via unitaria la formale richiesta di intitolazione dello stadio di Cremona, oggi dedicato a Giovanni Zini, portiere grigiorosso di inizio novecento, anche a Gianluca Vialli, ambasciatore della cremonesità nel mondo grazie al pallone. Dinnanzi a una figura così grande - ha detto -, non devono esserci colori politici. Spero che la proposta sia sposata da tutto il consiglio comunale».

La Sampdoria di Vialli e Mancini: Boskov, le partitelle delle 5.000 lire, le cene e l’irripetibile «Bella stagione». Domenico Calcagno su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.

Vialli e Mancini sono stati il simbolo di quella che venne chiamata la «Sampd’oro»: una squadra di amici che «ha consumato ossa, sudore, sangue e fatica» per vincere lo scudetto e rendere «possibile l’impossibile»

«Una squadra di amici che ha consumato ossa, sudore, sangue e fatica per rendere possibile l’impossibile, sfidare e battere lo status quo, agitare le acque fino a scatenare uno tsunami».

Chi ha letto «La bella stagione», il libro-racconto collettivo dei giocatori della Sampdoria campione d’Italia nel ’91, sa di cosa si parla.

Di un gruppo molto speciale che riuscì a vincere lo scudetto nonostante il Milan degli olandesi, l’Inter dei tedeschi e il Napoli di Maradona, il gruppo guidato dai gemelli del gol, Luca Vialli — scomparso oggi, ad appena 58 anni — e Roberto Mancini.

Mancini arrivò a Genova nell’82, a 18 anni. Nella stagione precedente aveva segnato 9 gol con il Bologna ed era considerato il miglior talento in circolazione; Vialli due anni dopo, dalla Cremonese, la squadra della sua città. A battere la concorrenza di club più potenti e ricchi ci pensò Paolo Mantovani e i due ragazzi fecero subito capire di avere qualcosa di speciale diventando in fretta i leader tecnici e non solo di quella squadra che, appunto, scatenò uno tsunami nel calcio italiano.

Giovani, belli, bravi, scanzonati, Vialli&Mancini sono stati il simbolo di quella che venne chiamata Sampd’oro.

E Genova, una città che lascia respirare anche le persone famose e che ha il mare (elemento sempre sottolineato da Vialli), il posto giusto per proporre qualcosa che non si era mai visto e che difficilmente si potrà vedere ancora.

La Samp di Vialli&Mancini aveva tempi, consuetudini, rituali particolari.

Si allenava a Bogliasco agli ordini di Vujadin Boskov e poteva capitare che all’allenamento partecipassero pure i due cani di Toninho Cerezo, monumentali bovari delle Fiandre.

Al giovedì si giocava la partitella delle 5.000 lire, affrontata regolarmente come fosse la finale di Coppa dei Campioni, a fine allenamento le sfide di pallacanestro (Katanec era imbattibile, tanto che Lombardo era convinto che avesse sbagliato sport).

Le cene settimanali dove si scherzava, si parlava di donne e di tattica.

Vialli&Mancini erano l’anima, in campo e fuori: «Io e Mancio eravamo come in trincea — ha raccontato Vialli —, io coprivo le spalle a lui e lui a me. Abbiamo dormito per dieci anni uno di fianco all’altro».

Genova li aveva adottati ed era disposta a perdonargli tutto, dalle evoluzioni sulle moto d’acqua a qualche fuga al casinò a Montecarlo perché sul campo lasciavano sempre il segno.

Mancini ispirava, Vialli segnava.

Litigarono anche durante la «La bella stagione», per un po’ non si parlarono e quando uno doveva dire una cosa all’altro usava un compagno di squadra come messaggero. Ovviamente durò poco perché erano fatti per stare insieme.

Quando Vialli tornò in campo contro il Pisa dopo un brutto infortunio, Mancini mise a sedere l’intera difesa avversaria e invece di appoggiare la palla in porta la passò all’amico, che aveva più bisogno di lui di segnare. «Grazie, questo si che è un assist — scherzò Vialli festeggiando —, non come quando lanci alla cieca da 30 metri, io la prendo, sgomito, ne scarto due, faccio gol e poi scrivono: gol di Vialli su lancio pazzesco di Mancini...». «Cominciavi a darmi fastidio con tutto questo correre per il campo senza combinare niente» rispose Mancini.

Due amici che guidavano una squadra di amici.

Un legame forte, più forte delle cose della vita e del passare degli anni.Un legame che l’abbraccio sul prato di Wembley, dove persero la Champions con la Samp e dove avevano appena conquistato il titolo europeo con l’Italia spiega meglio di mille parole.

Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” – 26 novembre 2018 

Luca Vialli, lei è sempre stato un calciatore un po’ sui generis.

«E perché mai?» 

Famiglia benestante, uso del congiuntivo. E ora pubblica il secondo libro.

«Guardi che io sono cresciuto all’oratorio, come tutti. Non c’era la playstation, la tv aveva un solo canale. Sono della generazione di Carosello. E come tutti ho imparato dai preti a giocare a pallone; a patto di frequentare anche il catechismo». 

Da ragazzo cosa votava?

«Partito repubblicano, come papà».

Cosa faceva suo padre?

«Costruiva prefabbricati. Sono il più piccolo di cinque figli: Mila, Nino, Marco, Maffo».

 Che nome è Maffo?

«Il nome di un antenato. Siamo originari di Cles, in Trentino. Eravamo sotto l’Austria».

 Nella Seconda Repubblica cosa votava?

«Per fortuna ero già a Londra. La Seconda Repubblica me la sono risparmiata».

 E adesso?

«Guardo i politici litigare, strillare, twittare furiosamente, e non capisco. In Inghilterra, se un politico si comporta in modo scorretto, si dimette e chiede scusa. È un mix di disciplina e libertà: si pagano le tasse, si fa la coda, ci si ferma alle strisce pedonali».

 Esordio nel Pizzighettone, poi la Cremonese. Insomma, non il Real Madrid.

«La Cremonese resta la mia squadra del cuore. Da bambino però tifavo Inter».

 La voleva la Juve.

«Non ero ancora pronto. Il presidente Mantovani mi spiegò il progetto della Samp. Che poteva aspettarmi».

 A Genova trovò Mancini. Siete ancora amici?

«Fratelli. Quando hai la stessa età e hai condiviso per tanti anni il campo di battaglia, puoi stare molto tempo senza sentirti, ma il rapporto rimane per sempre».

È vero che Mantovani aveva due cani, uno di nome Gianluca e l’altro Roberto?

«Non so se esserne contento, ma è vero».

 Vinceste il primo e ultimo scudetto nella storia della Samp.

«Crescemmo passo a passo. La coppa Italia. La finale di Coppa delle Coppe, persa. La finale di Coppa delle Coppe, vinta. E poi il 1991, l’anno dell’impresa».

 Oltre ad Agnelli la cercò il Milan di Berlusconi.

«E il Napoli di Maradona».

 Perché rimase a Genova?

«Ogni volta Mantovani mi chiamava in ufficio, e mi spiegava la sua missione: sfidare lo status quo, ribaltare le gerarchie del calcio. Quando uscivo mi pareva di camminare sulle acque. Ero innamorato di lui, della squadra, dell’ambiente».

Però finì alla Juve: lo status quo.

«Dopo lo scudetto arrivammo in finale di Coppa dei Campioni con il Barcellona. Sapevo già che sarebbe stata l’ultima volta con la Samp. Perdemmo 1 a 0. Per quattro anni ho rigiocato quella partita nei miei incubi».

 Era il 1992: l’ultima Juve di Boniperti e Trapattoni.

«Due grandi. Boniperti lo sento ancora adesso, per gli auguri di compleanno. Duro, esigente, ma giusto».

 E il Trap?

«Era abituato a gestire il cavallo più forte; ma allora con il Milan si correva per il secondo posto. E questo il Trap non poteva accettarlo».

 Com’è giocare nella Juve?

«Un onore, e un onere. Senti il peso della maglia, il dovere di riconsegnarla piegandola per bene e riponendola un po’ più in alto di dove l’avevi presa. E poi Torino, che aveva fama di città fredda e grigia, in realtà è meravigliosa».

A guastare la poesia arrivò Moggi. Com’era?

«Un dirigente che ti metteva nelle condizioni di dare il massimo; e i calciatori pesano i dirigenti da questo. Non dal mercato o dalla politica».

 La gestione Moggi costò alla Juve la serie B.

«Quella Juve avrebbe potuto vincere 6 o 7 scudetti su 10, rispettando le regole. Ma poi la gola ha fatto sì che tentasse di vincerli tutti, non rispettando le regole».

 Ma lei ha mai avuto la sensazione che gli arbitri vi favorissero?

«No. Ne ho anche discusso con i colleghi. Vede, un calciatore tende sempre a pensare che gli arbitri stiano complottando contro la sua squadra. A volte diventa uno sprone a reagire e dare il meglio».

Lei fu testimone al processo per doping. La Juve fu assolta, ma venne fuori un largo uso di farmaci.

«Posso parlare per me. Avrei potuto vivere più serenamente quella vicenda, come altri colleghi. Non ce l’ho fatta. Fu un’ingiustizia».

 Zeman indicò lei e Del Piero.

«Non voglio riaprire vecchie polemiche. È possibile discutere se sia meglio per una distorsione dare il Voltaren, o andare 15 giorni in montagna a riposare. Non è possibile mettere in dubbio i risultati di una carriera. All’inizio ci ho sofferto. Poi ho capito che se ti preoccupi di quello che pensano gli altri appartieni a loro».

 Alla Juve prendevate anche la creatina.

«Per qualche mese. Come tutti. Lecitamente».

 In due anni vinceste lo scudetto e, nel 1996, la Champions.

«Finale all’Olimpico di Roma. Segna subito Ravanelli, pareggia Litmanen. Grande partita, finita ai rigori. La chiude Jugovic segnando il quarto».

 Lei quale doveva tirare?

«Il quinto o il sesto. Fu un sollievo infinito. All’Olimpico avevo sbagliato un rigore al Mondiale del '90 contro gli Stati Uniti, e mi ero rotto un piede tirandone un altro contro la Roma. Quella notte sapevo che era la mia ultima occasione per vincere la Champions. Pensi gli incubi, se no».

È stata l’ultima Champions per la Juve. È una maledizione?

«No. È la pressione. Non è facile trovare l’equilibrio tra tensione e serenità, nella consapevolezza che puoi anche perdere. Se poi hai contro Messi e Cristiano Ronaldo...».

 Chi è il più grande contro cui ha giocato?

«Il Maradona di Messico ‘86: avevo 22 anni, provavo soggezione per Bearzot e il suo carisma. C’erano Zico, Platini, Gullit, Van Basten, Matthaeus».

 Il più forte con cui ha giocato?

«Sono stato un centravanti fortunato. Ho corso per Mancini, Zola, Baggio, Del Piero».

 Lei fece un grande Europeo nell’88, e un Mondiale modesto nel ’90.

«Tre assist, nessun gol. Ogni Mondiale ha una stella nascente, che fu Schillaci, e una stella cadente. Che ero io. Me ne capitarono di tutte: il polpaccio, la coscia, la bronchite... Però la Nazionale di Vicini resta la più divertente e spensierata di sempre».

 Con Sacchi non legaste.

«Fu uno scontro di personalità. Ero abituato a dire quel che pensavo: con lui l’equilibrio tra tensione e serenità non c’era. Mi escluse, convinto che i miei dubbi avrebbero creato energie negative nel gruppo; e aveva ragione. Sbagliai io a rifiutare, quando per due volte mi richiamò, prima e dopo il Mondiale del ’94. Feci il permaloso. La maglia azzurra non si rifiuta mai».

 E Lippi?

«Il mio messia. Al primo colloquio gli dissi che volevo lasciare la Juve. Mi rispose: “Proprio ora che arrivo io e ho bisogno di te?”».

 Dopo la Champions se ne andò davvero. Perché?

«Avevo 32 anni, mi offrirono il rinnovo di un anno solo. Io sognavo l’Inghilterra e la premiership. Mi chiamò il Chelsea».

 Del Chelsea è stato anche manager. E ora ha scritto un libro per Mondadori: «Goals. 98 storie + 1 per affrontare le sfide più difficili».

«Come manager la mia preoccupazione è stata creare una cultura: ambiente di lavoro moltiplicato per i valori. Poi arriva un momento in cui ti trovi all’incrocio, e devi scegliere in quale direzione andare. Ho iniziato a scrivere il libro per aiutare le persone a trovare la strada giusta. Così ho raccolto alcune frasi motivazionali, alcuni mantra, intervallandoli con storie di grandi sportivi, che aiutano a capire. Perché le citazioni non funzionano, se non sei tu che funzioni».

La novantanovesima storia è la sua. Che finora nessuno conosceva. L’esperienza della malattia. Il cancro.

«Ne avrei fatto volentieri a meno. Ma non è stato possibile. E allora l’ho considerata semplicemente una fase della mia vita che andava vissuta con coraggio e dalla quale imparare qualcosa. Sapevo che era duro e difficile doverlo dire agli altri, alla mia famiglia.

 Non vorresti mai far soffrire le persone che ti vogliono bene: i miei genitori, i miei fratelli e mia sorella, mia moglie Cathryn, le nostre bambine Olivia e Sofia. E ti prende come un senso di vergogna, come se quel che ti è successo fosse colpa tua. Giravo con un maglione sotto la camicia, perché gli altri non si accorgessero di nulla, per essere ancora il Vialli che conoscevano. Poi ho deciso di raccontare la mia storia e metterla nel libro».

 L’intervento, otto mesi di chemioterapia, sei settimane di radioterapia. Come sta ora?

«Bene, anzi molto bene. È passato un anno e sono tornato ad avere un fisico bestiale (Vialli ride). Ma non ho ancora la certezza di come finirà la partita. Spero che la mia storia possa servire a ispirare le persone che si trovano all’incrocio determinante della vita. E spero che il mio sia un libro da tenere sul comodino, di cui leggere una o due storie prima di addormentarsi o al mattino appena svegli. Un’altra frase chiave, di quelle che durante la cura mi appuntavo sui post-it gialli appesi al muro, è questa: “Noi siamo il prodotto dei nostri pensieri”. L’importante non è vincere; è pensare in modo vincente. La vita è fatta per il 10 per cento di quel che ci succede, e per il 90 per cento di come lo affrontiamo. Spero che la mia storia possa aiutare altri ad affrontare nel modo giusto quel che accade».

 Lei scrive: «Se molli una volta, diventa un’abitudine».

«Vorrei che qualcuno mi guardasse e mi dicesse: “È anche per merito tuo se non ho mollato”».

Riccardo Ferri: «Vialli e il silenzio nella chat delle Notti Magiche, a dicembre: lì abbiamo capito». Storia di Alessandro Bocci su Il Corriere della Sera il 6 gennaio 2023.

Riccardo Ferri, 59 anni, uno più di Vialli, con Gianluca ha diviso per nove anni la maglia azzurra. Dalla spensieratezza della Under 21 alla consapevolezza della Nazionale maggiore, un viaggio cominciato nell’83 e finito nel ‘92.

«Me lo ricordo il primo incontro, aveva i riccioli e un sorriso birichino che non avrei più dimenticato. Ero arrivato un anno prima, nell’82, ma lui si è integrato subito. Una squadra formidabile, che è passata alla storia anche se nell’86 ha perso la finale dell’Europeo a Valladolid contro la Spagna di Luisito Suarez».

Poi insieme, sempre con Vicini allenatore, siete andati nella Nazionale dei grandi...«Eravamo i ragazzi di Azeglio. Vialli è diventato in fretta il leader di quel gruppo. Mi ha colpito il suo senso di responsabilità ai Mondiali del ‘90 che ha cominciato da titolare prima di lasciare il posto a Baggio e Schillaci. Anche dalla panchina Luca ha continuato a dare suggerimenti e a incoraggiare tutti. Aveva il senso del gruppo».

Chi era Vialli?

«Uno degli attaccanti più forti della sua generazione. Da difensore marcarlo era complicatissimo. Non aveva solo il fiuto per il gol e non aspettava il pallone al centro dell’area, ma se lo andava a cercare. Sempre in movimento e pronto a fregarti. Lui e Ravanelli hanno contribuito a rendere moderno il ruolo, cancellando il concetto di staticità della punta. Si può dire che Vialli ha segnato un’epoca».

E l’uomo?

«Serio e burlone allo stesso tempo. Se ti prendeva di mira con gli scherzi erano guai. Ma anche coraggioso, leale, tenace. Basta vedere come ha affrontato il male: a testa alta».

Vi sentivate spesso?

«Non tanto. La vita ci ha separato, come spesso succede. Ma eravamo uniti nella chat intitolata Notti magiche che avevo creato quando è mancato Vicini. In quei messaggi c’era tanto della nostra vita. Ci sentivamo per gli auguri o quando c’era un evento, anche personale, da ricordare. Luca ha scritto l’ultima volta il 27 novembre per il compleanno del Mancio. Il 22 dicembre, quando c’è stato quello dello zio Bergomi, invece è rimasto in silenzio e lì abbiamo capito...».

Eravate preparati...

«Non lo siamo mai di fronte a queste cose. Sono in ritiro con l’Inter, però il cuore e la mente vanno sempre a Luca. Ho cercato per tutto il giorno di stare lontano dalla televisione senza riuscirci. Ci mancherà, mancherà al calcio italiano. Credo che ci sia molto di Vialli nella vittoria della Nazionale all’Europeo 2021. Rivedendo l’abbraccio forte e spontaneo con Mancini non ho potuto fare a meno di commuovermi. Voleva portare le figlie all’altare, ma sono certo che alle sue ragazze avrà lasciato in eredità grandi insegnamenti. Non è vero che la morte è uguale per tutti. A me resteranno il suo sorriso e un pezzo di vita che non tornerà più».

Dossena: «Vialli ci disse addio con il sorriso. Sofferente, venne a salutare la sua Sampdoria». Monica Scozzafava su Il Corriere della Sera il 7 Gennaio 2023.

Il ricordo del compagno: «Voleva rivederci tutti insieme. Era stanco. Quando giocavamo, era convinto che nessuno gli passasse la palla, ma finì con una gran risata»

Dal 28 dicembre Gianluca Vialli non rispondeva più ai messaggi, due settimane prima, stremato dall’incedere della malattia, si era dato forza. Aveva preso un aereo da Londra, direzione Genova. «Voleva rivederci tutti insieme. Aveva gli occhi stanchi, Luca. Continuava a guardarci da lontano e ci sorrideva».

Beppe Dossena quel giorno, come tutti quelli della Sampd’oro, era al Porto Antico per la presentazione del docufilm «La bella Stagione» che racconta l’anno dello scudetto della Sampdoria. «Fu una festa, fu in qualche modo l’addio di Luca».

Il cordoglio del mondo del calcio e della politica: le reazioni dagli ex compagni alle vedove di Mihajlovic e Paolo Rossi

Che ricordo conserva di quella giornata?

«Eravamo felici. Poi guardavo Luca ed ero sopraffatto dalla tristezza: magro, camminava male. Nessuno fece riferimento alla malattia ma ebbi la sensazione molto netta che lui avesse voluto sfidare il dolore fisico per stare con noi per l’ultima volta in quella Samp che aveva amato così intensamente. Non si reggeva in piedi. Sapeva che ci stava salutando definitivamente ma non aveva alcuna voglia di arrendersi. Dopo qualche giorno è tornato a Londra ed è stato ricoverato».

La malattia e l’esempio: «Vorrei che qualcuno dicesse: “È per merito tuo che non mi sono arreso”»

Lo ha più sentito?

«Sinceramente no, Attilio Lombardo mi ha dato informazioni quasi quotidiane, purtroppo aspettavamo che da un momento all’altro ci avrebbe lasciati. Ma quando succede ti accorgi che non sei mai preparato».

Come lo ha saputo?

«Un messaggio di un nostro compagno di squadra, ero con Attilio e siamo scoppiati a piangere. Ti passa davanti la vita, ti tornano in mente le mille situazioni in cui siamo stati insieme. Piangi, sì piangi. Perché fa male. Mi rendo conto però che è il nostro egoismo».

Vialli, le figlie e la moglie Cathryn White Cooper, la famiglia a Cremona

In che senso?

«Non vogliamo perdere le persone a cui vogliamo bene e le vorremmo con noi anche quando stanno male. Luca soffriva molto nell’ultimo periodo, e il pensiero che adesso stia attraversando un corridoio di luce deve darci pace. Dovrebbe renderci sereni. La fede aiuta».

Vialli vi avrebbe chiesto di non piangere per lui?

«Non c’è dubbio, Luca è una persona con un forte senso di empatia. Un aggregatore. Ne sto parlando al presente perché la sua vitalità è immortale. Uomo positivo, ottimista anche nei confronti della malattia».

Cosa le resta del Luca giocatore?

«L’orgoglio di essere stato accanto ad un grandissimo, un generoso che mai ha pensato soltanto a se stesso, in campo e anche fuori. Attaccante d’altri tempi. E anche quando s’arrabbiava non alzava i toni».

Un aneddoto.

«Si era convinto che in campo nessuno gli passava la palla... tutti la davano a Mancini. Piombò nello spogliatoio e chiese conto di ciò. Gli rispose Cerezo: tu fai il centravanti, sta zitto e aspetta. Finì con una risata generale. Ecco, questo era Luca. È Luca».

Gianluca Vialli è morto a 58 anni. La famiglia: «Vivrà per sempre nei nostri cuori». Paolo Tomaselli su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.

È morto Gianluca Vialli: l’ex calciatore aveva 58 anni, da tempo era in cura per un tumore al pancreas. Lascia la moglie Cathryn e le due figlie Sofia e Olivia

È morto Gianluca Vialli: l’ex calciatore, campione e simbolo di Sampdoria, Juventus, Chelsea e della Nazionale italiana, aveva 58 anni. Da tempo era in cura per un tumore al pancreas. Il 14 dicembre scorso aveva annunciato il ritiro dalla Nazionale, in cui ricopriva l’incarico di capo della delegazione. «Circondato dalla sua famiglia è spirato la notte scorsa dopo 5 anni di malattia affrontata con coraggio e dignità», ha scritto la sua famiglia — la moglie Cathryn, le due figlie Olivia e Sofia — in una nota. «Ringraziamo i tanti che l’hanno sostenuto negli anni con il loro affetto. Il suo ricordo e il suo esempio vivranno per sempre nei nostri cuori». I funerali si terranno a Londra in forma privata.

A Reggio Emilia, il 15 novembre 2020, durante la terza ondata della pandemia, l’Italia si gioca la Nations con la Polonia e deve fare gol. Il c.t. Mancini è a casa, positivo al Covid. Vialli è accanto alla panchina.

Un pallone esce, lui non lo calcia ma lo prende in mano e lo bacia.

Quel gesto del vecchio marine, in un attimo mostra agli azzurri un approdo sicuro e arriva dritto al cuore: perché dentro quel bacio c’è la passione per la maglia azzurra, l’affetto per la palla, vecchia amica di sempre, la voglia di stupire e di lottare in un momento complicato, dentro e soprattutto fuori dal campo.

Ci sono tanti modi per ricordare il capitano coraggioso Gianluca Vialli, ma questa immagine scalda l’anima e nel suo piccolo racchiude un po’ tutto: la fede cieca nel pallone e nella vita, la lotta alla malattia, il suo istinto di capobranco e la sua sensibilità, l’energia che fino agli ultimi giorni è sembrata inesauribile e la nostalgia per quello che sapeva di poter perdere, di lì a poco.

Una bufera di emozioni, che Luca ha imparato a governare negli ultimi anni in pubblico da capodelegazione azzurro. Debuttò nel novembre 2019, già nel pieno della lotta al tumore. Il suo ruolo era quello di saper trovare le parole giuste per accogliere i nuovi arrivati e motivare il gruppo: «Molti di voi sono come me, appassionati di mantra — raccontava ai giocatori — e allora vi dico che un viaggio di mille chilometri inizia con un singolo passo».

Chissà quante volte se l’è ripetuto nel suo cammino con la malattia. Senza retorica, ma con la profondità di chi ha imparato ad apprezzare il viaggio, sempre con il vento in faccia.

Il ragazzo ricco di Cremona, negli anni 80 coi suoi riccioli e i suoi enormi polpacci al vento, aveva la fisicità esuberante di quegli anni spensierati, era lo Stradivialli dipinto da Brera.

Tra 1987 e il 1990, tra i gol alla Svezia che ci riportarono all’Europeo e l’esplosione di Schillaci nelle Notti Magiche, si confermò la vera locomotiva calcistica, una forza della natura. Poi lo scudetto del 91, il culmine della Sampd’oro con Mancini gemello del gol; la finale di Coppa Campioni persa con il Barcellona nel 1992, l’addio al presidente Mantovani.

Quindi la seconda vita, juventina: i capelli rasati, il rapporto non facile con Baggio, il passaggio da Trap a Lippi, i muscoli del capitano che alzano al cielo di Roma la Champions con la Juve nel 1996.

Infine gli anni da pioniere al Chelsea, giocatore e tecnico: Londra era diventata la sua città, lì si era costruito una bellissima famiglia. Vialli giocatore era ingombrante, scomodo. Nell’armadietto alla Juve aveva la foto del c.t. Sacchi «nemico» del momento.

A pensarci, fa sorridere e piangere al tempo stesso, per l’addio di Luca di poche settimane fa all’Italia: «Al termine di una lunga e difficoltosa trattativa con il mio meraviglioso team di oncologi ho deciso di sospendere, spero in modo temporaneo, i miei impegni professionali presenti e futuri. L’obiettivo è utilizzare tutte le energie psico-fisiche per aiutare il mio corpo a superare questa fase della malattia in modo da essere in grado, al più presto, di affrontare nuove avventure e condividerle con voi».

Il suo fisico asciutto era diventato ancora una volta un simbolo, ma di resistenza.

Gianluca all’Europeo vinto era il solito trascinatore, cantava Battisti a squarciagola («Chissà che sarà di noi»), scherzava, incassava dubbi e confidenze, dava consigli. E speranza: «Le persone vedono in me un uomo forte, ma anche fragile. Penso che qualcuno possa riconoscersi in me, coi miei difetti, le tante paure. Con il tumore non sto facendo una battaglia, perché lui è molto più forte di me. È un compagno di viaggio indesiderato, devo andare avanti a testa bassa, senza mollare mai, sperando che si stanchi e mi lasci vivere ancora tanti anni».

Non è andata così. Ma ogni volta che qualcuno darà un bacio a un pallone, penseremo a Luca.

Capitano per sempre.

Cremona, alle radici di Gianluca Vialli: catechismo, il professore Mister e le gite sul Po. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 7 Gennaio 2023.

La rincorsa al pallone nell’ampia casa a Grumello, i calci nelle giovanili del Pizzighettone allenato dal suo maestro di italiano, l'approdo alla Cremonese fino alle luci internazionali della ribalta. Ma senza mai dimenticare le radici 

Le origini di Gianluca Vialli, scomparso a 58 anni per un tumore al pancreas, son state origini classiche specie nella Bassa: dapprima la rincorsa al pallone nell’ampia casa a Grumello, un vecchio castello di campagna, sfasciando piatti e scheggiando mobili, con tanto di auto-telecronaca per impersonare ora questo ora quel campione, chiaramente giocando attaccante e ancor più chiaramente segnando a raffica; dopodiché l’oratorio di Cristo Re a Cremona, a lasciare strati di pelle del ginocchio nel campetto adesso come all’epoca ruvido e spelacchiato su metà della superficie, con il prete che per convincere i più riottosi a seguire il catechismo garantiva che poi avrebbero potuto anche tirar sera, o perfino notte, con le loro partitelle.

Delle sue terre, della sua gente, pur trasferitosi da tempo a Londra, Vialli conservava la riservatezza e il viscerale attaccamento, che coincide con la riconoscenza, tipico di chi ha successo e gira il mondo, nei confronti della provincia: e difatti dall’Inghilterra non erano rare le gite con le due figlie, appunto tra Grumello e Cremona. Camminavano insieme lì dove aveva cominciato, lui innamorato del culto della famiglia: era il quinto e ultimo di cinque fratelli, dunque il più libero, quello con addosso meno ansie dei genitori, quello cui si perdonava ogni cosa; il babbo era un imprenditore, spesso in ditta o in viaggio per lavoro, e la mamma governava quell’allegra ciurmaglia dove Gianluca era pure il più briccone, combinava scherzi e faceva ammattire gli altri. Ma come scritto, godeva di assoluta indulgenza, vegliato come una seconda madre dall’unica sorella, Mila, cui lo univa un legame speciale.

I Vialli venivano dal Trentino, il pallone non era una questione genetica eppure il piccolo Gianluca, smilzo e pieno di riccioli, viveva per il calcio. Si pensava che sarebbe stata una tipica passeggera parentesi infantile. Macché.

Coerente con quegli esordi domestici nel castello, Vialli voleva giocare unicamente in attacco, e i compagni, beninteso, lì lo lasciavano visto che infilava in porta e li faceva sempre vincere. Eppure, se non ci fosse stata una figura anonima ma decisiva, una di quelle che in certe nostre esistenze capitano per caso, oppure capitano perché è così, è destino, forse Gianluca, che da piccolino tifava Inter e da grande, per sua ammissione, godeva assai a segnare alla medesima Inter, ecco, se non ci fosse stato Franco Cristiani chissà se Vialli avrebbe avuto la sua memorabile carriera. Cristiani, che è deceduto nel corso del 2021 («Il mio primo maestro» scrisse Gianluca nel necrologio), insegnava Italiano a scuola e per diletto allenava i Giovanissimi del Pizzighettone, colori bianco e azzurro; ebbene l’insegnante vide Vialli calciare, e siccome capiva di calcio — gli esperti sostengono che basta guardare uno camminare per appurare se sia bravo o no — , lo arruolò, ne migliorò la tecnica e continuò a seguirlo quando Gianluca, notato giocoforza dalla Cremonese, cambiò squadra e iniziò la trafila delle formazioni giovanili fino all’inevitabile debutto in prima squadra. 

Allenato da un altro simbolo del nostro pallone quale Emiliano Mondonico, nella stagione 1983-1984 Vialli raggiunse la promozione in serie A. Anche l’odierna Cremonese è una neopromossa; a inizio campionato, Vialli era in tribuna per la partita contro il Sassuolo, salutato dai tifosi con affetto ma senza enfasi per paura di disturbarlo; e perfino con una certa timidezza, Gianluca aveva ricambiato l’omaggio. In città si discute se intitolargli lo stadio Zini, cioè Giovanni Zini, un bel portiere ucciso al fronte nella prima guerra mondiale, a 21 appena compiuti. Anche Zini, come Vialli, era del mese di luglio.

Il sindaco di Cremona Gianluca Galimberti promette che farà di tutto per garantire la memoria. Iniziative arriveranno dalla Canottieri Baldesio, storica società in riva al Po che Vialli frequentava quand’era in città. Proprio accanto al fluire regolare e lento del Grande Fiume, nei mesi della pandemia Paolino Grassi, custode di segreti e tradizioni di Cremona e dei cremonesi, ci aveva spiegato che «noi fondamentalmente siamo nati agricoli e rimaniamo agricoli; con questo intendo dire che se piomba la tempesta, la affrontiamo e mica ci mettiamo a urlare a squarciagola “oddio scende l’apocalisse” nella speranza che qualcuno senta e corra in nostro aiuto. Ci arrangiamo da soli».

Vialli si considerava uno degli ambasciatori di Cremona, piccola e raccolta città di eccellenze (Mina, Tognazzi, Stajano, gli altri calciatori Guarneri e Cabrini). I fondatori della Cremonese, che anche per praticità e celerità viene chiamata «Cremo», nel 1903 vollero inserire tra le coordinate del club, nel suo credo, due parole: disciplina e concordia.

La Torino di Gianluca Vialli raccontata dall'ex compagno bianconero Torricelli: «Addio capitano, amico guerriero». Timothy Ormezzano su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.

Vialli è stato uno dei massimi protagonisti della Juventus che a metà degli anni Novanta, con lui in attacco, ha vinto uno scudetto, una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana e soprattutto una Coppa Uefa e la Champions  del 1996

Gianluca Vialli era la colonna di una delle Juventus più vincenti di sempre. La tragica e prematura morte dell’attaccante 58enne, che da cinque lunghi anni lottava contro un tumore al pancreas, lascia sgomenti e addolora gli appassionati di tutto il calcio. No, non soltanto quelli di fede bianconera o azzurra. «La notizia della scomparsa di Gianluca fa davvero male al cuore – le prime parole di Moreno Torricelli, suo ex compagno in bianconero -. È una gravissima perdita. Ci lascia una persona splendida, un punto di riferimento importante. Non ci sono parole. Io e i suoi compagni di allora mandiamo un grandissimo abbraccio a tutti i suoi cari, alla sua famiglia, ai suoi figli». E ancora: «Ricordo bene le cose che mi disse all'inizio della malattia, all'inizio del percorso che avrebbe dovuto affrontare, in occasione della presentazione di un suo libro a Milano. Ecco un altro momento che terrò per sempre nel mio cuore». 

Vialli è stato uno dei massimi protagonisti della Juventus che a metà degli anni Novanta, con lui in attacco, ha vinto uno scudetto, una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana e soprattutto una Coppa Uefa e una Champions League. «Gianluca è stato il principale artefice di quella Juve vincente, di quella grandissima squadra – prosegue Torricelli -. Lui conosceva già mister Marcello Lippi dai tempi della Sampdoria. Faceva da tramite tra lo spogliatoio, l'allenatore e la dirigenza. Era una grande persona, un uomo intelligente. Ha saputo creare una mentalità vincente. Un capitano esemplare, sopra la media, un uomo mai banale. Chi ha avuto modo di conoscerlo o anche soltanto di parlargli per qualche minuto lo sa molto bene». 

Durante i suoi quattro anni alla Juventus, dal 1992 al 1996, il numero 9 abitava in corso Vittorio Emanuele II, all'incrocio con corso Galileo Ferraris. «Gianluca viveva in un bellissimo appartamento non distante dal centro – continua Moreno Torricelli -. Ricordo molto bene i primi tempi trascorsi insieme, lui non amava guidare: passavo io a prenderlo in macchina, al mattino, per andare ad allenarci al campo del vecchio Combi. Era un bel modo per conoscersi. Io arrivavo dal nulla, lui era un punto di riferimento per tutti noi, era un capitano». Quel gruppo di campioni che avrebbe vinto sia in Italia che in Europa aveva la bella abitudine di cementarsi anche fuori dal rettangolo di gioco. 

«Non avevamo un locale preferito, ma il giovedì sera era obbligatoria la cena di squadra. Un modo per stare insieme, per andare oltre certe tensioni del calcio. Spesso e volentieri ci trovavamo al ristorante messicano El Centenario, uno dei primissimi ad aprire in città. Si mangiava, si scherzava, si beveva qualche margarita».

In quegli anni era facile incrociare Vialli anche nel ristorante Da Angelino, in corso Moncalieri 59, dove una volta, prima ancora che in quel covo bianconero nascessero i «Rigatoni alla Zidane», Gianluca si mise ai fornelli della cucina con il suo compagno di squadra Michelangelo Rampulla. Qui parlavano di calcio ma anche di calciobalilla, tra una sfida e l'altra al biliardino. Oppure negli altri luoghi mangerecci battuti dai calciatori juventini e granata: i funghi porcini da Michele, in piazza Vittorio Veneto 4, gli antipasti a volontà di Urbani, in via Saluzzo 3, a due passi da Porta Nuova.

Vialli è poi tornato diverse volte a Torino, quasi sempre con il suo ex compagno e grandissimo amico Massimo Mauro. La loro Fondazione Vialli e Mauro si è impegnata con diverse iniziative a supportare la ricerca sulla SLA e sul cancro. I due grandi ex bianconeri hanno organizzato molti tornei di golf tra amatori sui green del Royal Park I Roveri, alla presenza di tante superstar del calcio e dello sport in generale: un po' per sport ma soprattutto per solidarietà. «Il golf è arrivato dopo – conclude Torricelli -, negli anni Novanta eravamo troppo presi dal calcio per avere altre passioni. Si pensava soltanto a ricaricare le batterie per la battaglia che avremmo affrontato il giorno dopo. E Gianluca era un vero guerriero».

Vialli, Massimo Mauro da lui in ospedale: «Era lucido per 10’ ogni 2 ore». Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 7 Gennaio 2023.

L’ex calciatore di Juventus e Napoli era legatissimo a Gianluca, con cui aveva dato vita alla «Fondazione Vialli e Mauro per la ricerca e lo sport». La visita a Londra negli ultimi giorni: «Mi chiese di massaggiargli le caviglie»

Massimo Mauro ha visto Gianluca Vialli il 21 dicembre in ospedale a Londra, 16 giorni prima della notizia che, sapeva, sarebbe arrivata. Era stato l’amico Luca a chiamarlo e a chiedergli di andare da lui. Mauro non ha esitato e prima di Natale è volato in Inghilterra. A poche ore dalla morte è triste ma sollevato, per aver esaudito un suo desiderio e soprattutto per aver avuto la possibilità di salutarlo. Massimo e Gianluca hanno dato vita alla «Fondazione Vialli e Mauro per la ricerca e lo sport».

«Me lo aveva chiesto ed è stato molto importante per me essere lì. La considero una fortuna». Mauro ne parla visibilmente commosso al Tg1, racconta quell’incontro in ospedale che porterà per sempre nel cuore «Luca era ormai in condizioni molto critiche. È stato difficile avere una buona comunicazione. Ma, per 10’ ogni 2 ore, riusciva a essere lucido e allora abbiamo parlato della Juve, della Sampdoria, della fondazione, abbiamo parlato di quello di cui parlavamo sempre. Abbiamo riso».

Il ricordo della persona: «Gianluca era un uomo credibile e sapeva esercitare la leadership, il lavoro nella Nazionale assieme a Mancini lo testimonia — ha aggiunto — e non finirò mai di ringraziare il presidente della Figc, Gravina, per avergli concesso negli ultimi anni della propria vita questa esperienza straordinaria, che a Luca è servita tantissimo.

Il pomeriggio che sono arrivato a Londra, svegliandosi, Luca mi chiese di fargli un massaggio e io ho preso il suo polpaccio e gliel’ho massaggiato, a quel punto mi ha guardato e mi ha detto: “nonostante le mie condizioni, tu non avevi questi muscoli quando giocavi”, e ci siamo fatti una gran risata. Aveva capito in che condizioni si trovava, ma mi sembrava ugualmente sereno. Anche perché ha una famiglia bellissima, due ragazze come Olivia e Sofia fantastiche, una moglie che è stata straordinaria accanto a lui in questi anni. L’unica cosa che non è riuscito a fare è stato il presidente della Sampdoria, società alla quale voleva trasmettere tutto il proprio sapere calcistico».

Da open.online il 7 gennaio 2023.

La malattia che ha portato via Gianluca Vialli è il tumore al pancreas. Si tratta di una patologia che colpisce circa 14 mila pazienti all’anno. Tra le vittime illustri ci sono il tenore Luciano Pavarotti e il fondatore di Apple Steve Jobs. Si localizza nel 70% dei casi sulla testa del pancreas, sul corpo per il 15-20%, sulla coda per il 5-10%.

 La malattia è attualmente la quarta causa di morte nelle donne e la sesta negli uomini, con una sopravvivenza a 5 anni di appena l’8%. Solo il 3% di chi si ammala riesce a sopravvivere 10 anni. La malattia si manifesta sotto diverse forme. La più comune è l’adenocarcinoma, ma in tutti i casi non si manifesta con sintomi riconoscibili. Per questo motivo uno dei problemi più grandi è la diagnosi, che molto spesso arriva quando il tumore è ormai in una fase avanzata e ha generato metastasi.

La malattia del campione

Alessandro Zerbi, responsabile dell’unità operativa di chirurgia pancreatica dell’Humanitas di Milano, spiega oggi che il primo sintomo di Vialli è stato un ittero. Ovvero l’ingiallimento della pelle e della parte bianca degli occhi. Ma l’Istituto Superiore di Sanità avverte che qualsiasi malattia che interferisca con il trasporto della bilirubina dal sangue al fegato e con la sua eliminazione può causarlo.

Altri segni dell’ittero sono le feci chiare e le urine scure. Ce ne sono di tre tipi diversi. L’ittero intra-epatico e l’ittero post-epatico sono più frequenti nelle persone di mezza età e negli anziani rispetto ai giovani. L’ittero pre-epatico può colpire persone di tutte le età, compresi i bambini. Zerbi ha operato Vialli nel 2017. Di tumore del pancreas sono morte anche la prima astronauta americana Sally Ride e le attrici Anna Magnani e Mariangela Melato. Nel mondo del calcio Giacinto Facchetti, Giuseppe Meazza e Omar Sivori.

 L’intervento

«Quell’intervento di duodenocefalopancreasectomia era andato bene», ricorda oggi il dottore in un’intervista al Giornale. L’intervento consiste «nell’asportazione del duodeno e della testa del pancreas. È estremamente complessa». Perché «può dare infezioni, emorragie e fistole nelle prime settimane dopo l’intervento. La convalescenza non è rapidissima, ci vogliono alcune settimane». I fattori di rischio, spiega Zerbi, sono «il fumo, il sovrappeso, un’alimentazione ricca di grassi e povera di fibre e uno stile di vita sedentario. Anche la familiarità definita come avere due casi di parenti stretti che si sono ammalati di questo tumore». Il dottore sfata anche una leggenda metropolitana molto comune: «Non è vero che il tumore progredisce più lentamente se l’età del malato è più alta. Ogni tumore progredisce più velocemente o più lentamente a seconda di quanto è aggressivo. E quello al pancreas è un tumore molto aggressivo dal punto di vista biologico. Tanto che ha una prognosi mediamente peggiore degli altri».

Gli altri sintomi

Oltre all’ittero, gli altri sintomi del tumore al pancreas sono una pancreatite, ovvero un’infiammazione che dà dolori fortissimi. E un diabete improvviso, che di solito è sintomo di uno stadio precoce della malattia. Uno screening «purtroppo non c’è. Solo nel 10% dei casi, ovvero i pazienti che hanno familiarità con la malattia perché hanno avuto due parenti malati.

 Si possono fare controlli periodici: una risonanza magnetica all’anno per tenere sotto controllo la situazione. Solo nel 20-30% dei casi i pazienti se ne accorgono in tempo». In questi casi l’intervento più comune è «l’asportazione del pancreas. Altrimenti si ricorre a chemioterapia o altre cure e radioterapia. Dopo 5 anni dall’intervento sopravvive il 20/30 per cento dei pazienti poiché c’è un alto rischio di metastasi o recidiva: purtroppo è quello che è successo a Vialli».

 L’oncologo e il tumore al pancreas

In un colloquio con l’agenzia di stampa Dire Michele Reni, professore associato di Oncologia dell’Università Vita e Salute e coordinatore dell’area oncologica Irccs San Raffaele di Milano, spiega che «l’unica terapia a bersaglio che era stato dimostrato avesse un certo vantaggio nel controllare la malattia più a lungo era il farmaco Olaparib, indicato per i pazienti Brca mutati. Ma l’Aifa non ha concesso la rimborsabilità e quindi ci impedisce di usarlo».

 Il tumore del pancreas, nota l’oncologo, «purtroppo non fa distinzioni. Colpisce un po’ tutti. Ed è una neoplasia in crescita dal punto di vista numerico. Di fatto noi abbiamo in cura pazienti di ogni età, dai 20 ai 100 anni. È vero che l’incidenza è maggiore nelle persone al di sopra dei 65 anni ma, in effetti, il cancro del pancreas colpisce tanti. Non c’è una categoria particolare di persone a rischio e questo rappresenta una delle difficoltà che incontriamo di fronte a questa malattia, perché non potendo identificare con precisione la popolazione a rischio, di fatto non possiamo fare screening».

Tumore al pancreas, la malattia di cui è morto Vialli: i sintomi e le cure. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.

I fattori di rischio e i sintomi iniziali per la diagnosi precoce. Si tratta di un tumore che spesso viene scoperto tardi proprio a causa dei sintomi, che non sono chiari fino a quando non si è già diffuso. Nel caso di Vialli, la diagnosi era arrivata per la comparsa dell’ittero. Fondamentale farsi curare in Centri con grande esperienza

Resta un nemico difficile da combattere il tumore del pancreas che si è portato via  Gianluca Vialli , dopo aver segnato il destino anche di altri personaggi illustri, come il tenore Luciano Pavarotti, l’attore Patrick Swayze e il co-fondatore di Apple Steve Jobs . Non si può fare molto per prevenirlo, non esistono test in grado di scovarlo precocemente e quando è agli inizi non dà sintomi particolari, mentre i primi segni evidenti compaiono quando ha già iniziato a diffondersi. Per questo, ancora oggi, a cinque anni dalla diagnosi è vivo soltanto il dieci per cento dei pazienti, anche se negli ultimi anni si sono fatti progressi. E cinque anni sono passati anche da quando l'amatissimo ex campione aveva scoperto la malattia e iniziato le cure.

L'operazione a Milano nel 2017

«Gianluca era arrivato alla diagnosi per la comparsa di ittero , un campanello d'allarme che aveva poi dato il via agli esami di approfondimento necessari — racconta Alessandro Zerbi, responsabile dell'Unità operativa Chirurgia pancreatica dell’Istituto Clinico Humanitas IRCCS di Milano, che con la sua equipe ha operato il calciatore a novembre 2017 —. Proprio perché questo tumore è insidioso e aggressivo, i segnali più evidenti compaiono quando ha ormai iniziato a diffondersi agli organi circostanti o ha ostruito le vie biliari, la chirurgia è applicabile solo a un ristretto e selezionato numero di pazienti (il 20-30% circa). Nel suo caso, però c'erano i margini per un'operazione, che abbiamo eseguito con successo. Ma l'intervento dev'essere comunque integrato con la terapia oncologica (principalmente chemioterapia, che può essere fatta prima o dopo l’intervento) per l’elevato rischio che, al momento della diagnosi, siano già presenti micro-metastasi».

Le altre cure in Inghilterra

Vivendo ormai da anni a Londra con tutta la famiglia, per le cure successive Vialli si era poi fatto seguire in Inghilterra. Che il tumore non fosse sparito  lo aveva detto lui stesso, in diverse occasioni, come a dicembre 2021: «L’ospite indesiderato è sempre con me — raccontava alla tv della sua città natale, Cremona1 —. Ogni tanto è un po’ più presente a volte meno. Adesso sto facendo un periodo di manutenzione e quindi si va avanti. Speriamo mi possiate sopportare per tanti anni. Sono fiducioso e ottimista in questo senso».

Le cure: chemioterapia e chirurgia

La chemioterapia ancora oggi è l’arma più importante nell’affrontare un tumore del pancreas e, sostanzialmente, le possibilità di guarigione definitiva dipendono dalla sua capacità di distruggere la malattia «invisibile». Negli ultimi 20 anni l’efficacia e la sicurezza della chemioterapia sono migliorate grazie all’aumento dei farmaci disponibili e al loro utilizzo in combinazione. «Abbiamo fatto progressi e l’aspettativa di vita, che era per lo più di pochi mesi, per un numero crescente di malati che oggi si riescono a operare, arriva anche fino a tre anni — spiega Zerbi —. Certo molto meno rispetto ad altri tipi di cancro, che si riescono a guarire del tutto o con i quali sempre più persone convivono per decenni. Si fa troppa poca ricerca su questo tumore ed è quasi del tutto finanziata dalle associazioni nate per lo più da familiari che hanno perso qualcuno». 

Il ricordo di Fedez: «Da lui una mano incredibile, ho subito lo stesso intervento»

Diversi studi hanno dimostrano, numeri alla mano, che servono Centri specializzati nella cura e che è fondamentale rivolgersi a Centri di grande esperienza, soprattutto per quanto riguarda la chirurgia che è particolarmente complessa. «L’operazione va fatta solo in Centri con determinati requisiti, dove si concentrano più mani esperte — continua Zerbi —. Purtroppo però la neoplasia è aggressiva e in molto casi si ripresenta, anche in tempi brevi. Così si procede con i vari cicli di chemio, sperando di debellarla e cercando di guadagnare tempo prezioso».

Chi rischia di più

Ogni anno in Italia si registrano circa 14mila nuove casi di tumore del pancreas, la maggior parte dei quali in persone fra i 60 e gli 80 anni. Fumo e chili di  troppo (soprattutto l’obesità) aumentano il rischio di ammalarsi, così come la pancreatite cronica (uno stato d’infiammazione permanente fra le più gravi conseguenze di un abuso cronico di alcol) e l'essere portatori di una mutazione dei geni BRCA.

I sintomi

Quanto ai sintomi, è bene non trascurare la comparsa improvvisa del diabete in un adulto, dolore persistente nella zona dello stomaco o a livello della schiena al punto di passaggio tra torace e addome, importante calo di peso non giustificabile, steatorrea (cioè feci chiare, oleose, poco formate, che tendono a galleggiare), comparsa di trombi nelle vene delle gambe o diarrea persistente non spiegata da altre cause.

Da Avvenire l’8 gennaio 2023.

 L’Avvenire prende spunto dalla morte di Gianluca Vialli e Sinisa Mihajlovic per parlare dell’incidenza del tumore al pancreas tra i calciatori. Un problema sollevato nel 2005 da uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità, che aveva rilevato già all’epoca il doppio dei casi di morte tra i calciatori a causa di questa tipologia.

 Il quotidiano ricorda la frase sibillina del tecnico della Roma Zdenek Zeman, quando nella stagione 1998-99 disse: «È ora che il calcio esca dalle farmacie». E scrive che quello di Zeman è “un monito da rileggere con attenzione, specie in questi giorni di lutto stretto per il calcio italiano per la perdita di due campioni cinquantenni, Sinisa Mihajlovic (leucemia) e Gianluca Vialli (tumore al pancreas) che ha prepotentemente riaperto negli spogliatoi l’armadietto dei sospetti”.

 Sul tema si è espresso anche il presidente della Lazio, Claudio Lotito, che qualche settimana fa dichiarò:

 «Bisogna approfondire alcune malattie che potrebbero essere legate al tipo di stress e di cure che venivano fatte all’epoca ai calciatori, ai trattamenti che venivano fatti sui campi sportivi».

 L’Avvenire scrive di Lotito che è stato “il primo a forzare lo scrigno segreto dell’omertoso mondo del pallone italico”.

Un’indagine del tipo di quella chiesta da Lotito fu eseguita dall’ex giudice della Procura di Torino Raffaele Guariniello, che istruì il primo processo penale per doping nella storia del calcio, quello alla Juventus in cui aveva militato anche Gialuca Vialli. Allora, Guariniello, contestualmente al processo per doping, affidò all’Istituto Superiore di Sanità di Roma la ricerca epidemiologica che venne effettuata su un campione di 24mila calciatori di Serie A, B e C rintracciati tramite l’album delle figurine Panini in attività tra il 1960 e il 1996. L’Avvenire intervista, sul tema, il dottor Vanacore, che partecipò allo studio.

 «Sto rileggendo proprio in queste ore quello studio, primo e unico, che pubblicammo nel 2005 e confesso che avverto un certo disagio, anche perché credo sia tempo di aggiornarlo. Nella nostra ricerca che si chiuse con il riscontro di 350 calciatori morti per diverse patologie, il dato epidemiologico più significativo che emerse già allora fu che dei 4,99 casi attesi di calciatori morti di tumore al pancreas ne trovammo 9. Il doppio, e lo stesso, ma con una percentuale non giudicabile come “significativa” quanto quella del pancreas, valeva per i casi di carcinoma al fegato, 4.8 attesi e 9 trovati e la leucemia, casi attesi 5,08, trovati 9».

In quello studio, ricorda L’Avvenire, per la prima volta si denunciava anche l’incidenza della Sla tra i calciatori. Vanacore continua:

 «Nel 2005 l’incidenza delle morti di Sla nel calcio era 12 volte superiore, ma quel dato è stato aggiornato nel 2019 dal gruppo di ricercatori dell’Istituto Mario Negri di Milano che arrivando fino al 2018 con un follow-up allargato rispetto al nostro studio ha riscontrato 32 casi di morte per Sla nella popolazione calcistica ed un rischio doppio rispetto alla popolazione generale. Ma ora occorre un contributo importante da parte delle istituzioni scientifiche, delle società calcistiche e della società civile tutta, perché venga finanziata una ricerca ad ampio spettro che consenta prima di aggiornare il dato epidemiologico per tutte le cause di morte e successivamente capire le cause del fenomeno».

L’Avvenire ricorda il caso di Bruno Beatrice, mediano della Fiorentina, morto in conseguenza di una terapia per curare la pubalgia e lo collega al caso Mihajlovic. Scrive:

 “Siamo partiti dalle morti per tumore al pancreas nel calcio, come quella di Vialli e chiudiamo con quella che per noi da sempre rappresenta il “caso madre”: la morte del mediano della Fiorentina metà anni ‘70 Bruno Beatrice. Il mediano viola è stato “ucciso” da una serie killer di Raggi Roentgen per curare una pubalgia. Da perizia medico scientifica la Roetngen terapia causò la leucemia linfoblastica acuta che nel 1987, a 39 anni, portò Beatrice alla morte. L’inchiesta condotta dai Nas e dal pm di Firenze Bocciolini, appurò che in quella Fiorentina degli anni ’70 si fece «sperimentazione medica».

 Da qui, le possibili conseguenze letali per le morti premature degli ex viola e compagni di Beatrice: Nello Saltutti, Giuseppe Longoni, Ugo Ferrante, Massimo Mattolini, Giancarlo Galdiolo (oltre ai casi di Giancarlo Antognoni, infarto a 51 anni e Domenico Caso, tumore al fegato da cui è guarito). Bruno Beatrice è morto il 16 dicembre, come Mihajlovic, oltre alla leucemia forse una seconda coincidenza su cui fare luce una volta per tutte”.

"Aiuterà tanti malati perché una diagnosi precoce salva". Il chirurgo che lo operò al pancreas: "Questa malattia è tabù, ma parlarne aiuta a riconoscerla in tempo". Marta Bravi il 7 gennaio 2023 su Il Giornale.

Alessandro Zerbi, responsabile del reparto di Chirurgia pancreatica dell'Irccs Istituto Clinico Humanitas e docente dell'Humanitas University, lei aveva operato Gianluca Vialli. «Sì, Vialli si era accorto di avere un tumore al pancreas perché aveva sviluppato l'ittero, un sintomo che l'ha portato a una diagnosi precoce. Era il novembre del 2017 e quell'intervento di duodenocefalopancreasectomia era andato bene». In che cosa consiste? «Nell'asportazione del duodeno e della testa del pancreas. L'operazione è estremamente complessa, ma grazie al suo stile di vita, al fisico atletico e ella dieta già sana che seguiva, l'aveva superato molto bene». Che complicazioni può dare questo intervento? «È un intervento molto complesso che può dare infezioni, emorragie e fistole nelle prime settimane dopo l'intervento. La convalescenza non è rapidissima, ci vogliono alcune settimane, a volte un mese, ma poi la vita prosegue regolarmente».

Non ci sono poi conseguenze dirette dell'intervento?

«No, si deve seguire qualche accorgimento nell'alimentazione, quindi una dieta povera di grassi e di zuccheri, ma ricca di fibre. E poi tenere conto del fatto che si diventa più delicati. L'intervento non è invalidante e la vita poi può proseguire normalmente».

Quali sono i fattori di rischio?

«Il fumo, il sovrappeso, un'alimentazione ricca di grassi e povera di fibre e uno stile di vita sedentario. Anche la familiarità definita come avere due casi di parenti stretti che si sono ammalati di questo tumore».

Quali sono le caratteristiche comuni ai malati?

«Si tratta di un tumore che colpisce più gli uomini delle donne (55 per cento contro il 45) e una fascia di età avanzata da 60 anni in su. Ne approfitto per sfatare un mito: non è vero che il tumore progredisce più lentamente se l'età del malato è più alta. Ogni tumore progredisce più velocemente o più lentamente a seconda di quanto è aggressivo. E quello al pancreas è un tumore molto aggressivo dal punto di vista biologico, tanto che ha una prognosi mediamente peggiore degli altri».

Quali sono i sintomi?

«Purtroppo i sintomi sono spesso tardivi. Tra i sintomi precoci ci sono l'ittero, sintomo legato al tumore alla testa del pancreas che è un tipo specifico di cancro: la massa tumorale comprime le vie biliari facendo tornare indietro la bile responsabile del colore giallo dell'epidermide. Oppure si può verificare una pancreatite, ovvero un'infiammazione del pancreas che dà dolori forti, impossibili da ignorare. Possibile anche un diabete improvviso, segno di uno stadio precoce della malattia».

Esiste uno screening?

«Purtroppo non c'è: solo nel 10 per cento dei casi, ovvero nei pazienti che hanno familiarità per aver avuto due parenti stretti malati, si possono fare dei controlli periodici: una risonanza magnetica all'anno per tenere sotto controllo la situazione. Negli altri casi non esiste uno screening: l'unica via è scoprirlo precocemente. Solo nel 20/30 per cento dei casi, infatti, i pazienti se ne accorgono in tempo per poter essere sottoposti all'intervento di asportazione del pancreas, altrimenti si ricorre a chemioterapia o altre cure e radioterapia. Dopo 5 anni dall'intervento sopravvive il 20/30 per cento dei pazienti poichè c'è un alto rischio di metastasi o recidiva: purtroppo è quello che è successo a Vialli. Però bisogna anche dire che la ricerca e quindi le cure di adesso gli hanno consentito di vivere quei 5 anni con grandi risultati e soddisfazioni».

In che cosa è progredita la ricerca?

«Nella conoscenza dei diversi tipi di carcinoma al pancreas e quindi nella personalizzazione delle cure, nella possibilità cioè di scegliere delle terapie mirate a seconda del tipo di paziente e di tumore. Tutto grazie una complesso lavoro di equipe che vede lavorare insieme patologo, gastroenterologo, chirurgo e oncologo. Gianluca credeva molto nella ricerca, aveva fatto un appello per sostenere Fondazione Humanitas per la Ricerca in questa area».

Qual è l'eredità di Vialli?

«Questa malattia è vista come un tabù perché fa particolarmente paura: ma parlarne aiuta le persone a conoscerlo, a esserne più consapevoli e quindi a essere in grado di sospettare di eventuali sintomi e quindi ad arrivare a una diagnosi precoce che è la cosa più importante. E in questo Vialli, che era una persona stupenda, con il suo modo discreto e sobrio di parlarne, sicuramente ha aiutato e aiuterà tante persone».

L'altro insegnamento che lascia con il suo esempio è il fatto di non arrendersi

«Certo, tutti i pazienti afflitti dallo stesso male sapevano che anche Vialli stava lottando, ma lo vedevano a bordo di un campo da calcio conseguire un successo dopo l'altro».

In questo ricorda il ciclista Lance Armstrong....

«Sì, anche se aveva un tumore diverso, il fatto di sapere trasportare l'agonismo nella vita, anche e soprattutto quando le cose vanno male. Il non mollare mai è un insegnamento che certamente rimarrà. E aiuterà tante persona».

Vialli, la malattia e l’esempio: «Vorrei che qualcuno dicesse: “È per merito tuo che non mi sono arreso”». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.

Campione immenso, Vialli amava sminuirsi («Sono stato un centravanti fortunato»). Della sua malattia non voleva parlare: lo fece nella speranza di poter essere di aiuto per altri. «Vorrei che un giorno qualcuno mi guardasse, o mi pensasse, e dicesse: “È anche per merito tuo se non mi sono arreso”»

Gianluca Vialli è scomparso oggi a Londra a 58 anni: era stato colpito da un tumore al pancreas cinque anni fa. Qui sotto il ricordo di Aldo Cazzullo, cui Vialli aveva rivelato, in una intervista sul Corriere, la sua malattia.

L’intervista doveva essere sul libro. Un bel libro, ben scritto: del resto Luca Vialli, scomparso oggi, era sempre stato un calciatore un po’ particolare. Famiglia benestante, uso del congiuntivo. Da ragazzo votava partito repubblicano, come l’avvocato Agnelli. Aveva un fratello di nome Maffo, come un antenato vissuto nell’impero austroungarico (la famiglia è originaria di Cles, in Trentino).

Il libro non era ancora uscito, c’erano solo le bozze. Raccontava un’interessante serie di storie sportive.

L’ultima era la sua.

La storia della malattia. Di cui nessuno, tranne i familiari più stretti, sapeva nulla.

Solo che nell’intervista Luca Vialli della malattia non voleva assolutamente parlare. Si convinse dopo ore e ore di discussione al telefono. Volle rileggere il testo, e chiese di togliere i dettagli più intimi.

«Di questa brutta cosa avrei fatto volentieri a meno — disse —. Ma non è stato possibile. E allora l’ho considerata semplicemente una fase della mia vita che andava vissuta con coraggio, da cui imparare qualcosa. Sapevo che era duro e difficile doverlo dire agli altri, alla mia famiglia. Non vorresti mai far soffrire le persone che ti vogliono bene: i miei genitori, i miei fratelli e mia sorella, mia moglie Cathryn, le nostre bambine Olivia e Sofia. E ti prende come un senso di vergogna, come se quel che ti è successo fosse colpa tua. Giravo con un maglione sotto la camicia, perché gli altri non si accorgessero di nulla, per essere ancora il Vialli che conoscevano».

Ogni tanto la conversazione si interrompeva, e per farla ricominciare si tornava sul calcio. Gli esordi in provincia: il Pizzighettone, la Cremonese. I no detti alla Juve di Agnelli, al Milan di Berlusconi, al Napoli di Maradona.

Era innamorato del presidente della Sampdoria, Mantovani — «ogni volta che uscivo dal suo ufficio mi pareva di camminare sulle acque» —, e lui era innamorato di Vialli e di Mancini, al punto da chiamare i suoi cani Gianluca e Roberto. Insieme vinsero il primo e unico scudetto della Samp. Arrivarono alla finale di Coppa Campioni, persa con il Barcellona a Wembley 1-0 ai tempi supplementari, e rigiocata da Vialli nei suoi incubi per quattro anni.

Con la Juve, invece, la Coppa la vinse, all’Olimpico; ai rigori, senza aver bisogno di tirare il suo. «Fu un sollievo infinito. Nello stesso stadio avevo sbagliato un rigore al Mondiale del ’90 contro gli Stati Uniti, e mi ero rotto un piede tirandone un altro contro la Roma. Quella notte sapevo che era la mia ultima occasione per vincere la Champions. Pensi gli incubi, se no».

Della Juve parlava con orgoglio: «Senti il peso della maglia, il dovere di riconsegnarla piegandola per bene e riponendola un po’ più in alto di dove l’avevi presa». Ma non si tirava indietro su Calciopoli: «Quella Juve avrebbe potuto vincere 6 o 7 scudetti su 10, rispettando le regole. Però poi la gola ha fatto sì che tentasse di vincerli tutti, non rispettando le regole».

Aveva fatto un grande Europeo nel 1988, ma ai Mondiali non aveva mai avuto fortuna: troppo giovane a Messico ’86, fuori forma a Italia ’90 – «a Schillaci riusciva tutto, a me niente» —, rinunciò alla convocazione a Usa ’94 per dissapori con Sacchi: «E ho sbagliato. La maglia azzurra non si rifiuta mai».

Era stato un grandissimo, ma gli piaceva sminuirsi: «Sono stato un centravanti fortunato. Ho corso per Mancini, Zola, Baggio, Del Piero…».

Alla fine tornammo sul discorso della malattia.

L’intervento, otto mesi di chemioterapia, sei settimane di radioterapia. «Sono tornato ad avere un fisico bestiale» rise.

Si era appuntato una frase su un post-it giallo appeso al muro, da rileggere nei momenti più pesanti: «Noi siamo il prodotto dei nostri pensieri».

Gli chiesi se pensava di vincerla, quella partita. Rispose: «L’importante non è vincere; è pensare in modo vincente. La vita è fatta per il 10 per cento di quel che ci succede, e per il 90 per cento di come lo affrontiamo. Spero che la mia storia possa aiutare altri ad affrontare nel modo giusto quel che accade».

Se ti arrendi una volta, diceva, poi diventa un’abitudine. «Vorrei che un giorno qualcuno mi guardasse, o mi pensasse, e dicesse: “È anche per merito tuo se non mi sono arreso”».

Per questo il modo migliore per onorare la memoria di Gianluca Vialli è non arrendersi mai.

La carriera di Vialli, la vita, la lotta alla malattia: storia di un campione. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.

L’ex attaccante è morto a Londra dopo 5 anni di lotta contro un tumore al pancreas: lascia la moglie Cathryn e le figlie Olivia e Sofia. Ecco la sua storia dal castello con 60 stanze a Cremona al rapporto difficile con Sacchi, fino all’Europeo vinto da assistente di Mancini

L’addio nel giorno dell’Epifania 2023

Luca Vialli si è spento a 58 anni, dopo 5 anni di battaglia contro un tumore al pancreas. Lo aveva domato per qualche anno, con quel carattere da leone con cui aveva preso per mano le squadre in cui aveva giocato e che aveva allenato. Lo aveva trasformato in uno strumento per essere una persona migliore e ispirare altra gente nella sua stessa condizione a non arrendersi. Nella mattinata dell’Epifania del 2023, però, ha chiuso gli occhi per l’ultima volta. Il mondo dello sport — e del calcio in particolare — si è stretto attorno al capitano, all’uomo che, con forza e coraggio ha affrontato fino alla fine a testa alta quel male e ha lasciato un segno in tutti coloro che l’hanno conosciuto.

Vialli, campione dentro e fuori il campo

Sincero, coraggioso, amico, attaccante formidabile: Gianluca Vialli da Cremona è stato quando giocava a calcio un campione unico, in grado di fare la differenza anche fuori dal campo. L’amicizia fraterna con Mancini, i gol da ragazzo alla Cremonese, il presunto flirt con Alba Parietti, lo storico scudetto vinto con la Sampdoria, la Coppa dei campioni da capitano con la Juventus. Che carriera, che forza nel raccontarsi anche nei momenti più difficili, come la battaglia con il tumore. E poi l’ultimo trionfo, con la Nazionale ad Euro 2020. Che storia, la storia di Luca Vialli.

Il castello da 60 stanze

Partiamo dall’inizio, da Cremona dove Gianluca nasce il 9 luglio 1964, il più piccolo di cinque figli: Mila, Nino, Marco, Maffo. Cresciuto all’oratorio, «Sono della generazione di Carosello. E come tutti ho imparato dai preti a giocare a pallone; a patto di frequentare anche il catechismo». Anche perché a casa non c’è una gran passione per il calcio, ad eccezione del padre che tifa per la Juventus. Famiglia borghese, i Vialli abitavano in un castello del XV secolo a Grumello Cremonese, con oltre 60 stanze.

Gli inizi alla Cremonese

Vialli a 9 entra nelle giovanili del Pizzighettone, dove resta fino al 1978 quando va alla Cremonese. Con i grigiorossi esordisce in prima squadra a 16 anni: per questo motivo lascia gli studi. Si diplomerà come geometra solo nel 1993. In totale con la Cremonese tra campionato e Coppa Italia disputa 113 partite e realizza 12 gol. È determinante per il ritorno della squadra in serie A dopo 54 anni. Poi arriva la chiamata della Sampdoria.

Lo scudetto con la Sampdoria

Vialli è uno dei simboli della Sampdoria dello scudetto. Determinante con 19 gol in 26 partite. Lui e Mancini, al punto che il presidente Mantovani chiama i suoi due cani Gianluca e Roberto. «Crescemmo passo a passo. La coppa Italia. La finale di Coppa delle Coppe, persa. La finale di Coppa delle Coppe, vinta. E poi il 1991, l’anno dell’impresa», ha ricordato in un’intervista al Corriere.

La Coppa dei Campioni con la Juventus

Giocare nella Juventus per Vialli è stato «un onore e un onere. Senti il peso della maglia, il dovere di riconsegnarla piegandola per bene e riponendola un po’ più in alto di dove l’avevi presa. E poi Torino, che aveva fama di città fredda e grigia, in realtà è meravigliosa». In bianconero arriva anche l’agognata Coppa dei Campioni, il 22 maggio 1996. All’Olimpico di Roma la Juve batte l’Ajax ai rigori e Gianluca alza la coppa con la fascia di capitano al braccio. Termina la carriera al Chelsea.

Testimone al processo per doping

Vialli è stato testimone al processo per doping. La Juventus fu assolta, ma venne fuori un largo uso di farmaci: «Avrei potuto vivere più serenamente quella vicenda, come altri colleghi. Non ce l’ho fatta. Fu un’ingiustizia». E ancora: «Non voglio riaprire vecchie polemiche. È possibile discutere se sia meglio per una distorsione dare il Voltaren, o andare 15 giorni in montagna a riposare. Non è possibile mettere in dubbio i risultati di una carriera. All’inizio ci ho sofferto. Poi ho capito che se ti preoccupi di quello che pensano gli altri appartieni a loro».

Nazionale, amore e odio

Da calciatore, il rapporto con la Nazionale è stato di amore e odio. Protagonista nell’Europeo dell’88, meno brillante nel Mondiale del 90 (in cui doveva essere la stella della squadra di Vicini), escluso da quello americano del 94 per incomprensioni con Sacchi: «Fu uno scontro di personalità. Ero abituato a dire quel che pensavo: con lui l’equilibrio tra tensione e serenità non c’era. Mi escluse, convinto che i miei dubbi avrebbero creato energie negative nel gruppo; e aveva ragione. Sbagliai io a rifiutare, quando per due volte mi richiamò, prima e dopo il Mondiale del ’94. Feci il permaloso. La maglia azzurra non si rifiuta mai». In totale con l’Italia Vialli gioca 59 partite dal 1985 al 1992, tre con la fascia di capitano, con 16 gol ma nessuno nella fase finale dei due Mondiali che ha disputato e uno solo agli Europei 1988.

La famiglia

Vialli ha sposato nel 2003 Cathryn Cooper, ex modella di origine sudafricana, oggi arredatrice in Gran Bretagna. Hanno due figlie Olivia e Sofia e vivono (da diversi anni) a Londra.

Il flirt con Alba Parietti

Leggenda narra di un flirt giovanile tra Vialli e la showgirl e conduttrice tv Alba Parietti. Si diceva che Gianluca scappasse dal ritiro della Nazionale al Mondiale 90 per incontrarla: «È una cosa che fa parte della mitologia, ma non dirò mai la verità. Ci sono giorni in cui dico di sì e altri in cui dico il contrario…», ha raccontato la diretta interessata qualche anno fa a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1.

La malattia

Dal 2017 Vialli ha combattuto con un tumore al pancreas. Gianluca ha scelto di raccontare la sua storia in un libro: «Mi auguro possa servire a ispirare le persone che si trovano all’incrocio determinante della vita». Prima dell’Europeo, parlando del cancro lo ha definito «un compagno di viaggio indesiderato. È salito sul treno con me e io devo andare avanti, viaggiare a testa bassa, senza mollare mai, sperando che un giorno questo ospite indesiderato si stanchi e mi lasci vivere serenamente ancora per tanti anni perché ci sono ancora molte cose che voglio fare». Pochi mesi fa si è raccontato così alla trasmissione di Alessandro Cattelan «Una semplice domanda», in onda su Netflix: «Sono convinto che i nostri figli seguano il nostro esempio più che le nostre parole. Ho meno tempo di essere da esempio, adesso che so che non morirò di vecchiaia. Ogni mio comportamento mi porta a ragionare così. In questo senso cerco di essere un esempio positivo: cerco di insegnare loro che la felicità dipende dalla prospettiva con cui guardi la vita, che non ti devi dare delle arie, ascoltare di più e parlare di meno. Ridere spesso, aiutare gli altri. Questo è il segreto della felicità».

Il trionfo ad Euro 2020

Dal novembre 2019 fino al dicembre 2022, Vialli è stato capo delegazione della Nazionale, che ha dovuto lasciare temporaneamente per il riaggravarsi della sua malattia. Ha vissuto da protagonista la vittoria ad Euro 2020. Il suo abbraccio tra le lacrime con l’amico di sempre Mancini dopo la finale con l’Inghilterra resta una delle immagini più belle del trionfo azzurro.

La storia di Gianluca Vialli e della sua malattia. GIANLUCA VIALLI su Il Domani il 23 dicembre

Quello che so è che mi sono preparato bene e ho dato il massimo; che la mia squadra non poteva giocare meglio di così

E alla fine tocca a me. Chi sono forse lo sapete: un calciatore, un attaccante, uno a cui è sempre piaciuto fare gol. Ho giocato nella Cremonese, nella Sampdoria, nella Juventus e nel Chelsea, che ho anche allenato. Ho vinto due campionati italiani, di cui quello con la Sampdoria credo sia stato il più bello.

Ho sollevato da capitano della Juventus la coppa con le grandi orecchie. Ho vinto tutte le maggiori competizioni Uefa destinate ai club, ma la Cremonese è la mia squadra del cuore, e il Chelsea quella che mi ha fatto incontrare mia moglie.

LA SCOPERTA

Vivo a Londra, ma torno in Italia ogni volta che posso, d’estate in particolare, per rifugiarmi nella vecchia casa di Grumello, in quella provincia italiana, Cremona, dove sono nato e che voglio che le mie figlie, che sono nate a Londra, imparino a conoscere. Mi piace tenermi in forma, mangiare con cura, fare lunghe camminate e giocare a golf, che però dicono faccia male alla schiena.

E infatti, l’anno scorso, mentre facevo con la mia fisioterapista un certo esercizio per i glutei, ho sentito una fitta alla gamba, come se avessi un cane che mi mordeva il polpaccio. Nervo sciatico, mi hanno detto, niente di cui preoccuparsi. Forse no, ma ho passato sei settimane senza quasi riuscire a dormire, ho perso peso e buon umore.

C’è voluta una risonanza per scovare un’ernia appollaiata sopra al nervo, una cosa che per i dottori si poteva risolvere con un piccolo intervento, e allora avanti, facciamolo. Ma, dopo, i morsi non smettono. Così passo a una terapia in cui si inietta nella zona infiammata un gas che è una combinazione di ossigeno e ozono. E ancora niente.

L’OPERAZIONE

Chiamo Gigi Buffon, perché mi ricordo che al Mondiale sudafricano del 2010 era rimasto bloccato da un mal di schiena tremendo. Mi passa il nome di un gigante dell’ortopedia di Milano. Lo chiamo e prendo appuntamento per il lunedì, subito dopo il mio consueto weekend negli studi di Sky. Gli consegno gli esami, lui mi guarda dritto negli occhi e mi propone un’alternativa: un’operazione, subito, in anestesia totale; oppure aspettare sei settimane sperando che l’ernia rientri per conto suo.

Scelgo l’operazione, mi lascio addormentare, e già il giorno dopo sono di nuovo a Londra, anche se in clinica mi avevano raccomandato almeno tre giorni di degenza. Mia moglie mi dice che sono matto. E io, per la prima volta in vita mia, mi sento così. Diverso. Svuotato, senza fiducia, piango senza motivo. Provo a camminare, ma è dannatamente difficile. Tanto difficile da sentirsi finiti.

Sono carico di farmaci di cui non ricordo nemmeno il nome e poi, una notte, una settimana dopo l’operazione alla schiena, sento i crampi allo stomaco, vomito, e da quel giorno smetto di mangiare, in preda alla nausea. Succhio liquirizia, che dicono aiuti, ma l’unico risultato che vedo, nel bagno, è un getto sempre più scuro. Denso.

Chiamo Sky per annullare il collegamento del sabato. Vado a Milano la domenica, con i denti stretti, e un maglione sotto alla camicia per non far vedere quanto peso ho perso. «Stai bene?» mi chiedono i colleghi. «Sto bene» rispondo. Ma non è vero. E il giorno dopo il dottore mi guarda di nuovo negli occhi.

Fuori dall’ospedale c’è scritto, a caratteri grandi: “Humanitas”. Che poi significa esattamente questo: guardarsi negli occhi e parlare. I miei, di occhi, sono gialli. E il dottore mi dice: «Si fermi, Gianluca».

IL CANCRO

Lo guardo, dubbioso. Perché mi devo fermare? La mia vita è un continuo movimento tra Londra, Milano, la Bbc, Sky, la mia famiglia, i colleghi, i campi da golf, gli amici. Cosa devo fermare? La risposta me la dà la risonanza magnetica: ferma tutto, Luca. Hai un cancro al pancreas.

Quando me lo dicono io ancora non lo so che è uno dei più gravi, ma lo capisco da come il dottore soffia le parole fuori dalle labbra: «Ci sono buone possibilità». Buone possibilità di cosa? mi chiedo. E, quando lo capisco, io che fino a quel momento della mia vita da atleta non sapevo niente di malattie, biopsie, pet-scan, di linfonodi e liquidi di contrasto, mi sento perduto.

Alla prima biopsia che faccio, il tecnico la butta lì: «Io non vedo niente, sai? Forse è benigno». Allora lo abbraccio e lui ride, imbarazzato. Questo è davvero il colmo per un interista: essere abbracciato da Gianluca Vialli! Ma il mio tecnico preferito, purtroppo, si sbaglia. Non è benigno.

COME IN UN RESORT

E bisogna muoversi in fretta: ho una settimana prima dell’operazione. Mi rifugio a Grumello, nella parte di casa che mio papà mi ha donato e che ho sistemato per la mia famiglia. Siamo in pianura, ma per me è come essere sulle montagne russe.

In qualche modo riesco a mettere ordine tra le emozioni: se c’è una cosa che ho imparato a fare nella vita, mi dico, è prepararmi alle cose difficili. Alle grandi partite. So di avere un ottimo allenatore, una squadra perfetta: mia moglie, mia sorella, i miei fratelli. I miei genitori. Loro sono anziani, sono invecchiati bene, come gran parte dei miei avi. Pasta forte, noi Vialli.

E quindi, durante quella settimana, prometto a mio padre che non me ne andrò prima di loro. Però faccio testamento e, nel farlo, vedo tutte le cose della mia vita per quello che sono: cose. Mentre io, mia moglie, le bambine, i miei fratelli, mia madre e mio padre, i miei amici, tutti noi, tutti voi, siamo molto di più. Siamo pensieri e legami, siamo emozioni e parole.

Siamo il futuro che riusciamo a immaginarci. Immaginandolo, il futuro, decido di non dire ancora niente alle bambine. La storia di quello che mi accade viene tessuta e protetta, come spesso succede, dalle donne di casa, che sono straordinarie: mia moglie, che cerca, parla, prepara, sistema e, quando è necessario, dorme per una settimana sul lettino secco dell’ospedale per essere la prima persona che vedo quando apro gli occhi. È positiva e riposata come se fossimo in vacanza nel migliore resort del mondo. E mia sorella, pronta a prendersi cura di me dopo l’operazione.

«È ANDATA BENE»

Entro il 29 novembre, lo stesso giorno in cui, nel 1899, venne fondato il Futbol Club Barcelona. Sono pronto. Mi addormento giurandomi di svegliarmi ancora. E mi sveglio. Sento delle voci, ma non riesco ad aprire gli occhi. Due persone borbottano che l’operazione non è servita a niente, che è tutto pieno, il cervello, i polmoni.

E allora io, semicosciente, sul tavolo operatorio duro su cui la mia schiena è rimasta ferma per nove ore, grido: «Vi sento! Sento tutto!». Loro mi sussurrano che non stavano parlando di me, chiudono la tenda e si allontanano. E per me è tutto. Quando mi sveglio di nuovo c’è mia moglie, ho tubi collegati al collo e all’addome. E una lunga cicatrice in mezzo agli addominali. Lei ha gli occhi che bruciano di felicità.

«È andata bene» dice.

«Quanto devo stare, qui?» le chiedo.

«Quattordici giorni.»

Certo. Come no.

DIRLO ALLE BAMBINE

Esco dall’ospedale dopo sei, tra le proteste dei medici, e mentre mia moglie torna a Londra a tessere la storia per le bambine, io mi affido alle cure di mia sorella, che mi coccola come se fossimo ancora negli anni d’oro dell’infanzia e, per me, certe mattine, con il sole chiaro dell’inverno che filtra tra le tende, è come se il tempo non fosse mai passato e non avessi ancora vissuto niente.

Il Natale è vicino, e mi sento come un bambino che aspetta i regali. Una settimana dopo mi accompagna a togliere i punti e a prendere una lettera in cui mi invitano a condividere un lungo trattamento postoperatorio con il professor Cunningham, a Londra. Sarà lui, ora, a occuparsi di me. Ma prima c’è il Natale.

Lo passiamo in Inghilterra tutti insieme, e io guardo queste persone come forse non le avevo guardate mai. Il giorno di Santo Stefano, con la casa che ha ancora l’odore della carta da pacchi strappata, lo dico alle bambine. Come? Così, come lo sto dicendo a voi.

E mentre parlo con loro, e loro piangono e io piango, capisco che non è vero che il cancro è questo grande nemico da sconfiggere. Non è una lotta per uccidere lui. È una sfida per cambiare sé stessi. Una sfida che mi ha portato dagli ottantadue chili e mezzo di quando ho fatto quell’esercizio di fisioterapia ai sessantasette di Natale.

Quando finisco il mio magro racconto, in casa c’è silenzio, e caldo. Le bambine mi abbracciano, sono con me. La parte più difficile è passata. Il resto è affidato al professore Cunningham, luminare dell’oncologia, che per mia fortuna lavora in un ospedale appena dietro l’angolo di casa mia e che, per ulteriore fortuna, è un tifoso del Chelsea: legge la lettera di Milano, si dice d’accordo con tutta la terapia prevista.

OLTRE LA PAURA

E così partiamo: prima chemioterapia il 9 gennaio, per otto mesi (sei capsule al giorno, tre al mattino e tre alla sera e infusione intravenosa), seguite da sei settimane di radioterapia. La mia vita diventa un’immensità di effetti collaterali che mi vengono scagliati addosso come proiettili, ma che mi mancano tutti.

Ignoro volutamente le percentuali che il cancro ritorni, perché chi gioca a calcio sa bene che se c’è una cosa che fa impazzire gli amanti delle statistiche è che nessuna serve davvero a predire come finirà una partita. Mi bombardano e mi stordiscono, sto male, e sono sorpreso, però, di provare vergogna. Quasi che quanto mi è successo fosse colpa mia.

Continuo a imbottirmi di strati e vestiti per continuare a sembrare Vialli e, se mi chiedono come sto, minimizzo, parlo dell’ernia, o costruisco per gli amici più stretti una versione della storia che è solo una parte della verità. Ho bisogno di difendere sia me sia loro.

Soprattutto, non voglio che cambi il modo con cui mi parlano e scherzano con me. Penso molto, e leggo, anche, e la cosa paradossale è che mi sento quasi grato per quello che mi è successo (lo dico a bassa voce). È una condizione della quale avrei fatto volentieri a meno, ma mi dà l’opportunità di riflettere e di riorganizzare la mia vita da un punto di vista spirituale.

Scopro la filosofia orientale, anche quella spicciola, e la unisco alla mia dedizione per l’allenamento e all’ottimismo. Ho bisogno di dialogare con la paura. La paura vera, quella che ti fa chiudere in bagno e piangere, paura di non riuscire a dire le parole che servono.

Ne parlo con Cunningham, direttamente: «Lei ci crede, professore, che io possa guarire pensando in modo positivo che guarirò?».

E l’oncologo, l’uomo di scienza, mi risponde di sì. È tutto quello che mi serve.

COME LA PRIMA VOLTA

Ci costruisco intorno una nuova, formidabile routine e mi ci dedico anima e corpo: mi sveglio presto, medito su piccole frasi fondamentali, cerco il silenzio, mi focalizzo sui dettagli piacevoli, visualizzo me stesso tra qualche anno, faccio esercizio, leggo e scrivo almeno un pensiero positivo ogni giorno. Gran parte dei quali sono qui, in queste pagine. Mi sforzo di vivere una vita il più normale possibile.

Mi rimetto il maglione sotto la camicia e torno in televisione, a Sky, perché sono convinto che ci sia bisogno di me. E quando un giornalista mio amico mi chiama una volta per dirmi che girano certe voci sulla mia salute, forse perché qualcuno della clinica si è lasciato scappare una parola di troppo, e che addirittura gli hanno chiesto di preparare il coccodrillo – il pezzo che esce quando uno muore –, io mi sforzo di ridere, e continuo ad allenarmi con costanza.

Non solo i muscoli, ma anche i pensieri. I primi tornano, riprendo peso, cammino e poi corro, sento i gusti, le mani ricominciano a piegarsi. I secondi cercano profondità, o altezza, non so dirlo meglio di così. Scrivo su una serie di post-it gialli le frasi che sono dentro questo libro e che ora tappezzano il mio studio. Non so da dove mi siano arrivate, dove le ho lette e sentite. Sono la mia corazza. La mia forza spirituale.

E poi sento di dover condividere con voi tutto questo. Mentre vi scrivo queste righe ho finito la chemio e i trattamenti radio, sono stato anche un po’ in Italia, in vacanza, ma ancora non so come finirà la partita, lo scoprirò più avanti. Quello che so è che mi sono preparato bene e ho dato il massimo; che la mia squadra non poteva giocare meglio di così.

E che mi hanno passato la palla, come la si passa a un attaccante. Quindi sono lì, davanti. La rete la vedo bene. E così la linea di porta, e quella di fondo. So come si fa. Ma ogni volta che calci per fare gol, è sempre come la prima volta: hai bisogno di un bel po’ di coraggio. E, anche, di un pizzico di fortuna. 

da Gianluca Vialli, Goals, Mondadori, 2018 

(LaPresse il 7 gennaio 2023) Gianluca Vialli ci ha lasciato il 6 gennaio all'età di 58 anni per un tumore al pancreas. In una puntata di 'Una semplice domanda', la serie tv Netflix di Alessandro Cattelan, l'ex calciatore di Sampdoria e Juventus aveva parlato della sua lotta contro il cancro, raccontando di come la sua vita fosse cambiata. "Io sono convinto che i nostri figli seguano il nostro esempio più che le nostre parole. Quindi credo di aver meno tempo visto che so che non morirò di vecchiaia. Cerco di essere sempre un esempio positivo. Ma mi sono reso conto che non c'è tempo", diceva Vialli fianco a fianco con Cattelan in una delle sue ultime interviste. 

 L’ex calciatore, campione e simbolo di Sampdoria, Juventus, Chelsea e della Nazionale italiana, da tempo era in cura per il tumore al pancreas . Il 14 dicembre scorso aveva annunciato il ritiro dalla Nazionale, in cui ricopriva l’incarico di capo della delegazione. «Ringraziamo i tanti che l’hanno sostenuto negli anni con il loro affetto. Il suo ricordo e il suo esempio vivranno per sempre nei nostri cuori», ha scritto la sua famiglia . I funerali si terranno a Londra in forma privata.

Antonello Guerrero per repubblica.it il 7 gennaio 2023

Gianluca l’ho visto qui in strada a fine dicembre. Era appena tornato a Londra per ricominciare le cure contro il cancro. Gli ho fatto: “Ehi, Gianluca!”. Lui era molto sofferente, era palese in volto. Ma mi salutato e mi ha sorriso come sempre. Perché il sorriso non lo perdeva mai. Vialli era un vero signore. E solo qui a Londra si sentiva libero. Senza pressioni, senza paparazzi, con la sua famiglia: l'amata moglie Cathryn e le figlie Olivia e Sofia, che oramai sono diventate grandi”.

A parlarci è Lucio Altana, istituzione dei ristoranti italiani di West London e titolare dell’omonimo ristorante “Lucio” a pochi metri dall’ospedale dove è spirato l’ex campione italiano. Il signor Lucio,  sardo ma londinese da una vita, conosceva molto bene Gianluca, sin dai primi anni al Chelsea, quando il campione italiano viveva tra i magazzini di Harrods e Chelsea, e Lucio gestiva anche il celebre ristorante “San Lorenzo”, dove c’era persino una pietanza dedicata a Vialli. "Purtroppo, per le sue condizioni di salute, di recente Gianluca veniva sempre meno spesso a mangiare al ristorante dove aveva festeggiato anche la vittoria degli Europei l'anno scorso a Wembley", ricorda l'amico Lucio, "ma quando capitava facevo di tutto per fargli trovare pietanze che potesse assumere. Lo facevo per lui". (...)

 Come la famiglia più stretta di Vialli in Italia, ossia l’87enne mamma Maria Teresa, il 92enne papà Gianfranco e i quattro fratelli maggiori Mila, Nino, Marco e Maffo, anche Cathryn è sempre stata una donna molto privata, a differenza di molte “wags” a caccia di celebrità. Nessun profilo social, nessuna foto sui tabloid, nessuna intervista alla stampa: solo, accompagnava il marito agli eventi pubblici cui doveva partecipare. E poi le amatissime e giovanissime figlie, che voleva portare all’altare prima di morire, desiderio purtroppo rimasto tale. E con le quali, durante la malattia, “era come un ottovolante per me”, aveva detto commosso l’ex bomber durante un evento pubblico qualche mese fa.

 A tal proposito, poche volte Vialli ha parlato in maniera più approfondita della sua famiglia londinese. Come in una toccante intervista a Repubblica e al Times nel 2020, quando sembrava aver vinto la battaglia contro il maledetto cancro: “Con mia moglie e le nostre figlie siamo sempre riusciti a trovare il lato divertente e positivo della mia malattia. Le ragazze a un certo punto mi hanno fatto le sopracciglia, su supervisione di Cathryn, per farmi più bello dopo la chemio. Ridevamo insieme. Poi però, quando andavo in bagno e rimanevo da solo, mi mettevo a piangere”.

 Qui Vialli, tra queste magnificenti case candide e georgiane dove sono stati abbandonati gli alberi di Natale in strada e dove hanno vissuto pure P.G Wodehouse e William de Morgan, era un londinese doc, di West London. Ludovico ha 18 anni, è un italo-inglese con mamma di Gallarate nato in queste strade e ricorda ancora quando da bambino incontrava Vialli a mangiare al ristorante italiano Rosso Pomodoro: “E lui mi firmava gli album Panini”, ricorda il ragazzo con affetto e un filo di commozione.

Da repubblica.it il 6 gennaio 2023.

Due giorni prima della finale degli Europei del 2021 - poi vinta ai rigori sull'Inghilterra, a Wembley - Gianluca Vialli, capo delegazione della Nazionale, parla a tutta la squadra nel centro tecnico di Coverciano, riuscendo a vincere le lacrime. E legge un passo di un discorso del presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt, "L'uomo nell'arena". Parole toccanti che ci sono state restituite dal documentario Sogno Azzurro, che la Rai ha dedicato al successo della Nazionale.

 Ecco il testo:

L'onore spetta all'uomo nell'arena. L’uomo il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore e dal sangue. L’uomo che lotta con coraggio, che sbaglia ripetutamente, sapendo che non c’è impresa degna di questo nome che sia priva di errori e mancanze.L’uomo che dedica tutto se stesso al raggiungimento di un obiettivo, che sa entusiasmarsi e impegnarsi fino in fondo e che si spende per una causa giusta. L’uomo che, quando le cose vanno bene, conosce finalmente il trionfo delle grandi conquiste e che, quando le cose vanno male, cade sapendo di aver osato.

Da repubblica.it – 3 dicembre 2018 il 6 gennaio 2023.

"Faccio fatica a dirlo ma credo che questa esperienza, di cui si farebbe volentieri a meno, mi abbia reso una persona migliore. Ti aiuta a vedere le cose in un'altra prospettiva, dai più valore alle cose, alla famiglia, devi prenderti cura di te stesso".

 Così Gianluca Vialli, ospite di Fabio Fazio a 'Che Tempo che fa su Rai1', ha raccontato la sua battaglia più difficile, quella con il cancro, che al momento ha superato. Il campione ha aggiunto: "L'ho affrontato come quando facevo il calciatore. Mi sono dato subito degli obiettivi a lunga scadenza: non morire prima dei miei genitori e portare le mie figlie all'altare. E poi degli obiettivi a breve scadenza: l'operazione, la degenza, la chemio, la radio, le vacanze in Sardegna con un fisico da far vedere".

Vialli ha poi voluto ringraziare i tifosi che hanno esposto striscioni di solidarietà negli stadi: "E' stato bellissimo e commovente, sono passati tanti anni ma si ricordano ancora..."ù

 Da lastampa.it il 6 gennaio 2023.

27 novembre 2022, l'ultima apparizione tv di Gianluca Vialli. Che a Che Tempo Che Fa presenta con l'amico di una vita, Roberto Mancini, il film documentario La bella stagione, dedicato alla Sampdoria dello scudetto (stagione 1990/1991). Vialli parla dell'indimenticabile abbraccio con Mancini e delle loro lacrime la sera dell'11 luglio 2021, quando l'Italia ha vinto la finale dell'Europeo contro l'Inghilterra, sul prato londinese di Wembley, dove 29 anni prima Vialli e Mancini persero da giocatori della Sampdoria la finale di Coppa dei Campioni contro il Barcellona.

Marco Beltrami per fanpage.it il 6 gennaio 2023.

La morte di Gianluca Vialli ha scosso il calcio italiano e internazionale. L'ex centravanti di Cremonese, Sampdoria, Juventus e Chelsea e allenatore si è spento a 58 anni, dopo che le condizioni di salute erano improvvisamente peggiorate a causa del tumore al pancreas, costringendolo a sospendere il  suo incarico di capo delegazione della Nazionale, formalizzato attraverso un messaggio audio inviato a tutti i suoi compagni di avventura e al ricovero in una clinica di Londra. La sua ultima apparizione in pubblico invece risale a due settimane fa, in occasione di una puntata di "Che tempo che fa".

Vialli era intervenuto nella trasmissione televisiva condotta da Fabio Fazio, al fianco del suo amico fraterno Roberto Mancini. Una vita insieme quella dei due ex calciatori, legatissimi anche fuori dal campo e ritrovatisi poi fianco a fianco nella cavalcata dell'Italia negli Europei della magica estate 2021. L'ex coppia gol della Sampdoria, si è data appuntamento in TV per parlare di un'altra eccezionale impresa sportiva, quella compiuta in blucerchiato nella stagione 1990-1991. Uno Scudetto storico, che è l'oggetto di un docu-film di Marco Ponti "La bella stagione", che vede ovviamente i due "gemelli del gol" protagonisti.

Chi meglio di loro per parlare di qull'indimenticabile impresa proprio al cospetto di un tifoso sampdoriano doc come Fabio Fazio. In quell'occasione Luca Vialli si è mostrato emozionato, nel tornare a parlare di quanto realizzato a Genova. Dietro il merito sportivo di quel titolo, l'ex attaccante ha voluto sottolineare a Che tempo che fa i valori di quel gruppo, che possono essere esemplari ancora oggi, anche in altri contesti.

 Impossibile restare indifferenti: "È una storia d’amore tra noi e un club straordinario e racconta di un’avventura sportiva bellissima ma anche di quello che succedeva fuori dal campo e quindi vengono fuori dei valori importanti che abbiamo pensato di raccontare e trasmettere alle nuove generazioni. Senso di appartenenza, attaccamento, amicizia, la voglia di fare qualcosa di importante tutti insieme. Siamo veramente soddisfatti di quello che ne è venuto fuori, e io ho pianto quando l’ho visto. È stato bellissimo farlo e molto emozionante vederlo".

 Un'eredità importante dunque per cercare di trasmettere qualcosa di importante, extra-sport: "Vorrei aggiungere che non è solo un racconto sportivo, il diario di una stagione, ma il nostro sforzo è stato quello di trasmettere i valori alla base di quella cultura che ci portò a vincere qualcosa che credo valgano oggi non soltanto in campo sportivo ma in tutti gli ambienti in cui si cerca di fare squadra e ottenere un obiettivo comune".

L’abbraccio tra Vialli e Mancini a Euro 2020

E Vialli si è sempre contraddistinto anche per il suo spirito guascone. La commozione ha lasciato il posto ai sorrisi quando si è parlato della mitica esultanza in mutande post vittoria decisiva contro il Lecce. E non è mancato anche un po' di simpatico imbarazzo: "Eleganza assoluta. Assolutamente, non rinnego niente degli errori che si fanno in gioventù e poi gli anni ’80 sia per la musica che per il fashion… però da qui a mettersi le calze bianche… diciamo che sono migliorato col tempo e andare a Torino e a Londra mi ha aiutato". Con Mancini che ci ha scherzato su: "Erano le sue mutande speciali, ci giocava solo lui con quelle mutande lì".

Impossibile poi non ripensare all'iconico abbraccio tra Vialli e Mancini a Wembley dopo la vittoria degli Europei con la nazionale italiana. Per entrambi lì si è chiuso un cerchio dopo la cocente delusione vissuta nella finale di Coppa dei Campioni con la Sampdoria. E riascoltare oggi le parole di Luca Vialli su quell'abbraccio è un ulteriore colpo al cuore: "Da parte mia è stato un abbraccio completo, c’era un po’ tutto. C’era l’aspetto sportivo e il ricordo di Wembley, la gioia per un nuovo traguardo raggiunto e inaspettato. C’era la paura che aveva condizionato entrambi per via delle mie condizioni. C’è stato tutto questo, le lacrime erano piene di tutti questi sentimenti in un colpo solo e sono quelli abbracci più belli rispetto a quelli che ci davamo quando io gli passavo la palla e lui faceva gol".

DAGONEWS il 6 gennaio 2023.

La morte di Gianluca Vialli non ha colpito solo l’Italia: anche in Inghilterra ci sono state reazioni sconvolte per la scomparsa del calciatore, icona del Chelsea, oltre che della Sampdoria, della Juventus e della nazionale italiana.

 Graeme Souness, che ha giocato con Vialli nella Sampdoria, questa mattina era in diretta sulla tv inglese Sky Sports News per parlare proprio della morte dell’amico ed è scoppiato in lacrime.

 Quando la conduttrice Hayley McQueen gli ha chiesto il suo più recente ricordo di Gianluca, ha risposto:

 “Non sono un dottore, ma quando lo guardavo, mentre era in ospedale a Londra, pensavo di vedere un uomo che era ancora in lotta quando era qui agli Europei. Penso che sia tipico di lui aver tenuto la cosa così privata, così personale e l'ha affrontata come mi sarei aspettato che facesse. Era la sua battaglia, voleva affrontarla da solo. Non voleva che gli altri se ne facessero carico...". Poi non ha trattenuto il pianto e l’intervista è terminata.

Dagospia il 6 gennaio 2023. “VIALLI? ERA IL PIÙ FIGO DI TUTTI”. PIERLUIGI PARDO, A SKYTG24, RICORDA L’EX ATTACCANTE DI SAMP E JUVE: “HA DIMOSTRATO CHE SI PUÒ ESSERE PROFESSIONALI E AVERE UNA GRANDE AUTOIRONIA. RICORDO QUELLA VOLTA CHE SI TINSE I CAPELLI BIONDO PLATINO..” – BRUNO PIZZUL: “AVEVA DENTRO DI SÉ IL PIACERE DI DIVERTIRSI E DI PRENDERE PER I FONDELLI UN PO’ TUTTI. AI MONDIALI DEL ’90, DURANTE LE INTERVISTE...” – IL SALUTO DI MASSIMO MARIANELLA (SKY) E GIANNA NANNINI E LA STORICA BATTUTA DI MANCINI

Vialli? Era il più figo di tutti”. Pierluigi Pardo, a SkyTg24, ricorda l’ex attaccante scomparso oggi a 58 anni, il campionissimo che ha portato nel calcio lo spirito degli anni ’80-’90. Allegria e voglia di vincere. “Ha coniugato talento e intelligenza, ha dimostrato che si può essere professionali e avere una grande autoironia. Ricordo quella volta che si tinse i capelli biondo platino…”.

 “Chi era il più bravo tra me e Gianluca? Non c’è paragone, io ero troppo più forte, ero il suo idolo”. La battuta di Roberto Mancini su Vialli restituisce la storia di una amicizia indissolubile che ha scandito la stagione d’oro della Sampdoria, che gli dedica un post da brividi sui social: “E perché, nonostante tutto, la nostra bella stagione è destinata a non finire mai. Continuerà a brillare in quel cielo cerchiato di blu su cui tu, Luca, hai firmato per sempre. “Per chi?”. “Per noi!”

Massimo Marianella sottolinea il suo ruolo di “uomo spogliatoio” e evoca i suoi “padri calcistici”, il presidente Paolo Mantovani e il direttore sportivo Paolo Borea. Una squadra formato famiglia. La storia dei “sette nani”, le riunioni al ristorante, spaghettate di mezzanotte e partite a carte.

 “La vittoria dell’Europeo con la nazionale a Wembley ha restituito a Gianluca quello che aveva perso a Italia ’90 e con la sfortunata finale di Coppa Campioni con la Sampdoria. La fascia di capitano se l’è portata fino in fondo. Durante la malattia Vialli è stato una guida, una fonte di ispirazione per tutti”.

L’ho conosciuto nella sua anima gentile, ci sono esseri che come lui fanno parte dell’immortalità, in questo nuovo viaggio lo abbraccio profondamente, e mi dispiace non poterlo fare come l’ultima volta che ci siamo visti”, il saluto di Gianna Nannini che cantò le notti per lui non troppo magiche di Italia ’90.

 Ad accompagnare, per l’ultima volta, guizzi e rovesciate di “Stradi-Vialli” la voce inconfondibile di Bruno Pizzul: “L’avevo conosciuto ai tempi della Cremonese, mi venne presentato con l’immagine di un ragazzo ribelle, di buona famiglia, che non aveva bisogno di guadagnare soldi. Il calcio era per lui divertimento. Alla Sampdoria cominciò a maturare come uomo. Aveva dentro di sé il piacere di divertirsi e di prendere per i fondelli un po’ tutti. Ai mondiali del ’90, durante le interviste entrava nelle inquadrature in un modo non sempre consono alla pudicizia”. Gol e leggerezza. Vialli resta il bomber della più bella stagione del calcio italiano.

Aveva 58 anni. È morto Gianluca Vialli. L’Inkiesta il 6 Gennaio 2023.

Il campione di Juventus e Sampdoria ha perso la vita a Londra a causa di complicazioni dovute al tumore al pancreas di cui soffriva da cinque anni

A 58 anni si è spento a Londra Gianluca Vialli. L’ex calciatore italiano era malato da cinque anni di tumore al pancreas. Campione d’Europa nel 2021 con la Nazionale italiana guidata dall’amico fraterno Roberto Mancini, Vialli è stato l’ultimo capitano della Juventus ad alzare la Champions League nel 1996. «Con incommensurabile tristezza annunciamo la scomparsa di Gianluca Vialli – fanno sapere -. Circondato dalla sua famiglia è spirato la notte scorsa dopo cinque anni di malattia affrontata con coraggio e dignità. Ringraziamo i tanti che l’hanno sostenuto negli anni con il loro affetto. Il suo ricordo e il suo esempio vivranno per sempre nei nostri cuori», ha scritto in una nota la famiglia.

Ammalatosi nel 2017, Vialli aveva raccontato la sua malattia nel libro “Goals”. Nel 2019 aveva accettato l’offerta di diventare dirigente della Nazionale italiana di calcio e consigliere del commissario tecnico Roberto Mancini. Dopo la vittoria dell’Europeo nel 2021, lo scorso dicembre aveva lasciato la Nazionale per curarsi.

Tra le sue imprese sportive c’è anche lo storico scudetto vinto con la Sampdoria nel 1991, assieme a tre Coppa Italia (1985,1988,1989) e una Coppa delle Coppe nel 1990. Nella sua gloriosa carriera ha vinto anche una Coppa Uefa, uno con la Juventus nel 1993. Il 1994 è stato un anno d’oro con la vittoria di Scudetto, Coppa Italia e Supercoppa italiana con i bianconeri. Nella stagione 1996-1997 passò al Chelsea con cui vinse una Coppa di Lega, una FA Cup, un’altra Coppa delle Coppe e una Supercoppa Uefa contro il Real Madrid.

Non voglio morire. Le due vite di Gianluca Vialli, la canzone di Robbie Williams e il dilemma di noi vivi. Guia Soncini su L’Inkiesta il 7 Gennaio 2023.

Forse bisognerebbe trattare il tempo come se fosse illimitato e perderlo in stronzate. Rischiare che, quando morirai, nessuno dirà quant’eri saggio o vorrà postare una foto con te, purché in cambio quel giorno venga tardissimo

«Non è che ho paura di morire: è che non voglio». No, non è una delle molte cose sagge che ha detto Gianluca Vialli: è un verso d’una canzone di Robbie Williams, mi è tornato in mente ieri e ho scoperto solo dopo che l’avevo già citato l’anno scorso, parlando d’un’apparizione televisiva di Vialli; m’è tornato in mente ieri mentre tutti, delle due vite di Gianluca Vialli, citavano soprattutto la seconda.

Non quella in cui gli era concesso parlare d’altro, ma quella in cui ci aspettavamo ci rasserenasse sulla sua certa morte, da malato d’una malattia che non dà scampo e tuttavia capace di conservare una dignità, una compostezza, persino una mesta allegria di cui noi mediocri mica sapremmo far sfoggio sapendo che stiamo per morire.

Se permettete, però, comincerei da quando Robbie Williams non aveva ancora scritto quel verso, e Gianluca Vialli era solo uno che giocava a calcio: più figo degli altri, ma un calciatore. Comincerei dalla vita e dalla volgarità, ché per la morte e lo stile abbiamo fin troppo tempo. Comincerei dalla sera in cui, non avendo mai visto una partita di calcio, prendo nota dell’esistenza di Gianluca Vialli.

È la prima metà degli anni Novanta, immaginatevi una tavolata affollata di quelle in cui non si sa mai chi pagherà il conto alla fine. C’è stata una qualche partita, insomma viene fuori il nome di questo Vialli, che non mi direbbe niente. Senonché. Senonché al tavolo c’è una donna bellissima.

Ha più o meno l’età di Vialli: è una donna, io sono una ragazzina. Una cosa strana che succede nel corso della vita è che, quando io avevo 22 anni e Vialli ne aveva 30, eravamo di due generazioni diverse; adesso, che Vialli è morto a 58 e io ne ho 50, è morto un mio coetaneo.

Quindi c’è questa trentenne bellissima alla quale la me ventiduenne guarda con desiderio mimetico, e la trentenne, alla conversazione degli uomini su Vialli, partecipa muta. Facendo, al momento giusto, solo dei gesti che quella conversazione inevitabilmente la dirottano. Dei gesti che intendono riferirsi all’apprezzabile misura di carne presente nelle mutande del calciatore con cui ella ha avuto commerci carnali dei quali è determinata a metterci al corrente.

La me ventiduenne avrebbe trovato volgarissima e irricevibile l’idea di ricordare un morto raccontando di quella volta in cui una tizia vantava le misure del defunto. La me cinquantenne lo trova l’unico modo accettabile di truffare la morte.

La me di oggi trova che la cosa più volgare successa la mattina della morte di Gianluca Vialli sia la scelta iconografica. Era moltissimo tempo che si sapeva che Vialli stava morendo, e i giornali avevano avuto modo di prepararsi. E i loro preparativi hanno prodotto una scelta quasi univoca: Vialli che piange, abbracciato a Mancini, alla fine d’una partita della nazionale di cui Mancini è allenatore. Quale dev’essere la suggestione? Vialli già vecchio e malato che piange sé stesso? Certe volte mi viene voglia di mandare nelle redazioni il Gabibbo a dire «ma non vi vergognate?».

Avevano avuto tutti modo di prepararsi, i politici che hanno tutti sciorinato il loro penzierino, le soubrette consapevoli o meno delle doti nascoste che avevano tutte la loro brava foto col morto, e tutti i portatori di morte riflessa: nel secolo dell’appropriazione di cadavere, non poteva certo scampare al rituale uno che non devi neanche far finta d’aver trovato amabile. Vialli piaceva a tutti, tutti ne parlavano bene da vivo, che come si sa è un po’ più raro dell’elogio utile a farci brillare di morte riflessa.

Avevano avuto modo di prepararsi perché esistono cose di cui dovremmo indignarci invece delle stronzate su cui ci concentriamo. Ci concentriamo sul linguaggio, guai a chi dice «ha combattuto contro il cancro» (Vialli, saggiamente, ne parlava come d’un passeggero indesiderato che non si decideva a scendere; ma non tutti sono saggi, non tutti sono abili burattinai di parole); e guai a chi usa perifrasi. Ma «male incurabile», che tanto ci scandalizza, a volte è molto preciso: al cancro al pancreas ancora non si sopravvive, nel secolo che manda gente su Marte, e mi sembra più scandaloso questo fatto che il lessico che adoperiamo per dirlo.

Avevamo tutti avuto modo di prepararci perché Vialli aveva raccontato cos’aveva, scegliendo per sé la parte pubblica della questione. Se sei una persona nota, in questo secolo qui, mostri la tua malattia al mondo o la taci a tutti tranne pochi intimi. Tra Nora Ephron che non dice neanche agli amici di avere il cancro, e il marito della Ferragni che s’instragramma dall’ospedale, non paiono esserci vie di mezzo. Vialli era riuscito a mantenere un pudore nell’essere pubblicamente malato, e vorrei che qualcuno gli avesse chiesto se gli pesasse il fatto di essere diventato la sua malattia: se lo dici, poi non puoi più parlare d’altro.

Dieci mesi fa, Gianluca Vialli era morto in televisione. Alessandro Cattelan aveva fatto una serie d’interviste per Netflix, ogni intervista una puntata, con un legame narrativo tra la fine d’una puntata e l’inizio della successiva; prima di quella con Vialli, ce n’era una che finiva in paradiso. Se Vialli a quel punto non avesse già incarnato la propria malattia, il tutto avrebbe evocato Il paradiso può attendere. Invece, mi ricordo che avevo pensato: solo a uno come Vialli puoi dire ehi, ti dispiace se ti geolocalizzo morto come d’altra parte quasi sei, e lui trovarla una cosa spiritosa cui collaborare volentieri.

In quell’intervista lì, a un certo punto Vialli diceva «Mi sono anche reso conto che non val più la pena perdere tempo a far delle stronzate: non c’è tempo». E a questo punto bisognerebbe concludere che è una lezione che dovremmo imparare: smetterla di perder tempo dietro alle stronzate, agli imbecilli, al declino dell’occidente, ai coccodrilli egotici.

Ma forse è il contrario. Forse il lusso d’ignorare che potrei morire domani, o tra un anno, è proprio questo qui: trattare il tempo come se fosse illimitato, perderlo, buttarlo in stronzate. Essere meno stupendi di com’era Vialli, però vivi. Rischiare che, quando morirai, nessuno dirà quant’eri saggio o vorrà postare una foto con te, purché in cambio quel giorno venga tardissimo.

È morto Gianluca Vialli. Giovanni Capuano su Panorama il 6 Gennaio 2023.

L'attaccante della Sampdoria tricolore, della Juve e della Nazionale è stato sconfitto dal cancro al pancreas contro cui l'ottava da tempo

La malattia si è portato via Gianluca Vialli. Aveva 58 anni, troppo pochi per morire. Lui, eroe del calcio italiano, che dal 2017 conviveva con un tumore al pancreas contro il quale ha lottato fino all'ultimo circondato dall'affetto dei suoi cari e dalle preghiere di un mondo già provato dalla prematura scomparsa di Sinisa Mihajlovic, altro guerriero salutato tra le lacrime in una fredda giornata di dicembre. Una battaglia che Vialli aveva scelto di rendere pubblica, raccontando paure e speranze e vivendo un ultimo momento di enorme felicità legata al pallone nell'accompagnare la nazionale dell'amico fraterno, Roberto Mancini, sul tetto d'Europa. Era il 12 luglio 2021, poco più di un anno fa. L'immagine del suo abbraccio con Mancini aveva fatto il giro del mondo: un cerchio che si chiudeva nello stesso luogo dove i due avevano vissuto l'apice (amaro) della loro carriera di simboli della Sampdoria del presidente Mantovani, sconfitti beffardamente dal Barcellona di Koeman nella finale della Coppa dei Campioni.

Gianluca Vialli è stato questo e mille altre cose dentro un'esistenza troppo breve. Straordinario attaccante, trascinatore della Cremonese nei primi anni della carriera e poi uno dei figli preferiti di Mantovani nella Sampdoria campione d'Italia 1991, una delle favole più belle e a lieto fine che la Serie A ricordi. Quindi la militanza alla Juventus arricchita di altri trofei compresa la Champions League del 1996 per poi chiudere a Londra con la maglia del Chelsea da dove è ripartito come allenatore. In nazionale non ha vinto nulla, campione di una generazione meravigliosa e sfortunata che si è bruciata nella notte della semifinale mondiale con l'Argentina di Maradona al San Paolo. E poi opinionista, commentatore tecnico, dirigente sportivo e uomo impegnato nel sociale.

Fino alla scoperta della malattia, all'operazione e alle cure e alla chiamata della Figc per chiedergli di prendere il ruolo di capo delegazione al fianco di Mancini, nel frattempo chiamato al capezzale di un gruppo choccato per la mancata qualificazione mondiale del 2018. Lui e Mancini, insieme fino alla notte di Wembley e sarebbe andata avanti ancora se il tumore non fosse tornato a bussare al fisico provato dell'ex bomber tanto da spingerlo al passo indietro ("spero temporaneo") per concentrare tutte le proprie forze sulle terapie. Ansa Della malattia e della paura di non sopravvivere a lungo aveva deciso di parlare apertamente. Non in segno di sfida, ma per condividere un percorso amaro eppure pieno di momenti indimenticabili. In un colloquio con Alessandro Cattelan quasi il suo testamento spirituale: "Io ho paura di morire, eh. Non so quando si spegnerà la luce che cosa ci sarà dall’altra parte. Ma in un certo senso sono anche eccitato dal poterlo scoprire. Mi rendo anche conto che il concetto della morte serve per capire e apprezzare la vita. L’ansia di non poter portare a termine tutte le cose che voglio fare, il fatto di essere super eccitato da tutti i progetti che ho, è una cosa per cui mi sento molto fortunato". Negli ultimi anni si era più volte parlato della possibilità che tornasse alla guida della Sampdoria, a capo di una cordata per rilevare il club e aiutarlo a superare un periodo turbolento. Non se ne era mai fatto nulla, ma i tifosi blucerchiati avevano sognato a lungo di poter tornare ad abbracciare uno dei protagonisti della loro età dell'oro. Coraggioso in campo, capitano di mille battaglie e uomo di intelligenza riconosciuta, Vialli lascia Cathryn White Cooper, moglie sposata nel 2003 dopo averla conosciuta nella sua parentesi londinese, e due figlie avute con lei: Olivia e Sofia.

Mondo del calcio in lutto: è morto Gianluca Vialli. L'ex attaccante della Nazionale aveva 58 anni. Da tempo lottava contro un tumore al pancreas. L'annuncio della famiglia. Redazione online su la Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Gennaio 2023

Il mondo del calcio in lutto per la morte di Gianluca Vialli. L'ex attaccante della Nazionale è morto a 58 anni. Vialli si è spento in una clinica di Londra dove era ricoverato. Da tempo lottava contro un tumore al pancreas. Era nato a Cremona il 9 luglio del 1964. Ex bomber della Sampdoria scudettata di mister Boskov e della Juventus, è stato poi allenatore. 

