Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2023

LO SPETTACOLO

E LO SPORT

SESTA PARTE

 

DI ANTONIO GIANGRANDE


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

INDICE PRIMA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Artista.

Il rapper, il trapper oppure del sottogenere dei «gangsta».

L’hip-hop.

L'Autotune.

Si stava meglio quando si stava peggio.

Laureati.

Gli Stadi.

Imprenditori ed Agenti.

Gli Autori.

I Parolieri.

Il Plagio.

Le Colonne Sonore d’Italia.

Le Fake news.

Le Relazioni astratte.

Le Hollywood d’Italia.

Revenge songs.

Achille Lauro.

Ada Alberti.

Adele.

Adriano Celentano.

Adriano Pappalardo.

Ainett Stephens.

Alain Delon.

Alan Sorrenti.

Alba Parietti.

Alberto Fortis.

Alberto Marozzi. 

Al Bano Carrisi.

Al Pacino.

Aldo Savoldello: Mago Silvan.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Ale e Franz.

Alec Baldwin.

Alena Seredova.

Alessandra Martines.

Alessandra Mastronardi.

Alessandra e Valentina Giudicessa.

Aleandro Baldi.

Alessandro Baricco.

Alessandro Benvenuti.

Alessandro Bergonzoni.

Alessandro Borghi.

Alessandro Cattelan.

Alessandro Cecchi Paone.

Alessandro e Leo Gassmann.

Alessandro Haber.

Alessandro Preziosi e Vittoria Puccini.

Alessia Fabiani.

Alessia Marcuzzi.

Alessia Merz.

Alex Britti.

Alex Di Luca.

Alexia.

Alfonso Signorini.

Alvaro Vitali.

Amadeus.

Amanda Lear.

Amara Rakhi Gill.

Ambra Angiolini.

Amedeo Minghi.

Amleto Marco Belelli, il Divino Otelma.

Anastasia Bartoli.

Andrea Bocelli.

Andrea Delogu.

Andrea Pucci.

Andrea Roncato.

Angela Cavagna.

Angela White.

Angelina Jolie.

Angelo Branduardi.

Angelo Duro.

Annalisa.

Anna Chetta alias Linda Lorenzi.

Anna Falchi.

Anna Mazzamauro.

Anna Tatangelo.

Anna Valle.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonella Marino.

Antonino Cannavacciuolo.

Antonio Banderas.

Antonio Diodato.

Antonio Albanese.

Antonio Ricci.

Ariete si chiama Arianna Del Giaccio.

Arnold Schwarzenegger.

Articolo 31.

Arturo Brachetti.

Asia e Dario Argento.

Barbara Bouchet.

Barbara D’Urso.

Barbra Streisand.

Beatrice Fazi.

Beatrice Rana.

Beatrice Venezi.

Bebe Buell.

Belen Rodriguez e Stefano De Martino.

Beppe Convertini.

Beppe o Peppe Vessicchio.

Biagio Antonacci.

Bianca Balti.

Bob Dylan.

Bobby Solo: Roberto Satti

Brad Pitt.

Brenda Lodigiani.

Brendan Fraser.

Brigitte Bardot.

Britney Spears.

Brooke Shields.

Bruce Willis.

Bruno Gambarotta.

Bugo.

Candy Love.

Carla Signoris.

Carlo Conti.

Carlo Freccero.

Carlo Verdone.

Carlotta Mantovan.

Carmen Russo.

Carol Alt.

Carole Andrè.

Carolina Crescentini.

Cate Blanchett.

Caterina Caselli.

Catherine Deneuve.

Catiuscia Maria Stella Ricciarelli: Katia Ricciarelli.

Cecilia Gasdìa.

Celine Dion.

Cesare Cremonini.

Capri Cavanni.

Charlize Theron.

Cher.

Chiara Claudi.

Chiara Francini.

Chiara Mastroianni.

Christian Clay.

Christian De Sica.

Christina Aguilera.

Christopher Walken.

Chu Meng Shu.

Cinzia Leone.

Cirque du Soleil.

Clara Serina.

Claudia Cardinale.

Claudia Gerini.

Claudia Koll.

Claudia Pandolfi.

Claudio Amendola.

Claudio Baglioni.

Claudio Cecchetto.

Claudio Lippi.

Claudio Santamaria.

Clint Eastwood.

CJ Miles.

Colapesce e Dimartino.

Colin Farrell.

Coma_Cose.

Corrado Tedeschi.

Costantino della Gherardesca.

Costantino Vitagliano.

Cristiana Capotondi.

Cristiano De André.

Cristiano Malgioglio.

Cristina Comencini.

Cristina D’Avena.

Cristina Scuccia.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Dado.

Dalila Di Lazzaro.

Daniel Craig.

Daniele Luttazzi.

Daniele Silvestri.

Dargen D'Amico.

Dario Farina.

David Lee.

Den Harrow.

Dennis Fantina.

Diana Del Bufalo.

Diego Dalla Palma.

Diego Abatantuono.

Diletta Leotta.

Donatella Rettore.

Dredd.

Drusilla Foer.

Ed Sheeran.

Edoardo Bennato.

Edoardo Costa.

Edoardo Vianello.

Edwige Fenech.

Elena Di Cioccio.

Elena Santarelli.

Elenoire Casalegno.

Eleonora Abbagnato.

Eleonora Daniele.

Eleonora Giorgi.

Elettra Lamborghini.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Valentini.

Elodie.

Ema Stockolma.

Emanuela Fanelli.

Emanuela Folliero.

Emanuela Trane: Dolcenera.

Emma Marrone.

Enrica Bonaccorti.

Enrico Bertolino.

Enrico Beruschi.

Enrico Brignano.

Enrico Lo Verso.

Enrico Ruggeri.

Enrico Silvestrin.

Enrico Vanzina.

Enza Sampò.

Enzo Braschi.

Enzo Ghinazzi, in arte Pupo.

Enzo Iacchetti.

Ernia.

Eros Ramazzotti.

Eugenio Finardi.

Euridice Axen.

Eva Elfie.

Eva Henger.

Eva Menta e Alex Mucci.

Eva Riccobono.

Eva Robin’s.

Ezio Greggio.

Fabio Concato.

Fabio De Luigi.

Fabio Fazio.

Fabio Rovazzi.

Fabrizio Bentivoglio.

Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli.

Fabrizio Bracconeri.

Fabrizio Corona.

Fabrizio Moro.

Fanny Ardant.

Fedez e Chiara Ferragni.

Ferzan Ozpetek.

Ficarra e Picone.

Filippa Lagerbäck e Daniele Bossari.

Fiordaliso.

Fiorella Mannoia.

Fiorella Pierobon.

Fioretta Mari.

Francesca Alotta.

Francesca Michielin.

Francesca Neri.

Francesca Reggiani.

Francesco Baccini.

Francesco De Gregori.

Francesco Facchinetti.

Francesco Guccini.

Francesco Leone.

Francesco Nuti.

Francesco Pannofino.

Francesco Renga.

Francesco Salvi.

Francis Ford Coppola.

Franco Nero.

Francois Ozon.

Frank Matano.

Frankie Hi Nrg Mc.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gabriele Salvatores.

Gabriella Golia.

Gabry Ponte.

Gaiè.

Gazzelle, all’anagrafe Flavio Bruno Pardini.

Gegia (Francesca Antonaci).

Gene Gnocchi.

George Benson.

Geppi Cucciari.

Gerry Scotti.

Ghali.

Gianna Nannini.

Gigi e Andrea.

Giampiero Ingrassia.

Giancarlo Giannini.

Giancarlo Magalli.

Gianluca Colucci: Gianluca Fru.

Gianluca Grignani.

Gianmarco Tognazzi.

Gianni e Marco Morandi.

Gigi D'Alessio e Anna Tatangelo.

Gigi Folino e il Gruppo Italiano.

Gigliola Cinquetti.

Gino Paoli.

Gino & Michele.

Giorgia.

Giorgia Surina.

Giorgio Mastrota.

Giorgio Pasotti.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanni Caccamo.

Giovanni Muciaccia.

Giovanni Pietro Damian: Sangiovanni.

Giovanni Scialpi.

Giuliana De Sio.

Giulio Rapetti Mogol.

Giulio Scarpati.

Giuseppe Tornatore.

Gli Inti-Illimani.

Gloria Guida.

Guendalina Tavassi.

Guillermo Mariotto.

Guns N' Roses.

Gwyneth Paltrow.

Henry Winkler.

Harry Styles.

Helen Mirren.

Heather Parisi.

Eva Herzigova.

Eva Longoria.

Iaia Forte.

Gli Skiantos.

I Baustelle.

I Cccp Fedeli alla Linea. 

I Cugini di Campagna.

I Gialappa' s Band.

I Guzzanti.

I Jalisse.

Il Volo.

I Maneskin.

I Marlene Kuntz.

I Metallica.

I Modà.

I Negramaro.

I Pooh.

I Righeira.

I Ricchi e Poveri.

I Rolling Stones.

I Santi Francesi.

I Sex Pistols.

Ilary Blasi.

Elena Anna, Ilona Staller: Cicciolina.

Irene Maestrini.

Isabella Ferrari.

Isabella Rossellini.

Isotta.

Iva Zanicchi.

Ivan Cattaneo.

Ivana Spagna.

Ivano Fossati.

Jack Nicholson.

Jane Fonda.

Jennie Rose.

Jeremy Renner.

Jerry Calà.

Jo Squillo.

John Malkovich.

Johnny Depp.

Johnny Dorelli.

Joss Stone.

Jude Law.

Julia Roberts.

Justine Mattera.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Kanye West.

Kasia Smutniak.

Kate Winslet.

Ke Hui Quan.

Kevin Costner.

Kevin Spacey.

Kira Noir.

Lady Gaga.

Laetitia Casta.

La Gialappa’s Band.

Lalla Esposito.

Lars von Trier.

Laura Chiatti.

Laura Freddi.

Laura Morante.

Laura Pausini.

Lavinia Abate.

Lazza.

Lella Costa.

Lenny Kravitz.

Leo Gullotta.

Leonardo DiCaprio.

Leonardo Pieraccioni.

Levante.

Lewis Capaldi.

Lia Lin.

Licia Colò.

Liliana Cavani.

Lily Veroni.

Lina Sotis.

Linda Evangelista.

Lino Banfi.

Linus.

Lisa Galantini.

Little Dragon.

Lizzo.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Cherubini: Jovanotti.

Loretta Goggi.

Lory Del Santo.

Luc Besson.

Luc Merenda.

Luca Argentero.

Luca Barbareschi.

Luca e Paolo.

Luca Medici: Checco Zalone.

Luca Miniero.

Luca Ravenna.

Lucia Mascino.

Luciana Littizzetto.

Ludovica Martino.

Ludovico Peregrini.

Luigi Lo Cascio.

Luisa Corna.

Luisa Ranieri.

Luna Star.

Madame.

Maddalena Corvaglia.

Madonna.

Mago Forest, alias Michele Foresta.

Mahmood.

Malena, all’anagrafe Filomena Mastromarino.

Malika Ayane.

Manila Nazzaro.

Manuel Agnelli.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marco Bellocchio.

Marco Bocci.

Marco Columbro.

Marco Della Noce.

Marco Ferradini.

Marco Giallini.

Marco Masini.

Marco Mengoni.

Marco Predolin.

Marco Risi.

Margherita Buy.

Maria Giovanna Elmi.

Maria Grazia Buccella.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Sofia Federico.

Maria Teresa Ruta.

Marina Suma.

Mario Biondi.

Mariolina Cannuli.

Marisa Laurito.

Marisela Federici.

Martin Scorsese.

Mascia Ferri.

Massimo Boldi.

Massimo Ceccherini.

Massimo Ciavarro.

Massimo Ghini.

Massimo Ranieri.

Matilda De Angelis.

Matilde Gioli.

Mattia Zenzola.

Maurizio Battista.

Maurizio Ferrini.

Maurizio Milani.

Maurizio Potocnik, in arte Reeds.

Maurizio Seymandi.

Maurizio Vandelli.

Maurizio Zamboni .

Mauro Coruzzi alias Platinette.

Mauro Pagani.

Max Felicitas.

Max Laudadio.

Max Pezzali e gli 883.

Megan Daw.

Megan Gale.

Mel Brooks.

Melissa Stratton.

Memo Remigi.

Micaela Ramazzotti.

Michael Caine.

Michael J. Fox.

Michele Guardì.

Michele Placido.

Michele Riondino.

Michelle Hunziker.

Michelle Yeoh.

Mika.

Milena Vukotic.

Mina.

Minnie Minoprio.

Miranda Martino.

Mita Medici.

Monica Bellucci.

Morgan.

Myss Keta.

Mr. Rain.

Nada.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Natasha Stefanenko.

Naomi Campbell.

Neri Parenti.

Nicole Doshi.

Niccolò Fabi.

Nina Moric.

Nina Zilli.

Nino D'Angelo.

Nino Formicola: Gaspare di Zuzzurro e Gaspare.

Nino Frassica.

Noomi Rapace.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Omar Pedrini.

Omar Sharif.

Orietta Berti.

Ornella Muti.

Ornella Vanoni.

Ozzy Osbourne.

Pamela Anderson.

Pamela Prati.

Pamela Villoresi.

Paola Barale e Raz Degan.

Paola&Chiara.

Paola Gassman e Ugo Pagliai.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Turci.

Paolo Belli.

Paolo Calabresi.

Paolo Conte.

Paolo Rossi.

Paris Hilton.

Pasquale Petrolo in arte Lillo; Claudio Gregori in arte Greg.

Patty Pravo.

Patti Smith.

Peppino di Capri.

Peter Gabriel.

Pico.

Pier Francesco Pingitore.

Pierfrancesco Favino.

Pier Luigi Pizzi.

Piero Chiambretti.

Piero Pelù.

Piero Pintucci. 

Pilar Fogliati.

Pino Insegno.

Pino Scotto.

Pio ed Amedeo.

Playtoy Orchestra.

Povia.

Pupi Avati.

Quentin Tarantino.

Quincy Jones.

Raf.

Renato Pozzetto.

Renato Zero.

Renzo Arbore.

Ricky Martin.

Rita Pavone.

Ringo.

Robbie Williams.

Robert De Niro.

Roberta Lena.

Roberto da Crema.

Roberto Vecchioni.

Rocco Hunt.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Rocío Muñoz Morales e Raoul Bova.

Roman Polanski.

Ron: Rosalino Cellamare.

Ronn Moss.

Rosa Chemical.

Rosalba Pippa: Arisa.

Rosanna Fratello.

Rosario e Giuseppe Fiorello.

Rupert James Hector Everett.

Sabina Ciuffini.

Sabrina Impacciatore.

Sabrina Salerno.

Samuel L. Jackson.

Sandy Marton.

Sandra Milo.

Sara Diamante.

Sara Tommasi.

Scarlett Johansson.

Sean Penn.

Selen.

Selva Lapiedra.

Serena Grandi.

Sergio Caputo.

Sergio Castellitto.

Sergio Rubini.

Sergio Vastano.

Sergio Volpini.

Sharon Stone e Michael Douglas.

Shakira.

Simona Izzo.

Simona Tabasco.

Simona Ventura.

Simone Cristicchi.

Syusy Blady e Patrizio Roversi.

Sofia Scalia e Luigi Calagna, Sofì e Luì: Me contro Te.

Sonia Bruganelli e Paolo Bonolis.

Sophia Loren.

Stanley Tucci.

Stefania Orlando.

Stefania e Silvia Rocca.

Stefania Sandrelli.

Stefano Accorsi.

Susan Sarandon.

Susanna Messaggio.

Sylvester Stallone.

Sveva Sagramola.

SZA, vero nome Solána Imani Rowe.

Taylor Swift.

Tananai.

Terence Blanchard.

Teresa Mannino.

Teresa Saponangelo.

Teo Mammucari.

Teo Teocoli.

Tiberio Timperi.

Tim Burton.

Tinto Brass.

Tiziana Rivale.

Tiziano Ferro.

Tom Cruise.

Tom Hanks.

Tommaso Paradiso.

Toto Cutugno.

Tullio Solenghi.

U 2.

Uccio De Santis.

Ultimo.

Umberto Smaila.

Wanna Marchi.

Will Smith.

Woody Allen.

Valentina Lodovini.

Valeria Golino e Riccardo Scamarcio.

Valeria Marini.

Valeria Rossi.

Valeria Solarino.

Valerio Scanu.

Valerio Staffelli.

Vanessa Gravina.

Vasco Rossi.

Vera Gemma.

Veronica Maya.

Victoria Cabello.

Vincenzo Salemme.

Viola Valentino.

Vittoria Belvedere.

Vladimir Luxuria.

Zucchero Fornaciari.

Yuko Ogasawara.

Xxlayna Marie.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Sanremo 2024.

Sanremo. Sociologia di un festival.

La Selezione…truccata.

I Precedenti.

Il FantaSanremo.

Gli Inediti.

I Ti caccio o non ti caccio?

Gli Scandali.

La Politica.

Le Anticipazioni. Il Pre-Voto.

Quello che c’è da sapere.

I Co-conduttori.

I Super Ospiti.

Testi delle canzoni di Sanremo 2023.

La Prima Serata.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

La Quinta ed Ultima Serata.


 

INDICE SESTA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Certificato medico sportivo.

Giochi Sporchi del 2022.

Quelli che…il Coni.

Quelli che…il Calcio. La Fifa.

Quelli che…La Uefa.

Quelli che…il Calcio. La Superlega.

Quelli che…il Calcio. La FIGC.

Quelli che…una Compagnia di S-Ventura.

Quelli che…i tiri Mancini.

La Furbata.

Quelli che…il Calcio. Gli Arbitri.

Quelli che…il Calcio. La Finanza.

Quelli che…il Calcio. I Procuratori.

Quelli che…il Calcio. I Tifosi.

Quelli che…il Calcio. I Figli d’Arte.

Quelli che…il Calcio. La Politica.

Quelli che…il Calcio. Gli Altri.

Quelli che…il Calcio. Lionel Messi.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…il Calcio. Le Squadre.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…il Calcio. Le Squadre.

Il Calcioscommesse.

Quelli che…I Traditori.

Quelli che…Fine hanno fatto.


 

INDICE NONA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I 10 proprietari più ricchi nello sport.

Quelli che…I Superman.

Quelli che…è andato tutto storto.

Quelli che…la Palla Canestro.

Quelli che…la pallavolo.

Quelli che il Rugby.

Quelli che ti picchiano.

Quelli che…il Tennis.

Quelli che…il pattinaggio.

Quelli che…l’atletica.

Quelli che…i Motori.

Quelli che…la Bicicletta.

Quelli che…gli Sci.

Quelli che…il Nuoto.

Quelli che…la Barca.

Quelli che…l’Ippica.

Quelli che… il Curling.

Il Doping.
 


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

SESTA PARTE



 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Antonio Giangrande: L’ITALIA DEGLI ABILITATI. ESAME DI ABILITAZIONE ANCHE PER CORRERE

Non solo gli avvocati, o gli altri professionisti, possono svolgere la professione unicamente se abilitati, ma anche i podisti non possono correre se non abilitati FIDAL.

«Mens sana in corpore sano, dice un vecchio adagio. Che il corpo troppo sano dia alla testa? Se non sei tesserato (abilitato) FIDAL non puoi correre nelle manifestazioni da loro organizzate. Se, invece, sei un tesserato FIDAL non puoi correre nei raduni organizzati da altri.»

Questo denuncia il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” ed autore del libro “Sportopoli.”

Nell'atletica leggera, la corsa su strada comprende gare su strade comuni, generalmente in asfalto o di campagna, e su distanze che vanno dai 5 ai 100 km.

Queste corse possono essere competitive e non competitive.

Corse competitive. Le specialità più celebri tra le corse su strada sono la maratona, che si corre su una distanza di 42.195 m, e la mezza maratona, che si corre su una distanza di 21.097 m.

Sempre più diffuse sono le gare di ultramaratona, specialità che identifica gare di corsa che hanno una distanza superiore a 42,195 km (distanza ufficiale della maratona). L'ultramaratona su strada più conosciuta è la 100 km, ratificata dalla IAAF. In tutto il mondo vengono anche organizzate svariate competizioni, su distanze comprese dai 5 ai 30 km. La IAAF riconosce ufficialmente le gare su distanze di 10, 15, 20, 25 e 30 km, ratificando per ognuna di queste specialità i propri record mondiali e continentali. Data la varietà di competizioni, le gare più brevi rappresentano anche un utile e realistico allenamento per atleti normalmente impegnati su distanze maggiori, che le includono a volte nei loro programmi di allenamento. In ambito italiano, la FIDAL organizza attività su strada a livello nazionale, regionale e provinciale. Esistono anche manifestazioni agonistiche organizzate dagli enti di promozioni sportiva come UISP, CSI, LIBERTAS, AICS, ecc.

Corse non competitive. In ogni parte d'Italia si organizzano corse non competitive denominate anche marce o camminate per il fatto che sono a passo libero, cioè vi partecipano sia podisti che camminatori. Queste manifestazioni non sono riconosciute dalla FIDAL (la federazione sovrintende solo l'attività agonistica) e vengono organizzate sotto il patrocinio degli enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI o da organizzazioni non riconosciute come ad esempio la FIASP. Molti gruppi o comitati amatoriali organizzano corse per puro divertimento per fare sport e passare un momento di relax in compagnia ed all’aria aperta. Queste gare vedono spesso la presenza anche di atleti tesserati che le affrontano per allenamento. Esse rappresentano comunque un modo per avvicinarsi al mondo dell'atletica.

Come si è spiegato la differenza tra le corse sta nel riconoscimento degli eventuali record, nell’individuazione di eventuali futuri campioni e nell’antagonismo delle squadre iscritte. Nelle corse competitive ci sono i direttori di gara. Per entrambe le corse si paga un ticket di partecipazione.

La differenza tra Agonisti o non agonisti sta principalmente nel fatto che, per essere considerati agonisti e per partecipare all'attività competitiva (organizzata sia dalla FIDAL che da altri enti), è necessario avere l'idoneità alla pratica agonistica. L'idoneità viene rilasciata dopo un'approfondita visita medica, dalla sanità nazionale o da centri autorizzati. Nella maggior parte delle manifestazioni, comunque, oltre alla gara competitiva, viene proposta una prova non competitiva sulla stessa distanza e/o su distanza ridotta, per incentivare la partecipazione e permettere anche alle persone prive di un'adeguata preparazione atletica di vivere un momento di sport e socializzazione.

Quando questo succede, nelle manifestazioni simultanee, spesso ai non agonisti non viene riconosciuto un premio per la vittoria di categoria. Non è raro che qualcuno di questi, però, sia più forte degli agonisti. Chi partecipa alle corse lo sa.

Qualcuno dirà: Cosa si denuncia con questo articolo? Dove è l’inghippo?

Con questo articolo si da voce a tutti coloro, comitati od associazioni, che organizzano unicamente le corse non competitive e che sono destinatarie degli strali della FIDAL. Spesso e volentieri la FIDAL cerca di impedire, con diffide legali inviate agli organizzatori di corse non competitive ed alle autorità locali, lo svolgimento delle manifestazioni da questi organizzati.

Non ci si ferma qui. Nelle pagine facebook di gruppi di podisti agonisti e non agonisti vi sono intimidazioni da parte degli iscritti alla FIDAL nei confronti dei loro colleghi, avvisandoli che nel partecipare a corse non competitive comporta per loro l’adozione di sanzioni.

A riprova di ciò basta cercare “minacce FIDAL” o “polemica FIDAL” su un motore di ricerca web e si troverà tutto quello che finora non si è cercato. E cioè provare che il monopolio delle corse è in mano alla FIDAL, perché sono impedite le gare non competitive, non foss’altro, anche, inibendo la partecipazione a queste manifestazioni ai suoi tesserati. Tesserati che a loro volta, ignavi, si fanno intimorire.

La corsa podistica non è cosa loro, della FIDAL e simili.

Un abominio, non fosse altro che ognuno di noi, anche i tesserati di un organismo sportivo, siamo soggetti agli articoli 16 e 17 della Costituzione italiana e quindi liberi di muoverci in compagnia….anche di corsa.

Dr Antonio Giangrande

Certificato medico sportivo non agonistico: quando serve, chi lo rilascia e quanto costa. Anche per praticare alcune attività sportive a livello non competitivo, può essere necessario il certificato medico. Ecco in quali situazioni è richiesto e gli esami necessari per ottenerlo. Dario Murri il 24 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 A cosa serve e chi lo rilascia

 Per quali attività è obbligatorio

 Validità del certificato e altre prescrizioni, costo

 Attività “esonerate”

Se il rilascio del certificato medico per lo svolgimento di attività sportive considerate agonistiche è sempre obbligatorio, non vale altrettanto per quelle non agonistiche. Ma per quali tipi di sport è richiesto il certificato medico non agonistico? A chi bisogna rivolgersi, e con quali costi? Cerchiamo di capirlo insieme.

A cosa serve e chi lo rilascia

La certificazione medica in ambito sportivo, anche a livello non agonistico, è regolamentata dal Decreto Legge n. 158 del 13 settembre 2012 (il cosiddetto Decreto Balduzzi), nonché dal successivo Decreto Ministeriale del 24 aprile 2013.

Il certificato medico per attività sportiva non agonistica è obbligatorio per le persone di età superiore ai 6 anni, per gli alunni che svolgono attività fisico-sportive parascolastiche, organizzate cioè dalle scuole al di fuori dall’orario di lezione, e per coloro che fanno sport presso società affiliate alle Federazioni sportive nazionali e al Coni (purché non siano considerati atleti agonisti). Sono autorizzati a rilasciare questo tipo di certificato, per i propri assistiti, il medico di medicina generale e il pediatra di libera scelta, il medico specialista in medicina dello sport, o ancora i medici della Federazione medico sportiva italiana del Comitato olimpico nazionale italiano.

Per quali attività è obbligatorio

L’obbligo del certificato medico dipende dalla tipologia di attività fisico-sportiva che si intende intraprendere. Ci sono infatti differenze tra chi si reca in una struttura per praticare attività non agonistica, ma “guidata”, e chi invece vi pratica un’attività ludico-motoria, finalizzata semplicemente al raggiungimento e al mantenimento del proprio benessere psico-fisico.

Teoricamente, il certificato medico sportivo non è richiesto per chi voglia iscriversi in palestra o in piscina, praticare un’attività individuale o collettiva, e non sia tesserato a Federazioni sportive nazionali, o a enti di promozione sportiva riconosciute dal Coni. Tuttavia, la palestra o il centro sportivo, può comunque chiedere di presentarlo a fini assicurativi, nell’eventualità di infortuni anche per attività ludico-motorie.

Esiste invece un obbligo vero e proprio a presentare un certificato sportivo non agonistico per quanti vogliano: praticare uno sport (a livello non agonistico) presso un ente/organizzazione Coni o da esso riconosciuto, come Csi, Pgs, Uisp, Cusi; presso società sportive affiliate alle Federazioni sportive nazionali come Figc, Fin, Fit, Fipav; praticare discipline associate Fasi come l’arrampicata sportiva, o presso gli organi scolastici nell’ambito delle attività parascolastiche.

Validità del certificato e altre prescrizioni, costo

Il controllo si effettua con cadenza annuale e il certificato vale un anno a decorrere dalla data di rilascio. Per ottenere il certificato è necessaria una visita presso un medico, appunto, che consta di anamnesi, esame obiettivo con misurazione della pressione, elettrocardiogramma a riposo.

Per gli ultrasessantenni, maggiormente soggetti a rischio cardiovascolare, è necessario un elettrocardiogramma basale, debitamente refertato annualmente; lo stesso tipo di esame è richiesto per chi, a prescindere dall’età, presenti patologie croniche conclamate che comportano un aumento del rischio cardiovascolare.

Qualora lo ritenga necessario, il medico può prescrivere altri esami, come una prova da sforzo massimale, o altri accertamenti mirati, così come decidere di avvalersi della consulenza del medico specialista in medicina dello sport o, secondo il giudizio clinico, dello specialista di branca.

Il medico certificatore conserverà poi copia dei referti di tutte le indagini diagnostiche eseguite, nonché della documentazione in conformità alle disposizioni vigenti e comunque per la validità del certificato. Per quanto riguarda i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta, l’obbligo di conservazione dei documenti può essere assolto anche dalla registrazione dei referti nella scheda sanitaria individuale informatizzata, quando questa risulti attivata.

Stando a quanto disposto nel 2018 da un decreto del Ministero della Salute di concerto col Ministero dello Sport, relativo allo sport praticato in età prescolare, per l’attività sportiva svolta dai bimbi da 0 a 6 anni, non c’è l’obbligo di presentare il certificato medico ad eccezione dei casi segnalati dal pediatra.

I certificati per l’attività non agonistica sono a pagamento (costo 40 euro) se rilasciati dai medici sportivi, sono invece gratuiti se rilasciati dai medici di famiglia o dai pediatri di libera scelta convenzionati con il Sistema Sanitario Nazionale, ma solo nei casi di attività sportive parascolastiche, su richiesta del Dirigente Scolastico. La gratuità riguarda la visita e la certificazione, mentre l’eventuale esame strumentale (elettrocardiogramma), è a carico del richiedente.

Attività “esonerate”

Come detto, il certificato medico sportivo non agonistico è ritenuto obbligatorio per chi si iscriva ad una palestra o ad una piscina affiliata alla rispettiva Federazione sportiva o a un Ente di promozione sportiva. Spetterà ai centri sportivi stessi far compilare e firmare un apposito modulo, nel quale venga specificato che per potersi iscrivere è necessario il certificato, oltre a federazione sportiva ed ente cui si risulterà poi iscritti. Per quanti invece si rechino in palestra o in piscina una volta ogni tanto, il certificato medico sportivo non è necessario.

L’obbligo di presentare il certificato medico, anche se appartenenti a delle Federazioni o ad Enti regolarmente iscritti al Coni, non sussiste neanche per quegli sport che richiedono un impegno fisico ridotto, come ad esempio le discipline di tiro (tiro con l’arco, al volo, etc.), il golf o la pesca sportiva di superficie.

Estratto dell'articolo di Lucio Luca per “Robinson - la Repubblica” il 15 Gennaio 2023.

Glenn è un campione americano, bello come il sole e praticamente imbattibile nella specialità degli ironmen, il decathlon, dieci competizioni in due giorni, il top dell'atletica leggera. Viene da una famiglia povera, a casa non c'erano neppure i soldi per comprargli i vestiti per la scuola. Ma lui ce l'ha fatta, ha frequentato l'high school e poi s' è trasferito al college.

 Adesso è diventato qualcuno: a 24 anni, infatti, è l'uomo copertina delle Olimpiadi di Berlino 1936 anche se, a volerla dire tutta, quella copertina la meriterebbe molto di più Jesse Owens, capace di vincere ben quattro medaglie d'oro nei 100 e 200 metri, staffetta e salto in lungo. Peccato che Jesse sia nero e i Giochi di Hitler non possono certo tollerare che «uno del genere» diventi l'uomo-immagine dell'evento più importante del mondo.

Leni di anni ne ha 34 ed è probabilmente la donna più famosa di Germania. Era una ragazzina cresciuta a Wedding, il quartiere operaio di Berlino, ma grazie alla danza si è trasformata ben presto nella regina dei palcoscenici. Dal teatro è passata al cinema, poi dietro la cinepresa. Leni si chiama di cognome Riefensthal e per tutti ormai è semplicemente "la regista di Hitler".

 E a lei, ovviamente, il Führer ha affidato il progetto titanico di realizzare un film di quattro ore sulle Olimpiadi berlinesi che devono sancire il trionfo del Reich e della razza ariana. Ma persino una perfezionista come Leni può sbagliare: le immagini dei 1500 metri, l'ultima competizione del decathlon, quella che decreta il trionfo dell'americano Glenn Morris, sono sfuocate.

La Riefensthal è disperata, l'unico che può aiutarla è proprio Glenn, conosciuto a un cocktail durante i Giochi. Bisogna ricreare le scene perdute, richiamare gli atleti, costruire una grande farsa a uso e consumo del film di regime. Morris accetta e nasce un grande amore, forse sarebbe meglio parlare di passione, visto che qualche tempo dopo Glenn tornerà a casa dalla sua Charlotte mentre Leni si fionderà al fronte per documentare la follia del suo amico Führer. [...]

 Come quello tra Emil Zátopek e Dana Ingrovà, cecoslovacchi, a Helsinki 1952. Lui vince i 5000 metri, lei il lancio del giavellotto un'ora dopo. Nei giorni successivi Emil si aggiudica anche diecimila e maratona e proprio all'arrivo della gara più massacrante Dana si scapicolla raggiante verso di lui e lo bacia appassionatamente. Sono già marito e moglie, la scintilla è scoccata quando hanno scoperto di essere nati lo stesso giorno, il 19 settembre del 1922. Stessa data di nascita, stesso destino di campioni dello sport. […]

Al Joyner e Florence Griffith si conoscono sui campi di allenamento, si innamorano, si sposano. L'anno dopo Flo si presenta ai blocchi di partenza dei 100 e 200 metri alle Olimpiadi di Seul. Vince, anzi stravince con tempi "da aliena".

Fissa i cronometri a 10" 49 e 21" 34, il mondo è sbalordito, mai un'atleta si è migliorata così tanto in appena una stagione. Troppo forse. Si comincia a parlare di doping, Flo decide improvvisamente di lasciare lo sport. Per evitare controlli medici imbarazzanti, sussurra maliziosamente qualcuno. Dieci anni dopo Florence Griffith- Joyner muore nel sonno, ad appena 38 anni. [...]

Giorgio Coluccia per “Il Giornale” il 2 gennaio 2023.

L'anno scorso i trionfi alle Olimpiadi e all'Europeo di calcio avevano illuminato una prospettiva illusoria. Questo 2022 invece ha finito per scoperchiare una realtà diversa, a tratti anche triste e sgradevole, costellata da antichi vizietti che nemmeno la pandemia ha sradicato. Il 2022 è stato l'anno in cui sono venute a galla le nefandezze perpetrate nel mondo della ginnastica ritmica ormai da diverso tempo.

 Almeno 194 presunti casi di abusi hanno coinvolto le palestre di 15 regioni italiane, con testimonianze arrivate da bambine e ragazze tra gli otto e i ventidue anni. Maltrattamenti, body shaming, privazioni alimentari, discriminazioni, percosse e allenamenti estenuanti da parte di alcuni coach della Federginnastica, a cui ha fatto seguito il commissariamento a Desio dell'Accademia Internazionale della ritmica dove si allenano le Farfalle e in passato la plurititolata Carlotta Ferlito («mi chiamavano maiale», ha raccontato di recente). Una vera e propria istituzione nazionale in un movimento forte di 150 mila iscritti e 500 mila praticanti, oltre che l'indagine sul ct Emanuela Maccarani.

In un Paese che vive respirando calcio ogni singolo giorno, il trauma del 24 marzo scorso rimane uno dei punti più bassi nella storia tricolore. Un bis tutt'altro che gradito dopo la fatal Svezia del 2017 a San Siro. La Macedonia del Nord vince 1-0 a Palermo e nega il Mondiale alla Nazionale di Mancini per la seconda volta di fila. Al prossimo torneo iridato, nel 2026, saranno passati 12 anni dall'ultima nostra partecipazione.

L'altra notte destinata a restare scolpita è quella del 28 novembre per il terremoto in seno al Cda della Juventus, dimessosi in blocco a causa del coinvolgimento nell'indagine Prisma, aperta dalla Procura di Torino con l'accusa di falso in bilancio, e le contestazioni della Consob sui conti bianconeri. Per l'ennesima volta il nostro calcio finisce in tribunale, invischiato tra veleni e manovre poco limpide, su tutte quelle legate alle solite plusvalenze fittizie, che oltre alla Juve hanno coinvolto (secondo la Procura federale) altre otto squadre e più di 50 dirigenti.

Il marcio si è spinto fino alla classe arbitrale, orfana da qualche giorno di Alfredo Trentalange, dimessosi da presidente dell'Aia in seguito allo scandalo di Rosario D'Onofrio, arrestato il 10 novembre per traffico internazionale di stupefacenti.

 Un'altra piaga tipica del nostro Paese, quella della sicurezza stradale, lo scorso 30 novembre si è portato via Davide Rebellin, travolto e ucciso da un camion mentre era in sella alla sua bici a pochi giorni dal ritiro a 52 anni. Se nel 2021 sono stati oltre 200 i ciclisti morti sulle strade italiane, i numeri di quest'anno non saranno tanto diversi, a conferma che la strada per invertire la tendenza è ancora lunga tra una normativa scarna e una sensibilità verso chi pedala pressoché inesistente.

Nei giorni scorsi l'ennesimo gesto razzista denunciato dal giocatore di rugby Chérif Traoré. Torna così a galla un Paese che non perde l'occasione di regredire attraverso goliardate o insulti irripetibili, come quelli che hanno costretto la campionessa Paola Egonu a prendersi una pausa dalla Nazionale di volley lo scorso ottobre. Traoré durante il rituale del Secret Santa nel suo regalo ha trovato «una banana marcia in un sacchetto dell'umido» e si è sfogato senza mezzi termini sui social. Il suo compagno della Benetton Treviso- Ivan Nemer, argentino e naturalizzato italiano - è stato sospeso per tutta la durata delle indagini: servirà da lezione e soprattutto scongiurerà vicende simili?

In più occasioni nel 2022 il peggio del peggio l'hanno partorito invece le frange del tifo organizzato, a prescindere dalla squadra, da una vittoria o da una sconfitta. I tifosi costretti con le minacce a lasciare la curva nord dell'Inter dopo l'assassinio di Vittorio Boiocchi, lo striscione esposto a Verona con le coordinate di Napoli assieme alle bandiere di Russia e Ucraina, lo steward Amin Jebali insultato pesantemente durante una partita della Lazio. Non basterà certo voltare pagina sul calendario per cominciare un nuovo anno e lavare via il marcio.

Malagò: «Dagli Agnelli ai Vanzina, per me l’amicizia è tutto. La mia fama da playboy è esagerata». Michela Proietti su Il Corriere della Sera sabato 21 ottobre 2023.

«L’Avvocato telefonava all’alba, mi feci mettere a fine lista per dormire mezz’ora in più»

Malagò: «Dagli Agnelli ai Vanzina, per me l’amicizia è tutto. La mia fama da playboy è esagerata»

Giovanni Malagò, quanti numeri ha in agenda?

«Non li ho mai contati, sul cellulare saranno un migliaio. Ma la mia segreteria, che è molto ben organizzata, ne ha rubricati decine di migliaia».

Quanto contano le pubbliche relazioni?

«Molto, se rivesti un ruolo in cui le relazioni ti aiutano ad esercitarlo al meglio. Alzare il telefono ed evitare tutta una serie di perdite di tempo è un vantaggio».

Partiamo dall’inizio. C he educazione ha avuto?

«Molto tradizionale, classica, per certi versi borghese».

Libri sotto le ascelle?

«Mia madre mi rimproverava perché non ero composto a tavola. Una cosa che mi è rimasta è finire quel che c’è nel piatto: quando avanza un panino lo porto a casa».

Suo padre Vincenzo.

«Ricordo quando siamo andati a comperare il primo motorino, un Moto Morini Corsarino ZZ. Lo pagò 125 mila lire e disse: “Non voglio venire a sapere che a scuola vai male”. Il sottotitolo era: “Non tradire la mia fiducia”».

Lo ha deluso?

«Non credo, anzi. Sono rimasto dalla prima elementare alla maturità al San Giuseppe De Merode. Non mi sono mai alzato da letto dopo di lui».

Lavoravate insieme.

«Mi diceva: “Usa la tua intelligenza insieme alla mia esperienza”».

Un suo consiglio.

«Non rinviare mai. La sera vedeva la lista di chi mi aveva cercato e mi ripeteva: “Richiamali, possono essere rompicoglioni ma anche clienti...”»

La Samocar vendeva così tante auto che la casa madre ha rilevato un ramo...

«Il primo anno abbiamo venduto 17 Bmw, prima di essere rilevati più di 8 mila. Più di Tokyo e New York».

Work hard, play hard: lavoro e tanto divertimento.

«Non lo rinnego. Ma ad un certo punto il senso di responsabilità è diventato inconciliabile con un certo tipo di vita. Una volta ero fisso al ristorante, oggi sto a casa, con i cani, un buon vino italiano e il mio sigaro. Chi è sempre in giro per lavoro il jolly lo spara diversamente...».

Si sente un playboy?

«So di non essere credibile, ma è stato tutto amplificato».

La scena di Yuppies in cui un piacione arriva al Jackie ‘O, la ncia la chiave dell’auto al finto parcheggiatore e quello scappa... era lei?

«Innanzitutto era il Number One. E diedi la chiave a un vero parcheggiatore, al quale rubarono la mia auto».

Una follia fatta per amore?

«Preparavo la maturità e Polissena, la mia ex moglie, aveva casa all’Argentario. La sera, dopo lo studio, partivo da Roma senza casco con una Honda 125, per stare con lei. La mattina tornavo indietro, sempre senza casco» .