La famiglia di Vialli ha confermato la morte dell’ex campione con una nota. «Con incommensurabile tristezza annunciamo la scomparsa di Gianluca Vialli - fanno sapere - circondato dalla sua famiglia è spirato la notte scorsa dopo cinque anni di malattia affrontata con coraggio e dignità. Ringraziamo i tanti che l’hanno sostenuto negli anni con il loro affetto. Il suo ricordo e il suo esempio vivranno per sempre nei nostri cuori».

Amico fraterno dell'allenatore della Nazionale, Roberto Mancini, aveva lasciato il ruolo di capo delegazione dell'Italia il 14 dicembre scorso, per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute. Nel messaggio salutava tutti con queste parole: «Al termine di una lunga e difficoltosa trattativa con il mio meraviglioso team di oncologi ho deciso di sospendere, spero in modo temporaneo, i miei impegni professionali presenti e futuri. L’obiettivo è quello di utilizzare tutte le energie psico-fisiche per aiutare il mio corpo a superare questa fase della malattia, in modo da essere in grado al più presto di affrontare nuove avventure e condividerle con tutti voi. Un abbraccio». La morte di Vialli arriva a pochi giorni da quella di Pelè e di Sinisa Mihajlovic.

Cremonese, Sampdoria, Juventus, Chelsea e la maglia azzurra dell’Italia. Sono state queste le maglie con le quali Gianluca Vialli, scomparso oggi all’età di 58 anni, si è affermato ad altissimi livelli rientrando nella cerchia molto ristretta di calciatori (unico attaccante) che hanno vinto tutte le principali competizioni Uefa per club. Debutta tra i prof con la maglia grigiorossa in serie C nella stagione 1980-1981. Il debutto in B avviene a settembre 1981 e con la maglia della Cremonese totalizza 105 presenze e 23 gol in quattro stagioni, contribuendo con 10 gol in maniera decisiva alla promozione in A (Mondonico in panchina), dopo 54 stagioni, nella stagione 1983-1984. In estate passa alla Sampdoria di Paolo Mantovani, che attorno ai gemelli del gol Mancini-Vialli costruisce una grande squadra, protagonista di quegli anni in Italia e in Europa. Con la maglia blucerchiata rimane 8 stagioni totalizzando 328 presenze e 141 gol. 

Ricco il palmares: scudetto, Coppa delle Coppe, 4 Coppa Italia, Supercoppa italiana, una finale di Coppa Campioni persa al supplementare a Wembley contro il Barcellona di Ronald Koeman, sua ultima apparizione in maglia Samp. Quindi passa alla Juventus di Baggio e Ravanelli (e poi di Del Piero), dove rimane per quattro stagioni con Trapattoni e poi con Lippi alla guida totalizzando 145 gare e 53 reti. Anche in questo caso ricco il palmares: scudetto, Champions League, Coppa Uefa, Coppa Italia e Supercoppa italiana.

Nella stagione 1996-1997 approda al Chelsea, dove con Gianfranco Zola e Roberto Di Matteo forma un trio italiano di altissimo livello. In panchina c'è Ruud Gullit, che nel febbraio 1998 proprio a causa di dissidi con l’azzurro, si dimette e la società promuove nel ruolo di allenatore-giocatore proprio Gianluca Vialli che con la squadra inglese totalizza 78 gare e 40 gol da giocatore (più quasi due stagioni poi da allenatore), portando nel suo personale palmares Coppa delle Coppe, Supercoppa, Coppa d’Inghilterra, Coppa di Lega inglese. 

Significativa la sua storia con la maglia dell’Italia di cui è stato anche capitano: 21 presenze e 11 reti con l’Under 21 (argento e bronzo agli Europei di categoria 1984 e 1986), quindi l'esordio il 16 novembre 1985 con la nazionale maggiore con cui colleziona 59 presenze condite da 16 gol. Gioca due Mondiali (1986 e 1990) e un Europeo (1988). L’azzurro torna prepotente nella sua vita quando nel marzo 2019 viene nominato ambasciatore italiano per gli Europei del 2020 e da novembre dello stesso anno diventa capodelagazione della Nazionale allenata dal suo grande amico Roberto Mancini. Iconico il loro abbraccio dopo la vittoria degli Europei nel 2021 a Wembley contro l’Inghilterra.

La Figc per ricordarlo ha disposto un minuto di raccoglimento da osservare prima di tutte le gare dei campionati di calcio in programma nel prossimo fine settimana. 

IL CORDOGLIO

«Ciao Gianluca»: la Juventus saluta così Gianluca Vialli. Sui social, il club bianconero ha voluto omaggiare l’ex bianconero postando una foto dell’ex calciatore che alza al cielo la Champions League, dopo la vittoria nella finalissima del maggio 1996 contro l’Ajax.

Cordoglio anche dal Napoli Calcio. «Aurelio De Laurentiis e tutto il Napoli si uniscono al dolore della famiglia e del mondo dello sport per la scomparsa di Gianluca Vialli indimenticabile campione ed esempio di grande spessore umano».

Il presidente della Figc, Gabriele Gravina ricorda così Gianluca Vialli: «Quello che ha fatto per la maglia azzurra non sarà mai dimenticato». «Sono profondamente addolorato - aggiunge Gravina - ho sperato fino all’ultimo che riuscisse a compiere un altro miracolo, eppure mi conforta la certezza che quello che ha fatto per il calcio italiano e la maglia azzurra non sarà mai dimenticato. Senza giri di parole: Gianluca era una splendida persona e lascia un vuoto incolmabile, in Nazionale e in tutti coloro che ne hanno apprezzato le straordinarie qualità umane». 

«Rimarrai per sempre nei nostri cuori. Ciao, campione» è invece il tweet del tecnico della Salernitana, Davide Nicola, nel ricordare Vialli.

Quando il turista Gianluca Vialli ha visitato la Puglia e la Basilicata. Sereno e disponibile nonostante la malattia lo stesse spegnendo, eppure curioso e attento al territorio. Tra i migliori centravanti degli anni Ottanta e Novanta del XX° secolo, ha disputato partite anche in Puglia. Come quella volta dell'amichevole contro la Russia con la Nazionale nel 1988... Francesca Di Tommaso su la Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Gennaio 2023

Gianluca Vialli è stato un grande uomo, un grande calciatore ma anche un ospite curioso e affascinato dal territorio che lo ospitava. Un campione che ha visitato anche la Terra di Puglia e di Basilicata, nella sua lunga straordinaria carriera. E non solo per motivi professionali.

L'ultima delle sue visite risale a maggio scorso, quando è stato visto a Gallipoli, in un periodo che gli consentiva di evitare la ressa dei turisti. Provato dalle cure per il tumore al pancreas che lo ha stroncato stamattina, eppure sorridente, disponibile, sereno nonostante una battaglia che conduceva da più o meno cinque anni contro il male incurabile che non gli ha dato scampo.

Dalle spiagge del Salento, Vialli aveva poi raggiunto la Basilicata, una visita nella città dei Sassi, a Matera, per presentare il suo libro “Goals. 98 storie + 1 per affrontare le sfide più difficili”, in cui parlava, tra l'altro, anche della sua lotta contro la malattia.

Non solo turista curioso del territorio, come raccontano coloro i quali avevano avuto modo di conoscerlo in queste occasioni, Vialli aveva più volte giocato in Puglia con le maglie dei club che ha indossato, dalla Juventus alla Sampdoria. Tra i migliori centravanti degli anni ottanta e novanta del XX secolo, a Bari lo ricordano ancora quando, con la maglia della Nazionale, disputò un'amichevole allo stadio della Vittoria di Bari, a febbraio 1988. L'Italia vinse contro la Russia per 4-1. Vialli, in quell'occasione, segnò una doppietta, rapidissima e spiazzante: due gol in 5 minuti, tra il trentesimo e il trentacinquesimo.

Morte Gianluca Vialli, il mondo del calcio piange ancora. Minuto di silenzio nel weekend. Il Tempo il 06 gennaio 2023

Se il 2022 si era concluso amaramente per il mondo del calcio, con gli addii a Pelé e Sinisa Mihajlovic, in questi primi giorni del 2023 non si può dire che il trend sia cambiato. È morto a Londra, all'età di 58 anni, Gianluca Vialli, le cui condizioni sono peggiorate nelle scorse settimane a causa del tumore al pancreas contro cui ha lottato negli ultimi cinque anni. Una notizia che ha sconvolto non solo l'Italia ma che ha avuto eco in tutto il mondo, in particolare in Inghilterra, dove Vialli ha giocato e allenato lasciando un dolce ricordo. Per l'occasione è stato disposto dalla Figc un minuto di silenzio su tutti i campi nelle gare in programma nel weekend. I funerali si svolgeranno invece nei prossimi giorni proprio a Londra, in forma privata, lontano dalla luce dei riflettori. Vialli, con il suo sorriso e con il suo atteggiamento, leader in campo e di fronte alla malattia, affrontata sempre a testa alta e senza nascondersi, ha lasciato un pezzo di sé in mezza Italia, e non solo. Dai primi passi mossi con la Cremonese fino al miracolo Sampdoria e allo scudetto del 1991, passando per le vittorie alla Juventus, su tutte la Champions League del 1996, ancora oggi l'ultima conquistata dai bianconeri, sollevata da capitano nella magica notte di Roma. L'ultimo sorriso, forse il più bello perché il più commovente, è legato al trionfo dell'Italia agli Europei del 2021, nella serata di Wembley, suggellato dall'iconico abbraccio con Roberto Mancini, l'amico che gli ha dato fiducia anche quando era già alle prese con il cancro. 

"Sono profondamente addolorato, ho sperato fino all'ultimo che riuscisse a compiere un altro miracolo, eppure mi conforta la certezza che quello che ha fatto per il calcio italiano e la maglia azzurra non sarà mai dimenticato", assicura il presidente della Figc Gabriele Gravina, mentre il numero uno dello sport italiano Giovanni Malagò elogia "il campione ma soprattutto un uomo tutto di un pezzo. Non ci sono parole per descrivere la tristezza che in questo momento ha assalito tutti noi". "Il calcio perde uno dei suoi sorrisi più belli e positivamente contagiosi, quello di Gianluca Vialli - ricorda il presidente della Fifa Gianni Infantino -. Il sorriso di chi ha giocato e allenato. Il sorriso di chi ha vinto, trascinando nella propria felicità i piccoli che stavano diventando grandi, come ai tempi della Sampdoria. Il sorriso mantenuto nonostante la malattia, durante la sua ultima esperienza con la Nazionale italiana".

Nella maggior parte dei ricordi, di società e compagni, le doti dell'uomo subentrano a quelle del fuoriclasse, ed è per questo motivo che gli omaggi a Vialli nel giorno della sua morte scavalcano i confini del calcio e dello sport. "Non dimenticheremo i tuoi i gol, le tue leggendarie rovesciate, la gioia e l'emozione che hai regalato all'intera Nazione in quell'abbraccio con Mancini dopo la vittoria dell'Europeo - sottolinea la presidente del Consiglio Giorgia Meloni -. Ma non dimenticheremo soprattutto l'uomo. A Dio Gianluca Vialli, Re Leone in campo e nella vita". Particolarmente legato all'ex attaccante lombardo anche Fedez, che ha condiviso con Vialli le difficoltà della malattia. "Pur non avendolo mai conosciuto di persona è stato straordinario. Mi ha dato una mano incredibile, abbiamo subito entrambi lo stesso intervento seppur con due patologie diverse - ha raccontato l'artista in un video su Instagram -. Non mi era mai capitato nella vita di piangere al telefono con una persona che non conoscevo ma che conosceva il mio stesso dolore. In quel momento mi ha dato una mano non dovuta ma incredibile". Sincero anche il cordoglio di Gianna Nannini. "Una persona che mi è tanto cara, che ho conosciuto nella sua anima gentile. Non posso ancora crederci. Ci sono esseri che come lui fanno parte dell'immortalità, in questo nuovo viaggio lo abbraccio profondamente - ha scritto la cantante sui social - e mi dispiace non poterlo fare come l'ultima volta che ci siamo visti". 

 "Abbiamo subito lo stesso intervento". Fedez svela la telefonata con Vialli. Morte Vialli, Fedez svela la telefonata: abbiamo subìto lo stesso intervento. Il Tempo il 06 gennaio 2023

Fedez si commuove pensando alla morte di Gianluca Vialli e alla telefonata che il campione gli fece prima dell'intervento chirurgico. «Faccio questo video perché, pur non avendolo mai conosciuto di persona, è stata una persona straordinaria che mi ha dato un aiuto incredibile. Abbiamo subito lo stesso tipo di intervento per due patologie diverse ma a me non era mai capitato di piangere al telefono con una persona che non conoscevo. Mi ha dato una mano, non dovuta ma incredibile». Così Fedez, nelle sue stories di Instagram, ricorda Gianluca Vialli, scomparso oggi a 58 anni dopo una lunga malattia. 

«Mi spiace - aggiunge Fedez, che spesso ha parlato del supporto ricevuto dall’ex calciatore durante la sua malattia - perché avremmo dovuto vederci e avremmo dovuto farci la foto con la nostra cicatrice». Poi un pensiero alla famiglia di Vialli: «Condoglianze alla famiglia, un saluto grande a Gianluca, sono costernato di non essere riuscito a conoscerti più a fondo. Pur avendo avuto una conoscenza solo epistolare e telefonica, mi hai dato tanto ed è giusto che le persone lo sappiano».

Morte Gianluca Vialli, il ricordo di Giorgia Meloni: re leone in campo e nella vita. Il Tempo il 06 gennaio 2023

La scomparsa di Gianluca Vialli ha scatenato una valanga di reazioni, ricordi e commenti in tutto il mondo calcistico. E non solo. Ha preso la parola perfino il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ha voluto testimoniare la sua stima nei confronti dell'uomo e dell'atleta.

«Non dimenticheremo i tuoi i gol, le tue leggendarie rovesciate, la gioia e l’emozione che hai regalato all’intera Nazione in quell’abbraccio con Mancini dopo la vittoria dell’Europeo -  ha scritto Meloni sui social - Ma non dimenticheremo soprattutto l’uomo. A Dio Gianluca Vialli, Re Leone in campo e nella vita». Lo scrive sui social il presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni.

Gianluca Vialli non ce l’ha fatta. Redazione CdG 1947 e Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 6 Gennaio 2023

La sua ultima intervista: "Sono felicissimo di fare il capodelegazione dell’Italia. Un giorno mi piacerebbe, dopo aver imparato, fare il presidente di una squadra. Farei un sacco di cavolate, però ho anche tante idee e tante cose che vorrei provare a cambiare, per rendere il calcio uno sport migliore”.

L’ex attaccante della Nazionale, Juve, Samp, Cremonese e Chelsea è morto a Londra all’età di 58 anni a causa di un tumore al pancreas contro il quale ha combattuto per oltre cinque anni. Gianluca Vialli aveva annunciato qualche settimana fa tramite il sito della FIGC una propria pausa dall’incarico di capo delegazione degli azzurri. Subito dopo il trasferimento nella capitale inglese (dove l’ex bomber ha vissuto molti anni) da dove è arrivata la notizia che le sue condizioni si erano aggravate. Proprio a seguito di un nuovo acuirsi del suo stato di salute Vialli era stato ricoverato in una clinica della città dove era stato raggiunto anche dalla madre.

La famiglia di Vialli ha reso noto la morte dell’ex campione con una nota. “Con incommensurabile tristezza annunciamo la scomparsa di Gianluca Vialli – scrivono –. Circondato dalla sua famiglia è spirato la notte scorsa dopo cinque anni di malattia affrontata con coraggio e dignità. Ringraziamo i tanti che l’hanno sostenuto negli anni con il loro affetto. Il suo ricordo e il suo esempio vivranno per sempre nei nostri cuori”.

La moglie è sempre stata a Londra, al suo fianco, fino a quando non ha dovuto dirgli addio. Cathryn White-Cooper aveva sposato Gianluca Vialli in gran segreto il 26 agosto 2003, dando poi la notizia delle nozze solo attraverso un comunicato all’Ansa. Si erano conosciuti a Londra, quando lui era un calciatore del Chelsea. Lei, modella di origini sudafricane, era arredatrice d’interni. Si erano sposati nel magico castello di Ashby, a Northampton, ma lo avevano fatto solo davanti ai familiari e a pochi amici intimi. Gianluca di Cathryn si era innamorato subito, ma per conquistarla ha raccontato di averci messo più di quattro mesi. Quell’insistenza però lo ha ripagato con i fiori più belli della sua vita, le due figlie Sofia e Olivia. 

Con la moglie e le due figlie Vialli ha vissuto sempre lontano dai riflettori, lontani dai social ( un caso più unico che raro). Di Cathryn si sa poco proprio per questo: i genitori vivono in Sudafrica, dove spesso la famiglia è stata per le vacanze di Natale, e ha una sorella gemella. Non ha mai concesso interviste né si è fatta notare a sfilate o serate di gala. Ma quando c’era, era accanto al “suo” Gianluca. Nel febbraio 2019 Vialli aveva ricevuto il premio “Facchetti” e lei era accanto a lui. Si era commossa, sentendogli dire che “la battaglia per la malattia continua e io non mollo“. Lo amava alla follia.

Alle sue figlie ha pensato anche negli ultimi anni di malattia: “Spero di vivere il più a lungo possibile, però mi sento molto più fragile di prima e ogni comportamento mi porta a fare questo ragionamento, cioè: “È la cosa giusta che sto mostrando alle mie figlie?”. In questo senso, cerco di essere un esempio positivo, cerco di insegnare loro che la felicità dipende dalla prospettiva attraverso la quale tu guardi la vita. Cerco di spiegare loro che non devi darti delle arie, devi ascoltare di più e parlare di meno, migliorarti ogni giorno, devi ridere spesso e aiutare gli altri. Secondo me, questo è un po’ il segreto della felicità. Soprattutto cerco di fare in modo che abbiano l’opportunità di trovare la loro vocazione“. 

Vialli è stato uno dei più grandi attaccanti del calcio italiano: tra gli anni ’80 e ’90 ha fatto la storia di questo sport tanto che nel 2015 è stato inserito nella Hall of Fame. Nato a Cremona gioca per quattro anni tra i professionisti con la maglia grigiorossa conquistando nel suo ultimo campionato la promozione in Serie A. Poi passa alla Sampdoria dove indosserà la maglia blucerchiata fino al 1992. Nella prima stagione conquista la Coppa Italia ma la svolta della sua carriera è quando sulla panchina del club ligure arriva Vujadin Boskov che lo schiera da prima punta. Vialli, insieme a Roberto Mancini, forma una delle coppie più iconiche del calcio italiano (“i gemelli del gol”) e con la maglia della Samp i due campioni vincono lo scudetto nella stagione 1990-1991.

Quell’anno diventa anche il capocannoniere della Serie A con 19 gol. L’anno successivo la Samp riesce anche ad arrivare in finale di Coppa Campioni ma nella finalissima di Wembley vincerà il Barcellona. Proprio lo storico match giocato a Londra sarà l’ultima partita di Vialli con la maglia della Samp: 223 gare e 85 reti. Poi il trasferimento alla Juventus: Vialli arriva in bianconero per la cifra record di 40 miliardi di lire e forma con Roberto Baggio e Fabrizio Ravanelli un tridente stellare. L’anno successivo arriverà alla Juve anche Alessandro Del Piero, aumentando così lo spessore tecnico di una squadra già fortissima.

La prima stagione però, nonostante il trionfo in Coppa Uefa, non è ricca di soddisfazioni (anche a causa di qualche infortunio) mentre quella successiva Vialli si affermerà in maniera totale anche grazie alla guida tecnica di Marcello Lippi. Proprio nella stagione 1994-1995 Vialli conquisterà il suo secondo scudetto e la quarta Coppa Italia. La stagione indimenticabile però è la successiva, l’ultima in bianconero, quando insieme a Del Piero e Ravanelli trascina la Juve al trionfo in Champions League. La finalissima di Roma contro l’Ajax è leggendaria con la Juve che batterà gli olandesi ai calci di rigore. Sarà il suo ultimo match con la maglia della Juve con la quale ha disputato 145 partite e realizzato 53 reti.

Vialli nell’ultima parte della sua carriera ha giocato in Inghilterra indossando la maglia del Chelsea insieme a Gianfranco Zola e Roberto Di Matteo. Nel primo anno con i Blues conquista la FA Cup e in quello successivo, nel doppio ruolo di giocatore e manager guida il club inglese al trionfo in League Cup e Coppa delle Coppe (battendo in semifinale il Vicenza di Guidolin e Luiso e in finale lo Stoccarda di Löw).  L’anno seguente il Chelsea batterà il Real Madrid nella finale di Supercoppa Europea e in Premier perderà solo 3 partite classificandosi al terzo posto con 75 punti alle spalle di Manchester United (79) e Arsenal (75). Al termine della stagione Vialli deciderà di ritirarsi dal calcio giocato. Continuerà ad allenare il Chelsea fino al settembre del 2000 prima di essere sostituito da Claudio Ranieri.

Vialli ha avuto un ottimo rendimento anche con la maglia della nazionale italiana: ha collezionato 59 presenze e realizzato 16 gol. Il suo esordio risale al 16 novembre 1985, a soli 21 anni, nella sfida persa contro la Polonia per 1-0. Bearzot lo convoca anche per il Mondiale del 1986 in Messico mettendo a referto 4 presenze. Vialli diventerà poi uno dei simboli dell’Italia nella gestione successiva, quella di Azeglio Vicini: il 24 gennaio 1987 realizzerà il primo gol in azzurro contro Malta. Partecipa anche agli Europei del 1988 e viene inserito nella squadra del torneo. Il 26 aprile 1989 giocherà contro l’Ungheria la prima partita con la fascia da capitano. Nel 1990, nel mondiale di casa, guiderà, insieme a Roberto Mancini e Roberto Baggio, l’Italia fino alla semifinale poi persa a Napoli contro l’Argentina di Maradona. L’ultima presenza e gol con la nazionale risalgono al 19 dicembre 1992 nella sfida contro Malta valida per le qualificazioni ai Mondiali del ’94 negli Usa.

Dal novembre 2019 era entrato in FIGC come capo delegazione azzurro, al fianco dell’amico fraterno Roberto Mancini suo partner d’attacco ai tempi della Samp . Nella sua ultima intervista con Walter Veltroni sulla Gazzetta dello Sport alla domanda “C’è qualcosa nel calcio che vuoi ancora fare?” aveva risposto: “Sì, è per questo che vorrei vivere ancora per qualche anno almeno, ho tante cose che voglio fare. Sono felicissimo di fare il capodelegazione dell’Italia. Un giorno mi piacerebbe, dopo aver imparato, fare il presidente di una squadra. Farei un sacco di cavolate, però ho anche tante idee e tante cose che vorrei provare a cambiare, per rendere il calcio uno sport migliore”.

Queste le emozionanti parole che Gianluca Vialli rivolse agli Azzurri due giorni prima del trionfo dell’Italia agli Europei 2020 contro l’Inghilterra. Vialli, amico fraterno del ct Roberto Mancini, si dimostrò un punto di riferimento per l’intera squadra durante il torneo: un uomo dotato di grande umanità dentro e fuori dal campo. Vialli, capo delegazione della Nazionale, parlò a tutta la squadra nel centro tecnico di Coverciano, riuscendo a vincere le lacrime. E legge un passo di un discorso del presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt, “L’uomo nell’arena”.

Parole toccanti che ci sono state restituite dal documentario “Sogno Azzurro“, che la Rai ha dedicato al successo della Nazionale. Ecco il testo: L’onore spetta all’uomo nell’arena. L’uomo il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore e dal sangue. L’uomo che lotta con coraggio, che sbaglia ripetutamente, sapendo che non c’è impresa degna di questo nome che sia priva di errori e mancanze.L’uomo che dedica tutto se stesso al raggiungimento di un obiettivo, che sa entusiasmarsi e impegnarsi fino in fondo e che si spende per una causa giusta. L’uomo che, quando le cose vanno bene, conosce finalmente il trionfo delle grandi conquiste e che, quando le cose vanno male, cade sapendo di aver osato.

Adesso Vialli è libero di correre nelle praterie celesti dove incontrerà suoi amici e colleghi, e da dove, ne siamo sicuri, con il suo esempio di esemplare uomo di sport ispirerà tante persone che amano lo sport ed il calcio. Ciao Gianluca ci mancherai.

La notizia della morte di Gianluca Vialli è messa in risalto da un po’ tutti i quotidiani europei. “Il mondo ha perso una leggenda” titola il Sun e di “leggenda” parlano anche il Mirror, la Bild tedesca e il foglio spagnolo As. Il Mundo Deportivo lo indica come “mito del calcio italiano“. Il Daily Mail riassume l’accaduto, ricordando anche il suo passato al Chelsea, e pubblica una foto con la moglie, la modella inglese Catheryn White Cooper. I francesi dell’Equipe danno la notizia della morte e pubblicano sul sito una carrellata di immagini del campione quando era in attività, ricordando l’amicizia «eterna» con il ct Mancini fin dal tempo in cui calcavano il prato palla al piede: “l’Europa piange Gianluca Vialli“, il sottotitolo.

La FIGC ha annunciato, in una nota, che in sua memoria sarà osservato un minuto di raccoglimento prima di tutte le gare in programma nel weekend. I funerali, invece, si svolgeranno lunedì a Londra in forma strettamente privata.  (ha collaborato Alessia Di Bella) Redazione CdG 1947

Lo sport piange la scomparsa di Vialli. Redazione CdG 1947 a cura di Alessandra Monti ed Alessia Di Bella su Il Corriere del Giorno il 6 Gennaio 2023

Tanti i messaggi sui social per ricordare l'ex giocatore e allenatore scomparso a 58 anni. La Juve: "Una tristezza infinita". La Sampdoria: "Per sempre uno di noi". Minuto di silenzio su tutti i campi

Oggi Roberto Mancini sta versando tantissime lacrime. Dopo la morte di Sinisa Mihajlovic e di Luca, vuol dire che un pezzo importantissimo della sua vita se ne va”. È Ivan Zazzaroni, giornalista sportivo e direttore del Corriere dello Sport, a fornire ai lettori e telespettatori informazioni inedite sull’allenatore della Nazionale, sul suo silenzio e come stia affrontando questo periodo. A Vialli era già stato diagnosticato un tumore al pancreas, quando nonostante le cure in corso e le sue condizioni sempre più debilitate, Mancini lo aveva coinvolto nella gestione della Nazionale affidandogli il ruolo di capo delegazione. Oggi, venerdì 6 gennaio 2023 Gianluca Vialli è morto a Londra. Zazzaroni ha parlato del suo rapporto speciale con Vialli: “39 anni di conoscenza, non ce la faccio. Mi disse: “Voi giornalisti mi descrivete come una persona più intelligente di quello che sono”. Era un ragazzo bulimico di vita. Ha avuto una grande vita fino a 5 anni fa, quando è cominciata questa brutta storia“.

La Fifa: “Profonda tristezza“

Siamo profondamente addolorati nell’apprendere della scomparsa di Gianluca Vialli all’età di 58 anni. I nostri pensieri e le nostre condoglianze sono con la sua famiglia e i suoi amici in questo momento difficile. Riposa in pace”. Così la Fifa in un tweet.

L’Uefa: “Riposa in pace“

Oggi il calcio europeo piange la scomparsa di Gianluca Vialli, scomparso all’età di 58 anni. Riposa in pace, Gianluca”. Questo il messaggio della Uefa sulla morte di Vialli. Il massimo organismo del calcio continentale pubblica sul proprio sito un ricordo dell’ex giocatore, tecnico e dirigente, ripercorrendone la carriera, le tappe principali e le vittorie. “Gianluca Vialli, leggendario attaccante di Sampdoria, Juventus, Chelsea e della nazionale italiana, è scomparso a 58 anni dopo una lunga malattia.

Marcatore prolifico nei suoi 19 anni di carriera, Vialli ha collezionato 673 presenze in Serie A, Premier League e competizioni europee per club, segnando 259 gol. Inoltre, ha totalizzato 59 presenze e 16 gol in azzurro”, scrive la Uefa.

Il calcio europeo piange Gianluca Vialli, scomparso all’età di 58 anni.

Vialli ha vinto la #UCL con la Juventus nel 1996, ha collezionato 59 presenze con l’Italia ed è stato uno dei membri più carismatici dello staff azzurro in occasione di EURO 2020.

Malago’: “Porto’ bandiera olimpica a Giochi Torino”

Lo sport italiano e il calcio in particolare oggi hanno perso un campione ma soprattutto un uomo tutto di un pezzo“. E’ l’omaggio a Gianluca Vialli del presidente del Coni Giovanni Malagò, che ricorda una tra le tante immagini legate al campione scomparsa. “Lo sport italiano e il calcio in particolare oggi hanno perso un campione ma soprattutto un uomo tutto di un pezzo. Non ci sono parole per descrivere la tristezza che in questo momento ha assalito tutti noi. Quel suo abbraccio a Wembley con Mancini agli Europei dello scorso anno resta un’immagine indelebile dei valori dello sport ispirati dall’olimpismo. Ma proprio per questo c’è un’altra immagine che vorrei ricordare. Quella del 26 febbraio 2006, quando Vialli, assieme ad altri illustri campioni, portò la bandiera olimpica nel corso della cerimonia di chiusura dei Giochi Invernali di Torino 2006, unico calciatore ad aver avuto questo onore. A nome dello sport italiano e mio personale sono vicino alla famiglia ricordando le infinite emozioni che ci ha regalato Vialli. Ciao Gianluca!“.

Gravina: “Splendida persona, lascia un vuoto incolmabile“

Sono profondamente addolorato. Ho sperato fino all’ultimo che riuscisse a compiere un altro miracolo, eppure mi conforta la certezza che quello che ha fatto per il calcio italiano e la maglia azzurra non sarà mai dimenticato. Senza giri di parole: Gianluca era una splendida persona e lascia un vuoto incolmabile, in Nazionale e in tutti coloro che ne hanno apprezzato le straordinarie qualità umane“. A dirlo Gabriele Gravina in una nota il presidente della Figc,

Giorgia Meloni: “Re Leone in campo e nella vita”

Non dimenticheremo i tuoi i gol, le tue leggendarie rovesciate, la gioia e l’emozione che hai regalato all’intera Nazione in quell’abbraccio con Mancini dopo la vittoria dell’Europeo. Ma non dimenticheremo soprattutto l’uomo. A Dio Gianluca Vialli, Re Leone in campo e nella vita“. Così sui social la presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Non dimenticheremo i tuoi gol, le tue leggendarie rovesciate, la gioia e l’emozione che hai regalato all’intera Nazione in quell’abbraccio con Mancini dopo la vittoria dell’Europeo. Ma non dimenticheremo soprattutto l’uomo. A Dio Gianluca Vialli, Re Leone in campo e nella vita  

Andrea Abodi: “Se n’è andato un amico, non di una vita ma della vita”.

Con Luca c’era un rapporto di stima che è diventato umano, ancora più profondamente umano quando all’inizio del 2021 gli ho detto che eravamo diventati “colleghi”. Da quel momento, regolarmente, era lui che mi mandava messaggi, anche vocali, per informarsi della mia salute e per darmi forza. Lui stava male, ma aveva pensieri buoni per me … e io non avrei potuto non averli per lui. Quando, mesi dopo, gli raccontai che i medici mi avevano detto “per ora guarito” era felice per me e io per il suo star meglio, ovvero anche stabile. Al di là dell’eccellenza mostrata nei suoi diversi ruoli calcistici, penso a Luca, persona sensibile, elegante, generosa, sorridente, tenace e coraggiosa, che ha cercato di confondere e allontanare il “male” perché aveva voglia di vivere e fare ancora tante cose. Una di queste era un suo pensiero ricorrente, un sogno, una passione: migliorare il calcio. Il suo ultimo whatsapp “Buona fortuna Andrea!!” aveva tanti significati … In queste tre settimane ho sperato che rispondesse ai miei, cercato di scacciare cattivi pensieri, temuto che succedesse quel che ho letto questa mattina … In una giornata triste come questa, travolti dalle emozioni dei ricordi e dalle parole mi auguro non di circostanza, il mio pensiero va alla famiglia, a chi gli ha voluto sinceramente bene e … al suo sogno, alla sua passione. i miei, cercato di scacciare cattivi pensieri, temuto che succedesse quel che ho letto questa mattina … In una giornata triste come questa, travolti dalle emozioni dei ricordi e dalle parole mi auguro non di circostanza, il mio pensiero va alla famiglia, a chi gli ha voluto sinceramente bene e … al suo sogno, alla sua passione” scrive su Facebook il ministro per lo Sport e per i Giovani Andrea Abodi

La Cremonese: “Esempio indelebile della nostra essenza”

Resterai un esempio indelebile della nostra essenza, Luca Vialli”. Lo scrive su Twitter la Cremonese.

Il ricordo della Juventus: “Che tristezza infinita, Gianluca“

La Juve ha ricordato con una lunga nota Gianluca Vialli: “Che tristezza infinita, Gianluca. Oggi, 6 gennaio 2023, arriva la notizia che speravamo di non ricevere mai. Ci lascia un campione, anzi, una leggenda, un grande uomo, un pezzo di noi e della nostra storia – si legge – Siamo stati con te da sempre, Gianluca: da quando arrivasti nel 1992 e fu amore a prima vista. Eri uno dei primi tasselli di una Juve che sarebbe tornata, proprio con te, in cima all’Europa. Di te abbiamo amato tutto, ma proprio tutto: il tuo sorriso, il tuo essere contemporaneamente campione e leader, in campo e in spogliatoio, il tuo essere adorabilmente guascone, la tua cultura, la tua classe, che dimostrasti fino all’ultimo giorno in bianconero”. “I nostri momenti più belli di quegli anni portano inevitabilmente a qualcosa che ti racconta: quell’esultanza, alla rimonta completata contro la Fiorentina nel 1994, quando tutto lo stadio era avvolto da un boato e tu no, prendesti la palla e dicesti ‘andiamola a vincere’. E sappiamo come andò a finire. Quella Coppa, che alzasti al cielo in una notte tiepida di Roma, intervallando con quell’attimo infinito un pianto dirotto che iniziò al momento del rigore decisivo. E quel pianto era il nostro: dolcissimo, inarrestabile“.

Ma dicevamo: siamo stati con te da sempre, e quindi anche dopo la nostra storia insieme, seguendoti con un sorriso quando portasti un inedito modello italiano in Inghilterra, in campo e fuori, e solo ora si capisce quanto fosti precursore. E poi negli ultimi anni, combattendo con te l’ultima battaglia, commuovendoci con te quando, in forma eccellente, alzavi la Coppa dell’Europeo, guarda caso a Londra, nel 2021. E anche allora, quella Coppa la alzavamo insieme, dopo tanto tempo”. “Sempre con te abbiamo sofferto, vissuto l’ansia di queste ultime settimane. E di nuovo, alla fine, ci è toccato piangere, ma questa volta non di gioia. Non siamo originali, adesso, nel confessarti che non sappiamo come gestire un mondo senza Gianluca Vialli, sebbene sappiamo che, come siamo stati sempre con te, adesso sarai tu, per sempre con noi. Anche se questo non ci consola, almeno non in questo momento. Che dolore, Gianluca“.

In ricordo di Gianluca Vialli.

Del Piero: “Nostro e mio capitano sempre, ciao Luca“

Nostro Capitano. Mio Capitano. Sempre. Ciao Luca”. Lo scrive su Instagram Alessandro Del Piero, ex compagno di squadra alla Juventus di Gianluca Vialli. Del Piero pubblica una foto in cui è sulle spalle di Vialli dopo un gol. Con loro anche Di Livio e Ravanelli.

Buffon: “Un gigante, il vuoto che lasci è immenso“

Non è semplice trovare le parole in questo momento. Sei stato un gigante, così in campo come nella vita. Hai lottato fino alla fine a testa alta con una dignità unica”. Gigi Buffon con un ricordo personale omaggia Gianluca Vialli, ha postato la foto della maglia n.9 della Samp indossata dall’attaccante scomparso oggi a 58 anni. “Questa maglia – scrive l’ex portiere della Nazionale – che mi regalasti ha un valore inestimabile e ogni volta che la guarderò non potrò che dirti grazie peer tutto quello che hai fatto. Il vuoto che lasci è immenso“.

Il ricordo di Bonucci: “Uomini come te meritano di essere ricordati per sempre“

Sei stato un esempio per tutti Noi. In un momento di così forte dolore penso a Te, alle tue parole in ogni raduno, alla tua forza, alla voglia di essere con Noi sempre anche a discapito della tua salute.

Un Uomo con dei valori importanti e che dovrà vivere dentro ognuno di Noi perché i grandi uomini come Te meritano di essere ricordati per sempre” scrive su Instagram, Leonardo Bonucci.

Dossena: “Aveva alzato bandiera bianca“

Tre settimane fa eravamo insieme a Genova, lui aveva alzato bandiera bianca: ci guardava da lontano, noi avevamo capito che voleva lasciare”. Lo dice all’Adnkronos Beppe Dossena, ricordando l’ultima occasione in cui ha visto Gianluca Vialli. “Camminava male, si muoveva male, ora ho capito che stava facendo l’ultimo sforzo. Ciò che fa male a me è che lui abbia sofferto prima di lasciarci, come Paolo Rossi. Lui, come Paolo, come Sinisa: io sono convinto che quel passaggio li abbia rasserenati tutti e che non soffrano più, la tristezza rimane sulla terra come è giusto che sia”. E come giocatore, aggiunge infine, “un attaccante generoso, che pensa prima alla squadra e poi a sé, a quel livello è difficile da trovare”.

Tardelli: “Ciao Luca, grande e magnifico combattente“

Ciao Luca resterai sempre nei miei pensieri e nel mio cuore come un grande e magnifico combattente… Prima sui campi di calcio e poi nella battaglia della vita! La tua coppa Europea è la vittoria del coraggio e della resilienza. Riposa in pace amico ed esempio luminoso”. Così Marco Tardelli su Twitter ricorda Gianluca Vialli.

Ciao Luca resterai sempre nei miei pensieri e nel mio cuore come un grande e magnifico combattente…Prima sui campi di calcio e poi nella battaglia della vita!

La tua coppa Europea è la vittoria del coraggio e della resilienza.

Riposa in pace amico ed esempio luminoso  

Ferrara: “Eri come un fratello“

Come si fa a lasciarti andare via? Eri come un fratello”. Ciro Ferrara ricorda così su Instagram Gianluca Vialli postando una foto in cui i due si abbracciano dopo la conquista della Champions con la Juve.

Baggio: “Nel tuo viaggio celeste porta l’amato pallone“

E’ sempre difficile accettare e comprendere il mistero della vita. Soprattutto quando vieni strappato all’affetto dei cari così giovane e così presto. Caro Gianluca, auguro al tuo viaggio celeste di essere avvolto dalla luce tranquilla per il tuo eterno riposo”. Roberto Baggio ricorda, con una dichiarazione Vialli, amico-rivale in campo in azzurro. “Il mio più profondo pensiero lo rivolgo a sua moglie, ai figli, ai genitori, ai fratelli, ai cari amici. Con il tuo sorriso e l’allegria porta anche lassù il tuo amato pallone. A noi rimarrà per sempre il tuo coraggio ed il tuo prezioso esempio. Buon viaggio Gianluca“.

Attilio Lombardo: “Perdo un fratello, lo voglio ricordare per il sorriso“

Oggi ho perso un fratello. Mi chiamava “Attila”, abbiamo giocato per 5 anni insieme ma poi siamo rimasti vicini tutta la vita, anche con l’ultima esperienza in Nazionale – ricorda Attilio Lombardo con la voce rotta dall’emozione – La fortuna è stata non esserci mai persi per strada. Purtroppo Gianluca mi ha fatto lo “scherzo” più brutto che poteva farmi, proprio nel giorno del mio compleanno. Non si è mai preparati, speri sempre in qualche miracolo. Non è andata così ma Luca lo vogliamo ricordare per quello che è stato e per il suo sorriso alla presentazione del documentario sulla Sampdoria, l’ultima volta insieme a Genova. È stata quasi un’impresa quella di tornare proprio qua, forse anche un segno, il destino o non lo so, nonostante fosse già molto stanco. Qualche giorno dopo è stato ricoverato e non è mai uscito dall’ospedale“.

Pirlo: “Sei stato un esempio di coraggio e dignità“

Sei stato un esempio di coraggio e dignità, in campo e nella vita. Ciao Luca R.I.P”. Così Andrea Pirlo su Instagram.

Marchisio: “Gianluca non perde mai“

Quando la partita si mette male prende il pallone e lo riporta velocemente a centrocampo. Quando tutto sembra perduto fa un gol impossibile e ribalta la partita. Con il suo carisma tira fuori il meglio di tutti quanti. Gianluca non perde mai, anche questa volta ci ha insegnato che tutti possiamo e dobbiamo essere dei combattenti, anche se in realtà non lo saremo mai come te. Sento un vuoto profondissimo, un pensiero alla sua famiglia e alle sue bimbe, vostro papà è un vero eroe“

Costacurta: “Uomo esemplare anche fuori dal campo“

Gianluca amava particolarmente lo spirito di squadra. Per me, per tanti, è stato un esempio, ma io, e glielo dicevo sempre, sono sempre stato attratto dal suo modo di parlare, di vestire, è stata una persona di riferimento e non solo per come si comportava in campo. Aveva una capacità di coinvolgere tutti unica” è il ricordo di Alessandro Costacurta, sull’ex avversario di mille battaglie tra Milan e Samp, ma anche amico e compagno di squadra in Nazionale. “Lui e Mancini erano diversi, con Roberto in campo litigavo sempre, con lui no. Aveva una grande capacità di ripartire, un grandissimo senso della profondità e grande forza nelle gambe. Ma noi avversari lo amavamo, così come Maradona, per il suo modo di reagire dopo i falli, ti diceva di non preoccuparti o che per fermarlo si doveva fare così, veramente un campione in tutti i sensi“.

Zanetti: “Sei stato classe, eleganza, rispetto”

Sei stato classe, eleganza, rispetto. In campo e fuori, ogni giorno. Il tuo sorriso resterá per sempre. Riposa in pace, Gianluca“

Pippo Inzaghi: “Esempio e idolo“

Ciao Gianluca, sono distrutto da questa notizia. Per me sei stato un esempio oltre che un idolo. È stato un orgoglio indossare la tua 9. Riposa in pace Campione”. Lo scrive su Instagram l’ex bomber di Juve e Milan Pippo Inzaghi, attuale tecnico della Reggina.

Verratti: “Mi hai fatto emozionare e piangere tante volte“

In questo pianto si vede la persona che eri. Altruista generosa e con un cuore immenso. Avevi sempre una parola di conforto per tutti, anche quando eri tu ad averne bisogno più di qualunque altro. Mi hai fatto emozionare e piangere molte volte”. Anche l’azzurro Marco Verratti ricorda Gianluca Vialli, postando la foto dello ‘storico’ abbraccio tra Vialli e Roberto Mancini dopo la vittoria degli Europei. “Resterai nel cuore di tutti perché persone come te sono impossibili da dimenticare. Sei un esempio di forza, coraggio e dignità. Ci mancherai“.

Infantino: “Il calcio perde uno dei suoi sorrisi più belli”

Il calcio perde uno dei suoi sorrisi più belli e positivamente contagiosi, quello di Gianluca Vialli”. Comincia così il ricordo di Gianni Infantino, con un post su Instagram. Il presidente della Fifa, nel rendere omaggio alla memoria dell’ex attaccante morto oggi a 58 anni a Londra, parla del “sorriso di chi ha giocato e allenato. Il sorriso di chi ha vinto, trascinando nella propria felicità i piccoli che stavano diventando grandi, come ai tempi della Sampdoria. Il sorriso mantenuto nonostante la malattia, durante la sua ultima esperienza con la Nazionale italiana”. “Vialli – ha aggiunto Infantino – è stato un grande calciatore e un uomo intelligente. Un giorno mi ha visto palleggiare e mi ha detto: ‘Gianni, diciamolo, non sai palleggiare. Ti insegno io’. E, di nuovo, ha sorriso. È giusto ricordarlo così, attraverso la sua espressione felice. È stato un grande, perché si divertiva e faceva divertire tutti noi. La sua passione è stata la definizione più bella del calcio. Un abbraccio enorme alla famiglia e agli amici”.

Fedez: “Mi hai dato tanto“

Faccio questo video perché pur non avendolo mai conosciuto di persona è stata una persona straordinaria, che mi ha dato un aiuto incredibile. Abbiamo subito lo stesso tipo di intervento per due patologie diverse, ma a me non era mai capitato di piangere al telefono con una persona che non conoscevo. Mi ha dato una mano, non dovuta ma incredibile“. Così Fedez, nelle sue stories di Instagram, ricorda Gianluca Vialli.”Mi spiace -aggiunge Fedez, che spesso ha parlato del supporto ricevuto dall’ex calciatore durante la sua malattia- perché avremmo dovuto vederci e avremmo dovuto farci la foto con la nostra cicatrice”. Poi un pensiero alla famiglia di Vialli: “Condoglianze alla famiglia, un saluto grande a Gianluca, sono costernato di non essere riuscito a conoscerti più a fondo. Pur avendo avuto una conoscenza solo epistolare e telefonica, mi hai dato tanto, ed è giusto che le persone lo sappiano“.

Chiara Ferragni: “Sei stato una grande persona“

Sei una grande persona e non smetterò mai di ringraziarti per l’energia e dolcezza che hai condiviso con Fede prima dell’operazione. Grazie per quello che hai fatto per noi e per tutti quanti”: così la cremonese Chiara Ferragni, influencer e imprenditrice ricorda il suo concittadino Gianluca Vialli.

Lippi: “Rimarrai scolpito nel nostro cuore“

Grande Luca, grande amico, rimarrai scolpito nel nostro cuore, non ti dimenticherò mai…GRAZIE MIO CAPITANO…“. Lo scrive su Instagram Marcello Lippi, ex ct della Nazionale e tecnico della Juventus che vinse, con Gianluca Vialli, la Champions League del 1996.

Ancelotti: “Ciao amico mio”

Ciao amico mio. Rip Gianluca Vialli”. Così Carlo Ancelotti, allenatore del Real Madrid, ricorda su twitter Gianluca Vialli.

Antonio Conte: “Ti ho detto e scritto che mi hai sempre ispirato“

A cena insieme a Londra pochi mesi fa mentre ci divertivamo a ricordare tutte le nostre avventure e le battaglie sul campo. Purtroppo in questi ultimi anni ne hai dovuta combattere una grande e terribile di battaglia nella Vita — ricorda Antonio Conte, commosso: il tecnico del Tottenham oggi non è riuscito a parlare in conferenza stampa e si è espresso con un post su Instagram — Ti ho detto e scritto che sei sempre stato una fonte d’ispirazione per me come mio Capitano e per come ti stavi dimostrando Forte, Fiero e Coraggioso, lottando come un leone contro questa malattia. Sempre nel mio cuore Amico mio. Ciao Gianluca“. Conte e Vialli sono stati compagni di squadra alla Juve tra il 1992 e il 1996, con l’ex attaccante capitano nella stagione 1995-1996. Insieme, in maglia bianconera, hanno vinto una Coppa UEFA nel 1993, uno Scudetto e la Coppa Italia nel 1995, e soprattutto la Champions League nel 1996. Antonio Conte, dopo l’annuncio della scomparsa dell’ex attaccante e capo delegazione della Nazionale ha comunicato che non sarà presente alla conferenza stampa alla vigilia della sfida di FA Cup tra il suo Tottenham e il Portsmouth. Troppe emozioni piene di dolore.

Mourinho, minuto di silenzio nello spogliatoio della Roma

Minuto di silenzio nello spogliatoio della Roma per ricordare Gianluca Vialli. “Siamo tristi Gianluca… RIP” ha scritto su Instagram José Mourinho. “Lo conoscevo bene, tutti voi che siete stati in Nazionale italiana lo conoscevate bene, anche meglio di me. Ci sarà un minuto di silenzio domenica, ma visto che lo abbiamo saputo ora lo faremo anche qui. Penso che lo meriti anche perché ci sono molti amici suoi“. A quel punto ha parlato il capitano della Roma, Lorenzo Pellegrini: “Si tratta di una persona da cui tutti possiamo imparare tanto, io ho imparato tanto da lui. Oggi è un giorno brutto, non ci resta che trarre i suoi insegnamenti e continuare a renderlo vivo dentro di noi“. Un componente dello staff, visibilmente commosso, ha letto il discorso fatto da Vialli prima della finale di Euro 2020. E tutta la squadra si è unita in un lungo applauso, fra le lacrime di molti.

Beckham: “Un vero gentleman dal cuore grande“

Un vero gentleman dal cuore grande. Ti vogliamo bene Gianluca, ciao amico mio”. Anche il grande ex centrocampista dello United e della Nazionale inglese David Beckham saluta Vialli con un messaggio su Instagram: nel post la foto del giocatore scomparso di spalle con la maglia n.9 ai tempi in cui era alla Juve.

Allegri chiede minuto di silenzio prima della conferenza stampa: “Vialli, esempio da seguire“

Prima di cominciare la conferenza stampa è doveroso ricordare il maestro Castano, scomparso ieri, e Gianluca Vialli, mancato stamattina. Due uomini, Gianluca ho avuto il piacere di conocerlo, che sono entrati nella storia della Juventus e della Nazionale italiana“. Lo ha detto il tecnico della Juventus, Massimiliano Allegri, chiedendo un minuto di raccoglimento in sala stampa. “Gianluca ha rappresentato tanto come giocatore e come uomo, un esempio da seguire. Mancherà sicuramente a tutti noi”.

Milan: “Grande uomo di sport, in campo e fuori”

Gianluca Vialli è stato un grande uomo di sport, in campo e fuori. Nel giorno della sua scomparsa, ci stringiamo a tutti i suoi cari”. Così in un tweet il Milan ricorda l’ex calciatore scomparso oggi a 58 anni.

We are saddened by the passing of Gianluca Vialli, a great sportsman on and off the pitch. Our heartfelt condolences to his family and loved ones

L’Inter: “Nobile avversario ed esempio di coraggio“

Un campione in campo e nella vita: Gianluca Vialli è stato un nobile avversario e un esempio di coraggio. Il nostro cordoglio va alla famiglia e agli amici di Gianluca”. Così l’Inter ricorda Gianluca Vialli. “FC Internazionale Milano, il suo presidente Steven Zhang, il Vice Presidente Javier Zanetti, gli Amministratori Delegati Alessandro Antonello e Giuseppe Marotta, l’allenatore Simone Inzaghi e il suo staff, i calciatori e tutto il mondo Inter, si uniscono al cordoglio per la scomparsa di Gianluca Vialli e, nel ricordarlo, abbracciano i suoi familiari”, aggiunge il club nerazzurro sul proprio sito.

La Roma: “Ciao Gianluca“

Vierchowood: “Addio a un amico e una grande persona“

E’ venuto a mancare soprattutto un amico e una grande persona”. Pietro Vierchowood ricorda così Gianluca Vialli. “Noi di quella Sampdoria del 1991 siamo molto legati – spiega all’Italpress l’ex difensore, campione del mondo a Spagna 1982 – Tutti gli anni ci ritroviamo ad una cena e così è capitato il mese scorso, in occasione della presentazione del documentario sulla Sampdoria (“La bella stagione”, ndr). Lui era già sofferente ed è venuto sia a Torino che a Genova“. Oltre alle grandi doti umane, Vierchowood sottolinea anche che Vialli “è stato un grande giocatore, capace a Genova di vincere qualcosa di impossibile (lo scudetto, ndr). A Torino, poi, abbiamo coronato un sogno, vincere quella Coppa dei Campioni che ci era sfuggita qualche anno prima con la Samp“.

Florenzi: “Campione di vita“

Sono sicuro che mi odierà per questo ma è importante che tutti lo sappiano – disse Florenzi subito dopo il trionfo di Wembley a Sky -. Noi abbiamo un esempio che ogni giorno ci dimostra come si deve vivere, come ci si deve comportare, in qualsiasi ambiente, in qualsiasi situazione. E quest’uomo è Gianluca Vialli. Per noi è speciale, questa vittoria senza di lui – come senza Mancini e tutto lo staff – non ci sarebbe stata. È un esempio vivente“.

Oggi piangendo la scomparsa di Vialli ha scritto: “Non ho chiesto quasi nulla a Babbo Natale quest’anno, solamente che tu potessi rispondermi a quel messaggio ma così non è stato e non lo sarà mai. Lasci un vuoto incolmabile dentro il nostro gruppo. Il tuo esempio di come hai affrontato tutto e della forza che incredibilmente tu davi a noi ogni giorno”. Lo scrive su Instagram Alessandro Florenzi, terzino del Milan e della Nazionale, ricordando Gianluca Vialli. Florenzi posta una foto che li ritrae insieme, sorridenti, con la Coppa dell’Europeo appena vinta in mano. “Insieme siamo arrivati sul tetto d’Europa ma tu hai fatto una cosa ancora più grande, sei rimasto nel cuore di tutti noi e ti assicuro, amico, che è più importante questo di ogni vittoria – aggiunge -. Ho fatto una promessa e farò di tutto per mantenerla. Quando farò la mia 50^ presenza in nazionale ti penserò. Ciao Gianlu grazie per tutti gli insegnamenti che mi hai dato e che porterò per sempre con me. Riposa in pace campione di vita“.

Zola: “Ciao Luca, io te e un pallone le gioie più belle“

Abbiamo vinto, insieme, tante partite e condiviso alcuni dei momenti più belli delle nostre vite. Per amore del nostro pallone ci siamo qualche volta scontrati. Senza sconti ma sempre con il massimo rispetto. Perché, in fondo, siamo sempre stati noi stessi: due ragazzi italiani e un pallone. Ciao Luca, compagno di viaggio”. Gianfranco Zola ricorda così, sui social, l’ex compagno di squadra ai tempi del Chelsea, Gianluca Vialli.

Arianna Mihajlovic: “Sai quante partite lassù…“

Sai quante partite lassù…”. Arianna Mihajlovic ricorda Gianluca Vialli scomparso oggi, tre settimane dopo la morte di Sinisa: lo fa mettendo un cuore e la foto di Vialli e Mihajlovic avversari in campo, il primo con la maglia della Juve e suo marito con quella della Sampdoria

La Regione Liguria proietta un video

Con un video di 40 secondi, proiettato sulla facciata del palazzo di Piazza De Ferrari, la Regione Liguria ha reso omaggio a Gianluca Vialli, scomparso questa mattina dopo una lunga malattia. Il filmato, introdotto dalla scritta “Ciao Gianluca”, mostra alcuni dei momenti più emozionanti della vita e della carriera di Vialli, sia con la maglia della Sampdoria che con quella della nazionale. Tanti i genovesi che si sono radunati spontaneamente in piazza. Tra questi anche Giuseppe Dossena, suo ex compagno di squadra nella Samp che vinse lo scudetto del 1991.

Il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti insieme alla Giunta esprime profondo cordoglio per la scomparsa di Gianluca Vialli. Tra i più forti calciatori della sua generazione e di tutta la storia del calcio italiano, Vialli ha legato a Genova e alla Sampdoria alcune delle pagine più belle della sua carriera.

Arrivato in Liguria in punta di piedi, Paolo Mantovani aveva deciso che lui avrebbe scritto a doppia firma con Roberto Mancini la storia della Sampdoria, quella “Bella stagione” in cui tutto quello che sembrava impossibile venne invece realizzato, vincendo in maglia blucerchiata 4 trofei tra cui l’indimenticabile Scudetto della stagione 1990-1991. Attivo da tanti anni nel mondo del sociale e del volontariato, aveva creato la Fondazione Vialli-Mauro per la ricerca sulla sclerosi laterale amiotrofica. Da qualche anno combatteva contro la malattia, da lui affrontata con un coraggio da leone e con il sorriso. Lo stesso sorriso, accompagnato dalle lacrime, che abbiamo visto durante il suo meraviglioso e indimenticabile abbraccio con il suo ‘gemello del gol’ Roberto Mancini dopo la vittoria agli Europei 2021 dell’Italia, di cui Vialli è stato capo delegazione fino a quando lo stato di salute glielo ha consentito. Alla sua famiglia, ai suoi amici e a tutti coloro che lo hanno amato le nostre più sentite condoglianze”. Così il presidente di Regione Liguria Giovanni Toti dopo la tragica notizia della scomparsa dell’ex calciatore e allenatore Gianluca Vialli. “Grazie Gianluca – ha aggiunto il presidente Toti – in campo ci hai fatto sognare e fuori dal campo ci hai fatto riflettere soprattutto per la forza e il coraggio con cui hai affrontato la tua malattia. Non ha vinto lei perché nessuno ti dimenticherà”.

La Fondazione Veronesi ricorda le sue parole

Salutiamo Gianluca Vialli con le parole che lui ha dedicato ai nostri ricercatori e alle nostre ricercatrici solo pochi mesi fa. Ci stringiamo alla sua famiglia in questo momento”. Vialli aveva detto: “Ai ricercatori dico, forza e coraggio. Abbiamo bisogno di voi”

Redazione CdG 1947

Caro amico ti scrivo, non sei solo”: la lettera di Cabrini a Vialli nei suoi ultimi giorni di vita. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Gennaio 2023

Il 15 dicembre 2022 sulla "La provincia di Cremona" l’ex terzino di Juve e campione del mondo nell’82 ha pubblicato il suo incoraggiamento all’amico

di Alessandra Monti

Era il 14 dicembre quando la Figc  ha annunciato la decisione di Gianluca Vialli di lasciare il ruolo di  capo delegazione dell’Itala, una sospensione dei suoi impegni professionali per “utilizzare tutte le energie psico-fisiche per aiutare il mio corpo a superare questa fase della malattia”. Il preludio, purtroppo, della notizia odierna che nessuno di noi avrebbe mai voluto scrivere o leggere.

Il giorno dopo, lo scorso 15 dicembre il quotidiano “La Provincia di Cremona” ha pubblicato una lettera aperta di Antonio Cabrini all’amico cremonese come lui e che di Vialli fa compagno proprio in azzurro.

L’ex terzino della Juve e della Nazionale aveva affidato la sua missiva a Marco Bencivenga direttore de La Provincia di Cremona: “Caro Gianluca – ha scritto Cabrini -, quando ho letto sul giornale che hai rinunciato al tuo ruolo di capo delegazione della Nazionale mi si è stretto il cuore. Conoscendo il tuo straordinario attaccamento alla Maglia Azzurra, ho capito che un simile passo da parte tua può avere un solo significato: la partita che stai giocando ti sta impegnando molto ! L’avversario, quello che tu chiami “il compagno di viaggio indesiderato”, sta giocando sporco, come un difensore che affonda il tackle, non per conquistare la palla, ma per far male all’avversario. E allora io, da tuo compagno-amico, ti scrivo per farti coraggio“.

Quante ne abbiamo giocate insieme in Maglia Azzurra!” ha scritto Cabrini, ricordando che insieme “abbiamo vissuto i Mondiali del 1986: eravamo i campioni in carica, dopo la grande impresa dell’82, ma non riuscimmo a ripeterci, arrendendoci alla Francia negli ottavi di finale. Quell’avventura non fu particolarmente fortunata per la Nazionale, ma ci permise di ritrovarci fianco a fianco, dopo gli anni dell’infanzia cremonese: i nostri genitori erano amici e fra noi ragazzi tu eri il più piccolo, il nostro cucciolo. E se sei diventato il campione che tutto il mondo ha ammirato lo devi anche a quelle radici, alla tua meravigliosa famiglia, ai valori che ti hanno trasmesso i tuoi genitori, tua sorella Mila e i tuoi fratelli. Ti scrivo per ricordati che non sei solo: con te, al tuo fianco, ci sono tantissimi amici, e tantissimi tuoi sostenitori. Stai giocando la tua partita in uno stadio immenso che fa il tifo solo per te“

E sai benissimo, caro Luca, quale forza riescono a trasmetterti i compagni di squadra, i cori del pubblico e l’amore dei tifosi. Nella tua battaglia contro la malattia hai già dimostrato grande forza e stai dimostrando un grandissimo coraggio. Io, da amico e compagno, mi permetto di dirti: non mollare. Perché lo sport ci ha insegnato che non si molla mai e, ancor di più, perché la regola vale soprattutto per noi cremonesi. Che siamo pochi, ma buoni: pensa a Mina, a Ugo Tognazzi, ad Aristide Guarneri, a Chiara Ferragni… Se facciamo qualcosa, noi cremonesi lo facciamo ad altissimo livello, diventiamo un’eccellenza. E visto che due settimane fa alle storiche tre T di Cremona – Turòn, Toràs e… Tetàss – ne è stata aggiunta una quarta, la T del Tugnàss, io dico che dovremmo aggiungerne una quinta, la T di Testòòn. Perché noi cremonesi siamo dei testoni, abbiamo la testa dura e non molliamo mai” Redazione CdG 1947

Addio a Stradivialli, il campione che fece del calcio una musica. Il soprannome lo mise Brera: la capacità di Gianluca di interpretare l'arte del football è stata sublime. Tony Damascelli il 7 gennaio 2023 su Il Giornale.

Gianluca Vialli, 58 anni, ci ha lasciati ieri, sconfitto da una neoplasia al pancreas contro la quale ha lottato negli ultimi cinque anni. Vialli (Cremonese, Samp, Juve, Chelsea) è stato tra i più forti attaccanti della storia della nazionale italiana.

È stato troppo lungo questo tratto di vita. Lungo e da Te sofferto, con dignità grande, lungo e tormentato da chi ti ha conosciuto sul serio, mica taccuini e microfoni ma sussurri e strizzatine d'occhio, una complicità poi smarritasi nel tempo. Gianluca Vialli è il passato, è un'altra fetta che ci viene tolta in modo feroce ed ingiusto, è la conclusione strozzata di un'esistenza bella e, improvvisamente di colore grigia e poi buio, notte. Venivi da Cremona che è terra di gente furba, di artisti del cinema e della canzone, Tu sei stato un po' l'Ugo, il Tognazzi ma anche un po' la Mina, Mazzini, hai fatto delirare la Cremo e poi la Doria, quindi la Juve e la nazionale, infine la folla del Chelsea. Londra stava da sempre nei tuoi sogni e nelle tue parole, vestivi da Jack Emerson, a Torino, pensando di essere a Savile Row, eri riuscito ad arrivare nella swinging London. Avevi quel mezzo sguardo furbastro, accompagnato da un sorriso che diventava un ghigno. Hai segnato gol di potenza e di acrobazia, figli dell'intelligenza e dell'astuzia, ti sei fracassato un piede calciando un rigore, scrivemmo che era trauma da stress, sei finito altre volte in sala operatoria per guai dovuti al football, mai avresti immaginato che saresti tornato in clinica per altro maledetto destino.

Tra quelli della tua generazione sei stato il più moderno, potente e agile, volpe e leone, attaccante di forza e di sacrificio. Brera per te ideò il neologismo di Stradivialli, come il genio liutaio cremonese hai saputo suonare viola, violino, violoncello, chitarre e arpe, avevi addosso polvere d'oro prima di scoprire che il metallo si fosse trasformato in veleno e allora tutto il resto è scappato via, come un treno che fila in corsa davanti agli occhi e non riesci a individuare chi c'è a bordo eppure c'è chi ti osserva, ti saluta, ti abbandona, lasciandoti il mistero del chi, del che cosa. Una carriera di quelle che tutti i ragazzi che giocano a pallone desiderano e sognano, i prati di provincia, poi i teatri metropolitani, i soldi pesanti, tanti, importanti pur appartenendo a una borghesia benestante, infanzia e adolescenza nella dimora del Cinquecento, il luogo dei conti Affaitati a Belgioioso, in famiglia il football era gioco, divertimento, anche passione, non certamente professione. Tu eri il quinto a nascere, dopo Mila, Nino, Marco e Maffo, quest'ultimo con il nome dell'avo biologo e poi emerito docente all'Università di Pavia. Gianluca, secondo usi dell'epoca giusta, trovasti all'oratorio, il suo portava il nome di Cristo Re, il teatro di partite di fantasia tra una lezione di catechismo e un servir messa, tutta roba assolutamente normale, senza ambizioni e manie e frenesie del mondo contemporaneo che di quei siti religiosi, attigui alle parrocchie, ha ormai perso traccia. Eppure da ragazzino ti piaceva dribblare e poi calciare e i chili si aggiungevano agli anni ed era scattata la famosa molla, merito di don Angelo e del professore d'italiano, Cristiani Franco che, come molti, completava il ruolo insegnando il calcio.

Si narra che la prima squadra fu il Pizzighettone. Il luogo del primo carcere di Lombardia, ti mando a Pizzighettone era la minaccia rivolta ai soldati quando la prigione diventò carcere militare. Quello fu il luogo della Tua liberazione e libertà, a dodici anni il cielo era soltanto di stelle e di sole. Per un cavillo (fuori quota per un niente di giorni) non riuscirono a tesserarti e allora la Cremo Ti fu addosso per lire cinquecentomila. Comincia l'avventura del signor Bonaventura, stava scritto nei fumetti di Sergio Tofano, che riceveva un milione per le sue storie fortunate. Luzzara era il presidente di quegli anni, si andava a Cremona, noi cronisti, per il piacere della trasferta puntualmente condita dai prosciutti offerti in dono dal vice di Luzzara, il maestoso Giuseppe Miglioli, titolare di un salumificio. Tu avevi più riccioli che parole, ci pensava Erminio Favalli, funambolico diesse, a descriverTi nei minimi particolari: «Questo finirà a Milano o a Torino». Prima del trasloco, la solita vita di un teen, cinemino e bar (il Rio aveva fama di essere un ritrovo di fascistelli, posso dire che a Torino, qualcuno aveva appiccicato nel Tuo armadietto dello spogliatoio bianconero un figurina del duce a cavallo) poi Vincenzi e Mondonico avrebbero sostituito il professor Cristiani ad insegnare il mestiere, gol, serie B, promozione, tenevi spesso i calzettoni arrotolati sulle caviglie, i polpacci erano gonfi, non resistevi al laccio elastico, andavi di rovesciata che Sandro Ciotti narrava en bicicleta. Venne la gloria, come desiderava il parroco don Angelo, al mite Luzzara si presentò il petroliere Mantovani, la Sampdoria, Genova non è un'idea come un'altra. Il presidente della Doria stava costruendo uno squadrone, Vialli, Cerezo, Mancini, sembrava tanto, anzi troppo. Raggiunto a Memphis, dove era ricoverato per un by pass cardiaco, Mantovani mi rispose testualmente: «Senta, ho deciso di fare un film su Gesù, secondo lei dovrei risparmiare sui chiodi della croce?». Colpito, scudetto e finale di coppa dei campioni a Wembley contro il Barcellona. Segna Koeman, c'è anche Guardiola in blaugrana, fine dell'avventura europea della Samp. Venne poi la Juventus, stavolta la coppa è alzata nel cielo di Roma, ai rigori contro l'Ajax. Dopo le perfide allusioni di Zeman, il doping, il tribunale, gran festa di gruppo ma nello spogliatoio raduni la stampa e annunci la scelta del Chelsea, storia profumata e bella, da calciatore prima, da allenatore dopo. Londra è il Tuo abito su misura, sposi Cathryn, ceni al San Lorenzo, dove consumano i pasti anche lady Diana e i primi emiri del Regno. La nazionale, vissuta come sapevi e volevi, non benissimo con Bearzot del dopo Spagna, benissimo con Vicini fino a Italia '90 e alla grande occasione mancata contro l'Argentina poi finalista. Del dopo non vorrei scrivere, anche se lo hai raccontato nel libro, ho pensato che di colpo Ti fossi ritrovato nel carcere di Pizzighettone, dietro le sbarre di una esistenza improvvisamente nebbiosa, come certi giorni sull'Adda. I migliori anni della Tua vita e di chi ti ha amato, inseguendo un ragazzo, un pallone e mille altre cose oggi lontanissime.

"A Mantovani dissi che non era forte. Invece fu leader". Il difensore con lui alla Samp e alla Juve: "Un capobanda che ci ha tenuti insieme. Non era facile". Riccardo Signori il 7 gennaio 2023 su Il Giornale.

Pietro Vierchowod era uno di quelli della chat, un gruppo di amici legati da uno scudetto. Poi con Vialli vinse anche la coppa dei Campioni. Ma stavolta a Torino, maglie bianconere. Lo zar, come lo chiamavano, oggi ha 63 anni, si dice pensionato, e vive la tristezza di un addio.

Vierchowod cos'era Vialli?

«Era un leader, carismatico, ci metteva tutti d'accordo in quello spogliatoio della Sampdoria. E non era facile. C'erano varie anime, ma Luca sapeva gestire tutti noi. Lo amavamo come giocatore e ci faceva star bene come ragazzi».

E non è mai cambiato?

«Mai. Anche alla Juve, dove ci siamo ritrovati, era un campione eppure non aveva perso il bel carattere: era leader, affidabile. Voleva vincere».

A Genova fu scudetto, comprese le bizzarrie per festeggiare...

«Ci eravamo detti ad inizio stagione: dovessimo conquistarlo, ci tingiamo i capelli di biondo o mettiamo l'orecchino. Allora erano i tempi in cui andava di moda. Ovviamente io ho declinato l'idea dei capelli biondi: sarebbe stato difficile».

E così si rafforzò quel gruppo di amici.

«Era proprio un bel gruppo, una squadra. Vialli allegro e sorridente e guai se non giocava: lo avremmo voluto sempre in campo, anche con una gamba sola. Lui era uno di rendimento e faceva gol, un amico in tutti i sensi. Era un capobanda. Quindi meglio con una gamba sola che in tribuna».

Per i gol c'era anche Mancini.

«Certo, ma Vialli ci teneva insieme: era diplomatico. Mancio più vulcanico. Non ricordo un litigio di Luca».

Lei arrivò alla Samp prima di Vialli: come lo accolse?

«Luca arrivò nell'estate '84, ma qualche tempo prima avevamo giocato una partita contro la Cremonese, appunto di Vialli. E lo marcai. Un giorno mi chiama il presidente Mantovani e mi chiede: Pietro com'è Vialli? Rispondo: niente di speciale, fa le rovesciate dalla bandierina. Era un modo di dire, giusto per far intendere che non mi aveva impegnato. E il presidente: bene, sappi che l'ho già preso per la prossima stagione».

Non male come primo approccio.

«Si, anche con Mantovani rimasi a bocca aperta. Luca era esile ma fin dal primo allenamento si vedeva che era bravo, un lottatore, si buttava dentro. E molto veloce. Da allora capimmo che era meglio averlo sempre, perfino con una gamba sola».

Il finale con malattia?

«Facevamo gruppo, abbiamo conservato la chat, ci sentivamo. Ma Luca non parlava mai della malattia, non voleva parlarne. Si rideva e scherzava. Ci siamo visti anche il 28 novembre alla presentazione del docufilm sulla nostra storia alla Samp. Soffriva, si vedeva. Eppure è venuto a Torino e Genova, non ha mollato. Aveva gran forza di volontà».

Con la Samp ha vissuto gioia scudetto e delusione europea. C'è stato mai un Vialli intristito?

«Di Luca si sa quasi tutto. È stato amico e compagno squisito, un compagno da amare perché ha vissuto con allegria il calcio e quello scudetto. Intristito? Certo, la finale di Barcellona è stata deludente solo perché non abbiamo concluso un ciclo incredibile. In fondo c'eravamo arrivati per la prima volta, dopo aver vinto il primo scudetto. Non era poco».

Una fotografia di Vialli davvero felice?

«In due occasioni: la prima quando sollevò la coppa dei Campioni 1996, come capitano della Juve. Fra l'altro l'ultima vinta dalla Juve. Eravamo insieme, ma finalmente si toglieva, questo sì, il rimpianto della finale persa con la Samp».

La seconda foto?

«Quella con Mancini, l'abbraccio dopo la vittoria dell'Italia all'Europeo. Era strafelice. Una delle più belle foto che io abbia visto: per la gente, per tutti noi la gioia di due amici. Abbiamo davvero gustato il senso dell'amicizia».

Stadio Vialli, suona bene. E Cremona glielo deve. La tradizione merita rispetto ma qualche volta è giusto cambiare. Alessandro Gnocchi il 7 gennaio 2023 su Il Giornale.

La tradizione merita rispetto ma qualche volta è giusto cambiare. Lo stadio di Cremona è intitolato a Giovanni Zini, portiere dei primi campionati della squadra cittadina. La Cremonese non era ancora grigiorossa, ma color lilla. Zini era una promessa e attirò subito l'attenzione di grandi club. Nel 1915 partì per la Grande guerra. Prestò servizio come barelliere sul Carso. Dopo una giornata massacrante, crollò a terra. Una infezione se lo portò via a vent'anni. La vicenda, sotto il Torrazzo, colpì tutti. Nel 1919, apre l'impianto in via Persico. Il nuovo stadio si chiama Giovanni Zini. Viene posta anche una targa che commemora gli atti di eroismo e le grandi parate di Zini (c'è ancora). Il nome di Zini, senza dubbio, onora lo stadio, la Cremonese e la città. Da qualche ora, a Cremona, si parla della possibilità di cambiare nome allo stadio. Da stadio Zini a stadio Vialli. Con Gianluca iniziano gli anni d'oro della società, con la storica promozione in Serie A. Vialli non è stato soltanto un campione. Ci sono tanti motivi per celebrare Gianluca: la dignità con la quale ha affrontato la morte; il ruolo, da tutti riconosciuto decisivo, nonostante la malattia, nella vittoriosa spedizione degli ultimi europei; la correttezza di gioire con l'amico di sempre, l'allenatore Roberto Mancini, senza voler essere protagonista; l'amore per la città, ribadito di recente, con le foto davanti al santuario di Grumello, vicino a casa sua; il ritorno, tra gli applausi, allo Zini. Stadio Vialli suona bene, molto bene, senza nulla togliere a Giovanni Zini, che abbiamo celebrato per oltre un secolo.

Quell'ultimo toccante incontro e lo sguardo buio di chi sa già. Gianluca mattatore alla presentazione del docu-film sulla Sampdoria. Ma negli occhi la consapevolezza dell'epilogo. Franco Ordine il 7 gennaio 2023 su Il Giornale.

È stato in quella sera di fine novembre che abbiamo capito tutto. A Torino c'era la prima del docu-film prodotto da Rai-cinema, regista Marco Ponti, dal titolo La Bella Stagione, dedicato alla splendida cavalcata tricolore della Samp di Mantovani e Boskov raccontata fino all'epilogo di Londra, finale Champions league con il Barcellona, persa poi ai supplementari. «Se sbagli due-tre gol davanti alla porta, è fatale che poi si perda» racconterà l'interessato senza tradire un minuscolo rimpianto. «Bravo, te poi l'hai vinta la Champions» la battuta pronta del suo sodale di una vita, Roberto Mancini. È stata l'ultima apparizione pubblica di Gianluca Vialli, «il bomber» come in quel film si presenta. Maglione dolcevita bianco spuntato fuori da un cappotto spigato che ballava sulle spalle, Gianluca si è presentato scortato da quattro co-protagonisti della proiezione e della scapigliata gioventù doriana vissuta tra il mare di Nervi, un ristorante covo e lo stadio di Marassi. C'erano con lui Mancini e Bonetti, Lanna e Vierchowod. Hanno lasciato a Gianluca la postazione centrale e il ruolo di autentico regista della presentazione alla stampa. Ai tanti quesiti e alle cento curiosità dei giornalisti, ha quasi sempre risposto lui, Vialli, con il viso scavato. Nemmeno i ricordi piacevoli di una carriera strepitosa rivissuta nelle immagini suggestive del docu-film, gli hanno addolcito lo sguardo. Di quella sera al teatro torinese dove ha incrociato tantissimi esponenti della sua militanza juventina, Ciro Ferrara e Pessotto, il presidente federale Gabriele Gravina, Vialli è apparso una sorta di speaker distaccato da se stesso e anche dalla sua maledetta malattia, quasi avesse capito in anticipo rispetto a noi, che pure lo guadavamo con angoscia assottigliarsi rispetto alla sagoma ammirata durante l'europeo, quale sarebbe stata la drammatica conclusione di quel racconto.

Da liberoquotidiano.it il 6 gennaio 2023.

Gianluca Vialli non è più tra noi. Un altro lutto pesantissimo per il mondo del calcio, con l’ex attaccante che si è spento a Londra all’età di 58 anni, dopo aver combattuto per diversi anni contro un tumore al pancreas. “Ho appena appreso la morte di un caro amico”, ha esordito Lapo Elkann nel suo messaggio di cordoglio, che però ha un po’ stranito gli utenti dei social per un dettaglio particolare.

 Il rampollo di casa Agnelli ha infatti girato un video senza indossare nulla nella parte superiore (non a caso ha successivamente deciso di rimuoverlo): in questo modo ha quasi fatto passare in secondo piano le bellissime parole dedicate a Vialli, dato che nei commenti molti si sono concentrati sul fatto che non avesse la maglia. “Potevi indossarla”, “vestiti però quando fai queste cose” e via discorrendo. Il dispiacere di Lapo è comunque sincero, visto il rapporto che lo legava a Vialli: “Lo conoscevo da quando avevo 17 anni, lui giocava nel Chelsea a Londra e mi proteggeva”.

 “Poi me lo ricordo bene nel duetto con Mancini alla Sampdoria, fece cose incredibili - ha proseguito Lapo - mi ricordo che con Del Piero è stato lui a portare la Champions alla Juve. Mi ricordo di essere stato seduto al fianco di sua madre e sua moglie alla finale di Wembley dove grazie a lui, a Mancini e a tutti i calciatori si è vinto l’Europeo contro l’Inghilterra. Gianluca ti adoro, sei sempre nel nostro cuore, sei un uomo straordinario che non si può dimenticare. Riposa in pace”.

Vialli, Antonio Conte travolto dal dolore: un gesto clamoroso. Libero Quotidiano il 07 gennaio 2023

Di fronte alla morte di Gianluca Vialli, anche il rigorosissimo calcio-business della Premier League deve fermarsi. Ed è significativo che a stoppare il rito della conferenza stampa pre-partita sia l'italiano Antonio Conte, tecnico del Tottenham ed ex compagno di Vialli nella Juventus dal 1992 al 1996. Insieme, hanno vinto uno scudetto, una Coppa Uefa, una Coppa Italia. E soprattutto la Champions League, a Roma ai rigori contro l'Ajax: Vialli, quella sera di maggio del 1996, era capitano.

Da lì a poche settimane, avrebbe lasciato per sempre i bianconeri per trasferirsi a Londra, al Chelsea. Cedendo quella fascia proprio a Conte. Che, scherzi del destino, aveva ritrovato Gianluca da allenatore, facendo anche lui di Londra una sua seconda città d'adozione. Prima proprio al Chelsea, poi da pochi mesi al Tottenham. 

 Conte ha disertato la sua conferenza davanti ai giornalisti inglesi. Troppe emozioni, troppo dolore, troppo il rispetto dovuto a un gigante del calcio mondiale, scomparso dopo aver combattuto per 5 anni contro una forma aggressiva e spietata di tumore al pancreas. Vialli aveva solo 58 anni. Conte, di anni, ne ha 4 in meno: 54. E dopo il silenzio pieno di lacrime, l'ex mister di Juventus, Inter e Nazionale ha deciso di affidare ai social il suo ricordo dell'amico.

"A cena insieme a Londra pochi mesi fa mentre ci divertivamo a ricordare tutte le nostre avventure e le battaglie sul campo - scrive Conte su Instagram -. Purtroppo in questi ultimi anni ne hai dovuta combattere una grande e terribile di battaglia nella Vita. Ti ho detto e scritto che sei sempre stato una fonte d'ispirazione per me come mio Capitano e per come ti stavi dimostrando Forte, Fiero e Coraggioso, lottando come un leone contro questa malattia. Sempre nel mio cuore Amico mio. Ciao Gianluca". 

Vialli, Allegri viene a sapere della morte e ferma tutto. Libero Quotidiano il 07 gennaio 2023

Ha appreso della morte di Gianluca Vialli pochi istanti prima della conferenza stampa, Max Allegri. E così, ancora sgomento, il tecnico della Juventus appena arrivato davanti ai giornalisti spiazza tutti: "Prima di iniziare la conferenza stampa credo che sia doveroso ricordare il maestro Castano (bandiera bianconera negli anni Sessanta, ndr) e Gianluca Vialli che è mancato questa mattina. Due uomini che hanno dato tanto al calcio, alla Juventus e alla Nazionale italiana. Chiedo di fare un minuto di raccoglimento in memoria di questi due uomini".

E' la vigilia di Juventus-Udinese, ma nessuno per qualche minuto pensa alla partita. Vialli, aggiunge Allegri, "ha rappresentato tanto come giocatore ma come uomo. Per i giocatori più giovani, soprattutto, un esempio da seguire. Mancherà sicuramente a tutti noi".

Estratto del libro “La bella stagione” (Mondadori) il 7 gennaio 2023.

«Avevamo sempre vinto a Wembley, sempre» dice il Mancio (Roberto Mancini, ndr), appoggiandosi alla terrazza di Carmine. «E invece…».

 «C’è sempre la prima volta. E poi non si perde mai. O si vince, o si impara, no?», gli risponde Luca (Gianluca Vialli, ndr).

Si leva il berretto, si appoggia di schiena e guarda il locale, dove stanno arrivando tutti gli altri. «Che ci vuoi fare? Sono passati trent’anni, e ancora non mi va giù.»

«Pensa alle cose belle», dice Luca, sorridendo. E poi aggiunge: «Ma li senti? Fanno ancora lo stesso casino di trent’anni fa. Peccato solo che…».

 Il Mancio solleva il bicchiere. «Al presidente, al dottore e al mister».

Luca fa cin-cin con le nocche della mano, poi si gira verso il mare. O mä, come lo chiamano a Genova. Il mare e il male. «Siamo stati su questa terrazza così tante volte, tutti insieme. Prima e dopo la battaglia…».

«Sì, ma andare in battaglia con gli amici è stato divertente», dice Mancini. Indica la città illuminata nella notte. «Noi eravamo là, Pietro e Lombardo dall’altra parte, ti ricordi?».

«Casa di Ivano…».

«E di là Katanec con il mister, a Sori. Quante volte abbiamo mangiato qui coi ragazzi?».

«Mille? Eppure… sembra sempre come se fosse la prima volta…».

 «Siamo stati anche fortunati».

Luca sorride: «Io non credo alla fortuna. Bisogna farsi trovare pronti, lavorare duro, con costanza e impegno. Non devi uscire la sera quando gli altri vanno in discoteca. Devi alzarti e allenarti. Anche quando non ne hai voglia». Beve un sorso di vino, poi riprende: «C’è gente che passa la vita a capire cosa vuol fare da grande e non ci riesce, e invece noi, a tre anni, dando il primo calcio al pallone, già lo sapevamo. Abbiamo fatto della nostra passione un lavoro…».

«E il talento, dove lo metti? Il calcio è un’arte…».

«Oh, certo, e tu lo sai bene. Però ci sono cose fondamentali che vanno fatte e per le quali non serve il talento: arrivare in orario, lavorare seriamente, farsi trovare pronto, dare sempre il massimo, essere positivo, metterci passione, fare una cosa in più di quelle che ti vengono richieste, lasciarsi allenare…».

«Luca…».

 «Cosa?».

«Non sei a fare una consulenza da Ernst & Young…».

Luca ride: «Touché». E poi aggiunge: «Però ti dico una cosa. Quello che facciamo è tutto vero. Regaliamo ricordi, emozioni, belle e brutte, dipende, ma… tutto ciò che provano i nostri tifosi e quelli che ci guardano, è vero. Quello che suscitiamo negli altri lo proviamo anche noi per primi, in campo. Costruiamo emozioni che dobbiamo sentire. Che sono nostre, vere. Non è solo uno spettacolo».

 «Questo è il bello e il brutto del nostro mestiere», dice allora il Mancio, dopo un po’. «E vale per tutti. Tu, io, gli altri…». Indica il locale illuminato per la loro cena. «Anche se a volte li avrei strozzati…».

«E loro te…».

«Il privilegio è essere stati scelti per far parte di questo

gruppo…».

 Luca non dice niente. Ma lo pensa anche lui. E lo lascia continuare. «Abbiamo giocato a calcio, abbiamo vinto, siamo anche diventati ricchi e famosi in un posto che ci ha dato una cosa in più: amicizie che dureranno per sempre».

Da corriere.it il 7 gennaio 2023.

Roberto Mancini ha sempre chiamato Luca Vialli «il mio fratellino». Normale quando cresci insieme, un rapporto che non si è mai interrotto. E che ha unito anche le rispettive famiglie. «Gianluca è stato per me come un figlio, ovviamente senza nulla togliere alla sua mamma che in questo momento tanto sta soffrendo», dice Marianna Puolo, la madre del Mancio, nel suo ricordo di Vialli. «Tutti sanno del forte legame che ha sempre unito mio figlio a Gianluca. Il dolore che abbiamo dentro è immenso e non oso immaginare quello che stanno provando i suoi familiari», ha aggiunto Marianna. «Gianluca l’abbiamo seguito assieme a Roberto dai tempi della Sampdoria, l’abbiamo visto crescere, in questo momento è anche difficile trovare le parole», racconta. «Siamo tutti addolorati, è davvero un momento duro. Mio figlio in poco tempo ha perso Gianluca, Sinisa (Mihajlovic, ndr) e un caro amico d’infanzia», conclude Marianna. Ieri anche la sorella del c.t., Stefania, ha salutato Vialli con un post su Facebook: «Addio grande Uomo e Campione ci mancherai».

Da gazzetta.it il 7 gennaio 2023.

Un'amicizia durata una vita, un legame inossidabile dentro e fuori dal campo: questo è stato il rapporto che univa l'attuale c.t. Roberto Mancini e Luca Vialli, ex capodelegazione azzurro da prima degli Europei, dimessosi dall'incarico a metà dicembre, quando si apprestava a combattere l'ultimo round contro un male che stavolta ha avuto la meglio.

 Lasciando nello sconforto un po' tutti, perché Vialli è stato un personaggio molto trasversale, che ha giocato e vinto in tre squadre italiane ed una inglese ma che con le sue doti umane ha conquistato chiunque ha avuto a che fare con lui. "È una grande perdita per la sua famiglia, per me, per il calcio italiano - ha commentato Mancini il giorno dopo la morte dell'amico fraterno -. È un momento difficile ma bisogna andare avanti”.

 Pochi giorni fa è andato a trovarlo. Aveva intuito che sarebbe stata l’ultima volta?

"Speravo in un miracolo. Ci siamo visti, abbiamo parlato e scherzato. Era di buon umore,

come sempre, e questo un po’ ti risolleva. Mi ha fatto piacere vederlo sereno".

Vi siete conosciuti nelle giovanili azzurre a Coverciano, poi la Samp, poi le strade che si separano, finché la coppia si ricompone alla vigilia degli Europei e vince a Wembley. Siete tornati a vivere fianco a fianco, come quando eravate ragazzi. Com’era il vostro rapporto nell’ultimo periodo?

"Abbiamo vissuto quasi tutta la nostra vita insieme, abbiamo da sempre un legame fraterno, anche se calcisticamente ci siamo divisi. Ma la nostra amicizia è rimasta salda, basata su un grande rispetto e un enorme affetto".

 In Nazionale Luca aveva istituito un momento dedicato ai giovani, in cui trasmetteva l’identità e la responsabilità di vestire la maglia azzurra. Ha dato tanto a chiunque abbia varcato il cancello di Coverciano: è questa l’eredità che ha lasciato alla Nazionale?

"Sì, e noi dobbiamo continuare su questa strada. È stato molto bravo nel far capire ai giovani il valore della maglia, come comportarsi: lui parlava volentieri con loro e loro lo ascoltavano con grande attenzione e ammirazione. Sono stati momenti molto belli e importanti".

 Vialli amava scherzare e raccontare gag, da quella del bus che lo lasciava a piedi ogni partita prima dell’Europeo alla finta Scarpa d’Oro a Immobile, che era poi lo scarpone di un giardiniere. È un momento triste, ma il suo sorriso va ricordato.

"È giusto ricordare Luca così, questo era lui, sempre gioioso ed allegro, e con un carisma fuori dal comune".

Stasera su Rai2 per ricordare Vialli andrà in onda il docu-film "La bella stagione", nato dal libro che ha scritto con Gianluca, insieme ad altri calciatori della "vostra" Samp. Cosa rappresenta questo film per tutti voi?

"Racconta la stagione dello scudetto, ma va molto oltre le cose calcistiche: mostra quanto sia importante l’amicizia fra persone che lavorano nello stesso gruppo e quanto la coesione possa essere una forza propulsiva verso traguardi sulla carta impossibili. Ci sarà da piangere anche stasera, ma vale la pena: è ricco di bellissimi ricordi".

Alberto Dalla Palma e Fabrizio Patania per il Corriere dello Sport il 7 gennaio 2023.

Un volo segreto a Londra, poche ore prima di Capodanno, senza farsi fotografare all’ingresso del Royal Marsden Hospital di Londra, dove era ricoverato Vialli. L’ultimo abbraccio risale al   29 dicembre, sapevano che non si sarebbero più rivisti. Il ct Mancini, con il cuore in tumulto, ha nascosto le lacrime. Si è fatto forza, dentro un vuoto cosmico, nel tentativo di rendere l’addio il più dolce possibile.

 Si sono messi a ridere e scherzare, come ai tempi in cui a cena da Edilio, il ristorante vicino allo stadio Marassi, disegnavano con i grissini la formazione che avrebbero suggerito a Boskov.

 Serenità, divertimento e la stessa spensieratezza che hanno provato a conservare sino all’ultimo istante di un’amicizia durata quarant’anni. Chissà cosa si saranno detti. Il ct ha voluto dedicarci un’immagine bella, quasi poetica, pensando al papà di quella meravigliosa favola blucerchiata. Un sorriso per non annegare nella tristezza.

«Luca rideva. Abbiamo scherzato. Gli ho detto che alla Samp prendeva uno stipendio più alto del mio. Il presidente lo pagava più di me. A Mantovani piaceva così». Quello era anche il patto segreto della Samp. I due gemelli, tenuti insieme da Mantovani. Mancini, ai tempi dell’Under 21, convinse Vialli a trasferirsi da Cremona a Genova. Martellava il presidente per averlo al suo fianco. Sarebbero diventati una coppia meravigliosa.

 VITA INSIEME. Roberto ora si sentirà più solo. Il 16 dicembre, tre settimane fa, se n’è andato Mihajlovic. Ieri è toccato a Vialli.

 «Dopo pochi giorni dall’addio di Sinisa, ho perso un altro fratello. Anzi, un fratellino, come amavo chiamarlo, perché ci siamo incontrati a 16 anni e non ci siamo mai più lasciati. Tutto il cammino insieme. Giovanili azzurre, Nazionale, la Samp, le gioie, i dolori, i successi e le sconfitte. E poi le due notti di Wembley. In una abbiamo pianto insieme per il dolore e per l’amarezza, tanti anni fa. Nell’altra abbiamo pianto di gioia, come se fossimo stati uniti dal destino, prima della sua scomparsa». L’abbraccio con Vialli resta la cartolina più bella dell’Europeo vinto a Londra nel 2021, a distanza di 29 anni dalla finale di Coppa Campioni persa dai blucerchiati contro il Barcellona.

 CORAGGIO Il 14 dicembre Vialli si era staccato formalmente dalla Nazionale, tentando di affrontare l’ultima battaglia. Una settimana dopo, entrando a Coverciano per lo stage dedicato ai giovani, Mancini era dilaniato dal dolore. Aveva appena salutato Mihajlovic. Come se due tra i suoi migliori amici ci volessero dire, dentro l’inverno senza Mondiale, che una sconfitta non equivale a una tragedia.

Sembra strano, ma è così. Se ne sono andati nel momento più delicato nella carriera dell’amico ct, escluso dal Qatar. «Gianluca era il migliore di tutti noi, un centravanti completo, un uomo perfetto e coraggioso. Ho sperato a lungo che potesse diventare il presidente della Sampdoria, avrebbe aperto una storia meravigliosa come quella da calciatore.

 Per me è stato un privilegio essere suo amico e suo compagno di squadra e di vita». Mancini, un anno dopo il suo ingresso sulla panchina azzurra, lo avrebbe ritrovato al suo fianco a Coverciano come dirigente. «Ringrazio il presidente Gravina. Lo ha voluto in Nazionale e ne sono stato felice. Ha avuto un ruolo decisivo per la conquista del titolo europeo.

I giocatori lo amavano. Gianluca ha avuto la forza e ci ha dato un coraggio che non conoscevamo e che lui usava per combattere la malattia tanto da starci accanto fino a che ha potuto». Il ct raggiungerà Londra nei prossimi giorni per i funerali in forma privata. Ieri ha voluto dedicare un messaggio alla famiglia. «Mando un abbraccio grande alla moglie, alle figlie, ai genitori, ai fratelli e alle sorelle». E poi la promessa. «Saluto un altro fratello, dopo Sinisa, ma con la sua forza andrò avanti per dedicargli qualcosa di importante che io e lui sognavamo da una vita». Riportare l’Italia sul tetto del mondo, come Vialli scelse di scrivere sul suo libro Azzurro.

Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport il 7 gennaio 2023.

La Nazionale aveva appena buttato via i Mondiali ed ero convinto che, nonostante il titolo europeo, l’orgoglioso Mancini si sarebbe dimesso. Mi rimaneva un dubbio. Il 26 marzo, due giorni dopo il disastro, scrissi a Luca: “Ieri ho sentito Roberto più sereno e oggi Gravina mi ha detto che vuole che lui resti. Non so davvero cosa augurargli”. Rispose “vedremo”. E io: “sei diventato democristiano”. Commentò con tre sorrisetti prima di concludere con una frase che mi gelò il sangue: “È che adesso vivo alla giornata e penso poco a quello che potrebbe succedere o non succedere!”. 

 “È mancato Luca”, mi ha scritto Massimo Mauro alle 10 e 19 di ieri. C’è stato finché ha potuto, e anche oltre, ha fatto l’impossibile per allungarsi l’esistenza, per stare vicino alle figlie, alla moglie, alla madre, alla sorella, ai tre fratelli, agli amici e a Mancio: l’abbraccio di Wembley e le lacrime sono di uomini denudati dall’emozione, dalla gioia e anche dall’angoscia. 

Luca si è arreso soltanto poche settimane fa, esattamente cinque anni dopo l’intervento al pancreas del dicembre 2017. 

 Un tormento infinito. All’inizio delle terapie - rivelò a Aldo Cazzullo - era ricorso al maglione sotto la camicia per coprire l’eccessiva magrezza derivata dalla chemio e mostrare ancora al mondo il Vialli “più normale”. In seguito ha accettato gli effetti visibili della malattia: il dolore è stato il compagno di viaggio più fedele e bastardo, a lungo soffocato dalla dignità. 

Luca è sempre stato consapevole della sua condizione. Eppure desiderava rispettare gli appuntamenti da padre che si era fissato. Negli ultimi mesi, sfinito, si è chiuso al mondo come il leone che va a morire lontano dal branco. Aveva capito che il momento era troppo vicino, e nei rari istanti in cui non gli veniva somministrata la morfina aveva voluto salutare le “sue persone”. Aveva anche chiesto di interrompere le cure. 

 Nella voce di Massimo Mauro e nei messaggi di Roberto Mancini avvertivo continuamente la sofferenza, la più feroce, di chi ha condiviso la vita con un amico così speciale. Mentre ieri mi chiedevano commenti, interventi televisivi, ricordi, ho ripensato a una battuta che mi fece durante un’intervista a Torino, ai tempi della Juve. «Mi avete sempre sopravvalutato, sono meno intelligente di quanto voi crediate». 

Amava la vita e se l’è goduta. Desiderava regalare vita e speranza agli altri. Nel 2013, insieme a Mauro, aveva dato vita alla fondazione che finanzia la ricerca sulla Sla e sul cancro. A oggi ha raccolto 4 milioni e mezzo di euro. 

Piaceva a tutti, Luca, i suoi occhi stretti per un sorriso hanno conquistato molti cuori. Quello di Giovanna, la prima fidanzatina alla quale firmava le giustificazioni per farla uscire da scuola. E di Cathryn, conosciuta a Londra negli anni del Chelsea. L’amore più grande. 

La Vialli & Mancini è stata una società per azioni da gol: Luca l’empatico, Mancio l’introverso al quale l’amico riuscì a sottrarre la Juve: Boniperti aveva inseguito Robi per anni. È stato un campione, uno che faceva gol e gruppo, gli allenatori lo amavano («Lippi è sempre stato il mio messia, il mio modello in tutto»). 

 In queste ore le figure e i ricordi personali si accavallano. Negli anni della Samp Paolo Condò, che lavorava alla Gazzetta, ed io, prima al Guerino e poi al Corriere dello Sport, ce li eravamo “divisi” da buoni fratelli ma anche concorrenti, ereditandoli da Marco Montanari che se li era coltivati nell’Under 21 di Vicini: Mancio e un po’ di Luca al sottoscritto, Luca e un po’ di Mancio a Paolo. 

Nel ’96 Vialli passò al Chelsea: sapendo quando e da dove sarebbe partito per Londra, mi feci trovare all’aeroporto di Heathrow. Lui uscì dalle partenze insieme a Paolo che, astutamente, era salito sul suo stesso aereo meritandosi l’intervista esclusiva. Luca mi guardò sorpreso, sorrise e disse: «Questa volta è stato più furbo di te».  

Con lui non riuscivi ad arrabbiarti.  

 Vialli è stato la Cremonese, la Juve («può piacere o non piacere ma è qualcosa di unico, per me è stato un privilegio far parte della storia di quella società; non è una società perfetta ma ha un dna vincente, quando indossi quella maglia, ne senti il peso»), il Chelsea, la Nazionale. Ma quando penso a lui vedo la Samp di Paolo Mantovani, quando Marassi era il centro del mondo.

La presidenza della Doria è stato il suo ultimo sogno.  

 «La malattia non è esclusivamente sofferenza: ci sono momenti bellissimi» sono parole di Luca. «La vita, non l’ho detto io, ma lo condivido in pieno, è fatta per il 20 per cento da quello che ti succede, ma per l’80 per cento dal modo in cui tu reagisci a quello che accade. E la malattia ti può insegnare molto di come sei fatto, essere anche un’opportunità».  

 Lui aveva poco da imparare. Ha avuto piuttosto occasione d’insegnare, anche come sopportare un male che pure si dice incurabile, vivendolo e allontanandolo, alleviandolo con le emozioni dell’amicizia e dell’amore, con una pienezza di sentimenti e energie che all’ultima ora si sono esauriti. Solo perché così ha voluto il destino. Non la resa di Luca.  

Mancini piange Vialli: «Luca, amico mio. Ti sento qui con me». Daniele Dallera su Il Corriere della Sera l’8 Gennaio 2023.

Il c.t. della Nazionale e il legame di una vita con Gianluca Vialli: «Ha sempre lottato ma negli ultimi giorni era un uomo stanco, sfinito. Nei pochi momenti di lucidità reagiva e tornava ad essere lui con il suo sorriso»

«Luca è vicino a me, a noi, sono convinto che sia così anche per Sinisa: lo spero e lo sento». La fede aiuta Roberto Mancini in questi giorni di dolore, quando la morte ti porta via l’amico più caro, Gianluca Vialli, il compagno di sempre, di una vita regalata al calcio, prima in braghe corte e poi in giacca e cravatta, Mancini c.t. dell’Italia e Vialli alto dirigente (ma non alto papavero, umanità e competenza lo hanno preservato) della Nazionale. «Chiariamo una cosa, Vialli non l’ho chiamato io in Nazionale. Nominarlo capo delegazione è stata una felicissima intuizione di Gabriele Gravina, presidente della Federcalcio: quando mi ha chiesto cosa ne pensassi del coinvolgimento di Luca, naturalmente gli ho detto di sì, il presidente ed io sapevamo quanto sarebbe stato importante per la Nazionale: il merito è di Gravina».

Perché Vialli è stato importante per la Nazionale?

«Conosceva il calcio, il nostro mondo. Era un capodelegazione atipico, rappresentava il presidente Gravina e la Federazione presso la squadra, ma la sua interpretazione del ruolo è andata oltre. Stava vicino al gruppo, parlava con i giocatori, sapeva quando e come intervenire. La sua leadership era spontanea, la nostra intesa era apprezzata, sapeva trasmettere ai più giovani i valori della Nazionale».

Valori di cui tanto si parla: ma quali sono?

«Luca credeva nella maglia azzurra, nell’importanza di quei colori: anche sdrammatizzando sapeva cogliere e, a sua volta, trasmettere il senso di appartenenza alla squadra. Ecco perché dico che era un capodelegazione atipico, ma fondamentale. Quando capiva che un giocatore aveva bisogno di motivazioni, trovava la parola giusta e il giocatore ne percepiva il carisma. Vialli era davvero carismatico».

Che amicizia era la vostra?

«Forte perché è nata quando eravamo giovani, a 18 anni, in un ambiente e una squadra eccezionale, la Samp, guidata da un presidente fantastico come Paolo Mantovani: l’atmosfera di unione, di leggerezza, ci legava: Luca ed io eravamo sempre insieme, ci siamo divertiti».

A far cosa?

«Eravamo ragazzi esuberanti, condividevamo un’infinita passione per il calcio: il bello è che quando le nostre strade si sono divise, lui prima alla Juve e poi io alla Lazio, affetto e amicizia sono rimaste. Per sempre».

Quell’abbraccio all’Europeo che ha fatto il giro del mondo è la sintesi della vostra amicizia?

«In quell’abbraccio c’è tutto: la gioia, i nostri sentimenti, il momento difficile che stava vivendo Luca, la sua lotta contro la malattia, la conquista dell’Europeo a Londra, casa sua: vincere lì per lui è stato importante».

Lei ha visto Luca pochi giorni prima che morisse.

«Ha sempre lottato ma negli ultimi giorni era un uomo stanco, sfinito, anche se nei momenti di lucidità reagiva, tornava ad essere lui, Luca, col suo sorriso. Ci siamo sempre voluti bene, mi mancherà, mancherà a tutti, ma sento che è vicino a noi, prego e spero che sia così, ne sono davvero convinto».

Ha sperato fino all’ultimo che ce la facesse.

«Ci abbiamo sperato tutti, non solo io, confidando che ci potesse essere una svolta. Poi, lui è stato forte…».

In che senso?

«Ha lottato, con coraggio. I medici curanti non erano certo felici dei suoi spostamenti, dei suoi blitz in Italia in nome dell’amicizia, ma lo faceva perché questi momenti conviviali, questa voglia di vederci e di stare insieme, gli davano gioia. Anche se gli causavano grande fatica. Luca è sempre stato un guerriero, certo che vederlo così sofferente è stata una prova durissima per tutti noi che gli abbiamo voluto bene».

Anche lei ha lavorato e vinto in Inghilterra, guidando il Manchester City allo scudetto, ma Vialli ha scelto di vivere a Londra: perché?

«A Luca piaceva Londra, ha trovato la dimensione giusta, per lui, la famiglia, per le figlie. Là il calcio è vissuto in modo diverso che da noi, credo che quella città gli desse la tranquillità che desiderava».

Perché i funerali in forma privata a Londra? Vialli incarna e rappresenta l’Italia meglio di chiunque altro.

«Non lo so, non conosco la situazione».

Ma è vero che voi due, alla Samp, i gemelli del gol, avete litigato nell’anno dello scudetto (‘90-’91)?

«Ma va, no... Non ricordo».

Raccontano che avete bisticciato e c’è stato bisogno di alcuni mediatori per riportare la serenità tra voi: si sarebbe reso necessario l’intervento degli ambasciatori...

«Massì è stata una tensione momentanea, nata non si sa nemmeno perché...».

È vero che a lei piaceva più preparare il gol che farlo, si divertiva a lanciare Vialli in rete?

«Luca era il nostro bomber, è giusto che fosse così».

Alla tv Sport Mediaset ha fatto uno speciale («Ciao Gianluca») con un taglio originale: il sorriso di Vialli. Era così il suo amico Luca?

«Sì, sì, era allegro e ti contagiava. Nonostante tutto, nonostante il dolore, la sofferenza, la malattia, la preoccupazione per i suoi cari, il ricordo che porterò per sempre con me è il suo sorriso».

Gianluca Vialli, Mancini: "Litigai con lui una sola volta, ecco perché?" Hoara Borselli su Libero Quotidiano l’8 gennaio 2023.

«Credo che sia giusto raccontare Luca in una chiave diversa. Lui è gioia, non tristezza», mi dice Roberto Mancini. «A parte il dolore del momento, che è terribile, credo che Luca preferirebbe sentir parlare di sé con serenità, con allegria, perché lui era così, un ragazzo allegro, un ragazzo perbene, di classe, molto intelligente. Secondo me preferirebbe che tutti noi lo ricordassimo in questo modo e credo onestamente che sia la cosa più bella». E noi è quello che faremo.

Roberto Mancini, 58 anni, Ct della Nazionale italiana, amico fraterno di Gianluca Vialli con il quale ha giocato nella fantastica Samp che trionfò in Italia e in Europa a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta (trascinata proprio da due attaccanti fantastici come Mancini e Vialli), ha deciso di raccontarci lo straordinario rapporto che li lega da sempre 

Mister, di voi si è sempre detto che eravate fratelli, non semplici amici...

«Noi eravamo particolari. Diciamo che era la nostra squadra, la Sampdoria, ad essere molto particolare, perché noi eravamo una squadra di ragazzi giovani, quasi tutti della stessa età. Praticamente vivevamo in simbiosi, trascorrevamo la nostra vita, dalla mattina alla sera, sempre insieme. Abitavamo tutti vicini e qualcuno addirittura abitava nella stessa casa. All'allenamento andavamo insieme, a mangiare pure. Eravamo come una famiglia. Con tutti avevo un rapporto fortissimo, ma con Gianluca si era instaurato un legame specialissimo».

Ce lo racconti.

«Con Luca c'era un feeling diverso. Noi giocavamo in attacco insieme, quindi ci capivamo al volo. Lui aveva un carattere totalmente opposto al mio, quindi andavamo d'accordo probabilmente anche per questo. Lui nonostante la giovane età era molto più riflessivo, io ero molto più impulsivo. Ho avuto una vera e propria ammirazione per lui. Lo ammiravo per il ragazzo che era. Rappresentava un punto di riferimento per tutti e in modo particolare per me. Noi ci conosciamo da una vita e abbiamo litigato solo una volta».

Veramente? Me la racconti.

«Credo che il vero motivo fosse perché non avevamo mai litigato e quella volta abbiamo voluto provare a litigare. Per una stupidaggine accadde questo. Durante un allenamento, Luca, anziché chiamarmi Roby, come sempre, mi chiamò Mancini, e allora io gli dissi irritato: "Scusa ma perché mi chiami Mancini?". C'è stata una discussione e ricordo che non ci siamo parlati per un po' di giorni, cinque o sei se non sbaglio».

E poi come avete fatto pace?

«Ci fu un raduno della Nazionale e chiaramente in Nazionale si è tutti amici, non sono ammesse tensioni e ricordo che ci fecero far pace subito. È stata l'unica volta, l'unica litigata di tutta la nostra vita».

Ma poi lei gli ha mai chiesto come mai l'avesse chiamata "Mancini"?

«Ma era veramente per una stupidata. Eravamo in allenamento, durante un'azione di gioco, e probabilmente in quel momento lì a me giravano e a lui anche...».

Quando giocavate nella Samp, tutti e due lì davanti, facevate incetta di gol. Possibile che non ci fosse competizione tra voi? Avevate ruoli un po' diversi ma il compito era lo stesso: fare gol.

«No, non c'è mai stata competizione tra di noi. Io ero un giocatore diverso da Luca. Lui era un centravanti, penso uno dei centravanti più forti che l'Italia abbia mai avuto».

Da mister ce lo descriva come giocatore.

«Luca era un giocatore completo, giocava in area di rigore, sapeva calciare al volo, era veloce, era potente, era tecnico, era forte di testa. Se avesse giocato oggi avrebbe fatto 30 gol in campionato senza nessuna difficoltà».

Perché Sacchi non lo portò in Nazionale nel Mondiale 94?

«Una vera spiegazione sinceramente non me la so dare. Noi eravamo in azzurro da tanti anni e a volte quando cambia il ct si preferisce cambiare il tipo di gioco. Sacchi faceva un tipo di gioco diverso da quello che facevamo noi alla Sampdoria. Però Luca era un giocatore formidabile».

Se dovesse fermare un'immagine pensando a Gianluca, quale sceglierebbe?

«La prima volta che noi ci siamo incontrati, lui giocava nella Cremonese, in serie B. Giocava e non giocava, era un emergente. Io giocavo già in serie A. Dal Bologna ero andato alla Sampdoria e un giorno ci incontrammo sul treno per andare a Coverciano».

E cosa accadde?

«Quel giorno lì, siccome ero consapevole che Luca fosse un grande giocatore, e molto giovane, gli ho detto : "Ma scusa tu devi venire alla Samp, non puoi andare in un'altra squadra. Devi venire perché noi faremo una squadra fortissima. Ti assicuro che ci divertiremo un casino"».

E lui come reagì?

«Lui si mise a ridere e cominciammo a parlare. Gli feci scoprire un po' il mondo della Sampdoria e dopo qualche mese è stato comprato dalla Samp. Questa per me è l'immagine più bella».

Qual è una qualità che Gianluca riconosceva in Mancini?

«Intanto che gli facevo fare i gol, e non mi sembra poco (sorride). Premetto che non è che a me non piacesse far gol però mi divertivo tantissimo a fargli gli assist».

E a livello personale?

«Io ero veramente il suo opposto caratterialmente. Ero molto impulsivo. Lui aveva capito questa cosa e cercava di tenermi più calmo. Per questo c'è sempre stato. E lo ha fatto con l'affetto, con quell'amore che si crea tra fratelli. Per me è stato un punto di riferimento fondamentale. Le confido questa cosa».

Mi dica.

«Cosa c'è di più importante nella vita di una persona, se non un figlio?».

Sinceramente nulla.

«Ecco, io ho voluto Luca come padrino di battesimo di mio figlio Filippo. Questo per darle una misura di grandezza del sentimento che ci legava».

Mister, c'è una cosa che non è stata detta e che vorrebbe che io scrivessi su Gianluca? Un qualcosa che magari non si conosce.

«Di Gianluca si conosce molto perché lui ha rappresentato una figura importantissima nel calcio italiano, sia per quello che ha fatto quando era giocatore, sia quando per un periodo nel quale è stato allenatore. Ha lavorato in tv, è venuto con me in Nazionale. Io ricordo il giorno in cui lui lasciò la Sampdoria. Noi avevamo perso la finale della Coppa dei Campioni a Wembley contro il Barcellona».

E cosa accadde?

«Dopo quella finale ci ritrovammo nel nostro ristorante dove di solito andavamo, e avevamo capito che quella sconfitta avrebbe rappresentato la fine della nostra gioventù. Sapevamo che da quel momento ci saremmo separati. Lui era stato venduto alla Juve. Ricordo che ci siamo trovati lì io, Gianluca, Tonino Cerezo e qualche altro giocatore. A un certo punto scoppiammo tutti a piangere perché capimmo che stava iniziando un'altra era, un'altra epoca per tutti noi».

E così è veramente stato?

«Sì, così è stato. Le nostre strade a livello calcistico si sono divise. Però, come accade nelle vere grandi storie di amicizia, non importa per quanto tempo tu non ti veda o per quanto tempo tu non ti senta. Quando c'è amore non finisce nulla».

Gianluca, insieme a lei, è stato uno dei più grandi campioni negli anni '90. Era bravo anche come allenatore e come dirigente?

«Lui ha fatto allenatoregiocatore al Chelsea, un ruolo abbastanza difficile. Fece benissimo perché vinse delle coppe. Si è trovato talmente bene a Londra da decidere di fermarsi lì quando, magari, avrebbe avuto possibilità di tornare in Italia. Ci ha pensato la Nazionale a riportarlo qui».

I giocatori protagonisti dello straordinario Europeo che avete vinto, dicono, in un coro unanime, che la presenza di Gianluca è stata per loro fondamentale. Un esempio di forza, coraggio, positività. Quale valore ha dato Gianluca Vialli alla squadra durante quella straordinaria esperienza?

«Luca ha rappresentato un punto di riferimento per tutti. Soprattutto per i giocatori più giovani ai quali ha messo a disposizione tutta la sua esperienza. Quando facevamo le riunioni Luca, spesso, parlava con i ragazzi e non essendo lui l'allenatore, ma un dirigente, si rivolgeva a loro con un altro spirito, un altro modo. Credo che questo sia stato molto importante per far capire ai ragazzi il valore e l'importanza di quello che noi stavamo andando a fare. Quello che era iniziato come un sogno e che poi è diventato realtà».

E per lei, la presenza di Gianluca in Nazionale, cosa ha rappresentato?

«A me ha aiutato tantissimo. È stato fondamentale, determinante. Lo è stato per tutto lo staff. Luca aveva un carisma straordinario ed è il motivo per cui tutti i giocatori della Nazionale e non solo sono affezionati a lui. Posso aggiungere una cosa?».

Certo.

«Deve sapere che quando mi è stato proposto di allenare la Nazionale, la prima chiamata io la feci a Luca. Gli chiesi: "Che cosa ne pensi? Cosa faccio? Vado o non vado?"».

E lui cosa le rispose?

«Senza neanche pensarci un secondo, con la sua solita ironia che lo contraddistingueva, mi disse: "Accetta immediatamente, diventare il ct della Nazionale è come diventare il Presidente del Consiglio del calcio. Rappresenti la Nazione».

Non posso ovviamente non chiederle qualcosa rispetto a quella che ormai è diventata l'immagine simbolo sua e di Gianluca. Quell'abbraccio forte, intenso, vero. Mi lasci dire che è una delle immagini più belle che ci portiamo dentro di quella meravigliosa finale. Cosa c'era in quell'abbraccio?

«Noi, in quello stadio ci eravamo trent' anni prima. Lì perdemmo con la Sampdoria la finale di Coppa Campioni e ci siamo tornati insieme, alla guida della Nazionale, vincendo un Europeo. Credo che Luca in quell'abbraccio ha messo tutto quello che aveva e quello che gli rimaneva. C'era la gioia ma è chiaro che c'era anche la battaglia che stava combattendo. Ed io sempre con lui. Io di una cosa sono sicuro, anzi lo spero con tutto il mio cuore, che quei 50 giorni lì siano serviti a Luca per vivere bene. Io sono molto fiero e orgoglioso di aver contribuito, insieme ai ragazzi, e insieme al presidente Gravina, a dargli gioia. Credo veramente che questa sia una cosa bellissima».

Mister, lei nel giro di 20 giorni ha perso due figure a cui era legatissimo: Mihajlovic e adesso Vialli. Lei è molto credente. Come affronta tutto questo?

«Io le confido che fino all'ultimo ho sperato in un miracolo. Mi rendo però conto che le due malattie che li hanno colpiti erano veramente difficili da sconfiggere. Purtroppo hanno avuto la meglio su di loro nonostante siano stati due straordinari combattenti. Due persone che io non ho mai abbandonato. Io spero che adesso Gianluca e Sinisa siano in un posto migliore e lassù, insieme al presidente Mantovani e a Boskov, ridano guardando noi quaggiù e dicano cose come "Guarda quelli dove stanno e noi invece siamo qui e stiamo meglio"». 