Che marito è stato?

«Non da encomio».

Che papà?

«Il legame con Ludovica e Vittoria è solido: le vedo con i piedi per terra, ottime madri, impegnate nel lavoro, penso di aver trasmesso dei valori».

Lucrezia Lante della Rovere, madre delle sue gemelle.

«Una mattina, alla solita chiamata dell’Avvocato all’alba, rispose lei al telefono: “Giovanni non ha il coraggio di dirvelo, a quest’ora non dovete chiamare più!”. Glielo riferirono e quando ci vedemmo a cena disse a Lucrezia, con la sua erre: “Che caratterino, fumantino!”».

Le chiamate all’alba di Agnelli erano dunque vere?

«Certo e siccome ero amico di Spiro, il centralinista romano, gli avevo chiesto di mettermi in fondo alla lista: guadagnavo mezz’ora di sonno».

Ha rapporti con le ex?

«Per loro ci sono e ci sarò sempre».

I suoi amici: Gianni Letta.

«Conosce tutti, è amico di tutti, ma penso che con me abbia un rapporto diverso. Mi onora di cenare a casa mia, so quello che gli piace mangiare e chi ama incontrare».

Montezemolo.

«L’amico di una vita: ci siamo conosciuti 50 anni fa e continuiamo a farci gli scherzi e a stare reciprocamente al gioco...».

Tre imprenditori con i quali le piace confrontarsi.

«Giorgio Armani, Franco Caltagirone e Fabrizio Di Amato».

Da presidente onorario dell’Aniene si sente l’inventore del «circolo»?

«No, ma penso che non esista un posto al mondo con la stessa qualità del corpo sociale e una storia sportiva così prestigiosa. Per entrare c’è una lista d’attesa di 2 anni».

Si sente un Re Mida?

«Non penso, ma gestisco tutto come un’azienda. Condivido le parole di Bruno Zago sul Corriere Economia: contro la crisi c’è solo una ricetta, investire».

Le Olimpiadi di Roma.

«Un’occasione mancata, lo dico da romano e da italiano. Quando per autolesionismo c’è stata la ritirata di Roma, ho pensato di cavalcare l’onda di Milano, post Expo, e Luca Zaia è stato bravo a saltarci su con Cortina».

Però c’è stato il successo della Ryder Cup.

«Il campo da golf Marco Simone di Lavinia Biagiotti permetteva di gestire 60 mila persone e poi da una buca si vede la cupola di San Pietro. Ma Roma non era scontata: andava preparata la candidatura e vinta la concorrenza».

Come l’ha spuntata?

«Torniamo alle relazioni. Sono molto legato a Franco Chimenti, mio primo sostenitore al Coni. Durante un convegno sullo sport in Vaticano, cominciò a telefonarmi con insistenza, ma ero impossibilitato a rispondere e incastrato tra le sedie: “È urgente”. Voleva dirmi che lì c’era un personaggio decisivo per l’assegnazione, era Keith Pelley. E dove ero seduto io? Tra Montezemolo e Pelley».

Come è fare il Presidente del Coni?

«Un ruolo che svolgo con passione e da volontario. La mia vita pubblica è senza rimborsi. Questo è un Paese particolare, puoi trovarti in difficoltà per un pranzo...».

Le piacerebbe amministrare Roma?

«Sì perché soffro troppo a vedere certe cose. No perché dovrei fare compromessi».

Vincerebbe a mani basse?

«Sarebbe inelegante dirlo, ma i sondaggi registravano un certo gradimento. Ad eccezione dei 5 Stelle ho ricevuto offerte da tutti i partiti».

Giorgia Meloni.

«La stimo molto e spero che rimanga la persona coerente che conosco».

Gioco della torre: Sabaudia o Cortina?

«Amo Cortina, ma vince il mare».

Spezzato o completo?

«Spezzato tutta la vita, sono un uomo da blazer. E in inverno il doppiopetto Caraceni».

Quante Ferrari possiede?

«Solo una che ho ricomperato dopo 30 anni: una Ferrari 612 Scaglietti blu. Mi ricorda un pezzo del passato con le mie figlie e l’ho ritrovata».

C’è chi la chiama Megalò.

«Lo inventò Suni Agnelli, sono molto amico nonché socio di suo figlio Lupo. Dagospia l’ha ripreso, all’inizio ero dispiaciuto, ma se penso ai nomignoli degli altri mi è andata fin troppo bene».

Morto a 90 anni Vincenzo Malagò, padre del presidente del Coni Giovanni. Gianluca Piacentini su Il Corriere della Sera il 13 gennaio 2023.

Storico concessionario Ferrari a Roma, era stato vicepresidente della Roma calcio sotto la gestione di Ciarrapico e consigliere di amministrazione della squadra giallorossa con Viola

Lutto per il presidente del Coni, Giovanni Malagò, e per il mondo dello sport italiano. Si è spento a 90 anni il padre Vincenzo, che in passato è stato anche vicepresidente della Roma e ha fatto parte del Comitato organizzatore dei Mondiali di Italia '90.

Gran parte della vita di Vincenzo Malagò è stata attraversata dai colori giallorossi. Il suo rapporto con la Roma, di cui è stato anche (ma non solo) vice presidente, ha radici molto antiche. Il padre dell’attuale presidente del Coni, infatti, è stato prima un semplice tifoso, ma poi con il passare degli anni ha avuto ruoli importanti e di rilievo sotto varie presidenze. Fin dai primi anni ’50, quando, entrato da poco nel club, partecipò in prima persona ad alcuni trasferimenti di calciatori che hanno fatto la storia del club, come quello di Giacomo Losi, «core de Roma», o quello, che fece parecchio scalpore, del grande attaccante svedese Arne Selmosson, «Raggio di luna», dalla Lazio alla Roma. 

Durante la presidenza di Renato Sacerdoti, Anacleto Gianni e Marini Dettina, Malagò fu una presenza costante al fianco degli allenatori giallorossi: dirigente accompagnatore e uno tra i più importanti giovani dirigenti dell’epoca, insieme ad un altrettanto giovane Franco Sensi. L’amicizia con quello che sarebbe diventato il presidente del terzo scudetto, divenne un fattore determinante negli anni successivi, quando soprattutto grazie a lui, che nel frattempo era diventato vice presidente della società, ci fu il passaggio di proprietà da Giuseppe Ciarrapico, che era stato arrestato, alla coppia di imprenditori composta proprio da Sensi insieme a Pietro Mezzaroma. 

In precedenza era stato anche presidente della sezione nuoto e pallanuoto della polisportiva, ma era il calcio la sua vera passione e per questo - sotto la presidenza di Dino Viola, durante la quale la società conquistò il secondo scudetto (1982-83) - ebbe ancora un ruolo importante. Così come fu importante la sua presenza nel comitato organizzativo dei Mondiali di Italia ’90. Dopo quella esperienza, come detto, la sua vittoria più bella: essere riuscito, insieme a l’altro vice presidente Aldo Pasquali, a gestire il «salvataggio della Roma». 

In pratica fu la sua ultima impresa da romanista perché poi, nel 1993, dopo la cessione del club alla coppia Sensi-Mezzaroma (che comunque si sarebbe divisa di lì a pochi mesi), Vincenzo Malagò uscì definitivamente dalla società e si rimise a fare quello che amava fare di più: il tifoso.

Estratto dell’articolo di Gianluca Moresco per “la Repubblica – Edizione Roma” il 14 gennaio 2023.

«Il mondo dello sport piange la scomparsa del Cavaliere del lavoro Vincenzo Malagò, morto a Roma ieri pomeriggio all'età di 90 anni. Il padre del presidente del Coni, Giovanni, storico concessionario della Ferrari con la Samocar a Roma, è stato anche vicepresidente della Roma calcio sotto la gestione di diverse proprietà, oltre ad aver ricoperto un ruolo dirigenziale nel comitato organizzatore dei Mondiali di Italia '90. È la nota stringata delle prime agenzie che hanno battuto una notizia triste e che di fatto nasconde la fine di un pezzo straordinario di Roma».

Vincenzo Malagò […] coniugava la passione calcistica alla visione manageriale, lo sguardo del tifoso da curva all'attenzione del dirigente. Negli anni era diventato di fatto il più iconico riferimento nella vendita di auto di lusso del Paese. Comprare una macchina da Malagò (Sa.Mo.Car.) significava "Essere arrivati, avercela fatta". […]

 Salvò di fatto la Roma dal fallimento dopo l'aresto di Ciarrapico e del suo vice, Mauro Leone. Il 24 marzo quando a Trigoria si riunisce il primo consiglio d'amministrazione giallorosso dopo gli arresti del presidente Ciarrapico e del suo vice, Mauro Leone. "Il debito arrivava a 70 miliardi come scritto da alcuni? No, la metà. Ma è una cifra perfettamente allineata con quella di altre Spa calcistiche". La Roma respira.

Poi comincia un lavoro da manager, da dirigente romano, da artista della ricerca di capitali: Vincenzo Malagò in un pungo di giorni chiama tutti gli imprenditori che conosce, tutti quelli con disponibilità economia e passione. Passa ore al telefono, una parola dopo l'altra per convincere questo e quello: un solo obiettivo, salvare la Roma. Cene a tarda notte, incontri all'alba: Jacorossi, Pesci e Franco Sensi, il termine "cordata" rimbalza nei titoli di tutti i giornali. Alla fine Vincenzo Malagò trova la strada che porta alla complessa firma a due nomi: Mezzaroma e Sensi. La Roma è salva, il suo è stato un capolavoro, costruito nell'ombra […]

Si è diffuso come internet: 160 anni e non dimostrarli. Buon compleanno calcio. Nacque il 26 ottobre 1863 con la Football Association che codificò le regole. Poi come una "ragnatela"...Stefano Arosio il 26 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Nulla a che vedere con il cruento calcio fiorentino che si giocava in Santa Croce, ma nemmeno qualcosa di simile al cuju cinese dell'era Song descritto dallo storico inglese Michael Wood. La nascita del calcio moderno, quello del Video assistant referee e della Goal line technology, compie oggi 160 anni. Era il 26 ottobre 1863 e nella Freemason's Tavern di Londra venne fondata la Football Association: il pallone non sarebbe stato più guardato con gli stessi occhi e toccato con gli stessi arti, perché per prima sarebbe arrivata l'esclusione dell'uso delle mani. A parte il portiere, ma solo dal 1871, sancendo così il distinguo dal rugby. È invece del 1875 l'introduzione della traversa di legno per unire i due pali e un paio di primavere dopo arriveranno i 90 minuti come termine temporale di gara. Da lì, il calcio varcherà l'oceano per arrivare in Sudamerica con regole chiare e definite, che contribuiranno a far la sua fortuna. Ne uscirà con versioni fantasiose, che ne alimenteranno il mito. Come in Colombia, dove sono incerti nell'attribuire la paternità del nuovo mondo pallonaro ad Arturo de Castro, tornato dall'Inghilterra con le 14 regole della Football Association, o a Leslie Spain, commerciante di cappelli di Panama, uomo di mondo e di una precoce passione per quello sport visto sul suolo di Sua Maestà. In Sudamerica il calcio si esalterà, sublimandosi nell'estetica e imbastardendosi nei termini: l'orsai argentino, translitterazione del più british offside, ma anche il question & answer Aurelì?-Diez divenuto erede dell'Are you ready?-Yes che sanciva il calcio d'inizio. La genesi inglese resta anche nel nome dei club, dal Boca Juniors al River Plate, così ribattezzato per la trendy traduzione del Rio de La Plata.

Dalla primogenitura della Football Association parte il viaggio verso il 1886, quando nasce l'International board, strumento deputato alla diffusione delle regole poi universalmente riconosciute. Un world wide web inteso nel senso letterale, una ragnatela di passione per gol e colpi di testa sui tutti e cinque i continenti. Nel 1925 arriva la regola del fuorigioco e si inizia una partita che resterà pressoché immutata nel corso dei decenni. Il relativamente recente divieto di prendere la palla con le mani su retropassaggio, gli assistenti d'area e il cooling break sono appendici di una storia che gli inglesi hanno scandito anche con altri passaggi epocali: il rifiuto della Nazionale a prendere parte alle prime edizioni della Coppa Rimet, perché sarebbe stato superfluo ribadire che i più forti non potevano che essere gli inventori del gioco. Erano gli anni del grande Arsenal di Chapman, quando ancora Vivian Anderson (primo calciatore nero in Nazionale, Paul Ince sarà il primo capitano di colore) ancora non era nato. Gli hooligans, le esclusioni dalle coppe, la nascita della Premier.

Con il 26 dicembre 1999 per la prima volta di una squadra senza britannici: fu il boxing day del Chelsea di Vialli a rompere il tabù. Lo stesso che provarono per primi a infrangere il 2 marzo 2016 United, City, Chelsea e Arsenal con l'incontro carbonaro per il progetto di Superlega che non avrebbe avuto seguito, sino al tentativo del 2021. Dalla stagione di Serie A in corso, i giocatori del Regno Unito non sono più considerati extracomunitari: ennesima rivoluzione, più nel significato che nei numeri. I giocatori interessati sono 11, come quelli che la Football Association decise - 136 anni fa - che sarebbero potuti scendere in campo. Perché allora come oggi, con il City campione in carica in Champions, a dettar legge sono sempre loro. Of course.

La FIFA e le istituzioni del calcio globale: il parco giochi dei corrotti. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 3 Gennaio 2023

Saranno sorpresi gli scettici del pallone, che considerano il calcio una mera espressione della massima latina panem et circences, quindi anestetizzante per il popolo nelle mani delle istituzioni. Tuttavia, il calcio non aliena, al massimo ingloba. L’occhio attento scorge nel calcio la politica, le questioni sociali o l’eredità culturale. L’occhio attento vede in un gol di mano un atto politico, la vendetta del proprio popolo, l’umiliazione del padrone. Avrà pensato tutto ciò Diego Armando Maradona quel 22 giugno 1986, quando durante Argentina-Inghilterra realizzò il gol del secolo e mostrò al mondo intero la Mano de Dios, molto più di una rete ribelle segnata di mano. Uno slancio, che agli appassionati ha ricordato la tensione negli arti di Davide prima di sferrare il colpo contro Golia, sorretto da tutto il popolo argentino, sfregiato dalle politiche imperialiste britanniche durante la guerra delle Malvinas. A distanza di quasi quarant’anni da quella partita, si avverte la mancanza di un atto politico o di una presa di posizione, di quelle tipiche del genio di Lanús, scomparso da ormai due anni. Tutto tace, fatta esclusione per alcune voci fuori dal coro che non riescono però a sfondare il muro dell’indifferenza e dell’incoerenza eretto dalla FIFA, la federazione internazionale che governa il calcio e ha assegnato al Qatar la competizione mondiale, con non pochi coni d’ombra. Un muro che è soltanto l’ultima (in ordine temporale) macchia sul curriculum dell’organizzazione con sede a Zurigo, definita da Maradona come il «parco giochi dei corrotti», habitat naturale di «mafiosi, ladroni, dittatori e ignoranti».

La struttura piramidale del calcio

La struttura che gestisce il fenomeno calcistico può essere paragonata a una piramide abbastanza atipica. Nei vari livelli – mondiale, continentale e nazionale – permane infatti una certa autonomia nella gestione dei propri interessi. Ad esempio, la Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) è “l’unica associazione accreditata allo scopo di promuovere in Italia il gioco del calcio, del calcio a 5 e del beach soccer, oltre a curare gli aspetti a essi connessi”³. Il livello nazionale si scompone in Leghe, come la Lega Nazionale Professionisti Serie A, che fanno riferimento alla FIGC per l’organizzazione di campionati e coppe. Le varie federazioni nazionali vengono poi unite in associazioni continentali, come la UEFA nel caso dell’Europa. Il compito delle sei confederazioni sparse per il mondo è di organizzare competizioni ufficiali per nazionali e club. La UEFA ne gestisce, rispettivamente, nove e cinque. Tra le prime, si ricordano i campionati europei maschili (dal 1960) e femminili (dal 1984), mentre in ambito di club spicca la Champions League (originariamente Coppa dei Campioni d’Europa), seguita dall’Europa League e dalla neonata Conference League. Infine, ad occupare il vertice della piramide istituzionale è la FIFA, la federazione internazionale che governa gli sport del calcio, del calcio a 5 e di quello da spiaggia (beach soccer), organizzandone le manifestazioni intercontinentali. Tra queste, primeggia per seguito e importanza il campionato mondiale di calcio, la competizione che ogni quattro anni riunisce 211 Paesi. La fase finale viene disputata da 32 nazioni in un Paese scelto dalla FIFA, formalmente sulla base delle sue capacità di organizzazione e della qualità delle infrastrutture. La realtà è un’altra ed è impregnata di motivazioni politiche ed economiche, come dimostrano gli scandali che negli anni si sono succeduti, uno su tutti il “FIFA Gate” del 2015 che condusse all’arresto di sette massimi dirigenti FIFA. L’evento sportivo più redditizio al mondo, anche più delle Olimpiadi che richiedono investimenti pubblici maggiori, non esula ovviamente dalle logiche del profitto, del guadagno e del potere. David Goldblatt, l’autore del libro The Ball is Round: A Global History of Football (La palla è rotonda: storia universale del calcio) dice che, arrivati a una manciata di squadre dalla decisione finale, gli aspetti tecnici sono quasi del tutto irrilevanti, e vincerà il Paese che meglio saprà adulare i vertici del Consiglio FIFA, con buona pace di ciò che è meglio per i tifosi. Un gioco di soldi, conoscenze, politica e capacità di navigare nel complesso mondo del potere del calcio mondiale.

Il calcio come prodotto da vendere

«All’interno della FIFA c’è l’anarchia totale. C’è soltanto un uomo che decide tutto e non sa assolutamente nulla, un ignorante», affermò Maradona in riferimento a Joseph Blatter, il numero uno della FIFA dal 1998 al 2015, giudicato colpevole di corruzione e condannato a 8 anni di squalifica dal Comitato Etico dell’organizzazione. Blatter amava ribadire l’essenza del «nostro sport»: «disciplina, rispetto e fair play». Insomma, il classico dei “predica bene e razzola male”. La FIFA ha mascherato negli anni casi di incoerenza, corruzione e assegnazioni opache, nascondendosi alle spalle del mito del progresso. Così, l’operato dell’organizzazione è stato definito come «un eccellente lavoro di promozione del calcio nel mondo». Queste le parole di Chuck Blazer, uomo d’affari divenuto membro del Consiglio FIFA nel 1996. Un premio per la rivoluzione realizzata nella Confederazione nord e centroamericana (CONCAF) attraverso le modifiche alla Gold Cup, una delle competizioni più importanti del continente. Blazer avviò quel processo di ampliamento che ha portato a raddoppiare il numero dei partecipanti, passati dagli 8 del 1993 ai 16 attuali, scelti attraverso delle fasi eliminatorie, come accade per i mondiali. Un tentativo di coinvolgere il continente o di rendere il prodotto calcistico vendibile su più mercati?

In questa direzione s’inseriscono le parole dello stesso Blazer, che ha dichiarato di aver gestito e dunque assegnato la competizione «in base alle offerte», e la scelta di coinvolgere il Qatar, Paese mediorientale, nella Gold Cup 2021. Le risorse provenienti dalle monarchie del Golfo, traducibili in sponsor e diritti televisivi, da anni ricoprono un ruolo fondamentale nel calcio contemporaneo, che ha abbandonato le radici del Vecchio Continente per approdare dove il profitto chiama. Vendere il prodotto e ottenerne una percentuale per lo sforzo. Appare questa la logica che, alla luce degli ultimi scandali, muove gli alti organi calcistici. Nel 2013, Blazer venne accusato di corruzione e utilizzo a fini personali delle risorse della CONCAF. Nello stesso anno, il dirigente statunitense ammise di aver collaborato con altri membri del Consiglio FIFA per accettare, in cambio di tangenti, l’offerta del Marocco e del Sud Africa di ospitare l’edizione dei mondiali del 1998 e 2010. Per veder realizzata la propria candidatura ed essere scelto come organizzatore dei mondiali, un Paese deve ottenere il consenso della maggioranza dei 24 membri che formano il Consiglio FIFA, ribattezzati “gli dèi del calcio”. Città del Capo riuscì nell’intento, ospitando la diciannovesima edizione dei mondiali, mentre le tangenti non bastarono a Rabat che vide sfumare la candidatura a favore della Francia. A capo dell’organizzazione di quella Coppa del Mondo c’era Jacques Lambert, che ha ricoperto lo stesso ruolo per gli Europei del 2016, assegnati nuovamente a Parigi.