A marzo la Nazionale tornerà in campo. E tornerà senza Vialli.

«Io ho una sola, unica, grande certezza, che Luca sarà lì con noi, sarà sempre con noi perché la sua impronta rimarrà indelebile. Mi lasci concludere facendomi mandare un grande abbraccio alla mamma Maria Teresa al papà Gianfranco, alla sorella Mila, ai fratelli Nino, Maffo, Marco. Alla moglie Catherine e alle figlie Sofia e Olivia. Un bacio grande».

Tutti noi di Libero ci uniamo a questo suo abbraccio. Grazie Mister. 

Gianluca e Roberto, la lezione poco social della vera amicizia. Il silenzio pieno di dolore di Mancini mentre non si contavano i messaggi di calciatori, ex compagni, tecnici, sportivi e politici. Riccardo Signori l’8 gennaio 2023 su Il Giornale.

Un giorno, un giorno solo per raccontarci silenzio e tormento. Un bellissimo silenzio, a regalarci un sentimento più di mille parole. Un gesto, niente di più. Roberto Mancini non ha smentito l'indole della persona sensibile che vive in un mondo di parole, immagini, fatti, successi e sconfitte, amori e disamori. Il mondo di tutti noi, ciascuno nel suo ruolo. Poi, certo, ieri si è prestato all'intervista Rai-Figc per ricordare l'amico perduto e per lanciare un programma sulla storia della Sampdoria. Ma in quel vorticare di chiacchiere social, immagini tv, pareri e contro pareri piovuti a cascata, subito dopo l'annuncio della morte di Luca Vialli, si è tenuto nell'angolo: non buio, non oscuro, piuttosto solitario e silenzioso. Non una parola social, almeno per un giorno. Semmai qualche confessione ad amici di lunga data. Non guardiamolo con l'occhio degli addetti ai lavori, ma con l'occhio di un comune suiveur di calcio. Poi ieri ci ha raccontato che «un amico è un amico» che «Luca era un fratello, era gioia e così va ricordato», che «il rapporto nostro è stato di rispetto, amore e amicizia».

Eppure preferiamo ricordare quel Mancini che ha lasciato vorticare il presenzialismo social, dove tutti devono dire qualcosa Sennò che figura! Magari pensano che, Io che lo conoscevo. Grondare di pensieri e pensierini, veri certamente veri, di giocatori ed ex, allenatori ed ex, politici e attrici, star e starlette, presidenti ed ex, amici, conoscenti, attori e comprimari. Si è letto di tutto e di più, qualche volta di peggio. Sentimenti a scorrere, belli, sinceri, commemorativi, estemporanei, qualcuno ha perfino raccontato i sogni, qualche altro ha ricordato segni e segnali, certuni hanno giocato d'anticipo. Niente di male, una grande abbuffata di sensazioni e dispiacere, di commozione, quel senso di sentirsi un po' più soli. Ne è sortita una preghiera di massa, la commemorazione in una cattedrale che questa volta non era Chiesa e nemmeno stadio di calcio: solo una sfera intesa come mondo. Eppure, dedicandoci al suo silenzio non proprio assordante, piuttosto intimo, vero, spazio di bellezza pura, commemorativo e fraterno, abbiamo immaginato di veder Mancini Roberto, un vecchio ragazzo come tanti, seduto sulla poltrona a ripescare il film di una vita, di un percorso, immagini che non nascono dalla fantasia ma riportano alla realtà che non sempre può essere bella vita. Poi metteteci i protagonisti che volete: mamme, papà, fratelli e sorelle, mogli, figli, Mantovani e Boskov, i ragazzi della via Samp, le squadre, i club, la nazionale, coppe e gol, successi e insuccessi. I due si sono narrati prima sui campi di calcio, poi nel percorso che li ha portati insieme a quell'abbraccio che ha commosso l'Italia, e non solo, a conclusione degli Europei. Ecco, forse tutti avremmo voluto che il ricordo, la sensazione, l'aggrovigliarsi di emozioni rimanessero fermi a quella immagine, alla bellezza dell'amicizia. Loro due, ma quanti di noi con loro?

Sapevamo che la vita di Vialli era a tempo determinato. Mancini, dopo l'ultima visita a Londra, ha parlato di miracolo. «Solo quello potrebbe salvarlo». E qui si sono fatti largo il realismo, la delicatezza di un sentimento, l'indole di un uomo che crede ma capisce il destino. Silenzio per lui, chiacchiere dagli altri. Il mondo social è curioso e talvolta devastante, il protagonismo al quale induce non si pone limiti. Ci voleva un tasto, un clic ad ammutolire per poter sopportare tutto il rumore. Per un giorno ci ha pensato l'amico. Poi Mancini è anche un ct, non solo un amico. Ha un ruolo istituzionale, e ieri la Figc lo ha intervistato per conto del mondo calcio. Mancio disse un giorno, parlando di Luca: «Perché magari nella vita devi trovare amici che lo siano veramente, fino alla fine, per molti anni». Fino alla fine appunto. Lo sono stati, nelle chiacchiere e nel silenzio. E siamo certi che il ct tenterà in tutti i modi di mantenere l'ultima promessa: «Luca ha fatto capire ai giovani il valore della maglia azzurra. Dobbiamo proseguire su questa strada. Era un ragazzo sempre allegro, giovane al quale piaceva la vita. Vorrebbe che lo ricordassimo così». E magari tramutare un bellissimo silenzio in un bellissimo sorriso: forza Mancio, c'è miracolo e miracolo.

Paolo Tomaselli per il “Corriere della Sera” il 9 gennaio 2023.

L'abbraccio a quella che il suo ex compagno Graeme Souness ha definito «un'anima bellissima, metà guerriero metà filosofo», si allarga a dismisura: da Genova a Manchester, dalla Sampdoria al Chelsea, fioriscono sul prato le maglie numero 9 di Luca Vialli indossate dai giocatori nel riscaldamento.

 Come Gianluca Pessotto per la Juventus la sera prima a Torino, a Marassi il presidente blucerchiato ed ex compagno dello scudetto, Marco Lanna, tiene la maglietta fra le mani, commosso da tanto affetto e stravolto da tanto dolore, perché accanto a lui ci sono anche i tre figli maschi di Sinisa Mihajlovic, stretti attorno a Dejan Stankovic, mentre lo stadio canta «Lettera da Amsterdam», l'inno più struggente.

Sulla Bbc, nell'intervallo della partita del Chelsea contro il City, scorrono le immagini di Luca che abbraccia il Mancio a Wembley dopo l'ultima parata di Donnarumma e il fatto che quell'ultimo grande momento di gioia dei gemelli del gol si sia consumato nel tempio del calcio, contro la loro Nazionale nella finale dell'Europeo, oggi sembra un punto d'orgoglio per gli inglesi: «Tutti sappiamo che calciatore è stato Vialli - sottolinea un altro vecchio bomber come Alan Shearer -, ma è l'aspetto umano che in lui faceva la differenza: il suo calore, la sua simpatia, la sua voglia di scherzare unita anche alla sua profondità. È molto raro trovare nel calcio una persona così, perché è un business molto duro».

Al minuto 9 a Manchester si alzano tutti in piedi, Guardiola applaude come nel silenzio pre partita, nel quale Jorginho era sembrato molto provato, al pari del portiere Meret a Genova. Uno striscione recita «Luca Vialli vinci per noi» e anche gli inglesi capiscono.

 Oggi a Cremona nella chiesa di Cristo Re, all'ombra della quale è iniziato un viaggio bellissimo che non verrà mai dimenticato, Luca verrà celebrato in una commemorazione voluta dalla famiglia: dagli anziani genitori, dai quattro fratelli e dai nipoti.

Giovedì o venerdì a Roma, alla chiesa di Santa Teresa del Gesù bambino, la Federcalcio italiana ha organizzato una messa di preghiera a cui parteciperanno il ministro dello Sport Andrea Abodi e il presidente del Coni Giovanni Malagò. Non è detto che il c.t. Roberto Mancini possa essere presente, perché gli amici più stretti saranno chiamati a Londra per il funerale in forma privata, del quale non verranno comunicate né la data né il luogo.

«Nulla è stato ancora fissato, il funerale sarà nei prossimi giorni» spiega Libby, la cognata di Vialli, mentre accompagna nella casa di Old Church street i genitori appena arrivati dal Sudafrica per l'ultimo saluto al ragazzo che ha sposato sua sorella gemella Cathryn, il padre di Olivia e Sofia, 18 e 16 anni: anche nei momenti più duri Luca trovava il modo di scherzare con le sue bambine, facendosi dipingere le sopracciglia, diradate a causa delle terapie.

 Davvero non è semplice vedere tutto il mare di affetto per Vialli in Italia e in Inghilterra e misurarlo con la quiete della casa di Chelsea e la richiesta di riserbo assoluto. Ma sono due facce della stessa persona, che a Londra aveva trovato il suo posto nel mondo, una volta abbandonato il frastuono degli stadi: «Grazie a tutti per i vostri messaggi di cordoglio - recita un comunicato diffuso nella serata di ieri dall'assistente personale di Vialli, Martina Vian -. Dato il dolore e le emozioni crude che la famiglia sta attraversando in questo momento difficile, la loro privacy è enormemente apprezzata. Grazie per la vostra comprensione». Quel che conta è che l'abbraccio arrivi a destinazione, forte e dolce allo stesso tempo. Come Luca.

Dagospia il 9 gennaio 2023. I RICORDI DI FABIO CARESSA CHE NEL SUO LIBRO SCODELLA UNA SERIE DI ANEDDOTI SUL “RAPPORTO SPECIALE” CON L’EX ATTACCANTE E COMMENTATORE

Ho visto Vialli ballare in mutande su un tavolo al ristorante Baraonda di New York nel 1994 quando con Massimo Mauro collaborava al 'Processo di Biscardi' durante il Mondiale americano, al quale non aveva partecipato perché Sacchi lo aveva lasciato a casa dopo un infortunio e qualche incomprensione”.

 Non è mai convenzionale Fabio Caressa quando parla del “rapporto speciale” che lo lega a Luca Vialli. Nel suo libro “Grazie, Signore, che ci hai dato il calcio” (Sperling&Kupfer) ricorda i tempi insieme a Sky, "le nottate a mangiare pasta “con sughi impossibili inventati al momento” dopo qualche trasferta di Champions e quell’esibizione memorabile nel locale newyorchese durante i Mondiali di Usa '94: “Uno spogliarellista era l’attrazione di un addio al nubilato al tavolo accanto e, malauguratamente per lui, dopo averlo riconosciuto, lo sfidò a una specie di gara su chi avesse il fisico più bello. A giudicare dagli applausi della futura sposa vinse Luca a mani basse...”.

Sorrisi e allegria ma anche qualche insegnamento per resistere agli urti della vita e degli avversari. Negli annali resta la partita nel 2006 a Duisburg tra giornalisti al seguito delle varie nazionali. In campo, per Sky, c’erano anche Boban e Vialli. Caressa rammenta: “Dico a Luca: 'Oh, ma il 7 me sta a menà forte'. Lui mi risponde: “Si vede che non ti fai rispettare”. Alla prima occasione il telecronista sfodera un intervento alla Pasquale Bruno contro lo spigoloso rivale: “Gli entro in scivolata, a gamba tesa, sullo stinco provocandogli una ferita che richiederà 2 punti di sutura”. A Luca dico: “Mi hai caricato come una molla, guarda che mi hai fatto fare”. E lui serafico: “Ti sei solo fatto rispettare. E inizia a ridere…”.

Su Instagram Caressa, visibilmente commosso, aggiunge in un video: “Vialli mi ha insegnato un sacco di cose che portavano al risultato perché poi per lui quello che contava era ottenere un risultato, fossero investimenti, lavoro o questioni familiari. C’è una frase che spiega un po’ chi era Luca. Lui amava dire che nella vita è meglio avere un cachemire che 5 maglioni brutti…”

Gianluca Vialli, "ora posso dirlo": Mauro rivela l'unico rimorso del campione. Libero Quotidiano il 10 gennaio 2023

Nella straordinaria carriera di Gianluca Vialli, dentro e fuori dai campi di calcio, c'è solo un obiettivo che non è riuscito a raggiungere. Ospite di Pressing su Italia 1, Massimo Mauro ha svelato un nuovo, commovente retroscena sul suo amico scomparso il giorno dell'Epifania a Londra a 58 anni, dopo 5 trascorsi a combattere contro un tumore al pancreas. La malattia non gli ha impedito di realizzare uno dei suoi sogni: diventare campione d'Europa con la Nazionale, proprio a Londra nel luglio 2021, sia pure non da giocatore ma da responsabile della spedizione azzurra. Una forma di risarcimento per le due grandi delusioni subite a Euro 1988 e soprattutto a Italia 90, quando la squadra allenata dal ct Azeglio Vicini e con Vialli titolare al centro dell'attacco uscì sempre in semifinale contro la Russia prima e l'Argentina di Maradona poi, pur meritando certamente qualcosa di più.

Da video.corriere.it il 10 gennaio 2023.

«Chi può “raccontare” Gianluca Vialli meglio di quanto non possa fare lui stesso? È per questo che, per non aggiungere altre parole alle tantissime che gli sono state dedicate, ho deciso — con pudore, ma anche con consapevole affetto — di condividere con gli amici di questa pagina l’ultimo messaggio vocale che ho ricevuto da lui (poco più di in mese fa). Aiuta a capire, una volta di più, il senso della sua gentilezza, del suo coraggio, della sua generosità, persino della sua ironia che non flette neanche di fronte a quello che certamente già “sapeva”.

 Sembra che sia lui a voler fare coraggio a me! Sono le parole di un grande Uomo che non ha mollato mai! E certamente di un grande Amico che ci ha insegnato che persino nella sofferenza si può trovare la forza di regalare un sorriso». Così Marino Bartoletti sulla sua pagina Instagram condivide l’ultimo vocale ricevuto da Vialli, circa un mese fa. Gianluca si è spento all’età di 58 anni il 6 gennaio 2023 per un tumore al pancreas. Ieri, lunedì 9 gennaio, è stato ricordato in una Messa a Cremona voluta dalla famiglia.

Vialli, la messa a Cremona: gremita la chiesa di Cristo Re. Storia di Arianna Ravelli, inviata a Cremona, su Il Corriere della Sera il 9 gennaio 2023.

«Che cosa ha ancora da aggiungere un prete, che magari è stato juventino in gioventù, e che adesso conosce la realtà cremonese, a tutto quello che è già stato detto di Gianluca Vialli? Invece ciascuno di voi può aggiungere qualcosa, perché ognuno di noi vive negli altri. E le cose belle si trasmettono per contagio». Il vescovo di Cremona Antonio Napolioni inizia così l’omelia della Messa in memoria del figlio prediletto della città (che oggi ha proclamato una giornata di lutto, le bandiere abbassate, le immagini di Luca proiettate sulla facciata del Comune, un minuto di silenzio negli uffici pubblici): e in effetti a popolare la chiesa di Cristo Re in questa umida serata ci sono centinaia di cremonesi, decine di esponenti del mondo del calcio, amici, familiari, ex compagni di scuola, e infiniti ricordi perché ognuno ha portato i suoi con sé e se li ripassa mentalmente a cercare consolazione, a farsi strappare un sorriso. Perché sì, si sorride, anche, e si piange, certo.

Lo fa la famiglia raccolta nella cappella alla destra dell’altare: , che sono rimasti a casa con la figlia Mila. Ci sono i fratelli, incredibilmente somiglianti a Gianluca, Marco, Nino, Maffo, i nipoti (uno, il figlio di Nino, con la sciarpa della Sampdoria), gli amici intimi, quelli dello «Zjg» che organizzavano persino un celeberrimo Festival con esibizioni, canti e musiche a Villa Affaitati a Grumello cremonese, la casa della famiglia Vialli. Non si sono mai persi di vista nel nome di Gianluca e adesso, anche loro, ricordano.

«Il ricordo sportivo più bello è la vittoria della Champions, quelli personali li tengo per me» sussurra Roberto Bettega ex calciatore ed ex dirigente della Juventus, seduto nel banco con Ciro Ferrara («Grazie Luca del viaggio che abbiamo fatto assieme, ci siamo menati e ci siamo divertiti»), Fabrizio Ravanelli, Angelo Peruzzi, Michele Padovano. Poco più in là, Moreno Torricelli, Alessio Tacchinardi, Gianluca Pessotto che l’altro giorno a Torino ha letto un messaggio toccante per Luca.

Video correlato: Addio a Vialli, oggi la Messa nella sua Cremona (Mediaset)

E poi la Samp di Pietro Vierchowod, Fausto Salsano, Bubu Evani, Attilio Lombardo (che è stato un altro figlio adottato da Cremona), Marco Branca, Gianluca Pagliuca, Marco Lanna («Gli stavo solo scaldando la sedia di presidente, gliel’ho detto tante volte, purtroppo non è riuscito a coronare questo sogno»), Riccardo Ferri. E la Cremonese di quei tempi con Roberto Bencina, Marco Nicoletti, Walter Viganò, Mario Montorfano che, tra le lacrime, ha letto un messaggio, ricordando «la camera in disordine ai limiti dell’impraticabilità» che condivideva con Gianluca nei ritiri estivi, e poi naturalmente «l’educazione», «il sorriso», «l’esempio», le parole più ricorrenti in questo ricordo triste e sereno assieme. Perché si piange, certo, ma si sorride anche, come avrebbe voluto lui.

Le foto della messa a Cremona

Sono tutti qui per lui, per Gianluca. Sotto l’altare le maglie delle sue squadre, Cremonese, Sampdoria, Chelsea, Juventus (quella blu e gialla della vittoria in Champions) e della Nazionale, dietro sono seduti i ragazzi del Corona calcio, la squadra di Cristo Re dove Gianluca aveva iniziato a tirare i primi calci al pallone, e in prima fila i giocatori delle Giovanili della Cremonese e il Presidente Giovanni Arvedi (la prima squadra era impegnata negli stessi minuti sul campo di Verona, con una maglia speciale per Gianluca che avrebbe meritato una prestazione diversa), e vicino a lui il sindaco Gianluca Galimberti con l’assessore al Welfare della Regione Lombardia Guido Bertolaso.

«Gianluca è un uomo che nello sport, nella famiglia, nell’amicizia ha vissuto con il sorriso sulle labbra — continua il Vescovo —, specie quando la vita si è fatta dura. Chi affronta le difficoltà a viso aperto, chi ci riflette, chi sceglie come lottare contro il male e riesce a mettere a frutto questa esperienza regala una grande lezione, Luca amava così tanto la vita da affrontarla sempre così, con questa intelligenza generosa. Perché posso darmi vinto alla malattia, ma mai alla disperazione. Si gioca in cielo non alla maniera del campionato, con perdenti e vincenti ogni domenica, ma alla maniera dell’oratorio, con interminabili tiri in porta, in partite infinite, perché in Cielo il tempo è compiuto. Il Paradiso assomiglia a un campo dell’oratorio». Lassù Luca ha già cominciato a tirare.

Arianna Ravelli per corriere.it il 10 gennaio 2023.

Quasi un migliaio di persone, i familiari (i genitori anziani no, non ce l’hanno fatta, papà Gianfranco, 92 anni e la mamma Maria Teresa, 87, fermata dalla febbre, sono rimasti a casa), i fratelli Nino, Marco, Maffo incredibilmente somiglianti a Luca, i nomi importanti del calcio, quelli che hanno indossato le maglie che adesso sono posate ai piedi dell’altare, Cremonese (Roberto Bencina, Marco Nicoletti, Walter Viganò, Mario Montorfano), Sampdoria (Pietro Vierchowod, Fausto Salsano: «Eravamo fratelli», Bubu Evani, Attilio Lombardo, un altro figlio adottato da Cremona, Marco Branca, Gianluca Pagliuca, Marco Lanna: «Gli dicevo sempre, ti sto solo scaldando la sedia da presidente della Samp, ma quel sogno non è riuscito a realizzarlo», Riccardo Ferri, Fausto Pari), poi naturalmente Juventus (Ciro Ferrara, Roberto Bettega, Fabrizio Ravanelli, Angelo Peruzzi, Michele Padovano, Moreno Torricelli, Alessio Tacchinardi, Gianluca Pessotto), Chelsea (c’è Luca Percassi, ad dell’Atalanta ed ex giocatore dei Blues con Vialli allenatore), Nazionale.

E infiniti ricordi. Sembra quasi di avvertirli, popolano la navata della chiesa di Cristo Re, a Cremona, mentre scorre la Messa in onore di uno dei figli prediletti della città (che ha proclamato una giornata di lutto, le bandiere abbassate, le immagini proiettate sulla facciata del Comune, un minuto di silenzio negli uffici pubblici): ciascuno si rifugia nei suoi, Bettega cita «la Champions vinta, mentre quelli personali li tengo per me», Ferrara pensa «a quanto ci siamo menati, e poi divertiti, grazie Luca del viaggio che abbiamo fatto assieme», Montorfano piange mentre al microfono nomina la «stanza disordinata al limite dell’impraticabilità», condivisa per tre anni nei ritiri estivi in grigiorosso, gli amici intimi, quelli del Gruppo Zjg (dai cognomi dei fondatori, Zanotti, Jacopetti, Gastaldi) entrati in chiesa assieme, come una piccola falange, ricordano le goliardate, «il mitico Festival, che si è tenuto per 6-7 edizioni, a Villa Affaitati , la casa della famiglia di Gianluca, dove ciascuno si esibiva cantando, era diventato un evento imperdibile, richiamava anche 500 persone», sorridono Ferdinando Monfardini e Francesco Orio.

Perché sì, si piange all’addio a Vialli, ma si sorride anche, come avrebbe voluto lui e come si proverà a fare ai funerali che si terranno a Londra nei prossimi giorni, quando la famiglia cremonese raggiungerà la moglie Cathryn e le figlie Olivia e Sofia.

 Lo spiega bene il vescovo di Cremona, monsignor Antonio Napolioni: «Che cosa ancora può aggiungere un prete, che magari è stato juventino in gioventù, a tutto quello che è già stato detto di Gianluca Vialli? Invece ciascuno può aggiungere qualcosa, perché ognuno di noi vive negli altri. E le cose belle si trasmettono per contagio». E se le parole che ricorrono più spesso sono sorriso, esempio, educazione, allora la bellezza di Gianluca sta contagiando un po’ tutti.

Dietro l’altare, sono seduti i ragazzi del Corona calcio, la scuola della parrocchia, dove aveva tirato i primi calci al pallone. Nelle prime file ci sono i ragazzi delle Giovanili della Cremonese, il presidente Giovanni Arvedi (la prima squadra era in campo a Verona con una maglia speciale), il sindaco Gianluca Galimberti e l’assessore al Welfare della Regione Guido Bertolaso.

«Gianluca è un uomo che ha vissuto con il sorriso sulle labbra — continua il Vescovo —, specie quando la vita si è fatta dura. Chi affronta le difficoltà a viso aperto, chi ci riflette, chi riesce a mettere a frutto questa esperienza regala una grande lezione. Perché posso darmi vinto alla malattia, ma mai alla disperazione. E in cielo si gioca non alla maniera del campionato, con perdenti e vincenti, ma alla maniera dell’oratorio, con interminabili tiri in porta in partite infinite, perché il tempo si è compiuto. Il Paradiso assomiglia a un campo dell’oratorio». Se è così, Luca ha già sicuramente iniziato a tirare.

Da repubblica.it il 10 gennaio 2023.

"Entro pochi giorni tornerò a compiere per la seconda volta 28 anni. Ma non può funzionare, così, per dire, che tra qualche giorno torni anche tu a percularmi come facevi sempre? Altrimenti è dura, altrimenti fa troppo male". E' il pensiero che Ciro Ferrara ha rivolto su twitter a Guanluca Vialli. E lo ha fatto postando la foto del foglietto di auguri che il suo compagno di tante battagli nella Juve e in nazionale gli scrisse su un biglietto di un albergo dove i bianconeri erano in ritiro nell'ormai lontano 1995. Era a Bari, e i bianconeri vinsero 2-0 con gol di Del Piero e proprio di Ferrara. Vialli si rivolge a Ferrara con frasi in rima, che lo canzonano ma che riflettono l'affetto e l'amicizia tra i due.

Ferrara era tra i tanti che hanno ricordato a Cremona Gianluca Vialli. Insieme a lui tantissimi gli ex compagni del campione scomparso: tra gli altri l'ex dirigente della Juventus Roberto Bettega e l'attuale presidente della Sampdoria Marco Lanna. E ancora Alessio Tacchinardi, Gianluca Pessotto, Angelo Peruzzi, Paolo Montero, Moreno Torricelli, Fabrizio Ravanelli, Michele Padovano, Gianluca Pagliuca, Chicco Evani, Attilio Lombardo, Marco Branca, Fausto Salsano e Pietro Vierchowod.

"Il primo pensiero va alla famiglia di Gianluca. Sono stati veramente giorni molto duri per tutti, però Gianluca avrebbe sicuramente voluto una cerimonia allegra così come è sempre stato nel suo spirito", ha detto Ferrara. "Mi vengono in mente tanti episodi. Abbiamo trascorso tantissimo tempo insieme. Come avversari ci siamo 'menati' abbastanza, da compagni di squadra in nazionale e con la Juventus abbiamo tanti ricordi bellissimi e piacevoli. La cosa che lo contraddistingue, è stato molto più forte fuori dal campo che in campo, è la sua educazione. Questa è la cosa che forse mi ha sorpreso piacevolmente, un ragazzo educato che si metteva sempre a disposizione degli altri come solo i capitani grandi sanno fare. Luca, grazie per il viaggio che abbiamo fatto insieme".

(LaPresse l’11 gennaio 2023) Roberto Mancini, ct della Nazionale, ricorda a «Porta a Porta», su Rai1, il suo amico fraterno Gianluca Vialli, scomparso lo scorso 6 gennaio in un ospedale della Capitale britannica dopo una lunga battaglia contro il cancro. 

«L'ultima volta ci siamo visti prima di fine anno. Sono andato a trovarlo a Londra. Avevo un po' di paura. Lui era allegro. Abbiamo riso e scherzato. Mi ha tirato su di morale anziché il contrario. Era lucido. Ci siamo lasciati come ci siamo trovati. Bene», racconta Mancini intervistato da Bruno Vespa.

 «Lui mi disse: 'Dobbiamo vincere i Mondiali 2026, stai tranquillo ci sono anche io'. Sicuramente ci sarà molto vicino», ha concluso l'allenatore degli Azzurri che con Vialli ha condiviso buona parte della sua carriera calcistica alla Sampdoria e con cui ha instaurato una lunga amicizia.

Da ilgiornale.it l’11 gennaio 2023. 

Passano i giorni ma non si stempera l’eco della commozione e del cordoglio per la morte di Gianluca Vialli. Dai campi di calcio, dove i minuti di silenzio sono rispettati con precisione quasi svizzera, ai salotti televisivi dove è l’amico fraterno di una vita, Roberto Mancini, a fare chiarezza su un rapporto davvero unico e speciale. Nel corso dell’intervista rilasciata a Bruno Vespa nel programma di Rai 1 “Porta a Porta”, l’ex gemello del gol ha rivelato un lato commovente della vicenda umana del bomber di Cremona. Vialli si tenne per sé a lungo la notizia della malattia e del complicato percorso di cura che stava vivendo. Perché? Per non farlo preoccupare troppo.

Le parole del Ct della nazionale sono dette con la semplicità di chi racconta una storia troppo grande.“Lui non mi ha parlato della sua malattia all'inizio. Me l'ha rivelata nel 2019. Mi disse che aveva questo problema e che lo stava curando. Era molto positivo perché lui è sempre stato un combattente, ma quando mi parlò di questa malattia mi disse di non averlo fatto prima per non farmi soffrire. Da quel giorno sono cambiate tante cose, il tempo che passava e la speranza che lui ce la facesse. Fino all'ultimo abbiamo sperato in un miracolo"(..)

"Mi nascose la malattia". La confessione di Mancini su Vialli. Nell'intervista rilasciata dal Ct della nazionale a Bruno Vespa, i dettagli dell'ultimo incontro con l'amico fraterno e la rivelazione di come gli avesse tenuto nascosta la gravità della sua situazione medica "per non farlo soffrire". Luca Bocci su Il Giornale il 10 Gennaio 2023

Passano i giorni ma non si stempera l’eco della commozione e del cordoglio per la morte di Gianluca Vialli. Dai campi di calcio, dove i minuti di silenzio sono rispettati con precisione quasi svizzera, ai salotti televisivi dove è l’amico fraterno di una vita, Roberto Mancini, a fare chiarezza su un rapporto davvero unico e speciale. Nel corso dell’intervista rilasciata a Bruno Vespa nel programma di Rai 1 “Porta a Porta”, l’ex gemello del gol ha rivelato un lato commovente della vicenda umana del bomber di Cremona. Vialli si tenne per sé a lungo la notizia della malattia e del complicato percorso di cura che stava vivendo. Perché? Per non farlo preoccupare troppo.

Le parole del Ct della nazionale sono dette con la semplicità di chi racconta una storia troppo grande.“Lui non mi ha parlato della sua malattia all'inizio. Me l'ha rivelata nel 2019. Mi disse che aveva questo problema e che lo stava curando. Era molto positivo perché lui è sempre stato un combattente, ma quando mi parlò di questa malattia mi disse di non averlo fatto prima per non farmi soffrire. Da quel giorno sono cambiate tante cose, il tempo che passava e la speranza che lui ce la facesse. Fino all'ultimo abbiamo sperato in un miracolo". Un giorno difficile quello della notizia che fa il paio con l’altro giorno altrettanto complicato, quello nel quale aveva comunicato alla sua Italia di doversi dedicare completamente al percorso di cura che stava per intraprendere a Londra.

"Dobbiamo vincere i Mondiali"

Nonostante tutto l’entourage di Mancini era rimasto sempre positivo, continuando a credere fermamente nel sogno comune: alzare al cielo quella maledetta Coppa del Mondo, quella che gli era sfuggita nel mondiale di casa. "Gianluca mi disse che dovevamo vincere i Mondiali del 2026 e che sarebbe stato con noi. Sicuramente ci sarà molto vicino e speriamo di dedicargli presto una grande vittoria". L’ex blucerchiato parla poi, quasi con pudore, dell’ultimo incontro avuto con Gianluca, quando ormai le speranze di una risoluzione positiva erano davvero al lumicino. "Sono andato a trovare Luca l'ultima volta a Londra prima della fine dell'anno. Avevo un pò di paura. Si è svegliato, abbiamo riso, scherzato, abbiamo chiamato Lombardo. Mi ha detto ‘io sono sereno, stai tranquillo’. Mi ha tirato lui su di morale. Era lucidissimo, ci siamo ritrovati come ci siamo lasciati: bene".

"Un abbraccio che ha racchiuso tutto"

Un rapporto familiare, forse più che fraterno, che si è chiuso proprio nella capitale britannica, a poche miglia di distanza dal mitico arco dello stadio di Wembley, il tempio del calcio che aveva visto il momento più bello con l’Italia, il trionfo contro i padroni di casa nell’Europeo. La memoria corre a quell’abbraccio, genuino e sentito, che aveva commosso il mondo. È stato speciale anche per il tecnico di Jesi, un attimo perfetto sul palcoscenico più importante. Le sue memorie sono però personali, quasi intime: “È stato un abbraccio che ha racchiuso tutto a livello sportivo e non solo. Non stava già bene, ma spero quel momento lo abbia risollevato un po, per noi Luca è stato un personaggio fondamentale per le nostre vittorie. Quando parlava ai giocatori loro raccoglievano tutto”.

Ora, per Mancini come per tutti noi, il compito più difficile: andare avanti come se Gianluca fosse sempre qui, a spronarci a rimanere positivi, senza mollare mai. Ai posteri giudicare se il suo esempio sarà l’inizio della rinascita della Nazionale dopo le tante delusioni degli ultimi anni. Farlo senza il centro emotivo del gruppo non sarà semplice ma almeno questo a Luca lo dobbiamo.

Moggi, il Vialli che non ti aspetti: "Cosa versava nelle tasche dei compagni". Luciano Moggi su Libero Quotidiano l’08 gennaio 2023

Non mi piace ma lo faccio. Parlo di Vialli oggi scomparso e voglio farlo descrivendo più il profilo umano di quello dell'atleta che d'altra parte tutti conoscono. In controtendenza di quanti, e sono tanti, dicono di averlo addirittura frequentato, ma solo per apparire oggi nei media con un ricordo.

Io ho avuto la fortuna di vivere tanti successi con Gianluca ed ora, non mi sembra vero che anche lui si è unito ai grandi Maradona e Pelé che ci hanno lasciato negli ultimi tempi. Vialli rappresenta la storia della Sampdoria e la rinascita della Juve, oltre che l'incarnazione del "Capitano". Era un uomo vero, forte, grintoso, empatico e che ha costruito tutte le sue vittorie sudando, faticando sul campo, scherzando e rallegrando i compagni. Quale giocatore della Sampdoria, è riuscito a trasformare il sogno scudetto di tanti tifosi doriani in realtà.

CICLI VINCENTI

La Juventus, nel 1992, per godere delle prestazioni sportive di Gianluca, pagò alla Sampdoria circa 40 miliardi di lire, che rappresenta per l'epoca la cifra più alta al mondo pagata per il cartellino di un calciatore. Nella Juventus Vialli aprì uno dei cicli più vincenti della società, diventando immortale per tutti i tifosi Juventini: nel 1995 alzò al cielo lo scudetto, la Coppa Italia e la Supercoppa italiana e la stagione 1995/1996 culminò con la vittoria della Supercoppa Uefa e della tanto attesa "Coppa dei Campioni" dalle grandi orecchie.

 Mi piace ricordare Luca, quando con la maglia della Juventus alzò la Coppa dei Campioni nel cielo di Roma nel 1996, la sua felicità e mi vengono in mente le sue raccomandazioni a chi fu incaricato di calciare i rigori: gli sapeva dire persino dove calciarli, dove il portiere dell'Ajax era più debole.

In Italia Vialli aveva dimostrato il grande campione che era e, non c'era momento migliore per un giocatore di salutare la propria squadra con la vittoria della coppa europea più importante e, pertanto, decise di andare a giocare in Premier League (oggi è la norma per un calciatore andare all'estero, all'epoca Gianluca fu un pioniere) al Chelsea che era in cerca di rilancio dopo decenni di anonimato. Anche con questa squadra Vialli riesce ad aprire un ciclo importante con la storica vittoria in FA Cup nell'annata dell'esordio e nel febbraio 1998, dopo esser stato promosso dal presidente del club Ken Bates a giocatore-allenatore, guida i compagni di squadra ad un glorioso finale di stagione grazie alle vittorie della Football League Cup e della Coppa delle Coppe.

 Il palmares di Vialli rende merito al grande giocatore che era e che ha reso immortale la coppia che formava in attacco con Roberto Mancini, oltre che il tridente con Ravanelli e Del Piero, nomi che hanno fatto grande il calcio italiano ed hanno fatto sognare milioni di tifosi.Vialli era l'anima pulsante dell'attacco delle sue squadre, era un compagno di squadra eccezionale ed il punto di riferimento assoluto in campo e fuori dal campo, in quanto trasmetteva ai suoi compagni la sua voglia di vincere, li incoraggiava, li trascinava e li coinvolgeva.

Ricordo ancora cosa mi disse prima della partita Napoli-Sampdoria del 1991, in cui io ero direttore generale del Napoli: «Direttore, noi siamo più forti di voi, vinceremo partita e campionato» e così fece, grazie a 4 gol ed allo spettacolo che diede il duo magico Vialli-Mancini.

Il carattere con cui Gianluca affrontava gli avversari sul campo e sosteneva i proprio compagni lo ha messo anche nella battaglia contro la malattia, fino a che questa non ha preso il volto della morte. La sua voglia di "vivere" e non di esistere gli ha consentito, quale capo delegazione della Nazionale di vincere l'Europeo 2021 e l'abbraccio con Mancini, suo gemello del gol, dopo la vittoria di Wembley dimostra che per vincere servono prima di tutto gli uomini veri. Vialli era anche un guascone ed a fine allenamento aveva sempre battute per tutti i compagni, strappando loro il sorriso nonostante stessero tirando il fiato, dopo le fatiche a cui erano sottoposti da Ventrone e Lippi.

INSEGNAMENTO

Oltretutto, non faceva mai mancare qualche scherzetto nello spogliatoio, come quando versava dell'acqua nelle tasche delle giacche dei propri compagni, oppure quando mi telefonava e ridendo mi diceva: «Direttore mi deve restituire la libreria e le tende», in quanto avevo comprato la casa dove lui aveva abitato fino a che era rimasto a Torino ed io gli rispondevo scherzosamente che non glieli avrei restituiti. Vialli, grazie al suo insegnamento su come si deve affrontare la vita, ha lasciato un segno positivo nel mondo del calcio, che nessuno mai sarà in grado di cancellare. Oggi è davvero difficile dirgli addio, ma il suo ricordo vivrà per sempre. Ciao, Capitano. Sei stato un grande campione, sei entrato nella leggenda. Ma, oltre ogni cosa, sei stato un uomo vero.

 Da video.corriere.it il 7 gennaio 2023.

(LaPresse) Gianluca Vialli ci ha lasciato il 6 gennaio all'età di 58 anni per un tumore al pancreas. In una puntata di 'Una semplice domanda', la serie tv Netflix di Alessandro Cattelan, l'ex calciatore di Sampdoria e Juventus aveva parlato della sua lotta contro il cancro, raccontando di come la sua vita fosse cambiata. "Io sono convinto che i nostri figli seguano il nostro esempio più che le nostre parole. Quindi credo di aver meno tempo visto che so che non morirò di vecchiaia. Cerco di essere sempre un esempio positivo. Ma mi sono reso conto che non c'è tempo", diceva Vialli fianco a fianco con Cattelan in una delle sue ultime interviste. 

 L’ex calciatore, campione e simbolo di Sampdoria, Juventus, Chelsea e della Nazionale italiana, da tempo era in cura per il tumore al pancreas . Il 14 dicembre scorso aveva annunciato il ritiro dalla Nazionale, in cui ricopriva l’incarico di capo della delegazione. «Ringraziamo i tanti che l’hanno sostenuto negli anni con il loro affetto. Il suo ricordo e il suo esempio vivranno per sempre nei nostri cuori», ha scritto la sua famiglia . I funerali si terranno a Londra in forma privata.

Antonello Guerrero per repubblica.it

Gianluca l’ho visto qui in strada a fine dicembre. Era appena tornato a Londra per ricominciare le cure contro il cancro. Gli ho fatto: “Ehi, Gianluca!”. Lui era molto sofferente, era palese in volto. Ma mi salutato e mi ha sorriso come sempre. Perché il sorriso non lo perdeva mai. Vialli era un vero signore. E solo qui a Londra si sentiva libero. Senza pressioni, senza paparazzi, con la sua famiglia: l'amata moglie Cathryn e le figlie Olivia e Sofia, che oramai sono diventate grandi”.

 A parlarci è Lucio Altana, istituzione dei ristoranti italiani di West London e titolare dell’omonimo ristorante “Lucio” a pochi metri dall’ospedale dove è spirato l’ex campione italiano. Il signor Lucio,  sardo ma londinese da una vita, conosceva molto bene Gianluca, sin dai primi anni al Chelsea, quando il campione italiano viveva tra i magazzini di Harrods e Chelsea, e Lucio gestiva anche il celebre ristorante “San Lorenzo”, dove c’era persino una pietanza dedicata a Vialli. "Purtroppo, per le sue condizioni di salute, di recente Gianluca veniva sempre meno spesso a mangiare al ristorante dove aveva festeggiato anche la vittoria degli Europei l'anno scorso a Wembley", ricorda l'amico Lucio, "ma quando capitava facevo di tutto per fargli trovare pietanze che potesse assumere. Lo facevo per lui". (...)

 Come la famiglia più stretta di Vialli in Italia, ossia l’87enne mamma Maria Teresa, il 92enne papà Gianfranco e i quattro fratelli maggiori Mila, Nino, Marco e Maffo, anche Cathryn è sempre stata una donna molto privata, a differenza di molte “wags” a caccia di celebrità. Nessun profilo social, nessuna foto sui tabloid, nessuna intervista alla stampa: solo, accompagnava il marito agli eventi pubblici cui doveva partecipare. E poi le amatissime e giovanissime figlie, che voleva portare all’altare prima di morire, desiderio purtroppo rimasto tale. E con le quali, durante la malattia, “era come un ottovolante per me”, aveva detto commosso l’ex bomber durante un evento pubblico qualche mese fa.

 A tal proposito, poche volte Vialli ha parlato in maniera più approfondita della sua famiglia londinese. Come in una toccante intervista a Repubblica e al Times nel 2020, quando sembrava aver vinto la battaglia contro il maledetto cancro: “Con mia moglie e le nostre figlie siamo sempre riusciti a trovare il lato divertente e positivo della mia malattia. Le ragazze a un certo punto mi hanno fatto le sopracciglia, su supervisione di Cathryn, per farmi più bello dopo la chemio. Ridevamo insieme. Poi però, quando andavo in bagno e rimanevo da solo, mi mettevo a piangere”.

 Qui Vialli, tra queste magnificenti case candide e georgiane dove sono stati abbandonati gli alberi di Natale in strada e dove hanno vissuto pure P.G Wodehouse e William de Morgan, era un londinese doc, di West London. Ludovico ha 18 anni, è un italo-inglese con mamma di Gallarate nato in queste strade e ricorda ancora quando da bambino incontrava Vialli a mangiare al ristorante italiano Rosso Pomodoro: “E lui mi firmava gli album Panini”, ricorda il ragazzo con affetto e un filo di commozione.

Vialli per sempre, il ricordo della famiglia Vicini: «Per papà era il migliore al mondo, come un figlio». Luca Bertelli su Il Corriere della Sera il 7 Gennaio 2023.

Gianluca Vicini: «Andai con lui a visionarlo a Cremona, se ne innamorò: lo lanciò in Under 21 a 18 anni, se lo è portato in nazionale A con quel gruppo che per noi era di famiglia. Sfortunato a Italia 90, ma giocò in semifinale perché era il più forte di tutti»

I più giovani non hanno potuto ammirare il Vialli calciatore. Ed è un peccato: attaccanti così oggi non ce ne sono. All’eleganza che lo ha contraddistinto, abbinava la velocità e la ferocia del predatore. Completo, spettacolare quando serviva, altruista sempre: la palla a Schillaci per il primo gol del Mondiale ‘90 che doveva essere di Luca, e fu di Totò, la servì lui. Gianluca è però riuscito a ispirare le nuove generazioni, questo era il suo obiettivo: la sua lotta contro il cancro ha infuso forza a uno, dieci, cento, mille malati. Negli abbracci vigorosi e teneri all’amico di sempre, Roberto Mancini, agli ultimi Europei vinti da capo delegazione, c’era tutto Vialli. Un uomo di provincia, partito pochi chilometri lontano da Brescia, dove ha conosciuto compagni (un velo di Spillo Altobelli gli consentì di andare in rete per la prima volta all’Europeo nel 1988) e amici veri. Lo hanno accompagnato sempre, anche quando è diventato un’icona mondiale. E ora lo ricordano, perché sia ancora fonte di ispirazione. Per sempre.

Vialli, amico e mito di Matteo Bonetti: «Collezionerò cimeli su di lui ora più di prima»

Vialli, l’amico del cuore Montorfano: «Tre anni nella stessa stanza a Cremona. E quella sorpresa a cena...»

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Gianluca e Manlio Vicini, i figli maschi di Azeglio, ieri hanno perso un fratello. Non solo un idolo. «Nella generazione che papà portò dall’Under 21 alla nazionale A - racconta Gianluca - erano tutti suoi figli. Andai a Cremona a visionare un Vialli 18enne con mio padre: lo convocò subito in Under, ne rimase entusiasta, giocava con i calzettoni abbassati e non si fermava mai, neanche quando lo stendevano con qualche fallaccio. Era il suo calcio, era il suo modello di attaccante. Per papà, Gianluca era il più forte attaccante al mondo negli anni che portarono a Italia 90». Un Mondiale sfortunato, «ma giocò la semifinale con l’Argentina non come segno di riconoscenza: era fresco dopo l’infortunio ed era la stella indiscussa di quel gruppo di amici». Una volta all’anno, Azeglio portava anche suo figlio, quasi coetaneo (è del 1967, Vialli era un ‘63) in trasferta: «Sul pullman era il deejay, un leader con il sorriso e un uomo intelligente. Ricordo un aneddoto simpatico. In un albergo all’estero chiesero pure a me un autografo, io spiegai l’equivoco ma lui voleva che io firmassi lo stesso: mi trattava come fossi uno del gruppo».

Ciao campione, ci hai fatto battere il cuore Redazione CdG 1947 L'editoriale di Gigi Garanzini su Il Corriere del Giorno il 7 Gennaio 2023

È stato trascinatore in campo e fuori, segnava di gran potenza e di qualità. Ala destra all’inizio, poi centravanti si è arreso a Londra dopo cinque anni di lotta al tumore

Scrisse una volta il sommo Brera che i campioni meriterebbero di morire giovani, nel pieno della loro gloria, ed essere trasportati in Olimpo su un carro di fuoco. Per uno sberleffo del destino toccò proprio a lui quella sorte, già in età surmatura. Da allora il paradosso breriano è un tormento in più che si somma al dolore quando uno dei grandi se ne va.

Perché nella rétina come nella mente è sul campo che torniamo a riviverli, ai tempi in cui ci facevano battere il cuore. Quando Vialli la insaccava sotto la sud di Marassi, e se non erano svelti ad abbracciarlo lui partiva con le capriole e c’era rischio che esondasse il Bisagno là fuori. Quello scudetto impossibile, firmato da un grande presidente, Mantovani, dalla saggezza dello zio Vujadin, da una signora squadra le cui punte di diamante si chiamavano Mancini e Vialli. Il cui abbraccio di un anno e qualcosa fa sul prato di Wembley, dove avevano perso al fotofinish una finale di Coppa Campioni e appena consumato la rivincita firmando l’Europeo, rimane un’immagine indelebile e struggente. Oggi poi insopportabile. Perché tutti e due sapevano, non solo Gianluca, che il destino restava in agguato.

Adesso che ha fatto il suo corso, il primo sforzo da compiere è proprio quello. Rimuovere il ricordo più recente della lunga sofferenza e ripercorrere il cammino del vero Vialli. Quello partito da Cremona, e da lì a proposito di Brera lo strepitoso ri-battesimo, Stradivialli, e atterrato da capitano bianconero sull’ultima Champions della Juve, 1996. Con un’appendice di grande prestigio al Chelsea, in campo e in panchina, sino alla definitiva scelta di vita londinese. Il carattere non gli mancava di sicuro. Dentro e fuori il rettangolo. Il primo, e più significativo esempio, è che si diceva e si dice essere la fame il vero propellente di un calciatore, di un’atleta.

Di famiglia agiata, Vialli la fame non l’ha mai nemmeno immaginata. Ma non è facile trovarne un altro che in campo si sia sempre speso come si spendeva lui. Che trascinasse, anziché farsi servire: che ci mettesse sempre il massimo della quantità anche nelle rare giornate in cui la qualità non era la solita. Un centravanti a tutto campo, ala destra in origine come già era accaduto a Paolo Rossi, dotato in egual misura di agilità e di potenza. Con il gusto, a volte il vezzo anche dell’acrobazia. Era stato Vicini, a sua volta ex-doriano, il primo ad accentrarlo nell’Under 21: figurarsi se Boskov, che con Azeglio aveva giocato, si lasciava sfuggire l’intuizione.

In quella seconda metà degli Ottanta la Samp faceva collezione di Coppe Italia. Grasso che colava, come no, ma quelli nel frattempo di erano messi in testa l’idea meravigliosa. Così quando Berlusconi mise sul piatto un’offerta delle sue, Mantovani chiamò a sé Vialli, Mancini e Vierchowod e chiese loro se se la sentivano di restare e provarci, con opportuni rinforzi. Vialli col Milan una mezza parola l’aveva spesa. La girò sul versante Fininvest, e me lo ritrovai in un programma settimanale. Che bel tipo. E quanto calcio ho imparato, troppo tardi ahimè, in sala di montaggio. Rallenta, torna indietro. Come fa a non essere rigore, se il piede davanti è quello dell’attaccante? Sai che mazzo mi faccio io a smarcarmi di qua e di là sempre con l’idea fissa di metterci il piede per primo? Anni ’80, per l’appunto: oggi toccherebbe rifare l’audio perché smarcarsi è diventato attaccare lo spazio.

Il meglio di sé televisivo lo dava con Fazio, blucerchiato nel midollo, quando una volta l’anno andava da lui con Mancini. Ma è stato poi un’opinionista di spessore vero negli anni di Sky, la cui costola italiana aveva contribuito a creare per via dell’amicizia con Murdoch.

Quante cose è stato Vialli. Vogliamo parlare della Fondazione Vialli e Mauro per combattere la Sla? Pensata, creata e sostenuta nel nome della ricerca e della solidarietà, quando ancora il tempo del dolore, della sofferenza personale era ben di là da venire. Dell’eleganza e insieme della sobrietà con cui si è calato nei panni del capo delegazione azzurra, quando già la grande battaglia era in corso e figurarsi se il gemello Mancio non si inventata l’assist per aiutarlo a combatterla. E quante ne son rimaste nella penna perché quando ti prende alla gola, il magone è il peggior nemico della memoria. Redazione CdG 1947

Estratto dell’articolo di Giorgio Gandola per la Verità il 7 gennaio 2023.

(…) Quando ha chiuso gli occhi nella clinica di Londra aveva accanto la mamma Maria Teresa (87 anni), la moglie Cathryn White Cooper, ex modella sudafricana oggi arredatrice, le due figlie Olivia e Sofia. E tutto il mondo del calcio. È andato verso l'eternità accompagnato da una foto: l'abbraccio in lacrime con Roberto Mancini, suo gemello negli stadi, a Wembley subito dopo il trionfo agli Europei del 2021.

 Allora era gioia, oggi è tristezza anche per il ct della Nazionale, che dopo aver portato a spalla il feretro di Sinisa Mihajlovic perde un altro amico.

Di «Stradivialli» si sa tutto. Lo battezza così Gianni Brera quando è ancora junior, per sintetizzare le acrobazie da virtuoso violinista padano del pallone. È ricco e scapigliato, impara le rovesciate nell'erba alta del parco di villa Affaitati di Belgioioso, magione di famiglia acquistata dal papà imprenditore edile. Non ha ancora 20 anni quando con 10 gol (partendo dal ruolo di tornante) porta in Serie A la Cremonese guidata da un altro bohémien silenzioso, Emiliano Mondonico.

 Già allora è un principino riservato, un po' altero, che sceglie gli amici e tiene lontani i giornalisti. Lo ingaggia la Sampdoria del petroliere Paolo Mantovani e in riva al mare diventa Vialli il bomber. Mancini mette gli assist, lui i gol. Nel gioco doriano dei sette nani l'altro è Cucciolo, lui è Pisolo con il culto del ritardo.

 All'inizio degli anni Novanta quella Samp allenata dal mago Vujadin Boskov rivoluziona le gerarchie del pallone, detronizza le metropoli, gioca un calcio stellare in Italia e in Europa. «Non me ne vado di qui finché non vinco lo scudetto», dice Vialli a Silvio Berlusconi che lo vorrebbe al Milan.

Stringe un patto con Mancini e Pietro Vierchowod, porta in dote il tricolore nel 1991 con 19 gol (capocannoniere). La galoppata è raccontata del docufilm di Marco Ponti La bella stagione.

Perde la Champions in finale contro il Barcellona a Wembley, luogo iconico delle lacrime liberatorie 29 anni dopo da dirigente della Nazionale. Per vincerla dovrà passare alla Juventus per 40 miliardi di lire.

 Fuori dal campo è già meglio di molti commentatori televisivi, di lui non si ricordano un congiuntivo sbagliato, un'iperbole da terza elementare.

Il ragazzo è misurato al punto da sembrare scostante e cambia il calcio più di quanto il calcio non riesca a cambiare lui: oggi nelle punte «che fanno reparto da sole», negli scatti di Kylian Mbappé e nelle veroniche di Erling Haaland c'è un po' di quel Vialli.

 Nelle quattro stagioni a Torino vince tutto (scudetto, Champions, coppa Uefa) ma perde l'innocenza. Nel senso che da stupendo purosangue bohémien si trasforma in un terminator con il cranio a palla da biliardo e il muscolo guizzante al comando di Marcello Lippi. Sono gli anni delle accuse di Zdenek Zeman - che Vialli definisce «coglionate di un terrorista» -, delle polemiche sul doping, di Giampiero Ventrone che ammette di imbottire i calciatori di creatina come integratore. Lui coglie l'essenza del grande club e spiega: «Alla Juventus nessun dirigente mi ha mai chiesto di giocare bene, tutti di vincere. Lì il successo è più un sollievo che una gioia». Quando scade il contratto accetta la sfida della Premier, al Chelsea. Ha 32 anni e ancora una volta fa la differenza: alza Fa Cup, Coppa delle Coppe, Coppa d'Inghilterra.

Da allenatore-giocatore mette in pratica la legge numero uno degli scacchi: «Devi sempre essere una mossa avanti all'avversario. Preparare un attacco è come preparare una partita. L'unica differenza è che in mano hai dei pezzi, non delle persone. Il mestiere di allenatore è ancora più difficile».

 Se il Vialli dirigente della Federcalcio era autorevole e il Vialli commentatore di Mediaset e Sky inattaccabile, il Vialli giocatore aveva dentro di sé qualcosa di irrisolto, la malinconia profonda del numero due. Sembra incredibile, ma è sempre arrivato secondo dietro l'ombra di qualcun altro. Troppo Totò Schillaci in Italia 90, troppo Roberto Baggio e poi troppo Alex Del Piero nell'avventura juventina e in Nazionale, troppo egocentrismo di Arrigo Sacchi alla base della sua epurazione a Usa 94. Persino troppo Mancini nell'età dell'oro alla Sampdoria. Li chiamavano i gemelli del gol, erano inseparabili. Ma Mantovani un giorno disse al Mancio: «Tu resti la ragione per cui io vengo allo stadio». Nessuno se ne accorgeva, tranne Vialli. Così non si concedeva. Un lampo nel buio, un dribbling, un gol pazzesco.

 Poi salutava, profondamente gaberiano, consapevole del valore estetico di «lasciare lì qualcosa e andare via». Con l'Italia giocò un grande Europeo nell'88 in Germania, ma fu eliminato in semifinale. Nessuna serie celebrativa, nessuna epica riflessa. Chi se lo ricorda? Era un fuoriclasse, oggi merita un assolo di violino come sottofondo. Oltre a Mancini, ha voluto bene a tre giocatori: ad Andrea Pirlo («Con lui a lanciarmi avrei segnato il doppio dei gol»), a Ray Wilkins amico vero negli anni piovosi della Swinging London. E al compagno della Juventus Andrea Fortunato, morto di leucemia a 24 anni. Il giorno del funerale fu quello delle sue lacrime pubbliche più intense, «perché ho visto con quale forza ha affrontato un dramma vero, non solo problemini legati a vittorie e sconfitte».

 Nel libro Goals uscito quattro anni fa c'è lo spirito di quelle parole, indossate a pelle dallo stesso Vialli aggredito dalla malattia. C'è la promessa ai genitori: «Non me ne andrò prima di voi». C'è la delicatezza di rivelare il male alle figlie a Santo Stefano «per non rovinare loro il Natale». Ci sono i maglioni sotto la camicia per dissimulare la magrezza «e impedire agli amici di scherzare con un tono diverso da quello di sempre».

 C'è la domanda suprema: «Cosa ci sarà dall'altra parte quando si spegnerà la luce?». Dopo il trionfo di Wembley due estati fa, mentre tecnici e giocatori azzurri andavano in vacanza sulle spiagge esotiche inseguiti dai fotoreporter, lui postò una foto su Instagram davanti al santuario della Beata Vergine della Speranza, a Grumello, vicino a dove faceva acrobazie con il pallone da bambino. Scrisse: «È il tempo della gratitudine». Ora è arrivato quello del silenzio. Pisolo s' è addormentato per sempre.

Dal profilo Instagram di Cesare Cremonini il 7 gennaio 2023.

Una giravolta alla Vialli. Tutti da bambini l’abbiamo provata almeno una volta, l’abbiamo imitata in modo maldestro, rischiando le caviglie. Perché Vialli, oltre a possedere un talento immenso, era estremamente comunicativo.

 Arrivò nel cuore della mia generazione come nascono alcune star della musica: libere, allegre, scanzonate, sospinte da un vento inarrestabile. Fu così che la Samp dello scudetto, anche a chi portava altri colori sulla sciarpa, trasmise una simpatia e un’energia contagiosa, qualcosa di bello e di nuovo in cui immedesimarsi, a cui ispirarsi. Nelle partite organizzate al volo a scuola durante gli intervalli, nei corridoi tra le classi o nel campo di cemento in cortile, mentre si facevano le squadre in fretta, tu con me, lui con te, tu stai in porta e io?

 Qualcuno diceva sempre “Io faccio Vialli”. Stretti all’ansia della campanella che ci avrebbe rispedito in classe, volevamo tutti essere lui (e il tuo amico del cuore diventava Mancini). Sognavamo un gol al volo e un salto carpiato, una giravolta, una capriola sotto la curva con la palla già in rete. Non sapevamo allora che quel vento leggero e irresistibile che soffiava nell’anima di un campione, avrebbe accompagnato tutta la sua vita sportiva divenuta leggenda come la sua storia umana.

 Quella che abbiamo avuto la fortuna di osservare da amanti dello sport. Non sapevamo allora che il suo carisma innato che bucava con un sorriso le domeniche sportive, le pagine della figurine Panini, i servizi del novantesimo minuto, sarebbe durato per sempre, fino all’ultimo giorno che somiglia al primo. Un gol di potenza e una giravolta sotto la curva. Sogno una generazione alla Vialli. 

Roberto Perrone per "il Corriere dello Sport" il 7 gennaio 2023.

Quando si spegneva il segnale dell’obbligo della cintura, scattavamo tutti in avanti, come centometristi con qualche problema di tenuta, lungo la carlinga, verso la testa dell’aereo. A quei tempi, nei viaggi con le squadre di calcio, Nazionale compresa, era “liberi tutti”, si poteva andare ovunque, parlare con chiunque, se il soggetto era ben disposto e lo era quasi sempre. Quella volta, forse tornavamo da Zurigo o giù di lì, con la Nazionale, io puntai decisamente su un ragazzo riccioluto che si stava prendendo il palcoscenico del football italiano. 

Gianluca Vialli è sempre stato un’anomalia, sia con i riccioli, sia senza. I capelli ha cominciato a perderli molto prima della malattia. Raggiunsi il suo posto e lo trovai che leggeva un romanzo di Jeffrey Archer. Già, era proprio diverso rispetto ai suoi colleghi. E non solo, diciamo che vedere un ragazzo che leggeva non era uno spettacolo abituale, a metà dei rutilanti anni ’80. Lui è sempre stato diverso per nascita e vocazione. Innanzitutto veniva da una famiglia agiata (aveva vissuto infanzia e adolescenza a Villa Affaitati, scusate) e si era messo a giocare a pallone per passione, perché era un ragazzo che amava il pallone, come quasi tutti a quell’età. 

 Mollò lo studio per il calcio, ma a dimostrazione dei suoi valori, si prese il diploma di geometra quand’era alla Juventus, nel 1993. Il sacro fuoco del football ce l’aveva in testa, liberato da ogni sovrastruttura economica o sociale. E in testa conservava una rara intelligenza. Infatti, eccolo qui, seduto sull’aereo della Nazionale, con un libro in mano, l’unico su quel volo, giornalisti compresi, sorpreso della nostra sorpresa.  

Luca Vialli sapeva come comunicare. Aveva la capacità di farsi trovare pronto di fronte a ogni domanda. Difficile che cadesse nei trabocchetti polemici dei giornalisti. Io l’ho conosciuto e frequentato grazie al Mancio. Eh sì, bella coppia, anche perché all’opposto. Mancini fa fatica a rispondere a semplici domande tipo “come ti chiami?”, ancora adesso. Dà sempre l’impressione di non essere a suo agio. La sua timidezza innata, la sua riservatezza ci fecero diventare amici anche perché, a quei tempi, Roberto con Luca era al comando nella Sampdoria, ma fuori Genova non godeva di buona stampa. Luca sì, Roberto no. A differenza dell’amico e sodale. 

Ci si vedeva alla Ruota di Nervi, il ristorante di riferimento dei giocatori della Sampdoria, e spesso, lì, trovavamo Vialli che pranzava da solo. Così facevamo tavolata. Ricordo che una volta Luca mi rimproverò per l’eccesso di cibo che ingurgitavo. Con garbo e ironia, a differenza dei numerosi iscritti al club “Perrone mangia meno” che mi hanno accompagnato per quasi tutta la mia esistenza. 

Ero più amico del Mancio, ma con Luca c’era un bel rapporto, che ho provveduto a rovinare, o per lo meno a compromettere. Accadde nel 1988, alla vigilia dell’Europeo in Germania, dove ci eravamo qualificati grazie ai suoi gol decisivi. Un settimanale che non c’è più, “Il Sabato”, mi chiese una pagina sui giocatori da tenere d’occhio nel torneo tedesco. Ovviamente misi il Mancio che mi ripagò con il gol alla Germania all’esordio (di Vialli quello alla Spagna che ci spedì in semifinale). Non so come, non so perché, ma per descrivere la timida riservatezza di Mancini scrissi: «è meno scaltro e ruffiano di Vialli». Volevo dire che Luca era più portato per le pubbliche relazioni, ma est modus in rebus, potevo dirlo così o con espressione simile, senza dargli del “ruffiano”, che poi Luca non era. Non so quale forma di demenza mi afferrò. Mi dimenticai dell’articolo anche perché il Sabato era un settimanale di nicchia e non pensavo che sarebbe arrivato a Bogliasco. E invece, “è la stampa bellezza e tu non la puoi fermare”, arrivò eccome. Luca non mi disse nulla. 

Fu il simpatico ds Borea, con cui per qualche anno non ebbi buoni rapporti, a comunicarmi, tutto compiaciuto, che Vialli ce l’aveva con me. Chiesi un incontro e feci le mie scuse. Lui era colpito dal fatto che fossi arrivato a descriverlo così, senza filtri. Cioè, più che per l’offesa era colpito dal vuoto temporaneo della mia intelligenza. La domanda non pronunciata era: ma come ti è venuto in mente di scrivere una cosa così? I rapporti ripresero cordiali, anche se meno frequenti di prima.  

 Nel 1992 lo ritrovai alla Juventus. La splendida utopia doriana aveva sbattuto contro Koeman e il Barcellona nella finale di Coppa dei Campioni del 1992. Luca andò alla Juventus. Da anni, quando gli chiedevamo perché non accettasse le luccicanti proposte dei grandi club di Milano o Torino, ribatteva: «Ma da là, si vede il mare?». No, però lui vide un nuovo scorcio di carriera, con scudetto 1995 e Champions 1996, che Luca alzò da capitano. Quell’anno feci un tifo accanito e poco professionale per lui. 

Successe che un collega di un giornale concorrente scrisse che aveva il ginocchio sifulo e che presto avrebbe dovuto mollare. Quando prese la coppona nella notte romana, esultai come neanche un ultrà della curva Scirea. Due giorni dopo annunciava il suo trasferimento al Chelsea. Londra nel destino. Ci siamo sentiti più volte da quando divenne cittadino della grande mela inglese. Una volta imbandì una guida per Carlo Ancelotti che stava per sedersi sulla panchina del Chelsea. I posti migliori, i ristoranti, i teatri. Anche negli ultimi anni, “con il maglione sotto la camicia” come confessò, la sua classe nel vestire e nell’essere non è mai venuta meno. 

Ricordo che a Torino, lui e Riccardo Grande Stevens, figlio di Franzo “l’avvocato dell’avvocato”, inventarono una linea di vestiario molto british. Le trasferte della Juventus con loro erano una sfilata di moda.  Londra nel destino. Londra che gli restituisce, nell’abbraccio con il Mancio, la notte dell’undici luglio 2021, quanto perduto ventinove anni prima. Londra, la sua casa, dove ha concluso il suo sentiero. Londra la città dove è diventato vicino di Jeffrey Archer di cui stava leggendo un libro quando parlammo la prima volta, tanti riccioli fa. Londra che mette la parola fine a una storia straordinaria. Anzi, più giusto, the end.

Quando la Samp al Milan disse sì e Vialli no "Scusate, ma a Milano non c'è il mare..." Berlusconi e Galliani stavano costruendo lo squadrone per Sacchi e avevano trovato l'accordo con il presidente doriano Mantovani. Per il rifiuto del bomber arrivò Van Basten. Franco Ordine l’8 gennaio 2023 su Il Giornale.

Per 48 ore, dalla sera di sabato 10 maggio al lunedì 12 maggio dell'anno di scarsa grazia azzurra 1986, Gianluca Vialli divenne a tutti gli effetti un calciatore del Milan, appena finito (20 febbraio '86 la data) nella galassia Fininvest e sottratto al fallimento dell'era Farina, fuggito in Sud Africa. Silvio Berlusconi e Adriano Galliani erano già al lavoro per potenziare la rosa guidati da un proposito visionario: fare del Milan l'ossatura principale della Nazionale che di lì a pochi mesi avrebbe chiuso il ciclo degli eroi del mondiale di Spagna e cambiato anche ct passando da Bearzot ad Azeglio Vicini. Le prime mosse sul mercato furono tutte dello stesso segno: prelevato Donadoni dall'Atalanta battendo la concorrenza della Juve, acquistati dalla Fiorentina Giovanni Galli e Massaro, dalla Roma Dario Bonetti, tutti del giro azzurro. C'era però bisogno di un attaccante, giovane e di talento conclamato. Il Milan puntò su Gianluca Vialli. L'incontro decisivo con Paolo Mantovani, presidente della Samp, avvenne nella villa di Arcore: a fine cena fu sottoscritto il contratto, 10 miliardi più Cimmino (difensore) le condizioni pattuite, concluse con lo scambio dei documenti.

Il giorno dopo Vialli giocò in azzurro a Napoli in occasione dell'amichevole con la Cina, ultimo test prima di volare in Messico per il mondiale che si sarebbe concluso con una malinconica eliminazione agli ottavi (sconfitti dalla Francia di Platiní). Gli avevano ritagliato un ruolo scomodo e forse poco idoneo alle sue caratteristiche: ala destra, sostituto naturale di Bruno Conti. Galliani e Braida attesero il lunedì mattina per mettersi in macchina e raggiungere Genova: qui era stato fissato l'incontro riservato con Gianluca, di ritorno da Napoli per preparare il bagaglio e ripartire poi per il Messico. Secondo le fonti molto attendibili dell'epoca, durante il colloquio non fu mai affrontato l'argomento stipendio. Galliani provò a sedurre Vialli partendo dai dettagli logistici a lui riservati: «Caro Gianluca, per te abbiamo già riservato un appartamento a Milano 2 circondato dal verde». La risposta, inattesa, fu una sorta di doccia scozzese. «C'è il mare a Milano 2?». Galliani non si lasciò scoraggiare: «Non c'è il mare ma volendo c'è un laghetto». «Mi dispiace ma io senza il mare non ci so stare!» replicò ancora Vialli. In pochi minuti la trattativa si arenò, probabilmente anche perché nel frattempo Paolo Mantovani, rientrato a Genova, aveva cambiato idea sull'operazione.

Il Milan capì l'antifona in pochi minuti. Galliani e Braida si rimisero in macchina e, senza fermarsi a Milano, puntarono dritti in direzione Verona. Qui erano attesi da Ferdinando Chiampan, presidente del club già campione d'Italia. In pochi minuti conclusero il trasferimento in rossonero di Galderisi, altro esponente del giro azzurro: 7 miliardi di lire più la cessione di Paolo Rossi. Quel rifiuto fece, in qualche modo, la fortuna di Milan e Samp. Perché nell'estate successiva, col cambio di allenatore a Milanello (dopo Liedholm sostituito in corsa da Fabio Capello, arrivò Arrigo Sacchi), Galderisi venne ceduto alla Lazio mentre dall'Ajax arrivò Marco Van Basten, acquistato a parametro Uefa (1,4 miliardi di lire) nel frattempo liberato dalla Fiorentina dei Pontello che aveva ottenuto una prelazione grazie all'intuito di Claudio Nassi, ds viola dell'epoca. Van Basten divenne per tutti il cigno di Utrecht, vinse un discreto numero di Palloni d'oro oltre a uno scudetto, due coppe dei Campioni, un paio di coppe Intercontinentali e un titolo europeo con l'Olanda. Galliani, incrociando Vialli negli anni successivi, ebbe modo di proseguire la gag sul mare. «Gianluca, lo sai che adesso a Milano hanno riaperto la Darsena che porta al mare?».

Gianluca Calvosa per formiche.net il 7 gennaio 2023.

Era la primavera del 2018, e mi trovavo a Londra perché insieme a Luca avevamo fissato una serie di appuntamenti di lavoro tra cui uno con la dirigenza del Chelsea. Eravamo in Fulham Road ed era una bellissima giornata, quindi decidemmo di raggiungere lo Stamford Bridge a piedi.

 La cosa si rivelò più ardua del previsto. Sin da subito i londinesi che incrociavamo cominciarono a fermarci. La cosa funzionava più o meno così: incrociandoci lo riconoscevano, tornavano indietro, si avvicinavano con cautela e con una certa deferenza gli tendevano la mano mentre chinavano leggermente il capo, “Sir”. Gli dicevano solo questo, “Sir”. Luca sorrideva e stringeva la mano ad ognuno di loro. Dopo un po’ divenne complicato proseguire il cammino ad un passo adeguato e finimmo per rifugiarci in un taxi. Impiegammo altri 10 minuti durante i quali il tassista, tifoso del Tottenham da diverse generazioni, ci spiegò che suo figlio tifava Chelsea perché Vialli era il suo idolo. Tornando a casa la sera avrebbe raccontato al giovanotto di aver portato Luca nel suo cab.

Giunti allo stadio del Chelsea percorremmo il vialetto di ingresso che corre lungo lo Shed Wall, una lunga parete con le foto delle leggende del club: giusto all’inizio la foto di Luca: Position Forward, Appearances 88, Goals 40. Non la guardò neppure.

 Finalmente nella hall degli uffici ci avvicinammo al desk dove una giovane donna in tailleur blue chiese a Luca di fargli lo spelling del nome mentre un videowall alle sue spalle mandava in loop le immagini di lui che con la maglia numero nove dei Blues uncinava una palla a mezz’aria mentre sembrava che volasse, la stessa della foto sul muro. Luca, per niente turbato, cominciò a scandire ogni lettera. Alla seconda “l” si avvicinò alle nostre spalle un signore sulla settantina che rivolgendosi alla signorina disse: “questo signore è il Chelsea”.

Ecco, Luca non era solo un gran calciatore e una gran persona, lui incarnava qualunque cosa facesse diventandone il simbolo. Buon viaggio Capitano.

Da corrieredellosport.it il 7 gennaio 2023.

Gianluca Pessotto, dirigente della Juventus, ha ricordato con grande emozione Gianluca Vialli a pochi minuti dal fischio d'inizio del match tra Juventus e Udinese: "Ci ha lasciati un personaggio unico - le parole a Dazn del direttore sportivo della Primavera bianconera - per tanti giovani è stato una fonte d'ispirazione.

 Quando sono arrivato ero un ragazzino, Vialli è stato uno dei primi che ho incontrato a Torino. Per me è stata subito una grande emozione. Vialli era un trascinatore, un vero e proprio leader. La sua mania di perfezione ci ha contagiati. Pretendeva molto sia da sé stesso che dai compagni di squadra: questo era il modo migliore per creare una mentalità vincente, credeva molto nel valore del gruppo".

 La lettera di Pessotto

Pessotto, che è stato compagno di squadra di Vialli nella Juventus, ha poi letto una toccante lettera sul terreno di gioco dello Stadium a pochi istanti dall'inizio della gara: "Ciao Luca. Siamo sicuri che stasera sei qui da qualche parte in mezzo a noi. Siamo venuti in tanti per farti sapere che non ti dimenticheremo mai, non smetteremo mai di volerti bene.

 Sei stato una guida, in campo e fuori. Compagno di spogliatoio, di vittorie. Capitano, amico. Nessuno potrà scordare la tua sottile ironia, la tua classe, il tuo carisma, la tua tenacia. Nessuno potrà dimenticare le emozioni che ci hai regalato con le tue giocate e i tuoi gol. Ci mancheranno tanto i tuoi sorrisi. Siamo allo stadio pronti ad abbracciarti, così come siamo stati sempre pronti ad esultare per ogni tua prodezza. Ciao capitano, fai buon viaggio. Ti vogliamo bene".

Francesca Morandi e Arianna Ravelli per corriere.it il 7 gennaio 2023.

Gianluca Vialli aveva lasciato precise istruzioni sul suo funerale. E quello che non ha esplicitato è una conseguenza naturale del suo modo di fare e dei tratti della sua famiglia, quella d’origine, in queste ore riunita a Cremona attorno ai due genitori anziani distrutti dal dolore, il padre Gianfranco, 92 anni, e la mamma Maria Teresa (detta Marioli), 85, e quella formata a Londra dalla moglie Cathryn e dalle figlie Olivia e Sofia: c’è un comune tratto di riservatezza e silenzio che sta riunendo il cerchio degli affetti di Gianluca.

 I funerali saranno quindi in forma strettamente privata a Londra: la data non è ancora stata fissata e in ogni caso non sarà comunicata, proprio per evitare che una folla di appassionati e tifosi si presentino a una cerimonia che la famiglia vuole per pochissimi. In ogni caso ci vorrà ancora qualche giorno, perché le procedure burocratiche londinese sembra che richiedano tempi lunghi.

Vialli si è però raccomandato con i membri della famiglia che gli sono stati accanto — oltre alla moglie che non lo ha mai lasciato solo un minuto, il fratello Nino, arrivato a Londra il 28 dicembre e che sarebbe dovuto rientrare in Italia il 30, è rimasto là fino a ieri notte, perché Luca lo cercava di continuo e lui aveva capito che si era arrivati alla fine — di non organizzare «un addio grigio»: Luca voleva un «funerale allegro», con un ossimoro che ora fa ancora più commuovere, una giornata da trascorrere nei ricordi di chi gli ha voluto bene. Non sarà certo facile.

 Lunedì — quindi prima dei funerali londinesi — a Cremona sarà celebrata una Messa nella parrocchia di Cristo Re, nel quartiere Po: è nel campetto dell’oratorio che Vialli aveva iniziato a giocare a pallone da bambino. Sarà quello il momento in cui la sua città natale (che sta pensando di dedicargli lo stadio, al momento intitolato a Giovanni Zini, portiere scomparso nella Grande Guerra) lo abbraccerà idealmente, anche in assenza della salma, ed è logico aspettarsi che la cerimonia sarà affollatissima. Anche per questo, la famiglia aveva pensato in un primo momento di farla celebrare in Duomo, ma è stata proprio la mamma di Gianluca a insistere perché l’addio fosse a Cristo Re. Dove tutto era iniziato.

"Era in enormi sofferenze, ma lo ha fatto": Vialli, l'ultimo straziante "atto d'amore". Hai vinto, gioito, sofferto e infine hai perso... Ma sei andato via celebrando la vita.

Questi 5 anni di malattia sono stati come una lunga lezione, di quelle a cui partecipi da ragazzo all’università e poi non te le scordi più. Gianluca Vialli ha indossato i panni del professore e noi tutti ci siamo seduti in aula magna a fissarlo. Shadi Cioffi su Il Dubbio il 6 gennaio 2023

Nell’estate del 1990, preludio di uno dei suoi più grandi successi sportivi con la Sampdoria, un infortunio al ginocchio lo costrinse fuori dal campo per qualche partita. Questa cosa lo tormentava nel profondo. Alle insistenti domande dei giornalisti sul suo stato d’animo alla fine rispose che la cosa che gli mancava di più era scherzare con i compagni di spogliatoio e correre nel fango di Bogliasco insieme a loro. Non il dolore, non le mancate convocazioni, non le malelingue sul suo conto. No. Gianluca Vialli temeva soltanto di perdersi degli scherzi incredibili da raccontare poi in giro, e una rovesciata col kway inzaccherato sotto gli occhi di Boskov.

«La malattia non è una battaglia. Il cancro è un compagno di viaggio indesiderato, però non posso farci niente. È salito sul treno con me e io devo andare avanti, viaggiare a testa bassa, senza mollare mai, sperando che un giorno questo ospite indesiderato si stanchi e mi lasci continuare il mio viaggio da solo», dirà quasi trent’anni dopo. Nelle sue parole non c’è un briciolo di retorica. Non c’è l’ansia di doversi giustificare o elevarsi a guerriero. Non c’è e non c’è mai stata, nemmeno quando in carriera gli è toccato rialzarsi da cadute ben più soft. Gianluca Vialli era una persona efficiente, meticolosa, precisa, che detestava le esagerazioni e la fatica, ma amava impegnarsi, o almeno così si mostrava. Ma se la retorica non c’è mai stata, il cancro invece c’è stato. Uno dei più duri peraltro, quello al pancreas. Gianluca lo sapeva che sarebbe stato difficile dribblarlo, per questo ha deciso di non puntarlo con arroganza, ma di temporeggiare sul filo del fuorigioco, nella speranza di scappargli alle spalle.

A Gianluca piaceva aiutare gli altri. «Datemi la palla», gridava con ossessione negli spogliatoi ai suoi compagni quando il primo tempo non era andato granché. «Trasformerò i vostri meloni in gol», aggiungeva. Per questo non se n’è andato all’improvviso, ma ha preferito costruire qualcosa prima. Ha metabolizzato il trauma della diagnosi nel 2017, quella sì, arrivata come un fulmine a ciel sereno. Si è preso tutto il tempo che gli serviva per capire come viverlo questo viaggio, senza dirlo persino ai suoi amici più cari, come Roberto Mancini. Non voleva riflettori, commiserazione, pietismo. A lui piaceva essere al centro dell’attenzione solo quando doveva alzare le mani al cielo dopo un gol dei suoi con la Samp. Poi, dopo qualche mese, ha deciso di dirlo a tutto il mondo, senza paura, senza vergogna, in maniera schietta.

E da lì è iniziata la sua corsa contro il tempo, dedicando giorni, settimane e mesi alle cure, portate avanti con l’impegno di chi conosce bene il significato del cronometro che avanza. Ha cercato di guadagnare più tempo possibile, con l’obiettivo di spiegare a sua moglie Cathryn quanto possa essere leggero alla fine il vuoto e la speranza di vedere le sue figlie Olivia e Sofia sempre più grandi, felici e realizzate. Ha scritto lettere, col terrore di dimenticare di salutare qualcuno e si è persino concesso il lusso di apprezzare alcune sfumature della malattia, che tutto ti toglie, ma mentre lo fa, ti regala una sana dose di cinismo che ti permette di vivere a pieno gli abbracci, le carezze, i sorrisi. «Se per esempio muori all’improvviso di notte, tante cose rimangono incompiute». Non il dolore, ma le cose lasciate a metà lo tormentavano.

Questi 5 anni di malattia sono stati come una lunga lezione, di quelle a cui partecipi da ragazzo all’università e poi non te le scordi più. Vialli ha indossato i panni del professore e noi tutti ci siamo seduti in aula magna a fissarlo. Ogni parola che pronunciava, ogni azione che compieva diventava un esempio per tutti. Come quando l’11 luglio 2021, dopo aver vinto gli europei da capo delegazione, si è sciolto in un abbraccio commovente con Mancini, a Wembley. Proprio nello stadio in cui quasi vent’anni prima, con la Samp, non era riuscito a vincere la Coppa dei Campioni in finale contro il Barcellona di Koeman.

Cosa c’era in quell’abbraccio è difficile spiegarlo ora, ma di sicuro gli ha permesso di mettere un punto e terminare un capitolo complicato del romanzo della sua vita. Vialli d’altra parte è uno che i cerchi ha sempre voluto vederli chiudere, costi quel che costi. E questo è successo sempre, sistematicamente. E non perché le parole e le azioni di un malato vengono sempre maneggiate con cura e amplificate. No, nient’affatto, non è questo il motivo. Vialli è stato un modello, perché si è preoccupato di chi sarebbe rimasto, cercando di ignorare che a un certo punto se ne sarebbe dovuto andare; perché ha vissuto la malattia senza l’ossessione di doverla annientare. Non ci ha messo grinta, perché la grinta non serviva. Non ci ha messo tenacia, perché quella la metteva da parte per la radioterapia. Non ci ha messo nemmeno rabbia, perché sapeva bene che morire non sarebbe stata una sconfitta. Non c’è niente di disonorevole nella resa, figuriamoci nella morte. Sfortune e imprevisti appartengono soltanto a noi stessi, e ognuno decide come vuole esorcizzarli. Luca ha scelto di farlo con saggezza. «So che, per quello che mi è successo, ci sono tante persone che mi guardano e se sto bene io, possono pensare di star bene anche loro. Forse perché sono stato un giocatore e un uomo allo stesso tempo forte, ma anche fragile e vulnerabile, quindi credo che qualcuno possa essersi riconosciuto in questo», aveva raccontato di recente in un’intervista. Ed è per questo che quando stava bene amava mostrarsi, correre, parlare in pubblico, fare film, rimpatriate con gli amici, finanziare la ricerca e vincere i campionati europei.

Quando invece stava male si rannicchiava nella sua comfort zone con i suoi cari ad aspettare che la tempesta passasse. Gianluca mancherà a tutti, a me, a chi sta leggendo, a chi lo conosceva, a chi lo sosteneva, ai tifosi di Cremonese, Sampdoria, Juventus, Chelsea, a chi segue la Nazionale, a chi si appassiona di storie di sport, a chi lo sport lo detesta. Mancherà anche a chi non sapeva bene chi fosse e ora sente la necessità di salutarlo per l’ultima volta sui social. Succede così ai grandi. Soprattutto a quelli che lo diventano senza mai averne avuta l’ossessione. «Mi sopravvaluti un po’», mi rispose al primo messaggio che gli ho scritto, non riuscendo a trattenermi dal ricordare la bellezza di un suo gol al Napoli. «Mi sopravvaluti un po’». Ti sbagliavi Gianluca. Ti sbagliavi. E per quanto mi riguarda è stata l’unica volta.

Il lutto per il mondo del calcio. È morto Gianluca Vialli, l’ex bomber di Juve e Nazionale scomparso a 58 anni per il tumore al pancreas. Redazione su Il Riformista il 6 Gennaio 2023

Dopo Pelé e Sinisa Mihajlovic, il mondo del calcio deve fare i conti con una nuova tragica scomparsa. È morto a Londra, dove era da tempo ricoverato, Gianluca Vialli.

L’ex attaccante di Cremonese, Sampdoria, Juve e Chelsea, oltre che bomber della Nazionale, aveva 58 anni ed era malato da tempo, parlando in più occasioni della sua battaglia contro il tumore al pancreas diagnosticato nel 2017. Vialli aveva annunciato di essere malato in un’intervista al Corriere della Sera il 25 novembre 2018.

Il 14 dicembre scorso, per il peggioramento delle sue condizioni di salute, aveva annunciato di dover sospendere i suoi impegni con la Nazionale italiana di calcio, di cui era capo delegazione, per potersi concentrare sulla sua lotta contro il tumore.

Circondato dalla sua famiglia è spirato la notte scorsa dopo cinque anni di malattia affrontata con coraggio e dignità“, ha scritto la sua famiglia in una nota. “Ringraziamo i tanti che l’hanno sostenuto negli anni con il loro affetto. Il suo ricordo e il suo esempio vivranno per sempre nei nostri cuori“.

Da calciatore ha avuto una carriera lunga 19 anni, giocando tra Serie A e Premie League inglese. Quasi due decenni in campo, il ritiro è avvenuto nel 1999, segnati da 673 partite ufficiali e 259 gol.

In Nazionale uno score altrettanto importante: con la maglia azzurra ha disputato 59 partite segnando 16 reti, ottenendo un bronzo ai Mondiali di Italia ’90, un argento e bronzo agli Europei U21 del 1984 e 1986. Nazionale che due anni fa gli ha regalato la gioia più bella, che non si era riuscito a togliere da calciatore: la vittoria dell’Europeo con la squadra allenata da Roberto Mancini, con cui ha formato per anni una delle coppie di attacco più forti del campionato italiano, alla Sampdoria.

Le più importanti vittorie Gianluca Vialli le ha ottenuti infatti in maglia di club. La conquista dello storico Scudetto del 1991 con la Sampdoria, un ciclo con la maglia del club di Genova aperto nel 1985 con la prima Coppa Italia (ne vinse altre due nel 1988 e 1999) e con la Coppa delle Coppe nel 1990. Sempre in maglia Samp arrivò anche una cocente delusione, la sconfitta in finale di Coppa dei Campioni contro il Barcellona nel 1991.

La rivincita arriverà cinque anni dopo: nel 1996, col passaggio alla Juventus, trionferà nella nuova Champions League alzando la coppa al cielo nella finale vinta a Roma dai bianconeri contro l’Ajax, nella partita finita ai rigori.

Sempre in quell’anno lascerà i bianconeri per provare l’avventura all’estero, al Chelsea. Saranno gli ultimi tre anni di carriera, non privi di soddisfazioni: vincerà quattro titoli, tra cui una Coppa d’Inghilterra, la Coppa di Lega, una seconda Coppa delle Coppe e la Supercoppa europea ai danni del Real Madrid.

Al Chelsea nel 1999 si ritirerà da calciatore, all’età di 35 anni, iniziando praticamente in contemporanea l’attività di allenatore nella stessa squadra di Londra, riuscendo a vincere anche una Coppa d’Inghilterra e poi in Supercoppa prima di venire esonerato. L’unica altra avventura in panchina sarà al Watford, nel 2001, terminata anche in questo caso col licenziamento a fine stagione. Da lì l’addio alla panchina per dedicarsi al ruolo di opinionista in tv.

Quindi la chiamata del grande amico Roberto Mancini, ct della Nazionale, che nel 2019 lo vuole al suo fianco col duplice ruolo di dirigente e consigliere, nonostante la malattia.

Da leggo.it il 12 gennaio 2023.

Mentre il mondo del calcio sta ancora piangendo la scomparsa a 58 anni di Gianluca Vialli, a Genova, c’è qualcuno che ha pensato di ferire il suo ricordo. Un ricordo che ha unito tutti. Tutti i tifosi, tutte le tifoserie.

Ma quello che è stato compiuto a Genova è un gesto senza precedenti. Vergognoso. Vicino allo stadio Luigi Ferraris, nel quartiere di Marassi, dove Luca Vialli è stato amato e rispettato, un cartellone pubblicitario di una nota ditta di pompe funebri è stato imbrattato con la scritta "G.L. Vialli Rip”. Si vedono anche i colori della Sampdoria.

 Un gesto pieno di disprezzo e odio ingiustificato contro un uomo buono. Una persona che ha sofferto in silenzio. Che ha saputo convivere con un brutto male cercando di essere d’aiuto verso gli altri.

 Considerazioni inutili per chi ha deciso di fare quello che ha fatto

Luca Uccello per leggo.it il 12 gennaio 2023.

«Io e Gianluca Vialli eravamo amici, ci conoscevamo dagli anni novanta». Un’amicizia rispettosa. Di quelle che si vivono, non si raccontano. Ma ora è diverso. Luca non c’è più. E il dolore, lo sconforto prendono il sopravvento. Nel ristorante di Lucio Altana, in zona Chelsea a Londra, pochi minuti dallo Stamford Bridge, Vialli aveva il suo posto sempre riservato.

Un tavolo nell’angolino, vista Fulham Road. «E quello resterà per sempre il suo tavolo». Ci andava spesso da Lucio. Ci andava con la famiglia, con amici, tanti giocatori, tanti ex juventini a un certo punto della sua vita. Un ristorante che conosce e frequenta anche Trevor Francis, ex sampdoriano come Vialli. «Trevor mi ha raccontato tanto di Gianluca. Erano sempre loro due più Roberto Mancini. Quante ne hanno combinate insieme…».

 Quando ha visto l’ultima volta Gianluca Vialli?

«Il mio ricordo più vicino è qualche giorno prima di Natale, è passato, ci siamo salutati. Aveva un viso sofferente, ma sempre sorridente. Non ne voleva sapere di perdere lui. Questo è il mio ultimo ricordo di lui».

 Una persona riservata, era libero da giornalisti, dai tifosi. I tifosi del Chelsea lo amavano… Da quanto tempo lo conosceva?

«Io Gianluca lo conosco dagli anni 90 poi nel 2003 lo vedovo con maggior frequenza. Abitando qui dietro veniva spessissimo con la famiglia, con le sue figlie e tante volte anche da solo. Soprattutto nell’ultimo periodo quando stava male. Mi chiamava poco prima di uscire di casa e di venire qui a piedi. Aveva bisogno di arrivare e mangiare per poi prendere le sue medicine. Aveva orari precisi. Spaghetti integrali alle vongole con aglio in camicia. Prima, se la pasta non era ancora pronta gli preparavo un’insalata che ho battezzato: insalata Vialli. Lattuga, carote, pecorino e pere. Poi un sorbettino al limone e andava via a casa. Poi col passare dei mesi…».

 Cosa è successo?

«A un certo punto non è più venuto a mangiare. Si è sentito in dovere quasi di scusarsi. È passato da qui e mi ha detto: “Lucio ho il diabete che mi impedisce di poter mangiare tante cose…”. Io gli risposi: Io sono qui che ti aspetto. Torna presto».

Cosa perde il calcio?

«Gianluca era un signore. Un signore in tutto come uomo, come giocatore. Una persona buona, difficile da dimenticare».

 Con lui ha mai parlato della malattia?

«Durante gli Europei sono stato operato per un problema al colon. Ci siamo scambiati un paio di messaggi di auguri, poi di congratulazioni per quello che era riuscito a fare con la nostra Italia. Quando sono tornato al lavoro un giorno è venuto a trovarmi e seduti nel suo solito tavolo abbiamo parlato di tutto. Di come si superano certi momenti. Il dolore, la paura. Come si convive con tutto. Come bisogna essere forti. E lui lo è stato fino all’ultimo».

 Quel sorriso era contagioso?

«Non ha mai fatto vedere che stava male. Mai. Ci siamo parlati tante volte ma non l’ha mai fatto per cercare compassione. Lui cercava la forza in ogni persona che incontrava. E in me credo che l’abbia trovata come io l’ho trovata in lui…».

 Lei ha conosciuto anche il Vialli papà…

«Un padre fantastico. Con Sonia e Sofia, che ho visto crescere, veniva qui a pranzo tante volte. Solo loro tre. Che ridere. Quante risate tra di loro. Gianluca sembrava un fratello maggiore non solo il loro papà, una guida sicura. Giocava sempre, scherzava tanto»

Vialli, il ricordo dell’amico ristoratore: «Da me quel tavolo rimarrà sempre il suo». GIOVANNI VIGNA su Il Corriere della Sera il 12 gennaio 2023.

Lucio Altana caro amico di Gianluca Vialli, racconta quando il calciatore andava a mangiare da lui a Londra. «Abitava qui vicino, veniva spesso. Anche io ho sofferto, ci davamo forza a vicenda. Era una persona unica. Ricordo il suo ultimo sorriso»

«Il mondo dello sport ha perso un campione, il resto del mondo un signore. Per me era tutto, una persona veramente squisita di cui sentirò la mancanza». Lucio Altana, uno degli amici più cari di Gianluca Vialli e proprietario del ristorante «Lucio», che si trova nel quartiere londinese di Chelsea, ricorda così l’ex attaccante di Cremonese, Sampdoria, Juventus e della Nazionale, prematuramente scomparso all’età di 58 anni. Vialli frequentava, insieme ai famigliari, il locale di Altana dove gustava alcune pietanze le cui ricette erano state create appositamente per lui. Amava sedersi a un tavolo nell’angolino, come se non volesse farsi riconoscere e preferisse rimanere lontano da sguardi indiscreti.

Gianluca Vialli e l’amico del ristorante di Londra

«L’ho conosciuto negli anni Novanta quando si è trasferito al Chelsea — spiega Altana, sardo di origine, ma a Londra dagli anni Settanta — nel 2003 ho aperto il ristorante “Lucio”: molto spesso Gianluca è stato nostro ospite, veniva da solo o con la moglie e le figlie, abitava a cinque minuti dal locale, che si trova in Fulham Road».

Negli ultimi tempi Vialli, racconta il ristoratore, assumeva farmaci potenti che dovevano essere bilanciati con il cibo. «Mi chiamava e mi diceva “Lucio, metti su la pasta che sto arrivando”. Doveva rispettare determinati orari». L’ultimo sorriso è il ricordo più bello che Altana conserva dell’ex campione: «L’ho visto per l’ultima volta all’inizio di dicembre, è passato per strada e ci siamo salutati a gesti: io ero all’interno del ristorante. Aveva un viso sofferente, con un sorriso che serberò per sempre».

«Era molto discreto, si sedeva sempre in un angolo appartato»

Qualche settimana dopo Vialli è stato ricoverato in una clinica non lontana dal ristorante. Durante gli Europei vittoriosi per l’Italia, anche Altana ha dovuto affrontare una dura battaglia ed è stato operato per un cancro al colon. «Io e Gianluca ci mandavamo messaggi — sottolinea il ristoratore —. Quando è tornato a Londra dopo la vittoria della Nazionale, alla quale aveva contribuito come dirigente, ci siamo rivisti e abbiamo parlato delle nostre esperienze con la malattia. Ci davamo forza a vicenda. Lo scorso novembre è venuto a cena dopo tanto tempo, mi ha detto che aveva il diabete e faceva fatica a mangiare e digerire. Aveva dovuto rinunciare ad alcuni piatti». Vialli era solito sedersi in un angolo appartato: «Era una persona riservata, credo che fosse venuto in Inghilterra perché si sentiva più libero e tranquillo, lontano da paparazzi e giornalisti. A Londra era amato dai tifosi del Chelsea, che rispettavano la sua privacy. Gianluca avrà sempre un posto nel mio cuore e lo sentirò sempre presente nel mio ristorante. Quello resterà per sempre il suo tavolo».

Abodi, il tumore e Vialli: «Riascolto i suoi messaggi. Io il cancro alla gola l’ho seminato e sconfitto». Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 14 Gennaio 2023.

Il ministro per lo Sport e i giovani ha raccontato in un’intervista al Foglio l’amicizia con Vialli e la sua lotta con un tumore alla gola: «Ho imparato a dare il giusto valore alle cose. E a non sprecare il tempo»

«Il tempo? Non voglio sprecarne. Cerco di prendere tutto dalla vita, senza risparmiarmi, do il giusto valore alle cose. L’ho capito con la mia esperienza: i giorni, le settimane, i mesi non vanno gettati all’aria». Potrebbe tranquillamente essere uno stralcio di una vecchia intervista di Luca Vialli. Sono invece le parole del ministro per lo Sport e i giovani Andrea Abodi , affidate a un’intervista al Foglio. A Vialli, Abodi era legato da un rapporto di amicizia, ma anche da un nemico comune: «l’ospite indesiderato», come lo chiamava il campione scomparso una settimana fa e come lo chiama oggi il ministro.

Era gennaio 2021 quando Abodi, toccandosi il collo, avvertì la presenza di due linfonodi che gli provocavano dolore. Erano i giorni in cui stava valutando la candidatura a sindaco di Roma che Giorgia Meloni gli aveva proposto. La biopsia, però, sgombrò il campo da ogni dubbio. Chemio e radioterapia non furono sufficienti a eliminare le cellule tumorali sulla parete tonsillare e il ministro fu costretto all’intervento chirurgico: «Era il 3 agosto 2021 — racconta ancora al Foglio — e nel frattempo avevo spiegato a Giorgia che non potevo candidarmi in Campidoglio». Ora, un anno e mezzo più tardi, «credo di aver seminato l’ospite indesiderato. Certo, quando ti tolgono la catena linfonodale sei asimmetrico, sembra che ti manchi qualcosa».

Era stata la malattia a cementare ulteriormente il rapporto con Vialli, anche se Abodi spiega che nelle loro conversazioni, lui «non si è mai lamentato della sua patologia. Mi spiegò che il suo caso era complicato. Di Luca mi colpiva il non voler mai cercare compatimento». Quello che emerge è un rapporto di empatia reciproca: «A volte riascolto i messaggi vocali di Gianluca. La sua morte mi ha addolorato e fatto pensare». Nell’ultimo messaggio gli augura buona fortuna, «non solo per la nomina a ministro dello Sport, ma anche per il resto». Avevano un impegno: «Da presidente del Credito sportivo avevo organizzato la presentazione del suo libro, che però non siamo mai riusciti a finalizzare. Non c’è stato tempo».

Ora Abodi l’ospite indesiderato è riuscito a cacciarlo, ma queste sono esperienze che comunque lasciano un segno molto profondo: «All’inizio ho vissuto la scoperta della malattia con incoscienza. Poi il secondo pensiero che ho avuto è stato un altro: è troppo facile apprezzare solo le cose belle della vita. E c’è anche un altro tema: riguarda chi ti sta intorno. I tuoi cari la vivono molto peggio. Nel momento più complicato, quello delle cure e dell’operazione, il Policlinico Umberto I era il mio ufficio. Scrivevo e leggevo da lì. Sono diventato amico di tutti i pazienti. Ancora ci sentiamo. Uno di loro non ce l’ha fatta».

L’omaggio a Gianluca Vialli, sugli spalti del Chelsea a Stamford Bridge. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 15 Gennaio 2023

I giocatori del Chelsea hanno aspettato di giocare a Stamford Bridge per ricordare il loro allenatore-giocatore, rimasto nella storia del club. L'occasione è arrivata oggi, prima del fischio d’inizio del match casalingo contro il Crystal Palace

Il Chelsea ha ricordato Gianluca Vialli prima del fischio d’inizio del match contro il Crystal Palace, in occasione della prima partita di Premier League allo Stamford Bridge dopo la morte dell’ex attaccante e allenatore dei Blues, scomparso a Londra lo scorso 6 gennaio. Sulle tribune di Stamford Bridge sono stati esposti due grandi striscioni che riprendevano le strofe del coro dedicato al calciatore italiano dai tifosi del Chelsea. La prima in blu (“Quando la palla finisce in fondo alla rete all’Old Trafford“), la seconda con lo sfondo del tricolore italiano: “Quando i suoi gol illuminano il cielo, c’è una lacrima nei miei occhi“.

Tutti i giocatori del Chelsea sono scesi in campo con la scritta “Vialli” sulla maglia nel riscaldamento. Gianluca Vialli è stato ricordato con un toccante minuto di raccoglimento.

Presenti in tribuna diversi suoi ex compagni di squadra come Carlo Cudicini, Albert Ferrer, Graeme Le Saux, Mark Hughes, Jody Morris e Jimmy Floyd Hasselbaink e John Terry lanciato proprio da Vialli quando sedeva sulla panchina del Chelsea, tutti in lacrime, mentre il pubblico lo salutava con cori e striscioni. Anche sugli spalti applausi, cori, striscioni tricolori e la foto di Gianluca Vialli proiettate sul maxi schermo. Fiori e preghiere anche da fuori dello stadio lasciati dai tifosi. Redazione CdG 1947

Vialli celebrati i funerali a Londra. Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2023.

La cerimonia si è svolta in forma privata come desideravano il campione e la famiglia. Presenti anche Roberto Mancini, Massimo Mauro, Ciro Ferrara e il presidente della Figc Gravina

Si sono celebrati martedì pomeriggio, alle 17 a Londra, i funerali di Gianluca Vialli, in forma privata come desideravano il campione — scomparso il 6 gennaio per un tumore al pancreas —, e la sua famiglia, che ha scelto di mantenere un’estrema riservatezza sulla cerimonia, senza comunicare luogo o data. Luca voleva che fosse un giorno «allegro, non grigio», un’occasione per scambiarsi ricordi, ma sarà stato difficile mantenere la promessa.

Presenti, oltre alla moglie Cathryn White Cooper e le figlie Olivia, 18 anni, e Sofia, 16, i familiari provenienti da Cremona, i fratelli Mina, Nino, Marco e Maffo, più alcuni amici intimi della sua città natale. Del mondo del calcio c’erano il presidente della Figc Gabriele Gravina (che aveva affidato a Vialli il ruolo di capo delegazione della Nazionale, ruolo che il campione aveva dovuto lasciare a novembre, quando la malattia era tornata aggressiva) e gli amici più stretti di Luca, come il c.t. della Nazionale Roberto Mancini, Ciro Ferrara e Massimo Mauro. Questi ultimi, assieme ai fratelli, hanno portato la bara. In totale una trentina di persone che si sono radunate nella zona a sud ovest della capitale inglese.

Sembra non fossero presenti i due anziani genitori, la mamma Maria Teresa, 87 anni, e il padre Gianfranco, 92, molto provati.

La scorsa settimana la mamma aveva voluto far celebrare una Messa a Cremona, nella parrocchia di Cristo Re, dove Gianluca aveva cominciato, bambino, a giocare a pallone. Si erano presentati in tantissimi: gli ex compagni di Cremonese, Sampdoria, Juventus e Nazionale, oltre agli amici storici. Adesso l’ultimo addio, in forma più ristretta. La cerimonia è durata poco più di mezz’ora, poi, come da tradizione britannica, i partecipanti sono tornati a casa di Vialli, nella zona di Chelsea, per un ultimo omaggio.

Gianluca Vialli compie 58 anni: lo scudetto alla Sampdoria, la Juventus, il flirt con Alba Parietti, la malattia, l’Europeo. La sua storia. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 9 Luglio 2022.

L’ex attaccante, oggi capo delegazione della Nazionale, vive a Londra con la moglie e due figlie. Ecco la sua storia dal castello con 60 stanze a Cremona al rapporto difficile con Sacchi e l’affetto di Mantovani

I 58 anni di Vialli

Sincero, coraggioso, amico, attaccante formidabile: Gianluca Vialli da Cremona compie oggi 9 luglio 58 anni. Un campione unico, in grado di fare la differenza anche fuori dal campo. L’amicizia fraterna con Mancini, i gol da ragazzo alla Cremonese, il presunto flirt con Alba Parietti, lo storico scudetto vinto con la Sampdoria, la Coppa dei campioni da capitano con la Juventus. Che carriera, che forza nel raccontarsi anche nei momenti più difficili, come la battaglia con il tumore. E poi l’ultimo trionfo, con la Nazionale ad Euro 2020. Che storia, la storia di Luca Vialli.

Il castello da 60 stanze

Partiamo dall’inizio, da Cremona dove Gianluca nasce il 9 luglio 1964, il più piccolo di cinque figli: Mila, Nino, Marco, Maffo. Cresciuto all’oratorio, «Sono della generazione di Carosello. E come tutti ho imparato dai preti a giocare a pallone; a patto di frequentare anche il catechismo». Anche perché a casa non c’è una gran passione per il calcio, ad eccezione del padre che tifa per la Juventus. Famiglia borghese, i Vialli abitavano in un castello del XV secolo a Grumello Cremonese, con oltre 60 stanze.

Gli inizi alla Cremonese

Vialli a 9 entra nelle giovanili del Pizzighettone, dove resta fino al 1978 quando va alla Cremonese. Con i grigio rossi esordisce in prima squadra a 16 anni: per questo motivo lascia gli studi. Si diplomerà come geometra solo nel 1993. In totale con la Cremonese tra campionato e Coppa Italia disputa 113 partite e realizza 12 gol. È determinante per il ritorno della squadra in serie A dopo 54 anni. Poi arriva la chiamata della Sampdoria.

Lo scudetto con la Sampdoria

Vialli è uno dei simboli della Sampdoria dello scudetto. Determinante con 19 gol in 26 partite. Lui e Mancini, al punto che il presidente Mantovani chiama i suoi due cani Gianluca e Roberto. «Crescemmo passo a passo. La coppa Italia. La finale di Coppa delle Coppe, persa. La finale di Coppa delle Coppe, vinta. E poi il 1991, l’anno dell’impresa», ha ricordato in un’intervista al Corriere.

La Coppa dei Campioni con la Juventus

Giocare nella Juventus per Vialli è stato «un onore, e un onere. Senti il peso della maglia, il dovere di riconsegnarla piegandola per bene e riponendola un po’ più in alto di dove l’avevi presa. E poi Torino, che aveva fama di città fredda e grigia, in realtà è meravigliosa». In bianconero arriva anche l’agognata Coppa dei Campioni, il 22 maggio 1996. All’Olimpico di Roma la Juve batte l’Ajax ai rigori e Gianluca alza la coppa con la fascia di capitano al braccio. Termina la carriera al Chelsea.

Testimone al processo per doping

Vialli è stato testimone al processo per doping. La Juventus fu assolta, ma venne fuori un largo uso di farmaci: «Avrei potuto vivere più serenamente quella vicenda, come altri colleghi. Non ce l’ho fatta. Fu un’ingiustizia». E ancora: «Non voglio riaprire vecchie polemiche. È possibile discutere se sia meglio per una distorsione dare il Voltaren, o andare 15 giorni in montagna a riposare. Non è possibile mettere in dubbio i risultati di una carriera. All’inizio ci ho sofferto. Poi ho capito che se ti preoccupi di quello che pensano gli altri appartieni a loro».

Nazionale, amore e odio

Da calciatore, il rapporto con la Nazionale è stato di amore e odio. Protagonista nell’Europeo dell’88, meno brillante nel Mondiale del 90 (in cui doveva essere la stella della squadra di Vicini), escluso da quello americano del 94 per incomprensioni con Sacchi: «Fu uno scontro di personalità. Ero abituato a dire quel che pensavo: con lui l’equilibrio tra tensione e serenità non c’era. Mi escluse, convinto che i miei dubbi avrebbero creato energie negative nel gruppo; e aveva ragione. Sbagliai io a rifiutare, quando per due volte mi richiamò, prima e dopo il Mondiale del ’94. Feci il permaloso. La maglia azzurra non si rifiuta mai». In totale con l’Italia Vialli gioca 59 partite dal 1985 al 1992, tre con la fascia di capitano, con 16 gol ma nessuno nella fase finale dei due Mondiali che ha disputato e uno solo agli Europei 1988.

La famiglia

Vialli ha sposato nel 2003 Cathryn Cooper, ex modella di origine sudafricana, oggi arredatrice in Gran Bretagna. Hanno due figlie Olivia e Sofia e vivono (da diversi anni) a Londra.

Il flirt con Alba Parietti

Leggenda narra di un flirt giovanile tra Vialli e la showgirl e conduttrice tv Alba Parietti. Si diceva che Gianluca scappasse dal ritiro della Nazionale al Mondiale 90 per incontrarla: «È una cosa che parte della mitologia, ma non lo dirò mai. Ci sono giorni in cui dico di si e altri in cui dico il contrario…», ha raccontato la diretta interessata qualche anno fa a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1.

La malattia

Dal 2017 Vialli combatte con un tumore al pancreas. Gianluca ha scelto di raccontare la sua storia in un libro: «Mi auguro possa servire a ispirare le persone che si trovano all’incrocio determinante della vita». Un anno fa, prima dell’Europeo, parlando del cancro lo ha definito «un compagno di viaggio indesiderato. È salito sul treno con me e io devo andare avanti, viaggiare a testa bassa, senza mollare mai, sperando che un giorno questo ospite indesiderato si stanchi e mi lasci vivere serenamente ancora per tanti anni perché ci sono ancora molte cose che voglio fare». Pochi mesi fa si è raccontato così alla trasmissione di Alessandro Cattelan «Una semplice domanda», in onda su Netflix: «Sono convinto che i nostri figli seguano il nostro esempio più che le nostre parole. Ho meno tempo di essere da esempio, adesso che so che non morirò di vecchiaia. Ogni mio comportamento mi porta a ragionare così. In questo senso cerco di essere un esempio positivo: cerco di insegnare loro che la felicità dipende dalla prospettiva con cui guardi la vita, che non ti devi dare delle arie, ascoltare di più e parlare di meno. Ridere spesso, aiutare gli altri. Questo è il segreto della felicità».

Il trionfo ad Euro 2020

Dal novembre 2019 Vialli è capo delegazione della Nazionale. Ha vissuto da protagonista la vittoria ad Euro 2020. Il suo abbraccio tra le lacrime con l’amico di sempre Mancini dopo la finale con l’Inghilterra resta una delle immagini più belle del trionfo azzurro.

Il discorso di Vialli prima della finale commuove l’Italia: l’onore si conquista nell’arena. Redazione venerdì 16 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. Gianluca Vialli, capodelegazione della nostra Nazionale, è stato un motivatore eccezionale agli Europei 2020: lo dimostra il discorso che ha fatto agli azzurri due giorni prima della finale Italia-Inghilterra a Wembley. Vialli ha scelto una citazione di Frank Delano Roosevelt per esortare i calciatori a lottare fino in fondo, a mettercela tutta. Ecco il passaggio letto da Vialli: “Non è colui che critica a contare, né colui che indica quando gli altri inciampano o che commenta come una certa azione si sarebbe dovuta compiere meglio. L’onore spetta all’uomo nell’arena. L’uomo il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore e dal sangue. L’uomo che lotta con coraggio, che sbaglia ripetutamente, sapendo che non c’è impresa degna di questo nome che sia priva di errori e mancanze. L’uomo che dedica tutto se stesso al raggiungimento di un obiettivo, che sa entusiasmarsi e impegnarsi fino in fondo e che si spende per una causa giusta. L’uomo che, quando le cose vanno bene, conosce finalmente il trionfo delle grandi conquiste e che, quando le cose vanno male, cade sapendo di aver osato. Quest’uomo non avrà mai un posto accanto a quelle anime mediocri che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta”. Nel leggere queste parole agli azzurri Vialli si è commosso. E alla fine della citazione i calciatori lo hanno applaudito. Lo si vede nel documentario Rai “Sogno Azzurro” dedicato alla Nazionale. Un docu-film che ripercorre la cavalcata vittoriosa degli azzurri di Mancini, dalla partita d’esordio fino alla finale contro l’Inghilterra. Nel ricevere gli azzurri al Quirinale il presidente Mattarella ha voluto citare Gianluca Vialli, la cui partecipazione alle sfide dell’Italia è stata sempre intensa e visibile a tutti. Mattarella ha detto che Vialli ha espresso i sentimenti di tutti gli italiani: entusiasmo, commozione, forza d’animo. E ora il suo discorso continua a commuovere.

Gianluca Vialli. Da corriere.it il 19 luglio 2021. Un ringraziamento, forse un ex voto. Per la trionfale vittoria agli Europei e probabilmente per altro, per la sua malattia già sconfitta due volte. Gianluca Vialli, capo delegazione della Nazionale, domenica è stato al Santuario della Beata Vergine della Speranza di Grumello Cremonese, una chiesetta settecentesca in mezzo ai campi, a un passo dalla casa in cui l’ex attaccante è cresciuto. E ha pubblicato solo una breve didascalia in italiano e in inglese sui social: «Il tempo della gratitudine». Probabilmente un ringraziamento non solo per il titolo europeo, ma anche per la malattia ma anche per il tumore al pancreas che ha dovuto sconfiggere in due riprese tra il 2018, quando lo aveva per la prima volta rivelato al Corriere della Sera, e lo scorso anno. Una battaglia che non è ancora del tutto vinta. Un’esperienza che ha portato l’ex attaccante di Inter e Sampdoria a essere uno dei grandi motivatori del gruppo azzurro con il celebre discorso di Roosevelt prima della finale contro l’Inghilterra. Durante «Sogno Azzurro», la serie tv che aveva prima preceduto - e poi seguito - il debutto dell’Italia agli Europei, lo scorso 11 giugno, lo aveva raccontato: «Il cancro è un compagno di viaggio indesiderato. Devo andare avanti, sperando che si stanchi e mi lasci vivere ancora tanti anni». Il santuario della Speranza, in mezzo ai campi, è non solo un luogo caro al campione di Sampdoria e Juventus per l’infanzia, ma anche quello in cui, aveva raccontato, vuole fare sposare le sue figlie. Noto anche come «Madonna del Deserto», proprio perché in perfetto isolamento - è a circa un km dalla frazione di Zanengo - sorge secondo la tradizione sul luogo di un’apparizione mariana: la Vergine apparve a una giovane muta e la guarì.

GIANLUCA VIALLI CAMPIONE DELLA VITA. Il Corriere del Giorno il 18 Luglio 2021. Alcuni pensieri di quel grande uomo e uomo di sport che ha conquistato l’affetto e la stima di tutti gli italiani, tifosi compresi. Gianluca Vialli a 55 anni sta combattendo la partita più importante della sua vita. Alcuni giorni fa festeggiando il suo compleanno ha scritto. “…Fuori dall’ospedale c’è scritto “Humanitas”. Che poi significa proprio questo: guardarsi negli occhi e parlare. I miei di occhi sono gialli. E il dottore mi dice: “Si fermi Gianluca” . Lo guardo dubbioso. Perché mi devo fermare? La mia vita è un continuo movimento tra Londra, Milano, la BBC, Sky, la mia famiglia, i miei colleghi, i campi da golf, gli amici. Cosa devo fermare? La risposta me la dà la risonanza magnetica: ferma tutto Luca. Hai un tumore al pancreas. Quando me lo dicono, ancora non lo so che è uno dei più gravi. Ma lo capisco da come il dottore soffia parole fuori dalle labbra: “CI sono buone possibilità”…Buone possibilità di cosa? Quando lo capisco, io che di fino a quel punto della mia vita non sapevo niente di malattie, biopsie, pet-scan, di linfonodi e liquidi di contrasto, mi sento perduto… Bisogna muoversi in fretta, ho una settimana prima dell’operazione. Quando mi sveglio dopo l’intervento c’è mia moglie, ho tubi collegati al collo e all’addome. E una lunga cicatrice in mezzo agli addominali. Lei ha gli occhi che bruciano di felicità. “E’ andata bene” dice. “Quanto devo stare qui” le chiedo. “Quindici giorni”. Esco dall’ospedale dopo sei, tra le proteste dei medici che mi invitano comunque a condividere un lungo trattamento con il professor Cunningham, a Londra. Ma prima c’è Natale. Lo passiamo in Inghilterra tutti insieme e guardo queste persone come non lo avevo guardate mai. Il giorno di Santo Stefano lo dico alle bambine. Come? Così come lo sto dicendo a voi. Mentre parlo con loro, e loro piangono, capisco che non è vero che il cancro è il grande nemico da sconfiggere. Non è una lotta per uccidere lui, ma è una sfida per cambiare se stessi…Ho bisogno di dialogare con la paura. La paura vera, quella che ti fa chiudere in bagno e piangere; paura di non riuscire a dire le parole che servono. Ne parlo con Cunningham: “Dottore lei crede che io possa guarire pensando in modo positivo che io guarirò”. Lui, uomo di scienza mi risponde di sì. E’ tutto quello che mi serve. Ci costruisco intorno una nuova routine e mi ci dedico anima e corpo: mi sveglio presto, medito su piccole frasi fondamentali, cerco il silenzio, mi focalizzo sui dettagli piacevoli, faccio esercizio, leggo e scrivo un pensiero positivo ogni giorno…Scrivo su una serie di post-it gialli le frasi che sono nel mio libro. Mentre vi scrivo queste righe ho finito la chemio e i trattamenti radio ma ancora non so come andrà a finire questa partita, lo scoprirò più avanti. Quello che so è che mi sono preparato bene e ho dato il massimo; che la mia squadra non poteva giocare meglio. E che mi hanno passato la palla, come la si passa ad un attaccante. Quindi sono lì davanti, la rete la vedo bene, così come la linea di porta e quella di fondo. So come si fa. Ma ogni volta che calcio per fare gol è sempre come la prima volta: hai bisogno di un bel po’ di coraggio. E anche di un pizzico di fortuna. Non ci resta che dirti: Forza Gianluca !

Il discorso di Vialli prima della finale è da brividi. Marco Gentile il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. Due giorni prima della finale Italia-Inghilterra, Gianluca Vialli ha caricato la squadra con un discorso da brividi citando l'ex presidente Usa Roosvelt. L'Italia si è laureata campione d'Europa e i grandi meriti vanno ripartiti tra il ct Roberto Mancini, i giocatori e tutto il suo staff, anche se una menzione particolare la merita un grande uomo come Gianluca Vialli. Due giorni prima della finale di Wembley, infatti, pare che l'ambasciatore azzurro abbia fatto un bel discorso alla squadra citando l'ex presidente Usa Franklin Delano Roosevelt. Un discorso ricco di significato per un uomo che sta lottando da mesi, con una forza e una dignità immensa, contro il cancro.

Il discorso da brividi. "Non è colui che critica a contare, né colui che indica quando gli altri inciampano o che commenta come una certa azione si sarebbe dovuta compiere meglio", inizia così il discorso da brividi ai suoi ragazzi dell'ex attaccante della Sampdoria. "L’onore spetta all’uomo nell’arena. L’uomo il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore e dal sangue. L’uomo che lotta con coraggio, che sbaglia ripetutamente, sapendo che non c’è impresa degna di questo nome che sia priva di errori e mancanze", uno dei passaggi del dirigente azzurro. Gianluca Vialli ha poi concluso con alcune frasi significative: "L’uomo che dedica tutto se stesso al raggiungimento di un obiettivo, che sa entusiasmarsi e impegnarsi fino in fondo e che si spende per una causa giusta. L’uomo che, quando le cose vanno bene, conosce finalmente il trionfo delle grandi conquiste e che, quando le cose vanno male, cade sapendo di aver osato. Quest’uomo non avrà mai un posto accanto a quelle anime mediocri che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta".

Le belle parole. Al termine della finale di Wembley Alessandro Florenzi aveva speso delle belle parole ai microfoni di Sky Sport per Vialli: "So che queste parole lo faranno arrabbiare, ma è importante che tutti lo sappiano. Noi abbiamo un esempio che ci dimostra ogni giorno come si deve vivere, come ci si deve comportare in qualsiasi ambiente ti trovi e in qualsiasi situazione. Per noi è speciale, questa vittoria senza di lui, così come senza Mancini e gli altri, non sarebbe niente. Lui è un esempio vivente, mi odierà per queste parole ma se le merita". 

Marco Gentile. Sono nato l'8 maggio del 1985 a Saronno, ma sono di origine calabrese, di Corigliano Calabro, per la precisione. Nel 2011 mi sono laureato in comunicazione pubblica d'impresa presso la Statale di Milano. Ho redatto un elaborato finale sulla figura di José Mourinho, naturalmente in ambito della comunicazione. Sono appassionato di sport in generale ed in particolare di tennis e calcio. Amo la musica, leggere e viaggiare. Mi ritengo una persona genuina e non amo la falsità. Sono sposato con Graziana e ho una bambina favolosa di 2 anni e mezzo. Collaboro con ilgiornale.it dall'aprile del 2016.

Il rituale nato nella gara d'esordio con la Svizzera. Il rito scaramantico di Gianluca Vialli prima delle partite dell’Italia. Giovanni Pisano su Il Riformista l'11 Luglio 2021. La scaramanzia è tradizione, soprattutto quando i risultati arrivano. Così la Nazionale italiana è passata dall’acqua santa di Giovanni Trapattoni, che si è dovuta arrendere solamente all’arbitraggio scandaloso dell’ecuadoriano Moreno nei mondiali in Corea e Giappone (2002), al rituale che vede come protagonista Gianluca Vialli, capo delegazione della squadra allenata dall’amico Roberto Mancini. Il siparietto speciale prevede infatti che al momento della partenza da Coverciano, sede del ritiro, l’autista del bus parte per poi fermare la corsa del pullman dopo pochi metri. Il motivo? “Manca Vialli, l’abbiamo lasciato a piedi”. L’episodio è realmente accaduto in occasione della prima partita degli Europei contro la Svizzera e da allora, visto il successo degli azzurri, prosegue ogni volta. Un rituale scaramantico ripetuto con Turchia, Galles, Austria, Belgio, Spagna e, nelle scorse ore, con l’Inghilterra, in vista della finalissima di Wembley. L’autista ingrana dunque la marcia, il pullman parte ma dopo pochi secondi si ferma. “Manca Vialli” urla qualcuno seguito dal coro di (finta) sorpresa del resto dei componenti della squadra e dello staff guidato di Mancini. Vialli così si arriva con il consueto berretto in testa e, tra battute e sorrisi, fa finta di essere in ritardo. 

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Roberto Mancini e Gianluca Vialli, l'abbraccio che ha fatto commuovere l'Italia. Le Iene News il 12 luglio 2021. Il commissario tecnico e il capo delegazione azzurri si sono stretti in un lungo abbraccio al termine del trionfo dell’Italia contro l’Inghilterra: in quelle lacrime sul viso di entrambi c’è una storia d’amore calcistico che va avanti da quarant’anni. E che anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo aiutato a cementare. Roberto Mancini in lacrime, abbracciato al fratello di una vita, Gianluca Vialli. I gemelli del gol, pilastri della storia azzurra e blucerchiata, che piangono l’uno sulla spalla dell’altro dopo il trionfo dell'Italia agli Europei. C’è una vita intera in quelle lacrime, una vita di successi e sconfitte, una vita sempre al fianco l’uno dell’altro. Era il 1984 quando Gianluca Vialli raggiunse Roberto Mancini a Genova, sponda Samp, per formare una delle coppie d’attacco più forti del nostro calcio. Sono passati 37 anni da allora, scanditi dal trionfo dello scudetto blucerchiato nel 1991. Ma anche tante delusioni, la più cocente la sconfitta in finale di Champions League contro il Barcellona nel 1992. Ironia della sorte, i due finivano l’esperienza insieme alla Sampdoria piangendo di delusione a Wembley mentre i blaugrana alzavano la loro prima Coppa dei Campioni. Ventinove anni dopo si sono presi la loro rivincita: adesso Wembley è il teatro del loro più grande successo. In tutti questi anni, comunque, i gemelli del gol non si sono mai separati davvero. Nemmeno quando Vialli terminò la carriera da calciatore e iniziò quella da allenatore a Londra, sponda Chelsea. E proprio allora noi de Le Iene avevamo portato a Gianluca un videomessaggio di Roberto, un augurio per la sua nuova esperienza da giocatore e allenatore. Era il 1998, ed era già chiaro l’affetto e la vicinanza tra i due. Oggi, nel 2021, ci avete regalato un’emozione immensa dopo un anno e mezzo durissimo. Possiamo solo dirvi, col cuore: GRAZIE! 

Elia Pagnoni per "il Giornale" il 13 luglio 2021. Forse valeva la pena di vincere questo Europeo solo per vedere quell'abbraccio. Vialli e Mancini in lacrime di gioia sullo stesso prato dove trent'anni fa uscirono piangendo di delusione. Dalla finale di Champions persa dalla Samp col Barcellona alla finale di Euro 2020 vinta in casa degli inglesi, c'è tutta la storia di questi due uomini che si sono legati a doppio filo con un'amicizia profonda che va al di là del calcio e fa da esempio a tutti quanti hanno festeggiato ubriachi nella notte azzurra. Perché l'abbraccio del ct al suo vecchio compagno ti riporta con i piedi per terra e ti fa capire che non c'è solo la felicità per un rigore segnato o parato, che una coppa Europa non può nascondere i guai della vita e i valori veri che solo lo sport può trasmettere. Mancini e Vialli, Mancini e il suo cerchio magico, quello che si stringeva attorno agli azzurri ad ogni pausa degli infiniti prolungamenti delle partite di questo Europeo. L'importanza di capire che non si vince solo stando in campo, ma anche stando seduti dietro le quinte, sapendo dare tutto pur rimanendo al proprio posto. Perché dietro quei rigori segnati e parati c'è l'altra Italia, quella dei vecchi compagni di ventura blucerchiati del ct, che Mancio ha voluto al suo fianco nella costruzione e nella gestione di questa squadra. Non solo il Vialli capodelegazione, ma anche Chicco Evani, il vice che ha sostituito degnamente il ct quando ha attraversato problemi di quarantena, e poi Salsano, Lombardo, Nuciari, fino al preparatore dei portieri Massimo Battara (che di blucerchiato ha il padre Piero, numero uno della Samp anni Sessanta). E poi tutti gli altri che hanno vinto stando seduti, come Daniele De Rossi, l'ultimo arrivato nella corte del ct, ma preziosissimo per il suo carisma di campione del mondo, così come ha dato la carica anche un altro che sa come si fa a vincere i Mondiali, il team manager Lele Oriali, che a dire il vero a sedere ci è stato poco: era talmente agitato che durante la partita con il Belgio si è ferito a un sopracciglio. L'importanza di quelli che hanno vinto da seduti come Salvatore Sirigu, fondamentale nello spogliatoio, e Alex Meret, il terzo portiere, l'unico dei 26 a non aver giocato nemmeno un minuto. Ma da seduti, tifando per questa Italia, hanno vinto anche Matteo Berrettini e Sergio Mattarella, la strana coppia seduta quasi affiancata in tribuna a Wembley, il primo reduce dalla straordinaria finale raggiunta a Wimbledon, il secondo incredibilmente esuberante nel suo impermeabile scuro. E alla fine è balzato in piedi anche lui.

Paolo Brusorio per "la Stampa" il 13 luglio 2021. Piangono Roberto Mancini e Gianluca Vialli, lo fanno uno sulle spalle dell'altro. Stringiamoci a coorte, e sembra di averla già sentita. L'Italia è campione d'Europa e in mezzo al campo due uomini si abbracciano sotto gli occhi del mondo e piangono le lacrime che avevano dentro da 50 giorni, quelli del ritiro, e forse anche da una vita. Parlare di intimità in mondovisione è più che un paradosso, invece è proprio così, non c'è niente di più riservato e di privato di quel gesto sul prato di Wembley innaffiato di gloria azzurra. Pianto di liberazione, di gioia, di commozione, di condivisione. Il commissario tecnico e il capo delegazione, così sui documenti ufficiali. Per tutti. Cucciolo e Pisolo, per pochi. Per quelli del club dei Sette Nani, una formazione dentro una formazione, una matrioska blucerchiata: quella della Sampdoria campione d'Italia nel 1991. Cucciolo e Pisolo non si sono mai persi di vista e quando il primo ha indicato chi mettere come guida della Nazionale in questa sua navigazione, non ha avuto dubbi: «Sempre che Luca se la senta». Perché Vialli nel frattempo se la stava giocando su un altro campo, vigliacca la malattia. Ma uno ha sempre avuto bisogno dell'altro, nella buona e nella cattiva sorte. Sulle lacrime degli uomini è facile ricamare e scavare, ma qui c'è la rappresentazione fisica e simbolica di un'intesa «senza limiti e confini». Avevamo bisogno di abbracci, la pandemia ce ne ha tolto il piacere e la stretta di Mancini&Vialli dopo la vittoria nei supplementari contro l'Austria aveva rotto il ghiaccio dopo tanta lontananza fisica. I due uomini, quella sera, erano idealmente tutti noi, ma le lacrime di Wembley, no. Solo cosa loro. In quello stadio, seppur nella versione imperiale, i due amici hanno perso una coppa dei campioni contro il Barcellona al 120 minuto, era il 1992 e anche l'ultimo treno per la gloria della Sampdoria. Dopo quella partita Vialli va alla Juventus, aveva già firmato «e sentivamo - diranno entrambi ricordando - che il giocattolo si stava rompendo». Due giorni prima Mancini e Vialli pranzano insieme in un tavolo isolato da Carmine, uno dei punti cardinali blucerchiati a Genova. Ci sono loro e Gongolo, Guido Montali, allora addetto agli arbitri del club e oggi anche. Si parlano, Luca aveva già firmato il suo trasferimento, Roberto raccoglie le confidenze. Racconta Montali: «Rivedo il Roberto che ho conosciuto io. Allora prendeva da parte i compagni e li ascoltava, oggi fa lo stesso con gli azzurri. Affronta singolarmente i problemi». Per questo i giocatori stravedono per lui, ne accettano il carisma fino quasi a nutrirsene. «Luca era più chiuso, un'altra personalità. Se c'era un problema, si isolava». Ma dove non arriva Mancini, ci pensa Vialli, è sempre andata così, «Roberto sa di avere accanto una persona di cui fidarsi ciecamente». Le lacrime scavano un solco tra loro e gli altri, è un affare privato. Voglia di tenerezza. Come il bacio furtivo che Luca dà alla palla quando gli rotola vicino durante Italia-Polonia dello scorso novembre: quella sera Mancini non c'è, isolato a casa per il Covid, e il gemello orchestra il telefono senza fili per dare le dritte a Evani, il vice del ct. Un bacio che sa di normalità ritrovata, ma ancora molto lottata. Non c'è alle celebrazioni Vialli, niente Quirinale né Palazzo Chigi, si è fermato a Londra. Lì c'è la sua vita, la sua battaglia. Stavolta non è salito sul bus azzurro per ultimo come è successo nella partenza verso l'Olimpico prima di Italia-Turchia e poi, visto l'effetto benefico, tutte le volte successive. «Avete lasciato indietro Luca» e lui che arriva con la coppola. Il calcio è strano, girano miliardi eppure la scaramanzia non arretra. «Roberto» è la voce che sente il ct sul prato di Wembley mentre sta andando al centro del campo dai suoi ragazzi, si volta il Mancio e affonda la testa nelle spalle smagrite del compagno di una vita. «Sono sempre i miei bambini - racconta con la voce calda e fiera Montali - ma non ho mai visto una cosa simile». Si cercano con gli occhi prima che si riempiano di lacrime. Si trovano sempre loro due e quando non si vedono si sintonizzano sulla chat degli ex compagni Samp, «quelli che si ritrovano» l'hanno chiamata. Luca e Roberto, non si sono mai persi. Una vita insieme: gol, assist, sguardi e ora anche le lacrime a unirli in una notte indimenticabile. Per noi e per loro.

Da tuttomercatoweb.com il 18 luglio 2021. "Mancini ha ricordato l'esempio di Boskov", titola oggi La Gazzetta dello Sport con le parole di Gianluca Pagliuca. "Lo scriva pure, non mi vergogno: domenica mi sono commosso anch’io, insieme a loro", esordisce così l'ex portiere della nazionale e della Samp: "Quando ho sentito la dedica di Roberto ai sampdoriani e a Paolo Mantovani, il presidente che gli ha insegnato come si può voler bene anche nel calcio. E quando ho visto lui e Luca avvinghiarsi e piangere insieme. Ho messo la foto in tutti i miei social: meravigliosa. In quell’abbraccio c’era un pezzo di storia della nostra vita, non solo della carriera. C’era tutta quella Samp, ricordi indimenticabili. Ecco, mi piace credere che in quei trenta secondi anche a loro siano tornati in mente". 

Mancini da allenatore ha sempre voluto vicino gente della Samp: "E’ stato bravo anche in quello. Lui ha bisogno di avere vicino solo quelli di cui si fida ciecamente, sceglie di circondarsi di persone che anzitutto lo capiscano. Nella vita, ma anche nel calcio: Chicco, Attilio, Fausto, Giulio, Massimo sono con lui da una vita, non può sbagliarsi. Roberto ricorda tutto ed è molto generoso con chi ha rispetto di lui: quando decide che uno per lui è amico, è amico". 

Ci racconta la magia di quella Samp?

"Spesso si dice “come una famiglia”, ma è una frase fatta. Non per noi: in quella Samp ci si voleva bene come fratelli, ci si rispettava come parenti. E ci si ritrovava sempre nella stessa casa, noi del nucleo storico: io, Mannini, Vierchowod, Pellegrini, Lombardo, Mancio, Vialli. E quando arrivava qualcun altro gli aprivamo la porta". 

E in tutto questo, Boskov?

"Era quello che ci teneva tutti attaccati. Il numero uno assoluto nella gestione del gruppo, a modo suo: grande rispetto per i giocatori più esperti, faceva finta di dare la colpa ai più giovani ma poi coccolava pure loro. Sempre tranquillo, l’aplomb di chi ha in mano il controllo della situazione. E funzionava e ha ispirato Roberto. Da Boskov ha imparato che avere un gruppo forte e saperlo gestire bene può essere la tua arma migliore. Mancini alla sua Nazionale ha dato grande tranquillità e ha insegnato il senso della forza di essere tutti dalla stessa parte. Ho visto anche qualche allenamento della squadra: clima splendido, tutti sereni, uniti. Anche in questo Roberto è stato perfetto".

Paolo Brusorio per "la Stampa" il 12 luglio 2021. In fondo Vujadin Boskov ci era arrivato tanti anni fa, basta pescare nel repertorio del tecnico di quella magica Sampdoria per avvicinarsi alla verità. «Dove tutti vedono sentieri, grandi giocatori vedono autostrade». E lo diceva di Roberto Mancini. E lo diceva con una convinzione tale che se fosse ancora vivo sarebbe il primo ad applaudire il suo ex numero 10. Ora lo possiamo dire, davanti a Roberto Mancini, nel maggio del 2018 non c' erano sentieri, ma un grattacielo da scalare. E noi stavamo sottoterra, nelle cantine. Tre anni abbondanti dopo, l'Italia è sul tetto d'Europa e ce l'ha portata questo signore che compie 57 anni a novembre, ct prodigio, se ce n' è uno, dopo esserlo stato come giocatore. Il prossimo 13 settembre fanno quarant' anni esatti dal suo esordio in serie A e allora è quasi logico che il 4 ottobre cadano gli anta dal battesimo del gol, a Como, e, ovviamente, con la maglia del Bologna. Tutto subito, tutto in fretta. Il talento immenso da calciatore, però, non poteva essere garanzia di successo sulla panchina della Nazionale. Vero, il Mancio ha vinto e stravinto con l'Inter, ha portato il Manchester City al titolo in Premier rompendo un digiuno che durava da 44 anni. Ma la Nazionale, chi l'avrebbe mai detto? Anche qui: peggio non si poteva fare dopo un fallimento come quello di Ventura, serviva però un visionario per immaginarsi un cammino simile. Un visionario. O una visione. Quella che ha sempre avuto Mancini. L' intuizione è di Costacurta, al tempo vice commissario della Figc post Tavecchio, è lui che lo chiama in azzurro. Mancini, che stava allo Zenit, un po' ci pensa, ne parla con Vialli, e con chi altrimenti?, e poi dice sì. «Il bello di allenare una nazionale è che non devi fare il mercato. Per un allenatore è stressante». Non fa mercato il ct, ma sa che oltre a dare una forma tecnica all' Italia deve lavorare sulla testa dei giocatori. A prescindere dai nomi. C' è una nube nera che incombe su ognuno di loro, peggio di quella fantozziana. Fissa subito un obbiettivo, è il Mondiale del Qatar. Lunga gittata. Sembra voler mettere le mani avanti, ma gli serve uno scudo per proteggere chi veste la maglia azzurra. Caricarli subito di responsabilità non avrebbe senso, i superstiti del disastro sono scioccati, le reclute hanno una fottuta paura di accostarsi a una maglia pesante come fosse una lettera scarlatta. Comincia battendo l'Arabia Saudita in uno stadiolo della Svizzera, riparte da Balotelli ed è convinto di farne il centravanti della sua Nazionale. Non ci riuscirà, ma quando ci rinuncia è consapevole di averle provate tutte. Pesca gli azzurri in ogni mare, un giorno chiama Vincenzo Grifo e tutti a chiedersi, «ma chi è mai questo Grifo», arruola Piccini e le facce si allungano. Boh. Più esercitazioni di gruppo che convocazioni, deve testare il materiale umano il ct. Senza mettere pressioni ad alcuno di loro. In Portogallo, per dirne una, va a giocare una partita di Nations League con Caldara e Romagnoli centrali, in attacco c' è Zaza. Dispersi tutti. Italia sconfitta, ma neanche di quella sera il ct butta via qualcosa. «Giocate e divertitevi»: la sua è una formula semplice, ma bisogna avere le (s)palle per sostenerla. Sa di non operare a cuore aperto, di fare un gran bel mestiere. Come gli ha detto Vialli, solo più tardi entrato nel gruppo, nei giorni che hanno preceduto l'investitura: «Roberto, dal calcio abbiamo avuto tanto e ora è giusto fare qualcosa per sdebitarci». Poi, certo lui al pallone non ha mai dato del voi, il colpo di tacco contro la Svizzera senza neanche rovinarsi la piega, dei capelli e dei pantaloni, è la sublimazione del suo talento. Lo fa durante Italia-Svizzera, seconda partita dell'Europeo, lo fa da ct ed è come se avesse fermato il tempo. Non ha mai avuto un centravanti come si deve e si era pure inventato un tridente leggero per ovviare alla lacuna, poi ha deciso che si sarebbe fatto andare bene Immobile o Belotti a targhe alterne. Li ha sempre difesi, «coccolati» come dice lui, ma vedere come si spazientisce a ogni svirgola è sufficiente per comprendere che, ecco, come dire, il concetto che ha della tecnica è un altro. Gli hanno dato una pietraia e lui ne ha fatto una miniera: il contratto gli dura fino al 2026, allungato prima ancora che vincesse qualcosa alla vigilia degli Europei. Due milioni il primo ingaggio, ora raddoppiato. Ci ha messo la faccia, ovunque, Mancini e ridato un senso alla Nazionale. Ha superato Vittorio Pozzo, un signore che ha vinto due Mondiali, nelle gare di fila senza sconfitte, era l'unico sicuro di arrivare nelle prime quattro a questi Europei. Appunto, visione e visionario insieme. Da bambino la mamma, su suggerimento della maestra che vedeva sempre un po' troppo agitato, lo obbligava a bere camomilla prima di andare a scuola. Non per niente, la calma è la virtù dei forti.

Gianluca Vialli e la lotta con il tumore: "Un compagno di vita indesiderato, spero si stanchi di me". Libero Quotidiano l'08 giugno 2021. Gianluca Vialli ha svelato a Sogno Azzurro, la docu-serie di Rai Uno sulla Nazionale italiana realizzata da Donatella Scarnati, la sua battaglia contro il cancro. "Si tratta di un compagno di viaggio indesiderato, ma devo andare avanti, viaggiare a testa bassa senza mollare mai, sperando che si stanchi e mi lasci vivere ancora per tanti anni", ha confessato ai microfoni Rai. L'ex calciatore ora e capo delegazione della nazionale italiana, guidata dal suo amico Roberto Mancini. Vialli si augura la sua storia possa essere d'esempio. "Sono stato un giocatore e un uomo forte ma anche fragile e penso che qualcuno possa essersi riconosciuto. Sono qui con i miei difetti, le paure e la voglia di far qualcosa di importante". Non potevamo mancare nella docu-serie anche parole sul suo rapporto con Mancini, che insieme hanno formato una delle coppie-gol più letali del calcio italiano. "Ci siamo conosciuti in Nazionale quando eravamo ragazzini. Era un giocatore forte, tecnico, velocissimo. Ricordo che la prima volta insieme mangiammo e parlammo della Sampdoria. Nei miei gol c'era il suo piede e nei suoi il mio", ha svelato. "Mancini è un leader serio, tranquillo che non deve dimostrare più niente a nessuno. In Nazionale c’è grande equilibrio, grande disciplina e libertà. Ci sono delle regole ma si fida dei giocatori. A Genova avevamo la stessa idea di vita, condividevamo tutto. Roberto era un giocatore di classe, che faceva divertire, era bello da vedere. Eravamo intercambiabili”, ha infine concluso Vialli. 

Francesco Persili per Dagospia il 28 giugno 2021. Una vita da gemelli del gol. Nell’abbraccio di Mancini e Vialli a Wembley dopo le reti azzurre c’è un mondo, e uno stile. Lo stile Samp. Calcio, allegria, amicizia e uno scudetto storico che li ha uniti per non dividerli più. Cos’è che ha trasformato quei ragazzi con la maglia blucerchiata nella squadra campione d’Italia nell’anno di grazia 90-91? Il Presidente illuminato Paolo Mantovani che cacciava i giocatori che si presentavano con il procuratore per discutere di un rinnovo? O l’allenatore Boskov che non esentò Marco Lanna dal farsi la foto di squadra dopo un incidente stradale nonostante il difensore avesse i capelli alla mohicana e i cerotti in ogni parte del corpo: “Tu stato stupido, giusto così. Almeno vedi foto e ricorda”. Amori che vengono e amori che vanno, le avventure di Vialli con la dama della tv, Lombardo con la parrucca, Pagliuca depilato (“Mia mamma non mi fa entrare in casa se mi faccio biondo”). Cerezo che rispondeva così alle critiche di Sacchi: “Io so’ lento perché voglio andare lento, sono jogadore tutto cervello. Non sono uno che corri sempre, corri corri e dove vai se corri.” E poi Mancini, che era già un allenatore in campo (“Parla, grida, spiega, protesta. Vuole che le cose siano perfette come le vede lui, come sa farle lui”). Quale era l’alchimia di quella squadra? Vierchowod disse no alla Juve dopo aver incontrato Montezemolo a Capri, Luca Vialli riuscì a resistere alle lusinghe di Berlusconi (“A Milano non c’è il mare”). Avevano tutto. Il mare, gli amici. Genova per loro non era solo “un’idea in fondo alla campagna”. Nessuno voleva andarsene. “Il calcio non è una guerra, ma uno sport e un gioco. E nei giochi, si gioca meglio con gli amici”. Le pagine del libro “La bella stagione” (Mondadori) scritto da Vialli e Mancini restituiscono epica e cazzate di quella ciurma di ragazzacci e aiutano a comprendere meglio la filosofia che Mancini e Vialli hanno voluto portare nello spogliatoio azzurro. “Divertirsi e far divertire”, la missione possibile per gli Europei. Anche se Don Fabio Capello dissente e parlando con Claudio Brachino, nella nuova rubrica dell’agenzia Italpress “Primo piano speciale Euro 2020”, sottolinea come il calcio non sia solo “divertimento” ma “fatica, lotta e astuzia”. A calcio, non basta giocare per divertirsi, perchè questa è la più grande balla del mondo, ma bisogna giocare per vincere". Punti di vista, il pallone è un mistero senza fine e non c’è un’unica strada per arrivare al risultato. “Ci sentivamo una famiglia”, ricordano Vialli&Mancini a proposito di quella Samp. La storia dei “sette nani”, spaghettate a mezzanotte e partite a carte. Luca è Pisolo dato che non rinuncia mai alla pennichella, il Mancio è Cucciolo, parla poca e l’aria di chi va coccolato. Moreno Mannini è Eolo. La motivazione ufficiale è che sulla fascia è veloce come il vento ma in realtà è una pietosa copertura. “Moreno ha un talento vero. Scorreggia come un dio. A comando, a piacere, a tradimento…” Una ventata di allegria nel calcio italiano, una bella stagione che non passa mai di moda. Sul prato di Wembley, nella finale di Coppa Campioni del ’92, al tramonto dei tempi supplementari, si infransero i sogni della Samp-gloria. Nel tempio del calcio inglese, 29 anni dopo, i tempi supplementari hanno tenuto in vita il sogno di tornare a Londra per semifinali e finale. Dopo l’abbraccio con Vialli di Wembley, la serata alla Amici miei a Coverciano. Una grigliata, la pizza e Belgio-Portogallo in tv. La banda del Mancio ha portato in azzurro lo stile Samp. Calcio, divertimento, amicizia. Nel calcio si gioca, e si vince, meglio con gli amici.

Da corrieredellosport.it il 6 novembre 2020. Un aneddoto simpatico, particolare, che torna indietro di 32 anni, alla finale di Coppa Italia giocata nel 1988 e vinta dalla Sampdoria, contro il Torino, grazie a un gol ai supplementari di Fausto Salsano. Lo racconta Gianluca Vialli durante la diretta Facebook di AISL ONLUS ed è un momento di grande intrattenimento. Vialli era allora il centravanti dei blucerchiati. Nello stadio granata si gioca la gara di ritorno, all'andata la squadra Boskov s'era imposta 2-0, ma è sotto con lo stesso risultato; Vialli non incide, anche a causa di un forte mal di pancia che lo frena e non gli permette di esprimersi al meglio.

Vialli e una finale "dolorosa". Il racconto, esilarante, nel corso della diretta social, con Massimo Mauro, Pep Guardiola, Ilaria D'Amico, Michele Mainardi e Andrea Marchesi in collegamento che ascoltano divertiti: "Faceva freddo, pioveva, si vede io avevo anche mangiato qualcosa che non andava - spiega Vialli - ma una volta rientrati in campo dopo l'intervallo mi prende un mal di pancia fortissimo, non so come ma riesco a continuare fino al 90', solo che eravamo 2-0, come all'andata, ma stavolta per il Toro e quindi c'erano da giocare i supplementari". Un incubo per chi ha evidente necessità di ritirarsi un po' per conto proprio: "Vado dall'arbitro Agnolin e gli chiedo se era possibile avere cinque minuti per andare in bagno. Al che lui mi risponde: 'Dai vai, cinque minuti te li do'. Vado, scappo con il magazziniere che mi accompagna". Ma c'è un problema, gli spogliatoi sono lontanissimi dal campo e il tempo è poco: "Allo stadio di Torino c'era un passaggio che portava sotto e poi un tunnel di cento metri prima di arrivare agli spogliatoi, finalmente arrivo in bagno, ma non mi sentivo bene, c'erano due compagni infortunati che erano Luca Pellegrini e Hans Briegel, mi incitano, dicono che hanno bisogno di me, allora do un'ultima botta (ride ndr) e scappo fuori". Si ripresenta la questione dell'immensa distanza tra il terreno di gioco e gli spogliatoi. Ma il magazziniere, spiega Vialli, ha un'idea: "Il magazziniere mi fa passare dal parcheggio e poi dalla tribuna per scendere in campo, scivolo su uno scalino, vicino a un anziano tifoso del Toro che mi guarda e in dialetto mi dice che cosa diavolo ci facessi lì. Alla fine riesco a tornare in campo e Agnolin mi si avvicina: 'L'hai fatta tutta? Possiamo ricominciare?. Gli dico di sì e ripartiamo con la partita". La storia, sostiene Vialli, ha una sua morale: "Quindi questo conferma che uomo che caga, non muore mai. Nel senso che c'è speranza, fino alla fine".

Gianluca Vialli, il tumore e il virus: «Ora mostro le mie paure e penso a Cremona la mia città colpita». Pubblicato sabato, 16 maggio 2020 da Corriere.it. «Ti senti come se stessi deludendo qualcuno, come i tuoi genitori. Perché non vuoi che i tuoi genitori ti vedano mentre soffri». Comincia così il commovente racconto di Gianluca Vialli e della sua battaglia contro il cancro in una lunga intervista al Guardian. «Sono stato sempre visto come un duro, un duro con tanta determinazione — prosegue l’ex attaccante —. E non esserlo mi ha messo a disagio. Non volevo sembrare un povero ragazzo malato. È anche un peso. La gente ti chiamerà per dimostrarti che ti pensa ma anziché passare del tempo al telefono avevo bisogno di tempo per me stesso. E il giorno in cui cominci a vedere le cose diversamente, la tua vita cambia. Adesso mostro le mie paure con orgoglio, sono il simbolo di quello che ho passato. Adesso capisco che quando voglio piangere, piango, senza vergogna. Cerco di non piangere davanti alle persone molto emotive, di farlo quando sono da solo. Ma se mi trovo in un posto dove sono a mio agio, non trattengo niente dentro. Mi lascio andare e poi mi sento meglio». «Nel mio caso — confessa ancora Vialli — piangevo perché avevo paura dell’ignoto, non sapevo se sarei stato bene o no. Non ho mai pensato di dover combattere il cancro, perché sarebbe stato un nemico troppo grande e potente. L’ho presa come un viaggio con un compagno indesiderato nella speranza che si annoiasse e morisse prima di me». Lo scorso dicembre i medici, dopo la ricaduta avuta qualche mese prima, gli hanno comunicato che il tumore non c’è più ma Vialli sa che potrebbe non essere finita qui. «Sfortunatamente queste cose hanno la tendenza a tornare. Ma al momento sto bene e spero continui a essere così finché morirò di vecchiaia». L’ex attaccante parla anche di coronavirus e della possibilità che si torni a giocare. «In tempo di lutto, e quando passi situazioni difficili come queste, alcuni psicologi dicono che dovremmo provare a fare le cose che ci danno piacere senza sentirci in colpa. Per cui il calcio può essere uno strumento per dare alle persone un po’ di sollievo. Detto questo, posso solo immaginare come si sentono i calciatori e non saprei cosa dire loro. Se fossi ancora un calciatore, probabilmente troverei difficile concentrarmi sul calcio perché c’è ancora gente che muore». Infine una battuta sul suo nuovo ruolo in Figc. «Ho iniziato questo nuovo capitolo come capo delegazione della Nazionale. Sono felice di essere finito a lavorare col mio migliore amico. È grandioso poter aiutare Roberto (Mancini, ndr) e adoro provare a ispirare i giocatori». Infine un pensiero alla sua città natale, Cremona. «Per me è stato difficile perché vengo da Cremona, la città probabilmente con il più alto tasso di mortalità nella regione. In un certo senso sento che dovrei essere lì con la mia gente. Mi sono sentito così male a leggere che le persone morivano in ospedale senza i loro cari. È una tragedia». È il pensiero alla sua città natale di Gianluca Vialli, l’ex attaccante di Sampdoria, Juventus e Chelsea al Guardian. «Stare a casa a Chelsea non è un problema. Posso lavorare da remoto. Posso andare a piedi al parco. Mia moglie e le mie figlie sono qui ed è bello stare con loro. A Londra conosco solo due persone che sono positive. Grazie a Dio non ho perso nessuno che conosco in questo paese. Ma a Cremona è diverso dove ci sono solo 80.000 persone. Londra ha sei milioni di persone. Lo senti di più in un posto più piccolo», conclude.

Roberto Mancini: «Vialli, Mihajlovic e la malattia. Ci insegnano il coraggio». Pubblicato venerdì, 13 marzo 2020 su Corriere.it da Manuela Croci. «Posso dirlo? Al telefono cazzeggiavamo. La parola giusta è questa». La voce è quella di Roberto Mancini, 55 anni, bandiera (quando ancora esistevano le bandiere) della Sampdoria, allenatore vincente di Lazio, Inter, Fiorentina, Manchester City e attuale commissario tecnico della Nazionale italiana di calcio. Con chi “cazzeggiava” il Mancio? La voce che arrivava dal cellulare era quella del suo gemello calcistico Gianluca Vialli che nel 2017 ha scoperto di avere un tumore. «Siamo sempre stati legati da una forte amicizia. Abbiamo parlato della malattia diverse volte, subito all’inizio. Poi è arrivato un momento in cui, quando ci sentivamo al telefono, anche nei momenti più complicati, cercavamo quasi di sdrammatizzare, di... “cazzeggiare”, appunto. La nostra amicizia mi imponeva questo, sentivo di avere il compito non solo di stargli vicino e ma di dargli un po’ di sollievo. Ora per fortuna sta meglio, sia fisicamente sia come umore. L’impegno con la Nazionale gli farà bene».

Avete ricostituito la coppia d’oro di fine Anni 80.

«L’idea di scegliere Luca come capo delegazione degli Azzurri è stata del presidente Gravina. Quando me ne ha parlato, non potevo che esserne felice. Il rapporto che c’è tra noi, ma in realtà tra tutti quelli che hanno vinto con la Samp del 1990-1991, è molto solido. Crescere insieme, anche se non ti vedi spesso, è una cosa che ti lega per sempre».

Sono passati quasi trent’anni da quando i blucerchiati, spinti dai gemelli del gol Vialli&Mancini, hanno conquistato il loro primo (e unico) scudetto di Serie A. Cosa aveva quella squadra di speciale?

«Il presidente Mantovani. È stato lui l’artefice di tutto. Ha costruito una squadra comprando giovani talenti italiani che sono diventati grandi migliorando insieme, giorno dopo giorno. Ha creato un gruppo straordinario sapendo aspettare, lasciandoci il tempo di maturare, dandoci sempre fiducia. L’unico rammarico che ancora oggi mi porto dentro è il fatto di non aver stretto tra le mani la Coppa dei Campioni».

Gianluca Vialli non è l’unica persona con cui ha condiviso campi e spogliatoi che sta affrontando un grave problema di salute. Lo scorso settembre Mihajlovic ha annunciato di avere la leucemia.

«Io e Sinisa abbiamo giocato insieme alla Samp, alla Lazio. Sono stato il suo mister alla Lazio e all’Inter, poi lui è stato il mio secondo quando allenavo i nerazzurri. L’ho visto di recente, sta meglio. Certo il percorso è lungo e faticoso».

Cosa le è rimasto della forza che Vialli e Mihajlovic hanno dimostrato nell’affrontare la malattia?

«Che Luca e Sinisa fossero forti l’ho sempre saputo, li conosco troppo bene. Mi hanno insegnato che bisogna godersi la vita, essere persone positive perché tutto può cambiare dalla sera alla mattina, com’è successo a loro. Sono insegnamenti che dobbiamo cogliere e mettere in pratica in ogni momento: la vita è troppo breve per arrabbiarsi o essere cattivi con sé stessi e gli altri».

A proposito di Sinisa e del Bologna: è vero che una volta si è perso allo stadio Dall’Ara?

«Sì. Ero un bambino. Tifavo per la Juventus e mio padre mi portava spesso a vedere le partite. Una volta alla fine di Bologna-Juve, era il ‘72’73, al momento di uscire mi sono perso... dopo un primo momento di smarrimento, mi sono fatto coraggio e ho cercato mio padre. Sono ancora orgoglioso di non essermi fatto prendere dal panico».

Continuiamo a parlare di bambini. Sul suo profilo Whatsapp ci sono tre faccine piccole.

«Sono i miei figli. Vorrei averli ancora così, congelare il tempo».

Quanti anni hanno adesso?

«Filippo 30, Andrea 28, Camilla 23».

I due ragazzi hanno giocato a calcio, senza seguire fino in fondo le orme del papà. Le spiace?

«Più che altro mi avrebbe fatto piacere per loro perché giocare a calcio ti dà l’opportunità di divertirti e fare come professione ciò che ti diverte credo sia la cosa più bella».

Mi correggo, la mia domanda non era completa: il successo delle Azzurre guidate da Milena Bartolini mi suggerisce di chiederle se anche sua figlia ha tentato la carriera da calciatrice.

«No, Camilla non ha mai giocato. Segue solo il papà».

Come giudica l’esplosione del nostro calcio femminile?

«Mi fa piacere che le Azzurre siano migliorate così tanto. Hanno fatto un grande Mondiale andando oltre le aspettative. Credo che cresceranno ancora, il campionato è molto competitivo, sarà uno stimolo».

Tornando a Camilla, la vediamo in queste pagine piccola sulle sue spalle e la ricordiamo all’Ethiad Stadium quando ha vinto la Premier da allenatore del Manchester City insieme a papà Aldo, mamma Marianna e sua sorella Stefania.

«La famiglia è fondamentale».

Cosa le viene in mente ripensando agli ultimi minuti di City-QPR? Una vittoria soffertissima.

«Ho un bellissimo ricordo, vincere la Premier significa conquistare uno dei campionati più importanti del mondo. Quel City l’avevamo costruito con attenzione, ha vinto prima del previsto».

L’attuale allenatore Pep Guardiola ancora la ringrazia. È vero che la mattina era stato a messa?

«La domenica vado sempre. In città c’era un prete che arrivava dal Vaticano. Lì non sono tanti, una fortuna».

Che rapporto ha con la fede?

«Sono credente, cattolico. Frequento la messa con costanza come tutte le persone che hanno fede».

È andato a Medjugorje: che esperienza è stata?

«Molto intensa. Ci sono stato più volte. Ho conosciuto i volontari, ho parlato con loro. Sono stati giorni emotivamente molto intensi e sereni».

Dove ha cominciato a giocare?

«In oratorio. Era attaccato a casa: mangiavo e correvo lì».

Quanti anni aveva?

«Cinque, sei. Praticamente rincorro un pallone da sempre».

Per anni gli oratori sono stati il primo contatto con il mondo del calcio, palestre per aspiranti campioni. È ancora così o adesso bisogna per forza transitare in una scuola calcio per sognare di diventare professionisti?

«Le scuole calcio oggi sono un’opportunità in più perché hanno persone con tanta passione e competenza che seguono e fanno crescere i ragazzi. Ai miei tempi questa possibilità non c’era. Giocavo all’oratorio perché lì c’era una squadra con un settore giovanile che arrivava fino alla seconda categoria. Sono rimasto a Jesi fino a 13 anni e mezzo, poi sono andato al Bologna. Quello che è cambiato veramente però è che una volta le squadre professionistiche usavano girare l’Italia per fare provini, scegliendo i giocatori migliori di ogni provincia».

Oggi la selezione viene demandata principalmente alle scuole calcio e i ragazzi arrivano in squadre di primo piano con qualche anno in più sulle spalle. La sua generazione ha iniziato prima.

«Io ero giovanissimo, ho esordito in Serie A a 16 anni».

È un problema per la Nazionale?

«In un certo senso, sì. Il problema maggiore è che oggi nella nostra Serie A i giocatori italiani non sono molti, decisamente troppo pochi rispetto a una volta e questo incide anche sul mio lavoro di ct».

Eccoci al calcio di oggi. Lazio-Inter, lei le conosce bene entrambe: chi è la vera anti-Juve?

«Adesso si è creato un po’ di caos, con tutte queste partite rinviate. Bisogna vedere quando si recupereranno tutti gli incontri. Per il momento credo sia una lotta a tre. Mancano 12-13 giornate alla fine, è presto per dire chi vincerà».

Da allenatore con Lazio, Inter e Fiorentina ha conquistato la Coppa Italia. Lo scorso 28 gennaio era a San Siro per i quarti tra Milan e Torino e in quell’occasione c’è stato l’omaggio a Kobe Bryant, grande tifoso rossonero morto tragicamente due giorni prima. Esiste nel calcio italiano un Kobe Bryant? Un giocatore trasversale in grado di appassionare tutti?

«Bryant è stato uno dei giocatori più forti, ha fatto la storia del basket. Aveva tifosi non solo tra i Lakers, ma in tutto il mondo. Con l’Italia poi c’era un rapporto speciale, il fatto che parlasse la nostra lingua e ricordava con affetto il tempo trascorso nel nostro Paese ha reso ancora più forte il legame e, di conseguenza, l’eco della sua morte. In Italia non so, oggi è difficile trovare un calciatore così carismatico e trasversale. I giocatori italiani sono pochi al momento, speriamo di trovarne uno».

Magari per l’Europeo. Un Paolo Rossi, un Totò Schillaci... uno che ci faccia urlare a squarciagola diventando una bandiera. A proposito di campioni, c’è qualcuno che le sarebbe piaciuto allenare ma non c’è stata l’occasione?

«Ho allenato così tanti calciatori bravi che non ho rimpianti».

Due settimane fa, Marco van Basten proprio sulle pagine di 7 diceva che tra Cristiano Ronaldo e Messi non ha dubbi, il migliore è l’argentino: cosa ne pensa?

«Sono i due fuoriclasse assoluti di questi anni. Chi è più bravo è soggettivo. Certo, Messi è un giocatore nato, come Maradona o Pelé, non aveva bisogno di molto per migliorarsi. Cristiano Ronaldo invece ha dovuto lavorare per diventare quello che è, per essere uno dei più forti e di questo gli va dato merito».

Chiudiamo con la Nazionale che nel 2018 era sprofondata al 21° posto nel ranking Fifa. Un anno dopo, grazie alla cura Mancini, l’Italia è risalita al 13° posto portando a casa un bottino di dieci vittorie su dieci partite. Com’è avvenuta questa svolta?

«Il segreto è aver trovato ragazzi giovani che volevano costruire qualcosa di speciale riportando la Nazionale al posto che le spetta».

Il prossimo impegno sul campo dovrebbe essere l’amichevole del 27 marzo a Wembley.

«Niente condizionale: si gioca, si gioca. Voglio essere ottimista».

Affronterete l’Inghilterra che ha chiuso l’ultimo Mondiale al quarto posto: che partita sarà?

«Una partita dura. Così come difficile sarà anche la successiva contro la Germania, entrambe le volte fuori casa. È stata una scelta, volevamo incontri pieni di insidie perché le risposte che hai dopo 90 minuti complicati sono molto utili in preparazione di un appuntamento importante come l’Europeo».

Qual è il ct che più l’ha ispirata?

«L’Italia ha sempre avuto grandi ct, anche quando non sono riusciti a vincere. Allenare la Nazionale non è semplice, basta sbagliare una partita e devi aspettare due anni per tornare sul palco internazionale. La squadra del 1982 di Bearzot è quella per cui ho fatto un tifo sfrenato, ero giovane. Ma non posso dimenticare Sacchi, che ha portato qualcosa di nuovo, e Lippi che è riuscito a rimettere insieme tantissimi giocatori bravi e a farne una squadra».

A proposito di Bearzot: una volta l’ha rimandata a casa?

«E senza convocarmi per un po’. Mi ero allontanato dal ritiro, eravamo ragazzi e lui sentiva di essere responsabile nei nostri confronti».

Allora possiamo dire che anche lei è stato un po’ “tremendo” da giovane, quindi anche Balotelli può sperare in un ritorno... Sorride.

«Dipende solo da Mario e questo vale per lui come per tutti gli altri giocatori. Mancano quattro mesi all’Europeo. Diciamo che deve fare un po’ di più di quello che ha fatto fino ad oggi, questo è certo». Roberto Mancini solleva Gianluca Vialli durante la finale di Coppa dei Campioni del 1992 tra Balcellona e Sampdoria, partita vinta 2-0 dai catalani

La vita — Roberto Mancini è nato a Jesi il 27 novembre 1964. Ha tre figli, Filippo (30), Andrea (28) e Camilla (23) avuti dalla prima moglie Federica Morelli. Nel 2018 ha sposato Silvia Fortini.

Giocatore — Ha esordito in Serie A a 16 anni con il Bologna. Dal 1982 al 1997 ha giocato nella Sampdoria, poi è passato alla Lazio (1997-2000) per chiudere con gli inglesi del Leicester City. Ha conquistato 6 Coppe Italia, 2 Coppe delle Coppe, 2 scudetti (Samp e Lazio), 2 Supercoppe italiane e una Supercoppa UEFA. Con la Nazionale è arrivato terzo a Italia 1990.

Allenatore — Ha allenato Lazio, Fiorentina, Inter, Manchester City, Galatasaray, Zenit San Pietroburgo conquistando 4 Coppe Italia, 2 Supercoppe italiane, 3 scudetti, un campionato inglese. Dal 14 maggio 2018 è commissario tecnico della Nazionale italiana

Maurizio Crosetti per la Repubblica il 13 aprile 2020. È bella la voce di Gianluca Vialli mentre ride e racconta cose vive. Proprio adesso, in questo tempo di buio e paura. Entrano nel telefono anche le voci delle sue bambine. Luca è a Londra ma vorrebbe essere qui, con noi. Ed è anche nel televisore, con la maglia della Juve e della Nazionale: sono le immagini delle vecchie partite trasmesse a rullo dai vari canali per tenerci contenti, per non farci dimenticare la meraviglia dello sport. Cose che aiutano a resistere.

Luca, "come stai" è diventata d' improvviso una domanda diversa.

«È vero, non è più soltanto un convenevole. Abbiamo bisogno di sapere se le persone stanno ancora bene».

E lei come sta?

«Bene, grazie. A dicembre ho concluso diciassette mesi di chemioterapia, un ciclo di otto mesi e un altro di nove. È stata dura, anche per uno tosto come me. Dura, dal punto di vista fisico e mentale. Gli esami non hanno evidenziato segni di malattia. Sono felice, anche se lo dico sottovoce».

Cosa significa ritrovare la salute?

«Significa vedersi di nuovo bene allo specchio, guardare i peli che ricrescono, non doversi più disegnare le sopracciglia con la matita. In questo momento, può sembrare strano ma mi sento quasi fortunato rispetto a tanta gente».

La sua Lombardia è ferita.

«Provo un senso di colpa per non essere lì, anche se le mie condizioni non lo avrebbero permesso. Penso alle persone portate in ospedale e morte sole, ai loro parenti costretti a casa, ai funerali non celebrati: è terribile. Una prova estrema, uno strazio. E resteranno enormi cicatrici affettive, morali ed economiche. La vita di ognuno cambierà e per tantissima gente è già cambiata, purtroppo».

Come si combatte la paura di morire?

«Pensando ai desideri, concentrandosi su quanto ci piace davvero, e su quanto vogliamo che ogni cosa ritorni. Non bisogna sentirsi egoisti e non si deve permettere al cervello di andare da un' altra parte».

Molti parlano di battaglia, di guerra.

«Nel mio caso è un viaggio. Un percorso di introspezione, un'opportunità. La malattia è un'esperienza di cui avrei fatto volentieri a meno, però è successo e allora cerco di metterla a frutto».

Si diventa migliori?

«Si diventa quello che si è».

Questa malattia mondiale ci obbliga a cercare spazi dentro di noi.

«È una prova tremenda ma non certo inutile. In questo enorme silenzio che ci circonda, quasi un' atmosfera zen, c' è qualcosa di orientale. E si tornano a sentire gli uccellini persino in una megalopoli come Londra. Si passa più tempo con le persone che amiamo. Io leggo molto, parlo con gli amici e sto anche imparando a scrivere al computer con dieci dita».

Cosa significa veramente, per milioni di persone, dover rinunciare allo sport?

«Lo capiremo quando tutto tornerà.

E quando la bellezza dello sport e del calcio, le emozioni e i ricordi ci aiuteranno a tornare a vivere, vivere pienamente. Sarà un esercizio di piacere e bellezza: sarà stupendo. E dovremo dare più spazio alla solidarietà: non recinti più alti, ma tavoli più lunghi. Le società di calcio dovranno essere anche piattaforme di sviluppo sociale, un luogo condiviso dal quale ripartire».

Non pensa che abbiamo trascurato per troppo tempo il senso e il significato dei nostri corpi, estetica a parte?

«Sì, è così. Vorrei che la famosa frase "quello che conta è la salute" diventasse davvero centrale. Vorrei che non accettassimo più nessun taglio alla sanità pubblica. Vorrei che non crollassero più i ponti, e che la sicurezza delle persone diventasse prioritaria. Vorrei che ci ribellassimo a queste città piene di smog che uccide: e qualcuno aveva addirittura preso in giro quella magnifica ragazzina, Greta».

Abbiamo imparato ad apprezzare i medici e gli infermieri. Credo che lei lo avesse già fatto.

«Sono i mestieri della vera empatia. Persone che entrano nella testa di chi soffre, persone generose, disponibili, dotate di incredibile forza fisica e psichica. Non dimentichiamolo, quando tutto sarà finito».

Lo sa che in tivù passano anche le sue vecchie partite?

«Ne sono felice, spero di poter dare un piccolo aiuto emotivo a qualcuno. La bellezza del calcio è anche questo, in fondo è senza tempo. Succede anche a me quando rivedo le partite in bianco e nero dei miei idoli».

L' altra sera, per esempio c' era lei che alzava la Coppa dei Campioni.

«Era la mia ultima gara con la Juve, volevo togliermi l' ossessione: nell' ultima con la Sampdoria, il trofeo l' avevo perso. Io so cosa proverebbero Chiellini, Buffon e Bonucci se ci riuscissero».

È pesante, la coppa? Non metaforicamente.

«Abbastanza, ma in quel momento la devi trattenere perché alzandola non voli via. Diventa una piuma, un palloncino».

Tra la Juve e la Champions ci si è messo pure il virus. Le sue mani resteranno le ultime ad averla sollevata?

«Da anni mi auguro che non sia così. Ai miei tempi, però, era più difficile portarla a casa: il primo anno dovevi vincere lo scudetto, e quello dopo la Coppa».

Ne parla come se fossero passati dieci minuti, non ventiquattro anni.

«Eravamo più giovani, e questo rende tutto più bello. Ma quel brivido è lo stesso, è intatto: la vertigine di una cosa fantastica che non finisce mai».

Se fosse ancora bianconero, lo vorrebbe uno scudetto a tavolino?

«No, non questo. Non dopo quanto sta succedendo. Se si potrà chiudere la stagione in qualche modo, in totale sicurezza, bene. Altrimenti, meglio non assegnare il titolo».

Non sembra ci sia grande unità di intenti nel calcio italiano.

«Si dovrebbero dimenticare gli interessi di parte e gli egoismi, anche se capisco i presidenti alle prese con una crisi mai vista. Qualcuno per forza di cose ci rimetterà. Un errore da non commettere è la fretta. Si abbia fiducia nelle competenze di quelli che se ne intendono e ci dicono cosa fare: preghiamo che lo sappiano davvero. E si torni in campo solo quando i medici e gli esperti diranno che è possibile, anche se sono io il primo a desiderarlo. Ma nel frattempo occorre un atto di responsabilità generale, al di là dell' emergenza dell' intero sistema».

Che vacillava parecchio già prima della pandemia.

«Purtroppo il calcio italiano dimostra poca capacità di assorbire i colpi, servirebbe maggiore solidità. Anche se, ne sono consapevole, stavolta sarà molto difficile sostenere i conti».

Fa effetto leggere di stipendi tagliati ai calciatori.

«Il sacrificio dovrà essere sostenuto da tutti, non solo dagli atleti. Mi sembra interessante quello che accade qui in Inghilterra, dov' è stato creato un fondo di solidarietà alimentato da una quota dei guadagni dei giocatori: i fondi li distribuiscono loro, direttamente alla sanità pubblica».

Da noi si litiga sui soldi, invece.

«I calciatori inglesi hanno scelto la via della solidarietà perché sanno che il taglio delle loro paghe significa meno tasse: e le tasse si versano per il bene comune, per finanziare i servizi di cui una collettività ha bisogno».

Ha sentito che forza, la regina Elisabetta?

«Lei è incredibile: poche e misurate parole, ma quando accade la nazione si alza in piedi e ascolta senza fiatare. Il discorso della Regina è stato per gli inglesi un' iniezione di pura energia, adesso hanno tutti più fiducia».

Il 2020 senza sport significa anche il rinvio degli Europei: meglio o peggio, per gli azzurri?

«Avranno un anno in più per calarsi davvero nel Club Italia, per sentirsi più forti e non voltarsi verso la panchina, cioè verso Roberto, quando le cose si mettono male. Un anno di crescita servirà».

Lei è tornato da poco in azzurro, nel ruolo di team manager che un tempo ricoprì Gigi Riva: che significa per Vialli?

«Moltissimo. Roberto Mancini ha svolto con autorevolezza un lavoro spettacolare, ha preso in mano la squadra in un momento molto delicato, ha portato idee di gioco senza fare cose troppo complicate, ha scelto un gruppo giovane con qualche prezioso veterano e ora si ritrova giocatori che hanno, tutti, quattro caratteristiche essenziali: sono altruisti, coraggiosi, continui e affamati. Il presidente Gravina ha creato l' atmosfera di un vero club. A volte, quando un giocatore ha qualche problema fisico preferisce rimanere con noi in gruppo, e questo conta».

Peccato, però, non poter sfruttare Immobile in stato di grazia.

«Questo sì. Lui metteva dentro tutti i palloni che toccava, mentre Belotti aveva proprio bisogno dell' Europeo per ritrovarsi. Pazienza, aspetteremo un anno. E nell' attesa, ogni azzurro potrà impossessarsi di più del progetto».

La Federcalcio ha deciso di giocare una partita a Bergamo: azzurri contro medici e infermieri.

«Quel giorno sarà un grande giorno».

Anticipazione da Oggi il 18 novembre 2020. «Il primo mese che sono stato insieme a mia moglie non l’ho neanche sfiorata con un dito. M’ero innamorato, non volevo che pensasse che stessi con lei solo per il sesso. Dopo quasi 25 anni di matrimonio e cinque figli so che le devo tutto: se non ci fosse stata lei accanto a me durante la mia battaglia contro la leucemia, non ce l’avrei fatta». In occasione dell’uscita della sua autobiografia La partita della vita (Solferino) Sinisa Mihajlovic, ex calciatore e allenatore del Bologna, ha concesso una lunga intervista al settimanale OGGI, in edicola da domani, in cui racconta del suo amore per la moglie Arianna Rapaccioni, di sé e di come l’ha cambiato la malattia. E svela quali sono i suoi rapporti col primogenito Marko, avuto da una relazione giovanile: «Con lui sono stato un padre diverso, e mi dispiace. Non lo sento da un anno. Gli avevo chiesto di prendersi più responsabilità, non ne è stato capace. Mi ha chiamato, ma non ho risposto. Lo chiamerò io quando sarò pronto. Quando qualcuno mi delude, mi serve tempo».  «Il cancro mi ha reso un uomo migliore di prima, o almeno lo spero, anche perché peggio non si poteva essere. In ospedale ho pianto spesso, ormai sono un piagnone… », confida Mihajlovic a Oggi. Quanto alle accuse di maschilismo, Miahjlovic lancia nella sua intervista a Oggi una dichiarazione sorprendente: «Il calcio femminile mi piace, lo seguo. Ci sono calciatrici più brave e intelligenti di certi maschi in serie A».

Estratto dell’articolo di Emilio Marrese per repubblica.it il 31 gennaio 2023.

Un duro sfogo di Arianna Rapaccioni, vedova di Sinisa Mihajlovic, sui social. "Pensano tutti di conoscere le cose private della mia famiglia - scrive in un post su Instagram pubblicando una posa imbronciata - …. Parlano, rilasciano dichiarazioni (false), interviste sui giornali, senza sapere come sono andate esattamente le cose! Esigo silenzio e rispetto. Grazie".

 (…)

Nei giorni scorsi il giornalista-conduttore Massimo Giletti, alla presentazione del suo libro, aveva parlato della morte dell'ex allenatore del Bologna con un retroscena che non si esclude possa aver suscitato la collera di Arianna. "Prima che lui morisse - ha raccontato il presentatore di "Non è l'Arena", noto tifoso juventino - sono andato a trovarlo. Si è detto che il Bologna avesse fatto una cosa brutta a mandarlo via. In pochi sapevano quello che stava vivendo.

 Lui non sapeva, perché sua moglie non ha voluto dirglielo, e non gliel’han voluto dire neanche i medici del Bologna, che però dovevano pensare alla società. A volte scriviamo cose come 'vigliacchi', e invece era una forma di autotutela. L’hanno voluto licenziare perché non c’erano risultati buoni, invece era un modo per dire 'gli ultimi due tre-mesi della tua vita vivili con tua moglie e i figli', visto che non arrivava a Natale. Gliel’hanno imposto così, poi alla fine ha capito”.

E' dunque presumibile che alcuni passaggi delle dichiarazioni di Giletti (in particolare "la moglie non ha voluto dirglielo") siano stati vissuti come un'indebita intrusione nel privato inaccettabile per la signora Mihajlovic che, sentitasi tirata direttamente in ballo, abbia così reagito via social.

IL TORINO.

Gli arabi, la beneficenza, la gentilezza. Serena: "Comprai una Ferrari, l'ho rivenduta subito". Dino Bondavalli il 23 Ottobre 2023 su Il Giornale.

L'ex attaccante, oggi commentatore di Sky, racconta di come i soldi arabi stiano spaccando il mercato del calcio e di come i genitori dei calciatori più giovani vadano educati

“Ci sono, ma ti chiedo ancora un attimo. Sono entrato nell’Area B di Milano con un’auto diesel del 2015 e sto cercando di attivare uno dei 5 ingressi bonus a cui si ha diritto nell’arco dell’anno, solo che non riesco ad attivare il profilo sul portale del Comune”.

È una risposta che non ti aspetti quella con cui Aldo Serena, ex attaccante della nazionale, oltre che di Inter, Milan, Juventus e Torino, solo per citare le squadre più blasonate, esordisce al telefono all’ora fissata per l’intervista. E in questa risposta c’è tutta la semplicità di un personaggio che in campo avrà anche sgomitato per farsi valere contro i difensori avversari, ma che fuori dal rettangolo di gioco ha fatto della gentilezza, educazione, sensibilità e low profile la propria cifra stilistica.

Nato nel 1960 a Montebelluna, in provincia di Treviso, Serena oggi è uno dei più autorevoli e stimati commentatori tecnici di Sky, dopo esserlo stato per 27 anni di Mediaset. Ma, pur avendo fatto delle telecronache calcistiche la propria professione da quasi tre decenni, continua a vivere questa attività “come un divertimento retribuito, perché in fin dei conti commentare le partite ti dà l’occasione di girare il mondo e vedere tante cose interessanti”. Nell’intervista in esclusiva a ilGiornale.it parla di carriera, soldi, investimenti e… di rispetto per il prossimo.

Partiamo dalla fine. Cosa ne pensi dell’ultima sessione di calciomercato, nella quale tantissimi calciatori (e allenatori) hanno scelto di trasferirsi in Arabia Saudita richiamati da stipendi fanta-milionari?

"Gli arabi stanno spaccando il mercato. Prima c’era la Premier League, con potenzialità che altri mercati non hanno per cui società in bassa classifica possono fare concorrenza ai nostri top club per acquistare i calciatori, ma quest’anno con l’arrivo dell’Arabia si è entrati in un’altra dimensione. Con questo salto il mondo del calcio subirà una rivoluzione, ma finirà anche per frammentarsi molto."

Ai tuoi tempi come eravate messi a stipendi?

"All’inizio non si guadagnava molto. Io nel 1978 guadagnavo 150 mila lire al mese con il primo contratto all’Inter, più vitto e alloggio. In quegli anni il salto di qualità c’è stato con la vittoria dei mondiali in Spagna nel 1982 e con l’apertura della Serie A agli stranieri. Dopo il 1982 la Serie A divenne il riferimento mondiale e un calciatore medio cominciò a guadagnare tre, quattro o cinque volte più di quanto guadagnava prima."

È per questo che hai cambiato tante squadre? Per guadagnare di più?

"In realtà io ho cominciato a guadagnare bene dopo il 1982, quando cominciai a rimanere stabilmente nelle grandi squadre e il mio stipendio cresceva di pari passo con il mio rendimento. Quanto ai tanti cambi di maglia, all’epoca i calciatori non avevano autonomia. Fino a quando non c’è stato lo svincolo, l’inter, che era proprietaria del mio cartellino, disponeva di darmi in prestito per poi riprendermi."

Avresti preferito non cambiare?

"Continuare a cambiare era una cosa per certi versi un po’ esasperante, tanto più che a me sarebbe piaciuto diventare il riferimento di una squadra. Tuttavia, questo continuo andare e tornare, soprattutto nei primi anni, mi ha aiutato a forgiare il carattere e a superare la mia timidezza. Inoltre mi ha dato l’occasione di conoscere personaggi di altissima caratura come Gianni Agnelli, Silvio Berlusconi ed Ernesto Pellegrini, solo per citarne alcuni."

E alla fine i soldi sono arrivati…

"Non mi sono mai lamentato, anche perché non avrei mai pensato di fare la vita che ho fatto partendo dal basso: i miei avevano un’aziendina artigianale che faceva scarponi da montagna e io fin da piccolo ho lavorato con loro. Non avrei mai sognato di fare una vita così. I soldi, comunque non sono mai stati il primo pensiero, tanto che non ho mai avuto un procuratore che ottimizzasse le trattative per me: mi interessava molto il rapporto personale con i dirigenti e, siccome ero un giocatore con determinate caratteristiche e cambiavo spesso società, ci tenevo a presentarmi in maniera corretta."

E come è andata con i primi stipendi? Ti sei tolto qualche sfizio?

"In realtà sono un prodotto della mia generazione e della mia epoca, per cui sono un lavoratore risparmioso. Il primo acquisto importante è stata l’auto, a 20 anni, quando giocavo nel Como. Mi ero preso una Golf GLD, facendo bene i conti di quanto avrebbe impattato il superbollo, che all’epoca ancora penalizzava le auto diesel."

Nessun acquisto folle? Avrai fatto dei “colpi di testa”, per citare il titolo della biografia (I miei colpi di testa, Ndr) scritta con il giornalista Franco Vanni e uscita lo scorso anno…

"In effetti avevo acquistato una Ferrari, ma l’ho venduta subito dopo averla ritirata perché il suo prezzo nel frattempo era salito così tanto che sarebbe stato una follia non rivenderla."

Come hai investito i tuoi guadagni?

"Avevo un socio con il quale abbiamo spesso fatto operazioni immobiliari, sempre con molto raziocinio. Poi sono dell’idea che sia giusto differenziare, per spalmare il rischio in diversi ambiti, perché anche nell’immobiliare si perdono soldi."

Il calcio può essere un investimento?

"Ad alti livelli il business del calcio è difficile che garantisca profitti. Tuttavia, se gestito con acume, intelligenza e lungimiranza come fanno Udinese, Empoli, Lecce, Atalanta e altre società, lo spazio per avere bilanci positivi c’è. Si può fare, quindi, ma bisogna limitare le proprie ambizioni, perché con i numeri vertiginosi del calcio riuscire rimanere nelle righe è difficile."

Torniamo al libro: cosa ti ha spinto a scrivere una biografia?

"Era già qualche anno che degli editori mi chiedevano di pubblicare, ma non mi sentivo pronto. Poi ho deciso di farlo per sdebitarmi con Milano che, insieme a Montebelluna, è il posto in cui ho vissuto di più: tutto il mio compenso verrà devoluto all’Istituto dei tumori di Milano. L’altro motivo è che mio figlio adolescente da qualche anno gioca a calcio e, frequentando i campi delle giovanili mi sono reso conto che più che educare i figli, bisogna educare i genitori."

In che senso?

"Oggi ci sono ragazzini di 9-10 anni messi sotto pressione dai genitori perché devono arrivare al successo. Intorno ai campi da calcio giovanili si vedono delle scene tremende. Per questo ho voluto scrivere di un’altra epoca in cui era la passione a guidare una scelta del genere e non il fatto di poter diventare ricchi e famosi. Di fatto il calcio è stato un pretesto per parlare di emozioni e del rapporto con gli altri."

La tragedia del grande Torino, il primo lutto collettivo dell’Italia. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 5 maggio 2023. 

Alle 17,05 del 4 maggio 2023, Rai Storia (ora su Rai Play) ha trasmesso «Il Grande Torino . Romanzo di una squadra» di Alessandro Chiappetta 

Il 4 maggio 1949, alle 9.52, l’aereo del Torino lascia il Portogallo. Dopo una sosta tecnica a Barcellona, il G-212 Fiat punta dritto sull’Italia. Il tempo è pessimo; spira un vento di traverso e piove. Scartati gli scali di Milano e Genova, l’equipaggio decide di atterrare a Torino. Il radiogoniometrista del campo di volo dell’Aeronautica riceve un messaggio dall’aereo: «Voliamo al di sotto delle nubi, quota 2000 metri. Tra venti minuti saremo a Torino». Dal campo di volo parte l’ultimo comunicato: «Nebulosità intensa, raffiche di pioggia, visibilità scarsa, nubi 500 metri». Alle 17.05 il disastro. 31 vittime: 18 calciatori, dirigenti e tecnici, i membri dell’equipaggio e 3 giornalisti.

Alle 17,05 del 4 maggio 2023, Rai Storia (ora su Rai Play) ha trasmesso «Il Grande Torino. Romanzo di una squadra» di Alessandro Chiappetta. A raccontare le storie dei giocatori e ricordare le gesta del Grande Torino, sono Guido Vandone e Umberto Motto, i ragazzi delle giovanili che allora presero il posto dei «grandi» nelle ultime quattro giornate di campionato. E poi il giornalista Giampaolo Ormezzano, lo storico Mauro Canali, lo scrittore Giuseppe Culicchia e i famigliari dei calciatori, tra cui Susanna Egri, figlia dell’allenatore Egri Erbstein, Franco Ossola, Pierluigi Gabetto, e Sandro Mazzola, ex calciatore e figlio del capitano della squadra, Valentino.

Se il ciclismo con Gino Bartali e Fausto Coppi e il Torino rappresentano in quegli anni il simbolo della rinascita del Paese, una ritrovata voglia di esistere, Superga diventa il primo lutto collettivo dell’Italia moderna (le immagini del funerale mettono ancora oggi i brividi, quella lunga teoria di camion con sopra le bare) e la magica formazione un mantra da ripetere come un’infatuazione per chi ama il calcio: bacigalupo/ballarin/maroso/grezar/rigamonti/castigliano/menti/loik/gabetto/mazzola/ossola… Dopo il Grande Torino, comincia il calcio senza eroi, dove le partite non accadono più esemplarmente, ma si raccontano. Ben presto il calcio sarà preda della radio e poi della televisione. Indro Montanelli parlò allora di squadra non distrutta ma in eterna «trasferta» e mai immagine è stata più appropriata.

Il battito di Gigi Meroni, la farfalla del calcio italiano. Stravagante allo spasmo, dissacrante, imprendibile sul campo: Meroni è stato al contempo oggetto di culto pop e calciatore sontuoso. Paolo Lazzari il 10 Luglio 2023 su Il Giornale.

E pensare che per primo lavoro si era messo a disegnare cravatte di seta. Gli veniva giù anche bene, ma in fondo sapeva di essere destinato a tutt'altro. L'aveva già capito dai primi calci nel cortile di casa, a Como, la mamma che lo scrutava apprensiva dal terrazzo, papà che li aveva lasciati che lui aveva appena fatto due anni. Poi erano arrivate le partitelle all'oratorio, le prime segnalazioni, il primo calcio che sgorgava dentro la vita di questo talento grezzo, che conteneva troppe cose per limitarsi a oscillare tra le linee di gesso. Gigi Meroni era così: estro purissimo, dentro e fuori dal rettangolo verde.

Giocava ala, Gigi. Numero sette sulle spalle, quello dei cavalli pazzi e dei predestinati. Lo stesso che indossava anche George Best, al quale lo legava una qual certa somiglianza, complice il capello lungo, la peluria in volto volutamente trasandata e, certamente, l'esasperata - ma funzionale - attitudine dribblomane. Un giorno fanno un'amichevole tra Como, dove gioca lui, e Genoa. Meroni fa impazzire i rossoblu. Il fatto è che non lo prendi mica mai. Sottile, rapido, capace di cambi di direzione che mandano gli avversari a conoscere il terreno. I dirigenti del Grifone confabulano subito fitto. Certo che va preso subito, questo qua.

Da quelle parti irradia più della lanterna. Si impone come cardine imprescindibile della squadra allenata da Benjamin Santos, sollevandola in campionato, trascinandola in coppa delle Alpi. La gente lo adora per quelle giocate salvifiche e telluriche, per quel suo saper fabbricare emozioni, che poi è il tratto distintivo riservato agli artisti. Lui fluttua per il campo leggero e inafferrabile. Non a caso gli affibbierenno poi il soprannome più aderente: "La farfalla". Eppoi c'è dell'altro. Il giovane Meroni fende gli anni Sessanta italiani con una verve anticonvenzionale idolatrata da alcuni e detestata da altri. La chiesa lo definirà un peccatore seriale. A tenere banco sono specialmente le sue vicende notturne. Quel suo intrattenersi con donne sposate. La tendenza disarmante a rompere gli schemi costruiti dai benpensati. Per dire: Gigi, immagine indelebile, se ne va molto a spasso con una gallina tenuta al guinzaglio. Il messaggio è limpido: mia la vita, mia le regole.

Quando passa al Torino di Nereo Rocco, nel 1964, a Genova sgorga una sommossa popolare. Ha soltanto 21 anni. I granata si frugano e sborsano 300 milioni delle vecchie lire. Al fianco di Nestor Combin formerà una delle coppie offensive più intriganti. E sempre, al Toro, confermerà quell'impressione pittorica per cui il tratto è preferibile al quadro completo, il dribbling - a patto che sia suo - alla rete gonfiata. Perché Meroni è un inventore di calcio come pochissimi altri in Europa. Pensa cose che altri non vedono. Allaccia alle azioni. Esegue con quelle cadenze che pensi sempre di contendergli la palla, ma poi non la vedi mai.

Quel battito d'ali si interrompe troppo bruscamente una sera di ottobre del 1967. Maledetta serie di coincidenze che irrompe quando non puoi pensarlo mai. Dopo il match vinto 4-2 contro la Samp non trova le chiavi per rientrare a casa, in corso Re Umberto. Allora decide di andarsene al vicino bar Zambon assieme al grande amico Fabrizio Poletti. Indugiano sulla carreggiata, per attraversare. Fanno un passo indietro, accorgendosi che una macchina viene verso di loro. E una Fiat 124 li colpisce. Gigi viene sbalzato sull'altra carreggiata, dove un'altra macchina lo travolge. L'assurdo intreccio del destino pretende che il tizio alla guida della Fiat sia un giovane tifoso granata di 19 anni, Attilio Romero, di ritorno proprio dalla partita. Abita ad una manciata di numeri civici da Meroni. Molto più tardi diventerà presidente del Torino.

Perdere Gigi a 24 anni. Una botta impossibile da assorbire. Quanto calcio avrebbe ancora progettato. Quanta vita aveva ancora da attraversare, sempre con quello stile lì, personale e irripetibile come un dribbling. Maledetto destino. Come le farfalle: distribuire bellezza per il tempo di un battito d'ala.

L’INTER.

I debiti.

Nicolò Barella.

Mario Bertini.

Mauro Icardi.

Giacinto Facchetti.

Luis Suarez Miramontes.

Bobo Vieri.

Francesco Moriero.

Evaristo Beccalossi.

Simone Inzaghi.

Ronaldo, il Fenomeno.

Mario Balotelli.

Bobo Gori.

Fabio Macellari.

Italo Galbiati.

Alvaro Recoba.

Beppe Marotta.

Walter Zenga.

I Debiti.

Da ilnapolista.it il 9 giugno 2023.

Nel mentre l’Italia “spinge” l’Inter verso la finale di Champions contro il Manchester di sabato sera – Davide contro Golia – all’estero non hanno problemi a ricordare che l’Inter è invero una società più o meno allo sfascio. L’ha fatto El Paìs, lo fa con più vigore il New York Times. Non proprio gli ultimi tabloid di provincia. 

Se il Manchester City è “una macchina perfettamente sintonizzata, costruita appositamente, che funziona senza intoppi, silenziosamente, un irresistibile capolavoro di ingegneria“, “l’Inter, invece, è una squadra che scricchiola, fatica, spinge al limite delle sue capacità, un avatar per una specie di squadra rattoppata e truccata, un club tenuto insieme, in questi giorni, da poco più che bende e speranza“.

E questa è solo la premessa.  Rory Smith e Tariq Panja entrano in profondità nelle crepe nerazzurre. 

Non è solo che Simone Inzaghi guida la rosa più anziana d’Italia“. “Non si tratta semplicemente del fatto che, per ben metà della squadra, questo possa essere l’ultimo lampo in maglia nerazzurra”. “L’Inter ha preoccupazioni ben più gravi per il suo futuro. Nel 2016, Suning, il conglomerato cinese di vendita al dettaglio, ha pagato 307 milioni di dollari per acquisire una partecipazione del 70% nell’Inter, un accordo che era – all’epoca – visto come la punta di diamante dell’investimento improvviso, sontuoso e approvato dallo stato della Cina nel calcio europeo. La nuova proprietà, in teoria, avrebbe finanziato il ritorno dell’Inter in testa alla classifica. La struttura di allenamento della squadra sarebbe stata migliorata. Così anche gli uffici del club. E, naturalmente, sarebbero arrivati giocatori”.

Se l’inizio non è stato affatto disastroso sul campo – sono arrivati uno scudetto e una Coppa Italia -“questo relativo ritorno al successo, tuttavia, ha avuto un costo. L’Inter è il club più indebitato d’Italia; secondo i suoi conti pubblicati più di recente, le sue passività totali ammontano a circa 931 milioni di dollari. Negli ultimi due anni per i quali sono disponibili informazioni, ha registrato perdite per quasi 430 milioni di dollari, portando alla punizione dell’organo di governo del calcio europeo. Ha multato il club di 4 milioni di euro (circa 4,3 milioni di dollari) per aver violato i controlli fiscali lo scorso anno, e ha minacciato una sanzione maggiore (26 milioni di euro, o circa 28 milioni di dollari) se non mettesse in ordine le sue finanze“.

Il New York Times parla di Inter “in una sorta di crisi finanziaria continua“. 

Nel 2021, il conglomerato ha dovuto accettare un piano di salvataggio di 1,36 miliardi di dollari, finanziato in parte dal governo locale, a fronte dei suoi debiti in aumento. Lo stesso anno, ha chiuso definitivamente il suo team cinese, Jiangsu Suning, mesi dopo essersi assicurata il titolo, adducendo la necessità di concentrarsi esclusivamente sulla sua attività principale di vendita al dettaglio. L’anno scorso, Steven Zhang, il figlio di 32 anni del fondatore di Suning che ricopre il ruolo di presidente dell’Inter, è stato ritenuto responsabile per 255 milioni di dollari di debiti e obbligazioni inadempienti in un tribunale di Hong Kong”.

Il racconto continua: il New York Times racconta del prestito di 294 milioni di dollari da Oaktree Capital, dei mesi senza sponsor sulla maglia. “Il prestito di Oaktree scadrà il prossimo maggio. Con gli interessi, la somma totale da rimborsare si aggira intorno ai 375 milioni di dollari. Gli introiti derivanti dall’inaspettata corsa dell’Inter in Champions League aiuteranno sicuramente in questo, ma anche un’altra svendita di talenti. Se il club non può adempiere ai propri obblighi, Suning cederà automaticamente il controllo del club al suo creditore“.

Nel settembre 2022 la banca d’affari boutique Raine – la società che ha gestito la vendita del Chelsea a Todd Boehly e Clearlake e che attualmente sta supervisionando gli sforzi della famiglia Glazer per cedere il Manchester United – ha ottenuto il mandato per cercare una nuova proprietà per l’Inter“. Qualche interessato ma niente di più. Perché “Suning valuta il club circa 1,2 miliardi di dollari, non a caso l’importo esatto che RedBird Capital Partners ha pagato per acquistare il Milan l’anno scorso. Data la realtà della situazione finanziaria dell’Inter, nessuno è stato ancora disposto ad abboccare“. 

In definitiva l’Inter “arriva alla finale di Champions League malconcia e ammaccata, fasciata, invecchiando e sbiadendo. C’è una possibilità – sottile, ma comunque una possibilità – di gloria nell’immediato presente. Il futuro può aspettare un altro giorno“.

Nicolò Barella.

Barella e il dolore per il figlio morto prima della nascita: i casi di Insigne e Locatelli. Paolo Tomaselli su Il Corriere della Sera venerdì 8 dicembre 2023.

Il centrocampista dell’Inter Nicolò Barella non si è tirato indietro nonostante i problemi in gravidanza della moglie. Non è stato l’unico calciatore colpito da un dolore simile

Gioie pubbliche e dolori personali, dietro le quinte, che però si riflettono sul lavoro, come capita a chiunque. Ma se sei un calciatore devi fare i conti anche con le critiche di chi non può sapere cosa stai passando davvero. Nicolò Barella l’aveva detto dopo il bellissimo gol contro il Napoli del 3 dicembre: «Ringrazio tutti i compagni, l’allenatore e lo staff perché mi sono stati vicino in un momento non facile per me». Due giorni fa le parole della moglie Federica Schievenin hanno fatto capire che la gioia del quarto figlio in arrivo è stata legata alla perdita di uno dei due gemellini, che ha riaperto una ferita non ancora rimarginata.

Momenti superati anche grazieall’unione della famiglia e al continuo supporto del marito: «Siete arrivati insieme ed è stata un’emozione immensa. Durante questo viaggio, il più piccolo ci ha lasciato. Per noi che avevamo già vissuto questo dolore atroce, pochi mesi fa, è stato riaprire una ferita. Sono stati mesi difficili, anzi un anno difficilissimo. Con tuo papà vicino è stato tutto un po’ più semplice», si legge. Facendo riferimento, probabilmente, alla perdita di un gemellino e a quelladi un altro bimbo in una gravidanza precedente.

Barella sempre presente

Barella non si è mai tirato indietro, è sempre uno dei più presenti nell’Inter. Nel recente passato alcuni suoi colleghi hanno saltato delle convocazioni, con il club o in azzurro: dietro alla formula dei «problemi personali» c’erano situazioni molto private, poi rivelate in un secondo momento. È successo a Manuel Locatelli e alla moglie Thessa Lacovich nel marzo 2023, perché i giorni dopo la nascita del primogenito Theo sono stati caratterizzati da alcune complicazioni: «Non è stato un periodo facile post parto», ha spiegato la ragazza.

Lorenzo Insigne e Genny Darone hanno vissuto un periodo drammatico a settembre 2022 e le avvisaglie si erano avute per la mancata convocazione del giocatore del Toronto in azzurro. Sui social ci sono tanti messaggi di solidarietà, la famiglia in qualche caso ha anche risposto ringraziando, rompendo così la privacy, fin lì rispettata da tutti.

Alvaro Morata e Alice Campello hanno superato invece un momento durissimo nello scorso gennaio, dopo la nascita della figlia Bella, quartogenita dopo Edoardo, Alessandro e Leonardo. Dopo un parto apparentemente molto tranquillo, l’influencer ha iniziato a stare male e ha avuto alcune complicazioni che hanno portato al ricovero in terapia intensiva. «Sono stato 18 ore in ospedale, non capivo cosa stesse succedendo. Non potevo mostrarmi fragile — ha spiegato a Verissimo il calciatore ex Juve, ora all’Atletico Madrid — . Dovevo trovare la forza anche se non l’avevo. Mi sono messo a vomitare, per me è stato molto dura, mi è crollato il mondo addosso. I medici mi hanno detto che forse avrebbero dovuto toglierle degli organi, ho risposto che aveva solo 28 anni e tutta la vita davanti. Mi hanno detto che l’importante era che i bambini avessero ancora una mamma».

Mario Bertini.

Estratto dell’articolo di Paolo Tomaselli per corriere.it domenica 20 agosto 2023.

Mario Bertini è stato uno dei mediani più forti della storia azzurra. Dopo nove anni all’Inter e l’ultima stagione al Rimini si è allontanato dal calcio. Per sempre.

«Non ho tenuto niente della carriera. Ho rigettato un po’ tutto, non so il perché».

Non le piaceva l’ambiente?

«Non mi appartiene adesso e molto probabilmente neanche prima. Ero anomalo: non andavo alle cene coi club, facevo pochissime interviste. Se uno non dà, non prende».

(...)

Passa dalla Fiorentina all’Inter. E lo sa dai giornali.

«Sì, eravamo come pecore al macello, andavi dove dicevano. Ma io ho potuto scegliere tra Inter, Milan e Juve. In Nazionale mi hanno un po’ convinto ad andare all’Inter».

Mediano con il senso del gol. Si è rivisto in qualcuno?

«Il mio vero ruolo era mezzala, mi identificavo molto in Bulgarelli. Mi rivedevo un po’ in Ancelotti. Oggi diciamo un po’ Barella, un po’ Marchisio: primo difensore, ma capace di rifinire l’azione in area».

In tribuna al Mondiale ’66, con un piede ingessato a Euro ’68, in campo da protagonista a Messico ’70.

«Sia nel ’66 che nel ’70 al rientro ci hanno lanciato i pomodori. Un’altra delusione. A Milano gli animi erano surriscaldati per la staffetta Rivera-Mazzola. E abbiamo preso i pomodori dai riveriani».

La staffetta ha tolto qualcosa alla squadra?

«Abbastanza. Non era tutto bello quello che abbiamo vissuto in Messico. Ci sono stati dei grossi problemi, le discussioni hanno dato fastidio».

I giornali la definivano pupillo di Valcareggi.

«Era così vero che quando mi ha lasciato a casa non me l’ha detto. E, a differenza di altri, non mi ha richiamato. Dal 1972 in Nazionale non ho più giocato, anche se il ’72-’73 fu il mio campionato più bello».

In Messico con chi era in stanza?

«Con Lodetti. Ho vissuto tutta la sua vicenda: Anastasi si fece male, chiamarono Boninsegna e Prati, mandando a casa Giovanni. Brutta storia».

Cosa accadde?

«Ho la mia idea: dato che il Milan doveva cedere Lodetti alla Samp preferì non fargli giocare il Mondiale: chi vinceva non era non vendibile». 

Mazzola sostiene che lo 0-0 con l’Uruguay per il passaggio del turno fu concordato. E che solo lei corse e picchiò «come un matto.

«Per me quelle cose non esistono. Figurati se mi metto a pensare a un pareggio. Io giocavo a calcio per vincere: se perdevo stringevo le mani a tutti, con la morte nel cuore».

Come fece Seeler con lei dopo Italia-Germania 4-3?

«Sì, fu un duello da sangue da naso, ma è venuto a scambiare la maglia. Siamo stati esaltati, ma penso sia stata la mia peggior partita. Seeler di testa le prendeva tutte».

È vero che Valcareggi mise il terzo portiere Vieri a fare una sorta di filtro con le belle ragazze attorno al ritiro?

«Forse ero troppo preso da me stesso per capirlo». 

Milano come l’ha vissuta?

«Bene. Ma dovevi dire di no sempre, altrimenti era un casino. Non era difficile fare il playboy, ma dovevi scegliere fra quello o il calcio»

Con Boninsegna si sente?

«Sì, è una persona che dice sempre ciò che pensa, come me. Ed è stato il più grande centravanti che ha avuto l’Italia. Cattivo, segnava in tutti i modi: destro, sinistro, testa».

Finale all’Azteca: Pelé con il 10, Bertini con il 10.

«Perché nessuno lo voleva: Rivera perché forse non giocava, Mazzola perché diceva che non l’aveva mai avuto. A me non pesava. Anzi, mi portò bene in quel Mondiale».

Lei marca Pelé, Valcareggi però sposta Burgnich su O Rey. E arriva il famoso gol.

«Mai capito perché quella mossa. Stavo facendo benissimo: poi il c.t. mi mise su Rivelino a fare il terzino perché faceva scoprire Burgnich». 

Che pensa del dibattito tra ex sull’abuso di medicinali?

«Vuol dire che hanno preso qualcosa, io non ho mai preso nulla. C’erano delle pasticchine rosse, quelle che prendevano anche gli studenti per stare svegli. A me semmai serviva qualcosa per calmarmi».

Chi le ha lasciato l’impressione di grandezza?

«Burgnich e Suarez. Io sono arrivato dopo i fasti della grande Inter. Da loro ho imparato come uomo e calciatore: Suarez quando beveva un bicchiere in più, il giorno dopo era il primo a tirare la fila». 

Nel 1990 uno dei suoi due figli, Gualtiero, muore per overdose. Come l’ha vissuta?

«Difficile spiegarlo. Dico solo che devono morire prima i genitori. Lui ha fatto delle cose che non doveva fare e alla fine ha deciso di togliere il disturbo. Abbiamo provato in tutti i modi a salvarlo: era in comunità da due anni, era andato anche all’estero, era sulla strada giusta. È morto il giorno prima di Natale».

Oggi è un nonno felice?

«Sono bisnonno da un mese e mezzo. Una delle mie nipoti è brava a sciare».

L’ex calciatore oggi è una professione. Che ne pensa?

«Uno come me guadagnerebbe 3-4 milioni. Ma noi sapevamo già che avremmo dovuto lavorare: l’importante era non farsi mangiare i soldi»

Mauro Icardi.

L'Italia, il calcio, i tradimenti (e Icardi): la storia d'amore tra Wanda Nara e Maxi Lopez. Novella Toloni il 19 Agosto 2023 su Il Giornale.

La storia d'amore tra Wanda Nara e Maxi Lopez è durata dal 2007 al 2013, anno nel quale la coppia scoppiò tra accuse di tradimenti

Tabella dei contenuti

 L'incontro e la fuga in barca

 Il fastoso matrimonio

 La nascita del primo figlio

 Il trasferimento in Italia

 L'arrivo a Milano e la nascita del terzo figlio

 Mauro Icardi e la crisi

 La fine del matrimonio

 Accuse e tradimenti

Tra il 2005 e il 2007 Wanda Nara era una sconosciuta alla maggior parte degli italiani, ma in Argentina era già nota per la partecipazione ad alcuni programmi televisivi. A cambiarle la vita è stato l'incontro con Maxi Lopez diventato suo marito e padre dei suoi primi tre figli. A catalizzare l'attenzione pubblica, però, è stato l'addio - arrivato nel 2013 - tra accuse di tradimenti e gossip sul flirt tra Mauro Icardi e Wanda.

L'incontro e la fuga in barca

Nel 2007 Wanda Nara è già una star della tv argentina grazie ai ruoli nelle serie tv Sin Codigo e Casados con Hijos e a programmi come Patinando por un sueño. Maxi Lopez la nota e chiede a un amico in comune di presentargliela. È l'estate del 2007 e Wanda viene invitata a bordo di uno yacht per trascorrere una serata in compagnia di amici e tra loro c'è anche il calciatore, che in quell'anno milita nell'Fk Mosca. Il feeling è immediato e i due trascorrono tutta la serata insieme. "Quella stessa notte sono finiti insieme. Maxi è impazzito per Wanda, ha detto che c'era una cosa specifica che lo faceva impazzire", racconterà la stampa argentina anni dopo.

Il fastoso matrimonio

Un anno dopo il loro primo incontro, Wanda e Maxi si sposano. Lei ha 21 anni e lui 24. Le nozze si celebrano il 31 maggio 2008 nel quartiere Belgrano di Buenos Aires alla presenza di decine di giornalisti e bodyguard. Dopo il "sì" nella chiesa di Santa Elena, la coppia festeggia con oltre duecento invitati all'Hotel Alvear. Wanda sfoggia ben tre abiti differenti disegnati per lei da Claudio Cosano poi, dopo le nozze, i coniugi Lopez si rifugiano a Santa Cruz per la luna di miele prima di rientrare a Mosca, dove Maxi gioca.

La nascita del primo figlio

Poco dopo le nozze, in Argentina si vocifera che Wanda fosse incinta già alla vigilia del matrimonio, ma l'annuncio della dolce attesa arriva solo nell'estate del 2008. Valentino Gastón nasce il 25 gennaio 2009 nella clinica Trinidad Sanatorium di Buenos Aires, dove la Nara sceglie di partorire lasciando Maxi a Mosca. Nella città russa, però, Wanda e il figlio non tornano, perché Lopez viene venduto al Gremio di Porto Alegre e la neo-famiglia si trasferisce in Brasile per la nuova avventura calcistica di Maxi.

Wanda denuncia Lopez: "Ha picchiato i miei figli" 

Il trasferimento in Italia

Wanda Nara si dedica alla famiglia e mette da parte le sue ambizioni seguendo il marito in Italia. Nel 2010 Maxi Lopez viene acquistato dal Catania e la famiglia sbarca in Sicilia. A maggio, durante il match del Catania contro il Bologna, Lopez annuncia l'arrivo del secondogenito mettendosi la palla sotto la maglietta dopo un gol. Costantino nasce a Catania il 18 dicembre 2010.

L'arrivo a Milano e la nascita del terzo figlio

Nel 2011 Wanda Nara torna in televisione partecipando al programma argentino Bailando por un sueño, ma scopre di essere in attesa del terzo figlio, Benedicto, che nasce il 20 febbraio 2012. Nello stesso periodo Maxi Lopez arriva in prestito al Milan, dove gioca fino a giugno. È un periodo di grandi cambiamenti per la famiglia e la conoscenza di Mauro Icardi, amico di Lopez, sconvolge l'equilibrio matrimoniale, segnando l'inizio della fine dell'unione.

Mauro Icardi e la crisi

Mauro Icardi e Maxi Lopez sono grandi amici: entrambi argentini con un passato comune e il calcio a legarli. Così i due sportivi si vedono spesso. Maurito è single e Maxi lo invita a unirsi a lui, alla moglie e ad altri amici in uscite e cene. La sintonia è forte, Maxi non sospetta che Mauro prova interesse per Wanda e lo invita a unirsi a loro per una vacanza in barca alle isole Eolie. Le foto di quei momenti insieme a tre sono il simbolo della crisi che scoppia poco dopo la fine dell'estate e che porta al clamoroso addio tra Wanda Nara e Maxi Lopez.

La fine del matrimonio

Il 9 novembre 2013 la showgirl argentina annuncia la fine del matrimonio con Lopez attraverso Twitter. "Hasta acà llego mi amor (ci fermiamo qui, amore mio)", recita il tweet di Wanda che poi fa i bagagli e torna con i figli Valentino, Costantino e Benedicto a Buenos Aires, mentre Maxi rimane a Catania per proseguire il campionato. La stampa argentina si scatena: secondo i rumor la fine del matrimonio è stata causata da Mauro Icardi, che ha fatto breccia nel cuore di Wanda. Maxi Lopez accusa l'ex moglie di averlo tradito con Maurito, mentre lei accusa l'ex di avere fatto altrettanto durante il matrimonio. Scoppia così una battaglia legale lunghissima.

Tra Maxi Lopez e Wanda Nara è ancora guerra!

Accuse e tradimenti

Dopo la rottura, Wanda Nara rilascia dichiarazioni di fuoco alla rivista argentina Revista Gente: "Ho lottato fino alla fine per salvare il matrimonio con Maxi Lopez. Ma non ce l'ho fatta. Mi tradiva sempre, in continuazione anche con la governante. Maxi mi ha trascurata. Vivevo attorniata dal lusso, mentre cercavo di nascondere il dolore che sentivo". Ma l'ex marito la accusa di averlo tradito con Icardi e l'argentina torna a difendersi sulle pagine di Chi: "Quando ho iniziato la relazione con Mauro io avevo già divorziato da Maxi Lopez. Quando Maxi ha saputo da Mauro che io mi ero innamorata ha detto che io ero ancora sua moglie. Rosicava che avessi trovato un ragazzo bello, giovane, dolce, ma con le palle pronto a prendersi cura di me e dei miei figli. Quando ci siamo lasciati Maxi mi diceva: 'Chi ti vuole con tre figli? Non andrai da nessuna parte'". Invece Wanda e Maurito si sono sposati un anno dopo, a fine maggio, a Buenos Aires e dalla loro relazione sono nate due figlie, Francesca e Isabela. Nonostante le crisi, i gossip e l'annuncio della malattia, Icardi e la Nara stanno ancora insieme, mentre Maxi Lopez si è rifatto una vita al fianco della modella svedese Daniela Christiansson.

Wanda Nara e la malattia: «Sono sotto choc, la mia famiglia è distrutta e Mauro Icardi voleva lasciare il calcio». Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 2 agosto 2023.

Le rivelazioni all’amico giornalista Angel de Brito: «Mi ha detto che è ancora sotto choc e sta cercando di prendere coscienza di ciò che ha. Si curerà a Buenos Aires» 

«Ho scoperto della mia malattia in televisione. Io ero in ospedale ma non sapevo niente. All’inizio le infermiere sono arrivate piangendo e mi hanno abbracciata e io ho detto a Mauro: “Sto per morire e non me lo dicono”. Sono andata nel panico perché non sapevo cosa stesse succedendo». Questo è quanto emerge dal racconto del giornalista argentino Angel de Brito, al quale Wanda Nara ha affidato la sua prima versione dei fatti sulla sua reazione alla malattia che l’ha colpita. Il giornalista, molto vicino alla moglie di Icardi, ha svelato alcuni dettagli inediti del male che l’ha colpita (secondo indiscrezioni si tratterebbe di una leucemia, anche se la show girl non ha mai confermato): «Mi ha detto esattamente di cosa si tratta, ma non pronuncerò quella parola finché non lo farà lei. Mi ha detto che è ancora sotto choc e sta cercando di prendere coscienza di ciò che ha».

Il 14 luglio, dopo un ricovero della moglie-agente di Icardi all’ospedale di Buenos Aires, i media argentini hanno, come detto, parlato subito di leucemia, sconvolgendo la famiglia di Wanda Nara (che ha cinque figli, tre avuti con Maxi Lopez e due con l’ex attaccante nerazzurro, attuale marito). Ricostruzione da lei non confermata sul proprio profilo Instagram qualche giorno dopo («aspetto gli esami, è stata data per certa una diagnosi che non avevo»), così come non ha confermato il ritorno a Milano per curarsi.

Anzi, ha accompagnato Maurito a Istanbul, in quanto il Galatasaray lo ha acquistato a titolo definitivo (10 milioni di euro al Psg) dal club turco. E la coppia è stata sommersa dall’entusiasmo di una folla, che ha manifestato loro grande affetto con tanto di striscioni dedicati proprio a lei. Adesso, appunto, è Angel de Brito che condivide il racconto della showgirl argentina: «Ha iniziato il trattamento nella seconda clinica argentina che ha visitato, per sottoporsi agli accertamenti, e ha insistito sul fatto che la sua idea è di continuare il trattamento con un medico argentino raccomandato da Susana Giménez (attrice amica di Wanda). Della malattia parlerà pubblicamente quando tornerà a Buenos Aires. Ma per ora è concentrata sulle sue cure e sulla sua famiglia. A un certo punto si era anche ipotizzato che si sarebbe curata a Milano o in Turchia. Ma è molto contenta del trattamento ricevuto nella clinica in cui si è recata e dove hanno fatto la diagnosi della malattia», ha continuato il cronista argentino. 

IN ARGENTINA

WandaNara: gli esami clinici, le voci di leucemia, il silenzio sui social. L’Argentina in ansia

E ancora: «Sì, è stata dura perché l’ha scoperto in televisione. Nessuno glielo ha detto né le avevano confermato una diagnosi inizialmente. Poi lei ha chiesto ai medici di dirle la verità. Icardi ha persino pensato di abbandonare la sua carriera calcistica. Ci sono voluti 12 giorni per darle una diagnosi precisa e per giorni ne hanno parlato in televisione». Insomma, Angel de Brito sembra confermare tutto e rivela anche quale sarebbe stata la reazione di Wanda Nara: «In quel momento sono andata nel panico – avrebbe detto Wanda – perché non sapevo cosa mi stesse succedendo. Mi è passato di tutto per la mente. I bambini hanno pianto, mentre tutti i media ne parlavano. La mia famiglia era distrutta. Mauro voleva lasciare il calcio. Mia sorella Zaira era tornata di corsa dalle vacanze. Mia madre si era sdraiata sul pavimento. Mi sentivo come se mi stesse cadendo il mondo in testa. Ma poi sono diventata ancora più forte: così facevo vedere a tutti che stavo bene, anche se tutto stava andando a rotoli».

Giacinto Facchetti.

Gianfelice, figlio di Giacinto Facchetti: «Papà mi presentò Pelé, rimasi impietrito. Essere lasciato solo lo ha fatto ammalare». Storia di Gaia Piccardi il 18 luglio 2023 su Il Corriere della Sera. 

Il plateale passaggio di consegne è negli occhi chiari e buoni, diventati grandi all’ombra dell’olmo Facchetti, terzo di quattro figli che somigliano al capostipite come copie carbone, dentro e fuori. Avendo avuto come genitore un totem, dell’Inter e della Nazionale («Noialtri, a casa, eravamo la sua terza amatissima famiglia»), Gianfelice Facchetti si è sforzato di fare il calciatore — portiere: diventare difensore dopo Giacinto, l’uomo che inventò il ruolo, era troppo — prima che l’animo artistico e la voglia di esprimersi sul palcoscenico prendessero il sopravvento su quella vita vissuta nel microcosmo tra i pali, liberandolo da un’eredità pesante come un macigno. Tutto il suo amore per il Cipe (la leggenda vuole che il soprannome di Giacinto sia nato da una storpiatura di Helenio Herrera) Gianfelice l’ha riversato in un libro suggestivo, «Se no che gente saremmo», che prende il titolo dalla frase-mantra del gigante del calcio italiano.

La prima foto dell’album dei ricordi? «È a colori, piena di allegria. Estate ‘77, bagni Le Focette in Versilia: io che gioco a pallone con papà sotto gli occhi di mia madre, non ho ancora tre anni. Luca sarebbe arrivato nel ‘78, Barbara e Vera sono in giro per la spiaggia a caccia di bomboloni».

E il primo ricordo a San Siro, invece? «Ecco, qui ho una falla, una delle poche nella memoria. Ho miliardi di ricordi allo stadio ma non riesco a risalire al primo. Papà ha smesso con l’Inter nel ‘78, l’ultimo scudetto che vince è del ‘71, io sono del ‘74. Rammento bene un Bordon giovanissimo girare per casa: mio padre l’aveva preso sotto la sua ala».

Cambiò nel passaggio da calciatore a dirigente? «Eh, da dirigente ha fatto più fatica a mantenere la sua proverbiale tranquillità. Dell’Inter era perdutamente innamorato: con il desiderio di tutelare il club in anni non facili ha speso molte energie e, in qualche momento, si è sentito molto solo».

Condivideva, in casa, o si teneva tutto dentro? «Con molto pudore, condivideva. Riaffiora come fosse ieri una sensazione di stupore, concentrazione e solitudine: cercava di capire se ne valesse davvero la pena».

E mamma Giovanna che ruolo aveva? «Lo ascoltava, come lo ascoltavamo io e i miei fratelli. Non erano mai riunioni allargate, piuttosto erano scambi privati: tu come la vedi? Col tempo, papà è cambiato molto. Se penso al padre che era all’inizio, all’educazione che aveva ricevuto: la madre, scomparsa presto, gli era mancata moltissimo; era stato cresciuto dal nonno con un codice di comportamento super rigido. Pian piano, con noi, si è aperto. Magari come prima risposta si chiudeva nel silenzio però poi si imponeva di parlare, spesso mamma faceva da mediatrice e sbloccava la situazione, riaccendendogli una scintilla. È cambiato al punto di chiedere l’opinione di un figlio. La stima reciproca sconfinata, per me, è stato il regalo più prezioso».

Giocare a calcio, come Giacinto, forse, il gesto d’amore più grande. «Ci ho provato in anni in cui tutti i bambini italiani volevano fare i calciatori, anticipato dalla narrazione di papà: come potevo non sperimentare quella giostra meravigliosa che è il calcio? I ragazzi dell’Atalanta, la Nazionale Under 15, subito in porta. Davanti alle prime difficoltà, sono sorte le domande. Ho deciso di smettere impulsivamente, di colpo. Dopo un gentile pressing, papà mi spiazzò: ne prese atto, aveva capito tutto».

Sarti, Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair; Mazzola, Peiró, Suarez, Corso. Allenatore Herrera. Chissà quanti incontri, nel salotto di casa, in quegli anni. «In realtà la casa era un luogo protetto, riceveva raramente. Era come se volesse tutelarci, lasciando il lavoro fuori dalla porta. Il mio incontro più sorprendente avvenne in Brasile nell’87, quando l’Italia partecipò a una specie di Mundialito. Partì tutta la famiglia al completo. Il giorno di Italia-Brasile al Maracanà, in albergo spunta Pelé. Papà me lo presenta, io rimango impietrito, con gli occhi fuori dalle orbite. Ho 13 anni».

Cimeli ne avete tenuti? «Pochi, all’epoca non c’era l’abitudine di scambiare le maglie, sennò avremmo quelle di Pelé, Eusebio, Yashin, le sue icone tra gli avversari. Per di più papà era generoso: quelle poche, le ha regalate. Abbiamo tenuto l’ultimo paio di scarpini e mamma, come Penelope, ha archiviato a sua insaputa i ritagli di giornale e le cartoline che Giacinto ci mandava da ogni angolo d’Italia e di mondo, una sua abitudine. La cosa pazzesca sono le figurine: ne spuntano di nuove di continuo. L’altro giorno su un’asta online ho trovato un chewingum sfuso, con un tatuaggio che raffigura papà dentro la carta argentata. Lui in divisa azzurra con il cappello da bersagliere e la tromba: Facchetti suona la carica. Stupendo».

Lo rivede nei suoi figli, Lupo e Teresa? «Sì, e ogni volta mi emoziono. Lupo ha il suo stesso sguardo analitico e scrutatore, Teresa la sua dolcezza dietro la maschera di seriosità».

Sarebbe piaciuto a Giacinto il calcio di oggi, dominato dal business e dai diritti tv, senza più mecenati, in mano a arabi, cinesi, americani? «Il calcio diventato un fenomeno televisivo ha fatto in tempo a vederlo: negli appunti che prendeva su foglietti sparsi scriveva che la tv ha portato una ricchezza che doveva essere reinvestita nei settori giovanili, negli impianti, nelle zone povere del Paese e del pianeta. Vedeva molte opportunità inesplorate: quella ricchezza gli sembrava infruttifera, speculativa. Oggi, infatti, siamo alla resa dei conti. E poi la Nazionale, la sua sconfinata passione: due Mondiali consecutivi da spettatori gli avrebbero spezzato il cuore».

Com’era guardare le partite insieme a lui? Magari una finale di Champions persa con il City al 68’? «Impegnativo, per noi ragazzi: voleva un tifo costruttivo. Nei confronti della Nazionale, poi, pretendeva sempre il massimo rispetto. Qualche mese prima che se ne andasse, Diego Della Valle lo aveva candidato alla presidenza della Federcalcio, senza sapere della malattia. A papà aveva fatto un enorme piacere».

Va a trovarlo, ogni tanto, al cimitero di Treviglio? «Ho un mio sentimento del sacro, per sentire papà non ho bisogno di andare al cimitero: l’affetto ancora palpabile nei suoi confronti lo tiene vivo e presente. Ho apprezzato l’idea di Ita Airways: in cielo c’è un aereo che vola con il suo nome sul muso».

Da figlio, crede che il dolore per le vicende di Calciopoli quand’era presidente dell’Inter, in seguito all’attacco del sottobosco calcistico, oltre che un male nell’anima abbiano provocato a Giacinto anche il male nel corpo? «L’ho pensato. All’Inter non avrebbe mai detto di no: poche figure sono state così fedeli allo stesso club da giocatore e dirigente. L’Inter era la sua chiamata alle armi quotidiana. Soprusi, furbizie e prevaricazioni lo mandavano ai matti. È stato lasciato troppo solo, e questa cosa alla lunga lo ha fatto ammalare. Purtroppo Calciopoli non finirà mai, ci sarà sempre chi prova a screditare. Ma la testimonianza più bella di mio padre arriva dalla strada: il tifoso che organizza una mostra nelle Langhe per ricordarlo, la signora che ti ferma per dirti che bella persona era papà. Per tutelarlo, nel fuggi fuggi generale, ho querelato per diffamazione Luciano Moggi e sono andato a testimoniare a Napoli. Quello che ho detto è agli atti del processo. La considero la mia medaglia».

Luis Suarez Miramontes.

Nicola Cecere per gazzetta.it domenica 9 luglio 2023.

Luis Suarez Miramontes ci ha lasciati stamattina presto. Il regista della Grande Inter si è spento a 88 anni dopo una breve malattia. Il mondo del calcio italiano si unisce nel cordoglio a quello catalano perché prima di sbarcare a Milano, Luisito era stato una colonna del Barcellona: 176 partite con 80 reti tra il 1954 e il 1961. 

L’anno in cui, su insistita richiesta di Helenio Herrera, l’allenatore approdato all’Inter proprio da Barcellona, lo acquistò Angelo Moratti investendo una cifra record per l’epoca, 300 milioni. Il Barça la utilizzò per ampliare lo stadio Camp Nou, l’Inter presentò ai suoi tifosi il Pallone d’Oro di quell’anno. Con lui nelle vesti di centrocampista incursore la squadra catalana aveva vinto due volte la Liga, due volta la Coppa Nazionale e due volte la Coppa delle Fiere, progenitrice della Coppa Uefa. Mentre con la Nazionale Luis conquisterà l’Europeo 1964. In maglia nerazzurra Suarez venne trasformato nel secondo anno della gestione Herrera, il celebre Mago, in regista davanti alla difesa. 

 In tutto nell’Inter ha disputato 333 partite realizzando 55 reti e vincendo tre scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali. Fu, insomma, un pilastro di quello squadrone. Elegante e preciso come un architetto (il soprannome che gli venne dato a quei tempi) Luisito era dotato di grande tecnica, ottima mobilità e riusciva a pescare con lanci millimetrici da quaranta-cinquanta metri, le due frecce offensive, Jair e Sandro Mazzola, che scattavano nella metà campo altrui. 

Era uno schema, il contropiede, molto caro a Herrera che prediligeva farsi attaccare dall’avversario e poi lo trafiggeva con queste micidiali incursioni ispirate dalla maestria di Suarez. I più giovani, per avere una idea delle sue qualità devono pensare ad Andrea Pirlo, paragone che Luisito stesso autorizzava: “In effetti abbiamo in comune diverse caratteristiche”. 

La carriera da calciatore fu conclusa da un triennio alla Sampdoria, dove ritrovò da compagno colui che era stato il suo marcatore fisso nei derby milanesi, cioè Giovanni Lodetti: e lì, a Genova, nacque una bella e duratura amicizia. Da regista illuminato ad allenatore il passo divenne naturale ma l’esito non fu altrettanto fortunato. 

La maggiore soddisfazione in panchina è stato il titolo di campione d’Europa Under 21 vinto ai rigori sull’Italia nel 1986. Luisito ha guidato pure la nazionale maggiore al nostro Mondiale 1990 (amara eliminazione agli ottavi) e si è tolto lo sfizio di cominciare la nuova attività di tecnico proprio dall’Inter, subentrando a Enea Masiero (suo ex compagno di squadra) nel campionato 1974-75, terminato però con un deludente nono posto. Le altre due esperienze sulla panchina nerazzurra, nel 1992 e nel 1995, furono di breve durata. Ma Massimo Moratti lo volle inserire nello staff della sua Inter tra gli osservatori di fiducia.

Zamorano e Recoba sono due dei giocatori visionati e consigliati da Luisito. Che intorno al Duemila viene invitato sempre più spesso da varie televisioni italiane e spagnole come opinionista. Dotato di un eloquio disinvolto era capace di sdrammatizzare le situazioni più delicate e le critiche più aspre con folgoranti battute di spirito. Questa sua attività davanti alle telecamere l’ha mantenuta sino a pochi mesi fa, ed era particolarmente fiero dell’incarico ricevuto da una seguitissima radio Catalana che voleva solo la sua voce per le partite del Barça e della Nazionale. 

IMMAGINE—  Luisito lascia di sé l’immagine di un gran signore, una persona semplice, disponibile, affabile e mai sopra le righe, formatasi nella bottega di macellaio del papà, a La Coruna. Un tipo allegro, sempre pronto a regalare frasi scherzose, leggere. E del resto ha avuto una vita di successo, la sorte gli ha decisamente sorriso: rimarrà nella storia del calcio come uno dei più grandi giocatori degli anni Sessanta.

Luisito, l'architetto della Grande Inter che danzava leggero con la giacca addosso. E sposò l'Italia. Gli eroi del football muoiono all'alba, nel giorno giusto della loro vita, domenica. Tony Damascelli il 10 Luglio 2023 su Il Giornale.

Gli eroi del football muoiono all'alba, nel giorno giusto della loro vita, domenica. Luis Suarez Miramontes ha concluso la sua esistenza dopo ottantotto anni bellissimi, resta grandiosa la sua storia di campione assoluto, trasparente, unico. Il cervello di seta e la classe di acqua pura lo hanno accompagnato dalla nascita, avenida Hercules, numero 20 di Monte Alto, La Coruña. C'è un piccola targa in pietra che ricorda «Nesta casa naceu o 2 de maio de 1935 Luis Suårez o arquitecto do futbol». Fosse stato per Antonio Rumbo Martinez, Luis si sarebbe dedicato alla pesca nel mare galiziano. Era, il suddetto Martinez, il presidente del Deportivo La Coruña, l'asilo calcistico di Luis che andava in tram al campo e nemmeno immaginava il magico futuro. Nell'intervallo di una partita giocata a Santander, il gentiluomo padrone irruppe nello stanzino dello spogliatoio e scaricò la sua ignoranza rabbiosa sul diciottenne dai capelli brillantinati. Per il presidente era tutta di Suarez la colpa dello 0 a 0 parziale. Luis, seduto sulla panca, prese a tremare ma a fermare le mani e la voce dello sguaiato Rumbo fu Otero, il portiere del Depor, vicino di casa di Suarez, chiedendo al capo di smetterla. Arrivò la sfida contro il Barcellona che ne fece 6 al gruppetto gallego, il presidente villano ne approfittò per vendere ai blaugrana Dagoberto Moll, centrocampista uruguagio ventiseienne e liberarsi anche di Luis senza una sola peseta in cambio. In verità prima di quella partita il Real Madrid spedì un osservatore al Riazor ma il ragazzo giocò una partita orrenda contro il Valladolid (così lui mi ricordava), Juan Antonio Ipina, l'inviato delle merengues, mise una croce sul nome, bocciato. Eppure Alfredo Di Stefano, quando le due squadre si affrontavano, gli ripeteva: «Gallego, vente al Madrid», Santiago Bernabeu, il presidente, non si convinse.

Cominciò, allora, l'avventura al Camp Nou, il tram fu sostituito da una Dauphine Renault, la squadra aveva fantastici attori, Kubala su tutti, il maestro ungherese gli insegnò la paradinha, quella pausa imprevista prima di calciare un rigore o una punizione, l'attimo sfuggente che sballava i portieri. La squadra era allenata da un italiano, Sandro Puppo anche scrittore di libri sulla storia del calcio, poi toccò al magiaro Franz Platko che imponeva la boxe come allenamento, quindi lo spagnolo Domenec Balmanya, ognuno di questi chiedeva al giovane galiziano di giocare in ruoli diversi, davanti alla difesa, mediano, trequartista, il Cam Nou fischiava il ragazzo venuto da La Coruña. Fu Helenio Herrera, il mago argentino, ad intuire le qualità dell'architetto galiziano al punto che, tre anni dopo lo volle all'Inter. Con il Barcellona furono vittorie di Liga ed europee, arrivò il Pallone d'Oro, primo e unico per un calciatore spagnolo, i francesi di France Football così scrissero nella lettera di celebrazione: «Luis Suarez ha l'autorità di un duca, la precisione di un geometra, la bellezza di un Apollo. Velocità, cambio di ritmo, abilità, potenza e grande precisione nel tiro. Calciatore di razza, può apparire individualista ma sa mettere il talento al servizio del collettivo».