Il “FIFA Gate”

Dopo essere stato ai vertici della CONCAF e della FIFA tra il 1990 e il 2013, Chuck Blazer è stato travolto dallo scandalo della corruzione, diventando collaboratore del FBI e perno centrale nell’inchiesta che nel 2015 ha portato a 14 accuse di truffa, criminalità organizzata, corruzione e riciclaggio di denaro tra l’élite del calcio mondiale. Il 27 maggio, a Zurigo, vennero arrestati 7 massimi dirigenti FIFA: Jeffrey Webb, Eduardo Li, Julio Rocha, Rafael Esquivel, Joséu Maria Marin, Costas Takkas ed Eugenio Figueredo. Quest’ultimo, ex presidente della Confederazione sudamericana (CONMEBOL), riconobbe di aver accettato, insieme ad altri membri dell’organizzazione, denaro dalle aziende televisive per favorirle dal punto di vista commerciale durante le competizioni. Seguirono poi le squalifiche di 8 anni indirizzate dal Comitato etico della federazione a Sepp Blatter e Michel Platini per corruzione. Parallelamente, in Svizzera, il Ministero pubblico della Confederazione (MPC) ha accusato i due di truffa, appropriazione indebita o amministrazione infedele e falsità in documenti, a partire da un sospetto pagamento di due milioni di franchi da parte di Blatter diretto al conto di Platini. L’MPC proponeva una pena detentiva con la condizionale di un anno e otto mesi per entrambi. All’ex campione francese era inoltre stato chiesto un indennizzo di circa 2,2 milioni di franchi. Tuttavia, il Tribunale penale federale (TPF) di Bellinzona ha assolto lo scorso luglio sia l’ex presidente della FIFA sia l’ex numero uno della UEFA, concedendogli anche un risarcimento. Nelle scorse settimane, il Ministero pubblico della Confederazione ha confermato il ricorso contro la sentenza del tribunale elvetico, arrivando ai supplementari del caso che va avanti da 7 anni. Il “FIFA Gate” ha fatto luce su più di vent’anni di corruzione, rea di aver influenzato accordi di marketing, diritti TV (come nel caso della Copa América Centenario celebratasi negli USA nel 2016) e l’assegnazione dei mondiali, per un totale di oltre 150 milioni di dollari di tangenti.

Nel 2002, si assistette a trattative sottobanco e poi alla tregua tra rivali (Giappone e Corea del Sud) che poco prima del voto finale presentarono la candidatura congiunta, su mediazione della FIFA. Una mossa inedita per non scontentare nessuno, fatta eccezione per i tifosi, costretti a fronteggiare distanze infinite e scelte dell’ultimo minuto. I dubbi avvolgono anche l’assegnazione della diciottesima edizione della massima competizione per le nazionali, con la Germania outsider inaspettato. Alle tangenti si aggiungono favori su vasta scala: il giornale tedesco Die Zeit riporta un presunto invio di armi dal governo tedesco verso l’Arabia Saudita per inglobare i voti del Medio Oriente nella sfera berlinese e di investimenti da parte di Volkswagen e Bayer in Thailandia e di Daimler nella coreana Hyundai per favorire la raccolta voti in Asia. Fatto sta che lo scrutinio si concluse con 12 voti a favore della Germania, 11 a supporto del Sud Africa e 1 astenuto, che fece scoppiare la polemica. Si trattava di Charlie Dempsey, membro neozelandese, che avrebbe dovuto votare per la candidatura di Johannesburg, come indicato dalla Confederazione dell’Oceania. In caso di parità, la decisione finale sarebbe toccata al presidente Blatter, che aveva manifestato il suo consenso alla causa africana. Passa del tempo e il Sudafrica, complici cospicue tangenti, riesce a ottenere l’assegnazione dei mondiali, quelli del 2010. Si tratta dell’edizione più discussa, che scatena l’indagine dell’FBI, partita proprio da un pagamento di 10 milioni di dollari girato dalla FIFA alla CONCAF in nome del Sudafrica, ufficialmente destinato alla “causa della diaspora”, per costruire stadi e infrastrutture. Diverse mail compromettenti, inviate da Blatter ai propri collaboratori, dimostrano la connessione e l’intesa tra il boss della FIFA e Thabo Mbeki, l’allora presidente del Sudafrica. In un’intercettazione ai danni di Ismail Bhamjee, membro del Botswana e gancio di Blatter nel continente, emerge che: «Nel 2010 aveva vinto il Marocco per due voti. Issa Hayatou del Camerun, Slim Aloulou della Tunisia e Amadou Diakite della Costa d’Avorio sono tutti stati pagati per votare Marocco». In totale un milione di dollari ma a quanto pare il Sudafrica ne ha poi offerti 10. Per l’edizione del 2014 il Brasile arriva alle fasi finali come candidato unico, e la mancanza di concorrenza si spiega alla luce della sua spesa ineguagliabile tra i contratti pompati legati ai diritti tv. Il Brasile finisce la sua esperienza in semifinale, mentre María Marin, a capo della federazione, viene arrestato.

2 dicembre 2010: opportunismo e corruzione vincono i mondiali

«Il Qatar non ha una squadra, non ha stadi, non ha nulla. Però ha un sacco di soldi», afferma Mary Lynn Blanks riferendosi a un viaggio nell’emirato al seguito del compagno Chuck Blazer. La frase sintetizza al massimo il senso dell’assegnazione dei mondiali al Qatar, concentrando l’attenzione sul potere del denaro. Potere che di certo non mancava a Mohammed bin Hammam, dirigente qatariota membro del Consiglio FIFA dal 1996 al 2011 nonché stretta conoscenza di Sepp Blatter, capace di muovere milioni di dollari nelle tasche degli uomini chiave dell’associazione per rendere più appetibile la candidatura del proprio Paese, concretizzatasi il 2 dicembre 2010 con 14 voti a favore su 22. Nella stessa occasione – per ottenere migliori contratti televisivi e pubblicitari – si votò anche per l’assegnazione dei mondiali 2018, finita a Mosca dopo una lunga corsa a due con il Regno Unito. Al riguardo, bin Hammam affermò: «Nel mio cuore so di dover votare per l’Inghilterra, tuttavia voterò per il Paese europeo che mi darà la maggior quantità di voti per la candidatura del Qatar. Lo devo al mio Paese». Egli fu cruciale nell’organizzare incontri e costruire ponti economici tra Mosca e Doha, tra sceicchi e oligarchi, «che unsero tanto», troppo per le casse inglesi. Poco dopo la votazione, i due Paesi annunciarono un accordo per l’estrazione di petrolio nello Yamal, penisola siberiana. Soltanto affari.

Tale logica opportunista e di scambio favorita dal doppio voto non rappresentava di certo un caso isolato all’interno della FIFA, dal momento in cui due membri del Consiglio furono sospesi prima del 2 dicembre perché intenzionati a vendere il loro voto al miglior offerente. I giornalisti del Sunday Times contattarono Amos Adamu, membro nigeriano dell’organo esecutivo FIFA, presentandosi come imprenditori statunitensi interessati a far svolgere a Washington i mondiali del 2018. Adamu promise il proprio voto favorevole in cambio di 800 mila dollari. Discorso analogo per l’offerta avanzata a Reynald Temarii, membro del Consiglio e presidente della OFC, la Confederazione calcistica dell’Oceania. A qualche settimana dalla votazione, venne diffuso un filmato che ritraeva l’ex segretario generale della FIFA, Michel Zen-Ruffinen, intento a offrirsi come mediatore tra le parti alla modica cifra di 200 mila sterline. Nel video incriminato, Zen-Ruffinen sostenne l’esistenza di un accorto tra Spagna, Portogallo e Qatar tale da garantire all’emirato 7 dei 24 (poi passati a 22 per i due scandali) voti in ballo. L’intesa si espanse fino a raggiungere Parigi, dove bin Hammam – accompagnato dal principe ereditario Tamim bin Hamad Al Thani – incontrò nove giorni prima della votazione finale il presidente Nicolas Sarkozy e Michel Platini. L’appuntamento, al centro dell’inchiesta giornalistica “Qatargate”⁴, nel 2019 valse a Platini un arresto e 15 ore di custodia cautelare in Francia, salvo poi essere rilasciato dalle autorità locali. Il rapporto pubblicato su France Football da Philippe Auclair ed Eric Champel venne approfondito da Micheal García, nominato nel 2012 presidente dell’organo istruttorio della FIFA. Due anni dopo, presentò al Comitato etico un lavoro di oltre quattrocento pagine per informarlo di tutte le irregolarità nell’assegnazione dei mondiali di Russia e Qatar. L’organo affossò l’inchiesta, considerando insufficienti le numerose prove raccolte dall’interno da García, che decise di rassegnare le dimissioni.

In seguito alla votazione del 2 dicembre, Blatter incolpò l’ex centrocampista della Juventus di non aver rispettato “il patto dei signori”, l’accordo segreto per concedere la massima competizione per nazionali di calcio agli Stati Uniti (fermatisi nel 2010 a 8 voti contro i 14 per il Qatar). Nel 2015, Platini aprì all’esistenza di tale intesa con le autorità statunitensi, comunque non rispettata dal momento in cui egli decise di votare a favore dell’emirato perché «era la scelta giusta». Secondo quanto dichiarato da Blatter nello stesso anno, Platini gli avrebbe riferito poco prima della votazione di non essere dalla sua parte perché erano arrivate istruzioni precise dal Capo di Stato francese in materia di “riconsiderazione” delle relazioni tra Parigi e Doha. Con l’incontro all’Eliseo, le parti avevano concordato il supporto alla candidatura qatariota in cambio di massicci investimenti nel calcio d’oltralpe. Poche settimane dopo la votazione, la Qatar Sport Investment acquistò il 70% delle azioni del Paris Saint-Germain, salvandolo dal disastro finanziario e avviando una campagna acquisti mai vista prima all’ombra della Torre Eiffel. In dieci anni, dal 2011 al 2021, il presidente Nasser Al-Khelaifi ha speso oltre un miliardo e mezzo di euro sul mercato. Come riporta il quotidiano spagnolo La Vanguardia, per effettuare i diversi pagamenti e portare a termine il processo di corruzione (per una cifra pari a 3,6 milioni di dollari), bin Hammam arrivò a utilizzare fino a dieci prestanome, controllati dalla propria società di costruzioni. Nel maggio 2011, il Consiglio FIFA sospese il dirigente qatariota e dopo qualche mese il Comitato etico della federazione gli vietò per sempre la realizzazione di attività connesse al calcio, dichiarandolo colpevole di “ripetute violazioni” del codice etico e delle norme sul conflitto di interesse. La punta di un iceberg tremendamente profondo. [di Salvatore Toscano]

La gaffe del presidente Fifa e le scuse. Infantino e il selfie sorridente vicino alla salma di Pelé: “Volevo solo essere d’aiuto…” Redazione su Il Riformista il 3 Gennaio 2023

Selfie alla veglia funebre di Pelé, scomparso il 29 dicembre scorso all’età di 82 anni. Protagonista il presidente della Fifa Gianni Infantino, già al centro di numerose polemiche dopo il silenzio ai mondiali in Qatar sui diritti umani negati e sulla morte di numerosi operai. Il numero uno dalla massima organizzazione calcistica mondiale appare sorridente mentre scatta alcuni selfie in compagnia di tre ex compagni di squadra di Pelé nello stadio Vila Belmiro di Santos, il tutto a pochi centimetri dalla salma del campione brasiliano. Immediate le polemiche scatenatesi sui social dove in molti hanno attaccato Infantino per la sua presunta mancanza di rispetto.

La foto è stata scattata da Infantino in compagnia degli ex calciatori Lima, Da Silva e Manoel de Morais. Tutti sorridono nonostante il momento di lutto che si sta vivendo in Brasile e in tutto il mondo per la scomparsa di una delle icone del calcio. Polemiche che lo stesso presidente della Fifa rispedisce al mittente, provando a chiarire la leggerezza commessa nella giornata di lunedì 2 gennaio.

Su Instagram Infantino spiega: “Appena rientrato dal mio viaggio in Brasile dove ho avuto il privilegio di partecipare al bellissimo omaggio a Pelé che si è svolto a Vila Belmiro, a Santos. Sono costernato dopo essere stato informato che sono stato criticato da alcune persone per aver scattato un selfie e delle foto durante la cerimonia di ieri. Vorrei chiarire che sono stato onorato che i compagni di squadra e i familiari del grande Pelé mi abbiano chiesto se potevo fare qualche foto con loro. E ovviamente ho subito accettato. Nel caso del selfie, i compagni di squadra di Pelé hanno chiesto di fare un selfie di tutti noi insieme ma non sapevano come farlo. Allora, per essere d’aiuto, ho preso il telefono di uno di loro e gli ho scattato la foto di tutti noi“.

Se essere d’aiuto a un compagno di squadra di Pelé crea critiche sono felice di prenderle e continuerò ad essere d’aiuto dove posso a chi ha contribuito a scrivere pagine leggendarie del calcio”, aggiunge Infantino.  “Ho così tanto rispetto e ammirazione per Pelé e per quella cerimonia di ieri che non farei mai nulla che sia irrispettoso in alcun modo. Spero che chi ha pubblicato o detto cose senza sapere e senza cercare informazioni possa avere la decenza e il coraggio di ammettere di aver sbagliato e di correggere quanto ha detto”, prosegue. “La cosa più importante in ogni caso – conclude il presidente della Fifa – è rendere omaggio al Re Pelé, e mentre ho umilmente suggerito che in tutte le nostre 211 federazioni affiliate almeno uno stadio o un luogo di calcio sia intitolato a lui, daremo l’esempio dando al campo nella nostra sede il nome ‘Estádio Pelé – FIFA Zurigo’. Un abbraccio e viva il Re”.

Oggi intanto sono in programma i funerali di Pelé. La bara è stata chiusa a Vila Belmiro alle 14, ponendo fine alla veglia per O’ Rei, che ha visto la partecipazione di oltre 150mila tifosi in poche ore. Anche il presidente del Brasile Lula ha fatto visita all’ex campione, oltre al massimo dirigente del Santos, Andres Rueda. Nel pomeriggio (mattina in Brasile) è partita la processione verso il cimitero alla quale si sono aggiunti numerosissimi tifosi che già nel corso della notte avevano lanciato cori per Pelè. Lanci di petali sul feretro e passaggio del corteo davanti alla casa di Dona Celeste, madre dell’ex numero 10 verdeoro.

Da lastampa.it il 27 dicembre 2022.

Per guidare il ranking Fifa non basta neppure vincere un mondiale dopo aver conquistato la Coppa America: lo dimostra l'Argentina che chiude il 2022 solo al secondo posto della classifica del calcio mondiale, davanti alla Francia, terza, con il Belgio che scivola al quarto posto. Il ranking Fifa ha un grande peso perché decide ad esempio per i sorteggi delle varie competizioni a partire dai gironi di qualificazione. Nel 2018 è stato rivisto il sistema di conteggio introducendo quello "Elo", metodo statistico basato sulla forza dell'avversario utilizzato dalla Federazione Internazionale degli Scacchi per la redazione del ranking dei propri giocatori.

Si parte dai risultati dell'ultimo anno con un trascinamento parziale dei tre anni precedenti ma l'aggiornamento di partita in partita del punteggio mette fine ad ogni discussione legata alla congruità del periodo di riferimento. Il sistema aggiunge/sottrae punti (al contrario della media dei punti) per le singole partite al/dal punteggio totale esistente di una Nazionale. I punti che vengono aggiunti o sottratti sono parzialmente determinati dalla forza relativa dei due avversari, inclusa la logica aspettativa che le squadre più in alto in classifica se la caveranno meglio contro le squadre più in basso.

La formula adottata è Punti = Punti precedenti + C x (RP - RAP) dove: C corrisponde al coefficiente di importanza della partita che può assumere i seguenti valori: 5 - amichevoli disputate al di fuori del calendario internazionale FIFA, 10 - amichevoli disputate all'interno del calendario internazionale FIFA, 15 - partite della Nations League (fase a gironi), 25 - partite della Nations League (playoff e finali), 25 - partite di qualificazione ai campionati continentali e ai campionati mondiali FIFA, 35 - partite dei campionati continentali (prima dei quarti di finale), 40 - partite dei campionati continentali (dai quarti di finale in poi) e della Confederations Cup, 50 - partite del campionato mondiale FIFA (prima dei quarti di finale), 60 - partite del campionato mondiale FIFA (dai quarti di finale).

RP corrisponde al risultato della partita che può assumere i seguenti valori: 0 - sconfitta dopo i tempi regolamentari o supplementari, 0.5 - pareggio o sconfitta ai rigori, 0.75 - vittoria ai rigori, 1 - vittoria dopo i tempi regolamentari o supplementari. 

RAP corrisponde al risultato atteso della gara in base al ranking, determinato a sua volta dal risultato della seguente formula matematica 1/(10-DR + 1), dove DR sta per la differenza dei punteggi delle Nazionali che si affrontano prima della partita. Il nuovo metodo di calcolo ha reso più stabile il ranking rendendo più difficili i cambiamenti. Inoltre, vengono offerte più chance di scalare la classifica anche alle Nazionali appartenenti a Confederazioni minori rispetto alle due principali, quella europea o quella sudamericana.

(ANSA il 27 dicembre 2022) - I Mondiali in Qatar hanno appena incoronato l'Argentina, ma non le hanno permesso di salire sulla vetta del ranking della Fifa, che è guidato sempre dal Brasile. La Selecao chiude dunque l'anno solare 2022 davanti a tutte le altre Nazionali, a prescindere dal verdetto del torneo iridato che l'ha vista eliminata ai rigori dalla Croazia nei quarti. 

La Francia ha ceduto lo scettro mondiale, ma è tornata sul podio del ranking Fifa, a discapito del Belgio, che adesso è quarto. L'Inghilterra completa la top five, mentre l'Italia è ottava e viene scavalcata sia dall'Olanda sia dalla Croazia, che sale cinque posizioni. Sale, e di molto, anche il Marocco, che adesso è 11/o in classifica dopo avere scalato 11 posizioni.

Questo il dettaglio: 1. Brasile 1840,77 (-00,53) 2. Argentina 1838,38 (+64,50) 3. Francia 1823,39 (+63,61) 4. Belgio 1816,71 (-35.41) 5. Inghilterra 1774,19 (-45,72) 6. Olanda 1740,92 (+46,41) 7. Croazia 1727,62 (+81,98) 8. Italia 1723,56 (-02,58) 9. Portogallo 1702,54 (+25,98) 10. Spagna 1692,71 (-22,51) 11. Marocco 1672,35 (+108,85) 12. Svizzera 1655,02 (+19,10) 13. Usa 1652,74 (+25,26) 14. Germania 1646,91 (-03,30) 15. Messico 1635,78 (-09,11) (ANSA).

Fifa, dove vanno i soldi dei Mondiali? Come funziona l’organo del calcio. Storia di Arianna Ravelli su Il Corriere della Sera il 21 dicembre 2022.

Con il finale che sognava, Kylian Mbappè contro Lionel Messi, che per l’emiro del Qatar padrone di casa sono le stelle della porta accanto (quella del Psg), la Fifa di Gianni Infantino ha chiuso il Mondiale «migliore di sempre», parole sue (che aveva detto lo stesso in Russia). Ma adesso che la festa è finita, gli amici se ne sono andati, chi a dormire con la Coppa, chi già ad allenarsi a Parigi saltando le vacanze, e Infantino ha concluso il suo ciclo quadriennale con entrate per 7,5 miliardi di euro, adesso che cosa succede?

Cosa farà la Fifa nei prossimi 4 anni, prima di ritrovare Infantino all’apertura dei Mondiali di Canada, Usa e Messico nel 2026 che, anche se completamente diversi (si passa dal primo torneo tutto nello stesso posto a uno dislocato su quattro fusi orari) saranno sicuramente i migliori di sempre? Non è una battuta: da un certo punto di vista, quello dei soldi, sappiamo già che lo saranno: perché le previsioni sono di chiudere il prossimo quadriennio con ricavi per 11 miliardi, quasi il 50% in più. Com’è possibile? E soprattutto come impiega la Fifa questi soldi? È all’altezza del suo compito di massimo governo del calcio?