Luis consegnò il palloncino d'oro (tale era nelle dimensioni rispetto al trofeo attuale) al massaggiatore Angel Mur che lo portò nello spogliatoio, prima di essere trasferito nel museo del Barça, nessuna festa, nemmeno una cena con i compagni di squadra. Per completare l'argenteria, altri palloncini, due d'argento, uno di bronzo, tutto in un quinquennio. È stato questo, Luis Suarez, anche nella vita quotidiana, assolutamente normale, lontano dalle luci abbaglianti che già allora ubriacavano gli artisti. Italo Allodi lo portò dunque all'Inter, Angelo Moratti contribuì, con duecento ottanta milioni di lire, a rimettere in equilibrio i conti dei catalani, Luis sbarcò a Milano e, ad accoglierlo, trovò anche una biondissima milanese, Valentina. Sarebbe diventata sua moglie per sempre, regalandogli un figlio, Luis, biologo a Madrid.

L'epopea interista ha colori vivissimi, italiani, europei, mondiali, Luis era l'interprete dell'intelligenza tecnica e dell'astuzia tattica, giocava un football essenziale, calciava con una perfezione accademica, sembrava muoversi, anche in campo, con la giacca appoggiata sopra le spalle tanto era leggera la sua azione, il movimento beffardo sui calci di rigore lo assomigliava al torero con l'estoque finale. Giocò in nazionale in un quintetto formato, con lui, da Miguel, Kubala, Di Stefano e Gento, una squadra fantastica che conquistò l'europeo e non partecipò a quello sovietico per scelta di Franco. Da Milano si trasferì al mare di Genova, con la maglietta della Doria. Da allenatore, con la Under 21 spagnola un titolo europeo, con la nazionale maggiore, al mondiale d'Italia, una delusione criticata aspramente dalla stampa, poi altre tappe e uno strano, acido rapporto con Barcellona e il tifo catalano, abituato al caviale e irriconoscente con lui se non per certe occasioni prevedibili, senza euforie particolari. Per questo Luis aveva scelto l'Italia come buen retiro de vida, con la sola nostalgia dei mariscos gallegos che una o due volte al mese arrivavano con un furgone frigo da Burela, di fronte al mar cantabrico. La pandemia lo aveva imprigionato nella sua dimora, vicino a San Siro, la perdita di Valentina aveva aggiunto solitudine, la voce portava malinconie, quando squillava il telefono temeva, come purtroppo accadeva, che qualche vecchio amico e compagno lo avesse abbandonato, così Mario Corso, Olivella, Fusté, Amancio, Di Stefano, Gento. Non gli piaceva più questo ultimo football di passaggi arretrati e di finta aggressività, mi raccontò, a proposito, un episodio della sua gioventù spagnola, quando un avversario entrò da dietro sulle sue gambe e gli urlò: «Ora ti ho ferito, alla prossima ti ammazzo» e faceva sul serio, perché questo era il vero football non quello televisivo contemporaneo. Non aveva gradito l'arrivo dei cinesi nel club che fu dei Moratti, non poteva accettare quella bestemmia del nome del fondatore del centro sportivo di Appiano Gentile, Angelo Moratti, ridotto ai minimi caratteri grafici per esaltare il nuovo padrone, non frequentava più San Siro, amava dialogare con Quique Ortego, giornalista scrittore, amico comune di memorie e confidenze. Deambulava a fatica, aiutandosi con un dispositivo che un po' lo umiliava, conservava tuttavia la mente lucidissima e così il senso aperto della vita. Aveva deciso di essere sepolto al cimitero di Milano, accanto a Valentina. Lontano dalla folla catalana che lo aveva dimenticato. Il telefono non squilla più. Gracias de todo, Luisito.

Estratto dell'articolo di Maurizio Crosetti per “la Repubblica” il 10 luglio 2023.  

I nostri padri e i nostri nonni raccontavano Suarez (“Ah, Luisito Suarez…”) come si prova a narrare la perfezione, come se esistessero davvero le parole per dire chi furono Michelangelo e Mozart, George Best e Vittorio Gassman. Perché, signori, qui si dice addio a uno dei più forti calciatori di tutti i tempi, il numero 10 della Grande Inter di Herrera, il primo e unico Pallone d’Oro spagnolo, un regista che sapeva segnare, dribblare, lanciare corto ma soprattutto lungo: passaggi al volo di 50 metri sui piedi del compagno in corsa.

E che personaggio, che persona. Ironico, gentile, disponibilissimo con tutti. […] Luis Suarez Miramontes, classe 1935, più che altro classe immensa, era figlio di un macellaio galiziano di La Coruña, e quando passò al Barcellona qualcuno storse un po’ il naso di fronte al piccoletto, […]

Con i blaugrana, “El gallego dorado” vinse due campionati, una Coppa delle Fiere e il Pallone d’Oro nel 1960, prima volta per uno spagnolo. Allenatore, Helenio Herrera. Quando il Mago andò all’Inter, chiese al presidente Angelo Moratti di acquistargli il regista: «Ha il palleggio di Corso, il dribbling di Sivori e il tiro di Altafini, me lo compri e vinciamo tutto». Andò esattamente così, e con i 250 milioni di lire incassati, una cifra gigantesca per quei tempi, il Barcellona finì il terzo anello e costruì il tetto del nuovo Camp Nou: uno stadio finanziato da Suarez.

[…]Non per nulla, Alfredo Di Stefano aveva battezzato Luisito “el Arquitecto”. Suarez arrivò a Milano a 26 anni compiuti, portando nel gruppo quell’esperienza che agli altri mancava. Prima della finale di Coppa dei Campioni a Vienna contro il favoloso Real Madrid, 27 maggio 1964, la prima delle due vinte in nerazzurro, i compagni andarono da Luis per parlargli di quel Di Stefano appena visto da vicino […] e allora Suarez tagliò corto: «Siamo venuti qui per batterli, non per chiedergli l’autografo». Erano tempi inimmaginabili.

Con i primi guadagni veri, Luisito non si comprò una fuoriserie o un orologio tempestato di diamanti, ma le quote di un maglificio, perché allora il calcio sostituiva un lavoro per qualche anno soltanto, poi bisognava pensare al domani. E quando Luisito venne liquidato dall’Inter, nel 1970, perché il nuovo allenatore Heriberto Herrera, l’altro Herrera, sosteneva che lui e Corso non potessero giocare insieme […] il domani diventò la Sampdoria dove il galiziano continuò a divertirsi, già pensando che gli sarebbe piaciuto fare l’allenatore, pur sempre un modo diverso di essere architetti.

E lo farà anche in club importanti e gloriosi come la sua stessa Inter, il Cagliari, la Spal e il Como, e un giorno gli daranno la panchina della nazionale spagnola che Luis guidò a Italia 90, in un momento minore della scintillante storia. I risultati non vennero, ma alle conferenze stampa alle porte di Udine i cronisti si rivolgevano a Suarez con la deferenza dovuta a un nobile patriarca. Quanto lo hanno amato, i nostri papà e i nostri nonni, non necessariamente interisti.

Perché non si poteva non essere conquistati dall’apparente semplicità dei suoi gesti in purezza, quei passaggi da est a ovest, da ovest a est, valicando qualunque confine con la precisione di una carta millimetrata. E quanta malinconia, adesso, nel salutare per sempre un omino gentile, riascoltando a occhi socchiusi il suo passo asimmetrico in corridoio, piede, bastone, piede. Un inganno dei sensi. Il corpo forse zoppicava, ma il signor Luisito era ancora trasparente e leggero come un aquilone.

Bobo Vieri.

BoboTv e non solo, Christian Vieri e il fiuto per gli affari: dalla «birra dei bomber» a ville e abbigliamento. Storia di Alessia Conzonato su Il Corriere della Sera lunedì 6 novembre 2023.

Nonostante una carriera di oltre 20 anni, il mito di Christian “Bobo” Vieni non dipende più solo dal calcio. Il fiuto per gli affari del cosiddetto “bomber” è noto, in realtà, già quando vestiva le maglie dei club e numerosi compagni di squadra lo hanno seguito e accompagnato in numerose avventure economico-finanziarie in diversi settori: dai brand di abbigliamento Baci&Abbracci con Cristian Brocchi e Sweet Years con Paolo Maldini ad alcuni investimenti nel mattone, come le due case a Milano, quella venduta in Toscana e la villa a Miami, in Florida. L’ultima novità, in ordine di tempo, è stata la celebre Bobo Tv, che proprio negli ultimi giorni ha attirato i riflettori su di sé da quando Vieri ha annunciato l’addio dal progetto degli ex calciatori Lele Adani, Antonio Cassano e Nicola Ventola.

La Bobo Tv

«Volevo comunicarvi che da stasera ci sono solo io alla Bobo Tv. Ringrazio Lele, Antonio e Nicola per la loro presenza e la loro collaborazione avuta fino ad oggi», ha detto Bobo prima di annunciare l’avvio di una nuova programmazione con progetti inediti. Bobo Tv è un canale nato nel 2020, durante il primo lockdown a causa della crisi pandemica, di cui Vieri è ideatore e conduttore di gran parte dei programmi trasmessi. I temi riguardano in larga parte il mondo del calcio e spesso sono affrontati con il supporto e gli aneddoti di uno o più ospiti: tra i molti invitati ci sono stati Pep Guardiola, Roberto de Zerbi e Gianluigi Buffon, ma anche Alessandro Del Piero, Javier Zanetti, Francesco Totti e Alessandro Nesta. Dopo la diretta distribuita sulla piattaforma live Twitch, alcune repliche delle puntate vengono poi caricate sull’omonimo canale YouTube. Grazie al successo di ascoltatori, la Bobo Tv è sbarcata anche sulla Rai (in onda su Rai 1 e puntate in archivio Rai Play) con uno speciale Qatar: la trasmissione consisteva in pillole della durata di circa 4 minuti, al termine della programmazione dedicata ai mondiali del 2022.

Il nuovo format

In rete già si sono diffuse alcune teorie secondo cui l’addio di Adani, Cassano e Ventola di Bobo Tv potrebbe essere uno scherzo per aumentare l’appeal della trasmissione piuttosto che una rottura concreta. Ma se così non fosse, Bobo Vieri ha già presentato il suo nuovo format che andrà a sostituire Calcio con la F, occupando lo stesso slot orario nella serata di lunedì alle ore 21. Il programma si chiamerà «Bobo Vieri Talk Show with Special Guest» e il format prevede, appunto, che il bomber si confronti con degli ospiti e dovrebbe prevedere una maggiore possibilità di interagire con i followers. Beh diverso, quindi, da quello tenuto con i tre ex colleghi, dove insieme si occupavano di analisi delle partite o di temi più caldi sia nel calcio italiano che in quello internazionale.

Bombeer, la birra dei bomber

Sempre nell’anno della pandemia, Bobo Vieri ha avviato un altro progetto affiancato da 25H Holding Srl e Focus55 Srl, lanciando sul mercato la nuova birra Bombeer, una birra lager a bassa fermentazione. Ma, come ha rivelato affaritaliani.it, nonostante sui canali social sembra aver riscosso un discreto successo, il bilancio del 2022 sembra essersi chiuso con un utile di 2 mila euro, mentre i ricavi sono registrati a 505 mila euro (quasi dimezzati rispetto al milione dell’anno precedente). La società dietro alla “birra dei bombe” ha avviato anche una serie di collaborazioni nel corso dei tre anni. Ad esempio, nel 2021 Bombeer ha stretto un accordo con Birra Castello, sostenendone la produzione e tenendo sotto controllo la qualità del prodotto. Più di recente, invece, ha siglato un contratto di collaborazione con la squadra S.S. Lazio della durata di quattro anni per produrre una birra in licenza ed in co-branding, dove appariranno entrambi i marchi, quello bianco azzurro e quello di Bombeer.

Bobo Vieri nell’abbigliamento

Come anticipato, Christian Vieri si è cimentato anche nel settore dell’abbigliamento. Nel 2003 insieme all’ex compagno Paolo Maldini ha fondato il brand Sweet Years. Dopo il consolidamento nella realizzazione di per uomini, donne e bambini, l’azienda ha siglato importanti licenze per la produzione e la commercializzazione di accessori, tra cui profumi, gioielli, borse, calzature, calze, occhiali, beachwear, e underwear. A partire dal 2009 il marchio si espande su scala internazionale e sbarca in Giappone, dove i prodotti Sweet Years sono venduti in oltre 200 punti vendita tra boutique e department store. La società proprietaria del brand è Go Old 50 srl. I due ex calciatori a distanza di 20 anni sono ancora soci e, come ha rivelato Maldini in una recente intervista, «continuano a uscire nuove collezioni ma non ce ne occupiamo direttamente». A distanza di un anno, nel 2004, con il collega Cristian Brocchi, Vieri ha fondato il brand Baci&Abbracci, anch’esso in piena attività ancora oggi ma con cui i due non hanno più a che fare da circa il 2011. Nel 2005 insieme hanno anche avviato Bfc&co, una società specializzata nel mondo degli arredi di lusso, che però ha dichiarato fallimento nel 2010.

Nel settore immobiliare

Importanti investimenti Bobo Vieri li ha fatti anche nel mattone. La sua vita, insieme alla figlia e alla compagna Costanza Caracciolo, si divide tra due abitazioni, entrambe in stili molto simili che ricordano l’Art Decò: un appartamento in centro a Milano, precisamente nel quartiere di Brera, e una casa lungo la spiaggia di Miami, in Florida (dove la famiglia risiede per gran parte dell’anno) che sorge in un alto grattacielo con vista sull’oceano. Su un’ampia terrazza, l’immobile ospita anche la piscina. Tre anni fa, l’ex calciatore ha venduto la sua villa in Toscana, a Calvana (nelle colline della provincia di Prato): si tratta di un casale - chiamato la “villa dei Bifolchi” - da 900 metri quadri, con una depandance di 110 metri quadri, nel mezzo di parco con ulivi e vigne da circa 12 ettari. All’interno l’immobile è diviso su due livelli, dove si trovano sei camere da letto, cinque bagni, una sauna e una palestra. All’esterno, invece, c’è una piscina a sfioro riscaldata lunga ben 17 metri. Vieri l’avrebbe venduta nel 2020 per circa 6 milioni e mezzo di euro.

Le sponsorizzazioni

Negli anni di carriera calcistica e non solo, Christian Vieri ha collezionato anche molte partnership per la realizzazione di spot pubblicitari. Durante i primi anni Duemila, il calciatore è stato uno dei volti delle campagne di Cepu, come era già avvenuto con l’ex bianconero Alessandro Del Piero. È apparso in alcune nuove pubblicità di Tim, la società italiana di telecomunicazioni. Ma la più celebre e longeva è indubbiamente la collaborazione con Gillette, marchio americano di rasoi di sicurezza e altri prodotti per la cura personale. Da cinque anni Bobo è testimonial dell’iconica saga #ShaveLikeaBomber. L’ultima campagna è stata lanciata lo scorso febbraio per la nuova linea di rasoi da uomo. È stato spesso ingaggiato per spot di pubblica utilità e buone cause, come nel caso di Ail e la lotta contro la leucemia. Il caso più recente, però, è quello sull’antipirateria presentato dal Dipartimento per l’informazione e l’editoria di Palazzo Chigi in collaborazione con Agcom. Lo slogan è «Fai il bomber... Dai un calcio alla pirateria». Vieri è protagonista della campagna che punta a sensibilizzare il pubblico soprattutto più giovane sulle serie ricadute che la pirateria ha sull’economia del Paese: la visione illegale delle partite, secondo il messaggio, ricchezza per 1,7 miliardi di euro e 10 mila posti di lavoro.

Estratto da Mirko Graziano e Paolo Tomaselli per corriere.it il 12 luglio 2023.

Bobo Vieri, oggi sono 50 anni: che effetto le fa?

«È solo un numero, dai. Anche se è un numero importante». 

Dove ha festeggiato stanotte?

«Ero incerto, poi ho pensato che sono più di vent’anni che vengo a Formentera e la dovevo fare qui: il mare è uno spettacolo e chi vuol venire viene».

Ha fatto un discorso?

«Ma no. C’erano gli amici, la musica, l’importante è stare bene». 

(…)

Si è mai sentito straniero o fuori posto nei primi anni italiani?

«Sì, perché al bar sentivo dire che io giocavo a calcio per mio papà, che ero un raccomandato. Ero un bambino, vivevo da solo coi nonni e sentivo l’invidia: mi sono dovuto fare forza, difendermi. Anche con qualche “vaffa” dei miei».

I 20 anni li ha fatti tra Pisa e Ravenna. Era ancora un bomber di provincia.

«E neanche tanto bomber: a Pisa avevo fatto appena due gol, con partite orribili, senza scusanti. Il presidente Anconetani faceva bene a insultarmi. Poi a Ravenna mi sono innamorato della Romagna, purtroppo siamo retrocessi, ma volevo restare anche in C: stavo troppo bene». 

Invece va a Venezia dove incontra Maifredi.

«Il Maifer l’ho avuto sei mesi, ma lo sento ancora. È di una simpatia enorme: quando arrivava al campo mi chiamava per mostrarmi che aveva il maglione rosso, l’orologio rosso e la macchina rossa. Il giorno dopo? Maglione blu, orologio blu e macchina blu. Amava il bel calcio e lo stile».

BOBO VIERI

Erano ancora anni da catenaccio?

«All’epoca volavano i cazzotti in area, non c’erano regole, non c’era la tecnologia di adesso. Era dura fare gol. Poi Sacchi ha cambiato il calcio ed è cambiata anche la vita di noi attaccanti».

A 30 anni il compleanno da stella dell’Inter come fu?

«Quella fu una festa spettacolare, al Pineta di Milano Marittima». 

Circondato da donne?

«Ricordo che c’era Ronaldo. La costante della mia vita sono gli amici: ancora oggi mi porto dietro ovunque vado lo spogliatoio e la sua atmosfera. Quante cazzate diciamo: Di Biagio fa le stesse battute da 30 anni e ancora ridono tutti. Ma è bello stare insieme: il nostro mondo è pulito».

Per amore o sesso, qual è la grande follia che ha fatto?

(pausa) «Non si può dire». 

Lei ha sempre detto che era il re delle discoteche, ma solo in estate. Si arrabbiava quando la sua professionalità veniva attaccata?

«Sì ma se stavi dietro a tutto impazzivi. Io sapevo chi ero, come mi allenavo. Poi è normale che se scrivi male di me e io ti vedo ti mando a quel paese: io sono fatto così».

I giornalisti oggi le sono più simpatici?

«Certo, il mondo è cambiato, ora li comando io: prima non ti potevi proteggere, ora coi social puoi rispondere».

Qual è il regalo più bello che ha ricevuto o si è fatto?

«Mi sono comprato un orologio». 

A Vieri capita mai di dire «sto invecchiando»?

«Sempre. Per i dolori che ho quando faccio sport: la caviglia, le vertebre cervicali C1, C2, C3, ho mille ernie al collo. Poi la spalla sinistra mi fa male, il ginocchio sinistro anche…».

Il suo idolo da ragazzino chi era?

«Vialli e Mancini. Il 9 era il compleanno del grande Gianluca: era il mio idolo, in campo dava sempre tutto, che poi è l’aspetto che ha accompagnato tutta la mia carriera. Avevamo un bel rapporto, così come con Sinisa: fa molto male non averli più con noi». 

Che maestri ha avuto?

«Rampanti mi ha fatto crescere al Toro, poi Mondonico vedeva in me qualcosa che forse solo lui vedeva. Per Maldini ero il suo centravanti: mi faceva giocare anche fuori forma«. 

Quando si è trasformato da calciatore star a uomo maturo?

«Da quando sto con Costanza: dopo tre mesi abbiamo deciso di fare una famiglia. È stato tutto molto veloce, senza pensare a niente: abbiamo detto proviamo e vediamo come va».

Primo bilancio?

«Sei anni fantastici, Costanza mi ha cambiato la vita: mi ha dato due bambine che ogni volta che parlo di loro mi viene da piangere». 

La maturità è questa?

«Mia mamma mi diceva che avrei capito quando sarei stato pronto per fare una famiglia. Ci ho messo un po’ di tempo, però va bene. Ho fatto quello che dovevo fare, mi sono divertito». 

Ha rimpianti?

«Zero».

Nemmeno per il Mondiale saltato nel 2006?

«Era destino. Io posso solo dire grazie al calcio». 

La felicità di Vieri a 30 anni è diversa da quella a 50?

«Molto, lo vedo con le figlie. Non avrei mai immaginato questo amore folle: è pazzia. Se Costanza mi dice che c’è bisogno di qualcosa al mattino per una delle due bambine, volo in pigiama fuori dalla finestra: si chiama amore, ma è così per tutti immagino. Vivo per prendermi cura di loro e di mia moglie».

Si è mai sentito incompreso da una donna?

«No. Quello che ho fatto l’ho fatto perché in quel momento volevo farlo. La parola “se” per me non esiste».

Si è mai comportato male con una donna?

«No». 

Con suo padre che rapporto ha?

«Lo chiamo sempre Bob. Se sono così è merito suo, che è stato un grande calciatore, genio e sregolatezza e mi ha sempre detto le cose come stavano, nel bene e nel male. Le uniche critiche che ascoltavo erano le sue e quelle degli allenatori».

Con mamma?

«La donna più importante della mia vita: un altro carattere forte, discutiamo molto ed è vero che è lei che mi ha aiutato a tenere la barra dritta nel momento di massima fama». 

Coi soldi che rapporto ha?

«Buono: si fanno e si spendono».

Cosa si è comprato con il primo stipendio?

«Credo la Golf Gti». 

Quanto ha guadagnato nella sua vita?

«Non ne ho idea. Però ricordo bene quando ho firmato il primo contratto con la Juve, per cinque anni: in famiglia piangevano tutti, brindavano e dicevano “ce l’hai fatta, sei a posto per tutta la vita!». 

Se devi spiegare a un ragazzo di oggi chi è stato Bobo Vieri cosa gli racconta?

«Sono stato uno che ha sempre dato tutto e con la maglia azzurra impazzivo, è stata la più importante per me. Ho appena parlato a dei ragazzi di 15-16 anni selezionati da uno sponsor: vi diranno mille cazzate, ho detto, ma siete soli, dovete soffrire tutti i giorni, dovete lavorare fino all’infinito, se no fra due tre anni scenderete di livello. Allenatevi sempre». 

Tecnicamente come si definisce?

«Mi piaceva attaccare la profondità, non avevo paura di nessuno e aspettavo i cross degli esterni, ma la palla la volevo subito: Di Livio alla Juve fintava in continuazione e io finivo dentro la porta con la rete in testa…».

Che mondo è quello in cui crescono le sue figlie?

«Un mondo che va veloce, ma non mi fa paura. Bisogna adattarsi e accompagnare la loro crescita. Poi quando si presenterà un fidanzato sarà una roba da infarto, ma è presto». 

Bobo Vieri ha una coscienza politica?

«Di base non credo mai a nessuno. Ho una mia idea, ma ci sono troppe bugie da tutte le parti: sono molto scettico».

Un sogno per i prossimi 50 anni?

«Stare bene e vedere crescere le mie figlie». 

La filosofia di vita del Vieri 50enne qual è?

«Rispetto le opinioni di tutti, ma vado avanti per la mia strada, come ho sempre fatto da quando avevo 14 anni: se mi guardo indietro sono strafiero. Cambiare a 50 anni sarebbe una follia». 

Estratto dell'articolo di Fabrizio Rinelli per fanpage.it venerdì 17 novembre 2023.

Dalla diretta in streaming della BoboTV con il solo Vieri alla conduzione è successo di tutto. […]Successivamente la Bobo tv è sbarcata sulla radio ufficiale della Serie A e forse questo sarebbe stato alla base della rottura. Adani nei giorni scorsi in una diretta ha provato a fare il punto della situazione cercando di affrontare l'argomento per far capire agli utenti i motivi di questo caos. […] Oggi è comparsa una storia sul profilo Instagram di Vieri in cui l'ex attaccante parla in prima persona e vuota il sacco: "Mi mandarono tre messaggi vocali e non si sono più presentati".

"In questi giorni hanno parlato in tanti, tranne il sottoscritto […]Questo sarà il mio primo e unico commento su questa situazione". […] "Il 31 ottobre ho avuto un diverbio con Lele sulle strategie social future della BoboTV. Poi tutto è finito lì è non è stato scritto più niente da parte di nessuno". […] 

"Tre giorni dopo, a poche ore dal live della puntata, Lele, Antonio e Nicola mi hanno comunicato con tre vocali che non si sarebbero presentati […] Mi sono trovato in grandissima difficoltà e in un angolo. Da quel momento per me è finito tutto". Vieri cerca di tirare in ballo Adani che dei tre è stato quello che si è esposto pubblicamente di più: "Sento parlare di rispetto per la gente e di tanto altro, ma in quel momento i miei 3 amici mi hanno lasciato solo".

[…]Ho pensato di non fare la diretta, però chi mi era vicino mi ha fatto capire che la BoboTV ha il mio nome, che c'erano persone in PLB World che avevano prenotato per godersi una serata in compagnia o che avevano fatto l'abbonamento al canale […]Quindi mi sono convinto nonostante l'umore, ad andare in onda con il sorriso ripartendo da zero. Era giusto così perché i professionisti si comportano in questo modo. Buona serata" chiude Vieri. […]

Estratto dell'articolo di Federico Draghetti per calcioinpillole.it il 15 novembre 2023.

L’addio di Lele Adani, Antonio Cassano e Nicola Ventola alla Bobo TV ha fatto sicuramente scalpore. Nelle ultime ore è apparso sul web anche il comunicato ufficiale del trio, che si è allontanato dall’ormai storico talk show nato su Twitch. Alle ore 21:00 l’ex difensore ha avviato una diretta Instagram sul proprio profilo. Ecco alcune delle sue dichiarazioni della live.

[…]

Sulla riunione chiesta: “Alla Bobo Summer Cup non ero come sempre, alcuni dicevano che ero strano. Quello che a me strideva era la poca passione e la poca voglia a star dentro il progetto, soprattutto da parte di Bobo. Ognuno ha le sue caratteristiche, però un conto è esserci col cuore e con la testa, un conto è pensare ad altro, e vi assicuro che davanti a me avevo una persona in quelle condizioni. Io ho chiesto una riunione che è stata protratta anche troppo avanti. Cosa ha prodotto? L’unica cosa chiara che tutti avevano percepito era la poca voglia di condividere il percorso. Nonostante tutto abbiamo cercato di essere sempre collaborativi, perché la Bobo TV era il centro di tutto”. 

[…]

Sulla manager: “La manager ha fatto il suo lavoro, e la ringrazio, ma ad un certo punto non è riuscita a fare a pieno il suo lavoro, ma le dico grazie. […] Quando a Lignano, all’ultima tappa della Bobo Summer Cup, mio fratello ‘Cammello’, quando discuto dell’ennesima opportunità, mi ha detto ‘parla con la Valentina, tanto adesso faccio la società con lei’. Io lo guardo e gli dico ‘io parlo con te’. E invece accadeva che io dovevo andare dalla Valentina e lei non veniva da me. Potete immaginare il mio umore e sentore”.

Sulla pausa richiesta da Lele, Antonio e Nicola: “I giorni prima di venerdì scorso, dove Bobo è andato in onda e ha detto quelle cose, è accaduto che c’è stato un confronto acceso…professionale da parte mia. Passano due giorni, ed ecco la nostra richiesta di prenderci una pausa. Gli abbiamo comunicato, in tre diversi tempi, che ci saremmo presi una pausa di qualche giorno. […] Antonio mi ha detto che non c’era più lo stesso spirito e Nicola ha detto che non sembravamo più squadra”.

“Poi ho scoperto in diretta live che venivo ringraziato per essere un collaboratore. Alle 21 di sera apprendo che Bobo farà nuovi format. E quando sarebbero stati organizzati? Io a Bobo ho mandato il messaggio alle 16: come si fa a fare nuovi format in così pochi minuti? Poi abbiamo sentito anche che ‘era giusto cambiare’. La domanda ora è: ‘ma se era giusto cambiare, perché nessuno sapeva?’ Nessuno. Secondo me non lo sapeva nemmeno la manager. Magari qualche idea balenava già da prima? Magari dall’estate…”. 

Sull’accordo tra la Bobo TV e la Radio Serie A: “Io con la Lega non ho niente contro, conosco tutti. Ma io mi chiedo: un accordo del genere, con i tuoi fratelli ancora in attesa di una risposta da venerdì, come hai fatto a farlo? (riferendosi a Bobo, ndr.) Cosa c’entra la Radio della Lega con la Bobo TV? […] L’accordo è stato fulmineo”.

[…]

 Antonio e Nicola sono amici spettacolari…e ho voluto tanto bene a Bobo. Ci tengo a dire anche che lo spogliatoio dovrebbe rimanere sacro e protetto…o almeno avrebbe dovuto. Chi ha amato per una vita può sopportare anche un tradimento”. 

Sul futuro

“Non so cosa accadrà nei prossimi giorni. […] certamente torneremo a parlare. Quando? Non lo so. Ora non è tempo. Nel momento che si è interrotta una cosa non ce la faccio ad andare in diretta a dire quelle cose, soprattutto con chi ho condiviso una vita. La cosa che mi fa più male è vedere un amico che va in onda e sorride come se niente fosse, ma comunque lo rispetto”. 

“La totale verità non ve la dirò mai. Non voglio essere costretto a separarmi se certi comportamenti non rispettassero la giustizia. In questo modo potrò godermi l’amicizia con tanti di voi. La seconda cosa che dico è che se non fossi Lele Adani, nella mia vita come migliore amico vorrei Lele Adani”.

Francesco Moriero.

Francesco Moriero: molto più dello sciuscià di Ronaldo. Assistman assetato, ala imprendibile, opificio dribblante di gol fenomenali: lustrascarpe del Fenomeno sì, ma di talento. Paolo Lazzari il 24 Giugno 2023 su Il Giornale.

Fronte mare fa un caldo pazzesco. Raggi che lacerano la pelle e anche quei folti capelli aggrovigliati. Francesco deve tuffarsi un mucchio di volte per smorzare l'afa. Poi però lo chiamano dalla spiaggia. Si sbracciano proprio. "Moriero! Moriero!". Intravede la sagoma del padre. Esce fuori di corsa. Strizza il costume. "Vieni dai, che manca uno a Carletto". Carletto sarebbe Mazzone. Il suo Lecce ha troppe defezioni e deve giocare contro la Juventus. Serve anche il ragazzino.

Francesco, diciassette anni appena, si asciuga e corre in ritiro. In ascensore incrocia Carletto. "Emozionato?". Lui annuisce. "Tanto non me ne frega, per me giochi uguale". Lui non pensava neanche di andare in panchina. Invece è titolare sulla stessa fascia di Cabrini. Che nei primi dieci minuti se lo trangugia. Poi Checco prende le misure e gli assesta un tunnel e un contro - tunnel. Cabrini la prende malissimo e lo falcia. Rissa totale. Finirà 3-0 per la Signora. Ma lui, da quel giorno lì, non uscirà più dal campo.

Quel primo dribbling ad un campione di quel calibro è il manifesto della sua irriverente sfrontatezza. Perché la qualità che da subito identifica il ragazzo, ala purissima che ama l'ingaggio, il duello, non è il talento naturale. Quel che più fa la differenza è che lui se ne frega. Non importa chi gli si para davanti. Fosse anche Franz Beckenbauer o l'ultimo dei difensori della più malandata serie pugliese, lui intende saltarlo. Un'attitudine mentale da zaffiro raro. I suoi tecnici gongolano.

Del Lecce diventa cardine inamovibile, prima di essere prelevato dal Cagliari. In Sardegna contribuisce a riportare la squadra dentro un piazzamento europeo dopo un'era geologica. Poi passa alla Roma, dove si disimpegna con esaltante disinvoltura al fianco di Totti. Moriero impenna il livello delle sue prestazioni e, con esse, sale anche il lignaggio delle pretendenti. Fino all'Inter, una di quelle storie sorte quasi per caso, ma che poi si rivelano benedizioni potenti.

E pensare che lo aveva preso il Milan a parametro zero. Poi però era sorto un intrallazzo che aveva incasinato tutto: André Cruz aveva firmato per entrambe le milanesi. Per districare la matassa, Galliani lo offre a Gigi Simoni, che lo accoglie benevolo. Appena calpesta il suolo della Pinetina riscontra però un dilemma. A destra gioca già Javier Zanetti. Per scalzarlo non basterebbe un mese di giaculatorie. Però il tecnico non è uno sprovveduto. Si accorge subito della sana tracotanza pressata dentro al calcio di Moriero. Che salta puntualmente l'argentino, Bergomi, Simeone. E lega da matti con Ronaldo, Zamorano, Recoba.

Il Fenomeno è abbagliante. Agli altri restano soltanto rivoli di luce. Francesco gli lustra le scarpe dopo i gol. Ma resta il primo tra gli umani. Lo scudiero più degno. Intarsia quella prima stagione interista, tanto inattesa quanto balsamica, con una quantità di assist prodigiosa. E quando segna lui raramente si arrende alla banalità. La rappresentazione più plastica di questo concetto è forse racchiusa nel suo gol al Neuchatel Xamax, in Coppa Uefa. Cross di Sartor dalla destra, rovesciata sotto l'incrocio di Checco.

Un giorno Ronaldo lo tira per la manica: "Senti, con Figo pensavo di aver visto il più grande esterno al mondo, ma mi sbagliavo". Complimenti fenomenali. In nerazzurro perderà uno scudetto dopo un oceano di polemiche per il rigore non concesso su Ronnie, contro la Juve, ma solleverà una coppa Uefa. Di lui gli interisti ameranno - fino al 2000, l'anno della separazione - l'estro e il coraggio inestinguibili. E forse è proprio all'Inter che si realizza più compiutamente il culto di Moriero. Molto più di un semplice sciuscià.

Evaristo Beccalossi.

Dribblare alla Beccalossi: il fantasista pigro che fece vibrare l'Inter. Paolo Lazzari il 17 Giugno 2023 su Il Giornale.

Indolente eppure tecnicamente superbo. Riluttante allo sforzo fisico, ma comunque irrinunciabile. Evaristo Beccalossi, un dieci che poteva irradiare o deprimere senza preavviso

Gianni Brera l'aveva ribattezzato Dribblossi. Perché lui l'uomo provava a saltarlo sempre e, se poteva, ci ripassava anche per soggiogarlo con quella tecnica straripante. Poi però d'improvviso si spegneva. Iniziava a ciondolare per il campo, finendo avviluppato da una catalessi calcistica senza ritorno. Così un giorno potevi giocare in dodici - come avrebbero rilevato i suoi compagni - o magari in dieci. Non lo sapevi mai. Il fantasista non spedisce preavvisi. Il fantasista crea e disfa regolandosi con l'umore. Evaristo Giuseppe Beccalossi era un demiurgo e un distruttore in entrambe le più profonde delle accezioni. 

Se ne accorsero nitidamente all'Inter, dove arrivò nel 1978, dopo aver pervasivamente luccicato nella sua Brescia. Talento limpido certo, ma pure parzialmente indotto da una dedizione che aveva sfoggiato in verità soltanto da bambino. Era destro naturale, ma c'era una questione. Il poster appeso in cameretta era quello di Omar Sivori, il ricamatore per eccellenza. L'ammirazione era tale che il piede andava corretto. E allora i pomeriggi diventavano interminabili sfide con il muretto della sala parrocchiale. Calciare e addomesticare. Sempre più forte. Fino a quando la sfera non sarebbe diventata una propaggine del mancino.

Repertorio fintistico già sterminato in fase adolescenziale. Cadenze molleggiate, ma palla sempre in ghiaccio. Difensori strapazzati. Prima il vivaio della squadra della sua città, poi la Serie B. Quindi l'occasione che bussa una volta soltanto. Le luci abbaglianti del Meazza. Settantamila spettatori che d'un tratto intonano il tuo nome. Perché Beccalossi era in fondo uno svagato seduttore. Nelle stanze damascate della sua mente conteneva pensieri calcistici fervidi e spiazzanti. Solo che anche in nerazzurro, dove aveva conquistato la maglia numero dieci, seguitava a sciabordare e ritrarsi. I tifosi lo idolatravano, ma certe volte i suoi pisolini in mezzo al campo lasciavano atterriti. Era un generatore incantato di assist - che preferiva solennemente alle reti - ma anche un fabbricatore di improperi. Specie quelli dei compagni e degli allenatori.

Di lui si diceva che mangiasse male, dormisse poco e bevesse troppi caffè. Un miscuglio che rischiava di distillare il suo estro. Ammetterà in seguito che si era incasinato perché forse tutto era successo troppo in fretta. A ventidue anni ti ritrovi protagonista con la Beneamata e metabolizzare non è una passeggiata. La sera non riusciva a prendere sonno per i pensieri che intasavano le tempie e la mattina non si svegliava mai presto. Appena c'era una pausa si gettava sul cibo, lievitando anche di quattro chilogrammi a weekend. Chiaro che poi in campo, a tratti, rischiava di rimanere sfasato. Lo traevano in salvo le luci e il boato dello stadio. Dava subito di più, anche se non ne aveva, perché si sentiva inorgoglito da quel calore fragoroso.

Poi c'era stata quella frase che avrebbe sussurrato ad Albertosi dopo una doppietta nel derby, ma che non trova conferme dirette: "Mi chiamo Evaristo, scusate se insisto". Gli allenatori che lo costringevano a dormire al centro sportivo per tenerlo sotto controllo. Quella notte di coppa contro lo Slovan Bratislava che sapeva di due rigori falliti nel giro di una manciata di minuti e che, in seguito, sarebbe diventata materiale buono per una sceneggiatura teatrale.

Nel calcio muscolare e intenso di oggi probabilmente se lo ruminerebbero. Ma Evaristo Beccalossi è stato - e resta - semplicemente un figlio del suo tempo. Il dribblomane per eccellenza. Quello che sapeva tracciare strade tra le mangrovie. Un opificio di indolente talento che ha generato quello che nessun super atleta odierno saprebbe riprodurre: i sogni della gente. Decisamente la sua giocata migliore.

Simone Inzaghi.

Il calendario sexy, il figlio, la rottura: la storia d'amore tra Simone Inzaghi e Alessia Marcuzzi. Nel passato dell'allenatore del'Inter Simone Inzaghi c'è la storia d'amore con Alessia Marcuzzi, nata dopo l'uscita del sexy calendario di Max. Novella Toloni il 10 Giugno 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Il grande amore e la nascita di Tommaso

 La crisi e l'addio nel 2006

"Io e Simone abbiamo fatto le cose troppo di corsa". Così, alcuni anni fa, Alessia Marcuzzi spiegò i motivi della fine della storia d'amore con l'allenatore dell'Inter, Simone Inzaghi. In effetti nel 1998, quando il calciatore (che aveva 27 anni) e la showgirl, 24 anni, si conobbero la passione li travolse e quella formata da Alessia Marcuzzi e Simone Inzaghi fu la prima coppia calciatore-showgirl della storia dello showbiz italiano. Lei era nel pieno della carriera televisiva grazie a Fuego!, lui stava per diventare un simbolo della Lazio.

Come si sono conosciuti Alessia Marcuzzi e Simone Inzaghi rimane un mistero. Sebbene la coppia fosse tallonata dai paparazzi, come sia scoccata la scintilla non è chiaro. Qualcuno parla di un incontro nel backstage di qualche programma televisivo, altri raccontano di una conoscenza nata per caso durante una serata in un locale milanese. Simone milita nelle fila del Piacenza mentre Alessia è uno degli astri nascenti di Mediaset e conquista la popolarità grazie al calendario di Max, il primo della sua carriera, nel quale si mostra bellissima e senza veli. A fare perdere la testa a Inzaghi sarebbe stato anche questo, oltre alla simpatia travolgente della showgirl che colpisce al cuore il calciatore.

Il grande amore e la nascita di Tommaso

La coppia inizia a frequentarsi al riparo da occhi indiscreti, ma con il passare dei mesi e con l'approdo di Simone Inzaghi alla Lazio, i riflettori si accendono sulla loro storia d'amore e le riviste li inseguono per tutto lo stivale. La Marcuzzi è impegnatissima in tv con Mai dire gol, poi viene scelta per sostituire Simona Ventura alla guida de Le Iene, ma ci sono anche Festivalbar e i Telegatti. La carriera non ruba tempo alla coppia e appena possibile Simone e Alessia si godono il loro amore alla luce del sole. Sono belli, giovani e ricchi e le copertine delle riviste di gossip su di loro si moltiplicano. Nel 2000, quando Alessia Marcuzzi approda in prima serata con Le Iene Show, la conduttrice rimane incinta del suo primo figlio. La coppia è solida e i progetti di vita insieme sono concreti, così nell'aprile 2001 nasce Tommaso, il loro primogenito.

La crisi e l'addio nel 2006

La showgirl torna al lavoro prestissimo e riprende da dove si era interrotta (con il Galà della pubblicità), mentre Simone Inzaghi consolida la sua carriera nella Lazio. Il rapporto tra il calciatore e Alessia Marcuzzi comincia, però, a incrinarsi intorno al 2004. I giornali scandalistici parlando di "allontanamento" tra i due, che insieme si vedono sempre meno se non per stare accanto al piccolo Tommaso. Complice la svolta professionale di Alessia, che diventa attrice protagonista della serie "Carabinieri" (tra il 2004 e il 2006), i due si allontanano inesorabilmente fino all'addio definitivo. È il 2006 e l'annuncio della separazione arriva per bocca dell'agente della showgirl, Beppe Caschetto: "È stata una grande storia d’amore che si è conclusa in maniera amichevole". I veri motivi della rottura non sono mai stati chiariti, ma Alessia Marcuzzi - anni dopo - ha ammesso che la coppia ha bruciato le tappe. Oggi Alessia Marcuzzi è single (con alle spalle il matrimonio fallito con Paolo Calabresi), mentre Simone Inzaghi è sposato con Gaia Lucariello, dalla quale ha avuto due figli.

Ronaldo, il Fenomeno.

Ronaldo il Fenomeno compie oggi 47 anni: che fine ha fatto. Storia di Pierfrancesco Catucci il 22 Settembre 2023 su Il Corriere della Sera

Il FenomenoCompie oggi 47 anni Ronaldo il Fenomeno, anche se, in realtà, come ha raccontato il giornalista James Mosley (autore del libro-inchiesta «Ronaldo: il viaggio di un genio»), è nato il 18 settembre ed è stato solo registrato il 22. Il brasiliano dai piedi fatati che aveva cominciato a tirare i primi calci con la maglia delle giovanili del Sao Cristovao di Rio de Janeiro, però, ha da sempre festeggiato oggi. Due Palloni d’oro con il Barcellona e l’Inter, le storie (e un mistero) Mondiali, ma anche la nuova carriera da presidente del Valladolid, le compagne, i figli... Facciamo un viaggio nella sua vita con nove curiosità. Nove come il numero di maglia con cui ha fatto innamorare del calcio anche i suoi avversari. Buon compleanno!Quando è nato davvero?Una domanda che ha tenuto banco per diverso tempo: quando è nato Ronaldo il Fenomeno? Il 18 oppure il 22 settembre? Qualcuno in passato l’ha celebrato il primo giorno, altri il secondo. Il dubbio non ha lasciato tifosi e appassionati finché non è stato lo stesso brasiliano a ringraziare per gli auguri ricevuti il... 22 settembre. Il motivo di questa «doppia data di nascita» dipenderebbe da quando effettivamente è stato registrato all’anagrafe. Stando a un’inchiesta condotta dal giornalista James Mosley, Ronaldo infatti sarebbe venuto alla luce il 18 ma registrato il 22. «Mistero» risolto.

L’origine del nome Nel 1976, quando nacque, i genitori decisero di chiamarlo così in onore del medico che lo fece nascere, Ronaldo Valente. Un nome che, però suo fratello faceva fatica a pronunciare. E così, all’inizio, il suo soprannome fu Dadado, presto sostituito da qualcosa di più iconico: Fenomeno, stampato anche su una maglia speciale diffusa dall’Inter nel 2018 con il numero 10, quello della prima stagione nerazzurra (1997-1998), prima di passare al «suo» 9. «Autobus pieni di ragazze» «Ero a una festa di compleanno con mia moglie, quando sono cominciati ad apparire autobus pieni di ragazze. Mia moglie mi ha detto di tornare a casa, così come quella di Figo. Era la casa di Ronaldo... la stessa che poi ha venduto a Sergio Ramos». Racconti, aneddoti e feste non convenzionali: anche tutto questo ha fatto parte della vita madrilena dell’attaccante brasiliano. «Ammetto che ci sia una parte di verità — si arrese così il Fenomeno in un’intervista a Movistar —. Dopo che si vinceva una partita amavo organizzare delle feste. Il problema è che giocavo in squadre dove si vinceva spesso. Comunque ci sono molte più leggende metropolitane rispetto a quella che è la realtà dei fatti. A volte avrei anche potuto organizzare qualche festa in più, ma non è stato così».

L’attaccante perfetto Del Ronaldo calciatore si sa praticamente tutto. Ma, a carriera conclusa, ci sono due numeri davvero impressionanti. Al netto degli infortuni che hanno drammaticamente segnato la sua carriera, nei club Ronaldo ha segnato una media di 0,68 gol a partita, una rete ogni 120 minuti giocati. Media praticamente identica in Nazionale: 0,63 reti a partita (62 in 98 apparizioni), una ogni 125 minuti giocati. «Ronaldinho» ai Giochi di AtlantaRonaldo è 4 anni più grande di Ronaldinho, altro fuoriclasse della scuola brasiliana. Dopo il Mondiale del 1994 vinto in panchina (proprio contro l’Italia in finale), Ronaldo fu convocato nel 1996 nella rappresentativa olimpica che vinse il bronzo ai Giochi di Atlanta. In quella squadra, in difesa, c’era anche Ronaldo Guiaro. Per distinguersi, il Fenomeno fece scrivere sulla maglietta «Ronaldinho». Cosa che, evidentemente, non avrebbe potuto fare negli anni successivi.

La fabbrica di figli Dopo i primi quattro figli avuti con tre donne diverse, per evitare altre gravidanze, Ronaldo si è sottoposto a un intervento di vasectomia. «Ho chiuso la fabbrica di figli» ha detto in un’intervista. Anche se il Fenomeno spiegato di aver congelato un po’ del suo liquido seminale nel caso in cui, in futuro, dovesse cambiare idea. «Ce n’è abbastanza per sfornare una squadra di calcio». E sembrava avesse cambiato idea all’inizio dello scorso anno quando la compagna, la modella brasiliana Celina Locks, ha pubblicato una foto in cui lasciava intendere di essere incinta. In realtà stava lanciando la sua linea di cosmetici.

Eroe di Messi Anche Lionel Messi ha un eroe e risponde al nome di Ronaldo. In un’intervista, il fenomeno argentino ha raccontato: «È il miglior attaccante che abbia mai visto, nessuno ha mai avuto la sua velocità d’esecuzione. Ronaldo è il mio eroe, mi sono sempre piaciuti Zidane, Ronaldinho e Rivaldo, ma Ronaldo è il migliore di tutti». Il caso al Mondiale 1998Uno dei più grandi misteri sulla vita di Ronaldo è datato 12 luglio 1998, giorno della finale del Mondiale di Francia tra i padroni di casa e il Brasile. Nel pomeriggio della partita, mentre guardava in tv il gran premio di Silverstone di Formula 1, Ronaldo ha le convulsioni e perde conoscenza per quattro minuti. Edmundo e Cesar Sampaio lo salvano dal soffocamento e viene portato in ospedale. Nella prima distinta della partita risulta in panchina, poi parte regolarmente da titolare, ma è solo il fantasma del campione che aveva trascinato i verdeoro fin lì. Non si è mai saputo perché abbia giocato quella sera, anche se lui si è assunto tutte le responsabilità e l’inchiesta parlamentare partita subito dopo in Brasile (si temeva che dietro quella scelta ci fosse la volontà dello sponsor di non rinunciare alla sua presenza in finale) non ha portato ad alcunché.

In bici a Santiago Nella seconda vita nel calcio, Ronaldo è il presidente del Valladolid, club spagnolo rilevato a settembre 2018. Due salvezze nelle prime due stagioni, poi la retrocessione in Segunda Divisiòn e il fioretto. «Se torniamo in Liga, vado a Santiago de Compostela in bicicletta». Detto, fatto. Il Valladolid è tornato nella massima serie nazionale e il Fenomeno ha percorso i 300 km fino a Santiago in bici (elettrica) in sei tappe da 50 km ciascuna. Nel ricordo di quel gol meraviglioso segnato proprio a Compostela nel 1996, partendo da centrocampo, con la maglia del Barcellona.

Un videogioco solo per lui Per dare una dimensione del fenomeno Ronaldo tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, basti pensare che nel 2000 uscì il videogame Ronaldo V-Football, pubblicato da Infogames. In quegli anni il Fenomeno concesse i diritti del suo nome solo a questo titolo e per tre anni, sui più celebri giochi della linea Fifa, prodotti da Electronic Arts, si chiamava A. Calcio oppure No.9.I problemi di peso Già negli ultimi anni di carriera da calciatore, Ronaldo ha cominciato la personale lotta con la bilancia. Dopo il ritiro a 34 anni, ha spiegato che l’aumento di peso non era dovuto a eccessi alimentari, ma all’ipotiroidismo che gli era stato diagnosticato ai tempi del Milan. Si tratta di un disturbo che rallenta il metabolismo e complicato da curare con farmaci che non siano considerati dopanti. Dopo il ritiro, infatti, in un’intervista ha detto: «Non ce la faccio più, ho perso contro il mio corpo». Corriere Della Sera

Estratto dell'articolo di Ylenia Cucciniello per sport.virgilio.it martedì 26 settembre 2023.

Ora è ufficiale: Ronaldo il Fenomeno si è sposato con Celina Locks. La coppia, conosciutasi nel 2015, ha celebrato la loro unione nella giornata di ieri, lunedì 25 settembre, in una chiesa nel centro di Ibiza[…] Ora, via ai festeggiamenti che procederanno per qualche giorno. Intanto, è giunta la prima foto su Instagram dei due, entrambi in abiti bianchi e avvolti dai numerosi petali: “Oggi abbiamo riunito le nostre famiglie per un’intima celebrazione religiosa. Diamo inizio a una settimana di festeggiamenti”. 

Chi è Celina Locks, moglie di Ronaldo il Fenomeno

Per Ronaldo il Fenomeno, dunque, si è concretizzato il suo quarto matrimonio. A dire “Si, lo voglio”, ora, è stata Celina Locks dopo otto anni trascorsi insieme. Lei, modella è imprenditrice brasiliana nonchè fondatrice dell’omonimo brand di beauty, nella sua carriera ha figurato in numerose riviste di moda, come anche sulle passerelle di altrettante sfilate internazionali: tra le più note, anche la Paris Fashion Week. Inoltre, nel lontano 2007, praticamente agli inizi della sua carriera, si è aggiudicata il titolo di Supermodel of the World.

27 luglio 1997: la prima notte del Fenomeno a San Siro. Ronaldo era stato acquisto per 48 miliardi delle vecchie lire: sugli dello stadio di Milano spalti lo accolsero in 50mila. Paolo Lazzari il 23 Maggio 2023 su Il Giornale.

Clausola rescissoria saldata. In totale fanno 48 miliardi delle vecchie lire. Ma per uno così ogni centesimo, riflette il patron Massimo Moratti, dev'essere senz'altro ben speso. Atterra di mattina presto, Luìs Nazario de Lima, per tutti Ronaldo. Alle sei e cinque minuti calpesta già il suolo di Fiumicino, dopo essersi sciroppato un volo transoceanico. Poi si infilerà su un altro aereo alla volta di Milano. Quando finalmente scende, è come fosse un allunaggio. Solo che il satellite siamo noi. Lui è l'alieno venuto a conquistarci.

Scoccano le otto in punto. Si lavora la scaletta accolto dalla luce già ambrata del sole, mentre a Roma pioveva. Jeans neri. Camicia a quadri. Sorrisone con la finestra nel mezzo che già si allarga. La gente interista è in deliquio. No, questo qua non è uno normale. Questo qua può fare la differenza come mai era capitato prima. A soltanto vent'anni Ronnie è già un opificio del gol. In Brasile ha divelto retroguardie con innaturale disinvoltura. Arrivato alla gran prova dell'Europa, il continente dove prevale la tattica e le maglie si serrano, ha comunque fatto spallucce. Cinquantaquatto reti in 57 partite ufficiali con il PSV. Vabbé è l'Olanda, ciarlano gli improvvisati detrattori. Allora Spagna. Barcellona. Qui ne fa 47 in 49 gare. Praticamente il vecchio continente è già un suo enclave. Fa tutto a velocità ipersonica e tutto benissimo. Troppo luccicante per non appiccicargli le pupille addosso.

Quindi Moratti si fruga. Materializza una libidine che non poteva nemmeno essere sussurrata. Fuori è il 25 luglio 1997. La gente lo bracca. Lui, accompagnato dalla fidanzata, si ferma volentieri a distribuire autografi. Quando la mano diventa eccessivamente indolenzita dribbla la pazza folla e se ne va a pranzo con Moratti, Sandro Mazzola e Luis Suarez. Poi, intorno alle 16, a digestione completata, sale le scale della sede interista di via Durini e si affaccia. I tifosi sono sempre lì, in mucchio esorbitante. Lui agita la mano come fosse un novello pontefice. Sicuramente è il più degno rappresentante del Dio calcistico su quella terra, in quel momento, e probabilmente anche per gli anni a venire.

Diceva di lui Fabio Cannavaro: "Per la mia generazione è stato quello che Maradona o Pelé erano per le precedenti. Era immarcabile. Al primo controllo ti superava, al secondo ti bruciava, al terzo ti umiliava. Sembrava un extraterrestre". Ritratto ineccepibile. Ronaldo non ha nulla da spartire con le penose vicende terrene. Trova spassose le difese che lo marcano a uomo, nel tentativo estremo di arginarlo. Possiede un giacimento di finte inesauribile. Un repertorio di mostruose sterzate e cambi di direzione. Si sollazza con il doppio passo. E, oltre il circense spettacolo, crivella i portieri senza alcuna deferenza.

Due giorni dopo c'è la Pirelli Cup a San Siro contro il Manchester United di Sir Alex Ferguson. Il pretesto succoso per vedere subito l'extraterrestre all'opera. Arrivano in cinquantamila, anche se il clima è vacanziero, quasi tutti indossando la maglia nerazzurra. Sul campo, Aldo, Giovanni e Giacomo simulano uno svenimento quando lo annunciano. Gigi Simoni gli concede uno spezzone: farà coppia con Ganz per 17 minuti, prima di essere sostituito da Zamorano. Fa comunque in tempo a piazzare un paio di accelerazioni terrificanti. Quell'Inter è abitata a centrocampo dai Djorkaeff e i Simeone, in porta c'è Pagliuca e davanti Kanu ritorna commuovendo tutti. Ma gli sguardi sono tutti per Ronnie.

Alla fine, assediato dalla stampa e abbracciato da una muraglia di bambini, parla ai microfoni: "Il mio primo contatto con il pubblico dell'Inter è stato molto bello. Ho capito che San Siro è uno stadio ideale per giocare a calcio. Sono felice. Adesso devo lavorare per aumentare la mia resistenza, per raggiungere una tenuta sui novanta minuti".

L'incipit di una storia destinata a stravolgere i paradigmi esausti del calcio italiano e di quello globale.

Mario Balotelli.

Estratto da corrieredellosport.it il 30 aprile 2023. 

[…]Mario Balotelli si confessa a Muschio Selvaggio, la trasmissione radiofonica condotta da Fedez. “[…]da piccolo non capivo l’affido ad altri genitori da parte dei miei genitori biologici, oggi posso dire che con quella scelta la mia famiglia naturale mi aiutò. Oggi quella scelta l’ho capita". 

Mourinho, un padre

“Devo quasi tutta la mia carriera all’Inter […]ma nel cuore sono sempre stato milanista. Mourinho? E’ simpaticissimo. Ho avuto un rapporto un po’ particolare, un bel rapporto. Abbiamo due caratteri difficili da gestire, andavamo spesso allo scontro, ma era uno scontro paterno, tra padre e figlio. Una volta abbiamo litigato in pullman: io ho chiesto all’autista di farmi scendere, ho ripreso la macchina e me ne sono andato a casa. Poi l’Inter ha perso, ed è successo un casino… Nella mia vita ho fatto tante ca***te, ma c’ho sempre messo la faccia. Il Triplete? Mourinho in ha fatto la differenza, tira fuori il meglio di te, ti fa arrabbiare. E tu, per reagire, spacchi tutto, metti fuori tutta l’adrenalina che hai in corpo”. 

Lo scontro con Totti

"C’era stata una partita negli anni precedenti, in cui avevo zittito i tifosi della Roma […] ma non credo che lui ce l’avesse con me per quel motivo. Lui in finale di Coppa Italia ce l’aveva con il mister che non lo aveva fatto giocare dall’inizio, e per questo era nervoso. Io Totti lo rispetto tantissimo, gli voglio bene. Alla fine della partita gli ho anche scritto: “Perché mi hai dato il calcio?”. Lui è stato disarmante nella risposta: Dai, non ti ho preso neanche bene…”. Francesco ha fatto la storia del calcio italiano”.

Bobo Gori.

Estratto da Gazzetta dello Sport il 5 aprile 2023.

Quattro scudetti con tre maglie differenti, come soltanto sei calciatori nella storia della Serie A sono riusciti a fare. Nella notte è scomparso Sergio "Bobo" Gori all'età di 77 anni: vinse il campionato italiano con Inter (due volte), Cagliari e Juventus, ma giocò anche con Vicenza, Verona e Sant'Angelo. Con i nerazzurri alzò anche tre trofei internazionali negli Anni Sessanta - due Coppe Intercontinentali e una Coppa dei Campioni -, più una Coppa Uefa in bianconero nel 1977, mentre con la Nazionale fece parte della spedizione che arrivò seconda al Mondiale di Messico 1970.

Bobo Gori è venuto a mancare alla Multimedica di Sesto san Giovanni, dove era ricoverato da circa due settimane. Milanese di nascita, crebbe proprio nel settore giovanile dell'Inter, della Grande Inter, anche se a posteriori si ricorda soprattutto la sua lunga militanza nel Cagliari, sei stagioni tra il 1969 e il 1975 che gli sono valse anche l'inclusione nella Hall of Fame del club sardo, anche in quanto protagonista dell'indimenticabile titolo del 1970. Dopo il ritiro scelse la strada da opinionista sportivo.

Fabio Macellari.

Fabio Macellari che fine ha fatto: «Dall’Inter alla cocaina e all’alcol alla rinascita». Monica Scozzafava su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2023

L’ex terzino sinistro di Inter, Cagliari e Bologna: «Ho dilapidato una fortuna in vizi, auto e donne. Ho toccato il fondo e sono ripartito da zero. Vivo con 1.500 euro al mese»

Si può vivere con due milioni all’anno (ultimo contratto calcistico), ma star bene altrettanto con 1.500 euro al mese, tagliando legna nel casolare di famiglia. Soprattutto quando hai dilapidato una fortuna, sei stato dipendente dalla droga e dall’alcol, hai scelto le migliori macchine sportive e hai avuto tante donne. Fabio Macellari, ex Cagliari, Inter e Bologna la vita l’ha vissuta dall’alto e soprattutto dal basso. La rottura del crociato gli preclude l’ultima possibilità della Nazionale («ci andò Fabio Grosso al mio posto»), ma sono le «cattive abitudini» — la cocaina, l’alcol — a stroncargli una carriera che poco più che trentenne poteva riservargli ancora successi («invece persi la strada, completamente»). Macellari, terzino sinistro dell’Inter di Ronaldo il fenomeno e di Vieri, oggi ha 48 anni: è finito a fare il panettiere, il cameriere « e qualsiasi cosa mi capitasse pur di guadagnare». Ne parla oggi con serenità. Dice pure di essere stanco di rivivere certi ricordi, poi però cede: «Ho dilapidato una fortuna, divertirmi mi è costato carissimo. Ma ho imparato poi a godere delle piccole cose, nella sfortuna ho ritrovato i valori che la famiglia mi ha sempre insegnato».

Macellari, adesso cosa fa?

«Su e giù tra Cagliari e Piacenza. Ora sono in campagna nella casa di famiglia, con me c’è la mia compagna: taglio legna e curo l’orto. Un paesaggio verde che mi dà serenità, mi riconcilia con le cose belle della vita. Ed è inutile stare sempre a pensare a quello che poteva essere e non è stato, sono contento della carriera che comunque ho fatto. Certo, tornassi indietro certe stupidaggini non le farei. Quando sei giovane non ti rendi conto della fortuna che hai perché guadagni tanto e pensi solo a divertirti. Quando smetti di giocare, i soldi finiscono subito perché sei abituato a un certo stile di vita. L’infortunio al ginocchio mi ha mandato in depressione, ho provato a rialzarmi ma niente. Ho cominciato con la droga, poi l’alcol. Ho toccato il fondo ed ero senza un soldo. E da lì o muori o riparti da zero, io ce l’ho fatta».

Colpa del calcio?

«Ma no, anzi. Per quello che ho visto dopo, il calcio è tra i mondi migliori. Sono stato io che ho avuto atteggiamenti sbagliati: se avessi avuto la testa avrei fatto altri 10 anni, pure con la Nazionale. Però sa cosa le dico? Se potessi tornare indietro rifarei quasi tutto. Se avessi preso altre decisioni non avrei avuto mio figlio, e quello è stato il gol che ti cambia la vita. Dopo Bologna e il recupero fisico tornai nella mia Cagliari, dove ero stato protagonista di una storica promozione in serie A, Cellino mi voleva bene, dopo il passaggio in A mi aveva regalato una Mercedes Pagoda. Ma quel ritorno non andò bene. Ne combinai tante e fui messo fuori rosa».

Ci racconta?

«Una sera uscii con degli amici e tornai alle 10 della mattina dopo. Chiamai Cellino per autodenunciarmi, si arrabbiò molto perché per lui ero come un figlio, mi fece mettere fuori rosa. Qualche anno dopo decisi di smettere perché avevo capito che non era più il caso, e lì il tunnel, cazzate una dietro l’altra. Pian piano ce l’ho fatta, dovevo farcela. Per vivere. Non avevo nulla, tutte le proprietà di famiglia mi erano inaccessibili, dovevo campare. Il tempo è passato e ho avuto accesso alla mia bella pensione, ora mi diletto appunto tagliando legna, curando l’orto. Stando con mio figlio».

Lui sa dei suoi trascorsi?

«Certo, sa tutto. Come è giusto che sia. Ho fatto errori anche gravi ma non ho mai perso di vista i valori: a lui ho insegnato questo. Non ho mai rubato, mai spacciato droga. I delinquenti non hanno mai problemi di soldi. Io per sopravvivere ho fatto dal cameriere al panettiere al taglialegna . Adesso mi godo la famiglia e la pensione, il benessere semplice. La vita vera».

Ma non ha l’età della pensione...

«No, ma quella della pace sì. Quello che dovevo fare l’ho fatto e mi sono pure divertito, adesso mi godo la mia compagna e mio figlio. Presto andrò un po’ alle Canarie dove vive mio fratello».

Guarda il calcio in tv?

«Poco, per la verità. Tifo per tutte le squadre dove ho giocato, con una simpatia in più per l’Inter che mi è rimasta nel cuore».

Ma anche lì poteva andar meglio.

«L’Inter è stato un sogno durato poco. Uscito di scena Lippi, l’allenatore che mi aveva voluto, sono gradualmente scomparso. Un po’ per colpa mia, un po’ per la scarsa fiducia della società e del nuovo tecnico Tardelli. È facile bruciarsi nell’Inter. Quando una squadra cambia ogni anno troppi giocatori, fatalmente qualcuno si smarrisce lungo il percorso. Ma sono ancora legato a quei colori».

Italo Galbiati.

Da gazzetta.it l’8 marzo 2023.

È morto a 85 anni Italo Galbiati, ex mezzala di Inter, Lecco e Como. È stato lo storico vice allenatore di Fabio Capello sulla panchina di Milan, Roma, Juventus e Real Madrid. Ne ha dato notizia uno dei sue ex giocatori, Daniele Massaro: “Buon viaggio grande Italo, grazie per la tua pazienza ogni giorno e dei grandi insegnamenti”.

Galbiati giocò nell’Inter prima di vestire la maglia del Lecco per l’esordio in Serie A. Rimase a Lecco anche dopo la retrocessione, poi si trasferì al Como fino a fine carriera. È stato dirigente nel settore giovanile dell’Inter, allenò il Milan in tre periodi in sostituzione di Gigi Radice e Ilario Castagner. Con Fabio Capello si creò un sodalizio che lo portò a essere il suo secondo anche sulle panchine dell’Inghilterra e della Russia.

Alvaro Recoba.

Recoba al Venezia, la migliore mezza stagione di sempre. El Chino in prestito dall’Inter risollevò le sorti dei lagunari sfornando un quantitativo esagerato di assist e gol superbi. Paolo Lazzari l’11 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Caracolla verso l’auto, con la consueta indolenza. È avvolto in un ampio piumino, il berretto di lana calato fin sopra la fronte, occhiali scuri a celare quegli occhi da orientale. Venezia a gennaio è una suggestione ibernante. Non che a Milano ci si rosolasse al sole, ma insomma lui è uruguagio autentico e il clima rigido lo deglutisce a fatica. Ora sale su una barcarella. Scivola via, basculando, verso la sagoma in controluce del Penzo. Forse ha il tempo di ripercorrere mentalmente i tre gol della stagione scorsa. Zaffiri isolati, manifestazione di un fenomeno indolente e, dunque, irrisolto.

Gigi Simoni infatti non ci punta. Anche se per Moratti è già un mezzo pupillo, dopo la prima parte di stagione gli suggerisce di andare altrove, a farsi le ossa. Il Venezia però è un club sul punto di inabissarsi. È risalito in serie A, ma pare non avere polpastrelli sufficientemente aderenti per rimanervi aggrappato. Quando El Chino arriva, la squadra annaspa penosamente nei bassifondi. Gli allibratori si sfregano le mani. Non serve una chiromante per intuire che se continuano così sono spacciati.

Eppure Marotta, indaffarato insieme a Di Marzio alla corte del tumultuoso Zamparini, ha provato a mettere su un’ensemble fatta di onesta manovalanza. Davanti c’è Stefan Schowch, capello fluido e riflessi glaciali sotto porta, come certificano i 17 centri della stagione precedente, anche se si trattava di cadetteria. Tra i pali Taibi, giunto dal Milan insieme a Filippo Maniero, un altro che dovrebbe flirtare senza ritegno con lo specchio. E poi i Volpi, i Valtolina, il carneade Tuta, il brasiliano Bilica. I Luppi, i Pavan e i Carnasciali. Tutti sicuri mestieranti. Nessuno che riesca a esimersi dall’opacità. Così i lagunari imbarcano. Incassano sanguinose sconfitte di misura e debacle sconfortanti. Al giro di boa della stagione appaiono terribilmente inclinati verso lo sprofondo.

Cristallino che i tifosi si aspettino un mercato salvifico. Serve una robusta iniezione di competitività. Una pastiglia effervescente per rivitalizzare un gruppo inciampato sopra a speranze divelte. Così quando la boutade Alvaro Recoba si concretizza, i veneziani dilatano le pupille. Come potrebbe un pivello uruguagio, pietosamente a secco di reti e d’una pigrizia irritante, risollevare le sorti di una stagione asfittica? Al male si aggiunge il peggio quando i supporter vengono a sapere che, per far spazio al ragazzino dagli occhi a mandorla, il grande sacrificato e Schwoch, un diretto per Napoli sul primo binario.

Lo sconforto collettivo prevale soltanto perché non possono sapere, i profani, che dentro al cuore sudamericano di Alvaro risiede un inesauribile giacimento calcistico. Dipende soltanto se lui ha voglia di scavare. Per fortuna del Venezia, la risposta non potrebbe essere più affermativa. Scarpino total black, fascetta a imbrigliare i capelli, maglia numero undici sulla schiena: Recoba in laguna comincia un altro campionato. Interrogandosi in profondità sul suo talento, estrae risposte fulgide e letali.

Sia chiaro: in campo seguita a trotterellare. Ma è la quiete dei forti, quella che anticipa uno tsunami gentile e incontrastabile. Novellino, che lo deve gestire, abdica quasi al primo allenamento: “A questo lasciamogli fare come gli pare”, mormora ai suoi assistenti. Di fatti Alvaro non torna. Non copre. Si rifiuta categoricamente di lottare. Quando infuria la contesa suppliscono gli onesti manovali. Lui si erge sopra la mediocrità popolare, dispensando raggi di poesia uruguagia. Accarezza il pallone come un’amante preziosa. Lo deposita in rete per diritto divino.

Con lui al suo fianco anche Maniero si stappa. Riavvitare il nastro dello scontro interno contro l’Empoli, per capire l’assist da cui nasce il prodigioso gol di tacco di Pippo. Oppure premere "Rec" sulla fragorosa vittoria contro la Roma e su quella contro il Perugia: portano incise entrambe la loro sigla. Il paladino che incide calcio e il suo degno scudiero. La tenzone di Recoba è però soltanto contro i suoi limiti. Buca anche l’Udinese. I ragazzi di Novellino si arrampicano sulle sue prodezze e risalgono dall’infamia dei bassifondi.

Poi arriva anche il 14 marzo del 1999. Al Penzo giunge la Fiorentina di Batistuta, collettivo ambizioso e irruento. Dall’altro lato però si erge El Chino e non ce n’è. Finisce con un annichilente 4-1 per il Venezia. Recoba ne fa tre, due dei quali su calcio piazzato. Quel sinistro sibilante infrangerà parecchi altri sogni in stagione. Il suo bottino personale racconterà di undici centri in sei mesi. Gli assist non si contano. Alvaro contiene l’impudenza dei campioni, anche se non ne possiede la dedizione. Per quel ristretto intervallo di tempo però, basta e avanza.

A fine stagione il Venezia lambisce la zona europea. Un sogno impensabile per chi gravitava tra i mulinelli che conducono alla B. C’è voluto un improbabile uruguagio dagli occhi a mandorla per flettere il destino. Recoba tornerà all’Inter per acclamazione. Ma quei sei mesi in laguna, inevitabilmente, restano infilati tra i ricordi come la più bella mezza stagione di sempre.

Beppe Marotta.

Beppe Marotta: «Al liceo giocavo a calcio con Maroni. La Juventus è il passato». Monica Colombo su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2023.

Il dirigente si racconta: «A 8 anni implorai il Varese di farmi fare il magazziniere. All’Inter e alla Juve ho coronato il sogno che avevo da bambino». Il calciatore più folle? «Vidal, l’uomo dalla doppia vita». Entrare in politica? «Da tecnico, senza tessera di partito»

Il Bosco Verticale che riflette le vetrate dell’ufficio è l’iconica immagine dell’ultima e più prestigiosa tappa lombarda della vita professionale di Beppe Marotta . «Mi sento come Salvatore, il bambino di Nuovo Cinema Paradiso: inizia come aiuto proiezionista al cinema del paese e diventa un grande regista. Ho coronato il sogno di una vita cominciando da bimbo a Varese, facendo il garzone del magazziniere».

Il suo primo ricordo?

«A 4 anni all’asilo ad Avigno, con il grembiulino azzurro e il cestino della merenda».

Che lavoro svolgevano i suoi genitori?

«Mia mamma Maria era casalinga. Mio papà Giovanni invece era uomo dello Stato. Prima si è arruolato nella Marina e ha combattuto la Seconda guerra mondiale. Poi è passato al Ministero delle Finanze, precisamente all’Intendenza della Finanze — l’equivalente dell’odierna agenzia delle entrate —, destinazione Varese. Era originario di Messina».

Come è stata la sua infanzia?

«Il calcio ha da subito rappresentato il filo conduttore della mia esistenza. La mia fortuna è stata abitare a 500 metri dallo stadio Ossola e dalle finestre di casa vedevo i campi di allenamento della squadra che ai tempi era in serie A. Mi affacciavo e mi dicevo: “Un giorno su quel campo voglio entrarci anch’io”».

E qual è stata la mossa per avere accesso a quel mondo così agognato?

«Avrò avuto otto anni. Mi sono presentato davanti alla porta dello spogliatoio e ho chiesto ad Angelino, il magazziniere, di poter assistere agli allenamenti. Lui, dopo aver un po’ tergiversato, ha acconsentito a una condizione. Il patto era che io lo aiutassi a pulire gli scarpini, sgonfiare i palloni, mettere le maglie a lavare. In cambio potevo indossare la tuta del Varese e osservare le sedute. Poi ho fatto carriera...».

In che senso?

«A 11 anni, il 4 febbraio del 1968, sono stato il raccattapalle di Varese-Juventus, 5-0. Un risultato storico, tripletta di Pietro Anastasi».

Nel frattempo però studia.

«Dopo le scuole medie, avendo una netta predilezione per le materie umanistiche mi sono iscritto al liceo classico Cairoli, dove tra l’altro si sono succeduti allievi come Bobo Maroni, Mario Monti, Attilio Fontana».

E come faceva a dividersi fra le versioni di greco e i pomeriggi a passare il lucido sulle scarpe?

«Le compagne mi aiutavano con i compiti. Mi ricordo ancora la severità delle professoresse con i camici neri».

Maroni era uno studente impegnato?

«Aveva già all’epoca la stoffa del politico, era nel movimento studentesco. Lui, che aveva due anni più di me, veniva a scuola con i quotidiani politici. Io con la Gazzetta. Però eravamo nella stessa squadra di calcio del liceo, con Attila».

Chi?

«Fontana, era il suo soprannome. C’era anche Beppe Bonomi, il presidente della Sea. Giocavo da centrocampista, poi a 16 anni ho iniziato la carriera da dirigente».

Precoce.

«A 19 ero il responsabile del settore giovanile. Così, strada facendo, abbandonai l’altra inclinazione».

Ovvero?

«Su Il Giornale, quotidiano locale dell’epoca, scrivevo il commento della A. Pezzi alla Sconcerti. A venticinque anni ero già presidente del club».

Il suo primo acquisto?

«Michelangelo Rampulla dalla Pattese».

Nel 1987 passa al Monza, l’attuale creatura di Berlusconi e Galliani.

«Mi alterno con Adriano che lascia la squadra l’anno precedente. È un’esperienza importante perché con Piero Frosio in panchina vinciamo il campionato di C».

Un giovane Marotta in panchina accanto a Fascetti

A Venezia percorse il Canal Grande sul Bucintoro?

«Per festeggiare la promozione in A, un grande onore. Sa dove abitavo? A Palazzo Albrizzi, dove per un certo periodo aveva preso dimora il Foscolo, amante della contessa».

Mai Recoba fu più efficace come in quell’anno?

«È stata una delle poche volte in cui le qualità del singolo hanno smentito l’assioma di Michael Jordan secondo cui con il talento si vincono le gare, ma con il lavoro di squadra si conquistano i campionati».

Il giocatore che l’ha fatta più divertire?

«Cassano alla Samp: ho accettato la sfida di Garrone di gestire la squadra pur in B. In otto anni l’abbiamo portata ai preliminari di Champions. Ma non dimentico Del Piero, Buffon e Ronaldo».

Il più indisciplinato?

«Vidal, l’uomo dalla doppia vita».

La chiamata della Juventus è stata l’apice della carriera?

«Per un dirigente che arriva dalla provincia, le grandi squadre, come la Juventus prima e l’Inter ora, rappresentano la realizzazione del sogno di bambino».

È un caso che il cosiddetto sistema Paratici, fondato sulle plusvalenze, sia esploso dopo la sua partenza?

«I miei anni in bianconero fanno parte del passato e non posso che avere ricordi positivi. Non entro nel merito del lavoro altrui, penso al mio presente nerazzurro».

A Torino è in atto un processo di ricostruzione dopo il terremoto delle inchieste. Tornerebbe alla Juve se glielo proponessero?

«Sono contento del percorso fatto. All’Inter mi trovo bene e sono concentrato per contribuire a nuovi successi».

A quale trofeo è maggiormente legato?

«Il campionato di B vinto con la Sampdoria, il primo scudetto con la Juventus e il recente con l’Inter».

Non le hanno mai chiesto di entrare in politica?

«Certo. E siccome nella vita bisogna sempre avere un sogno nel cassetto il mio è quello di accedervi da tecnico, senza tessera di partito, per offrire il mio apporto in termini di competenza ed esperienza».

Non è che politicamente parlando la sta corteggiando il suo amico Giorgetti?

«No, guardi qui. Mi ha mandato un messaggio per prendermi in giro e dire che ci avevano soffiato loro Carlos Alcaraz del Racing. Giancarlo è tifoso del Southampton».

Lei per chi vota?

«Sono un moderato di centro, non a caso mi chiamavano il Kissinger del calcio».

Ha avuto paura quando è stato ricoverato nel 2021 per il Covid?

«Sì perché non si conosceva l’evoluzione della malattia. Per qualche giorno ho indossato il casco, sono stati momenti difficili».

Walter Zenga.

Walter Zenga: «Il rapporto con i miei figli non è sempre stato sereno, ci rincorriamo un po'. Sogno di allenare l'Inter». Manuela Croci su Il Corriere della Sera il 12 Febbraio 2023.

L’ex portiere si racconta a 40 anni dal debutto con i nerazzurri. La prima volta a San Siro, il rapporto difficile con papà Alfonso (tifosissimo della Juve), Vialli compagno di stanza nell’Under 21 e l’esperienza all’Al-Nassr dove oggi gioca Cristiano Ronaldo

Zenga, 62 anni, è uno dei commentatori di punta di Sky Sport, opinionista negli studi di Sky Calcio L’Originale, programma dedicato al calcio mercato condotto il sabato da Alessandro Bonan (Federico Guida/Contrasto)

«Provi a immaginare: l’Italia aveva appena vinto il Mondiale e io andavo per la prima volta in ritiro con l’Inter. Nello spogliatoio c’erano Collovati, Bergomi, Altobelli, Bordon. Non ha idea dell’emozione. Era il mio sogno di bambino che si avverava: tifavo Inter da sempre, andavo in curva quando la curva era ancora all’altezza del calcio d’angolo, avevo fatto il raccattapalle a San Siro . E finalmente, dopo anni in provincia, tornavo a casa».

Walter Zenga, 62 anni e 473 presenze tra i pali nerazzurri, ricorda così la stagione 1982-1983, quella che 40 anni fa lo portò a debuttare in prima squadra con la maglia che vestirà per 12 anni consecutivi vincendo uno scudetto, una Supercoppa italiana e due coppe Uefa. «Erano momenti diversi, non c’erano tutte le restrizioni di adesso e per andare al campo di allenamento si passava in mezzo ai tifosi con la gente che ti acclamava».

Gianluca Pagliuca, Roberto Baggio e Walter Zenga con Sophia Loren prima del debutto al Mondiale di Italia 90 (Federico Guida/Contrasto)

Ha iniziato a giocare a 9 anni, suo padre ha modificato il suo anno di nascita per farla esordire in anticipo. Il calcio era un desiderio più suo o di papà Alfonso?

«Assolutamente mio. Stiamo parlando degli Anni 70, la preistoria. Allora un ragazzino per essere tesserato doveva avere 10 anni compiuti, adesso mio figlio Walter jr, che ha quell’età, è iscritto già da 4 anni in una società minore di Dubai».

Perché il portiere?

«Mio papà aveva giocato in quel ruolo in serie C. Una volta mi ha regalato maglia, calzettoni e pantaloncini neri insieme a un pallone di cuoio. Quando andavo all’oratorio a giocare era difficile trovare uno che volesse stare in porta e che avesse un pallone bello: io avevo entrambi i requisiti, è venuto tutto in modo naturale».

Zenga da portiere della Nazionale è su una giostra acquatica con Gianluca Vialli

La prima volta a San Siro?

«Mio padre mi portò a vedere Inter-Brescia, il portiere aveva un maglione nero con una grande V bianca, rimasi folgorato».

Anche l’amore per l’Inter arriva dal papà?

«No, lui era juventino perso. Quando c’era Inter-Juve era un problema: se perdevamo io mi arrabbiavo, piangevo. Anche il mio primo figlio Jacopo è bianconero, siamo una famiglia strana. Però gli altri quattro figli sono dalla mia parte».

Il rapporto con suo padre non è sempre stato facile.

«Ho avuto dei periodi di blackout con lui per motivi che adesso mi sembrano sciocchi, ma che allora mi avevano ferito molto. Se tornassi indietro non perderei tempo».

Con i 5 figli al matrimonio di uno di loro, Jacopo: da sinistra, Nicolò (avuto dalla seconda moglie Roberta Termali), i piccoli Walter jr. e Samira (dalle nozze con Raluca Rebedea), lo sposo (figlio della prima moglie Elvira Carfagna) e Andrea (anche lui avuto da Termali)

Vi siete ritrovati prima che morisse.

«Ho la fortuna di avere un fratello fantastico: Alberto, che ha sei anni meno di me, ha tenuto sempre i fili del nostro legame. Quando mio padre si è aggravato ero a Bilbao con la Steaua di Bucarest per una partita di Coppa Uefa: eravamo felici, ci eravamo qualificati al turno successivo. Mio fratello mi scrisse un messaggio: “Complimenti, sei stato un grande. Sappi che papà non arriva a lunedì”. Mi sono accorto che non avevo più tempo. Sono tornato a Bucarest, ho diretto la partita del sabato e sono scappato a Milano. Ho fatto appena in tempo a vederlo».

Che incontro è stato?

«Papà si è tolto la maschera dell’ossigeno e mi ha detto: “Bravo, 3-0 e ti sei qualificato. Stai andando bene, sono contento di quello che stai facendo e sono contento di vederti”. Il mattino dopo è morto».

Il rapporto con i suoi figli.

«Non è sempre stato sereno, non è facile quando vivi in un altro Paese, magari con un fuso orario differente. Ho imparato che l’importante è la qualità del tempo che trascorriamo insieme. Samira e Walter jr sono a Dubai, i più grandi abitano tra Milano e Roma. Un po’ ci rincorriamo, capita di vedersi in aeroporto mentre aspettiamo voli diversi e a volte riesco a cenare con Jacopo, Nicolò, Andrea. La cosa difficile è vederli insieme, ognuno ha la sua vita: Nicolò è stato in Africa per lavoro, Andrea gira sempre, Jacopo è anche un tenero papà. Per fortuna ci sono le videochiamate».

Chi le somiglia di più?

«Credo Andrea. Ha una testa dura come la mia, si avvicina molto al mio modo di essere, di pensare. Faceva il portiere. Nicolò è serio, direi serissimo, è vicepresidente di un’azienda. Jacopo è un attaccante, ha sempre giocato in serie D e in eccellenza, si è creato la sua strada da solo».

13 dicembre 1993, Zenga festeggia la vittoria sugli inglesi del Norwich City agli ottavi di Coppa Uefa. I nerazzurri vinceranno la competizione il 26 aprile 1994 battendo il Salisburgo. Pochi giorni dopo “l’uomo ragno”, così è da sempre soprannominato il portiere, lascerà l’Inter dopo 12 anni. Oggi Zenga è uno dei commentatori di punta di Sky Sport, opinionista negli studi di “Sky Calcio L’Originale”, condotto il sabato da Alessandro Bonan. Si è da poco conclusa la finestra del mercato invernale, che ha visto “Calciomercato L’Originale”, in diretta per una settimana da Madonna di Campiglio, un’edizione scandita da un anniversario importante, i 20 anni del programma (Live Brunskill/Allsport/Getty images)

Torniamo all’Inter, allenarla è un sogno?

«Lo è sempre stato, ho fatto tutta la trafila dalle giovanili, ho lavorato in sede, ora sono una legend. Nella vita è importante inseguire un grande sogno, fa niente se si avvera o no. La mia soddisfazione è che ancora oggi per strada i tifosi dell’Inter mi fermano ed è come se avessi smesso di giocare l’anno scorso. E anche quando qualcuno di un’altra squadra mi dice cose poco carine, non mi offendo: vuol dire che un segno l’ho lasciato nonostante l’ultima partita ufficiale sia stata l’11 maggio 1994».

Cosa ricorda di quel giorno?

«Tutto. Ricordo qualsiasi sfumatura di tutti i match che ho giocato, quello che mi ha dato l’Inter è stato enorme».

Un’altra maglia, quella della Nazionale. Dopo la sconfitta con l’Argentina a Italia 90, alla Gazzetta lei disse: «Caniggia è stato bravo ad anticipare la mia idea di anticiparlo. Ed io non sono stato furbo come lui. Ma non è un gol balordo che può cancellare una carriera».

«Confermo. In un’intervista Claudio ha spiegato più o meno le stesse cose. Dire che ho fatto un errore e non abbiamo vinto quella partita ci sta, ma dire che per quello abbiamo perso il Mondiale è un falso storico. Eravamo in semifinale, avremmo dovuto vincere anche la finale».

Nella stessa intervista: «Lo dicevo stanotte a Vialli: vedrai che saremo soprattutto tu ed io i grandi imputati».

«Avevamo vissuto una situazione simile quando, nel 1986 a Valladolid, perdemmo ai rigori l’Europeo Under 21».

Miglior marcatore in quel torneo fu Gianluca Vialli, che rapporto avevate?

«Da quando se n’è andato, se vedo una foto o un’intervista in tv giro, troppa emozione. Prima Sinisa, poi lui, Tacconi che è ancora in ospedale… Sono coltellate. Nell’Under 21 io e Luca eravamo in camera insieme. Non avevo con lui il rapporto che hanno costruito negli anni Mancini o Lombardo, ma eravamo sulla stessa lunghezza d’onda. Magari ci sentivamo a distanza di un mese, ma ad ogni chiamata era come se la linea fosse caduta un minuto prima».

Stretta di mano con Mauro Icardi a San Siro, marzo 2019 (Ansa)

Cosa le manca di quando giocava?

«I momenti di aggregazione, le lunghe partite a carte. Durante Italia 90 facevamo tornei di tresette, briscola, scopa. Oggi quando vai in ritiro, arrivi e i giocatori spariscono. Li rivedi a cena e poi il giorno dopo. C’è un po’ di nostalgia per lo spogliatoio, per le lunghe chiacchierate quando non si riusciva a dormire prima di un match importante. E anche per i momenti difficili o le sconfitte, le “partite maledette” sono quelle che saldano le amicizie».

Con chi è rimasto più legato?

«A Riad per la Supercoppa ho visto Ferri e gli ho detto: “Dai, Ricky, cambiamoci e scendiamo in campo”. È bello vedere gli altri che fanno qualcosa di importante: Maldini dirigente del Milan, Costacurta e Bergomi impeccabili commentatori di Sky, Ferri team manager dell’Inter. Scambio messaggi con Pagliuca e Ferrara, prima sentivo spesso Tacconi. Quando ho incontrato Klinsmann a Doha ci siamo abbracciati come alla fine di una partita».

Meglio allenatore o commentatore?

«Allenatore, anche se sono fermo da 2 anni. La mia fortuna è che ho sempre avuto un piano B per non stare a casa in attesa d’una telefonata. Ho fatto radio, tv».

Ha allenato anche l’Al-Nassr dove ora gioca Cristiano Ronaldo.

«Era il 2010, molto è cambiato. Ho incontrato l’attuale mister, Rudi Garcia, e mi ha detto “Tu sì che hai avuto coraggio”. Tredici anni fa non era facile. Il calcio in Arabia Saudita è tosto, ora hanno aumentato il numero di stranieri, ci sono allenatori di livello. Ogni partita dell’Al-Nassr a Riad è sold out con 40 mila persone».

La squadra che, da mister, ha nel cuore?

«Sono mourinhano: dove vado, divento un ultrà dei miei ragazzi. Ho avuto tanto da Catania e Palermo. A Crotone ho lasciato l’anima. Poi la Samp, il Venezia. Ogni città mi ha dato qualcosa».

In radio ha lavorato con Amadeus, oggi impegnato con il Festival.

«È un interista sfegatato, simpatico e di compagnia (sorride). Mi fa incazzare solo che non mi abbia mai invitato a Sanremo».

Messaggio inviato, la attendiamo sul palco.

Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport il 22 dicembre 2022.

Walter è un misto di ironia, strafottenza, narcisismo, sensibilità, leggerezza e vulnerabilità. È un uomo autentico , veloce di pensiero e , all’occorrenza , profondo e anche autocritico . Con lui si riesce a parlare non solo di calcio tenendo sempre alto il punto . Nei drammatici ultimi giorni di Sinisa Mihajlovic chiamava in continuazione e ieri, da Dubai («passerò i l Natale con i ragazzi»), mi ha chiesto di Mario (Sconcerti, nda) e di come se n e sia andato «improvvisamente, ingiustamente». Da domenica l a preoccupazione, l’ansia si è spostata su Luca Vialli, un altro pezzo di vita. Sua, nostra. «Piangere da solo è la cosa che mi riesce meglio ultimamente» mi dice subito.

«Ho versato tante lacrime per Sinisa e continuo a pensare a Luca, a Stefano (Tacconi, nda) che non è ancora uscito dall’ospedale. Più passa no gli anni e più aumentano le occasioni di sofferenza. Sarà anche naturale, è vita, ma quando ti ci ritrovi dentro è sempre oltre . Certi dolori ti portano a riflettere sull’atteggiamento da tenere nei confronti delle cose, a dividere le situazioni e le incazzature in evitabili e inevitabili . Poi succede c he la quotidianità ti travolge e torni a ripetere gli errori e a prendertela anche per le stupidaggini. .. Io l a prima brutta botta l’ho ricevuta nel 2005, quando morì mio padre . Riuscii a vederlo soltanto all’ultimo perché in quei giorni allenavo la Steaua Bucarest e ero impegnato a Bilbao il mercoledì e in campionato il sabato. 

Partii la domenica mattina e ebbi la possibilità di trascorrere soltanto poche ore con lui . .. (prende una lunga pausa). Certo , quando però  penso a Luca…».  

 Quando pensi a Luca...  

«Vengo travolto dai ricordi. (Un sorriso accompagna il racconto ). Prima trasferta negli Stati Uniti con Sacchi. Allenamento finito , gli spogliatoi americani hanno, o avevano, l e docc e a ombrello. Siamo sotto io, Luca e Arrigo. A un certo punto Luca si gira verso di lui e fa : “Arrigo, mi passi lo shampoo?”. Io sono stato fatto fuori subito, Luca qualche tempo dopo». 

(Adesso ride di gusto e prosegue). 

«Quando eravamo insieme nell’Under 21 di Vicini Luca stava con Giovanna, la prima fidanzata. Le firmava le giustificazioni per farla uscire dalla scuola…Quanto tempo…».   

Quanto tempo cosa?  

«… sprecato, quante energie bruciate inutilmente. Nel momento del dolore uno si ripromette di cambiare, di guardare alla vita in modo diverso e poi… E poi capita che gli gir i n o vedendo Salt Bae con in mano la coppa. Ti dico una roba: non mi hanno permesso di assistere alla finale del Mondiale spiegando che lo stadio era esaurito e così m’è toccato di trovare quel tale in campo…».   

Walter, cosa ci resta del Mondiale?  

«La consapevolezza che c’entri poco col calcio quotidiano. Questione di strategie a dotta te in un torneo breve nel quale si va avanti attraverso le partite secche. Le statistiche le avete pubblicate: il possesso palla è risultato perdente e s’è parlato di funerale del tikitaka. 

Quasi tutte hanno premiato chi lasciava il pallone all’avversario puntando sulla solidità difensiva e sui supplementari e i rigori. Lo stesso Marocco che contro la Spagna aveva subìto un 77 a 23, ed era passato, contro la Francia è uscito giocando di più . Delle ultime undici partite mondiali la Spagna ne ha vinte solo tre, qualcosa dovrà pur significare. 

Mi sorprendo quando qualcuno pretende novità tattiche da un Mondiale o un Europeo. Anche l ’ Italia del Mancio ha fatto l’impresa con i supplementari e i rigori… Del Qatar mi restano le cose belle, le polemiche le lascio agli altri».   

E quali sarebbero quelle belle?  

«Tutti gli stadi erano vicinissimi e le nazionali non sono state obbligate a trasferte di peso diverso. I semplici appassionati hanno avuto la possibilità di vedere anche due, tre partite nella stessa giornata».   

Ti accontenti di poco.  

«Aggiungo il clima. Ideale».   

Non mi hai convinto. L’elenco delle cose intollerabili era infinito.  

«Vuoi sapere perché ha vinto l’Argentina?».   

Cambi discorso?  

«Non mi sottraggo, ma a Mondiale concluso le polemiche perdono di valore. Vuoi sapere perché ha vinto?».   

Perché aveva Messi.  

«E un tecnico che gli ha cucito addosso la squadra dopo la prima uscita. Via Gomez, Paredes e Di Maria , dentro Mac Allister, Enzo Fernandez e Julian Alvarez. Messi ha 35 anni e non si può pretendere che corra per novanta minuti come Enzo e De Paul. Santos questo non l’ha capito, i l primo che ha sacrificato è stato Ronaldo con tutto il carico di motivazioni che si portava appresso.  

La Francia ha investito s u Mbappé, lo stesso Griezmann s ’ è messo al servizio del compagno. L’infortunio di Neymar e tanta sfortuna hanno penalizzato il Brasile .. . Ronaldo 37 anni, Messi e Modric 35, gente che i giovani dovrebbero studiare: il loro è stato un percorso straordinario . L ’altro giorno ho pubblicato un reel nel quale Messi era criticatissimo dagli argentini. Per questo ti dico che ha avuto una grande forza, dalla coppa America l’ho visto cresciuto tantissimo nella leadership non solo di soluzioni ,  un vero leader globale».  

Oggi è ancora più vicino a Diego.  

«Diego vinse da solo nell’86, perse la finale del ’90 e non gli permisero di andare avanti quattro anni dopo. In America sarebbe certamente arrivato fino in fondo».   

Restiamo in qualche modo a Napoli. Chi avvertirà maggiormente gli effetti della lunga sosta?  

«Ascolta: Luciano a inizio novembre disse che la sosta era una mano santa perché la squadra era mentalmente stanca. E c h i stava andando male benedisse lo stop poiché interrompeva la serie nera. Sono curioso di verificare chi tra i due ave sse ragione. Il Napoli comunque merita questo scudetto per quello che ha mostrato nei primi tre mesi. Si riparte da Inter-Napoli, ma Lukaku non gioca da agosto, al Mondiale solo scampoli, e Lautaro è ancora sul pullman. Come Dybala, Paredes, Di Maria. Sento ripetere che il Napoli può essere ripreso perché è atteso a due sfide-chiave. Vero, ma se le vince? Cosa succede se batte Inter e Juve?».  

Da chi ripartiamo ?  

«Dal georgiano su tutti. Ma anche da Vicario, Carnesecchi e Scalvini. Davanti, invece, un pianto. Mi affascina l a sfida degli opposti romani , Mourinho e Sarri. Hanno entrambi la cultura del lavoro, quella maniacalità che è valore , Mou è strepitoso anche nei rapporti. Con Maurizio ho fumato le più belle sigarette degli ultimi anni. Crotone-Napoli, a fine partita ci mettemmo in un angolino a fumare e parlare. Lui è davvero un unicum, la sua modernità risiede nell’attaccamento ai princìpi fondanti del calcio » 

Dario Freccero per “la Stampa” il 17 dicembre 2022.

Zenga: "Joao Pedro salta perché non vuole prenderla". Mihajlovic: "No, salta perché vuole fare una finta e inganna il portiere". E giù risate, con quei cappellini e le testone ravvicinate. Gag così, tra due allenatori nel post partita, non se ne vedono molte. Primo luglio 2020, Bologna-Cagliari è appena finita 1-1 e nel dopo gara Zenga e Mihajlovic danno vita ad uno show divenuto virale sui social.

Ci racconta Zenga?

«Sinisa era già davanti alla telecamera e mi fa "cosa fai li, vieni che commentiamo insieme". Intervengono da Sky in studio: "non si può, c'è il Covid". E Sinisa "e chissenefrega, hai paura tu Walter?". "Io? Ma figurati, ho paura solo di te". Così mi dà uno dei suoi auricolari e ci mettiamo attaccati a commentare e punzecchiare su ogni azione. È uno degli ultimi ricordi con lui ma sintetizza bene il rapporto di una vita intera: schietto, affettuoso, ironico, anti retorico».

Come definirebbe la vostra amicizia?

«Lui aveva detto una volta che ero il suo fratello maggiore e io l'ho sempre vista così, da fratello maggiore a minore anche se di pochi anni. Di certo siamo sempre stati vicini: abbiamo giocato insieme, allenato in staffetta a Genova, Catania e Belgrado, vissuti vicini a Milano, ci siamo sfidati, aiutati, provocati, presi in giro un mare di volte. Non ho parole per dire la sofferenza di sapere che non c'è più, ho avuto le lacrime tutto il giorno e ce l'ho ancora adesso».

Com' è iniziato tutto?

«Alla Samp nel biennio 1994-96 quando lui era partito terzino sinistro e poi spostato centrale. L'allenatore era Eriksson. Tra un portiere e il suo centrale nasce sempre un rapporto, nel nostro caso c'era anche il carattere: ci piacevano le stesse cose, così ci siamo trovati da subito». 

Tipo?

«La gente vera, gli scherzi, la spontaneità, la sfida su tutto. Quando era nato il mito delle sue punizioni quante volte lo sfidavo a Bogliasco dicendogli "se ne batti dieci non fai un gol"».

E lui segnava?

«Eccome se segnava! E più spostavo indietro il pallone, perché aveva quella sassata che tutti ricordiamo, più segnava. Quando l'ho capito era tardi purtroppo. Allora cambiavo strategia: "ok, però sei scarso sui rigori". Ma neppure io ero fortissimo... Siamo andati avanti così per mesi. Se lo sfidavi era divertentissimo perché ultra competitivo, non avrebbe accettato di perdere per nulla al mondo».

Passava per sergente di ferro, lo era?

«Quando mai! Se c'era una persona buona, di cuore, era lui. Poi che discorsi, era un serbo tutto d'un pezzo e considerava la squadra la sua famiglia e guai toccargliela. Tutte le volte che lo avete visto perdere le staffe e scontrarsi con qualcuno era per il senso di appartenenza, l'orgoglio, la difesa dei suoi. Ma la durezza, la cattiveria è un'altra cosa». 

La prima cosa di lui che le viene in mente?

«Direi la generosità». 

Un esempio?

«Quando sono andato ad allenare la Stella Rossa, a Belgrado, se non fosse stato per lui che mi ha aiutato ad inserirmi non so se ce l'avrei fatta. Se gli chiedevi una mano, lo trovavi sempre. Io ho fatto per lui la stessa cosa a Catania ma lui aveva meno bisogno del sottoscritto».  

Anche in panchina alla Samp avete fatto la staffetta nel 2015.

 «A Genova mi è andata meno bene quando sono subentrato a lui: lui aveva conquistato l'ottavo posto, quindi i preliminari europei, e la mia Samp è subito uscita. Ne avrei di cose da dire ma ovviamente lui vedeva lo sfottò del mio flop».  

Quando vi siete sentiti l'ultima volta? 

«A inizio mese poi non me la sono più sentita, sapevo che era peggiorato e soffrivo troppo. Uno battagliero come lui non riesci ad accettare che non vinca».  

È stato meglio da giocatore o da allenatore? 

«Non entro nel giudizio, sono troppo coinvolto emotivamente. Per me è stato fortissimo da giocatore, come prova la sua carriera, e un grandissimo pure da allenatore, perché se non sei bravo non finisci su tante panchine in Serie A. Però sfatiamo il mito di Sinisa tutto carattere e grinta: queste sono doti che aveva ma era soprattutto un grandissimo conoscitore di calcio e un uomo intelligente e sensibile. Mancherà al nostro calcio, ce n'è poca gente come lui».

Ivan Zazzaroni, Direttore del Corriere dello Sport-Stadio e del Guerin Sportivo per “la Stampa”, il 17 dicembre 2022.

Massimo Giannini mi ha chiesto di raccontare il "mio Sinisa" ai lettori de "La Stampa". Ovvero - ma non poteva saperlo - di descrivere (anche) un errore imperdonabile, che ho pagato, quello di averlo considerato a lungo "mio". In particolare da quando, nell'ottobre 2008, consigliai all'allora direttore generale del Bologna, Pier Giovanni Ricci, di dare all'ex vice di Mancini, pur se alla prima esperienza, il posto di Daniele Arrigoni che stava per essere esonerato. 

Suggerii proprio a Mancio di incontrare il dirigente per sostenere la candidatura di "Sini" - lo chiamavo così - e lui si prestò. Due giorni dopo la chiacchierata tra Ricci e Roberto, Sinisa mi chiese di accompagnarlo negli uffici milanesi dei Menarini dove incontrò la figlia del proprietario, Francesca. Una rapida stretta di mano prima di lasciarli soli. La convinse in meno di un'ora con la sua esuberanza, la voglia di fare, tanta personalità. 

L'esperienza a Bologna non si rivelò esaltante: sei mesi dopo, ad aprile, i Menarini lo licenziarono e presero Papadopulo, imposto - si disse - da Luciano Moggi. Catania, Fiorentina, Serbia, Samp, Milan, Torino, la Juve sfiorata due volte: nel giro di pochi anni, tra molti alti e qualche basso, l'allenatore Mihajlovic crebbe professionalmente, insieme alla nostra amicizia. A un certo punto pensai di avere ottenuto l'esclusiva del rapporto giornalista-tecnico: mi raccontava tutto, spesso si sfogava, condividevamo anche momenti di vita, non solo di calcio.  

Sinisa non era mio: è sempre stato ed è di tutti, in primo luogo della famiglia, Arianna, i cinque figli, la nipote, Violante, che gli somiglia nelle espressioni del viso, nelle finte cupezze, e della madre settantanovenne che non avrebbe dovuto veder morire un figlio, del fratello che gli ha donato il midollo per il secondo trapianto, degli amici, dei tifosi, della gente. E di Andrea, il collega della Gazzetta che ha avuto il merito di conquistarne la fiducia più piena.

Forte e naturale è stato l'abbraccio tra noi mercoledì sera nella camera 326, come naturale è stata la gelosia che qualche volta ho provato: Sinisa ha voluto unirci. Lui si mangiava la vita, tentava di dominarla, era divisivo, ma generosissimo, non temeva l'impopolarità derivabile dalle scelte più scomode. Voleva e doveva essere il più leale, il più elegante, il più trendy, il sempre giovane, il più profumato: la passione per le essenze esclusive l'ha coltivata fino alla fine. Aveva un amico, Paolo, che gli consigliava l'outfit, mentre ai figli chiedeva spesso di indicargli le nuove tendenze della moda.

I jeans dovevano essere skinny o baggy, a seconda del momento. Sinisa aveva poi le debolezze degli uomini solidi, la più singolare riguardava le scarpe. Aveva i piedi piccoli, 41 e mezzo, 42, ma acquistava solo calzature di due numeri superiori. Non riesco a scrivere del grande calciatore o del tecnico sempre aggiornato, curioso, muscolare e empatico. Oggi c'è solo l'amico, quello che dimenticava le incomprensioni spiegando che «non abbiamo più tempo per farci dei nuovi amici, meglio tenersi quelli vecchi».

In ospedale Arianna e Viktorija («sei magra come un'asciuga» le ripeteva), la maggiore dei cinque figli, mi hanno raccontato la camminata di libertà, il giorno stesso in cui è stato ricoverato: indebolito dalla malattia, sfibrato, stanco ma solo per gli altri, era uscito sotto la pioggia contro il parere della moglie e contro ogni logica. Sono stati gli ultimi chilometri della sua vita. Riconosciuto per un istante Mancio prima del sonno indotto, Sini l'ha salutato così: «Robi, fai il bravo».

Giuro che vorrei sapere cosa pensa del mio addio. So che troverebbe qualcosa da ridire anche stavolta. Forse pretenderebbe silenzio. Se è per questo, abbiamo sbagliato mestiere entrambi. A modo nostro, viviamo di sentimenti espressi, non secretati. E se non mi facessi, ora, un segno di croce, mostrerei di patire il rispetto umano, nascondendo per debolezza un dolore sincero.

IL MILAN.

I Ricordi.

Le Inchieste.

Arrigo Sacchi.

Kevin-Prince Boateng.

Ruud Gullit.

Giovanni Lodetti.

Franco baresi.

Francesco Coco.

Gianni Rivera.

Paolo Maldini.

Zlatan Ibrahimovic.

Fabio Capello.

Ricky Albertosi.

Marco Borriello.

Massimo Ambrosini.

Christian Panucci.

Alessandro «Billy» Costacurta.

Jesper Blomqvist.

Alberto Zaccheroni.

Carlo Ancelotti. 

Riccardo Montolivo.

Gennaro Gattuso.

I Ricordi.

Estratto dell’articolo di Matteo Rivarola per ilfoglio.it l'1 luglio 2023.

[…] Roventi e non solo a causa dell’arrivo dell’estate, le parole in esclusiva di Diego Abatantuono sul momento rossonero. “Vanno via tutti, Maldini, Tonali, andrà via sicuramente anche Theo Hernandez, perché io dovrei rimanere un tifoso del Milan? Le squadre non sono più come una volta, è solo una questione di business. Sono sicuro ormai solo di una cosa, il calcio è la ‘giostra’ su cui si guadagna più in assoluto”. 

  […] Il fondatore di RedBird Capital Partners, Gerry Cardinale, ha attuato una strategia che a oggi stenta e non poco a decollare. “Gerry chi? Mai sentito, io conosco solo Jerry Calà, un ragazzetto con la battuta pronta, simpatico. Il nome Cardinale non mi dice nulla. Un tempo i nomi dei presidenti li sapevo, oggi per ricordarmeli accendo la tv e mi riguardo ‘Il Padrino’, è pazzesco sono identici: Rocco, Jerry, Franck…”. 

Le certezze, al di là dei nomi, sono poche. “Pochissime, mi chiedo perché io debba rinnovare l’abbonamento a San Siro e alle varie piattaforme per seguire le partite del Milan. L’obiettivo è solo vendere e fare soldi. Poi mi sento dire, come fai a rifiutare 80 milioni per Tonali? Semplice, rifiuti e tieni il calciatore. […]”.

Dopo anni di purgatorio, il Milan almeno possiederà la liquidità per un mercato in entrata considerevole. “Non mi aspetto nulla, nessun acquisto di livello. Il primo già è andato, mi riferisco a Thuram, giovane interessante, era nostro, poi è andato all’Inter. Se fossi in loro (l’Inter), farei fare tutta la ricerca dei talenti al Milan, poi vado lì il giorno della firma e gli offro un milione in più, semplice. D’altra parte, sono anni che fanno così, senza andare troppo indietro l’ultimo caso è stato Calhanoglu[…]  Servono fatti, è inutile parlare. Una volta si diceva ‘chiacchiere da bar’, ormai dovremmo chiamarle da ‘banca’ perché fanno solo conti su come investire, rivendere e guadagnare. Le squadre non dovrebbero avere più tifosi, ma commercialisti”.

Il Milan negli ultimi giorni ha ultimato i primi due acquisti del suo mercato, Sportiello e Loftus-Cheek: “Loct Lanftu... si ho letto. Mi chiedo chi venderanno ora. Anche se compri un giocatore internazionale, di prospettiva e poi vendi Bennacer serve a poco. Stessa cosa in porta, il titolare mi auguro rimanga Maignan. Il Milan ormai è impostato per diventare l’Atalanta, una squadra dove passano dei talenti e vanno via. Giocatori di prospettiva, secondo gli addetti ai lavori... ma chi sono questi addetti? Io non lo so e secondo me non sono neanche milanisti. Così facendo, specie in Europa, avremo grossi problemi”.

[…]  “Per la rosa che ha a disposizione, Pioli è il miglior allenatore d’Europa. Scarsi come noi, in Champions League, non ce ne sono tante. Il Milan, quest’anno, ha rischiato di andare in finale di coppa con una squadra di solo undici giocatori buoni. Ci è mancata anche un briciolo di fortuna, l’infortunio di Bennacer per esempio, è stato determinante per il nostro centrocampo. Giocatore troppo importante, anche perché in panchina non hai un sostituto. L’allenatore non poteva fare di più[…]”.

[…]  “San Siro è lo stadio per eccellenza. Ormai ogni squadra, deve avere lo stadio di proprietà. Ma perché? Se lo ripetono, manco fosse un Vangelo. Per incrementare il bilancio, per il blasone del club… A me questo sistema fa schifo. Il Milan quest’anno ha sempre fatto soldout, non vedo perché ci sia questa fretta a tutti i costi nel voler cambiare stadio. Sicuramente è una tematica importante per il futuro, ma anche in questo caso, lo vedo solo come un investimento capitale e non come un bisogno reale. Se un brand dovesse mai comprare una squadra di calcio solo per lo stadio, non parlatemi di bandiere, fascino, storia e blasone. Solo una questione di soldi”.

Il punto di incontro potrebbe essere forse quello di dedicare il nuovo stadio del Milan a Silvio Berlusconi. “Dici bene… potrebbe. Un grande presidente. Una persona generosa, la sua regola era quella di portare a casa il risultato. Ognuno di noi ha le proprie idee, specie in politica, ma nel calcio Berlusconi ha avuto tanti meriti. In primis, quello di farci divertire tutte le domeniche. Era un calcio diverso, dove anche noi tifosi ci sentivamo parte di qualcosa, ora vogliono solo i soldi per gli abbonamenti, cazzo… Ogni stagione alla guida del Milan, c’erano obiettivi concreti e forse, a oggi, è proprio quello che manca alla società. Idee solide e capacità. Berlusconi, a suo modo, ha costruito qualcosa di grande, a livello di immagine del club ha fatto un lavoro straordinario e questo gli andrà riconosciuto per sempre. Non avrà eguali”. Il Milan guarda al futuro con speranza e rimpiange un passato ricco di storia, vittorie e armonia.

I giocatori del primo Milan di Berlusconi, che fine hanno fatto.  Simone Golia su Il Corriere della Sera il 12 Giugno 2023

Il 14 settembre 1986 il Milan di Berlusconi giocava la sua prima partita contro l’Ascoli: 37 anni dopo, che fine hanno fatto gli 11 titolari di allora?

Milan-Ascoli, 14 settembre 1986

La prima partita di 31 anni ricchi di trionfi, in realtà, fu un incubo. Campionato 1986/87, 14 settembre. Qualche mese prima il Milan, accompagnato dalla Cavalcata delle Valchirie di Richard Wagner, era atterrato tra i cori dei tifosi sul prato dell’Arena Civica. Preludio di un’era fatta così, ricca, di successo. Ma quella prima giornata di serie A contro l’Ascoli, davanti ai 60mila di San Siro, termina con una sconfitta clamorosa considerando il mercato estivo affrontato senza badare a spese. Gli ospiti si impongono 1-0, gol di Massimo Barbuti, allora ventottenne, che con un semi pallonetto da fuori area beffa il portiere avversario. Una rete che gli fruttò 8 milioni di lire, a tanto ammontava il premio partita pagato dall’incredulo Costantino Rozzi, vulcanico presidente dell’Ascoli. Ma cosa fanno oggi, 37 anni dopo, i primi titolari del Milan di Berlusconi?

Giovanni Galli

A guardare quella palla rotolare dentro la porta c’è Giovanni Galli, considerato fra i migliori portieri italiani degli anni 80. Col Milan giocherà fino al 1990, vincerà tutto in Italia e in Europa, uno scudetto e due Champions per esempio. Da lì Napoli, Torino, Parma, Lucchese. Dopo il ritiro ha ricoperto incarchi dirigenziali con Foggia, Fiorentina, Real e Verona (sua la felice intuizione di Jorginho, preso per 50mila euro e venduto al Napoli per diversi milioni).

Franco Baresi

Prima dell’avvento di Berlusconi, Franco Baresi era già campione del Mondo con l’Italia ma col suo Milan (squadra di cui è stato capitano e leggenda) aveva vinto solo uno scudetto (78/79) e una Mitropa (81/82), cioè niente se si pensa a quello che festeggerà dopo. Lui, che era rimasto anche negli anni della B, arriverà sul tetto del mondo. Il 28 ottobre 1997, nella partita di addio al calcio, Berlusconi gli consegna un simbolico Pallone d’Oro «per colmare l’unico vuoto rimasto in una bacheca stracarica di trofei». Ritiratosi a 37 anni, Baresi è stato dirigente del Milan oltre che allenatore di Primavera e Berretti. Il 28 ottobre 2020 la nuova proprietà Elliott lo nomina vicepresidente onorario.

Dario Bonetti

Dario Bonetti, che detiene ancora il record di giornate di squalifica in A (39), è stato fra i primi acquisti di Berlusconi, che lo prende dalla Roma, con cui nel 1984 ha giocato e perso la finale della Coppa dei Campioni contro il Liverpool. La stagione 86/87 per lui è sfortunata per i tanti infortuni e a fine anno decide di lasciare per trasferirsi al Verona. Dopo il ritiro diventa allenatore e gira il mondo. Dalla nostra serie D allo Zambia, con cui nel 2011 centra una storica qualificazione in Coppa d’Africa. L’ultima esperienza è alla guida della Dinamo Bucarest, da cui viene esonerato nel settembre 2021.

Paolo Maldini

Da pochi giorni Paolo Maldini non è più il direttore tecnico del Milan, con Cardinale e il club che hanno sposato nuovi principi su cui basarsi. Da dirigente ha fatto quello che gli era riuscito da calciatore, cioè vincere. Lo scudetto della passata stagione, la semifinale di Champions raggiunta in questa: «Quando Berlusconi arrivò al Milan, non era conosciuto come oggi — aveva ricordato l’ex difensore a Muschio Selvaggio — ci fece sognare col progetto, ma qualche dubbio lo avevamo. Nel 1994, prima dell’inizio della stagione, ci disse che avremmo avuto tre obiettivi. Vincere il campionato, vincere la Champions e che lui doveva diventare presidente del Consiglio. E come è andata? Abbiamo vinto il campionato, la Champions e lui è diventato Premier».

Mauro Tassotti

Da giocatore, insieme a Baresi, Maldini e Costacurta, Mauro Tassotti ha composto una delle migliori linee difensive della storia del calcio, consentendo al Milan di stabilire il record assoluto di partite consecutive senza sconfitta (58) nei cinque principali campionati europei. Ha giocato in rossonero per 17 anni, dal 1980 al 1997. Poi è stato dirigente e allenatore fino al 2016 (36 anni consecutivi da tesserato dunque, un record). Nel 2021 ha seguito da vice Shevchenko sulla panchina del Genoa (lo aveva affiancato anche su quella della Nazionale ucraina).

Ray Wilkins

Capitano del Chelsea a soli 19 anni, Ray Wilkins arriva al Milan nel 1984 dopo le cinque stagioni al Manchester United. Pupillo di Liedholm («Con lui sembra di giocare in 12»), perderà sempre più spazio con l’avvento di Berlusconi e Capello, tanto da salutare tutti nel 1987. Neanche un trofeo per il centrocampista (detto «rasoio» per i suoi lanci precisi), ma riuscirà comunque a farsi amare dai tifosi. Da vice ha affiancato tanti allenatori al Chelsea, fra cui Vialli (il primo a volerlo accanto) e Ancelotti. Commentatore televisivo per Sky Uk, nel 2018 — a 61 anni — è morto in seguito a un infarto. A lungo, soprattutto dopo il ritiro, ha lottato contro la depressione e la dipendenza da alcol.