Mondiali in Qatar, gli 11 momenti che ricorderemo

Di sicuro è un posto da regni eterni, se è vero che Infantino ha chiarito come non sia al secondo mandato ma al primo (dal ’16 al ’19 ha solo finito quello interrotto forzatamente da Blatter), quindi potrà essere rieletto nel 2023 (le opposizioni di danesi e norvegesi per le questioni dei diritti ignorati di certo non lo spaventano) e nel 2027 (per un totale di 15 anni). Anticipando alcune risposte, possiamo dire che il modello di business per la Fifa – che, a differenza di quello che capita in altri sport come il basket o la F1, è sia l’ente che fa tutte le regole sia quello che gestisce gli aspetti commerciali - è il migliore possibile: dalla vendita dei diritti tv, di marketing e di licensing dei Mondiali arrivano entrate miliardarie (il 95% del totale Fifa), senza dover accollarsi investimenti e rischi finanziari per la costruzione di infrastrutture (che spettano al Paese ospitante), e come spese solo il montepremi per le Nazionali (440 milioni, di cui 42 alla squadra vincitrice) e, da quest’anno, anche rimborsi per i club (9400 euro per ogni giorno che un giocatore sta via per il torneo).

Una delle conseguenze è che il profitto per i Paesi ospitanti (che incassano con qualche sponsor nazionale oltre che con la presenza dei tifosi) è relativamente basso, perciò si devono consorziare (o, come il Qatar, accettare di chiudere in perdita in cambio di prestigio internazionale, sportwashing, promozione turistica, ecc). La Fifa, poi pagate le spese di gestione, la sede di Zurigo e gli stipendi dei suoi 815 dipendenti (e la presenza dello chef da superricchi Salt Bae alla cerimonia di premiazione fa venire qualche dubbio sul livello di spese cui sono abituati) è un ente senza fini di lucro, quindi deve reinvestire nel calcio tutto quello che guadagna.

E anche se naturalmente si può sempre fare meglio (ma a proposito di trasparenze nelle spese: il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha risarcito la Fifa con 188 milioni di euro per le condanne ai suoi vertici corrotti), i benefici che porta al calcio globale sono indiscutibili. Stipendi, centri federali, corsi di aggiornamento, tutto in qualche modo viene finanziato dai soldi Fifa, vitali per certi Paesi. Il programma Fifa Forward in particolare si occupa dello sviluppo del calcio nel mondo (e il fatto che abbiano passato i gironi squadre di tutti i continenti è stato rivendicato come un successo): nel ciclo 2023-2026 saranno investiti «2 miliardi, un aumento di sette volte rispetto al 2011-2014» (fonte Fifa) e un fondo di 190 milioni sarà per l’identificazione dei talenti: soldi che vengono divisi in parti uguali tra le 211 Federazioni affiliate, che sia la Cina o Gibuti, con il paradosso che i Paesi più piccoli non riescono neanche a spendere tutti i fondi. Ma naturalmente è difficile che facciano negare il voto quando ci sono le elezioni presidenziali.

Un sistema così ha bisogno di alimentarsi e di crescere di continuo. Ecco perché il calcio Fifa prevede la rincorsa al gigantismo: Mondiali a 48 squadre, un nuovo Mondiale per club prima a 24, poi a 32, a partire dal 2025 e nella finestra dove prima c’era la Confederations Cup. Una decisione che non piacerà alla Uefa, che guadagna in un anno quasi quanto la Fifa in quattro (5,7 miliardi di euro nel 2020-2021) e che naturalmente vuole tutelare la fonte dei suoi guadagni, ovvero la Champions. Le grandi Leghe nazionali non sono entusiaste perché temono che il premio che andrà ai 32 club (a proposito: scelti come?) aumenterà ulteriormente il gap tra grandi e piccoli, i sindacati dei giocatori sono preoccupati di aggiungere altre partite, e i club stanno capendo se ne vale la pena o no. Ma di fronte a una buona offerta, tutto si risolve.

Estratto dell’articolo di Elisabetta Esposito per gazzetta.t il 10 giugno 2023 

A Istanbul la finale di Champions League tra Inter e City avrà due spettatori speciali. […] Igino e Alberto Iacovacci sono rispettivamente presidente e a.d. di Iaco Group, azienda di Avellino specializzata nella lavorazione del metallo prezioso che da anni collabora con la Uefa e la Lega Serie A. 

[…]

Quindi il trofeo più ambito dai club europei viene da Avellino?

"Sì, mio padre e mia madre hanno dato vita a quest'azienda ad Avellino nel 1978. Lì c'è la sede principale, mentre gli stabilimenti sono a Vicenza, una zona storicamente nota nel mondo per la lavorazione del metallo prezioso. È un prodotto interamente realizzato in Italia, […]". 

Come è nata la collaborazione con la Uefa?

"Siamo legati a loro da oltre vent'anni. Questa è la quarta stagione consecutiva in cui realizziamo anche i trofei per i massimi tornei europei. Normalmente ci sono delle gare d'appalto che assegnano il lavoro […] secondo criteri abbastanza rigidi. […]abbiamo battuto colossi come la Asprey London inglese, un'oreficeria che lavora anche per la Casa Reale: con quel successo abbiamo prodotto noi la coppa del campionato Europeo 2021, di fatto abbiamo battuto l'Inghilterra due volte, a casa loro...".

Torniamo alla coppa per la Champions: quanto è difficile realizzarla?

"Molto. Per creare quel trofeo l'opera manuale incide per oltre l'80%, c'è pochissimo di industriale. Infatti dal primo all'ultimo passaggio servono 2 mesi e mezzo-tre. Del resto per una cerimonia come quella della Champions League, vista in tutto il mondo, serve un prodotto di eccellenza".

Qualche dettaglio in più su questo trofeo?

"È in argento e pesa circa nove chili. Poi ha questa particolarità dei manici, quelli che la rendono la coppa dalle grandi orecchie: realizzarli in modo armonico con l'anfora è uno dei passaggi più difficili in assoluto, non è semplice saldarli in modo che sembri un unico pezzo".

[…]

Gozi: “Monopolio Uefa incompatibile con il diritto europeo”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 25 Aprile 2023 

La presa di posizione del parlamentare europeoche che ha parlato di Ceferin, Superlega e dello strapotere illegittimo ed antidemocratico della Premier League

Il processo è stato fatto innanzitutto sui media, dove si è detto di tutto, peraltro senza avere piena conoscenza degli atti e delle carte processuali. Purtroppo, non accade solo nella giustizia sportiva. Molto spesso in Italia si viene processati e condannati dal tribunale dei media e del popolo e poi magari si viene assolti nel silenzio e nell’indifferenza generale, al massimo con un trafiletto nascosto nelle pagine interne dei quotidiani“. 

L’onorevole Sandro Gozi, autorevole esponente della politica dell’Unione Europea, ha commentato i processi in cui è coinvolta la Juventus: “Il caso Juve è senza dubbio un esempio molto mediatico di una patologia, che forse è ancora più grave nel caso della giustizia sportiva, in cui tutto sembra molto più incerto, discrezionale e poco trasparente. Da una parte, non credo che la politica debba intervenire sui singoli processi in corso. Credo sia questo il principale motivo di questo silenzio. Dall’altra, la politica ha invece il dovere di intervenire se si rilevano problemi generali del sistema. E in questo caso, intervenire non è un’opzione, è una precisa responsabilità”. 

Ritengo quindi una riforma assolutamente necessaria perché il caso Juve ha dimostrato a tutti che l’attuale sistema non è in grado di assicurare certezza del diritto, soffre di mancanza di trasparenza, non riesce a decidere nei tempi necessari e crea troppe incomprensioni e dubbi per gli atleti, per le società e per i tifosi. Se si pensa poi che il calcio è un grande fenomeno sociale di massa, ma è anche un’importante attività economica, si capisce bene l’assoluta inadeguatezza del sistema attuale. Anche la giustizia sportiva deve essere indipendente, giusta e comprensibile: il sistema attuale è debole sotto ognuno di questi punti di vista. E non ce lo possiamo più permettere“.

Gozi su Ceferin e il monopolio della Uefa

Sono convinto che l’attuale monopolio Uefa sia incompatibile con il diritto europeo. L’Uefa è in una posizione dominante e ne abusa, violando così i principi della concorrenza e del libero mercato. Ed è sugli abusi, più che sulla posizione dominante, che dobbiamo concentrarci. L’Uefa deve chiarire i principi e le condizioni in base ai quali lascia la libertà di promuovere nuove iniziative e competizioni ai club. Criteri e condizioni che devono essere chiari, trasparenti e proporzionati agli obiettivi da raggiungere e ai principi da garantire. Secondo me, dobbiamo tenere presente che il calcio è allo stesso tempo attività sociale e attività economica. Dal punto di vista del modello europeo dello sport, l’Uefa deve meglio chiarire come l’attuale struttura garantisce il raggiungimento degli obiettivi dei trattati europei: inclusione, merito, sostegno ai piccoli club e al calcio non professionistico” aggiunge l’on. Gozi.

Dobbiamo garantire il rispetto di questo principi senza imporre un modello unico e assoluto, come accade ora. Poi, perché nel Mercato unico europeo tutto deve essere strettamente nazionale? Perché se un domani le federazioni belga, olandese e lussemburghese volessero creare un campionato del BeNeLux, o gli stati baltici un torneo proprio, dobbiamo vietarglielo? Oggi tutto questo non è possibile: e senza possibilità come queste, i club di piccoli Paesi non potranno più tornare ad essere competitivi come in passato, perché oggi tutto il sistema è basato sul numero di abbonati a piattaforme digitali e tv. E per questo, più il Paese è grande, più ha possibilità” prosegue l’europarlamentare. 

Anche questo mi sembra una violazione dello spirito dei trattati e forse anche di alcune norme europee. Come del resto violano il principio Ue di libertà di movimento e creano discriminazioni le regole UEFA esistenti sui vivai di giocatori nazionali. Insomma, al di là della propaganda, credo che ci sarà molto da fare per riformare il sistema del calcio europeo. Ovviamente, dobbiamo aspettare la sentenza della Corte di giustizia UE, anzi le sentenze perché ci sono almeno tre casi su cui le decisioni dei giudici europei saranno molto importanti. La governance della Uefa? Mi preoccupa molto. Fa parte del problema di trasparenza: non è affatto chiaro se e come l’Uefa gestisca i reali o potenziali conflitti d’interesse al suo interno. E questo è un grosso problema. Io credo che i tifosi, gli atleti, le società di calcio e anche l’Europa meritino di meglio”.

Quanto a Ceferin, nelle sue interviste, nelle sue comunicazioni pubbliche, ha dato l’impressione di fare battaglie personali, di voler regolare dei conti, e credo che questo sia stato un grave errore. Anche nei passaggi più difficili, anche se ci sono delusioni personali, il presidente di un’entità importante come l’Uefa non può mai dare quest’impressione. Da un presidente, abbiamo il diritto di aspettarci un atteggiamento molto diverso. Spero proprio che Ceferin se ne renda conto e volti pagina nel suo nuovo mandato. Sinora, non lo ha fatto” conclude l’ on. Gozi. Redazione CdG 1947

Da ilnapolista.it il 7 aprile 2023.

Aleksander Ceferin nuovamente al centro delle polemiche, questa volta direttamente dal suo Paese natale: la Slovenia. Il numero uno della Uefa  è stato appena rieletto alla presidenza della Federcalcio europea (era l’unico candidato) con un incarico che lo vedrà protagonista fino al 2027.

 Nel frattempo, il dirigente ha ricevuto accuse da diversi media sloveni, tra questi Prava, secondo i quali Ceferin avrebbe mentito su una voce in particolare del curriculum. Il documento sulle esperienze del presidente della Uefa è attualmente presente sui siti della Federcalcio europea e della Federcalcio della Slovenia.

 A riportare la notizie del quotidiano sloveno è stato il profilo Twitter di @JU29ROTEAM

 Nel tweet si legge: “Secondo un’inchiesta della testata slovena Prava, infatti, la carriera di Ceferin alla guida della NZS, e cioè la federcalcio slovena, sarebbe iniziata nel 2011 con un curriculum fasullo. Infatti, uno dei requisiti minimi per diventare presidente della NZS è quello di aver ricoperto per almeno 5 anni il ruolo di membro del consiglio di amministrazione di un club calcistico nazionale, e nel suo caso i siti di Uefa e NZS riportano l’informazione secondo cui Ceferin lo sarebbe stato, dal 2006 al 2011, della NK Olimpija Lubljana”

Ceferin, in particolare, sostiene di essere stato in passato membro del consiglio di amministrazione dell’NK Olimpija/Bezigrad dal 2006 al 2011. Un’affermazione – secondo quanto ricostruito da Prava in un lungo articolo – che sarebbe lontana dalla realtà e che secondo il portale sloveno avrebbe dovuto invalidare la sua elezione a presidente della UEFA già nel 2016.

In questi ultimi anni Ceferin si è trovato più volte al centro di polemiche, soprattutto nel momento in cui ha dovuto gestire uno dei casi più impattanti sul mondo del calcio degli ultimi anni: la questione Superlega. Il dirigente sloveno ha fatto muro contro i club promotori del torneo e ha sempre tenuto un atteggiamento fermo e deciso, arrivando anche allo scontro (se non addirittura alla rottura, come nel caso di Andrea Agnelli) con diversi dirigenti.

La memoria a due velocità di Ceferin. Giovanni Capuano su Panorama il 3 Aprile 2023

Il presidente della Uefa attacca (ancora) i club della Superlega, affonda la Juventus e Agnelli e parla delle vicende giudiziarie del Barcellona anche se a Nyon c'è un organo disciplinare che dovrebbe essere indipendente. E dimentica i guai di City e Al Khelaifi

Aleksadr Ceferin, presidente della Uefa, non si tira mai indietro quando c'è da parlare della sua avversione alla Superlega e ai cosiddetti club ribelli che ancora restano in trincea, in attesa che tra qualche settimana la Corte di Giustizia UE si esprima definitivamente sul tema del monopolio delle grandi organizzazione internazionali del calcio. E, di conseguenza, sulla possibilità per chiunque di immaginare competizioni differenti rispetto alla Champions League e alle sue sorelle minori senza che chi pensi di parteciparvi debba essere messo all'indice. Parla, Ceferin, quasi sempre premettendo di non volerlo fare, di non poter intervenire, di essere consapevole visto il suo ruolo che bisogna attendere che tutto sia compiuto, soprattutto adesso che il vento degli scandali e delle inchieste attraversa l'Europa colpendo proprio due delle tre grandi nemiche della Uefa. Eppure parla sempre. Lo ha fatto anche nelle ultime ore giocando in casa e rispondendo alle domande del quotidiano sloveno Epika. Ha detto, il presidente Ceferin, che "la storia della Juventus doveva finire come è finita. Perché tutto era sbagliato" e che non prova alcun affetto per Andrea Agnelli. Ha aggiunto, riferendosi al Barcellona che è alle prese con lo scandalo arbitrale, di ritenerlo una "situazione estremamente grave" e "una delle più gravi nel calcio da quando sono coinvolto" per il quale è consapevole che esiste la prescrizione sportiva in Spagna ma "non per la Uefa". Sempre, ovviamente, precisando di "non poter commentare direttamente il caso per due motivi. In primo luogo, perché abbiamo un comitato disciplinare indipendente. E in secondo luogo, perché non ho affrontato la questione nel dettaglio".

E ha concluso, tornando a misurarsi con il tema a lui caro della (fu) Superlega, che "dei tre club che si dichiarano i salvatori del calcio, per quanto si apprende dai media, uno è impegnato in un procedimento penale per questioni di bilancio, un altro per aver trasferito denaro a uno dei i leader nell'organizzazione arbitrale. Vedremo se anche il terzo ha qualcosa". Si potrebbe obiettare che non avendo affrontato la questione nei dettagli o, nel caso della Juventus, essendo appena agli inizi un lungo e approfondito percorso di giustizia sportiva e ordinaria, l'impressione che Ceferin lascia è del politico che usa vicende processuali per attaccare i nemici. E che la frase buttata lì sul Real Madrid assomiglia a un avvertimento sgradevole da parte di un uomo che ha in mano il cuore del potere calcistico europeo tanto che poche righe prima, riferendosi in quel caso alla Juventus, non si fatto scrupoli nel segnalare che "certo, su molte cose ne so di più rispetto ai normali tifosi". E ci mancherebbe, sarebbe preoccupante il contrario visto il ruolo che occupa. Ma proprio per questo l'idea che il numero uno della Uefa e uno dei due uomini più potenti del calcio mondiale insegua una sorta di vendetta politica verso tre avversari come Real Madrid, Barcellona e Juventus finisce per essere sgradevole e inopportuno. Sui casi di giustizia sportiva, per capirci, dovrà pronunciarsi eventualmente il comitato disciplinare che lo stesso Ceferin (nella stessa intervista) definisce "indipendente" salvo poi invaderne il campo. Omettendo che il vento giudiziario sta investendo anche altri, ad esempio il Manchester City sotto inchiesta da anni in Premier League e ora formalmente incriminato per aver violato un centinaio di norme finanziarie. O quanto accade intorno al presidente del Psg e suo alleato politico Al Khelaifi, accusato secondo la stampa francese di rapimento, sequestro e tortura in una brutta storia che a che vedere con l'assegnazione dei Mondiali al Qatar. Insomma, parla e ricorda a intermittenza, Ceferin. E così non rende un buon servizio a se stesso e alla credibilità che dovrebbe garantire alla sua stessa organizzazione. Anche agli occhi di chi, come lui, magari ritiene la Superlega un progetto morto e sepolto.

Champions League, tutti i premi della coppa più ricca del mondo. Giovanni Capuano su Panorama il 14 Febbraio 2023.

Bonus girone, market pool, ranking storico e premi per il passaggio dei turni: ecco quanto possono incassare i club ammessi alla competizione che la Uefa difende e che vuole rendere ancora più appetibile finanziariamente

Torna la Champions League e riparte la caccia al jackpot multimilionario della competizione più ricca del calcio mondiale. Un bottino da 2 miliardi di euro che le 32 squadre iscritte all'edizione 2022-2023 si sono spartite a cominciare dalla scorsa estate e che ora entra nella fase più interessante con le sfide a eliminazione diretta che porteranno alla finale di giugno. Tanto per rendersi conto della posta in palio, Milan, Napoli e Inter che si misurano sul palcoscenico degli ottavi contro Tottenham, Eintracht Francoforte e Porto si giocano in 180 minuti una fiche da una ventina di milioni di euro tra bonus qualificazione ai quarti (10,6), incasso di un'eventuale super sfida a marzo e aprile (non meno di 5-6 milioni di euro), incentivi dei proprio sponsor e quota market pool televisivo. Una specie di partita a poker su cui si concentrano non solo allenatori e giocatori ma anche i contabili delle società, a caccia perenne di linee di ricavo per tenere in equilibrio i bilanci. La Champions League è una coppa ricchissima anche oggi ed è destinata a diventarlo ancor di più dal 2024, quando scatterà la nuova formula con aumento delle partite garantite e del fatturato da distribuire ai partecipanti. Al netto della vicenda della Superlega e di cosa sarà dopo il pronunciamento della Corte di Giustizia UE in primavera sul monopolio della Uefa e sulla possibilità, per chi volesse, di staccarsi e organizzare in proprio un campionato alternativo. In questa edizione Nyon ha stanziato 2,022 miliardi di euro come montepremi per la Champions League. La stragrande maggioranza del denaro (70%) per coprire in maniera orizzontale tutte le partecipanti tra bonus presenza, market pool (con differenze da paese a paese) e ranking storico degli ultimi dieci anni che garantisce un trattamento di favore ai club che hanno frequentato con maggiore assiduità e risultati le coppe europee. Chi ha avuto accesso alla fase ai gironi ha guadagnato 15,64 milioni di euro per il solo fatto di essersi meritato la qualificazione. A questi si sono aggiunti i premi per i risultati delle singole sfide: 2,8 milioni per ogni vittoria e 0,93 per il pareggio. Passare agli ottavi di finale ha regalato un extra da 9,6 e da qui in poi si cresce rapidamente: i quarti ne valgono 10,6 che diventano 12,5 per le semifinali e 15,5 per l'accesso alla finalissima. Vincerla porta ulteriori 4,5 milioni di euro e la qualificazione alla Supercoppa Europea che a sua volta mette a disposizione un discreto jackpot. La squadra che dovesse alzare al cielo la Champions League facendo percorso netto di vittorie riceverebbe un assegno da 85,14 milioni di euro. A questi vanno aggiunti i soldi del ranking storico Uefa (600 milioni in tutto) con un sistema a scalare che ne riconosce 36,38 alla più 'anziana' e titolata e poi giù a scendere con scalini da 1,137 fino alla trentaduesima. Il market pool dipende invece dal mercato televisivo di riferimento della squadra, dal numero di club provenienti dalla stessa nazione e dalla quantità di partite giocate fino all'eliminazione. In partenza premia anche la classifica nel torneo nazionale di provenienza riservando un trattamento migliore alla prima e poi a scalare fino all'ultima qualificata.

Estratto dell'articolo di Stefano Boldrini per “il Messaggero” il 10 febbraio 2023

Il fantasma, o il sogno, di una Superlega è vivo e lotta ancora: il tedesco Bernd Reichart, amministratore delegato di A22 Sport, la società che lavora al progetto di un macro campionato europeo, ha annunciato ieri il nuovo format di un torneo che dovrebbe scalzare l'attuale Champions League. I dettagli del progetto, codificato in un decalogo: tra i 60 e gli 80 partecipanti; 14 partite garantite per ogni club; sistema aperto, basato su promozioni e retrocessioni; meritocrazia "fondata sulle prestazioni sportive"; nessun membro permanente; aumento dei contributi; sviluppo calcio femminile.

Reichart […] All'agenzia italiana Ansa, ha raccontato: «Lo scorso ottobre abbiamo avviato i colloqui con quasi cinquanta club. Sono emerse questioni fondamentali nel calcio europeo: instabilità economica, governance, squilibrio competitivo. Il dominio della Premier League preoccupa non solo i club, ma anche i tifosi. Noi non vogliamo danneggiare i campionati nazionali, ma stiamo cercando di sostenere il sistema percorrendo una nuova strada. Il progetto riguarda i ventisette paesi dell'Unione, ma è aperto a tutti gli stati europei».

[…] Il richiamo allo strapotere della Premier, certificato sempre ieri dalle cifre del mercato di gennaio, non è casuale. In Inghilterra è ormai in vita una Superlega in formato ridotto, riservata ai club di casa, con uno squilibrio economico rispetto al resto d'Europa quasi plateale. L'ultima della Premier incassa di più rispetto a chi conquista la Champions e la forbice si sta ulteriormente allargando. […]

L'interesse dei tedeschi nei confronti della Superlega è tiepido. Il PSG è contrario. Le squadre inglesi sono state ammutolite dalle reazioni dei tifosi. I sostenitori di ferro sono Real Madrid, Barcellona e, fino all'addio di Andrea Agnelli, la Juventus, ovvero le società che navigano in mari tempestosi, con bilanci in profondo rosso. Reichart ieri ha parlato anche del caso-Juve: «Continuerò a lavorare con i rappresentanti della nuova società in modo costruttivo e produttivo. Un ruolo per Andrea Agnelli? E' libero di decidere che cosa fare».

Immediate le reazioni di chi avversa da sempre il progetto: «La Superlega oggi si traveste da nonnina per fregare il calcio europeo, ma resta il lupo cattivo le parole di Javier Tebas, presidente della Liga -. La verità è che vogliono ridisegnare il calcio europeo per gli interessi dei grandi club. Dicono che non intendono danneggiare i campionati nazionali, ma ci spieghino come possa non accadere di fronte a un format di ottanta squadre».

L'ECA European Club Association -, rappresentata dal presidente del PSG Nasser Al-Khelaifi, accusa: «L'A22 Sport vive una realtà alternativa». Sullo sfondo, l'Europa della politica: in primavera è atteso il pronunciamento della Corte di Giustizia sullo status dell'Uefa. Ha il diritto a difendere il suo monopolio, oppure no? La partita finale si gioca su questo fronte.

Il Tribunale di Madrid: Fifa e Uefa non possono ostacolare la Superlega. Redazione CdG 1947 di Alessia Di Bella su Il Corriere del Giorno il 31 Gennaio 2023.

Una battaglia legale apertasi nella capitale spagnola nell’aprile del 2021, quando la Superlega venne costituita ed annunciata. I membri fondatori avevano chiesto di essere tutelati di fronte alle possibili sanzioni paventate da parte di Uefa e Fifa per aver tentato di organizzare il nuovo torneo

Un’altra sentenza favorevole alla Superlega in attesa del verdetto della Corte Europea del Lussemburgo, registrando un successo parziale presso il tribunale di Madrid. La partita giudiziaria “vera” si gioca a Lussemburgo, ma la sentenza madrilena di questa mattina ha comunque la sua rilevanza ed un peso specifico. Il verdetto di questa mattina è il terzo atto di una battaglia legale apertasi nella capitale spagnola nell’aprile del 2021, quando la Superlega venne costituita ed annunciata. I membri fondatori avevano chiesto di essere tutelati di fronte alle possibili sanzioni paventate da parte di Uefa e Fifa per aver tentato di organizzare il nuovo torneo. Inizialmente la cosa era stata garantita dal giudice incaricato, ma Uefa e Fifa avevano fatto appello e la loro istanza era stata accolta, con la sentenza rovesciata. Ora la Audiencia Provincial dà di nuovo ragione ai membri della Superlega, Real Madrid, Barcellona e Juventus, ribaltando il verdetto del Tribunale Mercantile numero 17 di Madrid. I processi si svolgono in Spagna perchè in quel Paese era stata registrata la società Superlega Spa.

Il Tribunale Provinciale di Madrid ha emesso una sentenza, diffusa dal quotidiano sportivo spagnolo As, nella quale i tre magistrati assicurano che “la Fifa e la Uefa non possono giustificare il loro comportamento anticoncorrenziale come se fossero gli unici depositari di certi valori europei, soprattutto se questo deve servire da una scusa per sostenere un monopolio dal quale poter escludere o ostacolare l’iniziativa di quella che aspira ad essere la sua concorrente, la Superlega“.

I giudici aggiungono inoltre che “alla luce delle indicazioni che ci sono state messe a disposizione, non ci sembra giustificabile il comportamento dei convenuti a tutela degli interessi generali del calcio europeo. Quella che avvertiamo è un’azione che ha tutte le caratteristiche di un ingiustificabile abuso da parte di chi detiene una posizione di dominio”. 

Inoltre non possiamo presumere in questa procedura cautelare che il meccanismo di distribuzione degli utili utilizzato da Fifa e Uefa, che non è contrassegnato o controllato da un regolatore pubblico indipendente, costituisce necessariamente il meglio possibile per gli interessi generali dello sport” si legge ancora nella sentenza che ordina a Fifa e Uefa di “astenersi dall’adottare qualsiasi provvedimento o azione e dal rilasciare qualsiasi dichiarazione, nel corso del dibattimento del procedimento principale, che impedisca o ostacoli, direttamente o indirettamente, la preparazione o lo sviluppo della Superlega”. Ed ancora, vieta a Fifa e Uefa, “di annunciare o minacciare qualsiasi misura disciplinare o sanzionatoria nei confronti dei club, dirigenti e persone dei club e/o o giocatori che partecipano alla preparazione della Superlega“.

Il presidente del Barcellona Joan Laporta ha affermato di ritenere che una Super League europea potrebbe essere operativa dal 2025 se la sentenza del tribunale europeo andrà a favore del progetto. Una causa secondo cui gli organi di governo del calcio UEFA e FIFA avrebbero abusato del loro potere quando hanno minacciato di espellere club o giocatori che si univano a una Superlega proposta è in attesa di un verdetto dalla Corte di giustizia europea. Il calcio europeo è stato scosso nel 2021 dal tentativo di 12 club di creare una Super League, ma dopo il contraccolpo di tifosi e governi, la maggior parte si è ritirata dal progetto.

Barcellona, Real Madrid e Juventus hanno continuato a insistere su una potenziale Superlega, nonostante la disapprovazione da più parti. “A marzo o aprile avremo il verdetto della Corte di giustizia europea”, ha detto Laporta alla stazione radio ‘Cadena SER’. “La Super League sarà una competizione aperta. Non sarei entrato in questo progetto se la competizione non fosse stata aperta”.

Laporta ha affermato di volere che i club abbiano la capacità di autogovernarsi e che anche la UEFA possa avere un posto al tavolo. “Se la risoluzione è favorevole, penso che la Super League (potrebbe iniziare) nel 2025”, ha aggiunto.

Il presidente del Real Madrid Florentino Perez, che ha presentato il progetto iniziale della Super League nel 2021, ha dichiarato nell’ottobre dello scorso anno che il calcio era “malato” e che una Super League europea potrebbe rianimarlo.

La Superlega, soddisfatta

22 Sports Management, la società nata per promuovere la creazione della Super League Europea, ha accolto “con soddisfazione” la decisione del Tribunale Civile Provinciale di Madrid di riattivare le misure cautelari che impediscono a FIFA e UEFA di stabilire sanzioni nei confronti dei membri di detta concorrenza, e ha manifestato l’intenzione di “proseguire il dialogo” in un ambiente “privo di minacce e altre misure ostruzionistiche”. “Accogliamo con favore il fatto che questa decisione del tribunale consenta ad A22 di continuare liberamente il progetto di creare una nuova ed entusiasmante competizione calcistica europea”, ha dichiarato Bernd Reichart, CEO di A22 Sports Management.

Redazione CdG 1947

L’alba della golden age. Il giorno che ha cambiato la storia del calcio italiano. Andrea Novelli su L'Inkiesta il 9 Settembre 2023.

Il 19 aprile 1989 è stata una giornata storica. Si disputano tre semifinali di coppe europee, la Sampdoria, il Napoli e il Milan raggiungono la finale nello stesso giorno, quasi in contemporanea. Lo racconta l’ex arbitro Andrea Novelli in “Il calcio come esperienza religiosa” (Edizioni Ultra)

A detta di tutti, il 19 aprile 1989 è stata una giornata storica per il calcio italiano. Le semifinali, più che le finali che seguiranno, sono state un punto di svolta, uno snodo cruciale, quello della definitiva consapevolezza.

Esserci stato in prima persona è stata una fortuna, ma anche frutto di un piano ben concertato, che ha permesso di vivere in presa diretta agli eventi che hanno portato come risultato una squadra italiana in ognuna delle finali delle coppe europee.

Per i nostri club è stata la prima volta. Se si aggiunge anche che il Milan, il Napoli e la Sampdoria hanno giocato contro le tre squadre in testa ai rispettivi campionati (spagnolo, tedesco e belga), con Real e Bayern Monaco che erano ancora imbattuti e Malines che aveva perso solo una volta, il risultato è stato ancor più eclatante.

Nelle semifinali di ritorno, Milan, Sampdoria e Napoli hanno segnato dieci gol a due, di questi sei sono stati realizzati da giocatori stranieri, quattro da italiani.

Guardando al passato, nel 1964-1965 si presentarono in due all’atto finale: l’Inter, che vinse contro il Benfica in Coppa dei Campioni, e la Juventus, che al Comunale di Torino perse la finale della Coppa delle Fiere contro gli ungheresi del Ferencváros.

Anche nel 1972-1973 avevamo avuto due finaliste: la Juventus in Coppa dei Campioni (persa con l’Ajax) e il Milan in Coppa delle Coppe (vinta contro il Leeds United).

Undici anni dopo, nel 1983-1984, la Roma in Coppa dei Campioni perse solo ai rigori in casa contro il Liverpool e la Juventus di Platini in Coppa delle Coppe vinse contro il Porto a Basilea. Al triplete delle coppe europee ci era arrivata molto vicina la Spagna nella stagione 1961-1962, con l’Atletico Madrid vincitore della Coppa delle Coppe e il Valencia della Coppa delle Fiere vinta contro il Barcellona, ma in Coppa dei Campioni steccò proprio con il Real Madrid, che perse contro il Benfica di Eusebio. Nel 1985-1986 a fallire furono il Barcellona, sconfitta in finale di Coppa dei Campioni contro la Steaua Bucarest, e l’Atletico Madrid che perse la Coppa delle Coppe contro la Dinamo Kiev, mentre il solo Real Madrid vinceva la Coppa Uefa contro il Colonia.

Il 19 aprile 1989, il giorno delle semifinali di ritorno Sampdoria-Malines 3-0 in Coppa delle Coppe, Bayern Monaco-Napoli 2-2 in Coppa Uefa e Milan-Real Madrid 5-0 in Coppa dei Campioni, è considerato da tutti gli addetti ai lavori lo snodo cruciale che ha dato al nostro calcio la consapevolezza di poter primeggiare in campo internazionale, il preludio a un’epopea durata un decennio che ha visto sette squadre ottenere almeno una vittoria europea. Solo per la sconfitta in finale della grande Samp di Vialli e Mancini a opera del Barcellona, infatti, le italiane non riuscirono a completare già quell’anno un clamoroso en plein, ma si dovette attendere ben poco: nella stagione successiva, con la conquista contemporanea di tutti e tre i trofei, l’Italia conseguirà un record ineguagliato e di fatto ineguagliabile, visto che la Coppa delle Coppe non esiste più. 

Tratto da “Il calcio come esperienza religiosa. 19 aprile 1989 il giorno che ha cambiato la storia del calcio italiano” (Ultra), di Andrea Novelli, pp. 248, 16€

Da fanpage.it il 28 gennaio 2023.

L'ex presidente della Federcalcio, Carlo Tavecchio, è morto all'età di 79 anni. La carriera di dirigente sportivo lo ha portato ai vertici della FIGC nel 2014, in quell'anno scandito dalle dimissioni di Giancarlo Abete dopo il naufragio dell'Italia ai Mondiali di Brasile 2014. Fu una reazione a catena, considerato che a lasciare per senso di responsabilità fu anche il commissario tecnico della Nazionale di allora, Cesare Prandelli.

L'era Tavecchio iniziò così: elezione con oltre il 60% dei voti nella sfida a distanza con l'ex calciatore del Milan, Demetrio Albertini. Durò tre anni e finì nel 2017, ancora una volta in seguito a un disastro degli Azzurri. Uno dei peggiori della storia: la mancata qualificazione alla Coppa del Mondo del 2018 in Russia. C'era Gian Piero Ventura sulla panchina della squadra che sarebbe poi passata a Roberto Mancini con alterne fortune: vittoria degli Europei in Inghilterra e la tremenda delusione per lo scivolone che ha tenuto l'Italia fuori dai Mondiali in Qatar 2022.

 Il mondo del calcio ha rappresentato un pezzo importante della sua vita, durante la quale ha coniugato passione e lavoro: negli ultimi anni era tornato alla figura di presidente della Lega Nazionale Dilettanti in Lombardia, ruolo che aveva coperto già verso la fine degli Anni Novanta.

Lutto improvviso nel mondo del calcio. È morto l’ex Presidente della Figc Carlo Tavecchio. Antonio Lamorte su Il Riformista il 28 Gennaio 2023

Questa mattina è morto l’ex presidente della Federcalcio, Carlo Tavecchio. Aveva 79 anni. A dare la notizia l’agenzia Ansa. Tavecchio nella sua lunga carriera da dirigente era stato anche presidente della Lega Nazionale Dilettanti (LND). Aveva guidato la Federcalcio dal 2014 al 2017, si era dimesso dopo la mancata qualificazione ai Mondiali in Russia del 2018 della Nazionale azzurra guidata da Giampiero Ventura. Al momento ricopriva la carica di numero 1 del Comitato regionale della LND Lombardia.

Sconcerto infatti espresso da quest’ultima che in una lunga nota porge le condoglianze alla moglie Eugenia, alla figlia, ai nipoti e al consigliere Mario Tavecchio. “Con sgomento, i componenti del Consiglio direttivo del Crl con i collaboratori e dipendenti tutti del comitato e delle delegazioni, piangono l’improvvisa scomparsa del presidente del Comitato regionale Lombardia Carlo Tavecchio”, si legge nella comunicazione.

Non vogliamo qui ricordare il prestigioso e inimitabile curriculum sportivo del presidente, già dirigente di società e dirigente federale partito dal Comitato lombardo per approdare alla presidenza della Lega nazionale dilettanti, prima, e della Federazione italiana gioco calcio, poi, mettendosi di nuovo a disposizione del Crl dal 9 gennaio 2021, ma vogliamo tenere impresso nelle nostre menti e nei nostri cuori l’uomo brillante, dallo smisurato spirito di servizio e battagliero nel portare avanti tutte le istanze in favore del tanto amato mondo del volontariato e del sociale espresso dal calcio dilettantistico e giovanile“, scrivono dal Comitato. “Caro presidente, hai corso per tutta la tua vita a massima velocità: ora riposa in pace”.

L’ultima uscita pubblica – ricostruisce l’Agi – due settimane fa in occasione dell’assemblea della Lnd Lombardia, poi alcuni problemi di natura polmonare e l’improvviso peggioramento delle condizioni che lo hanno portato lo scorso mercoledì al ricovero in un ospedale brianzolo. Tavecchio si era dimesso dalla guida della Figc, nel novembre 2017, dopo la mancata qualificazione dell’Italia al Mondiale in Russia. A gennaio 2021 era divenuto presidente della LND Lombardia, il comitato regionale dei dilettanti che aveva guidato fino al 1999.

Proprio nel corso di un’assemblea LND, Tavecchio si era lasciato andare alla sua dichiarazione più famigeratamente nota che sollevò una grande polemica mediatica. “Le questioni di accoglienza sono una cosa, quelle del gioco un’altra. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare”, aveva dichiarato Tavecchio sulla questione dei troppi stranieri nel calcio in Italia. “Noi invece diciamo che Optì Poba è venuto qua che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree”. I funerali si terranno lunedì prossimo, 30 gennaio, a Ponte Lambro.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Addio a Tavecchio, l'ex Dc che inciampò su una banana e il mondiale di Russia. Tony Damascelli il 29 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Da n°1 Figc la gaffe sui giocatori di colore. E si dimise quando l'Italia non si qualificò

D'accordo, Carlo Tavecchio è stato quello dell'Opti Pobà. D'accordo, Carlo Tavecchio è stato quello che «Dobbiamo imparare che chapeau da chi? Che? Chi? Chapeau lo dico io». D'accordo Carlo Tavecchio è stato quello che: «La Christillin è nel consiglio Fifa grazie agli gnomi dietro le scrivanie italiche». D'accordo su tutto però Carlo Tavecchio è stato anche quello che dopo il patetico, vergognoso, umiliante pareggio contro la Svezia e conseguente mancata qualificazione al mondiale, Russia 2018 per la precisione, almeno ebbe la dignità di presentare le dimissioni, doverose, figlie del suo essere democristiano fino alla fine, astuto e, assieme, consapevole. Altri non hanno usato lo stesso metodo, scaricando altrove responsabilità, su Tavecchio, invece, si scatenarono tutti i bar del Paese, quelli frequentati dalla bella gente ma anche le peggiori bettole affollate di ceffi improbabili.

Questo lombardo, piccolo di statura ma dal cervello veloce, il classico cumènda di provincia, era bersaglio facile di satire e ironie, del resto lui aveva provveduto offrendo palle gol fantastiche, con quel linguaggio nazionalpopolare, immediato al comprendonio ma respinto dall'intellighenzia (!?) dei potenti. Quella frase stupida, sulle banane e Opti Pobà, gli costò la faccia anche a livello internazionale, all'accusa di razzismo replicò spiegando di non avere offeso davvero nessuno perché lui, per anni, aveva portato in Togo, insieme con la moglie, farmaci, dispositivi medici e materiale scolastico, quaderni, lavagne, grembiuli. In fondo quelle parole idiote avrebbero dovuto significare, per lui, la presenza eccessiva di stranieri, ecché stranieri, nel nostro football, dunque l'eliminazione della nazionale di Ventura, sciagurato pure lui, ne era il risultato manifesto. Proprio sul cittì infierì ai massimi, dicendo che il ligure era stato scelto per ultimo e nemmeno da lui proprio, perché erano altri i candidati, Capello e Lippi i primi della lista. Ma fu anche lui ad agganciare Antonio Conte e furono mesi e anni belli, di entusiasmo svanito poi nel rifiuto del leccese a proseguire, dopo l'europeo e i calci di rigore contro la Germania, il lavoro per il mondiale russo. Altre facezie o gaffe furono da lui riservate al calcio femminile, bastava un respiro e Tavecchio diventava l'orso del tiro a segno, l'attore preferito da Striscia e affini; esempio, la magra degli azzurri contro la Nuova Zelanda? Colpa del freddo e della corsa notturna degli atleti per la minzione d'onore. Qualche guaio lo aveva passato fuori dai campi di calcio, storie di natura fiscale, di assicurazioni varie, dei campi in superficie sintetica da lui gestiti, i campi vicende poi finite con assoluzione.