Roberto Donadoni

Roberto Donadoni è il primo grande colpo di mercato messo a segno da Berlusconi. Nell’aprile del 1986, in un calcio italiano in pieno scandalo Totonero-bis, il neo presidente del Milan mette le mani uno dei più promettenti talenti del vivaio dell’Atalanta. Si chiama Roberto Donadoni, salta gli avversari come birilli, ha appena 23 anni ed è promesso sposo della Juventus, da sempre alleata di mercato dei bergamaschi. Ma alla fine Cesare Bortolotti, l’allora mitico presidente della Dea, accetta gli 8 miliardi offerti dal magnate della tv. Col Milan giocherà un totale di 12 stagioni e vincerà tutto. Dal 2001 al 2020 ha allenato ovunque, dal Lecco ai cinesi Shenzhen, passando per Napoli e Italia. Da tre anni senza panchina, aspetta una nuova sfida.

Alberico Evani

Arrivato al Milan quando aveva appena 14 anni, Alberico Evani (un po’ terzino, un po’ esterno, un po’ centrocampista) è stato fondamentale nei tanti successi milanisti. Nella finale della prima delle due Coppe Intercontinentali vinte (Tokyo il 17 dicembre 1989), segna su punizione il gol decisivo contro i colombiani dell’Atlético Nacional di Medellín all’ultimo minuto dei tempi supplementari. Dieci giorni prima era stato l’artefice del successo del Milan in Supercoppa europea contro il Barcellona. Due grandi amore da allenatore, il Milan appunto (le giovanili) e l’Italia, di cui ha guidato le varie Under prima di affiancare Mancini nella gloriosa spedizione di Euro 2020.

Mark Hateley

Messosi in mostra con Coventry City e Portsmouth, nel 1984 Mark Hateley approda al Milan di Liedholm. Storico il gol di testa con cui il 28 ottobre di quell’anno, superando di testa l’ex rossonero Collovati, l’attaccante segna il gol che permette al Diavolo di battere l’Inter dopo sei anni. Lascia nel 1987 e dieci anni dopo dirà basta col calcio. Quindi l’unica esperienza da allenatore con l’Hull City. Da calciatore ha vinto cinque campionati scozzesi di fila e cinque coppe coi Rangers dal 1990 al 1995. Vive in Scozia e scrive una rubrica settimanale di calcio per il Daily Record.

Daniele Massaro

Sacchi lo usava come ala, Capello come punta (visto l’infortunio di Van Basten). Daniele Massaro è uno dei primissimi colpi di Berlusconi da presidente del Milan. Ne è stato prima riserva ma anche capocannoniere. Per tutti è «Provvidenza», il soprannome che gli assegna il giornalista Mediaset Carlo Pellegatti per la sua attitudine a risolvere le gare più difficili. Dopo il ritiro dal calcio Massaro si è dedicato alle sue grandi passioni, il golf e il rally. Si è anche dato alla politica: iscritto a Forza Italia, ha partecipato alle elezioni amministrative di Milano del 2016, non venendo tuttavia eletto.

Pietro Paolo Virdis

Virdis è il primo cannoniere di Berlusconi. Capocannoniere della serie A 1986/87, in rossonero vincerà un campionato, una Supercoppa italiana e una Coppa dei Campioni. Abbandonato il calcio, ha allenato Atletico Catania, Viterbese e Nocerina. Poi ha lavorato come commentatore televisivo e oggi gestisce l’enoteca/ristorante «Il Gusto di Virdis» a Milano.

Nils Liedholm

Quando decise di trasferirsi in Italia, si dice che Nils Liedholm avesse tranquillizzato il padre: «Un anno, massimo due, e poi torno». Col Milan, da giocatore, disputa 12 stagioni. Poi lo allenerà tre volte, dal 64 al 66 prima, dal 77 al 79 e dall’84 all’87 poi. Il suo rapporto con Berlusconi è complicato: ««Il gioco che fa non è funzionale al gol», lo pizzica quest’ultimo: «Il presidente capisce di calcio, ha allenato l’Edilnord», replica ironico il «Barone». L’ultima stagione da allenatore è nel 1996-1997 quando prende il posto dell’esonerato Carlos Bianchi alla Roma, arrivando a festeggiare le mille presenze in serie A. Dopodiché si dedica al giornalismo come commentatore sportivo. Malato da tempo, muore nel 2007 a Cuccaro, nel Monferrato. 

Le Inchieste.

Ipotesi bancarotta sulla cessione del Milan: perquisizioni e sequestri in Lussemburgo. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 21 Aprile 2023

Sequestrata documentazione cartacea e digitale riconducibile alla gestione della cessione del Milan e all'utilizzo della somma incassata dalla vendita

Perquisizioni e sequestri nelle due holding lussemburghesi legate a Elliott che lo scorso agosto hanno venduto il Milan per 1,12 miliardi alla RedBird di Gerald Cardinale. La polizia giudiziaria del Granducato – a quanto anticipato dall’edizione online del Corriere della Sera e confermato da fonti giudiziarie – si è presentata negli uffici della Project Redblack con un’ordinanza di perquisizione e sequestro su richiesta di assistenza giudiziaria dei pm di Milano, Giovanni Polizzi e Giovanna Cavalleri.

Viene ipotizzato un nuovo reato, quello di bancarotta fraudolenta nei confronti di due ex amministratori di Project Redblack, indagati dalla Procura di Milano . Finora era circolata la voce che le ipotesi di reato al centro delle indagini fossero l’appropriazione indebita e ostacolo alla vigilanza. Oggetto del sequestro odierno sono stati i documenti cartacei e digitali riconducibili alla gestione della compravendita del Milan e all’utilizzo della somma incassata dalla vendita. 

Analoga ordinanza di perquisizione e sequestro è stata eseguita anche presso la società Rossoneri Sport con sede nel Granducato, società (controllata da Project Redblack) che possedeva il 99,9% del Milan e che ha materialmente incassato per la vendita da RedBird. Da quanto risulta, sono stati acquisiti documenti anche presso Intertrust, il gruppo di consulenza che gestisce l’amministrazione di decine di società del fondo americano, tra cui anche la stessa Project Redblack.

L’inchiesta della procura milanese ha origine da un esposto della Blue Skye di Salvatore Cerchione e Gianluca D’Avanzo che si ritiene danneggiata dalla vendita a RedBird “avvenuta con modalità tali da pregiudicare il suo diritto di credito”. La nuova accusa di bancarotta si lega proprio alla richiesta di Blue Skye depositata al Tribunale Fallimentare di Milano affinché venga dichiarata l’insolvenza delle due società lussemburghesi.

Per bancarotta, a quanto risulta, sono indagati un manager di Elliott, Jean-Marc McLean e due professionisti locali Daniela Italia e Victor Schuh ex amministratori della società Project Redblack, . Già nei mesi scorsi un portavoce di Elliott aveva precisato che “BlueSkye ha avviato una serie di contenziosi frivoli e vessatori in Lussemburgo e ora a New York, che Elliott e il co-investitore Arena Investors considerano nient’altro che un tentativo di estrarre un valore a cui BlueSkye non ha diritto”. A fine gennaio scorso, il Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza, su disposizione dei pm milanesi, aveva effettuato acquisizioni di documenti in diversi uffici di professionisti che hanno curato la compravendita. Da RedBird nessun commento ufficiale, ma viene comunque sottolineato come né il Milan – la cui proprietà fa capo oggi a una catena di controllo diversa, che a sua volta fa capo a RedBird –, né tantomeno RedBird siano coinvolti in queste rivendicazioni da parte di BlueSkye. Redazione CdG 1947

Estratto dell’articolo di Enrico Currò per "la Repubblica" il 3 Febbraio 2023.

Il Milan in crisi ha chiuso il mercato invernale con un solo ritocco marginale, il portiere colombiano Vasquez: il budget non consentiva altro. Ma ora che il passaggio di proprietà del club dal fondo angloamericano Elliott della famiglia Singer alla società statunitense RedBird Capital di Gerry Cardinale è finito sotto la lente della Procura di Milano, un ulteriore passo indietro nel tempo riaccende la perplessità dei tifosi alla vigilia del derby: la ricostruzione della trattativa serrata tra Elliott da una parte e dall’altra il ticket formato dal fondo arabo Investcorp (sede in Bahrain) e la piattaforma di investimento MFO Multi Family Office Equity Partners (base a New York e presenza tra gli investitori della famiglia reale saudita, con Saudi Crown MFO).

La trattativa iniziò nel novembre 2021 e saltò nel maggio 2022, in dirittura d’arrivo, per l’inserimento di Cardinale, affermato manager dello sport professionistico americano. Il rapido closing di fine agosto fu un esito sorprendente: le due offerte erano infatti più o meno della stessa entità — 1,2 miliardi di euro — ma quella di Investcorp-MFO era cash, mentre l’accordo con Cardinale è stato raggiunto attraverso la modalità di un vendor loan.

 Il venditore Elliott avrebbe in sostanza preferito un acquirente cui prestare soldi a un altro che non ne chiedeva. Elliott ha garantito al compratore RedBird un prestito consistente (mai smentita la cifra di circa 600 milioni, per un interesse annuo di 42 milioni). E RedBird ha lasciato al fondo dei Singer corposa voce in capitolo nelle scelte societarie, a cominciare dall’austerity sul mercato.

Repubblica ha interpellato Carmine Villani, finanziere italo-americano, ad di MFO: «Non posso entrare nei dettagli, ma posso confermare che la nostra cordata si era impegnata sia ad acquisire tutte le quote di maggioranza del Milan sia a garantire il successivo investimento sul mercato di 300-400 milioni, per riportare subito la squadra al livello più alto d’Europa, come la sua storia merita. Era tutto “equity”. Se Elliott avesse voluto, gli avremmo lasciato quote di minoranza». In sostanza si trattava di un investimento diretto, senza bisogno di prestiti.

Particolari e clausole del successivo closing con RedBird e l’esatta ripartizione delle quote azionarie sono ancora segreti. L’indagine dei pm Giovanni Polizzi e Maurizio Romanelli mira a fare luce sulle zone d’ombra. L’intervento della Guardia di Finanza e l’ipotesi di reato contro ignoti — appropriazione indebita per 100 milioni di euro, nell’inchiesta nata dall’esposto dell’ex azionista di minoranza BlueSkye di Salvatore Cerchione e Gianluca D’Avanzo, che lamentavano di non essere stati avvisati della vendita — non preoccupa il fondo dei Singer, che definì “azioni frivole e vessatorie” i contenziosi giudiziari a Milano, Lussemburgo e New York. […]

Inchiesta sulla vendita del Milan, indagini in corso per appropriazione indebita. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Gennaio 2023.

L'inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dai pm Giovanna Cavalleri e Giovanni Polizzi, che hanno disposto le acquisizioni documentali al Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza.

di Alessia Di Bella ed Alessandra Monti

Il fascicolo di indagine aperto della procura di Milano nasce da un esposto dettagliato presentato dalla società Blue Skye di Salvatore Cerchione e Gianluca D’Avanzo, ex socia di minoranza nella gestione del club rossonero, che tira in ballo la vendita del club rossonero dal fondo Elliott alla RedBird di Gerry Cardinale. Sono in corso acquisizioni documentali nell’ambito di un’inchiesta che riguarda la vendita del Milan. Al momento non risultano indagati nell’indagine che ha come ipotesi di reato l’appropriazione indebita.

Lo scorso settembre Blue Skye rappresentato dagli avvocati Maurizio Traverso, Emanuele Breggia e Federico Cerboni aveva rinunciato nell’udienza davanti al tribunale civile di Milano al ricorso cautelare d’urgenza essendosi già perfezionata la vendita del club rossonero, ma sarebbe rimasto pendente un procedimento civile, avviato sempre da Blue Skye, contro Elliott, che riguarda un capitolo della vicenda, in particolare un pegno.

Blue Skye si lamenterebbe di non aver mai avuto notizie sulla vendita e avrebbe quindi contestato una condotta fraudolenta ai loro danni dalla vendita della società rossonera dal gruppo Elliott (Genio Investments Llc e King George Investments Llc) a RedBird. A partire dall’esposto dettagliato sulla vicenda si è mossa la procura di Milano che sulle attività in corso giustamente mantiene il massimo riserbo previsto dalle vigenti leggi. L’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dai pm Giovanna Cavalleri e Giovanni Polizzi, che hanno disposto le acquisizioni documentali al Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza.0

Nel 2017 Blue Skye e il gruppo Elliott stipularono una partnership che riguarda il club rossonero: Rossoneri Sport acquisisce la quasi totalità del capitale sociale del Milan tramite un finanziamento da oltre un miliardo e duecento milioni di euro ricevuto da Project RedBlack, di cui è socio di minoranza Blue Skye e socio di maggioranza il gruppo Elliot. A ‘saldare’ il patto è anche un pegno che viene disatteso, secondo quanto emergerebbe nell’esposto, con la scelta di Elliott di vendere a Redbird, scelta che garantirebbe al fondo Usa di restare con una partecipazione nella società calcistica, di ottenere una plusvalenza nel caso il club sia messo sul mercato e di continuare ad avere voce in capitolo nella società di serie A.

Secondo l’ex socio di minoranza si è in presenza di “un rilevante atto distrattivo (rinuncia al pegno e a parte del proprio credito verso Rossoneri Sport)“, la vendita è stata decisa “agendo in modo palesemente abusivo e fraudolento” tanto che Blue Skye si è rivolta alla giustizia anche in Lussemburgo e negli Stati Uniti lamentando la frode che avrebbe subito. Il tribunale federale dello Stato di New York, a luglio ha stabilito che “RedBird e Elliott sono tenuti a produrre tutti i documenti, elettronici o meno, in loro possesso”.

Redazione CdG 1947

Estratto dell'articolo di Stefano Scacchi per “la Stampa” il 27 gennaio 2023.

La Procura di Milano torna a interessarsi ai passaggi di proprietà del Milan. Il pm Giovanni Polizzi e l'aggiunto Maurizio Romanelli hanno aperto un fascicolo contro ignoti per un'ipotesi di appropriazione indebita in seguito all'esposto presentato dalla società finanziaria BlueSkye lo scorso 20 ottobre.

 La tesi degli autori della denuncia riprende quella già oggetto di due cause civili in Lussemburgo e davanti al Tribunale di Milano. Nella negoziazione che ha portato alla cessione della maggioranza del Milan al fondo americano RedBird tra giugno e agosto, l'hedge fund Elliott non avrebbe consultato il socio di minoranza BlueSkye.

Si parla di opacità nei passaggi societari che avrebbe generato oltre 100 milioni di euro di perdita sulla garanzia del finanziamento, legato ai pegni costituiti nell'architettura di controllo del Milan. Il Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza ha acquisito documentazione negli studi professionali di diversi avvocati e commercialisti coinvolti nelle negoziazioni. Ora spetterà ai magistrati valutare questo materiale. Elliott ritiene che le mosse giudiziarie di BlueSkye siano semplicemente il tentativo di «estrarre un valore economico a cui non ha diritto». Nei mesi scorsi il fondo americano aveva definito le azioni «frivole e vessatorie».

 Non è mai stato chiaro perché questa società finanziaria di medie dimensioni, creata a Napoli nel 2007 poi basata a Londra, che ha intrecciato affari anche con Flavio Briatore, abbia avuto un ruolo nell'acquisto del Milan insieme a un colosso come Elliott. BlueSkye aveva espresso due componenti del Cda rossonero: Salvatore Cerchione e Gianluca D'Avanzo.

Il secondo era addirittura consigliere delegato del club con poteri significativi, pur non essendo mai apparso in pubblico in relazione a questo ruolo.

 La Procura di Milano si era già interessata alla proprietà rossonera a febbraio del 2018 ipotizzando il reato di false comunicazioni sociali nei confronti del fantomatico imprenditore cinese Yonghong Li che, cinque mesi dopo, sarebbe stato costretto a passare la mano non essendo più in grado di onorare i suoi impegni negli aumenti di capitale del Milan.

(...)

Arrigo Sacchi.

Dagospia Da I Lunatici – Radio 2 venerdì 8 dicembre 2023.

Arrigo Sacchi è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalle 23 alle 3. 

L'ex tecnico del Milan e della Nazionale ha dichiarato: "La Nazionale? Si era messa in una situazione drammatica. Mancini se ne era andato, Spalletti aveva fatto pochi allenamenti. E in più il calcio italiano non ha mai avuto un sistema di gioco, siamo un popolo individualista, in tutti gli ambiti. E così ci danneggiamo. Il secondo posto ai mondiali nel 1994? Non fummo aiutati dalla politica, avrebbero dovuto fare di tutto per farci andare sulla costa ovest.

Arrivammo alla finale senza poterci allenare negli ultimi tre giorni perché i massaggiatori e i medici ci avevano detto che non c'erano più i muscoli. Eravamo una grande squadra, abbiamo inchiodato per 120 minuti sullo zero a zero il Brasile e abbiamo perso solo ai rigori. Il calcioscommesse? Questo Paese non mi ha mai sorpreso nel negativo. E' un Paese abituato ad esser furbo, ma la furbizia non è un valore, genera disonestà".

Sulla sua carriera: "Non ho mai guardato i piedi di un calciatore, io guardavo la testa. Vincevamo con merito. Per me una vittoria senza merito non era una vittoria. Costacurta pochi anni fa mi disse: 'ci hanno copiato in tutto il mondo eccetto che in Italia'. E io gli ho risposto che è così perché in Italia siamo presuntuosi, individualisti e non facciamo squadra. 

Lavoravo nell'azienda di mio padre, sono partito dalla seconda categoria, poi la quarta serie, poi la C, la B, non sono stato mai esonerato, in 25 anni di carriera. Ma avevo una gastrite che mi si stava trasformando in ulcera. Ero così preso dal lavoro che non riuscivo a capire le cose che stavo facendo.

Vivevo per il calcio, non volevo tradire le persone che avevano avuto fiducia in me. Mi fermai dopo una partita a Verona: vincemmo e non sentii assolutamente nulla. Non volevo essere il più ricco del cimitero.  Il sesso prima delle partite? Io cercavo di non fare figli e figliastri, le regole erano uguali per tutti. Mi fidavo dei calciatori, una volta un giocatore mi disse 'gliel'ho fatta tre volte', e io gli risposi 'pensavo di più'. Al Milan c'era un giocatore che frequentava più la notte che il giorno, lo mandammo via".

Sacchi: «A Berlusconi dovevo fare una telefonata in più. Van Basten ci considerava tutti degli ignoranti». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera martedì 7 novembre 2023.

Il mister: «Ho ucciso io i numeri 10? A calcio si gioca in undici. Non è vero che dopo la finale del Mondiale persa mi misi a piangere»

«È di poco più vecchio di me». Arrigo Sacchi mostra con orgoglio un leccio secolare, l’albero più alto e antico nel giardino della sua villa, che quasi fa ombra ai bagolari e ai salici piangenti. Nonostante i 77 anni compiuti lo scorso primo di aprile, cinquanta dei quali vissuti da allenatore, una avventura che cominciò proprio in questi giorni nel 1973, è ancora lui. L’allenatore che più di ogni altro ha segnato e cambiato la storia del calcio moderno, un italiano che in cuor suo non si sente tale, ma che purtroppo o per fortuna lo è.

«Un Paese votato al tatticismo, dove solo il singolo e non il bene collettivo sembra avere importanza, dove contano più le conoscenze della conoscenza». È la sua analisi sociopolitica. Ma è anche calcio, perché per lui il calcio è ancora vita, come dimostra «Il realista visionario», appena scritto con Leonardo Patrignani. Quasi un trattato di filosofia personale, applicabile non solo allo sport, con contributi importanti. Non aspettatevi mezze misure, non è il tipo. Sconti per nessuno, neppure a sé stesso. Per questo continua a far discutere ancora oggi con i suoi giudizi e le sue ossessioni, anche per questo gli si vuole bene. «Una vittoria senza merito non è una vera vittoria, ma questo è un concetto che l’Italia, il regno dei sotterfugi, non capirà mai».

Cominciamo dalla dedica?

«L’ultima volta che ho sentito il presidente fu due mesi prima della sua morte. Ripetemmo la nostra gag. Io che gli confesso di non riuscire a dargli del tu, lui che mi insegna come fare. “Si metta davanti allo specchio, e dica a voce alta: Silvio Berlusconi è uno stronzo, Silvio Berlusconi è uno stronzo”. Era davvero convinto che potesse funzionare».

Ci ha mai provato?

«Mai. Quel giorno, nel salutarmi, mi disse: "Arrigo chiama quando vuoi, in fondo sei una delle poche persone del mondo intero che non mi hanno mai dato dello stronzo". Non l’ho più fatto, e ancora me ne dispiace. Sentivo che era stanco. Ho voluto molto bene a quell’uomo. Gli devo tutto. A differenza di molte, troppe persone, che oggi fingono di non averlo mai conosciuto, io non me ne dimentico».

Adesso che Berlusconi non c’è più, per chi vota?

«Da molto tempo non nutro più illusioni sulle sorti di questo Paese. Oggi non mi piace nessuno. Sceglierei chi mette al primo posto del suo programma la tutela degli insegnanti e degli operatori sanitari. Scuola e sanità pubblica. Non importa se di destra o di sinistra: conservo dentro di me una vena di sano anarchismo romagnolo».

Un ricordo dei suoi inizi?

«Alfredo Belletti fu il mio mentore. È stato anche autore di una storia di Fusignano, un agile tomo di 1.200 pagine. Gli dicevo che se avesse scritto la storia di Milano, sarebbe venuta fuori la Treccani. Era dirigente della squadra locale, seconda categoria. Fu lui a farmi la proposta. Gli dissi che, come prima cosa, mi serviva un libero, un numero 6. Andò in spogliatoio, ne uscì con una maglia numero 6. “Eccolo qua. Se sei un allenatore decente, te lo costruisci come piace a te, con il lavoro e con le idee”. Una grande lezione».

È per questo che una volta arrivato al Milan disse a Franco Baresi di ispirarsi al compianto Gianluca Signorini?

«Per anni, quella frase fu considerata uno scandalo. Ma non la rinnego affatto. Anche il povero Gianluca aveva fatto un passo alla volta. All’inizio, nel Parma, lo chiamavo “lancetti”, perché faceva sempre lanci lunghi che costringevano me e il magazziniere ad andare per boschi alla ricerca della palla. L’unico vero scandalo è credersi intoccabili, e non capire che si può imparare da chiunque. Sa chi fu il primo che comprese il senso di quel che intendevo? Franco Baresi, il mio capitano. Una persona di straordinaria umiltà, un campione vero».

È stato il calciatore che più ha amato?

«Non mi costringa a fare classifiche, non è giusto. Ho voluto bene a tutti i miei giocatori, nessuno escluso».

Anche a Marco Van Basten?

«Qualche anno fa, le cose che disse in una intervista mi ferirono. Ma non gliene voglio male. Non mi sembra di essere stato duro con lui. Semplicemente, lo trattavo e lo valutavo come gli altri. Forse non gli andava bene questo. Ma non me lo ha mai detto. Tra noi non c’erano problemi».

Insomma. «Arrigo mi ha rotto i cogl...». Era la primavera del 1991. Sentita a Milanello, mentre Marco entrava nella sala del biliardo, con le mie giovani orecchie da praticante giornalista. (Ride).

«Beh, forse qualche tensione c’è stata. Lui era convinto che noi italiani fossimo tutti ignoranti. Una volta gli risposi. Caro Marco, gli dissi, guarda che noi vincevamo i campionati del mondo quando voi olandesi stavate ancora sott’acqua. Lo feci ridere, e ne fui felice. Era una persona e un atleta fragile. Durante una partita di precampionato della nostra prima stagione, gli dissi che non serviva che andasse incontro alla palla a centrocampo. Vacci vicino, senza cercarla, e poi taglia dentro, che così ti picchiano di meno».

Le diede ascolto?

«No, e lo spaccarono. Era un fuoriclasse assoluto, un po’ testardo. Quando ritornò in Italia dal primo infortunio, venne a vedere Milan-Napoli, il famoso 4-1 per noi. Mister, mi disse, non avrei mai creduto che in così poco tempo lei riuscisse a fare un gioco così poco italiano».

Con gli altri due olandesi invece furono rose e fiori fin da subito?

«Pensi che quando andai per la prima volta a vedere Frankie Rijkaard prima di convincere Berlusconi ad acquistarlo al posto dell’argentino Claudio Borghi, operazione che come noto non fu facile, non mi fece una grande impressione. Ma forse quella volta ero stato poco attento».

Arrigo Sacchi che si distrae?

«Avevo già vinto un campionato, ma continuavo a essere un po’ in soggezione dell’ambiente. Mi sembrava ancora tutto più grande di me. Con il direttore sportivo Ariedo Braida, andammo a Rotterdam per una partita della nazionale olandese. Pioveva a dirotto. Lui mi disse, Arrigo vai pure sotto la tettoia, io invece mi metto in prima fila. Sono proprio gentili, pensai. Invece Ariedo, che è uno straordinario uomo di calcio ma anche un bon vivant, non lo aveva fatto per la mia salute. “Ti metti lì, e prendi nota di tutte le belle ragazze in tribuna. Poi all’intervallo me le indichi, che le voglio vedere”. E da buon soldato, invece delle mosse di Rijkaard, segnai sul taccuino il posto dove sedevano le donne più attraenti. Per fortuna, ci furono altre occasioni».

È giusto considerare Ruud Gullit il simbolo di quella squadra?

«Ruud è forse la persona che più di tutte ha capito e accettato l’ossessione che mi ha sempre divorato. Per il calcio, si intende».

Cosa rese quel Milan la squadra italiana più forte di sempre? «Aggredivamo, e costruivamo. In un Paese dove in qualunque campo si tende a vivacchiare, noi eravamo l’eccezione».

Perché l’Italia le piace così poco?

«Rimaniamo sul calcio, in fondo siete voi giornalisti che ogni due per tre lo definite come una metafora della vita. Siamo un Paese che si illude di essere grande, nel suo intimo consapevole però di contare poco o nulla. Vedo commentatori, ex giocatori ed ex allenatori che in televisione sostengono che tutto è eccezionale, fantastico, ma poi a microfono spento sostengono l’opposto».

Oggi lei come guarda le partite?

«Con l’audio a zero. Il nostro declino nasce dalla propensione ad accontentarci del risultato raggiunto con il minimo sforzo, senza guardare mai alla partita, al domani, a quel che poi resterà. Dovremmo sforzarci di pensare in modo collettivo e propositivo. Invece aspettiamo gli eventi e gli avversari, seguendo la nostra indole eterna, poi cerchiamo di uccellarli, come diceva sempre un suo collega».

Suvvia, Arrigo. Quel giornalista aveva un nome e un cognome, che lei ricorda bene. Si chiamava Gianni Brera, uno dei più grandi di sempre. «D’accordo, era lui. Ero al secondo anno di Milan. Un giovedì prima di una partita con il Napoli vado a cena con mia moglie al ristorante Riccione, senza immaginare che quello era il giorno in cui si trovava con i suoi amici. Me li manda uno ad uno al nostro tavolo. Mi fanno tutti la stessa domanda. Domenica chi marca Maradona? E mi fanno dei nomi, Tassotti, Maldini, Baresi. “In qualche modo, ci avete preso tutti” rispondo. Quando l’ultimo si è allontanato, la mia Giovanna, che non è mai venuta a vedere una nostra partita mi chiede: “Scusa ma questi non lo sanno che tu giochi a zona?”».

Quale fu la sua risposta?

«Che lo sapevano bene, ma avendo paura di tutto quello che era una novità, rifiutavano l’idea. Pur di non riconoscere qualcosa di diverso dalle loro convinzioni, sostenevano l’insostenibile. Brera era un grande scrittore, ma avevamo due idee di calcio e di Italia incompatibili tra loro. Non a caso, erano i giornalisti all’epoca più giovani che capivano bene ciò che stavo cercando di fare».

Non che lei sia ricordato come un modello di flessibilità...

«Ho sempre cercato di essere me stesso e non ho mai piegato le mie idee alla volubilità della sorte o della convenienza».

Avrà pur commesso qualche errore?

«Ho preso molti abbagli, come tutti. Da giovane, non mi chieda perché, non lo so neppure io, ma detestavo Giacinto Facchetti, inteso come calciatore. Poi mi resi conto che invece era il prototipo del giocatore moderno. Un difensore che attaccava, il primo in Italia. Anche una gran persona perbene».

L’unica volta che l’hanno vista piangere è stato dopo la finale di Usa ’94 persa ai rigori. Conferma?

«Smentisco. La mia cultura mi fa valutare nel giusto modo anche un secondo posto. Quella nazionale fu una squadra eroica. Tutti diedero quel che potevano dare. Il giovedì e il venerdì prima della finale, non li feci allenare. Erano distrutti dal clima infame. La nostra politica, sportiva e non solo, aveva fatto pressioni sulla Fifa per farci giocare sulla costa Est degli Stati Uniti, dove c’erano un caldo e una umidità bestiali, perché là si trovavano le comunità italiane più numerose. Comunque, il Brasile giocò meglio di noi. E sul podio, ero sereno. Senza lacrime».

Nel libro ci sono contributi di allenatori a lei affini, come Guardiola e Ancelotti. Mi stupisce la presenza di Antonio Conte.

«Ne ho stima. Vero, non gioca il mio calcio ideale. Ma riconosco in lui la mia stessa intensità, la stessa passione che mi animava. Ha il fuoco dentro. Gli auguro di non bruciarsi, di gestire i propri demoni interiori meglio di quanto sono riuscito a fare io».

Perché il suo giudizio su Leao è così severo?

«Non sopporto chi non sfrutta appieno il proprio talento. Quel ragazzo ha qualità evidenti, ma sta raccogliendo meno di quanto potrebbe. Nel calcio, la testa va allenata non solo per colpire la palla».

Quanto conta l’ambiente giusto per un allenatore?

«Moltissimo. Quando Maurizio Sarri andò alla Juventus, gli dissi che si stava suicidando. Non era la sua cultura, non era il suo mondo».

E per un giocatore?

«Altrettanto. Nel 2009, Guardiola mi telefonò. Cosa ne pensi se porto Ibrahimovic a Barcellona? Gli dissi che il calciatore non si discuteva, un fenomeno. Ma era anche un maschio alfa, un uomo dalla personalità dirompente, che calato in una squadra di bravi ragazzi cresciuti in casa avrebbe fatto fatica a integrarsi».

Quali sono i tecnici italiani che più stima?

«Apprezzo molto Sarri. Scorbutico e scontroso fin che si vuole, ma bravissimo. Poi, Gian Piero Gasperini, uno che ha coraggio e pensa anche lui al collettivo e non ai singoli. Ma la cosa bella è che ce ne sono tanti, anche meno celebrati. Aurelio Andreazzoli dell’Empoli e Vincenzo Italiano della Fiorentina, ad esempio».

Menzione speciale?

«Qualche anno fa, proprio dove lei siede ora, c’era un ragazzo che mi portò le videocassette del Foggia, la squadra che allenava in serie C. La sera dopo, chiamai il mio amico Giorgio Squinzi, patron del Sassuolo. Ti ho trovato il tecnico che cercavi, gli dissi. Roberto De Zerbi sta diventando sempre più bravo».

Si sente in colpa per avere rovinato l’epica del numero 10?

«Anche questa critica, che mi viene rivolta spesso, rientra nella contrapposizione collettivo-singoli. A volte ci si dimentica che a calcio si gioca in undici».

Cosa pensa della crisi del suo Milan?

«Mandare via Paolo Maldini è stato un atto contro natura. Prendere 6-7 nuovi stranieri in una sola volta invece è un azzardo, soprattutto in una squadra con pochi italiani. Hanno bisogno di tempo per inserirsi, e per capire».

Come vuole essere ricordato Arrigo Sacchi?

«Come una persona schietta che si è impegnata molto per migliorarsi e per migliorare gli altri».

Kevin-Prince Boateng.

Boateng e le bugie a Melissa Satta: «In discoteca con Ronaldinho, la scusa del poker». Redazione Sport su Il Corriere della Sera venerdì 17 novembre 2023.

Ai tempi in cui entrambi erano al Milan spesso i due ex calciatori facevano serata assieme. Ecco come e quando Satta scoprì tutto

Compagni di squadra e amici anche fuori dal campo. Kevin-Prince Boateng e Ronaldinho, insieme in un Milan stellare. Insieme anche in serate in discoteca, spesso di nascosto. Siamo tra il 2010 e il 2011, Boateng è sposato con Melissa Satta. A lei racconta che con Ronaldinho di sera va a giocare a poker, in realtà vanno in giro per locali. Poi, una notte, Melissa scopre tutto.

«Andavo qualche volta in discoteca con Ronaldinho, ma mia moglie non lo sapeva perché pensava che andassi a giocare a poker — ha raccontato l’ex calciatore —. A noi piaceva fare festa, andare a ballare. Un giorno alle 4 di notte mi vibra il telefono e vedo che è Ronie. Melissa mi guarda e mi dice: “Cosa c’è che non va? Rispondi!”. Io le rispondo di no perché immaginavo fosse in discoteca, probabilmente anche ubriaco: meglio evitare». Ma non finisce qui: «Lui insisteva e continuava a chiamare, allora ho risposto mettendo il volume al minimo e sento: “Tunz, tunz, tunz! Ehi, dove sei?”. Io gli rispondo: “Nel mio letto”. Allora lui: “Dai vieni anche tu, di’ che stai andando a giocare a poker così non hai problemi”. E io: “Oh no... Ovviamente, non sono andato, ma è lì che mia moglie ha scoperto le mie bugie riguardo al poker».

Ruud Gullit.

I figli di Ruud Gullit e la denuncia per gli alimenti: «Ci ha usati, faceva foto con noi per venderle». Monica Colombo su Il Corriere della Sera il 4 novembre 2023

Quincy e Cheyenne Gullit hanno denunciato il papà: «Non ha pagato gli alimenti, ci deve mezzo milione. È sparito da 6 anni, non risponde neanche alle festività»

«Da sei anni mio padre è sparito. È arrivato il momento di dire la verità: come sportivo è stato un campione, da genitore una figura inesistente». Quincy Georges è nato 32 anni fa dalla relazione fra Ruud Gullit, oggi 61 anni, e l’allora modella Cristina Pensa: nel corso del matrimonio, durato un solo anno, è nata anche Cheyenne Dil, ora 29enne, pure lei stanca e arrabbiata per essere stata snobbata durante l’adolescenza.

Erano gli anni dei cappellini con le treccine, della rivoluzione sacchiana nel mondo del pallone, del Milan che stupiva l’Europa ribaltando la convenzione classica del calcio italiano, strenuo sostenitore del catenaccio. In quel periodo in cui Gullit era considerato una sorta di divinità pagana (anche se poi fu lui a raccontare di essere stato cacciato da una panetteria di Forte dei Marmi per essere stato scambiato con un vu’ comprà) si sposò con Cristina Pensa, in passato legata sentimentalmente ad Ayrton Senna e più di recente tronista a Uomini e donne. Ruud ha avuto tre mogli: Yvonne, la prima, conosciuta a scuola, l’ultima Estelle Cruijff, nipote di Johan, se ne è andata sbattendo la porta: «Basta, troppi tradimenti». Sei in totale i figli. Quincy Georges e Cheyenne Dil, così come riportato venerdì mattina dal Messaggero, lo hanno denunciato per non aver provveduto al loro mantenimento dal 2017, accumulando un debito pari a 500 mila euro. «Ma non lo facciamo per ottenere dei quattrini, è una questione morale» spiega Quincy.

I fatti: dopo la separazione dei genitori, i figli venero affidati alla madre e il giudice stabilì un assegno di mantenimento da 8 milioni di lire al mese a carico dell’ex campione rossonero. Dopo una controversia legale per il divorzio — fra i tribunali di Londra e Milano — nel 2010 la nona sezione civile del Tribunale di Milano stabilì che l’olandese per il mantenimento dei figli versasse all’ex moglie 7.200 euro mensili. Ma come è evidenziato nella querela di Quincy e Cheyenne «nostro padre si rendeva presto inadempiente, accumulando nel tempo un debito rilevante. Nel mese di ottobre 2017 nostra madre sottoscriveva un nuovo accordo con nostro padre al fine di regolare il debito pregresso».

Se Ruud, interpellato dal Corriere, nega la propria versione, i figli, difesi dall’avvocato Alexandro Maria Tirelli, non si sottraggono. «È sparito dalla mia vita quando avevo cinque anni» racconta Quincy. «Sette anni dopo è riapparso per un solo giorno davanti alla scuola. Poi di nuovo più nulla per anni. Io e mia sorella siamo stati usati. Nel 2014, si rese conto che in Olanda aveva una pessima reputazione proprio per i rapporti deteriorati con i figli e ci convocò tutti e sei a Ibiza. Arrivammo e trovammo dei fotografi. Lui era così interessato a noi che stava sempre al cellulare. Ci ha usato per vendere le foto di una presunta famiglia felice a tabloid olandesi».

La querela è stata presentata alla procura di Vibo Valentia. «Ho preso la residenza in Calabria da molti anni. Prima ero sbandato, cercavo una dimensione di serenità» confessa Quincy che si è così rifugiato nel gruppo di preghiera della mistica Natuzza. «Ho incontrato Dio ed ho subito una trasformazione». Il reato ipotizzato punisce chi si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale, alla tutela legale o alla qualità di coniuge. «Non rispondeva nemmeno più agli auguri per le festività» lamentano i ragazzi. «Sono stato molto fortunato nel calcio ma terribilmente sfortunato in amore» una frase cult di Gullit.

Giovanni Lodetti.

Giovanni Lodetti è morto, ha vinto tutto con il Milan. Monica Colombo su Il Corriere della Sera venerdì 22 settembre 2023.

Ha vinto tutto con la maglia rossonera accanto a Rivera, è stato campione d’Europa con l’Italia nel 1968. Poi la carriera da opinionista tv 

Addio Basletta. È mancato oggi all’età di 81 anni Giovanni Lodetti, così soprannominato negli anni Sessanta per via del mento pronunciato. Gregario del Milan negli anni Sessanta, nato a Caselle Lurani tra le nebbie del lodigiano, è stato considerato il portatore d’acqua di Gianni Rivera. «Non è vero che correvo e basta, avevo anche dei piedi buoni» ha ripetuto negli anni il Giuan. 

Cresciuto nelle giovanili agli ordini del Paron Nereo Rocco viene tesserato a 17 anni per la modica cifra di 100 mila lire e una dotazione di maglie. Il primo stipendio al Milan è di 160 mila lire. Vince con il Milan in un decennio leggendario due scudetti, due Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale, una Coppa delle Coppe e una Coppa Italia. Centrocampista più di lotta che di governo ma anche con il senso del gol. Saranno 26, in 288 presenze complessive. La leggenda narra che quando nel 1962 Rocco decise di farlo esordire con la maglia rossonera lo avvertì: «Senti Lodetti, oggi abbiamo deciso di diventare matti. Ti facciamo giocare. Poi arrangiati». Nel 1970 fu ceduto a sorpresa alla Sampdoria, mentre Romeo Benetti lo sostituì a Milanello. Foggia e Novara gli ultimi domicili sportivi.

Ha conquistato anche l’Europeo nel 1968 con l’Italia, competizione nella quale fu impiegato nella prima gara con la Jugoslavia. Ha poi lavorato nel campo della ceramica, prima di diventare opinionista televisivo, anche su Milan tv. Dove sennò? Ma sempre con ironia e con disincanto.

Un amore infinito il suo per il Milan, per tutti i suoi compagni di squadra e amici rossoneri. Ha corso e lottato, ha vinto e vissuto con la maglia della sua vita, il Lodetti. Alla signora Rita e al figlio Massimo le condoglianze più sentite e sincere per la perdita? 

Il suo Milan oggi lo ricorda così: «Un amore infinito per tutti i suoi compagni di squadra e amici rossoneri. Ha corso e lottato, ha vinto e vissuto con la maglia della sua vita, il Lodetti. Alla signora Rita e al figlio Massimo le condoglianze più sentite e sincere per la perdita dell’inimitabile Giuanin, il nostro indimenticabile Basletta». Messaggio di cordoglio anche dalla Sampdoria: «Ciao Capitan...».

Calcio in lutto: è morto Giovanni Lodetti, ex centrocampista della Nazionale. Giovanni Lodetti è scomparso oggi, 22 settembre, all'età di 81 anni. In carriera ha vestito le maglie di Milan, Sampdoria, Foggia, Novara e della nazionale. Marco Gentile il 22 Settembre 2023 su Il Giornale.

Il mondo del calcio piange la morte di Giovanni Lodetti ex centrocampista del Milan e della nazionale italiana. Classe 1942( nato il 10 agosto) è stato considerato il gregario di lusso del grande Gianni Rivera, uno dei giocatori italiani più forte di tutti i tempi e degli anni sessanta. Giovanni era un giocatore talentuoso che univa qualità e quantità. In carriera ha vinto tutto: 2 scudetti, 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe delle Coppe, una Coppa Intercontinentale e una Coppa Italia con la maglia del Milan, più un Europeo con l’azzurro della Nazionale nel 1968. Negli ultimi anni è stato più volte ospite di varie trasmissioni sportive sulle reti private e oltre alla sua grande competenza calcistica ci si ricorda di lui per la simpatia ed eleganza.

Una carriera da sogno

Lodetti era già considerato ai tempi un centrocampista "moderno" dotato di quella capacità di andare box to box e di gettarsi negli spazi. Tra il 1957 e il 1963 cresce nelle giovanili del Milan e nel 1963-64 entra in pianta stabile in prima squadra. Già nelle due precedenti due annate aveva messo insieme 22 presenze e 4 reti. Con i rossoneri gioca 288 partite, fino al 1970, segna 26 reti e vince tutto ciò che si poteva vincere. Nel 1970 si trasferisce alla Sampdoria con cui gioca per quattro stagioni con 142 presenze e nessun gol all'attivo. Nel 1974, sul finire della carriera, passa al Foggia in serie B per due anni. Con i pugliesi conquista una promozione in Serie A e gioca due partite nel massimo campionato ma saranno le ultime due dato che poi si trasferirà al Novara per due anni tra serie B e serie C. Lodetti ha anche giocato con la maglia dell'Italia l'Europeo del 1968 vinto contro la Jugoslavia.

Il ricordo del Milan

Lodetti è cresciuto nelle giovanili del Milan, ha giocato tra le fila dei rossoneri e si è sempre professato grande tifoso del Diavolo. Per questa ragione il club di via Aldo Rossi gli ha reso il giusto omaggio. "Un amore infinito il suo per il Milan, per tutti i suoi compagni di squadra e amici rossoneri. Ha corso e lottato, ha vinto e vissuto con la maglia della sua vita, il Lodetti. Alla signora Rita e al figlio Massimo le condoglianze più sentite e sincere per la perdita…"

Non solo, perché anche la Sampdoria ha reso omaggio a quello che è stato anche il suo capitano.

Franco Baresi.

Usa '94: quando Baresi annullò il Brasile dopo il menisco rotto. Il crack soltanto 25 giorni prima, il miracolo sportivo del ritorno in campo per la finale, una partita sontuosa contro Romario e Bebeto. Paolo Lazzari il 27 Agosto 2023 su Il Giornale.

"Ciao Baresi, l'avventura è finita" titolano impietosi i giornali del 14 giugno 1994. Pensarla diversamente pare del resto improponibile. Il giorno prima Franco s'è scontrato con Leonhardsen, spigoloso centravanti della Norvegia. L'esito è lacerante: menisco rotto. Seconda partita del mondiale statunitense, quella che vede sbuffare persino Roby Baggio: "Questo è matto", esclama il divin codino al momento della sostituzione per l'espulsione di Pagliuca. Il soggetto è Arrigo Sacchi. Ma sicuramente il capitano del Milan se la passa molto peggio.

Ha 34 anni, Baresi. Si avvia rapidamente verso la fase conclusiva di una carriera fotonica. Quel mondiale, Usa '94 appunto, rappresenta l'ultima chance utile per sollevare la coppa del mondo da protagonista in campo. Roba che ancora langue in un palmares ricchissimo con il diavolo. Però adesso la sfortuna ha lanciato una mano infida. Come fai ad infortunarti in quel modo e pensare di rientrare in tempo per giocare ancora, ammesso che gli azzurri proseguano anche senza di lui? Sinceramente impronosticabile. Baresi viene subito operato e resta con la truppa, ma per assistere da bordo campo.

Nel frattempo l'Italia avanza. Non a forza di prestazioni monumentali. Anzi: i successi arraffati sono sovente patiti, stazzonati, strappati. Roby Baggio ci mette un mucchio a svegliarsi. In tv Bruno Pizzul alterna liturgicamente il suo nome a quello del collega Dino. Passaggio soffertissimo del girone come terza classificata, dopo aver impattato con il Messico. Comunque avanti, mentre tutto intorno sembra franare: Zola espulso, ma battiamo la Nigeria. Tassotti rifila una gomitata a Luis Enrique che finisce in una pozza di sangue, ma passiamo contro la Spagna. Eppoi Roberto Baggio ci trascina in finale, trafiggendo la sorprendente Bulgaria.

In tutto questo Baresi osserva, impaziente, da fuori. Scocca il 17 luglio 1994. A Pasadena, sotto una calura imperante, Whitney Houston accarezza la folla prima di Italia - Brasile. Il paese intero, fino alla sera prima, è in apprensione per Roby, che pare ammaccato. Figurarsi se pensano, gli italiani, che possa recuperare Baresi. Eppure alla vigilia i giornali hanno vaticinato il possibile miracolo: "La sorpresa per la finale".

Rumours che avevano iniziato ad affastellarsi tre giorni prima dell'evento, subito rigettati però dal preparatore atletico Pincolini: "Chiedergli di giocare sarebbe come pretendere di correre il tour de France avendo fatto solo un po' di cyclette". Sentenza tombale? Macché. Baresi non è uno che depone le armi facilmente. Quella coppa lui la vuole sollevare ad ogni costo, anche perché nel 1982 l'ha vista soltanto dalla tribuna.

Così all'ora di pranzo americana, nel sobbollente ventre del Rose Bowl, eccolo lì in fila in mezzo al campo al rintoccare degli inni nazionali. Come se nulla fosse successo. Quel suo miracoloso recupero viene certificato da 120 minuti spaziali. Anticipi, senso della posizione, scivolate, contrasti, recuperi fluidi, proiezioni in avanti. Romario e Bebeto, praticamente il meglio alla voce "attaccanti letali" trent'anni fa, vengono domati e derubricati a pericoli minori.

Quell'impresa resterà soltanto parzialmente rigata da un pallone che si impenna quando Franco, portatosi stremato sul dischetto per dare l'esempio, cambia l'angolo all'ultimo istante vedendo Taffarel muoversi. Ma la favola umana e sportiva del capitano generoso resta intatta. Sacchi alla fine si dirà commosso. Bebeto e Romario confesseranno che Baresi è il difensore più forte mai incontrato. Lui si appenderà una medaglia d'argento al collo, ma nel cuore dei tifosi italiani lo scintillio sarà sempre quello dell'oro. Paolo Lazzari

Francesco Coco.

Da ilnapolista.it venerdì 17 novembre 2023.

“Con Capello era un rapporto di amore-odio. Un giorno mi prese da parte e mi disse dritto negli occhi: «Se diventi un professionista, mi taglio le palle». Tuttavia, un anno dopo, è stato lui a lanciarmi in prima squadra e a farmi diventare professionista. Era un modo per spingermi oltre”. La palle di Francesco Coco stanno ancora al loro posto, assicura nella divertita intervista a So Foot. L’ex milanista regala un po’ di racconti vintage.

“Ricordo uno dei miei primi allenamenti con i professionisti. Pioveva, avevo 15 anni, e Capello mi fece venire ad allenarmi con loro. Anche lui era giovane, ma già tosto, mamma mia … A fine seduta, partitella: i titolari contro le riserve e i giovani. Gioco nel mio ruolo, terzino sinistro. All’improvviso c’è un lungo lancio. Corro molto velocemente verso il punto di caduta e faccio un contrasto in scivolata che fa volare via l’attaccante di fronte. Ma prendo la palla! Lì Capello fischia e comincia a gridare: Coco, che cazzo fai?. Ero un ragazzino, mi rimandò negli spogliatoi a farmi una doccia. Diretto. Nel duello con me c’era Jean-Pierre Papin”.

Coco dice che “lasciare il Milan è stato l’errore più grande della mia vita“. E che lo scandalo Vallettopoli e le foto-ricatto di Corona non c’entrano niente. 

“Avevo fiducia nelle mie doti calcistiche e fisiche nella vita di tutti i giorni. Quindi sapevo che avevo il diritto di non essere sempre molto professionale. Sono state tante le partite che ho giocato senza aver dormito la notte prima… Due giorni prima della partita col Barcellona (2-0 al Camp Nou, segnò, ndr) sono uscito fino alle 7, sono tornato a casa ho preso la borsa, mi sono lavato i denti e sono partito per la Spagna. Ero ancora ubriaco. Eppure ho giocato una delle partite più belle della mia carriera.

“La maggior parte delle mie migliori partite le ho giocate senza dormire il giorno prima, ero fuori con gli amici, avevo bevuto. Perché arrivavo il giorno della partita con la mente leggera, non ci avevo pensato fino a quel momento e perché, appunto, mi conoscevo. Ero libero nella testa, è lo stress che alla fine ti taglia fuori. Lo stress è una delle peggiori malattie del mondo”.

“Nel corso della mia carriera sono sempre stato eccentrico e mi è piaciuto dire le cose senza filtri. Ma c’era una mentalità diversa. Ti faccio un esempio: ho sempre avuto i capelli lunghi e mi hanno sempre rotto le palle per questo. Un giorno, Berlusconi in persona mi tagliò la frangia! Oggi si vedono i giocatori arrivare con la borsa all’allenamento. Prima non esisteva. Ebbene sì, potevi farlo, ma eri un ribelle, un alieno”. 

Altro aneddoto: “Devo andare all’Inter. Ancelotti mi chiama e mi dice di restare. Gli dico: solo se viene Galliani e me lo chiede in ginocchio. Ovviamente non l’ha fatto. Accetto l’Inter. Moratti e Oriali mi chiamarono per un anno per convincermi. Volevo tornare al Milan, perché il campionato italiano a quel tempo era ancora il migliore, e mi mancava. Sono arrivato all’Inter che aveva appena preso Cannavaro, Crespo, un ottimo mercato. Nella mia testa pensavo: ‘Vado all’Inter, vinco e prendo a calci Galliani“.

“Dopo aver smesso di giocare si può dire che mi sono preso quattro anni sabbatici! Oltretutto nella mia carriera ho sempre fatto altro oltre al calcio. Il mondo è fatto di miliardi di altre cose e io sono un ragazzo curioso: non mi sono detto ‘cazzo sono finito, sono morto’,  quando ho smesso. Nel corso della mia carriera ho aperto dei ristoranti che ho tuttora, quattordici negozi di abbigliamento perché amo la moda, una discoteca che ormai è chiusa da qualche anno… Si chiamava Blue e sembrava un’astronave. Avevo 19 anni quando l’ho aperta. Dopo aver firmato il mio primo contratto due anni prima, nell’arco di cinque anni, acquistai un terreno a Lodi dove costruii la discoteca, mettendo soldi per la sua gestione e come cauzione. Risultato? Beh, ovviamente, tutti i soldi del contratto sono spariti e avevo già dei debiti. Ero nei guai.

Mia madre voleva uccidermi quando l’ha scoperto. Mi ha detto: ‘una persona normale compra una casa, non una discoteca, coglione!’. Ci andavo raramente perché ero un calciatore, e andare nella tua discoteca è un po’ strano… Ma ricordo che un giorno, abbiamo fatto una festa grandiosa che è iniziata alle tre del pomeriggio ed è andata avanti fino alle sei del mattino. Se dovessi dare un consiglio a qualcuno che vuole aprire una discoteca, gli direi innanzitutto di non farlo”.

Estratto dell'articolo di Monica Scozzafava per il “Corriere della Sera” domenica 9 luglio 2023.

Francesco Coco aveva 30 anni quando a un provino del Manchester City si presentò con una sigaretta tra le dita. 

Ma le sembrava una cosa possibile?

«Fu una innocente bravata. Mi divertivo, ecco. Ma poi lavoravo e guadagnavo senza far del male a nessuno. E me ne fregavo delle voci su di me. A un certo punto ho smesso per riappropriarmi della vita: non poter uscire, non poter andare a mangiare una pizza senza avere i paparazzi alle spalle, iniziava a pesarmi. Noi calciatori eravamo come rock star». 

Quarantacinque anni, da 15 Coco ha smesso con il calcio, taglio prematuro a un mondo che ha vissuto a livelli alti (Milan, Inter e Barcellona, le piazze più importanti dove ha giocato) ma che gli ha anche attribuito l’etichetta di divo del gossip. «Era un calcio diverso, senza social. Per niente finivi sulle copertine dei giornali. Mi hanno attribuito fidanzate con le quali magari non ho mai preso neanche un caffè».

Francesco Coco lascia il calcio con l’idea di respirare, prendersi del tempo. A trent’anni la vita può ripartire. Dica la verità, quante fidanzate ha avuto?

«Poche. Avevo tante amiche però. Samantha de Grenet una delle più care, per il mondo stavamo insieme». 

Manuela Arcuri, l’amore vero?

«Manuela era la mia fidanzata. Non siamo stati insieme tanto tempo, un anno e mezzo, ma per tutte le volte che ci hanno fotografati è sembrata un’eternità. Eravamo giovani e non potevamo vivere il nostro amore in libertà. È finita anche per questo. Le ho voluto molto bene e sono contento che si sia sposata e sia anche mamma». 

Lei, invece, single convinto.

«Non è mica colpa mia se finora non è arrivata la donna giusta. Vorrei una famiglia, magari anche un figlio, e non è detto che accada, ma sono talmente sereno che non forzo la mano. Magari arrivasse la mamma giusta! Una volta stava per accadere». 

Quando e con chi?

«Sono stato fidanzato cinque anni con Elodie, una ballerina e modella francese. Per lei dalla sera alla mattina ho comprato una casa a Parigi: volevo starle vicino. Poi è finita per divergenze caratteriali. Il mio guaio è aver avuto un modello familiare troppo alto che resta il mio riferimento».

Calciatori come rock star, cosa intende?

«Il calcio era rock. Meno gestito, meno pensato. Oggi tutto è studiato, tutto è mediato dai social, noi eravamo una band che suonava dal vivo, vivevamo alla giornata, capaci di salire sul palco e improvvisare una canzone. Eravamo come selvaggi e nella gestione del nostro privato l’errore era dietro l’angolo». 

Come quando le sue foto in barca nudo finirono nelle mani di Fabrizio Corona.

«Quelle mie foto nudo in barca non le ho mai viste, non so quanto le pagò Galliani per non farle uscire sui giornali. So però che mi tolse dallo stipendio 36 milioni di lire e gli avevo detto: “Per me possono diventare pubbliche”. Non ho mai rinnegato nulla, figurarsi una giornata goliardica con amici. Cosa c’era di male?». 

Galliani scoprì altre sue bravate.

«Si arrabbiò moltissimo quando facevo il militare. Chiesi un permesso per poche ore e rientrai in caserma due giorni dopo. Lo avvisarono e lui andò fuori di testa. Minacciò di mandarmi a casa, ma il Milan per me era casa. Cercai di convincerlo, per me era come un papà. Gli promisi che non lo avrei più fatto, lui per un po’ ha mantenuto la distanza poi mi ha perdonato. Galliani resta il migliore di tutti, manager competente e appassionato. Il Monza spiega esattamente ciò che sto dicendo. Sono cresciuto nel Milan, lì mi hanno fatto studiare, diventare un calciatore di successo. Lì sono diventato uomo». 

Con Berlusconi che rapporto aveva?

«Quando lo vidi per la prima volta ebbi la sensazione di vivere un film. Era il 1993, avendolo di fronte pensai: com’è possibile che un personaggio così in vista, così importante stia parlando proprio con me? Berlusconi era l’inarrivabile. Invece poi si è istaurato un bel rapporto. La sua morte è stato un grande dolore. Non me lo aspettavo.

Anche lui ogni tanto mi rompeva le scatole». 

Tipo?

«Aveva la fissa dei capelli. A me piaceva portarli lunghi, ed era anche un po’ la moda dell’epoca. Mi sentivo figo così. E lui: Coco, deve tagliarseli. Io dicevo di sì ma poi non lo facevo. Un giorno si presentò nello spogliatoio con un paio di forbici. Mi tagliò la frangia. E disse: “Con quella massa di capelli davanti agli occhi lei non vede la palla”».

Coco è stato un playboy?

«Non lo so, la mia era una vita normale, quella di un ragazzo della mia età. Certo, ero un personaggio pubblico e tutto veniva amplificato. Fondamentalmente non mi è mai importato, sapevo che faceva parte del gioco, ero su una giostra. Frequentavo ragazze?

Sì, ma se non ero sposato, né fidanzato a chi facevo torto? A nessuna, quindi non mi sono mai posto troppi limiti».

Ha guadagnato tanto?

«Sì abbastanza. Ma sono stato anche molto generoso». 

(...)

«Un mio amico finse di avere la mamma malata di cancro, aveva bisogno urgente di una certa cifra per farla operare. Gliela diedi, salvo scoprire un mesetto dopo che andava in giro con un’auto da mille e una notte che aveva appunto pagato con i miei soldi. Mi fece schifo. Anche oggi mi spendo per i meno fortunati, sposo progetti di beneficenza».  

(...)

Gianni Rivera.

Il compleanno del Golden Boy. Chi è Gianni Rivera, la leggenda del Milan compie 80 anni. Gianni Rivera, per chi l’ha vissuto, porta ancora con sé una gioventù, perché non sono evaporati i doni che l’hanno rivelato: il talento, la classe, la personalità, ai quali ha aggiunto una cosa che si è costruito da solo, la sua storia. Andrea Saronni su L'Unità il 18 Agosto 2023 

Molto tempo è passato, al punto che si celebrano gli 80 anni di colui che nella memoria collettiva dei suoi contemporanei è ancora e sempre il “Golden Boy”, il Ragazzo d’Oro. Eppure Gianni Rivera, per chi l’ha vissuto, porta ancora con sé una gioventù, perché non sono evaporati i doni che l’hanno rivelato. Va dire il talento, la classe, la personalità, ai quali ha aggiunto una cosa che si è costruito da solo, vale a dire la sua storia. Che il tempo, assolutamente, non si può portare via come ha fatto con molto di ciò che era attorno a lui quando era l’idolatrato numero 10 del Milan e della Nazionale. Non c’è più il suo calcio, innanzitutto, di quello non c’è proprio più traccia.

C’è un altro sport, forse, altrettanto coinvolgente, ma basato su altri criteri: atletici, tattici, mediatici. Economici e politici è persino inutile sottolinearlo. Sovrapporre all’oggi uno dei capitoli principali della parabola di Rivera – ovvero strappare di mano il club al Presidente che aveva spropositato di cederlo-, fa un effetto surreale, da fantascienza applicata al business sportivo.

Però, anche quella vicenda (disastrosa per tutti, a cominciare da lui) ha contribuito ad alimentare non solo il suo mito, ma ad accrescere il suo ruolo e il suo peso in tutta la società, il costume nazionale ben oltre le sacre barriere della maglia. E il punto è che oltre a quel calcio, è sparita pure quell’Italia popolata di tanti maestri del pensiero e della scrittura, dell’arte e del giornalismo che riconoscevano nel pallone un pezzo importante della cultura popolare. Da interpretare, assecondare o semplicemente da raccontare, spesso con passione, spesso dividendosi.

Questioni di tifo, differentemente dal presente, ce n’erano ben poche. Semmai di filosofia, di vita proiettata su un campo verde e più precisamente nel punto dove Rivera controllava, fintava e poi, dopo un’impercettibile occhiata, spediva la sfera dove voleva lui e a chi voleva lui. Rivera che non parlava tantissimo, ma quando parlava, che botti. Arte, geometria, anarchia, che si voleva di più, specie in anni come quelli, i 60, i 70. Tanti fuoriclasse e protagonisti degli stadi, italiani e stranieri, hanno entusiasmato prima e dopo il Golden Boy, hanno vinto più del Golden Boy, guadagnato più del Golden Boy. Decisamente pochi, invece, hanno mosso le anime, i sogni e le menti (migliori) di un intero Paese. La prova sta nelle righe qui sotto.

L’augurio migliore che si può fare ai suoi eponimi che vestono divise kitsch e portano sulle spalle numeri improbabili, è quello di suscitare anche solo in parte qualcosa del genere. Ma probabilmente manca da ambo le parti la materia prima, essere speciali. E di continuare a esserlo è invece l’augurio migliore da rivolgere a Gianni Rivera. Solo pochi mesi fa, fresco di patentino, ha espresso il desiderio di allenare. Non c’è nulla da fare, l’istinto del fuoriclasse, della giocata a sorpresa non li può sopprimere nessuno. Neanche il tempo.

“E vidi lume in forma di Rivera”

“Come spenti / passano i vinti, passa il vittorioso / manipolo, ridente pur se stanco. / E in mezzo, lui, che ancora la tribuna / vibra al suo nome, echeggia la collina. / A testa china, assorto, / la dolce nuca ersuta di sudore, | l’ecchimosi, lo strappo sulla maglia”. (Fernanda Romagnoli, poesia per Gianni Rivera)

“Se non prendete quel ragazzino siete matti” (Juan Alberto “Pepe” Schiaffino)

“Un bel ragazzino in maniche di camicia azzurra… il suo atteggiamento di cortese attenzione, mai impaziente né minimamente arrogante, la sua parlata pacatissima, con una erre leggermente arrotata” (Camilla Cederna)

“Diventai milanista perché da piccolo trovai un giorno per terra il portafoglio di mio nonno. Lo aprii e vidi le foto ingiallite di padre Pio e Gianni Rivera, che io non conoscevo, non sapevo chi fossero. Lo chiesi a mio nonno e lui mi spiegò: uno fa i miracoli, l’altro è un popolare frate pugliese”. (Diego Abatantuono)

“Gianni Rivera, ciapp’ questo pallone, un Tango, e vai in giro per il mondo a insegnare il giuoco del calcio!” (Diego Abatantuono, da Eccezzziunale… veramente)

“Perché Rivera è l’idolo delle folle? Subito spiegato, cioè che il calcio oggi la gente lo vede e lo giudica solo dalla televisione. Rivera appare sui teleschermi, normalmente, solo quando ha la palla al piede, quand’è in azione. Ora, quando Rivera ha la palla lo sappiamo tutti che è un uomo eccezionale. Ma io lo critico non per le palle che gioca: per le palle che non gioca. Rivera, dunque, è un grosso giocatore che però costringe a impiegarlo in un certo modo.” (Gualtiero Zanetti, direttore de La Gazzetta dello Sport)

“Rivera, alzarsi e camminare” (Nicolò Carosio)

“Ma se non si correva per Gianni, per chi valeva la pena farlo?” (Giovanni Lodetti)

“Il giocatore che in ogni momento, quando ha la palla, sa fare la cosa più giusta tra le tante possibili. Questo è il grande giocatore. E questo giocatore io lo trovo in Gianni Rivera” (Fulvio Bernardini)

“Senza Rivera il Milan è un altro Milan. Son d’accordo, sì, non corre tanto. Ma se io voglio avere il gioco, voglio avere la fantasia, se io voglio avere dal primo al novantesimo minuto sempre l’arte di capovolgere una situazione, questa me la dà soltanto Rivera, con i suoi lampi, non vorrei esagerare, perché in fondo è soltanto football, ma Rivera è un genio” (Nereo Rocco)

“Zero a zero anche ieri ‘sto Milan qui, sto Rivera che ormai non mi segna più, che tristezza, il padrone non c’ha neanche ‘sti problemi qua”.

(Enzo Jannacci, “Vincenzina e la fabbrica”)

“Sorride ancora. Rivera. A forza di vederlo sempre malinconico, con una smorfia scettica sulle labbra sottili, pensavo che non sapesse più sorridere. Il maledetto ’66 è finito in allegria. Con champagne nelle coppe e sorriso sulle labbra. È felice, Rivera. Come mai l’avevo visto. E la sua faccia invecchiata da una maturità precoce riacquista una semplicità sbarazzina, da bambino che ha ingoiato montagne di cioccolatini”. (Walter Tobagi)

“Il suo collo è da cigno, il suo occhio freddo e il suo ciuffo da uccello raro e prezioso: sembra un airone quando improvvisa, tra la muta avversaria, passi e ritmi in controtempo che sbilanciano i più ringhiosi mastini” (Giorgio Bocca)

“Quali sono i quattro giocatori italiani che ritiene più forti?” “Rivera, Rivera, Rivera e Rivera” (Alf Ramsey, c.t. dell’Inghilterra campione del mondo 1966)

“Sono passati una ventina di governi, i Platters, i cantautori, le minigonne, il centrosinistra, l’uomo sulla luna, Lascia o Raddoppia, tutta roba d’archivio. Lui invece è ancora qui. Qualcuno dice che sta esagerando, che non ha il senso della misura. Ha fatto fuori, dicono i suoi nemici, più presidenti e allenatori che piatti di minestra e fidanzate più o meno ufficiali. Altri, i fedelissimi, sono convinti che sia eterno, proprio come Babbo Natale. Sicuramente, batterà in resistenza anche John Travolta”. (Beppe Viola)

“È vero, ti ho chiamato abatino. Abatino è termine settecentesco, molto vicino – per dirla schietta – al cicisbeo; un omarino fragile ed elegante, così dotato di stile da apparire manierato, e, qualche volta, finto.” (Gianni Brera)

“Con la polemica Brera-Rivera, i calciatori sono diventati uomini, non piedi. Merito di Brera. E del suo nemico Rivera” (Oreste del Buono)

“Da dove nasce la lotta a Rivera? Nasce dal grigiore generale, dal conformismo, dalle teorie sbagliate” (Gino Palumbo)

“Rivera, in sostanza, è un sindacalista del calcio, un socialista della pedata che ha fatto una rivoluzione eminentemente personale. Immaginate un Marx che usi il suo talento sol per risolvere una sua questione intima, un suo problema particolare”. (Gian Paolo Ormezzano)

“Le vicende della sua vita non furono sempre ideali. Unendo il proprio destino al Milan fu sempre coerente, non fortunato. Nessuno osa privarsene o mancargli di rispetto. E equilibrato, forse anche saggio. La fama gli si dissolve sul capo come una nube non più molto grata. Non se ne affligge e per questo lo stimo” (Gianni Brera)

“Gianni Brera / Bearzot / Monzon Panatta Rivera D’Ambrosio/ Nuntereggaepiù” (Rino Gaetano)

“Giocare con Rivera era il massimo, spesso ti metteva la palla lì al bacio. Però era anche una bella responsabilità. Perché io sbagliavo e lui mai” (Egidio Calloni)

“Il calcio è come la poesia, un gioco che vale la vita. Voglio dirglielo: anche il poeta ha il proprio campo verde ove parole, colori e suoni vanno verso l’esito felice. Fa anche lui il gol o lo lascia fare, dando spazio alle ali, al lettore che gli cammina al fianco e che entra in porta con lui, nella felicità di avere colpito il segno. Può sembrare tutto facile, e lo è, per grazia ricevuta. Ma, a spedirla questa grazia, è il suo stesso cuore puro, il suo nome innocente, e forse anche il non sapere come ha fatto. La furbizia, tra noi, non sarà mai nostra”. (Alfonso Gatto, “lettera aperta a Gianni Rivera”)

“Rivera fa fiorire gli ombrelli” (Alberico Sala)

“Chi è questo?” (Ruud Gullit, osservando una foto di Rivera con il Pallone d’Oro nella sede del Milan)

“Rivera è eterno come il calcio, una storia infinita. Lui portava il calcio sulla piazza pubblica prima ancora che a Piazza Affari, forse è stato il primo calciatore moderno nell’era mediatica. Ragionava, capiva di strategia, leggeva le partite. Rivera non era solo classe, ma anche risultati. Grazie per essere stato quello che sei stato e di rimanere quello che sei” (Michel Platini)

“Albertosi, Albertosi / Burgnich e Facchetti / con Bertini, Rosato e Cera / c’era un gol! / Domenghini e Mazzola / Boninsegna e Rivera / in panchina, in panchina con Zoff”. (Mina, Ossessione ‘70)

“Boninsegna… ha saltato Schultz, passaggio…. Rivera, RETE! Rivera, ancora, 4-3! 4-3, gol di Rivera! Che meravigliosa partita, ascoltatori italiani… non ringrazieremo mai abbastanza i nostri giocatori per le emozioni che ci offrono” (Nando Martellini, telecronaca di Italia-Germania, Mondiali del Messico 1970)

“Posso dire una sola cosa di Gianni: vorrei che fosse mio figlio tanto è a posto, tanto è serio. Io ho due figli, ma includerei volentieri Gianni nella mia famiglia. E guardi che in 45 anni di mestiere ne ho visti di giocatori di calcio”. (Nereo Rocco)

“In campo dimostra di avere un’intelligenza e una classe fuori dal comune: gran goleador (diventa anche capocannoniere del campionato), Rivera è soprattutto un assist man. Le sue soluzioni di gioco per mettere i compagni in condizione di segnare sono praticamente illimitate” (Hall of Fame AC Milan)

“Ho sempre sognato di fare gol su lancio illuminante, anzi cartesiano, di Rivera” (Silvio Berlusconi)

“In un calcio arido, perfino cattivo, con i troppi dubbi di doping e di premi elevati che deformano la verità, Rivera è il solo a dare un senso di poesia a questo sport”. (France Football, motivazione al Pallone d’Oro 1969)

“Quel colore lì, grigio, era anche il colore del calcio. Trasmesso alla tele, un tempo scelto a caso, con i giocatori, l’erba e il pallone monocromatici. Per questo ti veniva voglia di andare allo stadio. Per vedere se era proprio così, tinta unita. E se allo stadio arrivavi davvero, non te lo scordavi più. Perché all’improvviso, scoprivi il verde dell’erba, il rigato delle maglie, le mille sfumature castane del ciuffo di Gianni Rivera”. (Giorgio Terruzzi)

“Anche a fine carriera, Rivera era il fuoriclasse che avevo ammirato da ragazzino… giocava con una semplicità grandiosa. Era lì, nella capacità di sintesi, che emergeva la differenza con tutti gli altri, mai un dribbling in più o il colpo ad effetto. Ogni volta non finivo di stupirmi” (Franco Baresi)

“Mi illumino di Rivera. Quando Rivera tocca la palla il gioco si illumina. Perché veramente con essa Rivera fa meraviglie. Più grande di lui ci fu forse soltanto Pelé” (Luciano Bianciardi)

“Rivera porta nel gioco una misura classica: è un eroe antico” (Ennio Flaiano)

“E vidi lume in forma di rivera” (Dante Alighieri, la Divina Commedia, Paradiso Canto XXX).

La carriera

Due giugno 1959. Rivera fa l’esordio in serie A con la maglia grigia dell’Alessandria. Ha 15 anni. Per giocare, essendo troppo ragazzino, ha ottenuto un permesso speciale della Lega Calcio

1960. Ha appena compiuto i 17 anni e fa parte della nazionale Olimpica che a Roma conquista la semifinale. Con lui Trapattoni, Burgnich, Salvadore, Bulgarelli. In semifinale la nazionale pareggia con la Jugoslavia e viene eliminata alla monetina. la Jugoslavia vince l’oro.

18 settembre 1960. Al ritorno dalle Olimpiadi esordio nel Milan. Dopo un provino sostenuto con due grandi esaminatori: Nereo Rocco e Juan Alberto Schiaffino. Inizia una corsa che durerà 19 anni. Il primo anno Rivera gioca con Schiaffino.

1962. Alla seconda stagione col Milan è già scudetto. Guidato da Rocco, con le spalle coperte dal vecchio Maldini (Cesare), Dino Sani al fianco e Altafini davanti.

1963. Per la prima volta una squadra italiana (anzi: una squadra non iberica) vince la Coppa dei campioni. Il Milan, guidato dal diciannovenne Rivera, batte in finale il Benfica, due a uno. Due gol, due lanci di Rivera.

1968. Secondo scudetto

1969. Seconda Coppa dei campioni travolgendo in finale l’Ajax di Cruijff. Rivera è protagonista assoluto della gara. Di conseguenza arriva il Pallone d’oro, il primo assegnato a un italiano.

1970. Ai mondiali del Messico l’allenatore Valcareggi, spinto dalla stampa italiana (in particolare da Gianni Brera) lo tiene ai margini. Gli concede solo i secondi tempi. È nei secondo tempi e poi nei supplementari della semifinale, che Rivera trascina l’Italia in finale, dopo 35 anni, segnando alla Germania il famoso gol del 4 a 3. In finale, Valcareggi, con una scelta sciagurata e incomprensibile, lo tiene fuori squadra. L’Italia perde 4 a 1. Pelè dichiarerà che se avesse giocato Rivera sarebbe stata un’altra partita. Vero.

1973. L’anno della beffa. Il Milan vince la Coppa delle coppe e la Coppa Italia, Rivera è capocannoniere (primo centrocampista capocannoniere dal 1946, quando toccò a Valentino Mazzola, padre di Sandro e Ferruccio). In realtà il Milan vincerebbe anche il campionato, ma il Milan non è amato dagli arbitri e Rivera men che meno. L’anno precedente aveva beccato tre mesi di squalifica per aver denunciato i metodi coi quali si sceglievano gli arbitri delle varie partite. Anche nel 1973 litiga molto. Il Milan è severamente punito da arbitraggi faziosi. Il peggiore è quello della partita decisiva Lazio- Milan, nella quale al Milan viene tolto il punto che sarebbe stato sufficiente per vincere il campionato in anticipo. All’89’ del secondo tempo l’arbitro Lo Bello annulla un gol regolare di Chiarugi. All’ultima partita, col Milan primo, la società chiede un rinvio della gara, almeno di 24 ore, perché il Milan ha sostenuto il giovedì una estenuante finale di Coppa delle coppe. Le sue rivali si oppongono e la Lega, ovviamente, dà torto al Milan che si presenta sfinito alla partita col Verona. La perde e perde lo scudetto.

1977. Terza Coppa Italia. Vinta nel giorno dell’ultima partita di Sandro Mazzola, che esce furioso dal campo.

1979. Scudetto, stella e abbandono del calcio giocato.

Andrea Saronni 18 Agosto 2023

Estratto dell’articolo di Gigi Garanzini per “la Stampa” giovedì 17 agosto 2023.

[…] Raccontiamo ai più giovani perché Prodigio?

«Furono Gigi Radice e Pantera Danova a soprannominarmi così ai primi tempi del Milan». 

[…] a 15 anni nel famoso provino di Linate lasciasti a bocca aperta due come Schiaffino e Liedholm.

«Avevo da poco debuttato nell'Alessandria il cui centravanti, Benito Lorenzi, voleva portarmi all'Inter. Giocò d'anticipo l'allenatore Pedroni, cuore rossonero, che disse al general manager Gipo Viani, prendetelo. La risposta di Viani dopo il provino di Linate fu l'abbiamo già preso e abbiamo fatto bene». 

[…] Con la testa che andava veloce nel senso della crescita, verso una maturità a sua volta precoce. Il Corriere ha da poco ripubblicato una storica intervista a Oriana Fallaci, avevi 19 anni e una maturità nelle risposte da adulto fatto e finito. Tanto da stupire, lo si legge bene tra le righe, una giornalista tosta come lei.

«L'ho riletta anch'io qualche giorno fa. La ricordavo nonostante siano passati sessant'anni ma un po' ha stupito anche me». 

[…]il Mondiale messicano? In un dormiveglia salta fuori più spesso il piatto sincopato del 4-3 alla Germania, o i sei minuti col Brasile?

«I sei minuti li ho rimossi da allora, per legittima difesa. Almeno questo. E mi ha aiutato a rimuoverli da subito il fatto che nessuno li ha capiti nel mondo, non solo da noi. Perché non si poteva capirli, non avevano senso. Quante volte abbiamo giocato insieme io e Mazzola, prima e dopo il Messico. Là no, non se ne poteva parlare». 

Un tentativo di spiegazione cinquanta e passa anni dopo?

«Guarda, cinquanta e passa anni dopo è una storia che ha ancora meno senso di allora. Se avessero potuto non mi portavano nemmeno in Messico: non potevano e si sono accontentati di usarmi solo a rate. Ma di sicuro, anche in quell'ottica inaccettabile, almeno il 2° tempo della finale col Brasile era l'unico che dovevo giocare». 

[…] Che cosa ti piace e che cosa no nel calcio di oggi?

«[…] Una cosa che non pensavo mi sarebbe piaciuta e invece sì è la Var. Perché utilizzato bene è uno strumento che aiuta l'onestà dei comportamenti e del risultato. […]».

Mancini-Gravina, almeno uno dei due ha sbagliato. Chi?

«In questo momento hanno sbagliato tutti e due. Mancini avrebbe dovuto andar via semmai dopo la Macedonia. Farlo adesso perché potrebbero esserci tanti soldi in Arabia non è molto elegante». 

Com'è che ti è venuta solo in tarda età la voglia di allenare?

«Perché mi manca solo questo. E ho capito ad un certo punto che è un'esperienza che davvero avrei voluto fare. Non disturberei nemmeno, perché sarei uno di quelli che non si alzano mai, come Rocco e Liedholm, e non darei fastidio rubando la scena ai giocatori. Sono stato così precoce che oggi mi piacerebbe essere altrettanto longevo».

Estratto dell’articolo di Maurizio Crosetti per “la Repubblica” giovedì 17 agosto 2023.

[…] Gianni Rivera […] 

Rivera, ma gli eroi mitologici invecchiano?

«Ho letto che l’uomo vivrà fino a 130 anni, ne ho ancora davanti una cinquantina e voglio usarli bene». 

[…] Lei è appena diventato allenatore a tutti gli effetti, con la patente: scusi, ma non poteva pensarci prima?

«Infatti sbagliai. Però sono stato un allenatore in campo per vent’anni, so tutto del mestiere, sono pronto». 

Avrà saputo che c’è una panchina libera niente male, di colore azzurro.

«Ecco, se mi chiamano, mi ci siedo volentieri. Tra l’altro, costo molto meno di Spalletti».

È vero che ci andò vicino già un’altra volta?

«Tavecchio me l’aveva offerto, quel posto, però non avevo ancora il patentino e non se ne fece niente. Venne a parlarmi Costacurta a nome della Figc, e mi disse che non avevo esperienza. Io senza esperienza? Mah...». 

[…] Come giocherebbe la Nazionale allenata da Rivera?

«Niente costruzione dal basso, per l’amor di Dio! Calcio d’attacco, provando sempre a mettere in difficoltà l’avversario quando la palla l’abbiamo noi». 

[…] Ora che Berlusconi non c’è più, cosa possiamo dire di questo personaggio?

«Sapeva farsi molto bene gli affari suoi». 

Non la volle tenere al Milan: perché?

«Forse temeva che gli avrei fatto ombra, che gli avrei dato fastidio. Non sono un signorsì. Quando mi propose di diventare presidente dei Milan Club, compresi che era arrivato il momento di andarmene». 

E così diventaste i due milanisti nemici in Parlamento.

«Lui aveva le sue idee, io le mie. Inconciliabili». 

Rivera smise di giocare presto. Come mai?

«Quando Liedholm andò alla Roma, consigliai il presidente Colombo di prendere Giacomini, mi sembrava il nome giusto per allenarci. E Giacomini, quando arrivò, disse subito al presidente che io gli avrei creato problemi: così mi ritirai per amore del Milan, sbagliando. È triste essere messi da parte da chi abbiamo aiutato ad arrivare». 

[…] Non crede che oggi si allenino più i muscoli della tecnica?

«Purtroppo sì. E i nostri ragazzi non sanno più fare gol». 

Cos’è il numero 10?

«Il mio, l’unico. E l’ho portato sulla schiena per tanto tempo. Se sei Rivera, devi esserlo sempre e per sempre. Ma quando un bel giorno ho visto che ormai il 10 lo danno anche ai portieri, ho pensato: è finita». 

[…] Meglio Rivera o Mazzola?

«Molto diversi. In Nazionale avevamo sempre giocato insieme, poi Valcareggi in Messico subì pressioni da Coverciano e dal direttore della Gazzetta. La staffetta fu una stupidaggine. E io davo fastidio». 

Nel ’70 cosa sarebbe successo con Rivera titolare contro il Brasile?

«Era il mio avversario perfetto, perché giocava e lasciava giocare. Forse avremmo vinto noi».

Al ritorno in Italia vi tirarono i pomodori.

«Avevo capito l’antifona e me n’ero già andato». 

Però quel Brasile aveva Pelé.

«Meglio di tutti, meglio anche di Maradona. Se il calcio non fosse già stato inventato, lo avrebbe inventato Pelé. Lui era tutto, potente, sensibile. Non era tanto alto però saltava come una molla. Il suo sinistro era pari a quello di Diego, il suo destro migliore». 

A un certo punto andò in America.

«Mi confessò che non voleva, che aveva chiesto ai Cosmos una cifra spropositata per farsi dire no. E invece accettarono». 

Brera la chiamò Abatino: un marchio d’infamia?

«Mica ero un Ercole! Brera sapeva dei miei rapporti con l’Associazione Mondo X, con i frati e con padre Eligio che aiutava i tossicodipendenti. E allora mi soprannominò così. Pazienza, non porto rancore, era un problema suo. Ma quando poi Brera incontrava Rocco, ne sentiva di tutti i colori».

Che soggetto era il Paròn?

«Di una simpatia unica. Una volta facevamo ginnastica e lui scuoteva la testa, dicendo “’ndemo, non so a cossa ghe serve ma va ben cussì”. Un’altra volta ci ordinò di fare un giro attorno alla porta saltando di testa, e poi un altro ancora. Allora Cesare Maldini gli disse: “Mister, fantàsia”, con l’accento sulla a. Erano due triestini e Rocco rispose: “Ciò, maledeto bianco!”. Diede la colpa al vino». […] 

Un giorno Oriana Fallaci le chiese: Rivera, cosa vuol fare da grande? Possiamo rifarle quella domanda?

«Quella signora cercò di mettermi in difficoltà senza riuscirci, fu un incontro un po’ teso. Io da grande voglio allenare, al limite comprerò un club con altri amici e ce la farò. Ah, guardi che ancora non sono diventato nonno. Altrimenti, come posso essere un ragazzo per sempre?».

Estratto dell’articolo di Marco Ciriello per “il Messaggero” giovedì 17 agosto 2023.  

[…] Gianni Rivera è un sentimento, o lo si sente o no. […] Ha vinto tutto: dal Pallone d’oro (1969) alla Coppa intercontinentale, passando per quella dei Campioni. Due volte padre, eretico, estremista, ma parlamentare Dc. Un ossimoro continuo. A Fellini preferiva Bergman, e a lui Ferruccio Valcareggi preferiva Sandro Mazzola. È stato l’incarnazione del miracolo pallonaro, senza mai farsi populista, troppo aristocratico per una piazza: per Gianni Brera era un arrampicatore sociale portato per essere un causidico, per Luciano Bianciardi un poeta, per Diego Abatantuono un santo che fa miracoli, per Oreste del Buono l’unico calciatore italiano fuori dalle dinamiche machiavelliche, per Gino Palumbo il più grande calciatore dal dopoguerra agli anni Settanta. […]

Che cosa ha fatto in tutti questi anni?

«Dopo aver smesso di giocare, sono diventato vice presidente del Milan poi sono entrato in Parlamento per 22 anni, e dopo un passaggio in Comune allo Sport sono tornato al calcio in Federazione: passando dal settore giovanile al centro tecnico di Coverciano per 5 anni. Ho preso i vari patentini per diventare allenatore professionista, e anche per la Nazionale italiana. Insomma, io ci sono. A maggior ragione oggi che ho il patentino da professionista. Dopo Ventura, il presidente Tavecchio mi offrì questa possibilità alla quale si opposero tutti coloro che erano legati all’associazione allenatori: peccato che questa regola l’abbiano applicata con qualche eccezione».

Mi dice l’eccezione?

«È evidente, Roberto Mancini in serie A». 

Poserebbe nudo ancora una volta? Ha poi imparato l’inglese?

«Questa storia del nudo fu una punzecchiatura di Oriana Fallaci, mai pensato né mi è stato proposto. L’inglese l’ho imparato in Parlamento, ci fecero fare un corso». 

Chi è stato il Rivera della politica italiana: Moro, Berlinguer o Andreotti?

«Andreotti, stupiva di continuo, aveva anche autoironia, pensi alle sue battute sul potere».

[…] Ma Concetto Lo Bello lo incontrava mai?

«In campo troppo spesso». 

Si incazza ancora?

«Se ci penso sì. E poi mi dico che col Var nella mia vita non ci sarebbe Lo Bello». 

[…] I morsi di Gianni Brera su di lei erano come le battute di Craxi su Andreotti o più Di Pietro vs Fanfani?

«Niente era come Brera. Era unico, e mi utilizzava. Tutti mi lodavano e lui andava contro, era una scelta, in fondo in fondo gli piacevo, forse anche più che agli altri».

Nereo Rocco, Nils Liedholm e Bruno Tabacci sono i suoi padrini, come erano veramente con lei?

«Rocco ti metteva a tuo agio, con battute. Un buono. Liedholm era puro ghiaccio, con battute alla svedese, che pochi capivano. Più duro di Rocco. Tabacci è un furbo». 

[…] Se lei era già grande a venti anni ora che cosa è?

«Sono tornato piccolo per ricominciare! Ho il rimpianto di non aver allenato prima, non ho approfittato mai di niente. Io mi sentivo dirigente».

Non è che si sentiva troppo intelligente?

«Non lo si è mai». 

Per Luciano Bianciardi lei era un poeta, mi dice la sua poesia preferita?

«“If” di Kipling, se come avverbio, non sé pronome riflessivo». […]

Testo di Roberto Boninsegna per “la Stampa” giovedì 17 agosto 2023.

Ho sempre avuto un ottimo rapporto con Gianni Rivera anche se siamo stati avversari di tanti derby milanesi. Anzi, ricordo che capitava di scherzare prima dell'inizio delle sfide tra Inter e Milan quando eravamo insieme nel tunnel degli spogliatoi o nell'androne dove ci riscaldavamo. «Mi raccomando, fai il bravo oggi», gli dicevo. «Guarda che ti facciamo marcare da due cagnacci, stai attento», diceva lui. Abbiamo anche fatto il militare insieme a Orvieto, anche se lui all'epoca giocava già in Serie A. Era già Gianni Rivera. 

In campo non ho mai avuto modo di apprezzare la sua classe, perché nei derby avevo sempre addosso due marcatori che non mi davano tregua. Però in Nazionale abbiamo vissuto tante avventure insieme: su tutte il Mondiale del 1970 in Messico. Gli ho regalato l'assist per il gol del 4-3 nella leggendaria semifinale con la Germania Ovest. E dire che non l'avevo neanche visto bene in area. Sul lancio di Facchetti avrei voluto tirare, ma poi mi sono allargato troppo.

A quel punto vedevo pochissimo specchio di porta, ero troppo vicino alla linea di fondo e avevo lo stopper tedesco alle calcagna. Allora l'ho messa in mezzo indietro un po' alla cieca, perché mi hanno sempre insegnato fin da piccolo che da quella posizione è meglio passarla indietro al centro dell'area sperando che arrivi qualche compagno, piuttosto che indirizzarla in diagonale in profondità. E Gianni è arrivato puntuale. Chissà cosa sarebbe successo in finale col Brasile se Rivera avesse giocato almeno un tempo facendo la staffetta con Mazzola come sempre successo in quel Mondiale, anziché entrare in campo solo negli ultimi sei famosissimi minuti.

Ogni tanto me lo chiedo ancora adesso. Pelé fece una battuta su quella scelta prima del via: «Devono essere davvero forti se tengono in panchina Rivera. Chissà gli altri che fenomeni sono se non gioca dall'inizio il Pallone d'Oro». Rivera è stato un signore anche in quell'occasione: accettò la decisione del Ct Valcareggi senza fare la minima polemica. Anche dopo la finale persa. Il soprannome di Golden Boy se l'è meritato davvero. È stata una delle mezzali più forti di sempre. Anche se in campo potevo vederlo poco. Avevo sempre addosso due cagnacci, come li chiamava lui per ridere.

Estratto dell'articolo di Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” giovedì 10 agosto 2023.

Io ho le prove che un grande calciatore, meglio se grandissimo, può mandare in gol chiunque, anche uno che tira di scherma. Questa è la storia che vi racconto: il campione è Gianni Rivera, e quello che tirava di scherma sono io. Era il 1964, e Rivera era già Rivera: a 21 anni, era al Milan da quattro e faceva decine di gol a stagione, aveva già vinto uno scudetto e una Coppa dei Campioni. 

[…]  La fortuna fu che eravamo non solo coscritti, ma anche entrambi degli sportivi, lui «un pochino» di più; io ero iscritto alla Federazione italiana della scherma, e quindi venimmo mandati entrambi al Centro addestramento reclute di Orvieto, la caserma dove venivano ammucchiati gli sportivi. È lì che ci siamo conosciuti. 

Rivera, in mimetica, era un giovane come tutti gli altri, una recluta tra le altre reclute, e a nessuno venne mai in mente di trattarlo con i guanti di velluto. Lui, come tutti noi, si adeguò al clima spartano e di prepotenze della vita da soldati in tempo di pace, tipico del militarismo degli anni Sessanta […]

In camerata dormivamo in dodici, Rivera era guardato con ammirazione e rispetto, ma lui, titolare fisso nel Milan, nei nostri confronti si comportava con modestia, da «dodicesimo» […] 

A questo proposito, vorrei distruggere una leggenda negativa che lo ha sempre perseguitato: Gianni non era un ragazzo per niente tirchio. Spesso, la sera, visto che a nessuno era permesso di uscire dalla caserma e il rancio faceva piuttosto schifo, ordinava dei polli arrosto, li faceva portare in camerata, e li divoravamo tutti insieme. Rispetto a noi, che eravamo perlopiù senza un quattrino, era un signore, era un gigante del calcio e guadagnava molto: ogni volta pagava allegramente tutto lui, di buon grado.

Alcune sere, quindi, le si trascorreva mangiando pollo, ma in altre giocavamo a calcio: era il CAR degli atleti, i giocatori erano tanti, pieni di Gianni Rivera è nato ad Alessandria il 18 agosto 1943 e la prossima settimana farà cifra tonda: 80 anni. […] 

[…] Quando si organizzavano queste partite mancava sempre qualcuno per fare i ventidue, perciò a volte venivo reclutato anche io: Rivera giocava con leggerezza ma senza supponenza, mi passava la palla come se io fossi un giocatore «normale» e non uno schermidore che si trovava in mezzo a un campo di calcio, e la passava in modo meraviglioso, mi dava delle palle talmente facili da farmi sembrare un calciatore vero. 

Ricordo che feci perfino due gol: Rivera guardava e toccava il pallone, che passava senza che nessuno riuscisse a prenderlo e arrivava giusto sul mio piede. E a quel punto avevo solo da spingerlo in porta. 

Era un gran divertimento: se stai facendo il soldato e stai tutto il giorno chiuso in caserma, quando finalmente c’è una partita si esplode di gioia. I giocatori della caserma erano tutti professionisti, ma nessuno di loro aveva verso di me un atteggiamento di sufficienza, anzi, si divertivano, perché noialtri, quelli che erano lì per fare numero, eravamo dei chiodi. Dopo un paio di mesi, finito l’addestramento, fui spedito al ministero, a non fare un cavolo; e tutti loro tornarono nelle rispettive squadre.

[…] Rivera smise di giocare nel 1979, fu vicepresidente del Milan fino al 1986, anno in cui la società venne acquisita da Silvio Berlusconi, che non lo confermò perché lo considerava un contestatore, e Berlusconi dei contestatori si libera in fretta. L’anno dopo Rivera scelse di correre per diventare parlamentare. Io all’epoca lavoravo al «Corriere della Sera», e un giorno ricevetti una telefonata da Padre Eligio, un frate che aveva la funzione di consigliere spirituale del Milan.

Padre Eligio era molto amico di Rivera, aveva fondato il primo «telefono amico» e la prima comunità di recupero per tossicodipendenti, sulla quale, inviato dal giornale, scrissi un reportage. Cominciò allora la nostra amicizia, e in quella telefonata Padre Eligio mi chiese di aiutare Rivera, che era stato un suo fedele. Ci trovammo in un ristorante e stabilimmo il da farsi. E io scrissi qualche articolo in cui descrivevo con favore l’ipotesi che Rivera diventasse parlamentare. […] 

Oggi di Gianni Rivera non si parla quasi più, ma nella memoria dei milanisti e degli italiani lui e quel suo incredibile gol ai supplementari, nei Mondiali del ’70, rimangono un simbolo della capacità italiana di reagire, di sovvertire i pronostici: un ragazzo di 1,76 per 70 chili che entra in area, si guarda in giro, tira, il portiere esce dal video e la palla entra in porta. 

 Gianni Rivera è stato un eroe gentile: era detto «golden boy», ragazzo d’oro, ma Gianni Brera, che pure ammirandolo gli rimproverava di essere poco virile in campo, ne colse il suo tratto più caratteristico chiamandolo «abatino»: perché sembrava giocare in punta di piedi, leggero, mai falloso, mai irruento.

Danzava con il pallone, quasi non calpestava il prato del campo di gioco. In più, parlava poco, con l’erre moscia, e i suoi modi sono sempre stati contenuti ed eleganti. Solo Roberto Baggio può rivaleggiare con lui quanto a purezza della classe. Ma il tempo cancella la fama, le prodezze, cancella tutto quello che hai fatto. 

[…] Oggi sono passati più di 50 anni e l’oblio di quei tempi, diciamolo, eroici, è fatale. Ma noi che siamo appassionati di calcio e proviamo ancora un vago orgoglio per la nostra nazione, sia pure stemperato dai pasticci europei, continuiamo a considerare Rivera come un leggendario, epico esempio.

L’intervista di Oriana Fallaci a Gianni Rivera ventenne: «Valgo mezzo miliardo ma dormo sul divano. Ho ballato solo con la suocera di Altafini». Oriana Fallaci su Il Corriere della Sera l'8 agosto 2023.

Il fuoriclasse compie 80 anni il 18 agosto. Alla grande giornalista raccontò: «Non poter fare le stupidate della mia età mi pesa. Noi facciamo soldi? Io nemmeno ho una camera tutta mia»

Gianni Rivera, il fuoriclasse del Milan che si contende con Roberto Baggio e pochissimi altri il titolo di calciatore italiano più forte di sempre, il prossimo 18 agosto compie ottant’anni. Pubblichiamo qui l’intervista che gli fece Oriana Fallaci per l’Europeo nel 1963, quando il Golden Boy ne aveva venti. Ed era da poco rientrato a Milano da Londra, dopo aver guidato i rossoneri alla conquista della loro prima Coppa dei Campioni, contro il Benfica allo stadio di Wembley. Quell’anno Rivera arrivò secondo al Pallone d’oro, dietro a Yashin; lo vinse sei anni dopo, nel ‘67 con questa motivazione di France Football: «Il riconoscimento premia il talento calcistico allo stato puro. Rivera è un grande artista, che onora il football». 

ORIANA FALLACI: Se i suoi vent'anni non mi guardassero con tanta compunzione, signor Rivera, se la sua mamma non fosse qui a proteggerlo, le mani strette sul grembiule da cucina, se non sapessi che lei dorme ancora col suo fratellino, questo incontro dovrebbe intimidirmi. «Un diamante tra i gioielli», l'hanno definita gli inglesi dopo la partita di Londra. «Il bambino d'oro», la chiamano in Italia, e perfino chi non si intende di sport sa che lei vale quasi mezzo miliardo di lire ed è uno dei più grandi calciatori del mondo. Il tassista che mi ha portato fin qui è impazzito di eccitazione quando gli ho detto chi venivo a trovare: per poco non siamo finiti contro un tranvai.

Austeri signori, informati di questa intervista, mi hanno telefonato pregandomi di porgerle omaggi. Francamente ciò pesa, a chi l'avvicina. E suppongo che debba pesare anche a lei.

GIANNI RIVERA: «Le sembrerà strano: ma non mi pesa affatto. Non mi sembra una cosa eccezionale, mi sembra una cosa naturale che è successa perché doveva succedere: comunque una cosa che non mi tocca. Come non mi toccano tante altre cose: il linguaggio eccessivo dei giornalisti sportivi, l'emozione di certi tifosi che muoiono di infarto cardiaco se io fo un gol o non lo faccio... Naturalmente, da un punto di vista logico, trovo incomprensibile che mi si paragoni su certi giornali a un cigno, a un cesellatore, o a un eroe: come trovo incomprensibile che un padre di famiglia debba morire se io fo un gol o non lo faccio. Ma nel calcio tutto è così paradossale». 

(…)

La partita di Londra le sarà pesata, invece. Entrare in campo e giocare sotto gli occhi di migliaia di persone eccitate come il mio tassista non dev'essere certo uno scherzo.

«No, no: anche a Londra ero tranquillo, tranquillissimo. Io resto sempre tranquillo, anche quando il pubblico urla: quell'urlo bestiale che sale come un'unica voce dentro un imbuto. Magari per un poco lo vedo, il pubblico, però non lo sento: e presto finisco per non vederlo nemmeno più. Vedo soltanto quei cento metri per settanta, il rettangolo di gioco. Che sopra il rettangolo vi siano dieci persone o diecimila o centomila o nessuna, per me è assolutamente lo stesso. Io gioco perché mi piace, mi piace davvero, non perché la gente mi guarda. Chi si preoccupa della gente si emoziona. E chi si emoziona è finito. Io ho imparato molto presto a controllarmi».

Lo vedo. Anche una sua coetanea che fa un mestiere assai diverso dal suo, ma altrettanto paradossale, Catherine Spaak, mi parlava così. Molti ragazzi della sua età parlano così. Qualcosa dovrà pur pesarle, però. Il sacrificio che comporta l'essere così famoso, la disciplina cui è costretto, la rinuncia alle mille sciocchezze che si fanno a vent'anni...

«Ecco: quello, a volte, sì. Voglio dire che un ragazzo di vent'anni che non si chiama Gianni Rivera fa tante cose che io non posso fare e che magari, in certi momenti, anch'io vorrei fare. Non so, stupidate: come cantare ad alta voce per strada, camminare lungo un marciapiede insieme a una ragazza, la mano nella mano, uscire la sera e tornare alle due del mattino. Mica per far niente di male, magari per restare giù abbasso a parlar con gli amici. Io sono allegro anche se non rido troppo e la gente dice sempre Gianni, come sei serio! E ogni tanto, anch'io... Ma non posso, non devo. E così... Voglio dire: non che me ne rammarichi eccessivamente, l'ho scelta io questa vita. Però, in due anni, sono stato a ballare solo due volte ed entrambe le volte i giornali lo hanno saputo. Per esempio, tre anni fa, la notte di Natale. Avevo diciassette anni, nemmeno, ed ero andato a cena con Altafini e sua moglie, un amico e sua moglie, e la suocera di Altafini. Alle due del mattino Altafini dice via, andiamo in un posto, una volta all'anno si potrà pure andare in un posto. Così si va, e noti che io son sempre il primo a dire ma no, andiamo a dormire, perché ho sempre sonno, dunque si va e Altafini si mette a ballare con la moglie, il mio amico idem, ed io resto seduto al tavolo con la suocera di Altafini: a bere coca-cola. Ci restiamo un'oretta, si esce, e siccome il mio amico aveva la spider e io sapevo guidare dico al mio amico « guido io ». Così guido io, fino a casa, e due giorni dopo ecco il titolone: "Preoccupazioni per il bambino d'oro". Poi la notizia: "Il bambino d'oro è stato visto in un night-club con una magnifica bionda, fino alle cinque del mattino. Alle cinque è andato a casa con la bionda guidando una spider". Alle cinque!?! E chi era la magnifica bionda? La suocera di Altafini? Ecco, son queste le cose che mi pesano, che mi dispiacciono».

E d'aver smesso di studiare non le dispiace? Lei è un ragazzo intelligente, lo dicono tutti. I suoi discorsi sono lucidi, corretti, il suo vocabolario è ricco. È certo un gran peccato aver abbandonato la scuola così presto, vivere con tante lacune, incertezze.

«Mi dispiace sì. Mi dispiace moltissimo. Oltretutto nel nostro mestiere si gira il mondo, si è sempre a contatto con gente colta, esperta, e quando non si sanno le cose ciò mette disagio. Insomma, più si gira più ci si accorge d'essere ignoranti: mia madre può confermarle quante volte torno a casa e dico che cosa brutta è non poter studiare. Io vorrei sapere tutto, vorrei essere in grado di sostenere una conversazione su tutto, non solo sul calcio: ma la scuola l'ho lasciata che avevo sedici anni. Ho fatto solo le tecniche commerciali ed ho conseguito il diploma di computista commerciale. Dopo avrei dovuto dare un esame integrativo per diventare ragioniere, ma fui acquistato dal Milan, divenni un vero professionista, e così... Non rimpiango niente, intendiamoci, da molti punti di vista sono più privilegiato come calciatore che come ragioniere, quella di ragioniere dopotutto non è mica una gran carriera, e poi chi mi dice che avrei studiato quei tre anni di ragioneria? A scuola andavo bene ma per i numeri non andavo matto. Però, se penso alle cose che non so e che avrei potuto sapere...».

Può sempre saperle. Può continuare a studiare, se vuole: almeno a leggere. Il calcio sarà una bellissima cosa per lei: ma al mondo non c'è solo il calcio e non ci si può limitare nel calcio... Bisogna avere altre curiosità, altri interessi... E se uno studia, se legge...

«Lo so, lo so. Me lo dicono tanti e io lo so che hanno ragione. So anche che dopo sarà troppo tardi per studiare e per leggere perché a forza di pensar solo al calcio avrò perso coscienza della mia ignoranza e non sentirò più come ora il bisogno di studiare e di leggere. Ma come si fa a leggere nelle mie condizioni? Non si può, non si può. Per leggere bisogna essere come ispirati, sentirne la necessità quasi materiale, e infine disporre di una distensione che io non ho. Lei non ci crederà, lo capisco dal modo in cui mi guarda che non ci crede, ma nel nostro mestiere non sono mica le gambe che si stancano di più: è il cervello. Non si gioca mica solo con le gambe, coi piedi: si gioca con la testa, col ragionamento. Se uno è stupido, mi creda, non può diventare un bravo calciatore».

 (…)

Suo padre non vuole che studi? Ha detto così?

«Esattamente. Mio padre dice che non si possono fare due cose nel medesimo tempo: e ha ragione. Infatti, quando leggo i giornali il più delle volte finisco col leggere le didascalie sotto le foto».

Mi pare che suo padre tenga più di lei alla sua carriera di calciatore.

«Sì, in un certo senso sì. È stato lui a spingermi, a incitarmi, a incoraggiarmi».

Capisco. Suo padre cosa fa?

«Fa l'operaio alle ferrovie. Un mestiere molto duro: che rende in modo indirettamente proporzionale alla fatica. E io vorrei che smettesse: tanto, per quei due soldi che guadagna... Ma lui non vuole smettere sebbene dica: ti ho mantenuto fino ad ora, ora potresti anche essere tu a mantenere me. Non può stare senza far nulla e poi non vuol perdere la pensione. Gli mancano cinque anni alla pensione».

Dunque dicevamo che i giornali, bene o male, li legge. E cosa legge sui giornali? I resoconti delle partite di calcio, altre cose?

«Il calcio, mai. Anche quando mi faccio degli amici, cerco sempre di farmeli tra quelli che non parlan di calcio. Leggo le altre cose. La crisi di Cuba, per esempio, l'ho seguita un poco sebbene di politica io non capisca nulla: se avessi dovuto votare, non avrei saputo davvero per chi votare, a sentir loro hanno tutti ragione. (…) Io vivo senza sorpresa l'epoca nella quale vivo: senza urletti di meraviglia. È la mia epoca e un'epoca dove può succeder di tutto: andar sulla luna e... lo dica lei».

...E costare quasi mezzo miliardo: quanto non costerebbe, probabilmente, se fosse in vendita come avviene per un calciatore, un fisico nucleare. È un vecchio discorso, lo so: ormai non stupirebbe un neonato. Ma vorrei proprio sapere come giudica, lei, il fatto di costare quasi mezzo miliardo.

«E io lo voglio dire, quello che penso: perché tutti credono che noi calciatori si sia stupidi, teste di legno, zoticoni, che non si capisca nulla perché non abbiamo studiato, e nessuno ci chiede mai seriamente: "Ma tu cosa ne pensi?". Penso che mi fanno ridere quelli che dicono "Bisogna -moralizzare-il-calcio-e-i-calciatori". I calciatori o il prezzo per cui si comprano e si vendono i calciatori? E poi penso che quel mezzo miliardo o quasi non l'ho mica in tasca io. Ma chi li vede, questi miliardi? Io, no davvero. Io, con tutti questi complimenti di bravura, sono riuscito solo a comprarmi un appartamento e come vede abito ancora in un posto modesto, non ho neppure una camera mia, la notte dormo su quel divano che diventa un letto. Mezzo miliardo! Mezzo miliardo fa in fretta a riempire la bocca. Guardi: "mez-zo-mi-li-ar-do". Sembra di mangiare una bistecca in un boccone. Solo che io non lo mangio. Il mio stipendio non è quello. Magari guadagnassi quello».

E quanto guadagna, signor Rivera, ogni mese? Trecentomila? Di più? Quattrocentomila? Di più? Cinquecentomila? Di più? Seicentomila? Di più? Un milione?! Un milione al mese non è poco per un ragazzo di vent’anni, bravo che sia a giocare con un pallone.

«Sì, lo so che cosa pensa. Pensa al fisico nucleare. È giusto, pensa, che un fisico nucleare non guadagni quel che guadagna questo zoticone, questa testa di legno che non ha neppure la forza di leggere? E io le rispondo: no, non è giusto, ed io lo so come lo sanno quelli che ci portano in trionfo o muoiono di infarto cardiaco perché io fo un gol o non lo faccio. Lo sanno anche loro che noi non siamo Einstein e che in confronto al peggior fisico nucleare siamo niente, ma niente. Però col fisico nucleare essi non si divertono e con noi si divertono. Einstein non giocava a calcio e Pelé gioca a calcio. Il calcio ormai è spettacolo e in questo spettacolo la gente va a vedere chi gioca: chi gioca meglio è giusto che sia pagato meglio. Siamo noi che attiriamo la gente, mica chi sta dietro di noi. E poi tutto è proporzionato agli incassi: se una società incassa un miliardo lordo all'anno, perché i giocatori di quella società devono guadagnare centomila lire al mese? Né il discorso vale solo per le società, vale anche per lo Stato. Ogni settimana lo Stato guadagna mezzo miliardo con il totocalcio: pensi che scherzo se i calciatori decidessero di far sciopero una domenica o due. E, tutto sommato, perché non dovrebbero fare sciopero? È un mestiere».

Scusi, sa, io non me ne intendo: ma credevo che fosse uno sport.

«È un mestiere e il fatto che sia un mestiere non nega che sia anche uno sport. Essere pagati non ci rende meno sportivi: ci prepara anzi più coscienziosamente e più scientificamente. Io sono convinto che se potessimo far disputare una partita dalla miglior squadra di oggi e la migliore squadra di trent'anni fa, "quando lo sport era sport", vincerebbe la squadra di oggi. Io, quando gioco, non gioco per vanagloria, per vedermi citato sui giornali e via dicendo. Gioco perché è il mio mestiere e per la soddisfazione che mi nasce dentro: una specie di coscienza d'aver compiuta un dovere. Io, quando leggo sui giornali che non sono stato bravo, ho quasi vergogna ad uscire per strada, mi sembra che tutti ce l'abbiano con me. Quando leggo che ho giocato male, mi sembra di aver tradito qualcuno: il mestiere per cui vengo pagato. Mi ricordo tre anni fa, quando cascavo sempre per terra. Non avevo ancora diciassette anni, avevo giocato nell'Alessandria che stava per retrocedere e poi avevo giocato alle Olimpiadi: ero così stanco, così stanco, e cascavo per niente. Così i giornalisti scrivevano che ero un bluff, che ero buono soltanto da mettere in giardino, ed io soffrivo: ma non tanto per la figuraccia, per la coscienza di quel tradimento».

E poi dicono che i giovani d'oggi sono leggerini. Complimenti: ancora una frase e riusciva a commuovermi. Davvero il suo perbenismo è feroce. Mi dica, signor Rivera: come vive, a parte il calcio, un ragazzo così ferocemente perbene?

«Oh, non c'è nulla di drammatico nella mia vita: mi creda. Non è una vitaccia. Alle dieci e mezzo sono già a letto, alle nove del mattino sono sveglio. La mattina vado al Milan, ci vado a far niente, ma presentarsi è obbligatorio, e poi torno a casa: dove mangio con la mamma e col mio fratellino. Mangio di tutto, non bevo: tutt'al più un po' di vino annacquato. Nel pomeriggio vado agli allenamenti e la sera ceno di nuovo a casa: la sera c’è anche il babbo che torna alle sei. La domenica mattina vado alla messa perché sono religioso sebbene non sia bacchettone, e qualche volta vado al cinematografo dove scelgo filmetti leggeri: guardando i nomi degli attori. Qualche volta guardo anche il nome del regista, per esempio ho scoperto uno svedese, Ingmar Bergman, che mi piace tanto. E qualche volta vado anche a vedere i film seri o che chiamano seri. Per esempio ho visto Otto e mezzo che non mi è sembrato il capolavoro che dicono: ma cosa c'è da capire in quel film? Io ci ho capito soltanto che prima di andare a vedere quel film uno deve leggersi la vita del signor Fellini; e la vita del signor Fellini non mi interessa per niente. Spesso poi siamo in ritiro, oh i dannati ritiri!... E più spesso ancora siamo in viaggio: per vedere niente. Io ho girato tutta l'Europa, sono stato in Sud America, e non ho visto nulla né dell'Europa né del Sud America. Appena arrivati ci chiudono in albergo o ci mandano all'allenamento, e appena finita la partita ci fanno ripartire. È lo stesso che viaggiar bendati. Comunque non mi rammarico».

 E la ragazza? Non ce l'ha la ragazza?

«No, no. Cose serie, niente: per carità. Più tardi possibile. Certo di ragazze se ne conoscono, a far questo mestiere. Chissà perché, svolazzano come mosche sul miele. Scrive no, telefonano. Non che riceva cento lettere al giorno, come hanno scritto: ma le mie trecento alla settimana non me le leva nessuno. Perché scrivono, non lo so. Io noi le leggo, le legge tutte mio padre, poveretto. Ad ogni modo le più noiose sono quelle che telefonano. Uno non si può mai mettere a tavola o a letto che subito quelle telefonano».

E cosa vogliono quando telefonano?

«Guardi... un po' di tutto... Cominciano a dire che vogliono conoscerti, che salgono un attimo a prendere la fotografia con l'autografo, e come si fa a rispondere male a una donna? Così ogni tanto dico va bene venga su a prendere la fotografia, magari lo dico se m'è piaciuta la voce... e mi piglio certe fregature a fidarmi della voce! Davvero sa? Proprio da così a così. Anche per questo cerco di rispondere il meno possibile, faccio sempre rispondere alla mamma che dice il Gianni è a Milanello. Non le pare che abbia ragione? Son così giovane, e se sto dietro a loro... Non le pare che abbia ragione?».

Da vendere. Ora mi dica, signor Rivera: cosa farà da grande?

«Come ha detto?».

Ho detto: cosa farà da grande? Da grande: quando non dovrà più nascondersi alle ragazze e non riceverà più trecento lettere la settimana, e non costerà più mezzo miliardo, e la sua vita non sarà più organizzata in funzione di quei novanta minuti domenicali che ora concentrano le sue energie e i suoi pensieri e i suoi sentimenti. La carriera di uno sportivo non è mai lunga e un giorno che arriva sempre un po' troppo presto, egli si accorge di avere ventisei o ventotto o trent'anni che per gli altri sono l'inizio e per lui sono la fine: perché la sua carriera è finita. Egli è adulto e la sua carriera è finita. Quel giorno, cosa farà?

«Non lo so. Non lo so. Non ci ho mai pensato. Vorrei non pensarci. Non lo so perché nemmeno a diventar calciatore avevo pensato: mi ci hanno messo e ci sono rimasto. Non lo so. Tanti si mettono a fare l'allenatore ma io non credo che mi piacerebbe fare l'allenatore: soffrirei troppo a veder giocare gli altri senza giocare io. Che cosa farò da grande?... chissà. Dipenderà dai soldi che avrò messo da parte, dalle cose che avrò capito. In questo momento penso che mi piacerebbe finalmente leggere, studiare. In questo momento... Allora mi sarà passata la voglia. Da grande... da grande... Vuol saperla una cosa? Io sono già grande. Forse perché ho sempre frequentato gente più vecchia di me, quindicenni quando avevo dieci anni, ventenni quando avevo quindici anni, trentenni ora che ho vent'anni, forse perché ho avuto responsabilità troppo presto: fatto sta che io sono già grande. Eh, sì. Con questa storia del calcio io mi son perso la cosa più importante di tutte: la gioventù. E 1o sa che le dico? Il successo non dovrebbe venire mai troppo presto perché si porta via l'unica cosa che non si ritrova, la gioventù. Oddio. Sono grande e non so cosa farò da grande. Non è molto allegro».

No, signor Rivera. È pochissimo allegro. Ma anche la gioventù, specialmente quella passata sui libri, è così poco allegra. Perdendola s’è risparmiata, tutto sommato, una delusione.

Estratto dell’articolo di Massimo M. Veronese per il “Corriere della Sera” il 18 giugno 2023.

Spiazzante come una delle sue finte Gianni Rivera, l’eterno Golden Boy del calcio italiano, a due mesi dal compleanno numero 80 torna in campo con una squadra di Paperoni. Punta dritto su Bari e sul Bari, che la famiglia De Laurentiis dovrà prima o poi vendere per legge, ma non esclude altre piazze. Il pacchetto però è prendere o lasciare. Perché Gianni Rivera, che ha gli stessi anni di Mick Jagger e Robert De Niro, non vuol fare il presidente ma l’allenatore. Tesserino preso tre anni fa. E non per incorniciarlo e metterlo in bacheca.

Rivera, ha costruito una squadra per giocarsi cosa?

«Con un gruppo di amici imprenditori abbiamo deciso di investire nel calcio, in serie A o B. A cominciare da Bari. Una ventina di giorni fa ho avuto un contatto telefonico con il sindaco Antonio Decaro, gli abbiamo fatto presente che siamo disponibili ad acquistare la società. L’idea di portare una squadra dalla B alla A mi è sempre piaciuta. Ho anche l’Academy Gianni Rivera che potrebbe crescere molti giovani».

E a che punto siamo?

«Lo spareggio che il Bari ha perso con il Cagliari non ha reso subito concreta la proposta ma siamo in attesa di sviluppi. Sennò siamo aperti ad altre offerte». 

Con Rivera allenatore. Ma proposte ne ha mai avute?

«Purtroppo appena preso il patentino è scoppiata l’epidemia. Carlo Tavecchio però sei anni fa mi voleva c.t. della Nazionale al posto di Giampiero Ventura dopo la mancata qualificazione al Mondiale di Russia. Ma non avevo il patentino di allenatore»

[…] 

Il suo compagno di squadra Trapattoni ha smesso dieci anni fa, lei comincia adesso. Non è un po’ tardi?

«Ma l’esperienza ce l’ho. Ho sempre fatto l’allenatore in campo…» 

Perché non cominciare prima? Magari appena appese le scarpe al chiodo.

«Si, in effetti ho sbagliato. Ma appena smesso sono diventato vicepresidente del Milan con Felice Colombo: spingemmo Fabio Capello a fare il corso allenatori e io potevo farlo insieme a lui ma allora mi sentivo più dirigente che mister. Poi sono entrato in politica e per vent’anni la mia vita è stata quella».

Rocco diceva: una squadra perfetta deve avere un portiere che para tutto, un assassino in difesa, un genio a centrocampo, un mona che segna e sette asini che corrono. Il calcio però non è più quello…

«Lo so bene ma chi dice che sia cambiato in meglio? Quella che chiamano costruzione dal basso: squadre che stanno ore nella propria metà campo invece di aggredire quella altrui. Sa che credevo fosse imposta da un nuovo regolamento? Una tattica che andrebbe abolita per legge. Con questa idea di calcio io il 4-3 di Italia-Germania non avrei mai potuto segnarlo». 

Quello di oggi è un calcio che sacrifica i 10 come Rivera.

«Il calcio sacrifica i 10 perché non ci sono più. Se hai i numeri vengono fuori».

Rivera giocherebbe in una squadra di Guardiola?

«Con la preparazione di oggi Rivera sarebbe sempre Rivera». 

[…] 

A proposito: che pensa del siluramento di Maldini?

«Paolo non meritava quel trattamento. La società doveva mettergli a disposizione le risorse per migliorare la squadra, non metterlo alla porta, tantomeno in quel modo».

Visti i precedenti gli consiglia la carriera politica?

«Con la politica che c’è adesso meglio che Maldini resti nel mondo del calcio». 

Sia nel calcio che nella politica è finita l’era Berlusconi.

«Non sono stato un suo ammiratore. Abbiamo percorso strade diverse e vissuto su mondi opposti ma di sicuro è un uomo che ha fatto la storia del Milan e del calcio». 

Il Milan lo allenerebbe?

«Mai dire mai». 

Ma Gianni Rivera oggi quanti anni ha?

«Gianni Rivera non ha età».

Paolo Maldini.

Maldini e il Milan, lungo addio Ansa. Giovanni Capuano su Panorama il 06 Giugno 2023

Ancora tensioni tra il dirigente e la proprietà, come un anno fa dopo lo scudetto. Malumori e divergenze che si trascinano da mesi tra colpi non riusciti di mercato e interpretazione del ruolo di capo dell'area tecnica. Fino alla fine della storia

Paolo Maldini e il Milan sono qualche passo più distanti di quanto non lasci intendere l'esistenza di un contratto che lega il massimo dirigente dell'area tecnica al club ancora per un anno. Non è detto che siano destinati a lasciarsi subito, ma non è escluso. E, soprattutto, è impossibile immaginare che possano andare avanti ancora a lungo in un clima di divergenze, tensioni e incomprensioni che si trascina ormai da un paio di stagioni e che nemmeno lo scudetto vinto nel maggio scorso è stato in grado di nascondere. Un anno fa Maldini fu davvero a un passo dal dire addio alla società, salvo poi trovare un faticoso accordo in extremis e cominciare a lavorare sul mercato dalla fine di giugno. Ora lo scenario si sta ripetendo con l'unica variabile di un contratto che non va scritto ma che esiste e che, ad oggi, è l'unico punto fermo della vicenda. Intorno a questo tassello, una serie di problemi finiti sul tavolo dell'incontro con la proprietà di Gerry Cardinale che doveva servire per tracciare il bilancio della stagione e fare i programmi per il 2023/2024. Non è andata bene, raccontano i rumors da Casa Milan. Anzi, è andata male tanto da far deflagrare la questione apertamente riportando indietro di un anno le lancette del tempo. Impossibile sorprendersi. In fondo bastavano le parole pronunciate a caldo da Maldini nella notte dell'eliminazione dalla Champions League per mano dell'Inter per capire come lui e Cardinale parlassero due lingue differenti. Aveva chiesto, rivendicato e quasi preteso investimenti per crescere. Aveva addossato alla proprietà la paternità della scelta di mercato più contestata, prendere De Ketelaere e lasciar andare a Roma Dybala. Aveva definito la rosa consegnata a Stefano Pioli non strutturata per competere su più fronti e spiegato il legame tra questa situazione e le strategie complessive delle "due proprietà", legando con un filo temporale Elliott e RedBird. Era stato, il suo, un vero e proprio processo al Milan che non era rimasto senza conseguenze. La proprietà non aveva gradito sia il contenuto che la forma, dal momento che Maldini parlava da osservatore esterno pur essendo un tassello importate del sistema che lui stesso giudicava su pubblica piazza. Da qui la sensazione, mai smentita, che i problemi stagionali sarebbero stati motivo di discussione con il numero uno dell'area tecnica più che con l'allenatore: Stefano Pioli ha sempre goduto della massima fiducia da parte degli uomini di Gerry Cardinale, anche nei momenti più bui del campionato. Ora che le bocce si sono fermate, semplicemente si è ripartiti da qui: la proprietà Milan ritiene numeri alla mano che gli investimenti siano stati fatti, ricorda come la scorsa estate siano stati dati oltre 50 milioni di euro senza chiedere nulla in cessioni e che Maldini abbia goduto di totale autonomia come da richiesta. Dunque, se De Ketelaere, Origi, Vranks, Dest e Adli non hanno dato nulla in termini di apporto a Pioli la colpa non può che essere di chi li ha scelti. E che chi li ha scelti, cioè Maldini, deve per forza conoscere e condividere la politica societaria evitando di metterla ciclicamente in discussione pubblica andando a suscitare le reazioni dei tifosi. A San Siro nell'ultima notte di campionato, quella della festa per l'addio di Zlatan Ibrahimovic, per la prima volta la Curva Sud ha esposto uno striscione chiedendo espressamente denaro per fare il salto di qualità. Maldini la pensa allo stesso modo. Cardinale e i suoi non inseguono l'idea di un Milan che resti lontano dalla competitività, ma non amano avere l'opposizione in casa. Il nodo del tormentato rapporto è tutto qui: forma e sostanza. Non è detto che l'estate 2023 sia quella dello strappo ma sarebbe sorprendente che un'eventuale pace potesse andare molto oltre la scadenza del contratto tra dodici mesi.  

Chiara Zucchelli per corrieredellosport.it il 7 giugno 2023.

Aveva in mente una rivoluzione tecnica, Paolo Maldini, prima di chiudere il suo rapporto con il Milan. E per rivoluzione non si intende solo un profondo rinnovamento della rosa, ma anche un cambio di guida in panchina: via Stefano Pioli, al suo posto Andrea Pirlo. 

Maldini, stando a quanto filtra da ambienti rossoneri, avrebbe voluto in panchina l'ex compagno con cui aveva un rapporto speciale. Non a caso qualche anno fa l'ex centrocampista disse: "Paolo? Il migliore con cui ho giocato, è un pezzo di me". I due hanno sempre avuto un legame stretto e Maldini voleva farlo diventare, di nuovo, anche un rapporto professionale. Ma non ne ha avuto il tempo.

Marco Imarisio per il Corriere della Sera il 7 giugno 2023.

Mandare via Paolo Maldini dal Milan è una voce che fa oggettivamente curriculum.

 (…) 

Nell'irrilevanza dell'aneddoto, forse è questo il problema. Maldini ha sempre dato l'idea di essere un uomo che segue soprattutto le proprie convinzioni e il proprio istinto. Che non intende derogare da quello che è. Per ricordare le ragioni di questa sua presunta rigidità, ancora una volta si deve tornare alla casella di partenza. Lui è Paolo Maldini, per altro figlio di Cesare. 

Bisogna prendere il pacchetto completo. Manca lo spazio per riassumere i migliori anni della nostra e della sua vita, venticinque stagioni e 26 trofei, la gioia di vedere diventare uomo nei più bei Milan di sempre, nonché miglior difensore della storia del calcio. E mai una parola sbagliata, mai un suo spiffero dall'interno.

«Sono una persona fedele al codice non scritto dei giocatori. È una forma di rispetto verso tutti i gruppi con le quali ho lavorato. Non mi piacerebbe raccontare una verità mia. Quando parli di una squadra, non esiste un unico punto di vista». Lo disse durante una intervista per Sette, spiegando perché era uno dei pochi ex calciatori a non avere mai scritto la sua autobiografia. Ai funerali di Paolo Rossi, in una Vicenza resa spettrale dal Covid, lo vedemmo con gli occhi rossi e il magone. Erano stati compagni di squadra per una sola stagione. Ma Paolo comprendeva fino in fondo il senso della perdita. Erano lacrime di dolore e gratitudine per un compagno di viaggio, un pezzo della sua vita. 

La fedeltà ai propri principi, il rispetto del suo ruolo di capitano, gli sono sempre costati care. Da pochi giorni è diventata maggiorenne la sconfitta di Istanbul, una finale di Champions persa da un vantaggio di 3-0. E con lei, la risposta a muso duro data in aeroporto da Maldini a un gruppo di ultrà che imputavano il tracollo allo scarso impegno dei giocatori. Pagò con un addio doloroso. I vergognosi fischi durante il suo ultimo giro di campo da parte di alcuni tifosi lo ferirono più di quanto lui sia ancora oggi disposto ad ammettere.

«A posteriori, la contestazione mi aveva quasi onorato. Ho cercato di vivere la mia professione dando il massimo, pretendendo rispetto, e accettando le sconfitte, che è difficilissimo. Sono stato me stesso. E se vogliamo, grazie a quei fischi, me ne sono andato lasciando un segno non banale». 

Passarono gli anni. Il giorno dopo la sua ultima partita, andò a tagliarsi i capelli. Da lunghi a corti, come lo sono ora. Cercava la normalità, un altro mondo dove sentirsi apprezzato senza essere sempre Paolo Maldini. Cominciava a capire che il suo nome era troppo grande, quasi ingombrante. 

(…) «All'inizio, ogni sera tornavo a casa e dicevo a mia moglie che era un disastro. Mi sentivo inutile, mi chiedevo cosa ci stessi a fare. Lo so che è un mio problema, ma io devo sentirmi protagonista».

Anche questa, se vogliamo, è una frase che rivela qualcosa. In quattro anni scarsi di lavoro, ha fatto molto più che portare Theo Hernandez o Sandro Tonali. Ha riallacciato le fila della storia, ha riacceso un fuoco che sembrava spento. Perché Pioli è in fiamme, d'accordo, ma sopra ogni cosa c'era lui. A Londra, prima della partita di ritorno contro il Tottenham, il pullman della squadra rimase imbottigliato nel traffico. La Uefa non intendeva derogare all'orario di inizio della partita, previsto per le 21. Maldini andò a parlare con i responsabili.

Si è cominciato alle 21.20. «Per quanto riguarda questo lavoro, lo faccio con il Milan o non lo faccio». Alla fine, diciamoci la verità. Maldini seguiva in solitaria l'ambizione che lo ha reso ciò che è, una leggenda. Ancora una volta, non si deroga a sé stessi. A Istanbul, quella di oggi, c'è andata la squadra che dalla panchina ha fatto entrare Lukaku e Brozovic. Talk is cheap, parlare è facile, è una delle spiegazioni che fornisce per giustificare le sue poche parole. Meglio i fatti. Buona vita Paolo. Le dirigenze vanno e vengono. L'affetto e la riconoscenza restano, per sempre.

Paolo Scaroni: «Maldini un grande ma il Milan gioca di squadra. Sul mercato faremo qualche cessione». Arianna Ravelli su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2023.

Il presidente del Milan Scaroni: «Sul mercato siamo ambiziosi. Vogliamo tenerci stretto il passato ma prendere il meglio delle innovazioni. Ibra? Al momento vuole riposarsi, ma se gli vengono delle idee...» 

C’è un popolo di tifosi disorientato dopo l’addio di Paolo Maldini al Milan (cui ieri si è aggiunto quello di Ricky Massara). Ai romantici, a chi teme un ridimensionamento, a chi è preoccupato del nuovo corso, il presidente Paolo Scaroni spiega le ragioni di un divorzio nato da mentalità differenti e, soprattutto, il senso di un metodo nuovo di lavoro. Con un’idea chiara: «Siamo ambiziosi, vogliamo crescere».

Presidente, da dove cominciamo?

«Dal fatto che tutti noi, e particolarmente io, abbiamo sempre avuto rapporti eccellenti con Paolo Maldini, che è un gentiluomo, una persona attaccata al Milan e che al Milan ha fatto bene. Noi però seguiamo un modello un po’ innovativo, almeno per l’Italia, di gestione del club, che ci porta a considerare tutte le nostre attività come collegiali: si lavora in team».

I comitati istituiti in ogni settore.

«È un modello organizzativo che sta molto a cuore al nostro azionista che, ricordiamolo, è uno specialista di sport che vanta successi nelle sue attività, quindi quando ci suggerisce qualcosa noi prestiamo grande attenzione, perché pensiamo porti innovazioni».

E in questo modello Maldini non poteva proprio stare?

«In questa organizzazione abbiamo avuto l’impressione che Paolo si sentisse a disagio, e quando si è a disagio è meglio separarsi. Le faccio un esempio che riguarda me stesso».

Prego.

«Io mi sono molto dedicato al tema stadio, tanto che c’era chi mi chiamava “Stadioni” e non Scaroni. Vero, ma l’ho fatto soprattutto negli anni di Elliott. Quando è arrivato RedBird che ha esperti che hanno costruito stadi in tutto il mondo, a me è venuto naturale mettermi nel team e perdere quel ruolo autonomo. È un po’ quello che doveva succedere per l’area tecnica».

Un nuovo metodo, per arrivare dove? Quest’anno il Milan ha conquistato una semifinale di Champions, fare meglio non sarà facile.

«RedBird e tutti noi vogliamo che il Milan continui questa crescita. Non dimentico che ho iniziato a fare il presidente in un momento drammatico. Si ricorderà che dicevo sempre che avevamo due montagne da scalare, il risanamento dei conti e i risultati sportivi. Ora non siamo in cima, ma un bel pezzo di strada lo abbiamo fatto, anzi direi che in Italia siamo tra quelli che ne hanno fatta di più. Vogliamo continuare a scalare, sempre avendo in mente che più ricavi portano più investimenti per l’area sport e più successi sportivi portano più ricavi: un circolo virtuoso da mettere in moto».

I tifosi si chiedono quanto impegno ci sarà sul mercato: il famoso budget.

«Intanto ricordo che in quattro anni abbiamo investito più degli altri (200 milioni), qualcuno dirà non sempre bene, ma i nostri azionisti ci hanno consentito di fare una squadra forte e continueremo insieme su questa strada. Credo che dovremo fare qualche cessione, e concludere qualche acquisto importante: siamo ambiziosi».

Mercato gestito da chi?

«Sarà nelle mani di un team che integra competenze diverse, con l’ad Giorgio Furlani che ha anche l’area sportiva da coordinare, insieme a professionisti come Geoffrey Moncada e l’allenatore Pioli: ci aspettiamo che dica la sua in queste scelte. Oltre agli esperti internazionali di RedBird».

Gli esperti dei dati: conosce l’obiezione, che vanno bene per gli sport americani, non per il calcio.

«RedBird crede nell’analizzare le caratteristiche dei giocatori in modo scientifico, certo, una cosa che in Premier League si fa da anni: sono riusciti ad adattare modelli nati per altri sport al calcio. Noi dobbiamo coniugare le competenze individuali, l’intuito personale nello scoprire i talenti e nel saperli inserire nel nostro ambiente con questi riscontri quantitativi. Vogliamo mettere assieme il meglio del nostro passato con il meglio del futuro che ci porta RedBird. Il passato me lo tengo stretto, ma perché dovremmo rinunciare alle competenze e alle innovazioni? Poi parleranno i risultati, conta vincere le partite, a me perdere non è mai piaciuto e tantomeno a Gerry Cardinale».

Ma se l’identificazione degli obiettivi è frutto di un percorso collegiale, nel momento delle trattative Maldini metteva in campo il peso della sua figura.

«Vero, verissimo e gli sono molto grato. Devo dire che oggi, e non suoni irriconoscente, ne abbiamo meno bisogno: il Milan uscito dalla gestione di Yonghong Li faceva fatica ad attirare talenti, il Milan di oggi, che ha vinto lo scudetto ed è arrivato in semifinale di Champions, penso che sia più attrattivo».

Non sono previsti nuovi ingressi, dunque.

«Al momento no».

Neanche Ibra?

«Ho l’impressione che si voglia dare un periodo sabbatico. Poi resta un amico, una persona a cui dobbiamo molto, perché nei momenti più difficili ci ha consentito di svoltare. Se gli venissero delle idee saremo i primi ad ascoltarle».

Alcuni calciatori hanno postato messaggi di vicinanza a Maldini: pensa che la squadra sia preoccupata?

«Che si mostrino addolorati mi sembra naturale. D’altra parte sono professionisti abituati al cambiamento, capiranno che questo è fatto con l’idea di fare meglio. Glielo spiegheremo. Poi rimarranno legati a Maldini, come giusto».

Dicevamo di Pioli: la sua figura esce rafforzata, eppure c’è stato un momento, dopo Spezia, in cui Maldini voleva esonerarlo (e tra i nomi aveva pensato anche a Pirlo).

«Sull’idea dell’esonero non voglio esprimermi, però sì assolutamente, Pioli è centrale nel progetto».

Capitolo stadio: l’area di San Donato è diventata quella più appetibile?

«Faccio un riassunto. L’area dell’ippodromo La Maura ci piaceva molto, e piaceva al sindaco, ma è di difficilissima praticabilità. Sull’abbattimento del Meazza è pendente il vincolo che potrebbe scattare nel 2025: senza certezze, questo progetto è in sonno, né il sindaco consente due stadi uno vicino all’altro. L’area di Sesto ha il problema della bonifica, al momento stiamo sviluppando ipotesi sulla zona di San Donato per tenerla pronta in caso San Siro tramonti».

Zlatan Ibrahimovic.

Estratto dell’articolo di Guendalina Galdi per corriere.it sabato 7 ottobre 2023.

[…] L'atmosfera di un teatro, l'intimità di una chiacchierata che vuole scavare nell'esistenza di un campione, dalla «A» di attore alla «Z» di Zlatan. Perché Ibrahimovic alla fine è stato sempre istrionico. Sul campo, con una giocata, o fuori con un'uscita non banale. A parole è riuscito a essere sempre efficace come sotto porta e l'ha fatto ancora, su un palco. 

[…]A tu per tu con Piers Morgan al quale ha confessato che – tanto per restare in tema – anche davanti alle telecamere e sul grande schermo si troverebbe a suo agio: «Sono curioso, perché no. Ho voglia di provare cose differenti. Potrei fare il cattivo in un film di James Bond? Lo distruggerei e lo seppellirei da qualche parte un paio di metri sotto terra». Sipario. 

[…] 

«Mio padre non ha mai parlato della guerra in Jugoslavia. Vivevo con lui, cinque bambini. Mio fratello maggiore è venuto a mancare un paio di anni fa, poi ho due sorelle maggiori con cui non ho rapporti e un’altra sorella maggiore: con lei abbiamo gli stessi genitori e siamo in contatto. È un casino. Ho anche un fratello minore. Io vivevo da solo con mio padre. 

All’inizio andava tutto bene, faceva di tutto per sopravvivere. Poi è iniziata la guerra e ha iniziato ad allontanarsi. Beveva, era lì seduto al telefono e cercava di entrare in contatto con la sua famiglia. Ero piccolo, ma lo vedevo e spesso quello che vedi ti rimane molto più impresso. Ricordo che di notte era al telefono per aiutare i suoi, ma io giovane, matto, selvaggio, ero sempre fuori a giocare a calcio. Però andavo a scuola, altrimenti mio padre mi avrebbe ammazzato. Ma lui non mi avrebbe picchiato, mia madre sì. Lo faceva con un cucchiaio da cucina e se si rompeva mi diceva di andarne a comprare uno nuovo. Ne ha rotti un sacco».

E via a comprarne di nuovo, anche se a quei tempi i soldi erano pochi. «Ti rendono la vita più facile ma non danno la felicità. Ho avuto offerte dall’Arabia Saudita e dalla Cina, ma quello che fa la differenza è ciò che vuoi. Ho avuto un’offerta da 100 milioni dalla Cina, ma sono andato in America. Mi sono sfidato con qualcosa di nuovo. Probabilmente ho un patrimonio da mezzo miliardo di dollari, ma non lo so con precisione». 

In carriera ha cambiato 10 club — dal Malmoe al Milan — mentre nella vita privata la storia con la S maiuscola è quella con Helena Seger. Compagna da sempre. Moglie? Mai. «Ho chiesto a Helena di sposarmi ma mi ha detto di no un paio di anni fa. Le ho detto: "Dopo 20 anni meriti di diventare mia moglie". E lei: "Non ho bisogno di sposarti per stare con te". È forte. Molto forte». 

Non soffre la mancanza del calcio giocato. Ibrahimovic sa che ha detto addio nel momento giusto. Anche se... «quando vedo altri attaccanti molto avanti con l’età che ancora giocano penso di poter giocare ancora, farei molto più di quello che fanno loro».

Quarantadue anni compiuti il 3 ottobre, tanti successi e pochi rimpianti. Soprattutto per uno che non è certo stato dimenticato dal mondo che frequentava ogni domenica: «Non sono così egocentrico da avere l’esigenza di queste attenzioni ora. Altrimenti avrei scelto di fare il commentatore, l’opinionista, tutte queste cose che fanno gli ex calciatori. Lo fanno perché hanno ancora bisogno di questo tipo di attenzioni, ma capisco». 

E se lui per una carriera intera ha interpretato il ruolo del protagonista, la sua «spalla» perfetta è sempre stata una sola: Mino Raiola. «Per me era tutto. Quando è scomparso per me il calcio è cambiato, non è più stato la stessa cosa. Sono diventato chi sono anche grazie a lui. Ma ci davamo sempre battaglia, ci dicevamo anche cose pesanti. Del tipo: "Vaff***, non lavori più per me". E lui : "Per licenziarmi prima devi assumermi". Ogni volta che dovevo cambiare club facevamo il gioco del poliziotto cattivo e quello buono, io dicevo qualcosa e iniziava tutto. Lui stava al gioco. Ma se non otteneva quello che voleva diventava lui quello cattivo. Volavano sedie, tavoli».

Estratto dell’articolo di Enrico Currò per repubblica.it sabato 7 ottobre 2023.

Accelerazione nella proposta del Milan a Ibrahimovic per un ruolo da dirigente nel club. È sempre più verosimile che l'ex campione svedese, pochi mesi dopo il ritiro dall'attività agonistica, si rimetta subito in gioco in una nuova veste, anche se il ruolo non è ancora definito: la sua competenza tecnica e il suo carisma nello spogliatoio rendono plausibile la presenza quotidiana a Milanello. 

Ibra, che ha scelto di restare a Milano con la sua famiglia, sembrava intenzionato a una sorta di periodo sabbatico, prima di decidere. Ma il Milan lo sta tentando e la sua visita a Milanello dopo il tracollo nel derby ("avete visto come si è ripresa subito la squadra", ha scherzato lui) potrebbe non restare isolata. 

Il primo colloquio è stato a metà settembre con Gerry Cardinale, l'azionista di controllo della società. Secondo le indiscrezioni, il manager americano gli avrebbe proposto di diventare il suo consulente personale calcistico, con ampia libertà di movimento sia a Milanello sia nella sede di Casa Milan […] 

Poi, nelle scorse ore, Ibrahimovic ha incontrato anche l'ad Furlani in un albergo milanese e non è stato un mistero per nessuno che l'appuntamento, rivelato da Gazzetta.it, preluda appunto a un'accelerata nell'eventuale accordo, con la discussione della parte economica. […]

Quando a 17 anni Ibra uscì dal ghetto di Malmoe. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 7 giugno 2023.

Caro Aldo, «occhi lucidi» a San Siro per celebrare l’addio (sarà vero?) al calcio di Ibra. Mi piace sottolineare la commozione sua e dei tifosi a riprova che le emozioni vere che si vivono allo stadio vanno oltre i milioni di euro. Infatti, il campione svedese definito negli anni vero e proprio «mercenario» sempre pronto ad accettare il contratto più ricco ha mostrato il lato più romantico di uno sport che rimane nonostante tutto magico. Luca Testera Pardi 

Caro Luca, Zlatan Ibrahimovic ha avuto una grande sfortuna: vivere al tempo di Messi e di Cristiano Ronaldo. Altrimenti sarebbe ricordato come uno dei più grandi di tutti i tempi: quale è. Gli è sempre sfuggita la Champions, e non aveva una Nazionale all’altezza delle sue ambizioni; però ha vinto tutti i principali campionati europei. È possibile che abbia pagato un prezzo alla smania del suo storico procuratore Mino Raiola, la cui tecnica è sempre stata «spostare» di continuo i suoi calciatori per incassare di più; però a Raiola Ibra era devotissimo. Quando l’ho intervistato, mi ha raccontato questo episodio: «A Manchester mi rompo il ginocchio. Esco dal campo con le mie gambe, rifiuto gli antidolorifici, penso che non sia niente. Invece ho il crociato a pezzi, si sono staccati tendini, muscoli: un disastro. Mino comincia a ricevere le telefonate degli avvoltoi. Chirurghi, italiani e no, che mi vogliono operare. Studiamo la cosa e vediamo che il migliore al mondo è tale Freddie Fu, un dottore americano originario di Hong Kong, che lavora a Pittsburgh; ma per un appuntamento bisogna aspettare mesi. Pochi giorni dopo mi chiama Mino: “Ibra prepara le valigie, si parte per Pittsburgh”. Atterriamo alle 4 del mattino e andiamo subito in ospedale. Il leggendario professor Freddie Fu ci aspettava sotto l’ingresso con il suo staff. Alle 4 del mattino». In un tempo di calciatori vacui, timorosi di esporsi, che comunicano banalità via social, Ibra ha sempre avuto il coraggio delle sue opinioni; come si deduce dal suo longseller «Adrenalina», scritto con Luigi Garlando. Memorabile la sua giovinezza nel ghetto di Malmoe: «Solo a 17 anni, quando ne sono uscito per la prima volta, ho scoperto le svedesi come voi le immaginate: bionde, libere. Nel ghetto le ragazze avevano i capelli corti e il velo». Nel libro dice di sé: «Sono un dio; ma un dio che invecchia». Però dei grandi campioni si può dire quel che diceva il generale MacArthur dei vecchi soldati: non muoiono mai; svaniscono. Il dio Ibra da oggi è sull’olimpo; almeno come calciatore. Mi sa che presto lo rivediamo come commentatore.

Estratto dell'articolo di Andrea Scanzi per il "Fatto quotidiano" il 6 giugno 2023.

Maledetta incapacità di saper smettere. Proprio come Totti e mille altri, Zlatan Ibrahimovic non ha saputo imboccare il viale del tramonto quanto doveva. Se avesse smesso un anno fa, dopo la conquista di uno degli scudetti più imprevedibili degli ultimi decenni, Ibra sarebbe stato perfetto. Per meglio dire: pienamente epico. Un anno fa, in quel primo posto al fotofinish sull’Inter, Ibra era stato decisivo. Soprattutto nella prima parte della stagione. 

(...) Tra libri e interviste deliberatamente sborone, Ibra è stato una sorta di Muhammad Ali applicato al calcio: analogamente narciso, analogamente autoironico (ma qualcuno deve ancora accorgersene), analogamente devastante e in grado quasi di fermare il tempo (ho detto “quasi”: pure Ali, con esiti ben più drammatici, non seppe smettere quando avrebbe dovuto). Lo scudetto 2021-22 è stata la sua Kinshasa: il suo Rumble In The Jungle. Sarebbe bastato, a quel punto, smettere.

Ma Ibra non ce l’ha fatta, perché i campionissimi sono così: intrisi di adrenalina e condannati all’horror vacui. E così uno dei più grandi attaccanti di tutti i tempi si è ritirato dopo una stagione da malato e una partita inutile, lasciando che il suo ultimo film fosse diretto da un regista qualsiasi e non di un Kubrick o uno Scorsese. Peccato, perché due sere fa è uscito di scena uno degli ultimi personaggi autentici in un ambiente sempre più saturo di polli di allevamento e ballerini di seconda fila. Ibra è stato un uragano in grado di pensare (e realizzare) un calcio lunare, ora da playstation e ora da Bruce Lee. Divisivo per indole e per dovere, non ha mai lasciato indifferenti. Ha fatto e detto cazzate a raffica. È stato spesso insopportabile.  

(...)

Ha vinto tutto quel che c’era da vincere in Italia, Svezia, Francia e Spagna, tranne la Champions League: e sa bene che gliene faranno sempre una colpa. Prima dell’infortunio col Manchester United era un supereroe, dopo l’infortunio lo è divenuto ancora di più. La sua resurrezione sportiva nel Milan di Pioli resterà una delle ultime favole vere in quel sottoscala della pazzia che è poi il calcio. Domenica sera ha pianto, e qualcuno si è stupito: “Allora anche lui è umano!”.

Quanta miopia: l’egocentrismo ostentato, in Ibra, è proprio la sua maniera per prendere in controtempo tutte le sue fragilità. Uno come lui, ora, dovrebbe fare come Eric Cantona. Una nuova vita da attore, da uomo pienamente di spettacolo che travalica i confini sportivi: un futuro che lo alletta, anche se – rispetto a Cantona – è sprovvisto della componente “politica”. In campo mancherà a tutti, anche a chi credeva di odiarlo. Parlando del suo ritiro, ha detto: “Quando mi sono svegliato pioveva. E ho detto: ‘Pure Dio è triste’”. Sembra supponenza, ma è solo realismo brutale. Buona vita, Ibracadabra. E grazie di tutto.

 Estratto dell’articolo di Antonio Vitiello per il “Corriere dello Sport” il 5 giugno 2023.

Si è conclusa con gli applausi di tutto lo stadio San Siro la vita calcistica di Zlatan Ibrahimovic al Milan.   «È arrivato il momento di dire ciao al calcio, non a voi» urla al popolo del Milan. Insieme alla moglie, Ibra è visibilmente commosso: «Non respiro ma va bene. Tanti ricordi e tante emozioni qua. La prima volta che sono arrivato al Milan mi avete dato felicità, la seconda volta mi avete dato amore. 

Voglio ringraziare la famiglia e tutti quelli che mi stanno vicino. Voglio ringraziare la mia seconda famiglia: i giocatori. Voglio ringraziare l’allenatore e lo staff, i dirigenti per l’opportunità. E poi i tifosi» . Che in settantamila hanno omaggiato e pianto per il 41enne di Malmö. Anche i compagni di squadra sono emozionati. Lo svedese poi ha continuato: «Mi avete ricevuto con braccia aperte, mi avete fatto sentire a casa, sarò milanista per tutta la vita. Ci vediamo in giro se siete fortunati, forza Milan e arrivederci...» […] 

È calato il sipario sul secondo regno di Zlatan, fatto di tre anni e mezzo di gioie e dolori, felicità e amarezza per gli infortuni. Lo svedese lo rifarebbe altre mille volte, perché per lui l’adrenalina del campo è tutto. 

Ed è stata la grande motivazione di tornare a vincere che l’ha spinto a tornare nel gennaio del 2020, già a fine carriera ma con il preciso scopo di riportare il suo Milan a trionfare nuovamente, contro qualsiasi pronostico. Qualcuno lo aveva deriso, altri avevano equivocato la sua determinazione in deliri di onnipotenza. 

[…] A 41 anni e 166 giorni è diventato il marcatore più longevo della storia del campionato italiano. E’ stato il suo ultimo regalo, prima di fermarsi nuovamente. Ora basta col Milan, ormai la missione era compiuta.

La rovesciata, i tatuaggi, gli avversari: i momenti iconici che ci ha regalato Ibra. Tra Ajax, Juventus, Inter, Psg, Milan e Nazionale svedese, tanti sono stati gli episodi iconici che hanno caratterizzato l'intero percorso calcistico di Zlatan Ibrahimovic. Lorenzo Grossi il 5 Giugno 2023 su Il Giornale.

Racchiudere in brevi istantanee la sfolgorante carriera calcistica di Zlatan Ibrahimovic è praticamente impossibile. Del resto l'attaccante svedese è stato protagonista di 24 lunghi anni di calcio professionistico con nove diverse maglie e in ognuno delle piazze in cui è stato ha sempre lasciato il segno in maniera indelebile. La sua vita di sportivo è costellata da momenti iconici, inclusa la commozione di domenica sera al termine di Milan-Verona quando ha annunciato a tutto il Meazza l'addio al cacio giocato a quasi 42 anni di età. E anche le (immancabili) polemiche e i suoi atteggiamenti spocchiosi che hanno spesso contrassegnato il suo intero percorso sono sempre stati completamente soppiantati dalle sue giocate da fuoriclasse. Ecco i dieci episodi più memorabili.

Il debutto da urlo nel calcio professionista

Fin da quando debutta nel 1999 con la maglia del Malmö, la squadra della sua città natale, Ibrahimovic ha subito modo di potere mettersi subito in mostra. La formazione svedese, infatti, retrocede in seconda divisione al termine della stagione del suo esordio, ma un anno dopo Zlatan la riporta subito in Allsvenskan (la Serie A della Svezia) imponendosi come migliore marcatore stagionale con 12 reti in 26 partite. La rivista spagnola Don Balón, specializzata in calcio internazionale, lo inserisce subito nella lista dei 100 migliori giovani calciatori del mondo. È già un predestinato.

Il gran gol in Champions League

Nel 2001 l'Ajax lo rileva per 19,2 milioni di fiorini (7,8 milioni di euro), rendendolo l'acquisto più oneroso della storia del club di Amsterdam. In terra olandese, dove si aggiudica anche i suoi primi titoli nazionali, fa il suo debutto in Champions League sotto la guida di Ronald Koeman. Nel 2004, contro il Nac Breda, segna quello che ancora adesso è considerato uno dei più bei gol nella storia dell'Ajax: recupera palla a circa 30 metri dalla porta, scarta l'intera difesa e mette a sedere anche il portiere prima di segnare. È una delle ultime perle con la maglia biancorossa.

La rete che beffa l'Italia agli Europei

Poi, ecco il suo approdo in Italia, nell'estate 2004. Poco prima, però, di potere essere presentato ufficialmente alla Juventus, "Ibracadabra" fa un brutto "regalo" al Paese che lo sta per accogliere: nella seconda partita del girone iniziale degli Europei in Portogallo è infatti autore, nel finale di match, del definitivo 1-1 della Svezia contro l'Italia: colpo di tacco a mezz'aria, sugli sviluppi di un calcio d’angolo. beffato Buffon e superato Vieri in inutile elevazione nel tentativo di salvare il pallonetto. È il gol che, di fatto, regalerà la qualificazione alla Svezia.

"Cravatta" a Cordoba con squalifica

Le due stagioni alla Juventus sono entrambe molto positive: la coppia titolare d’attacco Del Piero-Trezeguet viene ben presto spezzata dalle magie di Ibrahimovic. Dal 2004 al 2006 il campione svedese vincerà due scudetti anche se poi entrambi verranno revocati dopo lo scandalo Calciopoli. 26 reti in 92 presenze vengono macchiate (ma solo parzialmente) da un paio di gesti inconsulti sul terreno di gioco: prima un muso contro muso con Sinisa Mihajlovic, poi diventato suo grande amico fino agli ultimissimi giorni di vita del serbo, e poi sempre in Juventus-Inter calando su Ivan Ramiro Cordoba un braccio teso (detto anche "cravatta") sfuggito all'arbitro e che, dopo la visione delle immagini, gli costa tre turni di stop.

Il brutto addio con i tifosi dell'Inter

Per portarsi a casa il titolo di capocannoniere della Serie A deve aspettare la stagione 2008-2009, quando oramai veste da tre anni la maglia dell'Inter. Dopo tre campionati e due supercoppe italiane vinte, Zlatan Ibrahimovic viene anche premiato dall'AIC come il miglior calciatore straniero e in assoluto della Serie A di quella stagione. Nonostante un triennio molto convincente, Ibra rompe i rapporti con l’Inter. Emblematico da questo punto di vista sarà il gestaccio nei confronti della curva nerazzurra dopo un gol segnato alla Lazio: prima zittisce il pubblico portandosi il dito sulla bocca, poi muove la mano destra in direzione del bassoventre.

Di nuovo scudetto, questa volta col Milan

Se l'anno con il Barcellona sarà un flop totale ("Vado là a vincere la Champions", aveva commentato prima del trasferimento), il suo ritorno a Milano – questa volta sponda Milan nell'agosto 2010 – avrà tutt'altro sapore. L'immediato scudetto rossonero è rappresentato dai tanti gol di Ibrahimovic (14). Nell'ottobre 2011, in un mese in cui fa rumore una sua dichiarazione di stanchezza relativa al calcio (e oggi fa sorridere vista la lunghezza della sua carriera) decide la sfida contro la Roma con una doppietta. Niente bis dello scudetto con il Milan, però, e nemmeno niente permanenza a Milanello. Nell'estate 2012 è il momento del Psg.

I tatuaggi come messaggio al mondo

L'acuto internazionale (vedi alla voce Champions League) non lo trova nei quattro anni a Parigi. È però simbolico quello che succede nel febbraio del 2015: alla sua ennesima rete, Zlatan si leva la maglietta e svela una serie di tatuaggi sul torso e sul ventre. Sono nomi: "Ciascuno porta il nome di una persona reale che muore di fame nel mondo - spiega poi -. Anche se i tatuaggi spariscono, le persone rimangono. Ci sono 805 milioni di persone che muoiono di fame nel mondo. Voglio che i tifosi le vedano e le aiutino, anche attraverso di me, tramite il Programma alimentare mondiale". Tatuaggi rivelatori anche della sua essenza.

La rovesciata dai 30 metri in Nazionale

Da quel momento in poi inizia il lungo lento declino di Zlatan Ibrahimovic. Ma non è mai troppo tardi per lasciare il segno, anche in Nazionale. Prova ne è la meravigliosa rovesciata dai 30 metri in Svezia-Inghilterra 4-2 del novembre 2012. È lo stesso attaccante a raccontare come era avvenuta: "Il portiere ha alzato il pallone, sapevo che era fuori dalla porta, ho provato a calciare al volo, per fortuna il difensore sulla linea non l’ha presa, è andata bene".

Gli insulti a Lukaku

Si arriva così agli anni recentissimi. Il 2 gennaio 2020, a 38 anni, Ibra torna dagli Stati Uniti al Milan con una promessa: "Farò saltare San Siro". Tra la pandemia e gli inizi stentati, Zlatan non riuscirà a dare subito il meglio di sé. Solamente nella stagione successiva i suoi 17 gol in campionato faranno sì che i rossoneri possano ritornare in Champions League dopo otto anni dall'ultima volta. L'unica nota stonata è il brutto episodio durante un derby di Coppa Italia con Romelu Lukaku (suo ex compagno al Manchester United): i due si scontrano in occasione di un calcio di punizione per i nerazzurri. Volano insulti personali irripetibili.

L'ultima gioia (con tanto di sigaro)

22 maggio 2022. Il Milan festeggia il suo 19° scudetto, quasi insperato perché vinto in rimonta e con sorpasso sull'Inter. Il contributo sul campo da parte di Ibra non è pieno, ma regala tantissima energia nel suo discorso nello spogliatoio di Reggio Emilia dopo Sassuolo Milan: "Quando abbiamo iniziato il primo giorno, quando sono arrivato io, poi dopo sono arrivati altri, non tanti hanno creduto in noi. Però, quando abbiamo capito di dover fare sacrificio, soffrire, credere e lavorare… quando questo momento è entrato siamo diventati un gruppo e con un gruppo è possibile fare queste cose che abbiamo fatto". La notte stessa, dopo il sigaro durante la premiazione, davanti a Casa Milan Ibra urlerà: "Milano non è Milan: Italia è Milan!".

Fabio Capello.

 Da ilnapolista.it lunedì 16 ottobre 2023.  

La Gazzetta dello Sport ha ripreso l’intervento di Fabio Capello, oggi opinionista a Sky, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 2023/24 dell’Istituto a ordinamento universitario per mediatori linguistici (Limec). Dalla sala executive 1 di San Siro, Capello ha intrattenuto 300 studenti: 

«Questo stadio è il campo più difficile d’Italia. Qui senti il pubblico dirti di tutto, c’è una pressione schiacciante. Pensate ai giocatori del Milan, che durante il Covid sono cresciuti esponenzialmente perché era come se fossero in allenamento».

Capello è sempre stato attento alla comunicazione: «Se vai all’estero, devi capire dove lavori, la comunicazione è tutto. In Spagna comandano le radio, e i giornali (As e Marca) influenzano il pubblico. Non devi appoggiarti a nessuna fazione. Ogni giorno i giocatori leggono. Quando allenavo l’Inghilterra c’erano 80 giornalisti nelle conferenze stampa. Mi preparavo una settimana prima per rispondere alle domande. In Russia avevo l’interprete, in Cina ben sei. In Italia i social hanno influenzato tutto, non mi piace come si comunica».

Ne ha girate di squadre Capello: «Senza il coraggio di affrontare le difficoltà, non si raggiungono gli obiettivi. Gli alibi sono per i perdenti. Quelli che vincono ripartono dalle sconfitte, le analizzano. Quando facevo le riunioni dopo le partite perse prima sentivo cosa ne pensava il mio staff, poi ero io che decidevo come intervenire».

L’aneddoto sul campionato vinto dal Real nel 2006/2007: «Giocavamo contro il Maiorca, il primo tempo perdevamo 1-0, dovevamo vincere per trionfare. I miei giocatori erano tutti impauriti, sbagliavano passaggi. All’intervallo feci sedere tutti per terra, spostai Roberto Carlos che era davanti a me, e mi sedetti pure io accanto a loro. Dissi: ‘Abbiamo recuperato 9 punti al Barcellona e ora dobbiamo regalare un campionato?’ Dovevo dargli tranquillità, se strillavo gli mettevo ancor più pressione. Sapete com’è finita? 3-1 per noi, campioni di Spagna».

Tanti gli aneddoti. Quello su Ronaldo fuori forma e festaiolo. I suoi riferimenti o ancora le mani con Cassano: «I miei riferimenti? Quando giocavo Luis Suarez dell’Inter. Di allenatori ne dico tre: Giambattista Fabbri, Helenio Herrera e Niels Liedholm, mi piaceva la sua psicologia. Mi sento una fusione di questi tre. Con Gullit e Cassano mi sono messo le mani addosso. Cassano ogni volta, prima di una partita, si ordinava le patatine fritte. Era inaccettabile. Mi arrabbiai più con lo chef che con lui. Il termine ‘cassanata’ l’ho inventato io».

E infine una battuta anche sul ritorno al Milan dopo il Real: «È stato l’errore più grande della mia vita tornare. Berlusconi mi aveva chiamato, per lui avevo una riconoscenza che andava oltre a tutto. Chiesi a Florentino Perez di lasciarmi andare, ma a Milano sbagliai tutto. Il campionato fu disastroso, ma quell’esperienza mi ha insegnato tanto».

Estratto dell’articolo di Walter Veltroni per il “Corriere della Sera” domenica 27 agosto 2023. 

Fabio Capello, cosa significava, quando tu giocavi al calcio, quel numero 10 sulla maglietta?

«Il numero dieci era qualcuno che aveva qualcosa in più. Per visione di gioco, per doti tecniche, ma soprattutto per carisma. Si era numeri dieci sia in campo che nello spogliatoio. Qualcosa in più, non saprei come altro definirlo».

Platini, nell’intervista che ha aperto questa serie, distingue il dieci europeo, più regista, dal dieci, per lui nove e mezzo, sudamericano che è più funambolo. Sei d’accordo?

«Sì, io reputo di essere stato un dieci regista. Quando arrivai al Milan, dove c’era un grande dieci, Gianni Rivera, io presi, come era giusto, la maglia numero otto. Rivera era uno di quelli che sapeva far tutto, che negli ultimi trenta metri inventava. Io ho tratto ispirazione da Luis Suarez, il regista dell’Inter […]» 

[…] 

Chi è il numero dieci più forte che hai allenato?

«Albertini lo scelsi e lui era molto bravo a dare ordine ma non so dire se fosse un numero dieci come era Suarez. Uno che ha queste caratteristiche oggi è certamente Modric, lui è sempre dove deve stare, ha un senso della posizione e una intelligenza calcistica rare. È un giocatore da “un tocco in meno”. Ci sono centrocampisti pur bravi che indugiano in quel tocco in più che consente agli avversari di chiudere gli spazi. Invece quelli che vedono tutto il campo e prevedono le dinamiche del gioco ancor prima di ricevere il pallone, possono permettersi il “tocco in meno” che mette in difficoltà l’avversario. Sono doti naturali, talento puro».

Questa tua frase mi fa pensare che uno dei primi libri sul calcio usciti in Italia, una biografia di Rivera firmata da Oreste del Buono, si intitolava proprio «Un tocco in più»...

«Eh, ma quel tocco in più era la sua capacità di dribblare. Gianni sapeva superare l’uomo come pochi. Ce ne fossero, oggi. Ormai di dribbling se ne vedono davvero pochi. In quel caso il “tocco in più” era utile e aggiungeva. Serviva a saltare, non a rallentare». 

A questo proposito: non ti sembra che oggi nel calcio si insegni poca tecnica e molta tattica, e che si guardi, in un ragazzo, più il fisico che il talento?

«Sono andato a vedere partite dei settori giovanili e ho sentito genitori entusiasti perché l’allenatore faceva fare ai loro figli tanta tattica. A dieci, dodici anni, gli fanno studiare gli schemi, assurdo. Io ho avuto la fortuna di avere due grandi maestri. G.B. Fabbri e Nils Liedholm. Tutti e due, per iniziare il riscaldamento, facevano fare tecnica. Singola, a due, a tre. Era quello il loro obiettivo, fare dei calciatori migliori, non solo disegnare schemi su una lavagna. […]»

Cosa è stato per te lasciare il calcio giocato?

«Le mie ginocchia non mi consentivano di continuare. Allora se ti facevi un infortunio al menisco era un dramma, altro che artroscopia. Feci il primo a diciotto anni e il secondo a ventuno. Le ginocchia erano maciullate. Arrivai alla decisione di smettere per questo. Per fortuna, grazie a Gianni Rivera, passai subito a fare una cosa che mi piaceva molto: insegnare calcio ai ragazzi, quelli del Milan. Per questo non ho lasciato quel campo, quell’erba dove ho passato tanta parte della mia vita». 

Sai che Bearzot, quando fu esonerato dal Prato, in serie C nel 1968, non lo disse in famiglia e la mattina usciva facendo finta di andare al campo?

«No, questa non la sapevo. Noi friulani siamo fatti così. Senza lavorare non ci sappiamo stare». 

Com’è il calcio in mano agli arabi?

«Mah, è un’alluvione che sta ribaltando tutto, sotto tutti gli aspetti. Bisogna trovare degli argini, non so quali. Certo, finché mettono in gioco quelle disponibilità finanziarie, per i giocatori è difficile dire di no. Non bisogna fare retorica. Il problema del calciatore è che dietro l’angolo c’è l’infortunio che all’improvviso ti può accorciare la carriera o farla finire. E poi è un lavoro che ha un ciclo, finisce quando hai 35 anni. Quindi è comprensibile che i giocatori cerchino di guadagnare il più possibile quando sono nel pieno delle loro capacità. Il problema ora è del calcio europeo, perché stanno andando via giocatori importanti». 

La tua ultima esperienza di allenatore è stata in Cina, Paese che sembrava dovesse divenire la nuova Bengodi del calcio.

«Sono andato perché me lo ha chiesto Walter Sabatini. Per la prima volta mia moglie non mi ha seguito. Tutte le sere a mezzanotte ci sentivamo, c’erano le lacrime, io non riesco a stare senza di lei. Insomma ho dato le dimissioni, non ce la facevo. C’era fermento lì, ma il pubblico non partecipava, diversamente da quello che sembra stia succedendo in Arabia. 

Io ho avuto la fortuna di lavorare in quattro Paesi, oltre l’Italia: Spagna, Russia, Inghilterra, Cina. Sono state esperienze decisive, per me. La difficoltà più grande in Cina era la lingua. Ti racconto questa: quando allenavo avevo sei interpreti per le lingue dei singoli giocatori. Persino due per l’italiano perché uno poteva tradurre solo me e l’altro lo staff; sai come funziona in Cina... Puoi immaginarti per dare una indicazione, passavano ore... E spesso, anche in Russia, io dicevo una frase di tre parole e la traduzione durava dieci minuti. Cosa potevo sapere di quello che arrivava ai calciatori?».

Parliamo di due tuoi gol. Il primo è quello del 1973 quando, a Wembley, decidesti la prima vittoria della nazionale italiana sul suolo inglese.

«È stata una gioia immensa. La soddisfazione di vedere la felicità dei nostri connazionali, ventimila operai e camerieri a Wembley, è stato incredibile. Nell’allenamento di rifinitura della sera prima, mentre stavamo tornando negli spogliatoi, quasi per scherzo, ho tirato il pallone in rete per poter dire che almeno una volta avevamo segnato a Wembley. Il giorno dopo l’ho rifatto, nella stessa porta. La soddisfazione per gli italiani che lavoravano lì è stata immensa. E questo è il mio ricordo». 

Il secondo è un gol disperato, quello della bandiera nella sconfitta con la Polonia che costò l’eliminazione della nazionale italiana, tra le più forti mai schierate, ai mondiali in Germania del 1974. Cosa diavolo successe?

«Quella era una squadra che veniva da undici risultati utili consecutivi, avevamo battuto Brasile, Inghilterra. Eravamo tra i favoriti. Ma quando a Coverciano diedero i numeri delle maglie qualche giocatore si infuriò dicendo “Ma allora la formazione è già decisa!” e lì iniziarono le divisioni. La cosa più grave è che si crearono dei gruppi: Chinaglia e Juliano con i giocatori delle squadre del centro sud contro quelli del centro nord. 

Sembra assurdo, ma fu così. Non eravamo squadra, lo eravamo stati fino a quel maledetto giorno poi ci siamo sfarinati. Tanto che durante la prima partita Chinaglia mandò a quel paese Valcareggi e il ritiro si trasformò in un inferno, eravamo separati in casa. La cosa più triste fu vedere i nostri tifosi, gli emigrati, che giustamente ci insultavano. Per loro tornare in fabbrica, il giorno dopo, sarebbe stato più difficile».

Un tuo collega mi ha raccontato che durante la partita con la Polonia ci fu un tentativo di combine, il pareggio avrebbe consentito a tutte e due le squadre di qualificarsi. Ne sai qualcosa?

«Io ne sentii parlare ma non ho un ricordo diretto. Sentii delle chiacchiere nello spogliatoio, ma nessuno mi ha mai coinvolto, tanto che io segnai quel gol. Voci tra noi sì, ne ho sentite, qualcuno che accennava a qualcosa. Ma in campo, come si è visto, non è successo nulla. Si può dire che c’è stato forse un tentativo di farlo. Un tentativo da parte di qualcuno, ma non so chi».

A proposito di nazionale, cosa pensi di questa storia di Mancini?

«Penso una cosa semplice: doveva dare le dimissioni quando ha registrato una divisione su scelte importanti. Se a me, che ho avuto come secondo tutta la vita Italo Galbiati, mi avessero detto che lo sostituivano, me ne sarei andato subito. Semplice. Spalletti ora ha fatto una scelta coraggiosa, non c’è molto tempo. Il nostro campionato è iniziato una settimana dopo gli altri. Non capisco proprio perché. Spagna e Italia hanno lo stesso clima, allora perché noi, avendo ai primi di settembre due partite decisive della nazionale, dobbiamo fare una settimana in più di ferie?».

Ti hanno mai chiesto, in passato, di allenare la nazionale Italiana?

«Sì, me lo chiese Tavecchio durante la partita Italia-Spagna a Udine. Era il 2016. Io rifiutai, non mi sentivo pronto». 

Poco dopo fummo eliminati dai mondiali. Hai la sensazione di una decadenza del calcio italiano?

«Noi abbiamo vissuto un tempo in cui tutti i migliori giocatori del mondo venivano in Italia. E se tu ti alleni con uno forte, impari di più, sei più stimolato, cresci. Dal top impari, ma ora? Si impara da quelli bravi, ma solo se hai voglia di imparare... Ho avuto la fortuna di allenare Totti, Del Piero, Baggio. Tre numeri dieci di enorme talento, che non avevano paura di imparare». 

[…] 

Chi ti manca di più, tra quelli che se ne sono andati?

«Certamente Galbiati, col quale ho condiviso una vita. Chinaglia che era, nel privato, molto diverso dalla sua immagine pubblica. E Scirea, con lui e Zoff abbiamo passato tanto tempo. Ma di ricordi ne ho tanti. Armando Picchi, ad esempio, era un giovane allenatore che stava imparando, portava la sua esperienza di libero d’eccezione, uno che da dietro la difesa dirigeva la squadra. Io mi ricordo di lui, sul treno che portava la Juventus a Bologna per la partita, sdraiato nello scompartimento, devastato dal dolore che di lì a poco lo ucciderà». 

Grazie Fabio.

«No, aspetta, c’è una domanda che devi farmi». 

Volentieri, quale?

«Sei mai stato chiamato a Coverciano per fare lezioni ai corsi di allenatore?». 

Cioè in tutta la tua vita da tecnico non ti hanno mai chiamato? E perché?

«Mai. Il perché bisogna chiederlo a loro. Evidentemente pensano che non abbia un’esperienza sufficiente, che non sia in grado di tenere una lezione».

Estratto dell'articolo di Monica Colombo per il “Corriere della Sera” il 4 giugno 2023.

Fabio Capello qual è il suo primo ricordo?

«È legato al mio paese, Pieris, dove vivevamo in sei con lo stipendio di mio papà, maestro elementare». 

Erano gli anni del Dopoguerra, anche la sua famiglia come molte altre ha conosciuto le ristrettezze economiche?

«Non erano certo anni di agiatezza, abitavamo in una casa popolare. Mia sorella dormiva a casa degli zii perché non c’era posto per tutti». 

(...) Ferrara è stata la sua prima finestra sul mondo?

«In quella città ho conosciuto mia moglie Laura. Viaggiavamo entrambi sullo stesso autobus per andare a scuola, lei frequentava le magistrali. Era una chiacchierona e pensavo “questa proprio non la sopporto”. Ci siamo sposati nel 1969 e non ci siamo più lasciati». 

Dalla provincia spicca il volo. Il gol di Wembley è il punto più alto della carriera da giocatore?

«Quella rete del 1973 che ha propiziato la prima vittoria dell’Italia in Inghilterra, ebbe anche un significato sociale. La dedicai ai ventimila camerieri presenti allo stadio, come i nostri connazionali erano stati ribattezzati». 

Quando ha conosciuto la famiglia Berlusconi?

«Nel 1976 quando arrivai al Milan e cercavo casa, Paolo mi mostrò le abitazioni di Milano 2. Erano bellissime, ma lontane da Milanello. Così presi casa a Legnano che per 24 anni è stata la mia base». 

Il suo rapporto con Silvio invece?

«È sempre stato ottimo, da quando da neo presidente del Milan mi fece diventare assistente di Liedholm e poi suo sostituto nel 1987 nelle ultime sei gare di campionato. Mi fece sostenere dei test psicologici con dei cacciatori di teste. Tirò fuori gli esiti quando, dopo Sacchi, mi affidò la panchina della prima squadra». 

Agnelli e Berlusconi sono due icone del Novecento. Affinità fra loro?

«L’Avvocato arrivava, faceva battute fulminanti e ci salutava. Era circondato da un’aura di superiorità. Berlusconi invece era carismatico e accessibile allo stesso tempo». 

Per il Cavaliere ha lasciato il Real Madrid dopo un anno?

«Dopo i successi con il Milan, mi chiamò il presidente Sanz che mi fece tre anni di contratto. Il Real è stata un’esperienza unica, annusi l’aria e capisci di essere nella prima squadra al mondo. Dopo aver vinto la Liga, arrivò la telefonata di Berlusconi. A malincuore a Sanz dissi “mi deve lasciare andare, a quell’uomo devo tutto”». 

Come ha vissuto lei, schivo, gli entusiasmi dell’ultimo scudetto della Roma?

«Sono stati cinque anni favolosi, anche se vissuti da un’angolatura particolare. Alla ricerca della migliore sistemazione, son rimasto nell’appartamento a Mostacciano, con vista sul raccordo anulare. Ma i festeggiamenti li hanno fatti solo i tifosi». 

In che senso?

«Ero abituato, negli altri club, a feste pazzesche fino alle 5 del mattino, con le famiglie. Invece la cosa assurda fu che non si organizzò una cena a livello societario. Quella sera andai al ristorante per i fatti miei. Quando ci fu l’evento al Circo Massimo, avevo già comprato i biglietti per uno dei miei viaggi avventurosi e, offeso, partii». 

Ha avuto l’onore di allenare la Nazionale di chi ha inventato il calcio...

«A Londra sono stato benissimo, vivevo a Knightsbridge, ho visitato i migliori musei. Dopo il mondiale in Sudafrica da cui uscimmo per il gol-non gol di Lampard con la Germania, eravamo già qualificati agli Europei... peccato non essere rimasto ma la frattura con la federazione sulla fascia tolta a John Terry era insanabile». 

Cosa avvenne?

«Dopo che Terry era stato accusato di aver rivolto insulti a sfondo razziale nei confronti di Anton Ferdinand, la federazione mi comunicò di aver già deciso di togliergli la fascia da capitano. Ero contrario perché la scelta avveniva prima del processo al giocatore e costituiva un’invasione nella mia sfera di competenza. Per inciso poi Terry fu assolto». 

Sua moglie l’ha sempre seguita?

«Solo quando ho guidato lo Jiangsu non è venuta. Ci sentivamo ogni sera alla mezzanotte cinese, quando in Italia erano le sei del pomeriggio. Ci salutavamo con il magone, dopo neanche un anno ho dato le dimissioni». 

Tra tutte le leggende che ha allenato scelga un nome.

«Ronaldo il Fenomeno».

Il litigio feroce?

«Con Gullit quasi venni alle mani, non ricordo se per un ritardo. Sono rigido nel pretendere il rispetto delle regole, ai miei giocatori dicevo di trattare gli inservienti come volevano che i loro genitori venissero trattati dagli altri». 

Da quando ha la passione per l’arte?

«Me la trasmise Italo Allodi quando giocavo nella Juve, era comproprietario di una galleria».

La corrente che preferisce?

«Mi piace l’arte contemporanea. Sono diventato amico di Alberto Burri grazie a Silvano Ramaccioni. Negli anni romani ho conosciuto Jannis Kounellis, mangiavamo da Pommidoro».

Cosa le manca?

«Il mio grande amico e collaboratore Italo Galbiati, scomparso di recente».

Ricky Albertosi.

Ricky Albertosi: «La mia colpa sul gol di Pelè? Fidarmi troppo di Burgnich. In carcere mangiavo bene e giravo libero tutto il giorno». Paolo Tomaselli su Il Corriere della Sera il 20 maggio 2023.

«Donne, fumo, ippodromi. Liedholm mi capiva, è stata la mia fortuna. Debuttai a 15 anni grazie a un portiere marinaio»

Ricky Albertosi aspetta l’estate in Versilia, parando i tiri del nipotino e i colpi del cuore: «Ho superato un secondo infarto pochi mesi fa».

Si mette ancora in porta?

«Sì, per poi sentirmi dire “ma nonno non ne pari una, che portiere sei!?”. Tra poco però gli mostrerò qualche video di quello che ho fatto».

Ha ricordi della guerra?

«Solo il flash degli aerei sopra Pontremoli, andavano a bombardare chissà dove».

Tifava Grande Torino?

«Sì, mio padre mi portò a Milan-Torino: che fascino».

Papà Cecco era maestro e portiere: lei ha studiato fino al terzo anno di magistrali poi l’altra passione ha vinto.

«Me l’ha fatta venire lui, mi allenava nell’intervallo delle sue partite. Avevo 7 anni e non sono più uscito fino ai 43».

Il suo debutto coi grandi arriva a 15 anni, a La Spezia.

«Il titolare era un marinaio, che doveva imbarcarsi. Sembra l’inizio di un romanzo d’avventura, ma andò così: da lì ho preso il via, abbiamo vinto il campionato, è arrivata la Nazionale juniores e nel 1958 abbiamo vinto l’Europeo con Corso, Trapattoni, Galeone».

Sandro Mazzola ripeteva che «il segreto di Albertosi è che si allena poco». Solo perfidia o c’era del vero?

«Perfidia: lui era già in spogliatoio quando facevo l’allenamento vero, specifico».

Per Rocco era «il migliore al mondo, anche se ha tutto quello che odio in un calciatore: fuma, beve, piace alle donne, gioca a carte, punta sui cavalli». Sintesi efficace?

«Sì, è vero, sono sempre stato così, non ho mai nascosto niente. A differenza di altri facevo tutto alla luce del sole e in campo alla domenica facevo il mio dovere».

Liedholm al sabato le chiedeva se preferiva l’ippodromo o il cinema con la squadra: mai accontentato?

«Mai. All’ippodromo passavo un paio di ore in tranquillità. La mia fortuna erano allenatori come lui o Scopigno che mi capivano».

Nel ’76 il Corriere le chiese: «Quante volte fa l’amore alla settimana?». E lei: «Se lo dico, a Milanello scoppia un casino!». Un po’ ci marciava attorno al suo personaggio?

«Certamente. Non facevo l’amore ogni giorno, ma due-tre volte alla settimana sì». 

«Il no di Riva alla Juve fregò soprattutto me»

Come portiere è stato più genio o più sregolatezza?

«Forse più genio. Poi faceva colpo dire che fumavo quaranta sigarette al giorno anche se non era vero, che andassi sempre all’ippodromo o che andassi a letto tardi: facevo tutto, perché mi sentivo bene, ma non è che giocassi male perché non facevo una vita consona allo sport. Dipendeva anche dal mio fisico».

La Nord Corea nel 1966 è la cosa che le brucia di più?

«Sì e mi brucia molto, perché ho fatto 4 campionati del mondo e quella era una grande squadra. Fu una partita incredibile, nella quale ci bastava il pari: non abbiamo sottovalutato la Corea, ma abbiamo sbagliato dieci gol».

A Messico ’70 era in stanza con Riva. Si annoiava?

«Al contrario. Nel privato Gigi è un bel chiacchierone, sa stare bene in compagnia. È un timido, ma se entra in confidenza è un’altra persona».

Per Rivera le parole che lei gli disse dopo il 3-3 di Müller contro la Germania nella «Partita del secolo» sono impubblicabili. Conferma?

«Direi molto impubblicabili. L’ho infamato perché non doveva starci lui su quel palo. Battendo la testa sul montante disse “ora posso solo andare a far gol”. E fu di parola».

Come mai invece che all’Inter si ritrovò al Cagliari?

«Bisognerebbe chiederlo a qualche giocatore di quell’Inter: per Allodi era già fatta». 

Quando diceva: «Il vaccino? Ho 82 anni, sono cardiopatico e non me lo hanno ancora fatto. Questa è la Toscana...»

In Sardegna tra l’altro lei non ci voleva andare.

«È vero, però non potevi rifiutarti. Ma è stata una fortuna, non solo per lo scudetto».

Il mitico gol di testa di Pelé nel 1970 era parabile?

«Lo è se mi aspetto che Burgnich non la prenda: lui saltava benissimo e quando l’ho visto scendere ho pensato che Pelé non l’avrebbe più colpita. Invece è rimasto in sospensione, ha dato forza al pallone e l’ha messo sul primo palo, dove un portiere raramente deve prendere gol: ho peccato di troppa fiducia in Burgnich».

Zenga è stato il suo erede?

«Sì, era un po’ irregolare ed è stato un grande portiere».

È giusto dire che Albertosi fu un rivoluzionario, mentre Zoff un grande classico?

«È una visione corretta, perché ho anticipato le cose: giocavo molto fuori dai pali e anche molto coi piedi, anche perché in allenamento stavo quasi sempre in attacco. In C2 facevo l’allenatore-giocatore, volevo fare gol in partitella e il portiere di riserva mi è crollato sulla gamba. Sono stato costretto a ritirarmi».

Al Milan si fece crescere i baffi per la moda del tempo?

«No, c’è una storia: nel 1975 ho conosciuto Elisabetta, che mi chiese perché non me li facevo crescere. Oggi ho gli stessi baffi e la stessa donna».

Papa Wojtyla le parlò da portiere a portiere?

«Sì, in udienza dopo la vittoria dello scudetto mi disse che gli piaceva tanto giocare in porta da ragazzo».

Lei crede nell’aldilà?

«Sì, sono religioso».

Nel 1978 Bearzot non la portò come terzo perché Zoff la soffriva. E lei criticò Dino per i gol con l’Olanda. A lungo lui la evitò, offeso. Quando avete fatto pace?

«Fu sulle scale di un hotel: una scena western, senza le pistole. Ci siamo abbracciati».

Quando Zoff alzò la Coppa da capitano lei era squalificato per il calcioscommesse. Che sentimento provò?

«Sono stato contentissimo, specie per lui: un grandissimo, che ha meritato tutto».

Il trionfo portò l’amnistia.

«E andai all’Elpidiense».

Lei giocò sulla vittoria della propria squadra: di solito non è il contrario?

«Sì e tra l’altro avevo riportato tutto al mio presidente: sono stato un ingenuo, non avrei dovuto parlare con questo amico che mi ha contattato. Abbiamo vinto con la Lazio una partita regolare, feci due parate eccezionali. Io ho sempre giocato per vincere, perché sono un giocatore nato».

In carcere quanto restò?

«Una quindicina di giorni».

Disse: «Mai mangiati bucatini all’amatriciana così buoni». Altra provocazione?

«No, è vero: c’era un carcerato che li cucinava benissimo. Eravamo rinchiusi, ma liberi e in giro tutto il giorno».

All’Elpidiense allenava Alberto. Che papà è stato?

«Finché sono stato con la prima moglie credo un buonissimo papà. Credo anche dopo, ma ero lontano: sono mancato a lui e a Silvia, come loro a me. Ho avuto una figlia anche da Elisabetta, Alice. E ho quattro nipoti».

Il calcio oggi la diverte?

«No, a parte il Napoli».

Nel 2004 ebbe un infarto all’ippodromo: la passione per i cavalli le salvò la vita?

«La mia fortuna sono stati i fantini: uno mi ha tirato fuori la lingua, l’altro mi ha fatto il massaggio cardiaco, in attesa dell’ambulanza. Così mi sono salvato senza danni permanenti: ma i dottori non sapevano come sarebbe finita».

I fantini la salvarono, ma chissà quante volte li avrà maledetti per i soldi persi.

«No, erano tutti amici. E poi quando si scommette si ricordano solo le vittorie».

Marco Borriello.

Marco Borriello: «Belen la storia più importante. I calciatori si sposano giovani e poi diventano traditori seriali». Monica Colombo e Monica Scozzafava su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2023 

L’ex calciatore di Milan, Roma e tante altre squadre di A, oggi è nel board dell’Ibiza calcio: «Ho un tenore di vita alto, ho guadagnato 30 milioni e più delle conquiste di cuore mi interessano quelle immobiliari». 

Marco Borriello, ex attaccante nomade del campionato, tombeur de femmes e membro del board della squadra di calcio di Ibiza, dove vive in questo momento?

«Nemmeno io lo so con esattezza. Quando ho smesso di giocare è arrivata la pandemia e ho trascorso due anni fra l’Italia e la Spagna. Poi ho iniziato a scoprire il mondo. Nel periodo invernale mi piace stare nei luoghi caldi, sono girovago, cerco di prendere il meglio di tutto finché posso».

Insofferente anche da calciatore?

«Sì, ogni sei mesi mi stufavo e partivo a caccia di nuove emozioni. Per sopportare la routine devo almeno stare con persone di mio gradimento. A Milano e al Milan ci sarei rimasto per sempre, ma non è stato possibile».

Come le piace vivere, invece?

«Per stare bene non ho bisogno di lussi sfrenati, però devo avere la possibilità di fare sport, vedere gli amici, andare in un bel ristorante, essere nella natura. Poi se c’è l’opportunità di godere di un po’ di cultura è il massimo».

Le manca una compagna?

«Macché, tutte le mattine mi alzo, mi guardo allo specchio e mi dico “ti amo” (ride). Ho avuto storie in passato ma ho scelto me e ho fatto bene. Quando ho voglia e l’occasione mi vivo l’emozione. In futuro vorrei lasciare il mio dna, un figlio è importante». 

LA STORIA

La mega festa dei 40 anni a Ibiza, il Milan, il padre ucciso dalla camorra, il padel

Lei è una mosca bianca in un ambiente dominato da calciatori che mettono su famiglia da ragazzi?

«Si sposano giovanissimi e poi partono i tradimenti. Scoppiano tutti, restano i figli che sono la cosa più bella. Sarò anche egoista ma resto coerente con la vita che voglio avere».

Lei tradisce?

«Quando sono stato fidanzato non l’ho mai fatto».

Quante donne ha avuto?

«Non sono il tipo che con le donne fa ginnastica e conta. Le relazioni fisse si contano sulle dita di una mano. Poi ho avuto grandi passioni che non necessariamente sono finite sui giornali di gossip».

A quasi 41 anni cosa cerca in una donna?

«L’aspetto estetico è il primo che mi colpisce. Ma in questa fase conta anche il fattore cerebrale».

Strategie di conquista?

«Sono in una fase di consolidamento della vita. Penso più a conquiste immobiliari e finanziarie che a quelle sentimentali».

Cosa rappresenta per lei ora Belén?

«È stata una storia d’amore acerba, immatura, fra due ragazzi. Se ci incontriamo a Milano la abbraccio, è una ragazza solare e divertente. Comunque è stata la relazione più importante della mia vita, è durata quattro anni e mezzo».

Follie in amore?

«Non direi».

Da calciatore?

«Ho girato 15 spogliatoi e sono sempre stato fra i più vivaci. Nel 2014 ero con la Roma a Mosca per una partita con il Cska. Un sito russo pubblicò foto di me e De Rossi che uscivamo da un night club. Con Daniele abbiamo salvato gli altri 15 compagni che uscirono dopo. Ero tra le spogliarelliste ma, giuro, ero andato lì solo a bere una Coca Cola».

Quanto ha guadagnato nella sua carriera?

«A 18 anni prendevo 2000 euro al mese, poi certo dopo molto di più. Credo di aver guadagnato 30 milioni. Non mi sono fatto mancare niente, ho avuto una vita costosa e dispendiosa ma sono riuscito a salvare il patrimonio».

Bello e ricco, si sente invidiato?

«In tanti quando mi vedono dicono “beato te”. Guardano la villa, la vista sul mare. Ho scelto uno stile di vita alto, ma devo lavorare per mantenerlo, mica sono nato ricco».

Di cosa si occupa adesso?

«Ho scelto di non avere più padroni. Ho una piccola quota dell’Ibiza calcio: sono consigliere e ambassador del club. Mi piace anche il mondo della finanza e del real estate».

Un ruolo più operativo in una squadra?

«Da un lato sì ma ciò comporterebbe avere un capo, oppure trasferirsi in una città di cui non mi importa nulla. Per 25 anni sono stato in posti e con persone che non sempre mi interessavano e dovevo abbozzare. La vita è una sola e talvolta anche breve. Ora voglio godermi tutto».

Nel calcio ha mai accettato compromessi?

«Quando mi conveniva economicamente. All’inizio ero mosso solo dalla passione ma quando ho preso i primi calci nel sedere perché non servivo più allora ho iniziato a fare i miei conti. Chi mi vuole paga».

Non parla molto di Napoli, la sua città d’origine.

«È la città più bella del mondo, ha un clima fantastico, le isole davanti. Mia mamma vive lì. Impossibile togliermela dal cuore».

È la città che le ha portato via il papà?

«Ma da un lato mi ha strappato il padre quando ero un bambino, dall’altro mi ha trasferito la “cazzimma” e l’amore per il bello».

Tifa per il Napoli?

«Nel cuore ho l’Ibiza. Al San Paolo ci andavo da piccolino con mio papà e adesso sono felice per il loro scudetto. Il Milan come una madre: ho vestito quella maglia dai 14 ai 28 anni. Ho conquistato i trofei più importanti. Tra i professionisti ho segnato 127 gol sebbene fra panchine e infortuni abbia totalizzato più di 6 anni di inattività».

Rimpianti?

«Ho pagato anche per colpe non mie come nella storia del doping per il cortisone. La settimana prima che mi trovassero positivo i medici mi avevano dato una pastiglia per un problema al molare. Quando venni trovato positivo sempre i medici mi dissero “porta tutte le pomate che hai a casa” e la colpa venne scaricata sulla crema vaginale di Belen. Ma le due molecole di cortisone che trovarono erano contenute solo in un farmaco che si chiama deltacortene. Sono stato fermo sei mesi, qualcuno dovrà risponderne».

Il suo rapporto con Berlusconi?

«Rispetto ai politici degli ultimi anni Silvio Berlusconi è di una categoria superiore. Gli altri mi sembrano tutti marionette, a parte Giorgia Meloni che pare avere idee e determinazione. Bisogna vedere se non le perderà».

Il regalo più bello che si è fatto?

«Il prossimo, e sarà il più costoso di sempre. Un terreno di molte migliaia di metri quadri a Ibiza dove coltivare l’orto e piantare un vigneto, con le gallinelle e i cavalli».

Massimo Ambrosini.

Estratto dell’articolo di Marco Lombardo per “il Giornale” domenica 9 luglio 2023.

«La partita che ora voglio vincere è contro il diabete di mio figlio» Ex calciatore, oggi è commentatore tv. Qualche mese fa la diagnosi per il piccolo Alessandro: «Far conoscere la malattia aiuta a combatterla» Un sospiro, una pausa, una risposa. Mai banale. Come quando gestiva il centrocampo del Milan e vinceva, vinceva, vinceva. 

[…] Ma oggi Massimo gioca anche un’altra partita, più difficile, una sfida che non dà certezze di un successo, non ancora almeno: quella della malattia di suo figlio Alessandro. È successo qualche mese fa, qualche segnale preoccupante, gli esami e la diagnosi: diabete di tipo 1, a quasi 3 anni. Un’ingiustizia. […]

Cosa è cambiato da quando Ambro era un semplice ragazzo di Pesaro?

«Tutto. Per i giovani d’oggi la situazione è molto diversa: in generale il mondo mette molta più pressione, e l’ansia a tutti i livelli sui bambini è cresciuta in maniera esponenziale. A scuola i ragazzi sono portati a una tendenza prestazionale che non li fa vivere bene». […] 

Eppure certa gente non cambia mai.

«In questa stagione abbiamo visto situazioni in cui intere squadre sono andate sotto la curva a subire rimproveri e insulti. Dobbiamo essere in grado di far capire che ci sono dei limiti che non vanno superati. Quello che ha fatto Claudio Ranieri a Bari, zittendo i suoi tifosi che irridevano gli avversari battuti, è giusto: non si deve mai superare il confine in termini di sfottò e di umiliazione […]».

Torniamo al Milan: quando si capisce che, per una squadra, è l’anno giusto?

«Devo dire che io ho avuto poche esperienze di situazioni negative e di stravolgimenti. Di sicuro ci sono stagioni in cui la chimica di squadra permette di avere la consapevolezza della propria forza. Che poi consente la sopportazione dei difetti dei compagni. L’anno nel quale abbiamo vinto lo scudetto con Zaccheroni fu particolare: abbiamo capito le nostre possibilità di trionfare cammin facendo. E, alla fine, ci siamo appunto sopportati. Tra virgolette s’intende». 

Lo scudetto vinto da Pioli l’anno scorso è sembrata quasi una storia simile.

«In realtà penso sia stato un Milan un po’ diverso. In questo caso ho percepito una squadra di talento che ha utilizzato tutto quello che aveva. E che è stata grandiosa nel rimanere attaccata alle sue certezze nei periodi decisivi del campionato. Ho visto tanta unità, che ha prodotto un risultato eccezionale».

[…] Ancelotti è un numero uno.

«Carlo fa parte di una generazione diversa di tecnici, che a differenza di quelli arrivati dopo di lui ha dovuto aggiornarsi per stare al passo. Ha usato personalità e intelligenza, e i risultati si sono visti. Ha saputo rimanere con le sue convinzioni umane, aumentando le sue conoscenze calcistiche e tecniche». 

E Guardiola?

«Lui vive di ossessione, che lega tutto il suo lavoro e porta all’eccellenza. Ha incanalato la sua ossessione per far giocare al massimo livello estetico le sue squadre. Ha cercato, studiato, provato, trovato soluzioni, sempre con l’obbiettivo di avere un dominio del gioco. La sua modalità didattica lo ha portato a scegliere sempre soluzioni nuove e a darle ai giocatori. Provandone, a volte, direttamente sul campo».

Parliamo di famiglia. Di tua moglie Paola. Colpo di fulmine?

«In realtà c’eravamo già incrociati in un paio di situazioni, quando ancora eravamo entrambi impegnati. Io però ricordo nitidamente la prima volta che l’ho vista e quel brivido che ti fa capire di essere davanti a qualcosa di diverso rispetto al resto. Poi ci siamo rivisti più avanti ed è successo». 

Un legame forte che in questo periodo è, forse, una salvezza.

«I momenti di difficoltà si superano grazie a rapporti come il nostro. Non c’è un manuale e nessuno ti spiega prima come affrontare la malattia di un figlio: per forza di cosa devi aiutarti vicendevolmente. Un’esperienza come quella che stiamo vivendo impone un crollo e una risalita obbligatoria. 

Devi avere la fortuna che questo percorso non combaci, perché poi devi essere capace di tirare fuori qualcosa di più che magari non hai. Le unioni come la nostra aiutano ad aggrapparsi alle difficoltà della vita».

Alessandro soffre di qualcosa sui cui in molti equivocano. Francesca Ulivi della Fondazione Italia Diabete dice che forse bisognerebbe cambiare il nome, perché molti pensano che avere il diabete di tipo 1 sia colpa di una vita esagerata e non del fatto che sia una malattia autoimmune.

«Non so se cambiarle il nome servirebbe, ma alla base di sicuro c’è una mancata conoscenza. E lo dice uno che è entrato in ospedale con suo figlio e non aveva ben chiaro cosa sarebbe successo. In quel momento andavo istruito anch’io. Il fatto è che si tratta di una problematica che, non si sa perché, sta aumentando. E una conoscenza più diffusa aiuterebbe le famiglie e le persone a risolvere i dubbi sui sintomi e non tardare poi a correre ai ripari».

[…] La prevenzione, insomma, può evitare guai peggiori.

«I rischi di una diagnosi ritardata sono grandissimi: il problema principale è evitare che i propri figli arrivino in ospedale in condizione già critiche. Poi, è vero, la non conoscenza dei motivi che portano a una malattia del genere porta anche a dei problemi nella raccolta fondi».

Come sta Alessandro? Ora ha compiuto 3 anni.

«La vita di mio figlio? Come posso definirla... Siamo fortunati che viviamo in un’era tecnologica che permette a un malato di diabete di andare avanti senza privarsi di troppe cose. Ma è una vita diversa, in cui devi avere un’attenzione diversa sull’alimentazione, e hai meno libertà. Ma grazie alla tecnologia almeno si può avere una percezione di poter vivere una quotidianità che altre malattie purtroppo non consentono». […]

Ambrosini e il figlio malato: «Ha il diabete di tipo 1: oggi è inguaribile».  Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023.

Massimo Ambrosini parla della malattia del figlio Alessandro per chiedere un sostegno alla ricerca scientifica. Correrà la maratona di Milano per sostenere la fondazione italiana diabete

«Da sei mesi la mia vita e quella della mia famiglia sono state letteralmente sconvolte dalla malattia di nostro figlio più piccolo. Ad Alessandro è stato diagnosticato il diabete di tipo 1, che è una malattia autoimmune, cronica e degenerativa e che, anche se non si vede, può avere delle conseguenze gravissime». Inizia così la testimonianza di Massimo Ambrosini, l’ex centrocampista del Milan, che si espone e racconta la sua storia privata per una causa importante: sostenere la ricerca scientifica e aiutare i malati di diabete, come il suo bimbo. Lo fa in un video messaggio, condiviso dalla Fondazione Italiana Diabete, in cui è seduto con le mani intrecciate e parla con tono sentito ma chiaro, diretto. Racconta quello che sta passando e si impegna, per la ricerca, a correre la maratona di Milano, il prossimo 2 aprile.

«Siamo costretti costantemente a tenere monitorata la sua glicemia e fare iniezioni di insulina più volte al giorno, tutti i giorni — continua l’ex capitano del Milan nel video —. Al momento il diabete di tipo 1 è una malattia incurabile, ma c’è una speranza che passa solo ed esclusivamente attraverso la ricerca scientifica. Io, mia moglie e tutti i parenti delle 200 mila persone fra adulti e bambini che hanno questa malattia, abbiamo la necessità e la volontà di sapere che prima o poi si arriverà a una cura definitiva». Una speranza.

Ma anche, come detto, la volontà di impegnarsi in prima persona per dare un segnale: «Per questo ho deciso di correre alla Milano Marathon, insieme a qualche mio ex compagno di squadra, per sostenere la Fondazione Italiana Diabete». Ambrosini, 45 anni, ha smesso di giocare nel 2014, ultima maglia quella della Fiorentina. Da quel momento ha iniziato a correre, e oggi è un runner esperto. Commentatore in tv per Dazn e Prime Video, in un’intervista realizzata da Manuela Croci su 7 ha ammesso di non aver mai pensato a una carriera da allenatore, come molti ex compagni: «Fare l’allenatore richiede molto tempo e energie. Quando ho smesso ho voluto privilegiare la famiglia, i figli e il tempo da dedicare a loro». La moglie Paola, e i figli Federico, Angelica e ovviamente Alessandro.

Christian Panucci.

Panucci compie 50 anni: che fine ha fatto. Scampò a un disastro aereo, le liti con Spalletti e Lippi, gli amori. Simone Golia su Il Corriere della Sera il 12 aprile 2023.

Christian Panucci, ex difensore di Milan, Inter, Roma e Real Madrid, compie 50 anni. Dal lavoro di benzinaio alla Champions. Nel mezzo liti, gossip e una tragedia scamata

Il lavoro da benzinaio a 50mila lire a settimana

Anche Christian Panucci fa parte della meravigliosa generazione del 1973, un anno che ha visto nascere molti campioni nel calcio. Dida, Giggs, Cannavaro, Roberto Carlos e Zanetti. Poi anche Vieri e Davids oltre, appunto, all'ex difensore, che proprio oggi compie 50 anni. Ha vinto tutto, in Italia (2 scudetti, tre Supercoppe) e in Europa (2 Champions, un Mondiale per club): «Sono stato un privilegiato, ho avuto una carriera bellissima», le sue parole al momento del ritiro, a 37 anni. Quando ne aveva 15, è andato via di casa: «Mamma e papà non arrivavano a fine mese e discutevano molto per questo — racconterà — vivevo a 40 km da dove mi allenavo, ma la squadra (Veloce Savona) credeva in me e mi aveva preso a vivere nel convitto. Non volevo chiedere soldi ai miei e allora andavo dal benzinaio a Genova Pegli: mi davano 50mila lire a settimana».

La casa regalata ai genitori e le lacrime del padre

Di anni ne passano pochi, perché a 19 Christian fa il suo esordio in serie A con la maglia del Genoa. Arrivano i primi soldi, con i quali compra una casa ai genitori: «Vivevano in affitto in 50 metri. Le lacrime di papà davanti al notaio sono il ricordo più bello che ho», spiegherà. Vittorio, di professione postino, gli ha tramandato la passione per il calcio. Lui non è arrivato sui campi della Champions, ma ha sognato da attaccante del Savona. Ad un certo punto avrebbe potuto accettare la proposta del Bari, che però declinò: «Il lavoro era troppo importante». Fra una lettera e l'altra, durante una trasferta in Cecoslovacchia con la Nazionale dei Postelegrafonici, conosce Hana, una donna di Praga, che sarebbe diventata la madre di Christian e di suo fratello Patrick.

Con la Juve era tutto fatto, ma scelse il Milan

Nell’ultima giornata della A 91/92 arriva dunque il debutto fra i grandi contro il Napoli. La stagione successiva è già quella della consacrazione, perché Christian gioca 24 volte da titolare in campionato segnando a Foggia, Cagliari e Inter. Un’annata che finisce con due assist nel match col Milan di Capello. I rossoneri, colpiti da quel ragazzino, in estate ci investono 9,5 miliardi di lire e la metà del cartellino di Roberto Lorenzini (valutato altri 2 miliardi). Panucci aveva già firmato con la Juve per la gioia del suo presidente Spinelli: «Ma mi sono tenuto i fogli. Il Milan allora era la squadra più forte del mondo, quando ha bussato alla porta ho detto subito di sì». Scelta azzeccata perché, nonostante la presenza di Tassotti, si impone come terzino destro titolare. In tre stagioni vincerà sei titoli.

Primo italiano di sempre al Real Madrid

Durante gli anni al Milan lo chiamano in tanti, fra cui anche Mazzone che lo avrebbe voluto volentieri alla Roma. Saluta tutti nel gennaio del ‘97 destinazione Real Madrid, dove ritrova il suo amato Capello («Uomo vero, mi ha voluto ovunque»). È il primo italiano di sempre a indossare la maglia dei Blancos, con cui vince in Spagna e in Europa: «Aver lasciato Madrid è un rimpianto», svelerà successivamente. Nel luglio del ‘99 si trasferisce all’Inter per 18 miliardi di lire. Sulla panchina dei nerazzurri c’è Lippi, con cui però il rapporto si guasta dopo poco.

La lite con Lippi che gli costò il Mondiale 2006

Stagione 1999/2000, passano otto mesi e fra Lippi e Panucci vola di tutto. Arriva aprile, durante un Inter-Bari l’allenatore ordina al suo difensore di entrare in campo (per lui era la seconda panchina consecutiva). Christian però non risponde, da lì viene rispedito a sedere. La domenica successiva non viene convocato per la trasferta di Perugia: «Basta, mi sono rotto le p.... Bisogna essere seri, mi riferisco a Panucci e a tutti gli altri. Ha fatto qualcosa di gravemente scorretto nei confronti di società, allenatore, panchina e compagni». Da lì la risposta piccata: «Ci sto se mi si accusa di non aver risposto, ma non accetto che si inventi che non volevo entrare. Questa reazione mi sembra troppo pesante». Morale della favola, a fine stagione Panucci saluta tutti e va al Chelsea: «Per questa antipatia reciproca ci ho rimesso i Mondiali del 2006. Ero ai miei massimi, stavo bene. Ci ho sofferto, ma alla fine ha vinto lui».

Quando con Spalletti si rifiutò di andare in panchina

Carattere forte quello di Panucci, che ha litigato (e poi chiarito) con quasi tutti gli allenatori avuti in carriera. Compreso Spalletti, della cui Roma è stato un punto fermo. Gennaio 2009, i giallorossi sono di scena a Napoli. L’allenatore toscano preferisce Cassetti a Christian, che non la prende bene e si rifiuta di sedersi in panchina. Punizione immediata: non viene convocato per cinque gare, fino alle scuse del difensore che però nel frattempo viene anche escluso dalla lista Champions. Sarà quello il suo ultimo anno alla Roma (andrà al Parma). Un nuovo battibecco fra i due si avrà nel 2017 in tv: Spalletti, alla guida dell’Inter, toglie Dzeko che sta lottando per la classifica cannonieri: «Sei stato poco rispettoso», lo sfida Christian, nel frattempo diventato opinionista: «Se dite così siete limitati come allenatori», la replica. Ma alla fine rientra tutto: «Christian ti voglio bene»; «Anche io Luciano, lo sai che mi piace litigare con te»

La valigia che lo salvò dal disastro aereo

Ha avuto una carriera meravigliosa Christian, che però ha rischiato di non poterla vivere. Nel 1996, quando è ancora un ragazzo che vince trofei su trofei col Milan, per puro caso non sale su un Jumbo della Twa esploso subito dopo il decollo da New York. Il biglietto era già in mano all’hostess, quando il destino ha voluto che, andando alla ricerca del suo bagaglio smarritosi nel trasferimento da Atlanta a Cincinnati e poi all’aeroporto Kennedy, il giocatore trovasse un volo diretto per Milano. Un miracolo, nato da un incubo. Doveva giocare le Olimpiadi di Atlanta con la Nazionale, ma in allenamento si fa male al ginocchio e si trova costretto a tornare anzitempo a casa. Lo ha fatto, ma col volo giusto, evitando la tragedia.

I reality e una vita sentimentale movimentata

Di lui si è parlato sul campo, ma anche fuori. Vita sentimentale movimentata: per sette anni è stato insieme a Isabel Luiz, attrice spagnola con cui si è sposato e dalla quale ha avuto anche un figlio. La storia tuttavia finisce male e Christian ritrova l’amore con Rosaria Cannavò, allora meteorina di Sky Meteo 24. Si lasciano e si rimettono insieme più di una volta, poi la rottura definitiva: «È finita perché le ho detto che non avrei fatto un figlio con lei. Non c’erano le basi giuste per creare una famiglia», rivelerà a Diva e Donna. Infine Samanta Togni, conosciuta nel 2017 sulla pista di Ballando con le Stelle. I due si lasciano nel 2019.

La rissa con Preziosi: «Ti spacco la testa»

Dicembre 2009, Genoa e Parma regalano spettacolo sul campo, quattro gol e tante emozioni. Nel post gara però succede di tutto. Protagonisti Panucci e l’allora presidente dei rossoblu Enrico Preziosi: «Ti spacco la testa, ti faccio una testa così, io non sono un ragazzino, impara a parlare italiano», l’ira del difensore dopo uno scambio di battute ravvicinato. Per placare Christian è necessario l’intervento dei compagni e di un paio di carabinieri. Preziosi resta immobile, poi spiegherà: «Si lamentava del mancato ingaggio al Genoa di questa estate e io gli ho risposto che di certe cose non me ne occupo. Quindi lui si è risentito e ha detto cose non belle», la sua versione dei fatti. Immediata la precisazione del giocatore: «Gli ho ricordato come l’estate scorsa, quando ero ancora senza squadra, mi avesse lasciato due giorni in albergo a Milano, in attesa di un incontro. Mi sono solo limitato a ricordargli questo episodio, aggiungendo testualmente che non sono più un ragazzino di 20 anni e che nella vita bisogna sapere campare. Per tutta risposta ho ricevuto una manata al collo».

Alessandro «Billy» Costacurta.

Estratto dell'articolo di I. C. per “la Repubblica” il 21 aprile 2023.

Ha perso la testa sul taxi, una sfuriata sembra senza motivo. Ha preso a calci e pugni i sedili, ha lanciato oggetti fuori dal finestrino. Poi se l’è presa con un vicecommissario della polizia locale al quale la tassista aveva chiesto aiuto, vista la situazione, dandogli un pugno in faccia. E in tasca aveva qualche grammo di hashish. 

Ha rischiato l’arresto Achille Costacurta, figlio diciottenne dell’ex calciatore del Milan e della Nazionale Alessandro, “Billy”, e della modella, attrice e conduttrice televisiva Martina Colombari. In serata Costacurta junior ha pubblicato un messaggio di scuse sui social rivolto alla polizia di Stato. 

(...)

È quando il vicecommissario dei vigili gli si avvicina, apre la portiera e lo invita a calmarsi, che di tutta risposta si prende un pugno in faccia, vicino all’occhio. Una botta guaribile, secondo i medici del Policlinico che lo hanno visitato, con sette giorni di prognosi. Il giovane viene a quel punto immobilizzato, i polsi chiusi in fascette di plastica e portato in via Custodi, all’Ufficio centrale arresti e fermi. Sentito il magistrato di turno, il diciottenne è stato denunciato a piede libero per lesioni, resistenza a pubblico ufficiale e spaccio e detenzione di droga. Reati che possono prevedere anche l’arresto in flagranza. Ma il giovane, incensurato, se l’è cavata con una denuncia. 

All’alba di mercoledì è il padre Billy a recuperarlo e a portarlo a casa. Di recente Costacurta junior era diventato noto al grande pubblico per la partecipazione con la madre Martina al programma Pechino Express . La coppia “mamma e figlio” era stata eliminata giovedì scorso dal programma, registrato, che sta andando in onda su Sky in queste settimane.

Aveva inoltre alimentato una polemica con Fedez che, quando lui era piccolo, gli avrebbe rifiutato un autografo in modo sgarbato in un ristorante. Lui stesso, in televisione aveva raccontato di essere quasi dipendente da social e telefonini. In passato era già stato al centro non solo di alcune intemperanze, ma anche di un procedimento penale al Tribunale per i minorenni. Nel 2021, su Instagram, lui stesso aveva denunciato di essere stato aggredito da alcuni poliziotti a Parma, accuse alle quali non seguì però alcuna denuncia.

 Estratto da corrieredellosport.it il 21 aprile 2023.

Achille Costacurta contro Fedez. Sui social network il figlio di Martina Colombari e dell'ex calciatore Billy ha ricordato un aneddoto della sua infanzia, attaccando senza mezzi termini il rapper nonché marito di Chiara Ferragni. 

Achille ha spiegato che quando era solo un bambino aveva incontrato il cantante in un ristorante e gli si era avvicinato per chiedergli un autografo e una foto. Invece di assecondare le richieste del piccolo, però, Fedez gli disse che non poteva perché era "impegnato a mangiare".

Achille Costacurta, che di recente ha partecipato a Pechino Express con la madre, non ha esitato a definire Fedez "uno str****". Poi ha così concluso il suo sfogo: "Forse adesso non lo farebbe perché ha dei figli? Anzi, fate una cosa: chiedetegli se ancora oggi rifiuterebbe una foto con un bambino". Al momento il giurato di X Factor non ha ancora replicato.

Achille Costacurta, chi è il figlio di Martina Colombari e dell'ex calciatore Billy. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 21 aprile 2023

Il ragazzo, eliminato dal reality Pechino Express dove ha partecipato con la madre, al centro di un caso di cronaca che lo vede coinvolte. Alle spalle ha diverse tensioni con i genitori e alcuni problemi con la legge

Chi è Achille Costacurta

Achille Costacurta, figlio di Billy Costacurta e Martina Colombari, è protagonista di un fatto di cronaca il 19 aprile. E’ stato denunciato per resistenza e violenza a pubblico ufficiale: il giovane avrebbe dato un pugno al volto a un vigile intervenuto dopo una sua sfuriata su un taxi. L'aggressione ha portato al giovane una denuncia a piede libero per resistenza e violenza a pubblico ufficiale. Il giorno dopo sono arrivate le scuse. Achille Costacurta, nato nell’ ottobre 2004 è l’unico figlio nato dal matrimonio di mamma Martina Colombari e papà Alessandro Costacurta. Ha frequentato la Scuola Paritaria Loviss, nelle Marche, e ha detto fin da subito che la sua idea era quella non di seguire il calcio come il papà bensì lo spettacolo e la moda, come la madre che però non ha mai nascosto la passione del figlio per il mondo della cucina.

Le accuse nel 2021

Nel 2021, su Instagram, Achille Costacurta aveva detto di essere stato picchiato da alcuni poliziotti a Parma e aveva riportato una perforazione del timpano. Sembra che avesse violato il coprifuoco in vigore durante il lockdown. Accuse molto pesanti senza alcun seguito.

Il rapporto con i genitori

Il ragazzo pare abbia avuto, come molti giovani coetanei, un momento molto difficile durante il lockdown da Covid-19. Nel 2021, sono stati gli genitori a raccontare di aver affrontato un percorso con uno psicologo a causa delle continue liti con il figlio: "Chiedere un aiuto esterno da un esperto o uno psicologo, nei momenti di difficoltà, non è qualcosa di cui ci si debba vergognare" avevano spiegato.

Pechino Express

Achille Costacurta e sua madre Martina Colombari hanno partecipato all’edizione 2023 di “Pechino Express” e sono stati eliminati il 14 aprile. La coppia "mamma - figlio" era piaciuta per la grande sintonia, nonostante avessero affrontato qualche momento di crisi. Durante le ultime puntate del programma, il ragazzo aveva manifestato episodi di rabbia e gestione della tensione che la madre era riuscita a contenere con qualche difficoltà.

L’attacco a Fedez

Achille recentemente ha attaccato duramente Fedez, ricordando uno sgarbo che il cantante gli fece quando lui era piccolo. "Questo str***o. Quando avevo l'età di Leone io gentilmente gli ho chiesto una foto e lui sgarbatamente mi ha mandato via dicendo che doveva mangiare", ha raccontato su Instagram

La lite con la madre

Prima della eliminazione da Pechino Express, Achille Costacurta è stato protagonista in puntata di una discussione vivace con la madre Martina Colombari. Achille in crisi non vuole aiutare la madre a completare la prova. Martina Colombari era andata su tutte le furie.

Denunciato, chiede scusa. Chi è Achille Costacurta, figlio del difensore del Milan Billy e Martina Colombari: da Pechino express al pugno al vigile. Redazione su Il Riformista il 21 Aprile 2023 

Prima la partecipazione al programma Pechino Express insieme alla mamma ed ex modella Martina Colombari, poi il colpo di testa (non come quelli che il padre Billy Costacurta faceva sul rettangolo verde per difendere la porta rossonera), bensì in un taxi milanese condito da un bel pugno in faccia ad un vigile e conseguente denuncia per resistenza e violenza a pubblico ufficiale.

Achille Costacurta non deve aver mandato giù l’eliminazione dal reality e si è reso così protagonista di un brutto episodio che è finito prima sulla cronaca meneghina poi, rimbalzando sui social, su quella nazionale. E non sarebbe neanche la prima volta.

L’unico figlio di casa Costacurta è stato denunciato per resistenza e violenza a pubblico ufficiale: il giovane avrebbe dato un pugno al volto a un vigile intervenuto a seguito di una sua sfuriata su un taxi. L’aggressione ha avuto come conseguenza una denuncia a piede libero per resistenza e violenza a pubblico ufficiale. Poi è arrivata l’ora delle scuse alla polizia di Stato con una storia sul proprio profilo Instagram. “Scusa”: questo il messaggio postato dal giovane dopo l’episodio.

Nel 2021, su Instagram, lo stesso Achille affermava di essere stato picchiato da alcuni poliziotti a Parma, riportando una perforazione del timpano. Sembra che avesse violato il coprifuoco anti-contagio. Accuse gravissime, che però non ebbero nessun seguito.

Achille Costacurta è nato il 2 ottobre 2004, quattro mesi dopo il matrimonio dei genitori. Ha frequentato la Scuola Paritaria Loviss, nelle Marche, e benché da piccolo tifasse per l’Inter ora tifa per il Milan (squadra dove ha giocato il padre). Come lavoro, ha detto che intende seguire il mondo della moda e dello spettacolo – come la madre – anche se Martina Colombari ha rivelato che il figlio ha anche una grande passione per la cucina. Su Instagram ha circa 60mila follower.

Nel 2021 i genitori hanno raccontato di aver affrontato un percorso con uno psicologo a causa delle continue liti con il figlio: “Chiedere un aiuto esterno da un esperto o uno psicologo, nei momenti di difficoltà, non è qualcosa di cui ci si debba vergognare”, spiegarono.

“Per lui siamo l’esempio vivente che l’università non sia fondamentale – aveva raccontato la coppia ad un giornale – Dice: a voi non è servita. Ora si è convinto che vorrebbe aprire un ristorante. Ma prima deve fare gavetta da cameriere, trovarsi un socio, lavorare sulla creatività e sul marketing. È difficile spronarlo senza demotivarlo”.

Il 18 aprile il giovane aveva attaccato duramente Fedez, ricordando uno sgarbo che il rapper gli fece quando lui era ancora un bambino. “Questo str***o. Quando avevo l’età di Leone io gentilmente chiedo una foto e lui sgarbatamente mi manda via dicendo che doveva mangiare”, ha raccontato condividendo un video di Chiara Ferragni. “Per non fare il suo gioco, il mio papi mi ha preso ed è andato a casa”.

Anticipazione da “Oggi” il 12 aprile 2023.

«A un certo punto mi sono ripresa Martina». Martina Colombari è fotografata da Maki Galimberti sulla copertina di OGGI, in edicola domani con una intervista nella quale l’attrice ed ex modella racconta la sua evoluzione.

 «A 40 anni ho iniziato a smontare i miei pezzi e a rimontarli. È successo quando ho sentito che non dovevo più dimostrare che, oltre a essere bella, ero anche brava». L’attrice, in scena in teatro con “Fiori d’Acciaio” e su Sky con “Pechino Express”, spiega a OGGI come ha imparato ad amarsi davvero: «Lo scopo non era avere un corpo bello ma un corpo sano. Senza scorciatoie, con un’attenzione e una cura costanti… Teatro, meditazione e yoga mi hanno aiutata molto.

 Ma soprattutto un po’ di egoismo, iniziare a fare solo quello che mi andava davvero. Ho capito che il mio tempo non è infinito e non ha senso spenderlo con chiunque. E che gli altri devi accettarli per quello che sono e possono darti. Questo ha cambiato anche il mio rapporto con mio padre».

Un’evoluzione che, racconta, ha avuto effetti positivi sulle sue relazioni con gli altri, a cominciare dal figlio Achille («Si è alleggerito il senso di colpa che avevo nei confronti di mio figlio ogni volta che mi allontanavo per lavoro o altro. Ho capito che lui e Ale stanno anche meglio quando non ci sono») e dal marito Alessandro Costacurta: «Siamo insieme da 27 anni. Abbiamo trovato un equilibrio… Mio marito ha apprezzato il mio cambiamento. Mi vede più serena, contenta, soddisfatta. Con una consapevolezza diversa da quella che avevo. Il nostro è amore. Lui mi sprona, mi invita a mettermi alla prova come nessuno aveva mai fatto prima».

Estratto dell'articolo di Monica Colombo per corriere.it il 5 febbraio 2023.

«Lo sa che nei 27 anni in cui siamo insieme non abbiamo mai fatto un’intervista di coppia? Ale sei pronto?». Bastano pochi minuti per comprendere che, del duo più longevo del mondo dell’entertainment, Martina Colombari sia l’attaccante mentre Alessandro «Billy» Costacurta governa la difesa anche a casa. Per lo meno a parole. «Io sono romagnola, aperta, curiosa, ascolto le conversazioni di chi mi siede accanto ai tavoli . Lui è un po’ bacchettone, un soldato austro-ungarico. Potremmo essere il bianco e il nero se separati, ma formiamo il grigio insieme».

 Costacurta, arcigno con i centravanti che ha affrontato in carriera e severo nei giudizi che esprime nel salotto di Sky, ascolta divertito e con il sopracciglio inarcato. «Non so quale sia la formula magica per resistere così tanto tempo insieme. Certamente abbiamo parecchie diversità ma pure molti elementi in comune. E poi c’è nostro figlio Achille che è il collante di tutto».

Gli aspetti che vi uniscono?

Martina: «Non riusciamo a stare lontani ma contemporaneamente abbiamo bisogno dei nostri spazi. Insieme andiamo al cinema, a teatro, in vacanza ma poi ciascuno ha le proprie attività o la possibilità di staccare tre-quattro giorni separati. Tipo stasera andrò a vedere un film con un’amica, lui è più casalingo. È un po’ rigido nei giudizi, è poco tollerante. “Vedrai che arriverai in ritardo...” mi rimprovera. Ma io ho iniziato a lavorare a 16 anni e non ho mai perso un treno».

 Alessandro: «Alla fine siamo rimaste persone normali. Nel senso che abbiamo l’opportunità di partecipare a feste meravigliose o viaggiare in località di tendenza ma poi trascorriamo in estate tanto tempo a Riccione, dove mangiamo in spiaggia con i piedi sulla sabbia, o andiamo all’Alpe di Siusi, che abbiamo scoperto di recente».

Ammetterete che non è semplice resistere in un ambiente dove le tentazioni non mancano.

Martina: «Non necessariamente, le situazioni promiscue esistono in tutti i settori».

Alessandro: «Mi sono abituato con il tempo al fatto che lei riceva più attenzioni».

 Martina: «All’inizio se fossi uscita a pranzo con un regista sarebbero partite le discussioni, ora l’ha accettato».

Alessandro: «L’ho fatto perché la rispetto. Non mi si può accusare di essere geloso se ho permesso tutto questo. Mi sono adeguato agli effetti collaterali del suo lavoro. Io di certo non sono mai stato fotografato».

Martina: «Ale non è mai uscito da solo a cena con una donna».

 Rewind. Come vi siete conosciuti?

Alessandro: «Lo devo raccontare io. Era il 1996 e un giorno un amico comune, Piero Gaiardelli, sembrava essere al telefono con Martina Colombari. Gli ho strappato il telefono di mano e ci siamo brevemente parlati. Trascorrono pochi giorni e arriva la settimana della moda. Io e Christian Panucci una sera piombiamo al ristorante con sette modelle e al tavolo accanto ci sono Martina, con la mamma e la zia».

Martina: «Mia mamma lo indica pure con il dito. “Ma lui è quel bel giocatore del Milan?”».

Alessandro: «Dopo quella sera chiamo Giorgio Armani alla cui sfilata Martina avrebbe partecipato per ottenere un posto in prima fila e il resto è storia».

Lei era già separato?

Alessandro: «Sì da un anno. Però lei non ha idea dell’insistenza che Martina ha mostrato quando ha saputo che avrei potuto chiedere l’annullamento del matrimonio alla Sacra Rota. Ho dovuto portare un gruppo di amici al tribunale ecclesiastico per le testimonianze».

 Come è stato l’ingresso di Martina, celeberrima ex Miss Italia ancorché nota per la liaison con Alberto Tomba, nel mondo del pallone?

Martina: «Non facile, sono stata vista come quella famosa che ha portato via Costacurta alla moglie. Se molte di loro erano le compagne di, io avevo già un nome e la mia vita. Faticavano a rivolgermi la parola e all’epoca ci rimanevo male. Oggi a 47 anni certamente gestirei la situazione in maniera diversa».

Alessandro: «Alcune fidanzate dei giocatori erano amiche della mia ex moglie, per cui si era generata la dinamica tale per cui fosse scontato che diventassero “nemiche” di Martina. Magari c’era anche una punta di gelosia nei suoi confronti perché se lei veniva allo stadio tutti parlavano del fatto che in tribuna ci fosse la Colombari».

 La più bella d’Italia ha un difetto?

Alessandro: «Ha la mania di voler avere sotto controllo tutto ciò che gli gravita attorno».

Martina: «Ammetto la presunzione di avere sempre contezza di ciò che fa mio figlio Achille anche se ha diciotto anni ed è maggiorenne. I ragazzi di oggi non conoscono il significato delle parole spazio e tempo. Sono focalizzati sul presente, sull’ottenere tutto e subito, senza sacrifici».

 (...)

Jesper Blomqvist.

Estratto dell'articolo di Paolo Fiorenza per fanpage.it il 24 gennaio 2023.

 Nel 1999 Jesper Blomqvist toccava la gloria sportiva riservata a pochissimi vincendo il Triplete col Manchester United, oggi a distanza di 24 anni la vita dell'ex milanista è quanto di più lontano potesse immaginare allora: il centrocampista svedese ha sposato la causa dei fornelli, anzi del forno a legna, visto che è diventato un pizzaiolo in patria. […]

La sua pizzeria ‘450 gradi' – in cui serve pizza rigorosamente "napoletana", come ci tiene a puntualizzare – è un locale molto noto a Lidingö, un'isola che si trova nella contea di Stoccolma, ed è stata premiata per tre anni di fila dal Gambero Rosso.

[…] Blomqvist, arrivato nel mercato invernale, finì la sua avventura a Milano con 19 presenze e un gol in Serie A, salutando il Diavolo nel settembre successivo per trasferirsi al Parma di Crespo e Chiesa Sr. Anche qui durò un solo anno, approdando in Premier League allo United, dove avrebbe vinto tre campionati, la Champions leggendaria con l'incredibile rimonta in finale sul Bayern Monaco dopo il 90′ (giocò da titolare per le squalifiche di Keane e Scholes), la Coppa d'Inghilterra e l'Intercontinentale. […]

Quello che invece gli è stato tolto, anche per qualche investimento improvvido, è il denaro guadagnato in carriera. "Devo dire che è dura quando le persone mi chiedono che cosa sto facendo oggi e io rispondo: ‘Ho una pizzeria'. È difficile per il modo in cui la gente mi guarda, dall'alto in basso, poi gli devo spiegare che è la pizzeria migliore! Sono stato sfortunato o non abbastanza attento, non ho riconosciuto che non tutti sono onesti.[…]".

Blomqvist ha fatto capire cosa è accaduto ai suoi soldi, li ha affidati alle persone sbagliate nei suoi ultimi anni da professionista: "Sono stato sfortunato o non abbastanza attento, non ho riconosciuto che non tutti sono onesti. […]".

 Il tempo è stato galantuomo con l'ex centrocampista di Milan e Parma, la cui abilità da cuoco gli è valsa la partecipazione a Sveriges Masterkock VIP, l'edizione svedese di Masterchef nella sua versione dedicata alle celebrità. Ed anche in questo caso Blomqvist si è confermato un numero uno, uscendo vincitore dalla finale. […]

Alberto Zaccheroni.

Alberto Zaccheroni: «Dalla caduta al coma, un mese di cui non ricordo nulla. Mi sveglio: che ci faccio qui?». Monica Colombo su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2023

Alberto Zaccheroni parla per la prima volta dell’incidente del febbraio scorso: «Ho un problema con la memoria a breve. Ho ripreso a vedere le partite in tv, voglio ripartire» 

«Mi ha trovato mia moglie Fulvia accasciato a terra, in fondo alle scale. Dice che ero in un lago di sangue, con la testa aperta e un occhio fuori dall’orbita. Sono vivo per miracolo, ma del mese in terapia intensiva non ricordo nulla». Alberto Zaccheroni , l’allenatore che ha guidato entrambe le squadre di Milano e Torino, prima di dirigere le nazionali del Giappone e degli Emirati Arabi, parla per la prima volta del trauma cranico riportato nell’incidente domestico del 10 febbraio scorso.

Cosa ricorda di quel venerdì pomeriggio?

«Nulla, so solo quello che mi ha raccontato mia moglie che era con me a casa a Cesenatico. Lei era al piano terra, io stavo verosimilmente scendendo le scale e sono scivolato. Sono ruzzolato per otto-dieci gradini. Lei è accorsa perché ha sentito le mie urla. Avevo battuto la testa, può immaginare il suo spavento».

È riuscito a ricostruire il motivo della caduta?

«Poiché c’era la cagnolina di Luca, mio figlio, si pensa che l’avessi in braccio e mi sia proteso in avanti per proteggerla dal tonfo».

Quindi non riesce a rievocare nemmeno i momenti successivi?

«Ma no. Fulvia ha chiamato il 118, mi hanno portato di corsa all’ospedale Bufalini di Cesena dove sono stato ricoverato in terapia intensiva. Mi hanno sedato, non ero vigile».

L’indomani fu operato?

«Si era necessario l’intervento per ridurre l’emorragia. Ho una grossa cicatrice sulla testa a ricordarmelo. Mi avevano intubato, avevo il sondino».

Qual è la prima immagine di cui ha memoria quando la svegliano dal coma?

«Nella stanza c’era solo il personale medico, non era stato ammesso nessun familiare. Mi siedo e mi guardo le gambe: dopo un mese steso a letto, sembravano quelle di un anziano. ‘Dove sono finiti i miei muscoli?’ ho chiesto incredulo».

Si reputa fortunato per quello che le è capitato?

«Ho rischiato la vita, non giriamoci attorno. La botta è stata tremenda, il grande sollievo è non aver riportato danni cerebrali».

Dopo un mese di ricovero, il 10 marzo inizia a vedere la luce in fondo al tunnel.

«Quel giorno sono stato trasferito per la riabilitazione all’ospedale Marconi di Cesenatico. Ho fatto fisioterapia, lavorato con logopediste. Devo ringraziare i medici e tutto il personale dei due istituti che mi hanno seguito. Sono stati straordinari. Noi spesso diamo per scontato il loro lavoro ma se cammino mentre parlo con lei, devo dar merito ai dottori».

Che paziente è stato?

«Sono stato dimesso il 22 aprile, ho atteso qualche giorno e poi sono andato a salutare il personale del Bufalini. Non ho riconosciuto neanche l’ospedale. A Fulvia ho detto “ma che posto è?”. Le infermiere mi hanno riferito che sono stato ribelle, mi agitavo e mi strappavo i tubicini».

Da ricoverato ha festeggiato un compleanno non banale?

«Sì il 1 aprile ho compiuto 70 anni, una cifra tonda. Sono consapevole di aver rischiato di non arrivarci vivo. Quel giorno non pensavo ai 70 anni, ero concentrato sul recupero».

Come sta adesso?

«Ho perso due diottrie dall’occhio, il male minore considerando il danno iniziale. Sono senza patente perché prima di riottenerla dovrò sostenere dei test e ho qualche deficit di memoria a breve».

Come sono le sue giornate?

«Voglio riprendere in mano la mia vita, devo riuscire a tornare in possesso della quotidianità. Se prima camminare era un hobby, adesso è una necessità. Ieri ho fatto 10 chilometri, mi sto impegnando a recuperare tono muscolare».

In questi giorni di devastazione in Romagna, Cesenatico ha avuto danni?

«Grossi no, anche se la mareggiata ha mangiato parte del litorale. Mio figlio ha uno stabilimento balneare e quindi il problema ci tocca da vicino».

Saprà rialzarsi anche stavolta l’Emilia Romagna?

«Siamo geneticamente gente laboriosa, ci risolleveremo. Anche se occorrerà trovare una soluzione al fatto che lo scorrimento dell’acqua non abbia incontrato ostacoli. Sa cosa mi ha colpito? La coscienza civile dei ragazzi. In tanti si sono messi a disposizione, come volontari, per aiutare».

Il calcio le manca?

«Ho ricominciato a guardare le partite in tv. Sarei dovuto andare in panchina per la prossima gara della Nazionale italiana Non Profit di cui sono c.t. dallo scorso anno, ma ho preferito rinviare a quando mi sarò completamente ristabilito. Riprenderò anche gli incontri tecnici della Fifa».

Quante chances ha l’Inter di vincere la Champions?

«Se parlassimo di un torneo nella sua interezza, il pronostico secco dice Manchester City. Ma in una gara unica l’Inter se la può giocare. Se la squadra di Inzaghi si mantiene tosta e compatta, con i giocatori di personalità che ha, può succedere di tutto».

Questa esperienza ha cambiato il suo rapporto con la religione?

«No, la forza me l’hanno data i miei familiari che non mi hanno lasciato un attimo e i sanitari che hanno fatto un capolavoro».

Carlo Ancelotti. 