Detto che era nato democristiano, a Ponte Lambro, il ragioniere Carlo Tavecchio, prima di occuparsi di pallone si era dato ai conti, quelli di dirigente della Banca di Credito Cooperativo dell'Alta Brianza, il che lo portò a candidarsi per la politica locale e per quattro mandati fu eletto sindaco, liste della Diccì, a Ponte Lambro e, preso dall'euforia, fondò la Pontelambrese e la squadra giocò su un campo in erba sintetica, da qui sussurri e molestie di regime. Seguì una carriera nelle istituzioni calcistiche fino alla presidenza in via Allegri, Roma. Ribadì l'arte politica, bonificando l'immagine, stando vicino alla presidenza Uefa, prima riverendo Michel Platini e chiedendone l'intercessione, poi abbandonandolo quando il francese venne lordato dal ventilatore Fifa-Uefa, quindi favorendo l'elezione dello sloveno Ceferin, così da ottenere un riconoscimento almeno fuori dai giochi del campo. Per ultimo si era riaffacciato all'agone, qualche mormorio riferì che, tradendo la sua antica e robusta fede interista, si era avvicinato alla trattativa di acquisto del Milan, non da azionista di riferimento ovviamente, per divenire presidente del comitato regionale lombardo della lega nazionale dilettanti, un passo indietro ma per restare davanti, fino alle settimane scorse quando il virus lo sorprese e lo colpì. Avrebbe compiuto ottant'anni il prossimo 13 di luglio. Oggi mille e più di mille parole di cordoglio e di affetto, anche e soprattutto da chi lo insultò da vivo ma sono pronti a indossare la faccia di circostanza. Non faccio cognomi, basta osservare, leggere e capire.

Antonio Giangrande: IL CALCIO: LA REPUBBLICA DELLE BANANE E LA TESSERA DEL TIFOSO.

Nel libro scritto da Antonio Giangrande “SPORTOPOLI”, un capitolo è dedicato alla vicenda Tavecchio ed alla tessera del tifoso.

Su questo Antonio Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha pubblicato la collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo" ha svolto una sua inchiesta indipendente. Giangrande sui vari aspetti dello sport in Italia ha pubblicato un volume “Sportopoli. L’Italia delle frodi sportive”.

IL CALCIO: LA REPUBBLICA DELLE BANANE E LA TESSERA DEL TIFOSO.

L'unico frutto del rancor è la banana... Tavecchio è il Mostro di Mezz’Estate per una frase scema su calcio & banane, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Non so chi sia questo Tavecchio, cos’abbia fatto nella vita e se meriti di guidare la federazione calcio oppure no. Per ragioni onomastiche e anagrafiche è forse incompatibile con l’era puerile di Renzi, ma non è di vecchiaia che si parla. Lui è il Mostro di Mezz’Estate per una frase scema su calcio & banane. Neanche una frase razzista, perché non era quello lo spirito, solo cretina. Che in un paese maturo dovrebbe concludersi con un giudizio: hai detto una scemenza, punto. Nossignore. Per una specie demente o infantile di gioco dell’oca, appena uno pronuncia la parola scorretta, anche a mezza bocca, salta su il circo dell’inquisizione, una versione buffonesca del Sant’Uffizio, lo porta alla gogna, lo massacra e lo caccia. È un sistema che si ripete come un rito antropofago; se uno, per dire, ha vissuto una vita degna e incensurata, ha fatto tante cose buone, ma una volta allo stadio ha fatto buu, diventa per sempre, lapidato o sulla lapide, «quello che ha fatto buu» e additato al pubblico disprezzo eterno. Ci sono sui giornali dei serial killer che si occupano di far fuori chi dice la parolina scorretta. «Hai toppato,sei entrato nella casella sbagliata, e ci vai ind a’morte, ’a furtuna ’nzerra ’a porte». Non si valutano mai meriti e demeriti, si sorvola su curriculum disastrosi, danni ed errori, si può avere alle spalle una vita fallimentare, da porco o da terrorista, ma la banana, ma la banana...No, quella è peccato mortale, ti giochi tutto. Bestemmia Dio e la Madonna, ma non nominare la Banana invano.

Carlo Tavecchio e la Repubblica delle Banane, scrive Mariateresa Nuzzi. Carlo Tavecchio, già Vicepresidente e ora candidato alla Presidenza della FIGC viene criticato per aver rilasciato la seguente dichiarazione razzista: «L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Opti Pobà è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree… ». A questo proposito SKY TG24 lancia un sondaggio in cui chiede ai telespettatori di pronunciarsi e di dire come la pensano sulla candidatura di Tavecchio alla Presidenza: è giusto dopo questa affermazione, che Tavecchio diventi Presidente? Tavecchio è adeguato? Facciamo una piccola incursione nella vita e nella carriera di Carlo Tavecchio e cerchiamo di capire chi è l’uomo che definisce i giocatori africani, dei mangia-banane. Ci aiuta in questa operazione la sempre utile enciclopedia on-line Wikipedia, dalla quale riporto questi estratti: “Esponente della Democrazia Cristiana, diplomato in Ragioneria ed ex dirigente bancario presso la Banca di Credito Cooperativo dell’Alta Brianza, all’età di 33 anni diventa sindaco di Ponte Lambro (suo comune di nascita, in provincia di Como) conservando la carica per quattro mandati consecutivi, dal 1976 al 1995. Nel 1974 è tra i fondatori della Polisportiva di Ponte Lambro e, in ambito calcistico, per sedici anni diventa presidente dell’ASD Pontelambrese, società dilettantistica che durante la sua gestione arriva a disputare anche il campionato di Prima Categoria. La sua carriera dirigenziale all’interno di Federcalcio inizia con l’incarico di consigliere del Comitato Regionale Lombardia della Lega Nazionale Dilettanti (LND) mantenuto dal 1987 al 1992, diventando poi nei successivi quattro anni vice presidente della LND e venendo eletto nel 1996 al vertice del medesimo Comitato Regionale Lombardia.Il 29 maggio 1999, a seguito delle dimissioni del suo predecessore Elio Giulivi a causa dell’affaire Rieti – Pomezia, è votato presidente della Lega Nazionale Dilettanti. Dal maggio 2007 diventa vice presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio assumendone la funzione di vice presidente vicario nel 2009. Durante la sua pluridecennale carriera, Tavecchio è stato anche consulente del Ministero dell’Economia per le problematiche di natura fiscale e tributaria riguardo alla sfera dell’attività sportiva dilettantistica e componente della Commissione Ministeriale, presso il Ministero della Salute, per le problematiche dell’impiantistica nazionale. Inoltre nel biennio 2002/2004 riceve la nomina di esperto in materia di problematiche riferite al calcio dilettantistico e giovanile e ai campi in erba artificiale e, dal 2007, viene designato dall’Uefa membro effettivo della Commissione per il calcio dilettantistico e giovanile. Scrive anche un libro per spiegare il calcio ai più piccoli, dedicandolo alla nipote Giorgia, dal titolo «Ti racconto… Il Calcio». È tifoso dell’Inter, squadra di cui è stato anche membro del consiglio di amministrazione sotto la gestione di Massimo Moratti. Carlo Tavecchio è stato processato e condannato cinque volte. È stato condannato a 4 mesi di reclusione nel 1970 per falsità in titolo di credito continuato in concorso, a 2 mesi e 28 giorni di reclusione nel 1994 per evasione fiscale e dell’Iva, a 3 mesi di reclusione nel 1996 per omissione di versamento di ritenute previdenziali e assicurative, a 3 mesi di reclusione nel 1998 per omissione o falsità in denunce obbligatorie, a 3 mesi di reclusione nel 1998 per abuso d’ufficio per violazione delle norme anti-inquinamento, più multe complessive per oltre 7.000 euro.” Ora, anche tralasciando le condanne, che a me qualche dubbio sulla sua adeguatezza me lo farebbero venire, non posso fare a meno di chiedermi come si possa ricoprire una carica così alta, una posizione che dovrebbe essere super partes per eccellenza, che dovrebbe dare continuo esempio in senso antirazzista, di fairplay, di onestà e di trasparenza, quando poi si decide di esporsi pubblicamente con una frase dai potenti connotati razzisti. Significa forse che quest’uomo non ha la minima idea del ruolo che vorrebbe ricoprire? Oppure vuol dire che non si rende conto della gravità delle sue parole? O forse crede che chi lo ascolta non faccia caso a quello che dice? Quando si è accorto che invece lo si ascoltava eccome, tanto che anche la stampa estera gli ha dedicato qualche riga, allora è corso a scusarsi agli stessi microfoni della sopracitata dichiarazione. Sostiene che non abbiamo colto il succo del suo discorso, quello dei mangiabanane non è il punto, lui si riferiva alla professionalità, che c’entrano ora queste banane? «Le banane? Non mi ricordo neppure se ho usato quel termine, e comunque mi riferivo al curriculum e alla professionalità richiesti dal calcio inglese per i giocatori che vengono dall’Africa o da altri paesi». Problemi di memoria? Sarà perché sei Ta-vecchio? Io vorrei tanto fargli questa domanda: che tipo dovrebbe essere il Presidente della FIGC secondo lei? In attesa di una sua risposta voglio provare ad immaginare un Presidente che parla ai microfoni assolutamente senza filtro. Uno che da tifoso, il giorno della sconfitta dell’Inter contro la Roma – faccio un esempio – dichiari robe del tipo: “Questi romani coatti e mangia trippa hanno avuto solo fortuna!”. Ma poi non riesco a smettere di domandarmi: come può un uomo con il suo curriculum vitae pronunciare una frase del genere? Forse basterebbe solo rivoltare la domanda: come può uno che pronuncia una frase simile, aver fatto tanta strada? Insomma, siamo sempre più la Repubblica delle Banane e la nostra classe dirigente vanta persone come Carlo Tavecchio.

Tavecchio è il degno numero uno del calcio italiano, scrive Massimiliano Gallo su Il Rottamatore. C’è una premessa fondamentale da fare: la politica è sangue e merda. E su questo assunto, siamo tutti più o meno d’accordo. E il calcio, lo sport, la gestione dello sport è politica. Non altro. Non averlo compreso, continuare a recitare il ruolo della bella addormentata del bosco non fa onore alla nostra intelligenza. Lo sport è business. Punto. Non c’è nemmeno più bisogno di specificarlo. Sì, ogni tanto, ogni quattro anni a voler essere precisi, il mondo finge di commuoversi per storie ai confini delle realtà, come quelle dei tiratori al piattello, dei lottatori che conquistano medaglie d’oro alle Olimpiadi e si guadagnano il loro meritatissimo quarto d’ora di celebrità. Ma sono fette sempre più marginali di una torta che è giustamente farcita di denaro. De-na-ro. Il resto è menzogna decoubertiniana che qualcuno di buona volontà ancora prova, in maniera encomiabile, a insegnare ai bambini. Fatta questa doverosa premessa, e aggiunto che il nostro business calcistico è ormai un business di serie B (nemmeno da alta classifica in serie B), possiamo dire che la cagnara sollevata per l’inqualificabile uscita di Carlo Tavecchio è la solita chiassosa sceneggiata ipocrita all’italiana. Di che cosa ci stupiamo? Che uno dei più longevi dirigenti del nostro calcio definisca mangiabanane extracomunitari sconosciuti che vengono a giocare da noi? Davvero? E dove eravamo quando uno dei più autorevoli signori del calcio italiano, un certo Adriano Galliani, signorilmente invitò Boateng a non uscire più dal campo per protesta contro i buu razzisti del pubblico avversario? Nessuno disse nulla, allora. Si infiocchettò la pillola. Galliani aveva parlato col solo scopo di non dare ulteriore risonanza a quattro razzistelli. Finì che al termine della stagione, Boateng ha lasciato il Milan ed è andato a giocare in Germania. In Spagna, invece, quelli del Villarreal hanno impiegato non più di due giorni per individuare il lanciatore di banane a Dani Alves e bandirlo per sempre dallo stadio. È una questione di senso civico. È il termometro della civiltà di un Paese e dei suoi abitanti. Per carità, le malattie possono essere curate, anche con terapie shock. Ma allora vanno intraprese. Subito. Il calcio italiano o la nostra politica si è fermato un attimo a ragionare dopo che i calciatori della Nocerina si accasciarono in campo fingendo malori perché i lori tifosi li avevano minacciati di non giocare? Non ricordiamo. Così come non ricordiamo un dibattito, un convegno, una presa di posizione del governo per i cori razzisti che da anni infestano i nostri stadi. E sorvoliamo sul nulla che il governo Renzi ha prodotto dopo gli incidenti di Roma e la morte di Ciro Esposito. Ci limitiamo a tre esempi, ma potremmo proseguire per pagine e pagine. Il calcio è business. Di serie B. L’elezione del presidente della Federcalcio – così come di tutte le poltrone sportive – è una battaglia politica. Ci sono in gioco quei quattro spiccioli che ancora versano le tv. E quegli incarichi di sottogoverno, quelle piccole “amicizie” che un presidente amico può garantire. Parliamo di poca roba, eh. Nulla che cambi il mondo. Ma il calcio italiano non ha la pretesa di farlo. Abbiamo perso dal Costa Rica ai Mondiali e ancora pensiamo di essere il centro del mondo. Non ci calcola più nessuno. Il giocatore più forte della serie A è un signore che in Inghilterra manco giocava più: Carlos Tevez. Qui vengono professionisti a fine carriera oppure in cerca di un improbabile rilancio. Allo stadio non ci va quasi più nessuno perché gli impianti fanno schifo ed è anche pericoloso. Sia chiaro, sarebbe così anche con Demetrio Albertini presidente. Pensate davvero che con lui possa cambiare qualcosa? Ovviamente è più presentabile, per carità. Non ha mai definito mangiabanane nessuno. Ma nemmeno con lui il nostro calcio diventerà uno sport come lo è in Inghilterra o in Germania. È solo una guerra di potere che Roma e Juventus (sostenitori di Albertini, cui ora si è aggiunta la Fiorentina) hanno perduto. Magari alla fine i sostenitori di Tavecchio si arrenderanno alle pressioni esterne – il mondo è tornano a indignarsi, come ai tempi di Berlusconi. Ma non avverrà prima di trovare nuovi equilibri. Perché tra qualche giorno il mondo dello sport penserà ad altro, e vuoi che un Lotito, un Galliani o un De Laurentiis rinuncino a piccole prebende in cambio di una posa nello spot “Respect” contro il razzismo? Suvvia, sembriamo tanti Pancho Pardi. La purezza ora la vogliamo dal calcio. Meglio Tavecchio, la sua faccia ci ricorderà chi siamo. Senza illusioni destinate a rimanere tali.

Banane & pallone. Un boiardo immortale alla Figc. Potere e amicizie, know-how e grane giudiziarie. Ecco il regno del supermanager Carlo Tavecchio, scrive Marco Fattorini su “L’Inkiesta”. «È vero, ho 71 anni. Che cosa devo fare? Devo ammazzarmi?». Quella che fino a pochi giorni fa rappresentava la critica principale rivolta al futuro presidente della Federcalcio Carlo Tavecchio è stata rispedita al mittente dal diretto interessato. Eloquio informale e piglio decisionista. «Questo è un Paese addormentato, io ho voglia di fare e di tenere sveglia la gente, il calcio è da salvare». Poi però la bufera si è spostata dalla questione anagrafica a quella razziale, dopo che all’assemblea della Lega Dilettanti Tavecchio ha dichiarato: «L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che “Opti Pobà” è venuto che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così». A molti non è andato bene. Nel giro di qualche ora monta l’indignazione di tifosi, opinione pubblica e addetti ai lavori. Nasce un caso politico. Gaffe o razzismo? Un fronte trasversale chiede a Tavecchio di ritirarsi dalla corsa (già vinta) alla poltrona della Federcalcio. Se per i famigerati «cori territoriali» si chiudono le curve degli stadi, viene da domandarsi quale provvedimento ricorra per la frase pronunciata da un rappresentate istituzionale. Scendono in campo parlamentari e giornalisti, osservatori accorti e critici dell’ultim’ora. Gli attacchi del Pd e la difesa di Forza Italia. Dalla «forte irritazione» del sottosegretario allo Sport Graziano Delrio alla chiosa del premier Matteo Renzi: «Espressione inqualificabile, un clamoroso autogol». Mentre il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti auspica che «se Tavecchio non rinuncia spero non sia eletto», il grande accusato rilancia: «Accetto tutte le critiche, ma non l’accusa di razzista perchè la mia vita testimonia l’esatto contrario. Se sarò eletto presidente, la federazione condurrà una politica fattiva contro ogni discriminazione». La tempesta lo piega ma non lo spezza. E i suoi grandi elettori del mondo pallonaro, con poche eccezioni, lo seguono in un silenzio assordante. Ma l’esternazione sulle banane, pur traballante in un contesto falcidiato da ordine pubblico e cultura sportiva, non può essere la sola causa dell’«inadeguatezza» che più di qualcuno addebita a Tavecchio. Non bastano nemmeno le dichiarazioni “genuine” sulla rosa dei papabili ct azzurri: «Conte? Mai visto. Quello delle Marche, come si chiama? Ah, Mancini. Non conosco nemmeno lui. Quell’altro del Friuli? Sì, Guidolin. Non ho ancora deciso, comunque mi occuperò di questo bordello». Fuori dal palazzo c’è chi non gli perdona il fattore anagrafico e la lunga esperienza prodiga di conoscenze in Figc. «L’uomo sbagliato al posto sbagliato». Agli occhi dei detrattori Tavecchio diventa emblema della continuità e del potere costituito. Per dirla con Aldo Grasso «è il trionfo dello status quo e il candidato ideale per non cambiare nulla». E l’uscita infelice sul misterioso Opti Pobà viene digerita come una sorta di dichiarazione programmatica. Classe 1943, «educazione brianzola» e cultura del lavoro sin dal primo impiego all’età di 19 anni. Ex dirigente bancario con in tasca un diploma di ragioneria, Tavecchio nasce a Ponte Lambro, comune di cui è stato sindaco in quota Democrazia Cristiana dal 1976 al 1995. Scuola diccì come quella del predecessore Giancarlo Abete, deputato forlaniano per tre legislature. Ma la scalata sportiva del manager brianzolo comincia con la presidenza della Pontelambrese e nel 1987 prosegue con l’ingresso al consiglio regionale lombardo della Lega Nazionale Dilettanti. Nel 1996 approda a capo del comitato regionale, mentre la poltrona di presidente nazionale gli arriverà nel 1999, inizio di un regno longevo. Dal 2007 Tavecchio è pure vicepresidente della Figc e due anni dopo diventa il vicario di Abete. Nel curriculum si notano una consulenza per il Tesoro e altri incarichi in commissioni ministeriali. Ultimo, non per importanza, un libro dedicato alla nipotina Giorgia: “Ti racconto…Il Calcio”. Solidi contatti, amicizie importanti e grinta da vendere in un Palazzo dalle mille correnti. Gli endorsement del «poltronissimo» Franco Carraro e di Antonio Matarrese. La stima dell’ex Coni e oggi uomo Cio Mario Pescante. Le sponde del vicepresidente Figc Mario Macalli e del kingmaker della Lega Calcio Claudio Lotito. In via Allegri Tavecchio è considerato «uomo dell’apparato» nonché profondo conoscitore del mondo del pallone. Il know-how che gli riconoscono deriva dai quindici anni al comando della Lega Nazionale Dilettanti, con lui realtà consolidata e cassaforte strategica di consenso. «Il cuore del calcio», si legge sul sito ufficiale Lnd e non è un modo di dire. La Lega Dilettanti è il Paese reale del pallone italico: ha in pancia 1,3 milioni di calciatori dall’attività ufficiale a quella amatoriale e ricreativa, 15mila società e 70mila squadre impegnate in 700mila partite stagionali per un giro d’affari di 1,5 miliardi di euro tra tesseramenti e iscrizioni ai campionati. Bastano questi numeri per capire che la Lnd rappresenta «la quasi totalità del calcio italiano». Nel percorso coi dilettanti emerge la questione dei campi sintetici delle società, che devono essere omologati. Nella Lnd c’è un unico laboratorio autorizzato a testarli, pratica richiesta periodicamente. L’azienda “fortunata” è la Labosport di Roberto Armeni, figlio del capo della Commissione impianti in erba sintetica della Lega Dilettanti. Conflitto d’interessi? Interpellato da Report, Tavecchio rispondeva: «Non voglio che mi venga in mente di andare alla Rai e vedere quanti amici, conoscenti, parenti e amanti ci sono. Poi andare in Federazione, scendere le scale e arrivare fino al Coni e vedere quanti ce ne sono. Io ce n’ho uno, dicasi uno». Ma i critici puntano la lente d’ingradimento anche su un altro aspetto. A margine della sua candidatura alla Figc è tornata a circolare un’interrogazione parlamentare dell’ex deputato Pdl Amedeo Laboccetta che, partendo dallo statuto della Figc secondo cui «sono ineleggibili coloro che hanno riportato condanne penali passate in giudicato per reati non colposi a pene detentive superiori a un anno», andava all’attacco del presidente della Lega Dilettanti. «Carlo Tavecchio - si legge nell’interrogazione - annovera condanne penali per anni uno, mesi tre e giorni ventotto di reclusione, oltre a multe e ammende per euro 7.000». I provvedimenti, spiegava Laboccetta, si riferiscono a «falsità in titolo di credito continuato in concorso», «violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto», «omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali», «omissione o falsità in denunce obbligatorie», «abuso d’ufficio» e «violazione delle norme per la tutela delle acque dall’inquinamento». Il curriculum giudiziario ha fatto mormorare più di qualcuno prima che il diretto interessato, rispondendo agli articoli de La Repubblica e Il Fatto Quotidiano, chiarisse la questione. «Le condanne - spiega Tavecchio - si riferiscono a fatti accaduti dai 50 ai 25 anni fa, e si riferiscono a situazioni nelle quali sono stato coinvolto esclusivamente in funzione della posizione che ricoprivo, e non come autore delle omissioni contestate, compiute invece da terzi». Le condanne non sono menzionate nel casellario giudiziale, Tavecchio ha goduto della riabilitazione e il certificato penale «è immacolato». Fa sapere anche che prima di candidarsi alla Lnd chiese alla Corte Federale se fosse idoneo a ricoprire la carica in questione. Risposta affermativa e caso chiuso. Oggi la nuova avventura si chiama Federcalcio. Dopo il tracollo azzurro in Brasile e le pressioni dell’opinione pubblica per azzerare tutto, lui è già a bordo campo con l’esperienza di chi del pallone conosce il giorno e la notte. Con buona pace di rottamatori e quarantenni, la candidatura di Tavecchio procede rapida e ben oliata. Dall’inizio può contare sui voti della Lega Pro dell’amico Macalli, oltre che sul serbatoio della sua Lega Dilettanti. Solo con queste due componenti Tavecchio veleggia al 51% garantendosi l’elezione virtuale. La percentuale stana gli scettici e scoraggia chi tra i grandi elettori era rimasto alla finestra per esplorare candidature alternative. Albertini è minoritario in partenza, le componenti tecniche (Assoallenatori e sindacato dei calciatori) e gli ammiccamenti di un gruppetto di club di serie A non bastano. Volenti o nolenti, quasi tutti convergono su Tavecchio perchè è meglio l’accordo col futuro capo che lo scontro ideologico. Arriva l’ok della serie B di Abodi, mentre la A torna all’ovile grazie alla regia di Lotito. Diciotto squadre su venti (Juve e Roma) decidono di appoggiare il presidente Lnd e di queste almeno sei lo fanno dopo aver abbandonato Albertini. Che qualche giorno prima era stato filosoficamente accantonato da Lotito in un’intervista al Foglio. «Kant - spiegava il presidente della Lazio a Salvatore Merlo - dice che ce stanno il noumeno e il fenomeno. Il fenomeno è ciò che appare, il noumeno invece è la realtà. Ecco Albertini è kantianamente un fenomeno. Il calcio adesso ha bisogno di gente che sappia fare, che abbia esperienza manageriale». Dalle parole ai programmi. Quello di Tavecchio è ambizioso, conta undici punti sovrastati dallo slogan “Il gioco del calcio al centro dei nostri pensieri”. Dice che non scenderà a compromessi. Parla di revisione della governance federale, lotta contro la violenza, riqualificazione del prodotto calcio, rilancio del Settore Tecnico e sviluppo dei Centri di Formazione Federale, ripensamento del Settore Giovanile e Scolastico, miglioramento della comunicazione, maggiore interlocuzione con Governo e Coni, autoconsistenza finanziaria e riforma dei campionati. Tavecchio propone pure l’abolizione del diritto di veto portando dal 75% al 65% la soglia per cambiare lo statuto. Circostanza che trova lo sbarramento delle componenti tecniche (calciatori e allenatori) che non a caso tifano Albertini e vogliono continuare a pesare in consiglio federale. Pazienza, Tavecchio tira dritto. Liquida il quarantenne Albertini con un paio di battute in conferenza stampa, risponde per le rime a Barbara Berlusconi e Andrea Agnelli che tifavano rottamazione. Evita il politichese, ma non si lascia scalfire dal putiferio politico del post-banane. Boiardo di lotta e di governo, la corsa alla Federcalcio non è un pranzo di gala.