(ANSA il 10 Gennaio 2023) Eletto miglior allenatore del mondo (davanti a Pep Guardiola e al ct del Marocco Walid Regragui) dalla federazione mondiale degli statistici del calcio, Carlo Ancelotti ha parlato a Riad dove domani il suo Real Madrid affronta il Valencia per la Supercoppa spagnola, sfida che si gioca in Arabia Saudita dove per lanciare definitivamente il calcio vogliono fare le cose in grande. Anche con l'amichevole, più volte annunciata dai media locali, di giovedì 19 tra il Paris SG e una mista dei migliori giocatori di Al-Hilal e Al-Nassr.

 Nelle intenzioni di chi organizza, e di chi c'è dietro, dovrebbe essere l'ennesima sfida, la prima in terra saudita, tra Messi e Cristiano Ronaldo, ma il tecnico dell'Al-Nassr Rudi Garcia ha fatto presente di non poter garantire la presenza di CR7, che secondo lui dovrebbe esordire nel match di campionato di domenica 22. Si vedrà se riusciranno a fargli cambiare idea, intanto la parola è passata ad Ancelotti per questa sfida che per lui è doppia in quanto sull'altra ci panchina ci sarà un suo giocatore ai tempi del Milan, quel Rino Gattuso con il quale il tecnico del Real ha detto oggi di aver passato "momenti molto belli, abbiamo vinto due Champions League".

"Dopo il rapporto non è sempre stato buono - ha aggiunto Ancelotti -, perché abbiamo avuto dei problemi personali, ma non voglio parlarne". "Da quel Milan che ho allenato - ha detto ancora - sono usciti fuori molti tecnici, ognuno con un proprio stile: Gattuso, Pippo Inzaghi, Nesta... Le squadre di Gattuso sono molto intense, lui dà un'identità molto chiara". Inevitabile una battuta su un altro suo ex giocatore, Cristiano Ronaldo. "Lui e Bale (che ha appena annunciato il ritiro ndr) sono stati delle leggende del nostro club - le parole dell'allenatore del Real Madrid - e io auguro loro il meglio. Comunque la migliore dimostrazione di ciò che vogliono ora in Arabia Saudita è la presenza di Cristiano qui".

Ancelotti-Gattuso e quella telefonata mai arrivata: così si è rotto un rapporto. Monica Scozzafava su Il Corriere della Sera il 12 Gennaio 2023.

Il rapporto tra i due si è incrinato ai tempi dell'avvicendamento sulla panchina del Napoli. Ancelotti manda un messaggio a Gattuso: «Ti ha chiamato De Laurentiis?». E quell'altro: «No, te lo direi se così fosse». Poi l'esonero e un chiarimento mai arrivato

Una telefonata mai arrivata, una bugia anche mal detta in un messaggio confidenziale. Così la panchina, quella del Napoli, passata sottotraccia da Ancelotti a Gattuso, è diventato l’alto tradimento di un’amicizia ventennale. «Pensavo fosse amore, invece era un calesse»: per Carletto è un epitaffio.

Il saluto, ieri sera prima della Supercoppa di Spagna tra Real Madrid e Valencia, semifinale finita ai rigori per i Blancos 5-4 , si è risolto in un abbraccino freddo, convenzionale, ed è stato Rino a cercarlo. Ancelotti lo ha battuto sul campo, ma è un’altra storia. Non ha perdonato il compagno di mille battaglie che a Napoli prese il suo posto senza dirgli nulla. Il calcio è un dettaglio, l’allenatore più vincente d’Europa è uomo di mondo e sa stare alle regole, a volte brutali, del pallone. L’amicizia però esige verità, anche quando non è gradita. Carlo e Rino, padre e figlio. Ma anche amici, fratelli. Insieme hanno scritto la storia del Milan, forti di una complicità che è stata ancor più forte fuori dal campo. Diciassette anni di differenza, radici diverse. Stili opposti. Saggio e pacioso Ancelotti, istintivo e litigioso Gattuso.

Sono però i sentimenti a tenere saldo il rapporto che negli anni ha superato distanze geografiche e anche qualche inevitabile frizione. Fino a quella telefonata che Ancelotti ha aspettato per giorni e che non è arrivata. Aurelio De Laurentiis stava esonerando Carlo e parlava con Gattuso, il successore. Carletto non avrebbe giudicato il figlioccio che sfruttava la grande occasione. Il licenziamento sarebbe stata sì una ferita ma relativa rispetto al dolore del tradimento. Gli aveva anche inviato un messaggio: «ti ha chiamato De Laurentiis?».Perché qualcuno gli aveva sussurrato le manovre di casa Napoli. Rino senza esitare: «No, te lo direi se così fosse». Il giorno 8 dicembre del 2019, dopo il 4-0 allo Genk in Champions, De Laurentiis manda via Ancelotti. E annuncia Gattuso. Il telefono non squilla, né ci sono parole tra i due quando s’incontrano nel centro sportivo di Castel Volturno: Carlo raccoglie le sue cose e saluta i dipendenti, Rino arriva con il suo staff. Ed evita il confronto, evita anche l’incrocio di sguardi. Storia di un amore che finisce nel silenzio e che si sostanzierà qualche tempo dopo di telefonate di circostanza, veloci. L’ultima, come ha rivelato Gattuso, un anno fa.

La polvere finisce sotto il tappeto e Ancelotti dopo più di tre anni, alla vigilia della sfida con l’ex amico, la (ri)solleva. «Con Gattuso ho avuto problemi personali». Rino poco prima, riconoscendo la palma di migliore al suo maestro, evita di rispondere a domande sui motivi reali della lite. «I media a quel tempo— dice— parlavano di una squadra, il Napoli, che trovai non in ottima forma». In realtà sui giornali c’erano nient’altro che le sue parole. C’era anche scritto che per Gattuso «Ancelotti è un maestro, il migliore in circolazione».

Il resto è tutto un non detto. Come si conoscono Gattuso e De Laurentiis? Li presenta proprio Ancelotti a Capri nel giorno del suo 60esimo compleanno il 10 giugno. Festa con pochi intimi, un solo e imprescindibile amico. Rino era arrivato da Milano per lui, generoso, autentico come sempre. «Certi amori non finiscono», sussurra Gattuso con l’intima speranza di ristabilire un rapporto. Ancelotti, fresco del titolo di miglior allenatore del mondo, ha però nella testa una sua frase: «Quando sono arrivato a Napoli la squadra non stava bene fisicamente». Sarebbe bastata una telefonata.

Ancelotti-Gattuso: rapporti incrinati. La lite per il Napoli, cosa è successo. «Abbiamo avuto dei problemi». Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 10 Gennaio 2023.

Mercoledì a Riad la semifinale di Supercoppa di Spagna tra Real Madrid e Valencia, allenate dai due tecnici italiani. «Ho parlato con Carlo un anno fa. Ora il rapporto è un po’...», ammette Rino. La replica: «Problemi personali di cui non voglio parlare»

Erano come padre e figlio. Il maestro e l’allievo, Carlo Ancelotti e Gennaro Gattuso . Avevano un rapporto strettissimo, al punto che Rino era spesso l'unico ex calciatore invitato alle cene di compleanno di Carletto, ma negli ultimi anni si è incrinato. Il motivo? La difficile successione sulla panchina del Napoli nel 2019. Lo hanno oggi in qualche modo ammesso anche loro, rispettivamente allenatori di Real Madrid e Valencia, che domani si sfideranno in Supercoppa di Spagna a Riad, in Arabia Saudita. «Ho parlato con Carlo l’ultima volta un anno fa. Ora il rapporto è un po’…», spiega Rino, lasciando la frase in sospeso. Come a dire che le cose, in fondo, tanto bene non vanno.

Gattuso e l’ultima telefonata

«Quando sono andato al Napoli per qualche mese sui giornali si è parlato molto del fatto che la squadra non stesse bene quando c’era Carlo, non stava bene fisicamente — le parole di Gattuso al quotidiano spagnolo As —. In quei due anni (di gestione Ancelotti, ndr) alcune cose non sono state fatte bene», dice Rino, che accusa quindi il maestro di avergli lasciato i giocatori in pessime condizioni. Per poi aggiungere, come a smorzare i toni: «Ho un grande rispetto per lui. Per me è fenomenale come persona e come allenatore». E ancora: «Ancelotti è il miglior allenatore del mondo — continua Ringhio —. Viene da tre o quattro generazioni fa. E ha sempre la chiave per entrare nella testa dei giocatori. Indipendentemente dalle tattiche o dal suo modo di allenarsi, è il migliore per questo. Sembra facile ma non lo è».

La replica di Ancelotti

Poche ore dopo, conferenza stampa di Ancelotti, ed ecco la replica: «Insieme a Gattuso abbiamo vissuto momenti molto belli, abbiamo vinto due Champions, sono stati anni e situazioni che ricorderò per sempre. Poi… non sempre la relazione continua ad essere buona, abbiamo avuto dei problemi e non ne voglio parlare perché sono cose personali». Non tutto è andato per il verso giusto, insomma. E quando ad Ancelotti viene chiesto se Gattuso ha preso qualcosa del suo modo di allenare, la risposta è molto generica: «Dalle mie squadre sono usciti diversi allenatori, ora non li ricordo tutti ma penso a Seedorf, a Pirlo, a Gattuso. E poi a Nesta. E Shevchenko, e Inzaghi, che se me lo dimentico mi chiama sicuro. Può essere che qualcosa abbiano appreso da me, poi ognuno ci mette del suo. Le squadre di Gattuso giocano in maniera intensa e hanno un’identità molto chiara. Domani col Valencia sarà dura: sono intensi nella pressione, dovremo maneggiare al meglio la palla e giocare meglio in difesa di quanto non abbiamo fatto col Villarreal, dobbiamo essere più compatti». Riecco allora Gattuso, in conferenza stampa, dopo aver ascoltato le parole del collega: «Non si tratta di temi personali. In questo momento non devo dire nulla, c’è stato un problema di lavoro».

Cosa è successo a Napoli

Ma quindi, cosa è successo davvero in quelle ultime settimane del 2019? Perché da quel momento Ancelotti e Gattuso (insieme hanno vinto 11 titoli, tra cui due Champions League), prima sempre pronti ad elogiarsi a vicenda, hanno iniziato ad allontanarsi? Siamo a Napoli, la squadra è al secondo anno con Ancelotti in panchina, dopo aver sfiorato con Sarri lo scudetto. Dopo la partita in Champions contro il Salisburgo, il gruppo si rifiuta di tornare in ritiro a Castel Volturno, una decisione del presidente De Laurentiis osteggiata dal tecnico (che però in ritiro ci va). Il famoso ammutinamento, che tanti strascichi (anche legali) ha avuto negli anni successivi. Dopo questo episodio il Napoli esonera Ancelotti, il 10 dicembre 2019.Il giorno dopo arriva Gattuso. Il problema? Nella fase più critica per Ancelotti, prossimo all’esonero, De Laurentiis inizia a parlare con Gattuso, l’uomo scelto per sostituirlo. Che all’amico non dice nulla, non lo avvisa della successione in essere. Un comportamento che Ancelotti non gradisce. E, evidentemente, non gli ha mai perdonato .

Riccardo Montolivo.

Da tuttosport.com il 18 Settembre 2023

Dopo l'intervista sfogo e la risposta in conferenza di Max Allegri, continua a tenere banco il caso tra Bonucci e la Juventus. Il difensore azzurro, ora in forza all'Union Berlino, sta proseguendo la sua battaglia contro il club bianconero per veder risarciti i danni subiti dopo l'esclusione dalla rosa in questa nuova stagione. 

Bonucci è determinato nel proseguire la sua azione legale nei confronti della società che, come detto dal diretto interessato nell'intervista, ha umiliato il calciatore dopo 500 partite con la maglia della Juventus. La situazione tra Bonucci è stata argomento di discussione anche nel prepartita della sfida dello Stadium tra gli uomini di Allegri e la Lazio, sul tema è intervenuto Riccardo Montolivo che con il Milan ha vissuto una situazione simile a quella di Bonucci. 

Montolivo, che attacco a Gattuso

Parlando del caso Bonucci, Montolivo ha riservato un attacco frontale a Gennaro Gattuso, tecnico del Milan quando l'ex centrocampista è stato messo fuori rosa. Queste le sue parole sulla situazione di Bonucci: "Anche a me è capitato di finire fuori rosa, al Milan. Ho trovato un allenatore scorretto che senza neanche comunicarmelo di persona mi ha messo fuori rosa, in malafede. Per il bene della squadra ho preferito incassare". Questa l'opinione di Montolivo che aggiunge: "Non biasimo Bonucci, capisco la sua reazione, ma sarà una battaglia amara senza vincitori".

Gennaro Gattuso.

Da tuttonapoli.net il 10 Gennaio 2023.

"Ho parlato con Ancelotti, l’ultima volta un anno fa". Questa la rivelazione di Rino Gattuso, attuale tecnico del Valencia, che racconta ai microfoni As del rapporto col tecnico che aveva sostituito al suo arrivo al Napoli: "Quando giocavo, vivevo già da allenatore. Quando vedo che una persona che ti dà tutto vado al fuoco per lui. Quando ho visto qualcosa che non mi è piaciuto negli spogliatoi ho parlato per il bene della squadra, non per me stesso. Il rapporto era questo. Ora il rapporto è un po’…" si ferma Gattuso lasciando intendere che qualcosa si sia rotto tra i due.

 Gattuso poi aggiunge:  "Quando sono andato al Napoli per qualche mese sui giornali si è parlato molto del fatto che la squadra non stesse bene quando c’era Carlo… non stava bene fisicamente. In quei due anni alcune cose non sono state fatte bene. Ma ho un grande rispetto per lui".

Gattuso: Ancelotti e i rapporti incrinati, il Milan, la moglie scozzese, le frasi celebri. Chi è il tecnico del Valencia. Marco Letizia ed Arianna Ravelli su Il Corriere della Sera il 9 Gennaio 2023.

Gennaro Gattuso era un pitbull a centrocampo. I 13 anni al Milan, il Mondiale 2006, la panchina (e i successi con il Napoli). Chi è l'allenatore che crede nella sfortuna e che mangia panini dopo le sconfitte

Real Madrid-Valencia, ovvero Ancelotti contro Gattuso

Mercoledì si gioca Real-Madrid -Valencia semifinale della Supercoppa di Spagna. La sfida è soprattutto tra due allenatori Italiani, Carlo Ancelotti e Gennaro Gattuso: al Milan maestro e allievo, rapporto strettissimo tra i due che si è un po’ incrinato quando il secondo venne chiamato a Napoli a sostituire il primo, dopo il famoso «ammutinamento» dei calciatori, e non lo avvisò. Si è detto che Ancelotti ci fosse rimasto molto male. Dopo tanto tempo Gattuso dice la sua ad «As»: «Quando sono andato al Napoli per qualche mese sui giornali si è parlato molto del fatto che la squadra non stesse bene quando c’era Carlo… non stava bene fisicamente. In quei due anni alcune cose non sono state fatte bene. Ma ho un grande rispetto per lui. L’ultima volta che l’ho sentito è stato un anno fa. Sa che per me è fenomenale come persona e come allenatore». La stima però dell’ex allievo è rimasta immutata. «Ancelotti è il miglior allenatore del mondo — continua Ringhio —. Carlo viene da tre o quattro generazioni fa. E ha sempre la chiave per entrare nella testa dei giocatori. Indipendentemente dalle tattiche o dal suo modo di allenarsi, è il migliore per questo. Sembra facile ma non lo è». Poche ore dopo ecco la replica di Ancelotti: «Insieme a Gattuso abbiamo vissuto momenti molto belli, abbiamo vinto due Champions, sono stati anni e situazioni che ricorderò per sempre. Poi… non sempre la relazione continua ad essere buona, abbiamo avuto dei problemi e non ne voglio parlare perché sono cose personali».

L'arrivo al Milan e la metropolitana

Gennaro Gattuso, oggi, come detto, allenatore del Valencia dopo i famosi ventitrè giorni alla guida della Fiorentina, ha appena compiuto 45 anni: è diventato famoso non solo per le sue qualità come giocatore — un autentico pitbull a centrocampo —, ma è diventato presto un personaggio. Era arrivato al Milan da calciatore nel 1999 presentandosi con una gaffe: «Sono orgoglioso di essere arrivato in questa grande metropolitana», aveva detto il primo giorno agli ordini di Alberto Zaccheroni. Aveva 21 anni e partiva da un avvio in provincia (fra Perugia e Salernitana) e l’esperienza ai Rangers di Glasgow dove incrociò Gascoigne.

I successi di Ringhio in 13 anni in rossonero

È rimasto tredici anni al Milan diventando un idolo di San Siro («Ringhio» il soprannome affettuoso che il popolo milanista gli ha attribuito), un punto di forza della squadra di Ancelotti, uno dei pilastri dello spogliatoio dei primi anni Duemila (quelli culminati nei successi in Champions del 2003 e del 2007). Memorabile la camera tripla condivisa con Brocchi e Abbiati, punto di ritrovo notturno dei compagni. Ha vinto due campionati, una Coppa Italia, due Supercoppe Italiane, due Supercoppe Europee e un Mondiale per club. Dopo la delusione di Istanbul aveva pensato di lasciare il Milan. «Ci ho messo un bel po’ a riprendermi. Mi sentivo in colpa, non avevo più fiducia in me avevo un grandissimo peso addosso, avevamo perso una finale incredibile, per questo volevo cambiare aria».

La carriera di allenatore

Nell’estate del 2012 a causa di rapporti non propriamente idilliaci con Max Allegri («Se io e Nesta abbiamo fatto questa scelta è perché sentivamo che non eravamo voluti da Allegri»), ha lasciato il Milan per proseguire la sua attività da calciatore al Sion. Dove contemporaneamente ha mosso i primi passi anche da tecnico: finora la sua carriera in panchina ha avuto alti e bassi. Ha allenato il Palermo di Zamparini, mal sopportando le ingerenze del presidente, ha guidato l’Ofi Creta contribuendo a pagare gli stipendi dei giocatori, in Lega Pro ha lavorato a Pisa (ottenendo la promozione in B) nel bel mezzo di una crisi societaria. Poi l'avventura al Milan, due anni tra il 2017 e il 2019 chiamato da Fassone e Mirabelli al posto di Vincenzo Montella, terminati con una qualificazione alla Champions League sfumata per un punto e la rescissione del contratto (rinunciando a due anni di stipendio). Nel dicembre di quell'anno eredita il Napoli dal suo ex allenatore Carlo Ancelotti con la vittoria della Coppa Italia e la struggente dedica alla sorella Francesca da poco scomparsa, e l'esonero. Seguono poi i 23 già citati giorni alla guida della Fiorentina, con troppe divergenze con la dirigenza viola sul mercato e, dopo un anno sabbatico, arriva il Valencia.

Rino privato: la moglie scozzese

Sposato con Monica, conosciuta in Scozia dove il suocero aveva un ristorante a Glasgow, ha due bambini: Gabriella e Francesco. La famiglia in questi anni non si è mai spostata da Gallarate dove dai tempi rossoneri si è stabilita. Nella stessa cittadina ha una pescheria (per la cui inaugurazione intervenne anche Beckham) e un ristorante. È in contatto in chat con gli azzurri con cui divenne campione del mondo nel 2006 e ha coltivato lo stesso atteggiamento fumantino di quando nel primo derby affrontò Ronaldo e sotto il muso, dopo che il Fenomeno aveva rifilato una gomitata in faccia ad Ayala, gli urlò: «Gli hai fatto male pezzo di m... e mo te ne esci».

Le frasi celebri: la Nazionale e il cartellino

È diventato famoso non solo per le sue qualità come giocatore ma anche per le tante battute e frasi dette dentro e fuori i campi di calcio. Vediamone alcune. «Metterei una firma grande come una casa pur di vedere l’Italia in finale anche senza di me. Non penserò al cartellino, se lo faccio non gioco come so. Me lo mangio il cartellino» (prima della semifinale tra Italia e Germania del 2006)

Qualità tecnica

«Quando vedo giocare Pirlo, quando lo vedo col pallone tra i piedi, mi chiedo se io posso essere considerato davvero un calciatore» (ottobre 2007, prima di conquistare la Champions League con il Milan)

La sfortuna

«Sono arrivato al Milan e non si vinceva niente. Venivo dall’anno ai Rangers dove, dopo 9 scudetti consecutivi, avevamo perso il decimo all’ultima giornata. Ho pensato: “Ecco qua, Crisantemi ha colpito ancora…”», citando «L'allenatore nel Pallone» (gennaio 2010)

Il motto

«Chi nasce tondo non muore quadrato» ci ha fatto persino il titolo di un libro.

Permaloso

«Il difetto tipico dei calabresi è essere permalosi. Molto. Io stesso mi considero permaloso. E poi vogliamo cambiare ma non ci crediamo fino in fondo. Ci accontentiamo. Quello di vivere alla giornata è un po’ il difetto della gente del Sud»

Calabresi

«Essere calabrese vuol dire dare sempre l’anima, sudare su ogni pallone. Guardate i calciatori calabresi che militano in serie A, sono tutti combattenti, gente che non si scorda da dove arriva, e che è orgogliosa delle proprie radici».

Kakà

«Kakà è un fenomeno al 100%. Se quest’anno non vince il Pallone d’oro glielo vado a comprare io»

Materazzi

«Marco Materazzi è mio gemello. Cominciammo assieme a Perugia. Non avevo ancora la patente perché minorenne mentre lui aveva già un contratto da calciatore professionista. Lui è stato la mia chioccia, ogni tanto mi sganciava pure qualche banconota da centomila lire per aiutarmi, e mi portava in giro per Perugia con la sua macchina».

Galliani

«Io sono più milanista di Galliani».

Sconfitta

«Come mando giù una sconfitta? Da solo, in cucina, mi preparo un panino e lo prendo a morsi come se fosse l’avversario che mi ha battuto. Mi pare giusto fare così. Perché devi infelicitare anche gli altri? Prima di adottare il metodo del panino-da-solo-in-cucina, ho fatto le peggiori litigate con mia moglie».

Antonio Conte

«Antonio Conte mi sembra Al Pacino in “Ogni maledetta domenica”: le sue parole alla squadra hanno gasato anche me».

Da gazzetta.it il 26 Dicembre 2022.

Lunghissima intervista di Gennaro Gattuso, oggi allenatore del Valencia, al quotidiano spagnolo AS. Tra i tanti temi toccati, quello che stuzzica più di altri è l'indicazione che Ringhio dà al mercato, ovvero l'unico giocatore che gli somiglia. 

"Era da tanto che non vedevo un giocatore simile a me, ma l'ho visto ai Mondiali: Amrabat. Mi ha commosso molto, sembravo io quando giocavo a 27 anni". 

"Ora che alleno vedo il calcio in modo totalmente diverso rispetto a quando giocavo - ha poi raccontato Gattuso -. Pirlo? Dio gli ha dato qualità incredibili. Aveva quattro occhi. La posizione in campo, come muoversi senza palla... cose che adesso mancano a tante squadre. Ma era un calcio diverso. Io ho iniziato da zero.

Come allenatore mi sono preparato andando a guardare partite di qualsiasi categoria. L'altro giorno mi sono divertito a vedere il Villarreal a Guijuelo. In un campo sul quale non si poteva giocare. Mi ha regalato un'emozione incredibile. Quando parlo di stile può dare l'impressione che io non abbia rispetto per il modo in cui giocano gli altri. E' esattamente il contrario. Puoi vincere con stili totalmente diversi. Avete visto i Mondiali? Molte squadre si sono difese, chiudendo bene il campo, ripartendo in contropiede".

Gli chiedono se è migliore la vita da giocatore o quella da allenatore: "Chiaramente da giocatore. Devo ringraziare mia moglie, non so come stia ancora con me. Perché io vivo il calcio. Quando ho iniziato ad allenare ho chiamato Ancelotti e gli ho detto: 'Come si fa?'. Per me è difficile. Comincio alle 8.30 e torno a casa alle sette di sera. Poi sono in bagno a far pipì, mi viene in mente qualcosa e lo scrivo su un pezzo di carta igienica. Devo cambiare, perché non puoi passare 18 o 19 ore a pensare al calcio”.

E invece il Ringhio giocatore com'era? "Ho corso tanto e tatticamente ero fortissimo ma sicuramente nel calcio moderno mi mancherebbe qualcosa. Avevo carattere, ma il carattere non basta. Giocare a calcio era il mio sogno. All'età di 12 anni ho lasciato casa per questo, dormivo in un appartamento di 15 metri quadri. Non penso a cosa sarebbe potuto succedere se non fossi stato un calciatore. Ho fatto più di quanto potevo. Per me è stato un privilegio giocare a calcio. E se mi avessero pagato dieci volte meno di quanto mi hanno pagato avrei giocato lo stesso.

Quando sono arrivati i Rangers non volevo andarci. Mio padre mi dice: 'Non so nemmeno come scrivere questa cifra. Devo vivere quattro vite per guadagnarla'. Quando ho insistito a dire no mi ha risposto: 'Ti do un sacco di botte se non ne approfitti...' Quando sono andato a Glasgow non sapevo niente, nemmeno una parola in inglese. Dopo due settimane sembravo più scozzese di uno scozzese. Non avevo una grande tecnica... ma mi sono preparato ad uccidere mentalmente il mio avversario".

Rino Gattuso, il dramma: "Non ho più una vita. E mia moglie..." Libero Quotidiano il 27 dicembre 2022

Il calcio, per Rino Gattuso, è una missione. A 44 anni, intervistato da AS, l'ex tecnico di Milan e Napoli oggi in Spagna, al Valencia, parla del suo modo di intendere il pallone, una passione che ne ha segnato l'esistenza fin da quando era un ragazzino aspirante calciatore, per poi portarlo sul tetto del mondo con la Nazionale e il Milan, In tutto, sono 30 anni di carriera tra campo e panchina. Di questi, oltre 20 trascorsi con la compagna e poi moglie Monica, dalla quale ha avuto due figli, Gabriela e Francesco.

"Tra allenare e giocare è più facile la seconda perché adesso io mi ritrovo a vivere il calcio pienamente e quando io penso al calcio tu non hai più una vita… Devo ringraziare mia moglie, non so davvero come faccia ad essere ancora con me", spiega tra il serio e il faceto Ringhio, che aveva conosciuto la donna della sua vita poco più che adolescente, da giovane promessa dei Rangers Glasgow. "Quando ho iniziato ad allenare ho chiamato subito Ancelotti e gli ho domandato come si fa… Per me è difficile: comincio alle 8:30 e torno a casa alle sette di sera. Poi a casa vado in bagno e mi viene in mente qualcosa, così lo scrivo su un pezzo di carta. Io vivo il mio lavoro, così. Dovrei cambiare, perché non puoi passare 18 o 19 ore a pensare al calcio… ma è il mio stile: lavorare e lavorare. Penso al calcio 24 ore, ho dedicato la mia vita al pallone".

Quindi le riflessioni più tecniche. Essere stato un grande calciatore l'ha aiutato forse all'inizio della sua seconda carriera, ma "per fare l'allenatore non basta, bisogna andare in campo e imparare. Ecco perché ho voluto iniziare da zero: io conoscevo il calcio, ma non ero preparato". Uno dei suoi maestri è stato Pep Guardiola: "Quando l'abbiamo incontrato col Milan loro giocavano un calcio verticale noi abbiamo solo corso per 90 minuti. Mi sono chiesto com'era possibile… poi ho parlato con Guardiola e non ho capito nulla per mesi finché ho visto il calcio in modo diverso rispetto a quando giocavo: mi piacciono i giocatori di qualità, un calcio pensato, funzionale che sa quando si deve pressare e quando andare in verticale".

L’ATALANTA.

Papu Gomez il post Instagram sul doping: «Preso lo sciroppo di mio figlio». Storia di Salvatore Riggio  su Il Corriere della Sera domenica 22 ottobre 2023.

Dopo la squalifica di due anni, per aver assunto una sostanza vietata rilevata in seguito a un test effettuato nel novembre 2022 ai tempi del Siviglia, prima della Coppa del Mondo vinta in Qatar con la sua Argentina, arriva la versione dei fatti del Papu Gomez. Si tratta di una lettera indirizzata «ai media e all’opinione pubblica», che si articola in sei punti. In primis, il fantasista — che in Italia ha indossato anche le maglie di Catania, dal 2010 al 2023, e di Atalanta, dal 2014 al gennaio 2021 — ha voluto chiarire l’intera vicenda: «Confermo che mi è stata notificata la decisione del Comitato Sanzionatorio Antidoping della Commissione Spagnola per la Lotta al Doping nello Sport, con la quale è stata decisa la sospensione della mia licenza federale per un periodo di due anni».

In secondo luogo, l’argentino ha respinto tutte le accuse di doping: «Non solo ho sempre rispettato rigorosamente tutti i regolamenti, ma mi sono anche posto come un convinto difensore dello sport pulito e della sportività, condannando e rifiutando categoricamente ogni forma di doping. Non ho mai avuto e non avrò mai l’intenzione di ricorrere a una pratica vietata». La sostanza riscontrata dall’antidoping è la Terbutalina.

E anche su questo risvolto della vicenda, il Papu ha detto: «Ho preso per sbaglio, involontariamente e senza volerlo, un cucchiaio di sciroppo per la tosse di mio figlio piccolo. Va comunque precisato che l’uso terapeutico della terbutalina è consentito agli sportivi professionisti e che non migliora in alcun modo le prestazioni sportive nel calcio».

Infine: «Senza entrare nel merito, ho trasmesso la questione ai miei legali perché ritengo che il procedimento disciplinare non si sia svolto nel rispetto delle regole. Infine, desidero ringraziarvi per tutte le manifestazioni di affetto e di sostegno che ho ricevuto in questo difficile momento professionale». A Papu Gomez resta la via di un ricorso al Tas di Losanna, con il Monza che «si riserva di valutare i prossimi passaggi procedurali». La sospensione decorrerà dall’ultima partita giocata, quella contro la Salernitana dello scorso 8 ottobre.

Estratto dell'articolo di Patrick Iannarelli per corrieredellosport.it il 7 Settembre 2023 

«La sua potrebbe essere definita una gestione dittatoriale, basata sulla paura. Non ero abituato a tutto questo». Una "rivolta degli ex" partita da Joakim Maehle e caldeggiata sui social da Merih Demiral: il profilo del contendere è quello di Gian Piero Gasperini, accusato di avere metodi da sergente di ferro. Ma quello del danese non è il primo sfogo nei confronti del tecnico […]

Lo scontro che fece parecchio rumore fu quello col Papu. Dicembre 2020, Atalanta-Midtjylland: […] Il tecnico nerazzurro chiede all'argentino di decentrarsi sulla corsia di destra, secco il no da parte del numero 10 […]A raccontare i particolari lo stesso Gomez durante un'intervista a La Nacion qualche mese dopo il trasferimento a Siviglia: «Immagino che l'aver risposto così, a metà gara e davanti alle telecamere, abbia creato la situazione perfetta perché si arrabbiasse. In quel momento ho capito che sarei stato sostituito all’intervallo e così è stato. Negli spogliatoi però lui ha oltrepassato i limiti ed ha cercato di aggredirmi fisicamente».

Lo stesso Gasperini ha poi smentito: «I comportamenti e gli atteggiamenti di Gomez, in campo e fuori, erano diventati inaccettabili per l’allenatore e per i compagni. L'aggressione fisica è stata sua, non mia». […]

Prima del danese anche Pierluigi Gollini - durante la presentazione con la Fiorentina - lanciò un messaggio verso il suo ex allenatore senza però sbilanciarsi: «Non sono andato via per scelta tecnica ma solo per i problemi personali con una persona». Qualche dichiarazione è arrivata anche da Leicester, a firma di Timothy Castagne: «Il suo metodo non sempre mi andava bene. È un allenatore che si arrabbia molto velocemente, che ha molti problemi a controllarsi. Prendo le cose positive dell’esperienza in Italia, ma credo di non essere mai stato al 100% a causa di questo modo di lavorare».  […]

Estratto dell'articolo di Stefano Silvestri per goal.com il 6 Settembre 2023 

No, Joakim Maehle non ha un ricordo esattamente positivo di Gian Piero Gasperini. E, di riflesso, neppure della propria esperienza all'Atalanta. […] Se qualcuno si fosse stupito della cessione estiva di Maehle al Wolfsburg, in Germania, ecco la risposta: il matrimonio sportivo tra il calciatore e l'Atalanta, semplicemente, era concluso. […] La motivazione principale? Gasperini, appunto. […]

"NON C'ERA ALCUNA LIBERTÀ"

"Ci allenavamo sempre nel pomeriggio  […] L'allenatore aveva deciso così e non c'era davvero alcuna libertà. Anche se vivevi in un bel posto e il tempo era bello, non avevi il tempo di godertelo, perché trascorrevamo tanti giorni e tante ore al centro sportivo".

"APPROCCIO QUASI DITTATORIALE"

"Approccio quasi dittatoriale di Gasperini? L'hai detto tu. Non volevo dirlo prima, perché temevo che scrivessi una cosa piuttosto che un'altra... (rivolto al giornalista, ndr). Era così che decideva tutto. Se, ad esempio, facevamo un doppio allenamento, dovevamo restare a dormire nella struttura per la notte. Allora non ci era permesso di tornare a casa. Stile di gestione basato sulla paura? Sì, un po'. Puoi chiamarla cattiva gestione o quello che è, non lo so. […]".

"NON POTEVO GUIDARE CON HOJLUND"

"Non ti senti una persona, ti senti un numero. Non hai alcun rapporto con l'allenatore. Può tormentare qualcuno per cose strane. Ad esempio, io e Hojlund andavamo insieme ad allenarci. Ma lui non voleva che guidassimo insieme. Perché così potevamo sederci, chiacchierare assieme mentre andavamo all'allenamento, divertirci. […] Non so se questo sia tipico degli italiani, ma sono solo alcune cose che a lungo termine ti fanno arrabbiare e stancare". 

LA CONFERMA DI DEMIRAL: "TUTTO VERO"

A confermare le parole di Maehle ci ha pensato Meriò Demiral. Il difensore turco, […] ha commentato su Twitter le frasi dell’ex compagno proprio sotto il post di GOAL. “Tutto vero - ha scritto il turco, che poi ha aggiunto -. Si saprà presto tutto, aspettate l’intervista”.

Estratto dell'articolo di Monica Colombo per il "Corriere della Sera" lunedì 16 ottobre 2023.

Alejandro Gomez è tornato a ballare la Papu-dance, stavolta a Monza, ad appena 50 km dalla città dove si è affermato e dalla squadra, l’Atalanta, che ha trascinato alla storia conducendola per la prima volta alla qualificazione in Champions League. 

Perché il Monza?

«È stata una scelta di tutta la famiglia. Rientrare in un Paese che conosciamo bene è stata la decisione ideale. Dopo aver rescisso il contratto con il Siviglia e aver rifiutato un’offerta dall’Arabia credevo di restare fermo fino a giugno». 

Non si è pentito di aver detto no, a 35 anni, ai dollari dei sauditi?

«Intanto non era un’offerta irrinunciabile, di quelle che ti cambiano la vita. Poi quando ho cercato sull’atlante la città dove mi sarei dovuto trasferire, in mezzo al deserto, ho pensato: grazie, ma non porto i miei tre figli lì...».

[…]

Gasperini in una recente intervista ha usato parole affettuose nei suoi confronti. Ha dimenticato la lite feroce che causò il suo addio da Bergamo?

«Siamo persone adulte, è acqua passata. Sono trascorsi due anni, speriamo di ritrovarci presto e di salutarci». 

Ma se potesse tornare indietro, cambierebbe qualcosa di ciò che avvenne nell’intervallo della sfida con il Midtjylland, cioè il momento in cui la situazione con il tecnico è precipitata?

«Nulla perché, nonostante tutto, dopo quell’episodio ho vinto un Mondiale, una Copa America e un’Europa League. Certo, andarmene in quel modo da Bergamo non è stato piacevole, specialmente per i tifosi che non ho salutato e che in quel momento non conoscevano la verità. Comunque la vita sa essere pazzesca: tutti i titoli che ho conquistato sono arrivati dopo il mio brusco addio all’Atalanta. Mi sarebbe piaciuto tanto vincere qualcosa con i miei ex compagni...». 

Il Gasp è davvero il tiranno che descrive Maehle?

 «Tiranno è una definizione esagerata. Certo, ha un metodo di lavoro per il quale serve la testa giusta. Io ho fatto tanti anni con lui e mi sono adattato. Magari altri giocatori che sono passati da Zingonia non sono riusciti a resistere». 

[…] Prima di Bergamo, aveva giocato nel Metalist in Ucraina. C’era già sentore di quanto poi è accaduto? «

Arrivai nel 2013 e rimasi solo dieci mesi. Ero a Kharkiv, una citta importante che ora non esiste più. Il conflitto fra russi e ucraini era già nell’aria, poi mi ricordo che nel luglio del 2014, quando ero in ritiro con la squadra in Austria, venne abbattuto un aereo della Malaysia Airlines vicino Donetsk. Ho avuto paura e sono scappato. […]».

Che idea si è fatto del nuovo scandalo scommesse?

«Intanto bisognerebbe capire se il gioco è una malattia o meno. Inoltre se i giocatori hanno violato la legge con intenzionalità. Di certo, per ragazzi così giovani, è difficile resistere a ogni tipo di tentazione».

IL CHIEVO.

Paluani, fallisce la storica azienda del pandoro: 82 milioni di debiti. Valentina Iorio su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2023 

Il tribunale di Verona ha dichiarato il fallimento di Paluani spa, la storica azienda dolciaria di Dossobuono, protagonista di un celebre spot natalizio. 

Il gruppo, noto per la produzione di pandori, panettoni e colombe, nel 2022 aveva ceduto il marchio e le attività produttive a Sperlari, che fa capo al gruppo dolciario tedesco Katjes International. 

Dopo l’operazione alla società d’origine, Paluani spa, che fa capo alla famiglia Campedelli, già proprietaria della squadra del Chievo, è rimasta la gestione di beni immobili, che nel frattempo sono stati in parte alienati.

82 milioni di euro di debiti

Negli anni l’azienda è stata travolta da una serie difficoltà finanziarie che l’hanno portata a cedere il ramo d’azienda Paluani 1921 srl per un valore di 7,6 milioni di euro a Sperlari in un’asta organizzata dal tribunale lo scorso anno. 

Il tribunale è arrivato alla decisione di dichiarare il fallimento avendo revocato l’ammissione alla procedura di concordato preventivo. 

All’azienda sono state contestate «assai contenute percentuali di soddisfacimento dei creditori in conseguenza del fatto che a fronte di un ammontare complessivo di quasi 82 milioni di euro, la somma che si mette a disposizione è di soli 815.660 euro». 

«I soci, gli amministratori e il sindaco non hanno fornito le richieste garanzie a copertura degli impegni», spiega il tribunale «con inevitabile prolungamento dei tempi e ulteriore pregiudizio delle ragioni dei creditori».

Il fallimento del Chievo

Tra i fattori che hanno determinato la crisi di Paluani ci sono anche le esposizioni nei confronti del Chievo Calcio, fallito un anno fa. 

L’azienda dolciaria nel 2021 aveva detto di vantare nei confronti della società calcistica crediti per 3,5 milioni a titolo di finanziamento soci e di «aver prestato fideiussioni per circa 11,7 milioni», al Chievo, «su un’esposizione debitoria che al 19 ottobre 2021 risulta pari a 6,9 milioni». 

Secondo Paluani il concordato avrebbe dovuto essere lo «strumento per interrompere i rapporti infragruppo e focalizzare la società sul suo core business». 

La fine dell’avventura del Chievo ha avuto pesanti ricadute sull’azienda. La società non è riuscita a reggere l’urto della pandemia che ha visto crollare gli introiti televisivi e soprattutto degli stadi. Nell’agosto 2021 è stata esclusa dai campionati professionistici, e pertanto dalla serie B, per inadempienze tributarie. 

La società aveva fatto ricorso contro Federcalcio, Coni, Lega Serie B e Cosenza Calcio, in merito alla sentenza del Tar del Lazio relativa all’esclusione del club scaligero dal campionato ma il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso confermando l’operato della Figc. Il 24 giugno 2022 il tribunale ha dichiarato ufficialmente fallito il Chievo Verona per i debiti con il Fisco.

IL LECCO.

Estratto dell'articolo di Andrea Galli e Barbara Gerosa per corriere.it il 3 settembre 2023.

Uomo di calcolo e insieme d’istinto e passione da autentico giocatore d’azzardo quale Paolo Di Nunno è («Il numero uno nello chemin de fer, dove si puntano migliaia di soldi»), questo 74enne c’entra con Lecco assai più di quanto la città voglia ammettere dapprima a se stessa. 

Tutto il mondo è provincia, e Di Nunno, non amato dai cosiddetti «salotti buoni», raduno di pettegoli senza però, beninteso, che le voci divengano mai ufficiali, nutre la comunità di pubblicità e pure, grazie all’indotto del pallone, di denaro mettendocene del suo. […] E lui, il patron del Lecco calcio, imprenditore in svariati rami specie nei videogiochi, allo stato attuale, nell’italica commedia umana che vive per il pallone, di Lecco è una sorta di re. 

Vogliamo forse ricordare cosa diavolo avvenne prima della sua acquisizione della società nel 2017? […] A causa dei soliti ammanchi economici, nel 2002 la società venne radiata dai campionati professionistici. Colpa del patron Franco Cimminelli e del successore Pietro Belardelli: uno che, nello scappare, si portò via i trofei manco li avesse vinti dribblando in campo. Più tardi, con la squadra sprofondata in Eccellenza, saltò fuori l’italo-americano Giuseppe Cala, il quale preferiva come nome Joseph e sventolò mirabolanti promesse per 42 giorni salvo al 43esimo rendersi conto delle panzane e sparire. Nuovo corso, nuovo nome? Come no.

Toccò a Daniele Bizzozzero presto fuori causa per guai giudiziari, e intanto la società precipitò ancora, con addirittura il pignoramento delle panchine dello stadio. Conclusione: si dichiarò il fallimento della società, basta, chiudiamola qui[…] E allora Paolo Di Nunno e nessun altro: nel senso del termine, essendo egli stato il solo a presentarsi dagli ufficiali giudiziari per acquisire la società.

Ma chi è davvero Di Nunno? Così ci ha parlato: «Da ragazzino davo una mano nelle campagne. In un incidente con l’aratro persi la gamba. L’Inail organizzava corsi per gli invalidi affinché imparassero un mestiere. Salii da solo a Milano, feci il corso, iniziai a mantenermi. Non era facile mettere insieme pasto e cena. O un letto: quante notti nel mezzanino del metrò... La sorte mi aveva tolto una gamba ma non la fortuna, e anche la testa. Di azienda in azienda mi misi sotto, lavorai duro, risparmiai per investire. Una prima società mia, una seconda.

E il calcio: presidente del Canosa, del Seregno e adesso del Lecco, dove ho riversato ogni mio soldo. L’ho portato in B e se non mi fermano lo porto in A. Chi mi vuole fermare? I vecchi volponi del pallone. Sono scomodo, non piaccio. E me ne frego. Vogliono salvare il Perugia retrocesso, stanno vendendo la società e hanno bisogno di un palcoscenico... Noi attendiamo il responso del Tar, ma sul fatto che il Lecco giocherà in B non c’è dubbio. Ovvio, ho il calciomercato bloccato, ma sono sereno. Sono forte.

Ferie? Non scherzate. In ogni modo, nonostante in Puglia abbia una famiglia infinita, le vacanze le faccio in Liguria. Anche qui ho una famiglia numerosa: del resto, tre matrimoni. Figli e nipoti sono in società, io programmo il futuro. Lo stadio? Proseguo coi lavori di ammodernamento. A spese mie: lo dicevo che sta uscendo tutto il denaro messo da parte. Amen: nell’azzardo, grazie alle mie famose qualità, nei casinò gioco a credito. Tanto sanno che vinco e ripiano».

Estratto da fanpage.it sabato 8 luglio 2023.

Il Lecco è stato ammesso alla Serie B e a sancirlo è stato il Consiglio federale dopo che la Covisoc aveva bocciato l'iscrizione per il ritardo dell'ok dal prefetto di Padova per lo stadio Euganeo come alternativa al Rigamonti-Ceppi. Dopo giorni di tensione nel centro lombardo si torna a festeggiare e ora si può programmare la cadetteria cinquant'anni dopo l'ultima apparizione. 

Di quanto accaduto alla società bluceleste ha parlato negli studi di Sportitalia il patron del Lecco, Paolo Di Nunno, che già nei giorni scorsi si era fatto conoscere per la sua schiettezza e per il suo modo di comunicare senza troppi fronzoli.

In merito all'iscrizione alla Serie B, e all'eventualità di aver commesso qualche errore, Di Nunno si è espresso così: "No, solo un piccolo errore perché il prefetto non stava bene e abbiamo avuto un ritardo di un giorno alla prefettura. Io ho fatto tutto quanto era dovuto, dando subito anche la fideiussione. La Lega vede i soldi ed è a posto, poi si sistema tutto". 

Sul suo rapporto con gli altri dirigenti del calcio italiano e sulle possibili antipatie il patron del Lecco parla così: "No, non penso sia per antipatia. Forse io dò fastidio, darà fastidio a qualcuno vedermi. Qualcuno che ha detto che era un uomo di parola e poi all'ultimo si è rivelato una persona di poco valore. È diventato anche senatore". 

Ogni tipo di riferimento in questa risposta portano ad Adriano Galliani, senatore della Repubblica Italiana per Forza Italia dal 23 marzo 2018 al 12 ottobre 2022, che prima aveva parlato con lui della possibilità di far giocare il Lecco a Monza e dopo la vittoria del playoff si sarebbe rimangiato tutto: "Il signor Galliani mi aveva detto ‘pensa a vincere che poi ne parliamo': io ho vinto ma lui non vuole più parlare, manda l’avvocato al suo posto".

Paolo Di Nunno, il nuovo re di Lecco: «Io scomodo al sistema calcio, se non mi fermano porto la squadra in A. Persi la gamba in un incidente con l'aratro». Andrea Galli e Barbara Gerosa su Il Corriere della Sera giovedì 27 luglio 2023.

È il presidente della promozione in B. Pugliese emigrato a Milano («Dormivo nel metrò»), imprenditore anticonformista inviso ai salotti buoni. «Non recito e so di non piacere. Ma io me ne frego» 

Uomo di calcolo e insieme d’istinto e passione da autentico giocatore d’azzardo quale Paolo Di Nunno è («Il numero uno nello chemin de fer, dove si puntano migliaia di soldi»), questo 74enne c’entra con Lecco assai più di quanto la città voglia ammettere dapprima a se stessa.

Tutto il mondo è provincia, e Di Nunno, non amato dai cosiddetti «salotti buoni», raduno di pettegoli senza però, beninteso, che le voci divengano mai ufficiali, nutre la comunità di pubblicità e pure, grazie all’indotto del pallone, di denaro mettendocene del suo. Dopodiché se già i lecchesi, concreti per storia, non gradiscono neanche i vicini comaschi i quali, è loro convinzione, s’inchinano ai divi d’America pur di vederli abitare sul lago e vantarsene in giro, ecco, figuriamoci con Di Nunno da Canosa di Puglia. E però lui, il patron del Lecco calcio, imprenditore in svariati rami specie nei videogiochi, allo stato attuale, nell’italica commedia umana che vive per il pallone, di Lecco è una sorta di re. 

Vogliamo forse ricordare cosa diavolo avvenne prima della sua acquisizione della società nel 2017? Anche se, un attimo: noi, ripetono in città, abbiamo un unico presidente, il ragionier Mario Ceppi, che guidò il Lecco calcio nel dopoguerra regalando la promozione in A. D’accordo. Però in onestà bisogna ricordare che Ceppi invocò per la disperazione anziché la fede i santi dovendo anch’egli risanare la società, e implorare i lecchesi benestanti di mollare banconote a sostegno.

Sicché torniamo al pre-Di Nunno. A causa dei soliti ammanchi economici, nel 2002 la società venne radiata dai campionati professionistici. Colpa del patron Franco Cimminelli e del successore Pietro Belardelli: uno che, nello scappare, si portò via i trofei manco li avesse vinti dribblando in campo. Più tardi, con la squadra sprofondata in Eccellenza, saltò fuori l’italo-americano Giuseppe Cala, il quale preferiva come nome Joseph e sventolò mirabolanti promesse per 42 giorni salvo al 43esimo rendersi conto delle panzane e sparire. Nuovo corso, nuovo nome? Come no. Toccò a Daniele Bizzozzero presto fuori causa per guai giudiziari, e intanto la società precipitò ancora, con addirittura il pignoramento delle panchine dello stadio. Conclusione: si dichiarò il fallimento della società, basta, chiudiamola qui, anche perché nel mezzo di queste vicende disgraziate conviene registrare l’esperienza tragica di Sergio Invernizzi, imprenditore delle ceramiche. Non appena arrivarono le sconfitte, ignoti gli depositarono quintali di letame davanti allo show-room con duraturi danni d’immagine e litigi in famiglia sul motivo per cui si fosse caricato quell’onere. 

E allora Paolo Di Nunno e nessun altro: nel senso del termine, essendo egli stato il solo a presentarsi dagli ufficiali giudiziari per acquisire la società.

Ma chi è davvero Di Nunno? Così ci ha parlato: «Da ragazzino davo una mano nelle campagne. In un incidente con l’aratro persi la gamba. L’Inail organizzava corsi per gli invalidi affinché imparassero un mestiere. Salii da solo a Milano, feci il corso, iniziai a mantenermi. Non era facile mettere insieme pasto e cena. O un letto: quante notti nel mezzanino del metrò... La sorte mi aveva tolto una gamba ma non la fortuna, e anche la testa. Di azienda in azienda mi misi sotto, lavorai duro, risparmiai per investire. Una prima società mia, una seconda. E il calcio: presidente del Canosa, del Seregno e adesso del Lecco, dove ho riversato ogni mio soldo. L’ho portato in B e se non mi fermano lo porto in A. Chi mi vuole fermare? I vecchi volponi del pallone. Sono scomodo, non piaccio. E me ne frego. Vogliono salvare il Perugia retrocesso, stanno vendendo la società e hanno bisogno di un palcoscenico... Noi attendiamo il responso del Tar, ma sul fatto che il Lecco giocherà in B non c’è dubbio. Ovvio, ho il calciomercato bloccato, ma sono sereno. Sono forte. Ferie? Non scherzate. In ogni modo, nonostante in Puglia abbia una famiglia infinita, le vacanze le faccio in Liguria. Anche qui ho una famiglia numerosa: del resto, tre matrimoni. Figli e nipoti sono in società, io programmo il futuro. Lo stadio? Proseguo coi lavori di ammodernamento. A spese mie: lo dicevo che sta uscendo tutto il denaro messo da parte. Amen: nell’azzardo, grazie alle mie famose qualità, nei casinò gioco a credito. Tanto sanno che vinco e ripiano».

IL BRESCIA.

Massimo Cellino.

Dario Hübner.

Carletto Mazzone.

Massimo Cellino.

Salvatore Riggio per corriere.it - Estratti domenica 3 dicembre 2023. 

Il calcio è pieno di leggende, aneddoti e curiosità. Ne ha regalate molte anche Massimo Cellino, attuale patron del Brescia ma con un passato da presidente del Cagliari e del Leeds United, famoso per essere un presidente mangia-allenatori. Sono addirittura 36 i tecnici cambiati in 22 anni. In una lunga intervista rilasciata al «Daily Mail» Cellino non si è tirato indietro e ha raccontato una serie di vicende davvero incredibili, ai limiti dell’assurdo. 

La più strana risale alla sua breve parentesi inglese al Leeds e riguarda il tecnico Bryan McDermott e un divano. Già, un divano. Sembra incredibile, ma (almeno secondo Cellino) è tutto vero. L’inverosimile inizia da un dato che non bisogna tralasciare: Cellino è una persona estremamente scaramantica. Infatti, non ingaggia nessun calciatore nato il 17 e ha una profonda avversione per il colore viola. Ed è da qui che parte, appunto, la storia.

Nel suo ufficio c’era un divano di quel colore che voleva assolutamente cambiare: «Il mio inglese era molto scarso e avevo una pronuncia terribile. Quando sono arrivato ho visto quel divano viola e ho detto di cambiare quel maledetto divano (couch, in inglese) e invece hanno licenziato l’allenatore (in inglese coach)». McDermott fu quindi esonerato il giorno prima di una gara con l’Huddersfield, al contrario del divano viola che era ancora al suo posto. Cellino ha poi capito l’errore di pronuncia, ma era troppo tardi per tornare indietro.

E chi lo avrebbe mai detto? Uno dei mangia-allenatori per eccellenza che in realtà – in quel momento, sia chiaro – non avrebbe mai e poi mai esonerato il tecnico della sua squadra. Ma a quel punto la frittata era già stata fatta, la partita la fece in panchina il vice di McDermott che vinse 5-1, cosa che convinse Cellino a confermarlo. Decisione però che, dopo un po’, quando le cose cominciarono ad andare male mise tutti i tifosi del Leeds contro di lui: «Duemila persone allo stadio volevano uccidermi, allora mi hanno nascosto e poi portato via in una macchina della polizia», ha aggiunto Cellino, spiegando come pure quell’evento fosse dovuto «alla maledizione del colore viola» (anche se non era chiaro se fosse riuscito nel frattempo a liberarsi del divano).

Cellino , non è solo scaramantico ma anche molto religioso. Tanto da far benedire il cerchio di centrocampo con l’acqua santa per porre fine a un periodo senza vittorie durato otto mesi: «Quando il prete ha finito, dallo stadio sono volati via tantissimi corvi neri e ho detto “non è uno scherzo, questo non è un film”». 

Anche Cellino ha dei sentimenti: «L’ultima cosa che farò nel calcio sarà quella di riportare il Brescia in serie A e poi mi ritirerò in pensione a Londra a godermi la Premier League. Non sono adesso abbastanza ricco per comprarmi un club in Inghilterra, anche se è quello che vorrei.  

(...)

Cellino poi ne ha anche per Balotelli: «Non ne voglio parlare, è l’ora di pranzo e ho lo stomaco debole. È stato un incubo. Non è degno che si parli di lui nemmeno un minuto.  

(...) 

Infine, su Tonali squalificato per scommesse: «Impensabile che abbia fatto qualcosa di sbagliato, l’ho allevato io. Parlava più con me che con suo padre. Se lui è cattivo, non oso pensare cosa siano gli altri giocatori. Se fosse rimasto con me l’avrei fermato, ma quando hai tanti soldi e ti ritrovi circondato da gente sbagliata puoi fare degli errori».

Dario Hübner.

Estratto dell’articolo di Andrea Romano  per ilfattoquotidiano.it  il 7 marzo 2023

(…) Fra la metà degli anni Novanta e i primi anni Duemila Dario Hübner è stato il re dei bomber di provincia, il totem intorno al quale si sono ritrovate a ballare intere comunità di tifosi. Sgraziato ma letale, ispido ma capace di far rotolare la palla come sul velluto, l’attaccante partito da Muggia, centro di dodicimila anime a due passi dal confine con la ex Jugoslavia, è diventato una figura iconica, nume tutelare dei nostalgici di un calcio ormai estinto. 

Merito anche della sua capacità di restare sempre coerente con se stesso. Ma anche di una parabola da romanzo. Le partitelle con gli amici sul piazzale di Borgo Zindis, la scuola come obbligo da portare a termine per poter continuare a inseguire il pallone che continuava a rotolare, il lavoro prima come fabbro e dopo da installatore di infissi, con le cornici delle finestre che gli tagliavano le mani fino a farle sanguinare. 

È qui che Dario Hübner ha imparato a dominare la fatica che poi gli permetteva di filare via veloce sul campo da gioco. Il suo fisico muscoloso che portava a spasso quel rovo di capelli neri gli è valso il soprannome di “Bisonte”, che l’uscita di “Balla coi lupi” ha trasformato poi in “Tatanka“. Un appellativo affettuoso che Hübner si è portato sulle spalle in tutte le sue vite calcistiche, dall’Interregionale con il Pievigina fino alla Serie A conquistata a 34 anni con il Brescia e poi dominata con la maglia numero 27 del Piacenza, quando il “Bisonte” si è laureato capocannoniere del campionato più difficile del mondo con la bellezza di 24 centri.

(…)

Cos’era il gol per Dario Hübner?

Un risarcimento per i miei compagni. 

Un attaccante che non vive il gol come un fatto personale. Non è strano?

Beh erano i miei compagni che mi mettevano in condizione di tirare in porta. Loro dovevano correre per me, difendere per me. Per questo ogni rete che segnavo era un qualcosa che sentivo di dover dedicare prima a loro che a me stesso. Io in fase difensiva correvo per modo di dire, ero lassù che aspettavo la palla e dovevo solo essere bravo a fare gol. Loro invece si dannavano l’anima.

Lei è considerato il re dei bomber di periferia. È un’etichetta che le pesa?

Assolutamente no. Io sono un bomber di provincia perché ho giocato soprattutto in provincia. Non sono sicuro che in una big sarei riuscito a segnare lo stesso numero di gol. Quando torno a Cesena, Brescia, Piacenza, Perugia, mi accorgo che la gente mi ricorda con tanto affetto, che mi è rimasta profondamente affezionata.

(…) 

A proposito, i bomber di provincia sono ormai specie protetta. Come mai?

Perché non abbiamo né tempo né voglia di aspettarli. Oggi appena un giocatore fa bene viene ceduto per monetizzare. Guarda cosa è successo con Scamacca, che è stato ceduto al West Ham invece di avere continuità con il Sassuolo. Ora un giovane non può più crescere con calma, basta una mezza partita fatta bene che uno diventa un fenomeno. Assurdo. 

Una volta per tutte: beveva davvero un grappino nell’intervallo?

Guarda questa è una str**ata che hanno scritto in tanti e mi sono trovato a dover querelare diverse testate. Eravamo in Serie A, figuriamoci se ci si poteva bere una grappa negli spogliatoi. Io al massimo, quando il mister aveva finito di darci le indicazioni tattiche nell’intervallo, andavo in bagno con la mia sigarettina e mi facevo due tiri. La grappa me la potevo bere in settimana, magari dopo una bella cena con gli amici, non certo fra la fine del primo e l’inizio del secondo tempo. Io ero un po’ pazzo, non certo un co**one. Ma ho capito che nel mondo oggi più la spari grande e più la gente ci crede. 

(…)

Prima di diventare calciatore ha fatto il fabbro, montava gli infissi in alluminio. C’è mai stato un momento in cui ha pensato di lasciare tutto?

Per me il percorso è stato esattamente l’inverso. Sono partito dalla Prima Categoria e poi sono andato in Interregionale. La prima volta che mi sono sentito davvero un calciatore è stato ai tempi del Cesena. Prima mi reputavo semplicemente un giovane che faceva un lavoro che gli piaceva, ero molto spensierato. All’epoca giocare in Serie C voleva dire semplicemente fare un lavoro più bello degli altri, non ci campavi. Io giocavo a calcio e mi divertivo. Fino a 25 anni non pensavo proprio a diventare un calciatore di Serie A o di Serie B. 

Le è mancato non aver giocato per vincere?

Fino a un certo punto. Ho sempre giocato con squadre provinciali, il mio obiettivo primario era la salvezza, per tre quarti del campionato giocavo con squadre che erano più forti della mia. Ho perso più di quanto ho vinto. Io però davo il 100%, se gli altri erano più forti di me e della mia squadra tanto di cappello, pazienza, non succedeva niente. 

La mia non è una versione romantica, ma realistica. Ora il calcio è cambiato. Quando giocavo io si andava a San Siro, a Torino e a Roma consapevoli di giocare contro squadre estremamente più forti. Ora vedo le provinciali che vanno in trasferta al Meazza e giocano la palla. Quando ci andavo io se tornavi a casa dopo aver preso tre gol ti era andata bene, il pareggio era un miracolo. Andavamo lì per difenderci e per portare via un punto. 

Le piace il calcio di oggi?

Molte volte ho la sensazione che le squadre non siano unite. Vedo più undici ditte che giocano per se stesse, mentre prima erano undici operai che lavorano per una ditta. Si vede chiaramente che molti calciatori in campo non si aiutano. Magari uno non dà una mano al compagno per non rischiare che il proprio uomo possa segnare e fargli fare una brutta figura. Ognuno gioca con la paura di peggiorare le proprie statistiche, per questo è meglio completare i passaggi più semplici che rischiare giocate più difficili. 

Quindi? Meglio come si giocava trent’anni fa?

Ti dico la verità: quando vedo le partite e ci sono 15-20 passaggi del portiere mi sembra una grande str***ata. Il numero uno deve parare, rimango basito quando sento che il portiere “deve essere bravo con i piedi”. Il calcio contemporaneo è questo: i centrali devono sapere lanciare e giocare la palla, ma spesso non sanno marcare. 

In molti ripetono che il livello tecnico dei giocatori è calato molto negli ultimi trent’anni. È davvero così?

Non credo. Ora gli attaccanti sono più tutelati, un difensore che commette due mezzi falli rischia l’espulsione, sembra quasi di giocare a pallacanestro. Il calcio è cambiato molto, non ci sono più i difensori centrali di una volta, gente come Aldair, Nesta, Thuram e Cannavaro. Gli attaccanti hanno vita più semplice. Io però non voglio dire che un tempo c’era più tecnica, altrimenti noi ex giocatori possiamo sembrare invidiosi del futuro. 

(…) 

Lei cresciuto giocando sul piazzale di Borgo Zindis. Quanto è importante il calcio di strada nella costruzione del talento?

Era fondamentale sia per affinare la tecnica sia per aumentare la “cattiveria”. Quando avevo otto anni giocavo contro quelli di quattordici. Dovevi essere bravo a difendere il pallone, ad aprire i gomiti, altrimenti i più grandi ti massacrano. Un’ora di piazzale valeva quanto cinque o sei allenamenti con i concetti e i fratini. 

Lei non ha mai giocato in Nazionale, le è rimasto l’amaro in bocca per non aver mai vestito la maglia azzurra?

Se guardo agli anni Novanta e Duemila c’erano tanti attaccanti più bravi di me, come per esempio Montella. Oggi invece ci sono talmente pochi centravanti che si fa fatica a trovarli. Retegui in Nazionale non è uno scandalo, ma la conseguenza di tutto quello che è successo negli ultimi dieci anni. Quando giocavo io le squadre Primavera erano composte solo da italiani, il Brescia vinse il Viareggio con 25 bresciani. Ora invece sono tutti stranieri. Per un centravanti o per un portiere è molto più difficile emergere. 

(...)

Eppure non ha nessun rimpianto per la sua carriera?

No, davvero, sono felicissimo. 

Neanche il mancato trasferimento alla “sua” Inter?

Forse sì, ma poi magari non sarei stato sempre titolare e mi sarei perso. Forse avrei fatto una carriera diversa, quindi va bene così.

Carletto Mazzone.

Quella volta che Mazzone corse come un pazzo sotto la curva dell’Atalanta. Oltre vent’anni fa Carletto impazzì letteralmente al gol del pareggio di Roberto Baggio: un gesto impulsivo, umano e iconico. Paolo Lazzari il 4 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Si sfrega le mani grosse e callose dopo essere passato in vantaggio. Roberto è appena sfilato alle spalle della difesa bergamasca, trafiggendola quasi fosse burro fuso, con un sinistro volante. Quegli altri però ci sono eccome, in campo. Brescia–Atalanta, del resto, non è mai stata una di quelle partite destinate a venire giù lisce, senza increspature. È, piuttosto, un derby abitato da una rivalità a tratti feroce: il dileggio che scivola giù dagli spalti, sobillato dalla tensione sfoderata in campo, è un congegno estenuante. Fuori è ancora il 30 settembre 2001. Oltre vent’anni fa.

La Dea intanto pareggia. Carletto Mazzone adesso rumina amaro e ci vede giusto. I suoi si rammolliscono e il tracollo è servito. Le linee si sfaldano. Dopo il gol di Sala, arrivano quelli di Doni e Comandini: 1 a 3 in casa, film ribaltato. Rimbalzano fino al tettuccio in plastica delle panchine deprecabili sfottò. Quella che fino a prima era parsa una pioggerellina testarda, adesso si trasforma in grandinata. Il bersaglio è sempre lui, il romanaccio che aveva esultato troppo presto. Sono ingiurie corrosive. Mazzone prova a smanacciarle altrove, ma si conficcano lì, dove fa più male. Quando arrivano a toccargli la mamma – a dire il vero un leit motive di ogni stadio italico – il sangue inizia a pompare a giri doppi.

Ripensa, Carletto, a quando lei gli è morta ancora giovane tra le braccia. Si gira di scatto verso il vice Menichini: "Nun ce sto, nun ce vedo più, me stanno a fà impazzì de rabbia. Mo’ vado e li meno..". Poi avvisa il quarto uomo: "Stamme bene a sentì, tu devi scrivere tutto sul tuo taccuino, perché mo t’avviso che sto fuori de testa. Se pareggiamo scrivi tutto".

Nel frattempo il divin codino accorcia: palla raccolta in area, perno sul marcatore che viene amabilmente buggerato, speranze bresciane gracili, ma ancora vive. Il pubblico ci crede, la squadra anche. Pupille incollate sul campo. L’unico che scruta in direzione opposta è Mazzone. Punta con lo sguardo la curva dell’Atalanta, persuaso alla rappresaglia. "E mò se famo il 3 a 3 vengo sotto lì da voi", borbotta. Schiuma dall’interno un livore incontenibile.

Novantesimo. Punizione decentrata per le rondinelle. Calcia Baggio. Nel suo percorso superiore e merlettato di misteri, i miracoli non sono opportunità laterali. Traiettoria che nasce insidiosa. Non la tocca nessuno. Palla sul palo del portiere, brutalmente gabbato: 3 a 3. Ora saltano tutte le residue saldature mentali. Carletto scatta come un indemioniato verso la curva avversaria. Mentre corre grida: "Mo’ arivo, mo’ arrivo". Lo inseguono, tentando vanamente di placcarlo, il vice Menichini, il dirigente accompagnatore Zanibelli e l’addetto stampa Piovani. Lui si ferma soltanto davanti ai cartelloni pubblicitari, dopo uno sprint di 80 metri. Ai tifosi nerazzurri recapita un classico "Li mortacci vostra". Poi, spompato e soddisfatto, dopo l’efferata vendetta si consegna alla giustizia calcistica. "Buttame fori, me lo merito", sussurra a Collina, inspirando avidamente.

Gli danno cinque giornate. Non fa ricorso, ma vieta categoricamente ai giocatori di imitarlo. Ha sbagliato, certo. Ma quella corsa forsennata resterà probabilmente per sempre la manifestazione più vivida del credo mazzoniano. Impulso, orgoglio e anche una discreta spolverata di follia.

IL MONZA.

Adriano Galliani.

Cristian Brocchi.

Luca Caldirola.

Adriano Galliani.

Daniele Dell’orco per “Libero quotidiano” l'1 luglio 2023.

Con l’incipit del suo libro autobiografico (“Le memorie di Adriano G., storia di una passione infinita”, edito da Piemme) Adriano Galliani sceglie di affidare alla penna sopraffina di Luigi Garlando il compito di risolvere lesto il dubbio amletico di molti: il suo più profondo innamoramento calcistico. Nei venticinque anni di carriera da “Condor” del Milan di superstelle ne ha accalappiate molte. 

Anche perché, prima di essere dirigente dei rossoneri è stato supertifoso, non d’infanzia (a Monza «che non vuole essere e non è la banlieu di Milano» per emanciparsi si tifava Juve) ma di vocazione. Anzi, prima ancora è stato un ragazzino tarantolato da una passione: lo sport. Il ciclismo, il tennis, ovviamente il calcio. 

(...)

Dopo il coming out, però, Galliani (il suo idolo d’infanzia era la Saeta Rubia Di Stefano) riparte dall’inizio, e in un certo senso anche dalla fine. L’amore per il Monza, riesploso dopo la fine del trentennio rossonero, ma in realtà mai sopito perché legato, probabilmente fuso, a quello per la sua Venere: la mamma Annamaria. «Morì nel 1959, avevo 14 anni. Il giorno dopo papà mi disse: “Adriano, vai pure. La mamma è contenta se vai a tifare per il Monza”». 

L’ha messo al mondo letteralmente sotto le bombe, il 30 luglio 1944, mentre gli inglesi sganciavano morte sui capannoni della Falck e della Breda di Sesto San Giovanni che fabbricavano armi. E gli ha trasmesso oltre che la passione per il Monza anche quella per l’impresa. Era una self-made woman quando il femminismo non era nemmeno concepito. Gestiva un’azienda di trasporti Monza-Milano che fu poi il grande cordone ombelicale di Galliani. 

Il papà invece era segretario comunale, e da lui Adriano prese la voglia di tentare l’avventura nelle amministrazioni locali. Finché il viatico di mamma Annamaria non prese il sopravvento: «Aprii uno stabilimento balneare a Vieste, sul Gargano; servivo Campari. Poi divenni socio di un’azienda, Elettronica Industriale, e alla fine la comprai», in modo davvero rocambolesco, facendo una “colletta” che oggi quelli bravi chiamerebbero crowdfunding. 

La storia di Galliani è quella di un’Italia in cui era davvero tutto possibile («le banche i soldi li prestavano»), le buone idee erano infinite e le sinergie saltavano fuori. Tipo quella con un signore che nell’impresa di Galliani vide la gallina dalle uova d’oro. Il partner perfetto per rivoluzionare il sistema mediatico italiano: «Al primo incontro a Villa San Martino Berlusconi mi chiese che orientamento politico avessi. Risposi la verità: “Mio padre diceva che i comunisti mangiano i bambini, e io mi sono fermato lì”.

Berlusconi si alzò, venne verso di me, pensai di aver fatto una gaffe. Invece mi abbraccia e mi fa: anche il mio papà diceva così!”». La joint-venture nacque con un abbraccio. Galliani metteva i ripetitori, Berlusconi le tv. Voleva creare i tre canali nazionali per combattere ad armi pari contro la Rai. I termini bellici non sono casuali: «Loro hanno tre cannoni. Dobbiamo averli anche noi», disse. Galliani però non era granché convinto: «Non era possibile: per la legge poteva averne solo una regionale. Lui fu secco: “Lei faccia il tecnico e mi dica: la sua azienda può realizzare il mio progetto?”. Risposi di sì».

E il resto è storia.

Ma se da allora Galliani si legò a Berlusconi da un atto di fede, lo stesso accadde a parti inverse quando Adriano contagiò Silvio con la malattia del pallone: «Lavoreremo insieme ma se io sono a Trieste e il Monza gioca a Catania, io devo andare a Catania». Poco dopo, comprarono il Milan: «Era il Capodanno 1986. Sono in vacanza nella villa del presidente a St.Moritz, con Confalonieri e Dell’Utri. Fa un freddo tremendo, usciamo imbacuccati per andare a prendere l’aperitivo al Palace e incrociamo il clan Agnelli: l’Avvocato con la camicia aperta, Montezemolo con il ciuffo, Jas Gawronski elegantissimo, forse Malagò. Al confronto noi sembravamo Totò e Peppino. Condividiamo il tavolo. 

Alla fine Berlusconi ci dice: “Potremo fare anche noi grandi cose, ma non saremo mai come loro. Ci mancano venti centimetri di statura e il coraggio di esporre il petto villoso sottozero”. Qualche giorno dopo ci propose di prendere il Milan». 

Nel libro Galliani racconta come il binomio divenne un treppiedi: «Sacchi stava per andare alla Fiorentina. Lo intercettammo per strada. Quasi impossibile, nell’era pre-telefonini. Accettò di firmare in bianco. Io scrissi 300 milioni, meno di quello che prendeva in B al Parma. Lui pose una condizione: a ogni trofeo me li raddoppiate. L’anno dopo vinse lo scudetto, l’anno dopo ancora la Coppa dei Campioni. Faceva un miliardo e 200 milioni. Che fui felice di pagargli». La prima mossa del Condor. 

Da lì in poi fu tutto in discesa. 

 

(...) 

Ma le storie di grandi operazioni di mercato sono pressoché infinite: Boban («Andammo al ristorante con il padre, un colonnello croato, Marinko, uomo d’ordine.

Avevamo davanti una bottiglia di San Pellegrino, e ogni volta lui la ruotava. Gli chiesi perché. “Perché non sopporto di vedere una stella rossa”, rispose»), Shevchenko («Lo vidi a Kiev, con un freddo terribile e le prostitute che tentavano di entrare in camera. Dormii con il cappotto e con una cassapanca contro la porta. Passai la notte al telefono con la donna di cui ero innamorato (la giornalista Manuela Moreno, ndr)»), Ibra («Mi piazzai nel salotto di casa: non me ne vado finché  non firmi. Restai tutto il giorno. La moglie mi guardava come un pazzo: ma questo chi diavolo è? E Ibra: “È Galliani del Milan, dice che non se ne va finché non firmo”»), Ronaldo («Faceva la scarpetta nel vassoio degli spaghetti al pomodoro. Ancelotti lo prendeva in giro: Fenomeno, almeno sai chi ti marca domani? E lui: io no, ma lui sa che deve marcare Ronaldo»), Beckham («Ragazzo umile. Restituiva al magazziniere la tuta ben piegata, diceva che nelle giovanili del Manchester gli avevano insegnato così»).

In mezzo a tanti colpi da maestro, la tragedia sportiva della finale di Istanbul. Il Milan si fece rimontare tre gol in un tempo dal Liverpool e perse ai rigori. «Berlusconi non disse nulla. Dopo la partita restammo seduti più di mezz’ora in tribuna, senza dirci una parola. Avevamo perso, ma la squadra aveva dato il massimo. Si era arrabbiato molto di più dopo uno 0-0 con il Celta Vigo in cui non avevamo tirato in porta, riempì me e Capello di improperi. Il bel gioco prima di tutto».

Qualcuno il tracollo non lo accettò. Come Rino Gattuso: «”Ogni volta che indosserò la maglia del Milan, mi tornerà dentro il dolore di Istanbul e io non riesco a sopportarlo, mi spiace. L’unico modo per lasciarmelo alle spalle è togliermi quella maglia, andarmene. Mi lasci partire, Galliani”. È venuto a dirmelo una volta, due, alla terza si è presentato in sede accompagnato dal padre. Li ho portati nella sala dei trofei, abbiamo discusso a lungo, gli ho ribadito che non l’avrei lasciato partire, mi sono alzato dal tavolo e gli ho detto: “Ascolta, Rino. Adesso ti chiudo qui dentro a riflettere. Ti libererò solo quando mi avrai detto: ok, resto”. E così ho fatto. L’ho chiuso a chiave nella sala dei trofei. L’ho sequestrato, come ha fatto don Rodrigo con Lucia nei Promessi sposi. Dopo un’ora, ho messo dentro la testa: “Hai cambiato idea?” “No”. Ho richiuso la porta.

Questo giochino è durato almeno 5-6 ore, con il consenso del padre Franco, naturalmente. All’ora di pranzo gli ho fatto portare due panini e ho richiuso immediatamente la porta per paura che scappasse. Ringhio in gabbia. Ha divorato il pasto circondato dai gloriosi metalli di casa, masticava e intanto gli entrava in corpo tutta la grandezza della nostra storia. Alla fine, si è arreso. Ho aperto la porta e mi ha detto: “Va bene, resto al Milan”». 

Nel rapporto idilliaco con Berlusconi l’unico screzio, per modo di dire, fu per la politica: «Zaccheroni venne esonerato nel marzo 2001 dopo l’eliminazione in Champions League con il Deportivo La Coruna. In panchina andarono Cesare Maldini e Mauro Tassotti che diressero il derby vinto 6-0. Si giocò di venerdì, due giorni prima delle elezioni politiche del 13 maggio. 

Al Collegio 1 di Milano, per il centro-destra, era candidato Silvio Berlusconi e per il centro-sinistra Gianni Rivera. Notoriamente chi abita nella prima cerchia dei Navigli è interista, perché storicamente i ricchi di Milano sono interisti e i meno ricchi sono milanisti. Per la prima e unica volta in vita mia, ho ricevuto una telefonata di rimprovero da Berlusconi dopo una partita vinta: “Adriano, domenica ci sono le elezioni a Milano 1! Non potevate fermarvi sul 3 o 4 a zero?”. “Fermarci? Se avessi potuto segnarne 9 o 10, avrei goduto come un riccio!”. Il presidente si è messo a ridere e ha dimenticato le elezioni che comunque avrebbe vinto con il 53% doppiando quasi Gianni Rivera, leggenda rossonera».

Prima degli ultimi anni di purgatorio rossonero con la diarchia gestionale con Barbara Berlusconi, Galliani ebbe tempo di sfornare l’ultimo pallone d’oro frutto della serie A: Kakà. Era il 2007. Oggi quel mondo dorato del calcio italiano è sparito anche se ci sono tre italiane nelle finali europee: «La Premier fattura quattro volte più della serie A. I rapporti di forza sono troppo sbilanciati». Come lo erano a nostro favore ai tempi loro, del resto. La rivoluzione ora parla inglese.

Galliani e Berlusconi però un altro miracolo l’hanno fatto, portando il Monza per la prima volta nella massima serie ed esaurendo il sogno di mamma Annamaria: «Alle 23.12 del 29 maggio 2022 a Pisa conquistammo la promozione. Due minuti dopo ricevo questo whatsapp “Sono molto contento per lei dottore e per il presidente, Sinisa Mihajlovic”». L’uomo che presero al Milan al posto di Sarri e che scoprì Gigio Donnarumma. Ora, il Monza, sogna l’Europa. Galliani però le partite continua a non vederle: «Scappo dallo stadio all’intervallo e rifugiandomi nel Duomo di Monza, a cellulare spento. Esco solo dopo il fischio finale». Per il Condor, un ansiolitico naturale.

Adriano Galliani: «L’amore per Manuela Moreno (che mi lasciò). A S. Moritz con Agnelli io e Berlusconi sembravamo Totò e Peppino». Aldo Cazzullo Il Corriere della Sera il 13 maggio 2023. 

Intervista ad Adriano Galliani, 78 anni, amico di Berlusconi dagli anni 70, ad del Monza dal 2018, ad del Milan dal 1986 al 2017: «Mamma morì a 14 anni, l’ho cercata per tutta la vita. Agnelli ci convocò e ci fece mollare Baggio, per far firmare Ibra gli occupai il salotto, piansi per Kakà»

Adriano Galliani, qual è il suo primo ricordo?

«Ho sei anni e rubo la Gazzetta dello Sport all’autista di un camion dell’azienda di mia mamma. Ho imparato a leggere sulla Rosea».

Sua mamma aveva un’azienda?

«Trasportava collettame, si diceva così, sulla rotta Brianza-Milano. Suo zio era stato presidente del Monza. Era lei, non mio padre, a portarmi alla partita. Messa in Duomo, panino, stadio. Morì nel 1959, avevo 14 anni. Il giorno dopo papà mi disse: “Adriano, vai pure. La mamma è contenta se vai a tifare per il Monza”» (Galliani si commuove).

Papà cosa faceva?

«Segretario comunale. Non aveva conosciuto suo padre: caduto sul Piave. La nonna non si risposò mai, andò a vivere con sua sorella, pure lei aveva perso il marito nella Grande Guerra. Anche mio nonno materno era morto nel 1918, di febbre spagnola».

Una vita dura.

«No. Una vita segnata da una passione: il calcio. Idolo: Alfredo Di Stefano. Nel 1954 ero in vacanza ad Arenzano, scappai di casa per andare in un bar di Genova dove davano la finale dei Mondiali; non mi trovavano più, pensavano fossi annegato. Siccome non sapevo giocare, con i primi soldi divenni comproprietario e dirigente del Monza».

Come fece i primi soldi?

«Aprii uno stabilimento balneare a Vieste, sul Gargano; ma arrivarci in macchina era un’odissea. Divenni socio di un’azienda, Elettronica Industriale, e alla fine la comprai». 

Da qui il primo incontro con Berlusconi, di cui lei racconta nel nuovo libro scritto con Luigi Garlando, Memorie di Adriano G.

«Per prima cosa mi chiese come la pensavo».

E lei?

«Risposi la verità: “Mio padre diceva che i comunisti mangiano i bambini, e io mi sono fermato lì”. Berlusconi si alzò, venne verso di me, pensai di aver fatto una gaffe. Invece mi abbraccia e mi fa: anche il mio papà diceva così!».

E le chiese di piazzare i ripetitori delle sue tv.

«Già pensava a tre canali nazionali. Obiettai che non era possibile: per la legge poteva averne solo uno regionale. Fu secco: “Lei faccia il tecnico e mi dica: la sua azienda può realizzare il mio progetto?”».

Poteva.

«Fu il mio periodo eroico. Ho comprato pezzi di colline e di montagne in quattromila comuni. Al Sud sul rogito spesso il venditore scriveva: professione, benestante».

E compraste il Milan.

«Era il Capodanno 1986. Sono in vacanza nella villa del presidente a St. Moritz, con Confalonieri e Dell’Utri. Fa un freddo tremendo, usciamo imbacuccati per andare a prendere l’aperitivo al Palace e incrociamo il clan Agnelli: l’Avvocato con la camicia aperta, Montezemolo con il ciuffo, Jas Gawronski elegantissimo, forse Malagò. Al confronto noi sembravamo Totò e Peppino. Condividiamo il tavolo. Alla fine Berlusconi ci dice: “Potremo fare anche noi grandi cose, ma non saremo mai come loro. Ci mancano venti centimetri di statura e il coraggio di esporre il petto villoso sottozero”. Qualche giorno dopo ci propose di prendere il Milan».

E Berlusconi vi rimise in forma: indimenticata la vostra foto alle Bermuda, tutti vestiti di bianco…

«Sembrava una scena di Momenti di gloria, ma con un altro passo».

Quando lei parla di Berlusconi le brillano gli occhi. Lo sa, vero, che molti lo considerano un simpatico lestofante?

«Non c’è nulla di più lontano dalla realtà dell’immagine che ha dato di lui certa stampa. È come Ezzelino da Romano, passato alla storia come crudele mentre era un grand’uomo. Berlusconi è la persona più buona che ho conosciuto in vita mia. È dolcissimo. Non dimenticherò mai le cose che mi ha detto sulla nostra amicizia prima del suo intervento al cuore; anche se dopo 44 anni non riesco a dargli del tu. Quando rischiai di morire di Covid, in un prefabbricato senza finestre, lui telefonava al San Raffaele ogni giorno per avere mie notizie».

È stato scritto che Confalonieri è il lato bianco del berlusconismo, e Dell’Utri, condannato per mafia, quello nero.

«A parte il fatto che il concorso esterno esiste solo in Italia, Marcello è nato a Palermo, Confalonieri a Milano, io a Monza. La cosa è tutta qui, e non aggiungerò altro. Berlusconi mi ha insegnato a vedere il mondo da un’altra parte. Un giorno di nebbia dovevamo andare a Torino. Uno proponeva il treno, l’altro la macchina, l’altro ancora l’aereo privato. Arrivò Berlusconi e disse: ma noi oggi perché cavolo dobbiamo andare a Torino? Mi ha insegnato mille cose. E sa qual è la più importante?».

Quale?

«L’ho visto salutare il presidente degli Stati Uniti e la persona più umile della terra allo stesso modo, con lo stesso sorriso». 

Quando prendeste il Milan salutaste Nils Liedholm.

«Avevamo molto rispetto per il Barone. Ma si doveva cambiare passo. Liedholm era la flemma: in ogni albergo voleva la camera 5 o la 113 o quella il cui numero in totale facesse 5. Sacchi urlava nel sonno, stringeva i pugni, lanciava grida disumane. In campo allenava con il megafono. Alla fine gli olandesi non lo sopportavano più».

Nel libro lei racconta che Sacchi stava per andare alla Fiorentina.

«Lo intercettammo per strada. Quasi impossibile, nell’era pre-telefonini. Accettò di firmare in bianco. Io scrissi 300 milioni, meno di quello che prendeva in B al Parma. Lui pose una condizione: a ogni trofeo me li raddoppiate. L’anno dopo vinse lo scudetto, l’anno dopo ancora la Coppa dei Campioni. Faceva un miliardo e 200 milioni. Che fui felice di pagargli».

Il primo grande acquisto fu Donadoni, sottratto ad Agnelli.

«Berlusconi se ne innamorò durante una partita dell’Under 21. Ma stava all’Atalanta, e da sempre l’Atalanta vendeva i giovani migliori alla Juve. Il presidente invitò a cena per la sera dopo i Bortolotti, padre e figlio. Quando uscirono da Arcore, Donadoni era del Milan».

Lei però rivela a Garlando che Agnelli intervenne per non farvi comprare Baggio.

«Quella volta a Torino andammo in elicottero. Pensavo che ci avrebbero abbattuto. Invece arriviamo a corso Marconi, c’è anche Romiti, e Agnelli ci chiede di rinunciare a Baggio, introduce anche discorsi extracalcistici…».

Quali?

«La fusione tra Rinascente e Standa. Io capisco che Berlusconi ci sta ripensando e intervengo, alzo la voce. Agnelli mi richiama all’ordine: “Si calmi, non faccia così…”. Finì che Baggio andò alla Juve».

Vialli vi disse di no.

«Avevamo l’accordo con Mantovani, andammo a casa sua convinti di chiudere. Invece ci chiese, quasi beffardo: a Milano c’è il mare? Pensai: sei nato a Cremona, mi stai prendendo in giro? Invece sorrisi: a Milano2 abbiamo un laghetto bello come il mare. E lui: peccato, senza mare non riesco a vivere. Credo che in realtà Mantovani ci avesse ripensato. Così prendemmo Marco Van Basten. Il calciatore più forte che abbia mai visto».

Il primo Milan di Berlusconi arrivò all’Arena in elicottero, al suono della Cavalcata delle valchirie. Una roba un po’ da mitomani.

«L’elicottero fu un’idea di Berlusconi; la Cavalcata delle valchirie mia. Ricordavo Apocalypse Now: “Mi piace l’odore del napalm al mattino presto…” E pensare che nella mia vita mi sono dovuto ricredere su molti miti».

Cioè?

«Da bambino all’oratorio vedevo “L’assedio dell’Alcazar”, con il colonnello Moscardò cui i comunisti avevano accecato la moglie e i figli, ma quando il caudillo Franco telefonava per chiedere: novità? rispondeva: no generale, nessuna novità. E poi da grande ho scoperto che i buoni, almeno ufficialmente, erano i comunisti. Da ragazzo vedevo i western con John Wayne che faceva strage di indiani, e ho scoperto che i buoni erano gli indiani. Da giovane facevo il tifo per gli americani in Vietnam, poi ho scoperto le stragi che avevano commesso…».

Nel 1989 vinceste la prima Coppa dei Campioni, contro lo Steaua Bucarest.

«C’erano ancora Ceausescu e il Muro di Berlino. A Bucarest rastrellammo anche i loro biglietti, il Camp Nou era tutto rossonero. Portammo a Barcellona l’intero calcio italiano e mezza politica su un Jumbo. Era un’altra Italia».

Lei ricorda che l’ultimo Pallone d’Oro uscito dalla serie A fu Kakà nel 2007, e teme che non ce ne sarà un altro.

«Spero di sbagliarmi. Abbiamo le due squadre di Milano in semifinale, è un segnale in controtendenza. Ma la Premier fattura quattro volte più della serie A. I rapporti di forza sono troppo sbilanciati».

Un altro colpo di mercato fu Ancelotti.

«Il presidente della Roma Viola mi disse: vada al residence Velabro alle 22, camera 212, e troverà Ancelotti. Il portiere pensò a un appuntamento equivoco. L’accordo c’era, ma quando il medico del Milan vide gli esami disse: c’è un errore, queste non sono le gambe di un calciatore ma di un anziano. Invece erano proprio le ginocchia di Ancelotti. Lo prendemmo lo stesso, e fece ancora stagioni meravigliose».

Tanto correva per tutti Angelo Colombo.

«Ma si separò dalla moglie e prese un filippino. Sacchi gli telefonò e il filippino rispose: il signore non è in casa. Sacchi uscì pazzo: Colombo si è imborghesito, non ha più fame, dobbiamo venderlo subito! Non ci fu verso di fargli cambiare idea».

Van Basten smise a 28 anni.

«I greci dicevano che gli eroi muoiono giovani. L’avevamo scongiurato di non farsi operare, di convivere con il dolore. Purtroppo l’intervento non riuscì. Agnelli mi chiese il permesso di visitarlo in clinica. All’uscita mi chiamò: non credo che questo ragazzo giocherà ancora a calcio. Purtroppo aveva ragione».

Prendeste un grande 10, Boban.

«Andammo al ristorante con il padre, un colonnello croato, Marinko, uomo d’ordine. Avevamo davanti una bottiglia di San Pellegrino, e ogni volta lui la ruotava. Gli chiesi perché. “Perché non sopporto di vedere una stella rossa” rispose».

Arrivarono altre Coppe, ma pure la beffa di Istanbul: il Liverpool vi rimontò tre gol e vi sconfisse ai rigori.

«Davanti a noi c’era un muretto basso, al terzo gol di Crespo stavo per cadere di sotto, mi salvò Erdogan afferrandomi per la giacca».

Berlusconi cosa disse?

«Nulla. Dopo la partita restammo seduti più di mezz’ora in tribuna, senza dirci una parola. Avevamo perso, ma la squadra aveva dato il massimo. Si era arrabbiato molto di più dopo uno 0-0 con il Celta Vigo in cui non avevamo tirato in porta, riempì me e Capello di improperi. Il bel gioco prima di tutto».

È vero che dopo quella sconfitta Gattuso voleva lasciare il Milan?

«Sì. Venne a dirmi: non posso più indossare la maglia rossonera, perché ogni volta mi tornerà il dolore di Istanbul. Così lo chiusi a chiave nella stanza delle coppe. Ogni ora tornavo: hai cambiato idea? No? E richiudevo. A mezzogiorno gli lasciai due panini. Lo presi per sfinimento. Nel pomeriggio mi comunicò che restava. Gli aprii».

Anni dopo prese per sfinimento pure Ibra.

«Mi piazzai nel salotto di casa: non me ne vado finché non firmi. Restai tutto il giorno. La moglie mi guardava come un pazzo: ma questo chi diavolo è? E Ibra: “È Galliani del Milan, dice che non se ne va finché non firmo”. E tu cosa farai? “Credo che firmerò, se no quello non se ne va davvero”».

In mezzo ci fu Calciopoli. Juve in B, al Milan 30 punti di penalizzazione.

«Su Calciopoli volo alto».

Non può cavarsela così.

«Ero presidente di Lega: crede che i presidenti delle altre squadre mi avrebbero eletto, se ci fossero stati brogli e inganni?».

Lei fu interrogato da Borrelli.

«Filò tutto liscio. Poi però la sua collaboratrice Maria José Falcicchia, futura vicequestore di Milano, mi inseguì: “Il dottor Borrelli vorrebbe fargli ancora una domanda”. Tornai indietro e gli feci notare che quella era la tattica di Lavrentij Berija, il ministro degli interni di Stalin».

Com’erano i suoi rapporti con Moggi?

«Buoni, anche se ne avevo di più con il mio omologo, Giraudo. Ma con la Juve non c’era alleanza. C’era convergenza di interessi. Poi sul campo ci si affrontava a viso aperto. Eravamo due squadre fortissime, nel 2003 ci giocammo la Champions».

Vinse il Milan, rigore decisivo di Shevchenko.

«A volte ancora sogno che lo sbaglia».

Lei nel libro racconta di quando andò a vedere Sheva a Kiev, con un freddo terribile e le prostitute che tentavano di entrarle in camera.

«Dormii con il cappotto e con una cassapanca contro la porta. Passai la notte al telefono con la donna di cui ero innamorato».

Chi era?

«Non posso dirglielo».

Se non me lo dice faccio come lei con Ibra.

«Va bene, ma devo farmi autorizzare» (Galliani telefona: «Manuela, posso?»).

Allora?

«Era Manuela Moreno, la giornalista tv. Poi però mi ha lasciato».

Prima di Sheva aveva preso Rui Costa.

«Costava uno sproposito, 85 miliardi, e Berlusconi disse no. Io però ho sempre capito quando Berlusconi dice no e pensa no, quando dice sì e pensa sì, quando dice sì e pensa no, quando dice no e pensa sì. Quello era un no che voleva dire sì. Allora presi Rui Costa. Marina lo chiamò alle 7 del mattino: papà, avevamo detto di non comprarlo!».

Poi venne Kakà.

«E Rui Costa fece una cosa che non avevo mai visto e non ho mai più visto fare a nessun calciatore. Mi telefonò: “Kakà è molto più forte di me. Mi faccio da parte”».

Prendeste anche star in fase calante, come Beckham.

«Il contrario della star: mai visto un ragazzo più umile. Restituiva al magazziniere la tuta ben piegata, diceva che nelle giovanili del Manchester gli avevano insegnato così».

E Ronaldo.

«Faceva la scarpetta nel vassoio degli spaghetti al pomodoro. Ancelotti lo prendeva in giro: Fenomeno, almeno sai chi ti marca domani? E lui: io no, ma lui sa che deve marcare Ronaldo».

Cassano?

«Facemmo una litigata epica: aveva firmato da poco il contratto e già chiedeva il rinnovo. Ma ora siamo amici. Troppo simpatico. Un giorno Seedorf stava tenendo uno dei suoi alati discorsi, e Cassano gli fa: e tu chi sei, Obama?».

Qualche errore l’avrà pur fatto. Pirlo?

«Lo portammo via all’Inter. Forse non dovevamo lasciarlo andare alla Juve; ma forse da noi non avrebbe reso ancora così tanto. Semmai Berlusconi prendeva in giro il nostro direttore sportivo, il grande Braida: “Sei andato a Bordeaux e tra Zidane e Dugarry hai scelto il secondo!”».

Lei nel libro accenna al mancato ingaggio di Sarri. Cosa accadde?

«Cambiai idea quando lessi che aveva dichiarato: Renzi è addirittura peggio di Berlusconi. Così prendemmo Mihajlovic».

Ha anche incontrato il suo idolo Di Stefano.

«Al sorteggio di Champions lui rappresentava il Real Madrid e io il Milan; già questo mi emozionava. Quando poi per alzarsi in piedi si afferrò al mio braccio, ho pensato a mia mamma e mi sono venute le lacrime agli occhi».

E venne il giorno in cui Kakà doveste venderlo. Proprio al Real.

«Quella volta, mentre firmavo, piangevo proprio. Il mio amico Florentino Perez ci rimase male: Adriano, se vuoi annulliamo tutto. Ma ormai certi costi non potevamo più permetterceli».

Così avete preso il Monza.

«E alle 23.12 del 29 maggio 2022 a Pisa conquistammo la promozione in serie A. Due minuti dopo ricevo questo whatsapp». «Sono molto contento per lei dottore e per il presidente, Sinisa Mihajlovic».

Come immagina l’aldilà?

«Spero tanto che esista per mettere fine alla mia ricerca. Perché per tutta la vita ho cercato la mia mamma».

Lei è stato un senatore non molto presente.

«Quando mancavo mi sentivo in colpa. Ma quando ero in Senato mi sentivo in colpa perché non mi stavo occupando del Monza».

È vero che non prende più gli ansiolitici?

«Ho risolto scappando dallo stadio nell’intervallo e rifugiandomi nel Duomo di Monza, a cellulare spento. Esco solo dopo il fischio finale. Ma quando abbiamo battuto la Juve mi ha avvisato il chierichetto: abbiamo vinto!».

Adriano Galliani, con Luigi Garlando, ha raccolto aneddoti e ricordi della sua vita da dirigente in «Le memorie di Adriano G.» (Piemme, 208 pagine, in uscita il 16 maggio). Il libro sarà presentato il 30 maggio alle 18.30 al teatro Manoni di Milano da Galliani, Garlando e la giornalista Anna Billò.

Dagospia il 15 maggio 2023. Da “Un Giorno da Pecora” – Rai Radio1

La mia relazione con Adriano Galliani? “Sono passati cent’anni, ancora parla di me, lui ha avuto mille mogli nel frattempo, mi fa ridere questa cosa. Lo frequentavo nel 1999, ci siamo visti per meno di un anno”. A raccontarlo a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, la giornalista e conduttrice di Tg2Post Manuela Moreno, riferendosi ad un’intervista rilasciata dall’ex dirigente del Milan al Corriere della Sera. 

Galliani ha raccontato che quando era andato a prendere Shevchenko in Ucraina era assediato da delle prostitute, che volevano entrare nella sua camera, e che per passare il tempo telefonava a lei. “Mi chiamava e mi diceva: mi bussano, che devo fare? E io: ma che ne so, barricati. Forse voleva fare un po’ il fico, non lo so. Poi quando Sheva arrivò a Milano lo andammo a prendere insieme”.

Come mai quella relazione è finita? “Si dice il peccatore e no il peccato. Io lo mandai serenamente a quel paese, anche se lui poi per tre mesi mi telefonava e mi cantava le canzoni di Renato Zero, da ‘Cercami’ ad ‘Amico’”. C’è di mezzo un tradimento? “No no, è stata piuttosto un’omissione – ha spiegato la Moreno a Un Giorno da Pecora - non mi aveva detto una cosa che poi ho scoperto, eravamo in vacanza al mare, ho scoperto che una cosa che non mi piaceva così ho fatto i bagagli e ho salutato…” E ora in che rapporti siete? “Ogni tanto ci sentiamo ed Adriano ancora oggi fa un po’ la vittima su questa cosa…” 

Cosa ne penso dell’addio di Fazio? “Mi dispiace che vada via dalla Rai, non so quanto la sua sia una scelta o meno, bisognerebbe chiederlo a lui. Io lo seguirò volentieri in tv, dove andrà nelle sue prossime tappe. Io però sono una dipendente fedele alla Rai”. A dirlo a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, la giornalista e conduttrice di Tg2Post Manuela Moreno.

Cristian Brocchi.

Cristian Brocchi, che fine ha fatto l’ex Milan: «Non ero il preferito di Berlusconi». Simone Golia su Il Corriere della Sera il 26 Aprile 2023

Cristian Brocchi, ex bandiera e allenatore del Milan, è senza panchina da un anno: «Da Berlusconi al Monza, vi racconto tutto» 

È raro trovare Cristian Brocchi senza una racchetta in mano: «Che battaglie a padel con Vieri e Matri. Il più forte? Bobo, vince sempre. Scommettiamo cene, pranzi, il campo. Lui alla fine non paga mai», ci racconta. Gioca da 10 anni, è l’unico sport che può praticare. Colpa del piede destro, lo stesso che lo ha costretto a smettere col calcio. In un Genoa-Lazio del 2013 Matuzalem entra in maniera scomposta: infrazione alla base del primo e del secondo metatarso con lussazione metatarso-falangea del terzo dito: «Ma in realtà il calvario era iniziato già un anno prima con un pestone contro la Juve. Restai fuori 10 mesi, provandole tutte per tornare in campo. Non mi volevo rassegnare. A 36 anni ero ancora titolare in una squadra importante». 

Come è cambiata la vita dopo?

«Mi ha condizionato la quotidianità. Sento sempre male ad appoggiare il piede. Quando cammino, quando corro, quando indosso determinate scarpe. Nel padel lo spazio è molto piccolo e riesco a gestirmi, anche se pure lì mi stiro il polpaccio ogni due per tre. Purtroppo è una conseguenza di questo peso che mi porto dietro». 

Meglio allenare, insomma. Però è senza squadra da un anno.

«Ho rifiutato quattro belle opportunità, compresa una Nazionale. Non ero nel mood giusto, a volte saper dire di no è una forza. Ho deciso di aspettare, prendendomi il rischio di non trovare più nulla. La mia storia insegna che le esperienze migliori le ho vissute partendo dall’inizio e non subentrando a stagione in corso. E poi avevo bisogno di staccare. Mi sono ritirato nel 2013 e il giorno dopo già facevo l’allenatore».

Cosa ha fatto in questo anno?

«Sono andato per la prima volta a Las Vegas. E poi ho trovato il tempo per passare il weekend con i miei figli, Filippo e Federico. Poterli svegliare la mattina, preparare loro la colazione, accompagnarli a scuola o andare ai colloqui con i professori. Il nostro lavoro, che agli occhi di tutti è molto bello, queste cose te le porta via. Abbiamo visitato anche l’Africa, il deserto del Sahara. Li ho messi nella condizione di vedere qualcosa di diverso e di capire l’importanza delle piccole cose. Lì le persone si emozionano con pochissimo». 

Ma quindi tornerà mai in panchina?

«L’attenzione per il calcio resta, ma non ho l’ossessione di rientrare a tutti i costi. Continua a essere la mia passione, la mia volontà. Però ho bisogno di adrenalina e di lavorare accanto a persone che vivono questo sport in maniera pulita. Se dovesse succedere, sarò il primo a ributtarmi nella mischia». 

Ha bisogno delle persone giuste. Come Galliani per intendersi.

«Se non ci lavori insieme, non ne capisci la forza e la bravura. Quando da lontano sentivo il suo “Cristian!”, allora capivo che stava per succedere qualcosa. Sono arrivato al Milan a 9 anni, ho vinto in Italia e nel mondo. Per me è una famiglia, un club che amo. Ho il dna rossonero, ho giocato nel settore giovanile e l’ho allenato. Idem per la prima squadra». 

Nel 2016 lei guida la Primavera e si ritrova improvvisamente al posto di Mihajlovic .

«Durante l’anno Berlusconi mi aveva invitato un paio di volte ad Arcore. Voleva parlare dei giovani talenti. Donnarumma, Locatelli, Calabria… apprezzava il mio lavoro. Una sera squilla il cellulare, è lui: “Vieni qui a cena”. Ci sediamo a tavola: “Da ora sei il nuovo allenatore del Milan, questa volta non mi puoi dire di no”. Disse così perché già una volta avevo rifiutato, non mi sentivo pronto. Ma fu categorico: “Ora decido io”».

Si dice che è sempre stato il suo cocchino.

«Tutte cavolate. Ne pago ancora le conseguenze. Una diceria che ha condizionato la mia carriera da allenatore. Al Milan hanno allenato anche Inzaghi e Seedorf, ma il cocchino ero solo io, l’unico a essere stato promosso in prima squadra senza un contratto. Se fossi stato il suo preferito, mi avrebbe fatto un biennale come a tutti gli altri. Io andai in panchina in scadenza, pensi un po’. Con Berlusconi non mi sentivo mai in amicizia. La verità? Mi ero guadagnato quella possibilità per la mia bravura». 

L’avventura al Milan dura solo sei partite, poi non viene riconfermato.

«C’erano dei problemi, altrimenti non avrebbero esonerato Mihajlovic. Con soli due mesi a disposizione sarebbe stato difficile per tutti. Accettai la sfida anche perché certo che l’anno seguente sarei stato riconfermato. Ma come dico sempre, di allenatori bravi in giro ce ne sono tanti. Però devi essere pure fortunato. Chi vince lo fa perché ha avuto dalla sua il classico «palo dentro palo fuori». Il mio è stato un palo fuori». 

Qual è stata la sua sfortuna?

«In estate, quando avevo già fatto le convocazioni e deciso la programmazione, Berlusconi vende la società. Come prima cosa i nuovi acquirenti hanno scelto un altro allenatore (Montella)». 

Berlusconi e Galliani poi le affidano il Monza.

«Due anni meravigliosi. Abbiamo riportato il club in B dopo quasi due decenni. Saremmo saliti anche in A se la Salernitana non avesse segnato a Pordenone al 96’. Abbiamo tenuto una media punti incredibile nonostante la pressione enorme sulle nostre spalle». 

Però quel Monza aveva speso tanto proprio per andare in serie A .

«Molte squadre forti come il mio Monza la promozione neanche la sfiorano. Ci sono squadre in C che hanno speso quanto noi o ancora di più senza ripetere gli stessi risultati. Non tutti capirono il grande lavoro fatto, in primis a Monza. C’era un malessere generale e non volevo ripartire in quelle condizioni. Andai da Galliani e gli dissi che, per il bene di tutti, serviva separarsi». 

Il più forte con cui ha giocato?

«Ronaldo il Fenomeno. Arrivò da noi con diversi chili in più, ma anche da gordo non ce n’era per nessuno». 

Qualcuno la vedeva solo come una riserva. Le dava fastidio?

«Si dice che Brocchi abbia vinto la Champions senza giocare. No, nel 2003 ho giocato i quarti con l’Ajax da titolare e anche la semifinale con l’Inter. Ancelotti sapeva che poteva contare su di me. Una volta alle Iene gli chiesero chi fosse il giocatore più sottovalutato che avesse allenato: “Brocchi — disse senza esitare — non tutti capiscono le sue qualità».

Milan-Inter in semifinale di Champions come 20 anni fa.

«Tutti a Milanello provavamo a ridere, a scherzare, a fare come se niente fosse. Ma la verità era che non c’era un secondo della nostra giornata in cui non pensavamo a quella partita. Eravamo ottimisti, era la nostra forza: pensare sempre alla vittoria e mai all’eventuale sconfitta. Ancelotti non ci disse niente di particolare, doveva stemperare la tensione. “Andate e godetevela”, fu la sua unica indicazione». 

Lei una volta disse: «Odio l’Inter», dove giocò nella stagione 2000/2001. conferma?

«No, non l’ho mai odiata. Fu un’esagerazione di un giornalista. Prima della presentazione, un dirigente si raccomandò: “Hai fatto 10 anni di Milan, stai calmo con le dichiarazioni”. Raccontai che mio padre, tifoso interista, mi portava sempre allo stadio. Avevo cinque anni di contratto, dovevo imbonirmi l’ambiente. Fu un errore di gioventù. Poi ho avuto un sacco di problemi, compresa un’operazione alla schiena che comportò stiramenti a raffica. In estate mi ripresentai alla Pinetina: “Sarà l’anno della rinascita”, pensavo. Però sull’armadietto trovai il nome di un altro giocatore. Non avevo ancora firmato niente, ma ero già stato venduto. È stata la mia fortuna, perché così sono tornato al Milan. La mia famiglia».

Luca Caldirola.

Luca Caglio per il “Corriere della Sera - Edizione Milano” il 13 Gennaio 2023.

Erano promessi sposi, poi l'Inter ha ceduto il giovane Luca Caldirola ai tedeschi del Werder Brema, estate 2013, e sabato scorso il vecchio «Caldi» ha restituito il colpo (di testa, deviato da Dumfries) facendo felice la sua nuova Fiamma, rossa, il Monza. Proprio lui che è brianzolo, nato a Desio il 1° febbraio '91 e cresciuto a Seregno, terra di famiglia e di primi calci in parrocchia, di campi in sabbia presto abbandonati per i prati del settore giovanile nerazzurro, la sua seconda casa dal 1999 al 2010.

L'aumento di statura insieme ai gradi: capitano, anche per i modi, la serietà, vincendo gli scudetti Giovanissimi e Allievi e un torneo di Viareggio. L'unica partita ufficiale con i grandi in Champions League, nel 2011, contro il Cska Mosca. Poi l'aura del predestinato ha perso energia, quindi le prime crepe dell'incertezza nel soprannome più traballante, «The Wall», ma il Muro è ancora in piedi e l'hanno restaurato a Benevento.

Quante radici in un solo gol. Cos' ha messo a fuoco nell'esultare?

«Io che a 7 anni vado al Brianteo a tifare Monza in Serie B. Non è stato un banale gol dell'ex, non c'era voglia di rivalsa, piuttosto si è avverato il mio sogno primordiale: segnare con questa maglia in A tra il boato di uno stadio pieno. Ho arrestato la corsa cercando la Curva, principio della mia passione per i biancorossi, sembrava di riavvolgere il nastro di un film».

 Lo scrive anche sui social: non dimenticare mai da dove sei partito.

 «Ho iniziato a giocare a pallone per caso. Mio padre allenava i portieri della Base 96, società di Seveso. Mi invitarono a entrare nella scuola calcio, il borsone era più grande di me. Oggi sento ancora il presidente nonostante me ne sia andato "pulcino" all'Inter».

 Dove è rimasto fino a 20 anni uscendone uomo.

«Da subito c'è stata attenzione anche alla condotta fuori dal campo. Portavo la pagella, chi aveva brutti voti rischiava uno stop, e i dirigenti guardavano eccome alla disciplina. Le scarpe? Sempre pulite. Entrava qualcuno nello spogliatoio? Tutti in piedi. Crescendo, però, conciliare sport e studio è diventato difficile: trasferte lontane, tornei, allenamenti di pomeriggio con la prima squadra. Il diploma da ragioniere l'ho preso un po' in ritardo: l'anno della maturità giocavo nella massima serie olandese, in prestito al Vitesse».

Come ha gestito pressioni e difficoltà nella rincorsa al professionismo?

«Durante l'adolescenza mi ha affiancato un mental coach. Mi ha aiutato a sviluppare nuovi punti di vista valorizzando traguardi e sacrifici, la fatica che oggi sembra bandita dalla vetrina social del calcio, dove invece l'ostentazione del successo potrebbe far pensare che sia tutto facile, alla portata. Forse sarebbe meglio se i calciatori si raccontassero ai giovani nelle scuole o negli oratori».

Caldirola in cattedra .

«E mi sono anche iscritto a Psicologia, ma ad oggi la laurea è lontana. Invece mi manca un solo corso per diventare sommelier».

Anche lei, come il vino, sembra migliorare invecchiando. Ha esordito in Serie A nel 2020 siglando una doppietta, alla soglia dei 30 anni, con il Benevento.

«Sono tornato in Italia dopo un tormentato epilogo al Werder Brema. Ero finito fuori rosa, mi allenavo con l'Under 23, non c'era la fila di pretendenti. Nello sconforto ho pensato di mandare tutto all'aria, smettere. Ho resistito. A gennaio 2019 ho detto sì a Pasquale Foggia, il direttore sportivo del Benevento, accettando di ripartire dalla Serie B. La stagione successiva abbiamo vinto il campionato con Pippo Inzaghi in panchina».

E mister Palladino, altro ex attaccante, com' è riuscito a rianimare il Monza?

«Trasmettendo la passione di cui si nutre, lavorando anche sull'aspetto mentale. Ha smesso di giocare da poco e conosce le dinamiche di uno spogliatoio, i bisogni di un atleta, l'importanza di una pacca sulla spalla o del bastone. Scendiamo sempre in campo per vincere. Dobbiamo mantenere la categoria, poi potremo ambire a qualcosa di più. Con questa proprietà».

Ha dedicato il gol alla sua compagna, Roberta, e alla vostra piccola Camilla.

«Diventare padre è la gioia più grande. Roberta è il mio sostegno, ci sposiamo».

L’UDINESE.

"Dateci Zico o ci annettiamo all'Austria": quella folle estate di Udine. Nel 1983 la provincia italiana ingloba un sogno impossibile. Altro che Juve, Milan o Inter: il campionissimo brasiliano a Udine, ma che fatica per farlo arrivare. Paolo Lazzari il 10 Giugno 2023 su Il Giornale.

Singhiozzano al microfono, senza ritegno. Ogni ora interrompono le trasmissioni ordinarie, per far partire un'inutile giaculatoria. "Resta con noi, Zico", intonano i conduttori di Rete Globo, la voce che è un tappeto di crepe. Impossibile dargli torto, del resto. In quella dozzina di anni trascorsi al Flamengo, il "Galinho", il "Pelè bianco", come l'anno francobollato da queste parti, ha messo a segno 362 reti, cosparso il campo di giocate sontuose, accarezzato benevolmente palloni e anime. Anche in nazionale è un leader, pure se un'estate fa - era il 1982 - la samba sua e dei suoi compagni è inciampata ed ha sbattuto contro un muro azzurro.

Nulla da fare però, per i tifosi lacrimanti. Nel 1983 la Serie A è il campionato più seducente del globo. E Zico, nella top five dei calciatori terresti, vuole farsi un giro di giostra per sfatare la panzana - memore dei detrattori di O'Rey - che se uno gioca solo in Brasile allora non può avere la tessera del club dei più grandi. Tutto abbastanza logico, non fosse che la destinazione è una notizia disorientante. Mica la Juve, il Milan o l'Inter. Nemmeno l'ambiziosa Roma di Dino Viola, dove pure sta per approdare un altro iridescente asso carioca, Cerezo. No, nemmeno per idea. Zico va all'Udinese.

La gente deve pizzicarsi i polsi per crederci davvero. Come? Cosa? Un campione di quel calibro, un tessitore di sogni calcistici di quella risma, nella modesta provincia italiana? Come se oggi Mbappé accettasse il Bologna. O Neymar vestisse la maglia del Sassuolo, solo per dire. Eppure la vita a volte se ne frega. E se ne frega senza dubbio Franco Dal Cin, quarantenne direttore sportivo dei friulani. Provarci con uno dei giocatori più forti del mondo? Massì, al massimo dice di no. Invece Zico annuisce. Viene. Roba da capogiri multipli.

"Verrebbe" è forse il verbo più appropriato. Perché il presidente Mazza si fruga, caccia 6 miliardi delle vecchie lire e fa inchiostrare in fretta le carte. Ma non basta, almeno inizialmente. Il più strenuo oppositore di quella operazione, così come dell'affare che dovrebbe condurre Cerezo in giallorosso, è un tizio fuori dal tempo e dallo spazio che inveisce contro la presunta deriva poliglotta del campionato. "Basta follie, basta stranieri", ruggisce Federico Sordillo, di mestiere presidente della Figc. Eppoi Roma e Udinese hanno depositato i contratti in ritardo. I brasiliani qua non entrano. Figurarsi. Ne esce una sommossa popolare.

A Udine la gente scende in piazza, vagamente inferocita. Qualcuno invoca la secessione: "O Zico o l'Austria". La situazione rischia di sfuggire rapidamente di mano. Mazza trova un valido alleato in Viola, che bolla come "illegale" l'imposizione della federazione. Al contempo patisce la sfuriata della Cgil: "Ma come, spende 6 miliardi e mette in cassa integrazione i dipendenti della Zanussi?". La vicenda si fa sempre più incandescente. Al punto che anche la politica viene tirata per la giacchetta. In quei giorni di giugno è tutto un fioccare di interventi da parte di ministri e sottosegretari. Si arriva finanche a scomodare Pertini che, colto in contropiede, ribatte: "Certo che vorrei vedere Zico e Cerezo in serie A, sono due grandi campioni".

Ma pare spuntare una difficoltà al giorno. I giornali scandagliano l'affare ed emerge che metà del cartellino lo dovrebbe pagare una società diversa dall'Udinese. Che però non esiste. Nuova delirante querelle. Proprio quando sembra che Zico non sia destinato a mettere piede in Italia, la matassa si sbroglia. Franco Carraro, presidente del Coni, concede una deroga alle società. L'affare va in porto. Il Galinho si materializza. A Udine esplode una festa rimasta carsica fino a quel momento. Risse per afferarre l'abbonamento. Friuli sempre stracolmo quell'anno.

Maglia numero dieci, esordisce con una doppietta e, accanto a Causio, Virdis e Mauro, sfodera il meglio del suo repertorio. Alla fine faranno 19 centri in campionato, secondo soltanto dietro a Platini. Quell'Udinese arriverà comunque nona. E un anno dopo le cose andranno peggio, perché un lungo infortunio - misto ad una squalifica e a vicende giudiziarie - ne inibiranno il potenziale. Arthur Antunes Coimbra, detto Zico, tornerà al Flamengo. Ora piangono a Udine. Ma almeno hanno potuto sognare.