Il “caso Tavecchio”, ennesima riconferma della follia in cui siamo scivolati. In un Paese che va a rotoli e dove la moralità più elementare è stata uccisa e sepolta da tempo, si scatena l’indignazione conformista per una frase che, al più, può essere considerata come una battuta infelice. Siamo al di là dell’ipocrisia, siamo alla demenza. E poi, cerchiamo di capire chi sono i veri razzisti, scrive Paolo Deotto su “Riscossa Cristiana”. Premetto che non conosco il signor Carlo Tavecchio e che non seguo il gioco del calcio da decenni. Ma sento verso di lui un’istintiva solidarietà, perché lo vedo vittima di questa strana demenza che ha ormai investito come un uragano la nostra povera Italia. Ordunque, pare che il sig. Tavecchio, aspirante alla presidenza della Federcalcio, lamentandosi per la facilità con cui le nostre squadre assumono giocatori stranieri che alla prova dei fatti sono schiappe, abbia detto questa terribile frase: “Le questioni di accoglienza sono un conto, quelle del gioco un altro. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Opti Poba è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così”. Lo dicevo prima, non seguo il calcio e quindi non so se questa valutazione di Tavecchio sia corretta. Ma non so neanche quale crimine abbia commesso, solo perché ha voluto “caricare” il suo discorso con l’esempio estremo di un selvaggio chiamato a giocare nella Serie A. Ha detto una battuta infelice? Può darsi, ma mi ricorda molto un “caso” di anni fa, di un generale che era stato oggetto di critiche feroci perché, per deprecare il comportamento di alcuni soldati che avevano danneggiato la loro caserma, aveva usato un linguaggio, appunto, “da caserma”, ossia un linguaggio non delicato e politicamente corretto, ma che andava subito, senza alcuna delicatezza, al nocciolo del problema. Il caso del generale è di alcuni anni fa; il tempo è passato e l’ipocrisia è aumentata, fino a divorare anche il cervello degli ipocriti, che hanno perso del tutto il senso della misura. Siamo alla demenza. Per una frase, ripeto, al più infelice, si è scatenato il coro perbenista, che comprende ovviamente ormai più o meno tutti. Ne parlano esponenti politici, giornalisti, addirittura ieri su Zenit, agenzia cattolica di informazione, leggo che una “Fondazione Giovanni Paolo II per lo sport” straparla di un dirigente calcistico “pronto a calpestare la dignità umana degli atleti”. Un’angosciata Giovanna Melandri invoca: “Fermatelo!” (ma dove stava andando?); il PD trova compattezza nel chiedere che Tavecchio si ritiri dalla corsa alla presidenza della Federazione; Cecile Kyenge non perde l’occasione per far sapere che esiste ancora e dichiara che Tavecchio “ha il tipico atteggiamento paternalistico nei confronti di chi si pensa inferiore e da civilizzare”. Il meccanismo è sempre quello. Quando la Voce del Padrone indica la vittima contro cui accanirsi, inizia la gara a chi è più severo, implacabile. Nessuno vuole restare fuori dal coro che da la garanzia di essere politicamente corretti e di poter quindi in futuro partecipare, a seconda dei livelli ricoperti, al banchetto o almeno alla merendina di regime. Poi il colpevole, dopo un processo in cui giustamente gli sarà negato il diritto alla difesa, perché è uno sporco razzista, verrà portato al patibolo, appeso alla corda tra gli applausi democratici e poi si potrà iniziare anche a sputare sul suo cadavere. I giustizieri torneranno a casa appagati. Certo, quest’ultima descrizione è di fantasia, ma è la strada su cui ci si avvia se non si recupera un minimo di capacità di discernimento. In quest’orgia di moralismo, è impossibile non pensare che la cosiddetta “società civile” (per inciso, non ho mai ben capito cosa voglia dire, visto che di “civile” è rimasto ben poco) ogni giorno ammazza senza alcun turbamento circa 300 bambini (si chiama aborto, anzi IVG, che sta per interruzione volontaria di gravidanza. Così è più delicato); progetta allegramente le fecondazioni in provetta, riducendo l’uomo a un animale e preventivando senza alcun scrupolo la distruzione di altre vite umane (la fecondazione extra corporea nasce per la selezione delle razze negli animali da allevamento); tiene in gran conto, e tra poco legittimerà, l’eutanasia, ottimo sistema per liberarsi dal peso di vecchi e malati; promuove le perversioni sessuali, insegnandole fin dalla scuola materna, mentre non fa nulla per aiutare la famiglia, l’unica famiglia esistente; lascia nella miseria e nella disperazione tante famiglie in cui non si riesce più a tirare la metà del mese, perché c’è chi ha perso il lavoro, c’è chi non lo trova, c’è chi, disperato, si toglie la vita. E così via. Una società allo sbando morale completo, fiera e tronfia del suo relativismo, si rotola nella disperazione e nel disastro, e poi si crea le nicchie di moralità contro uno dei nuovi mostri: il razzismo! Insieme all’evasione fiscale e ovviamente alla cosiddetta omofobia, il razzismo è uno dei mostri da combattere. Scusate, dimenticavo la mafia, lì c’è addirittura la scomunica. Gli altri? Beh, vedremo; per ora occupiamoci di questi, siamo sicuri che avremo il consenso dei salotti buoni. È razzista un uomo perché pronuncia una frase come quella detta da Tavecchio? Ma per favore, cerchiamo di essere, se non seri (non pretendiamo troppo), almeno non ridicoli. E se proprio vogliamo parlare di razzismo, sentimento quanto mai deprecabile, allora facciamo il punto. Anzitutto vorrei togliermi una curiosità personale: per quanto sforzi abbia fatto e faccia tuttora non sono mai riuscito a capire perché se dico “negro” (traduzione del latino “niger”) sono razzista, mentre se dico “nero” sono bravo e buono. Mistero. Ma questi sono dettagli. Piuttosto vorrei chiedere: chi è il vero razzista: un Tavecchio che dice una frase infelice, o chi favorisce un’immigrazione indiscriminata di negri o bianchi che siano, per mostrarsi bravo e buono e così non fa altro che dare false speranze a masse di disperati, che approdano in un paese che non è più in grado di dare lavoro e pane nemmeno ai suoi cittadini? Non sono razzisti questi ipocriti che si fanno belli con operazioni come “Mare Nostrum” (con tutto il rispetto per i militari, che devono eseguire degli ordini), vero festival dell’incoscienza più totale, che spinge ogni giorno centinaia (o migliaia) di disperati a mettersi in mare e a trovare spesso la morte? Non sono razzisti questi predicatori dell’accoglienza – purché la facciano al solito “gli altri” – che usano queste moltitudini di immigrati, negri o bianchi o gialli che siano, per auto premiare la loro incommensurabile bontà? Bontà costruita sulla sofferenza e sulla pelle degli altri. Signori, smettiamola di dire idiozie a ruota libera. O siete ipocriti o siete ormai del tutto fuori di testa. Il vostro buonismo demente – buonismo a senso unico, perché quando volete essere spietati sapete esserlo perfettamente – è vero razzismo. I poveri, i diseredati, i negri che fuggono disperati dalle loro terre, e che voi imponete di accogliere a occhi chiusi, sono la vostra merce per abbellire la vostra immagine. Promettete ciò che sapete di non poter mantenere, incentivate col vostro cinismo i cinici mercanti di carne umana e poi vi permettete di dare lezioni di morale a un uomo che ha detto una frase infelice? Avete creato tutte le condizioni perché gli italiani, che razzisti non sono mai stati, lo diventino ora, di fronte allo spettacolo di città invase da immigrati che si trovano a vivere alla disperata e alla fine, fatalmente, per delinquere. Meraviglioso risultato della misericordiosa accoglienza fatta alla cieca, senza mai chiedersi dove e come sistemare tanti sbandati, profughi, rifugiati e anche tanti personaggi che magari sono fuggiti dai loro paesi semplicemente perché delinquenti. Ma a voi che ve ne frega? Voi li avete accolti, quindi siete buoni e bravi e democratici. Signor Carlo Tavecchio, non la conosco, non so cosa lei faccia, se lei sia o meno adatto a ricoprire la posizione di presidente della Federcalcio. So che lei ha detto una frase, una frase forse infelice o goliardica. Punto e basta. So che la stanno mettendo in croce per questa sciocchezza. Anche lei è una vittima di quest’orgia di ipocrisia ormai sfociata nella demenza. Non se la prenda, questa è l’Italia attuale, retta dai soloni di una ex-sinistra smarrita e di una ex-destra che cerca di sopravvivere scimmiottando le scemenze della ex-sinistra. È vittima di questa Italia dove i politici ormai hanno fuso il cervello e la Chiesa cattolica è preoccupata di non dare seccature a nessuno e pronta ad accodarsi al coro del politicamente corretto. Signor Tavecchio, lei ha tutta la nostra simpatia e solidarietà.

In difesa di Tavecchio. Quante critiche ipocrite sull’affaire banane, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. L’Italia perbenista e ipocrita ha trovato il suo nuovo mostro: Carlo Tavecchio, classe 1943, candidato alla presidenza della Federcalcio. Questa la frase che ha fatto innalzare i lamenti e scendere le lacrime alle prefiche del politicamente corretto: “Le questioni di accoglienza sono un conto, quelle del gioco un altro. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Opti Poba è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così”. Apriti cielo: Tavecchio deve rinunciare alla corsa per la presidenza (richiesta più o meno unanime del Partito Democratico), fermatelo! (Giovanna Melandri), non ha credibilità (Davide Faraone, Pd), ha il tipico atteggiamento paternalistico nei confronti di chi si pensa inferiore e da civilizzare (Cecile Kyenge). Solo per riportare alcuni dei commenti più stizziti. Ma in rete, per fortuna, si trovano anche divertentissimi e godibilissimi fotomontaggi che ironizzano sull’infelice battuta. Perché, sia chiaro, la battuta è piuttosto infelice per una lunga serie di motivi (non fa più ridere nessuno da almeno una ventina d’anni, non era l’occasione adatta, Tavecchio non può essere così non accorto da non pensare che le sue parole possano essere usate – strumentalmente – contro di lui). Ma non è una frase che trasforma un uomo in un razzista, non è una battuta – seppur di cattivo gusto – a far cadere su una persona la mannaia di un’etichetta così odiosa. E – diciamo la verità – la sua è una frase che almeno una volta nella vita ci è capitato di sentire, e non abbiamo denunciato o preso a pugni in faccia chi l’ha proferita. Basta con questa ipocrisia e questa dittatura del politicamente corretto. Io non so chi sia Tavecchio, non l’ho mai incontrato e non sono a conoscenza del suo curriculum vitae, magari ci sono decine di motivi per ritenerlo indegno di un ruolo così importante nel mondo dello sport, ma non questa boutade. Quelli che adesso inarcano il sopracciglio inorriditi davanti a cotanta barbarie, sono quelli che spesso trasecolano davanti alle parole, ma non muovono un dito davanti ai fatti. Questo improvvisato, ma ben nutrito, movimento No Tav(ecchio) è il solito salottino che ama indignarsi, che se dici “negro” sei un razzista da bacchettare, stigmatizzare ed emarginare, ma che poi non batte ciglio per aiutare chi è realmente in difficoltà. Sono quelli del venite tutti in Italia, del fiore dell’accoglienza e del multiculturalismo da infilare nell’occhiello della giacca in cachemire, della pelosa beneficenza da esibire e ostentare e dei viaggi in Africa a favor di telecamera (ve la ricordate quella pubblicità in cui Bono, il filantropo, atterrava, sovrastato da valigioni di Louis Vuitton, in mezzo a un prato? Ecco la scena me la immagino così). Poco importa che poi in Italia non ci siano le condizioni per poter offrire una vita decorosa a questa folla di disperati. A loro interessa solo, lustrandosi le unghie, aprire le porte di una casa che non è certamente la loro. Perché poi quando il “negro” dorme nel portico del loro palazzo, sono i primi a chiamare la polizia. Insomma, il razzismo è una questione di fatti. Non di parole. Le battaglie politiche contro le parole sono sterili e sciocche. Tavecchio è scivolato su una buccia di banana. Ma non facciamone un mostro.

Calcio, zingari e l'ipocrisia del vocabolario. Se dai del banana al Cavaliere sei un sincero democratico dotato di senso dell'umorismo, se dai del banana a un africano sei un grandissimo bastardo, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Il nostro eccellente Giuseppe De Bellis si è già esibito sul Giornale scrivendo cose giuste sul caso Carlo Tavecchio, un cognome che ha una componente offensiva: in una società nella quale l'unico settore che non cala, bensì cresce, è la chirurgia plastica, accompagnata da terapie antiossidanti e roba simile, evidentemente la vecchiaia è considerata un'infamia. Chiedo scusa se mi cito. Su Twitter - la palestra dell'insulto elevato a categoria del pensiero - vi sono numerosi gentiluomini che, quando non sono d'accordo con me, non si limitano a dirmelo: mi coprono di contumelie fra cui spiccano quelle riferite alla mia non verde età, tipo «vecchio stronzo», «vecchio rimbambito», «brutto vecchio, cedi il tuo posto privilegiato a un giovane», «vecchio bollito» (la variante è «brasato»). La parolaccia è entrata prepotentemente nei conversari correnti e quella che ferisce di più è «vecchio porco». Una volta si chiamavano «vecchi» i genitori, e nessun papà e nessuna mamma si adontavano. Ma oggi il sostantivo/aggettivo «vecchio» ha un significato talmente negativo da essere impronunciabile. Provate a dire a una signora che è vecchia: vi mangia vivi per dimostrare di avere ancora denti buoni e un'ottima digestione. Torniamo a Tavecchio. Lo sciagurato, aspirante presidente della Federazione italiana giuoco calcio, in un discorso programmatico in cui ha espresso concetti condivisibili, si è lasciato scappare una frase che i più moderati hanno giudicato infelice. Questa, all'incirca: «Nel nostro Paese i club pedatori trascurano i giovani e inseriscono nella rosa dei titolari ragazzi modesti che fino a ieri si nutrivano di banane». Vogliamo esagerare? Non si è trattato di proposizione elegante, ma simile a mille altre che quotidianamente si odono in ogni ambiente. Anche nei giornali. Per esempio: il soprannome più diffuso di Silvio Berlusconi è il Banana, che viene usato regolarmente su giornali e in spiritosissimi (si fa per dire) programmi televisivi satirici. Dal che si evince che c'è Banana e banana. Se dai del banana al Cavaliere sei un sincero democratico dotato di senso dell'umorismo, se, viceversa, dai del banana a un africano abbronzatissimo sei un grandissimo bastardo, sinonimo delicato di figlio di puttana. E ti espellono dal consorzio civile. Mi domando: come mai la banana ha una doppia reputazione a seconda di chi la mangia o, meglio, la interpreta? Trattasi peraltro di un frutto nobile, buono, nutriente e, fino a mezzo secolo fa, raro, il che lo rendeva prezioso. Quando ero bambino, soltanto Babbo Natale provvedeva a regalarmene una (di numero) per allietare la mia povera mensa. La trovavo la mattina sul tavolo della cucina accanto a due o tre pipe di zucchero rosso, un paio di arance e un'automobilina di latta. Se non ricordo male, c'era tra quel bendidio anche qualche carruba: forse non è un dettaglio importante per voi che leggete, ma, a mio avviso, rende l'idea del mondo in cui vivevamo, ammesso che ciò sia interessante. Ecco. Abbacinato dai doni piovuti dal cielo, rimanevo in contemplazione dei medesimi per alcuni minuti, poi afferravo la banana, la incartavo e la portavo a un vicino di casa che sapevo esserne golosissimo. Suonavo alla sua porta e non appena egli si affacciava gli porgevo il frutto. Lui mi abbracciava e ringraziava. Per me era una soddisfazione, anche se non ero iscritto all'Arcigay. Il costume è mutato. Se oggi facessi omaggio di una banana all'inquilino del mio piano, sarei preso a calci nel deretano (eufemismo di culo). Tavecchio ha 71 anni, quanti ne ho io. Sono certo che per lui, come per me, la semantica bananiera non ha alcuna valenza respingente. Sarebbe assurdo il contrario. Constato che ormai in Italia non si discute più sui contenuti, ma sull'involucro lessicale. Personalmente, ai tempi in cui gli extracomunitari furono malmenati e sfruttati a Rosarno (Calabria), pubblicai questo titolo sul Giornale : «Hanno ragione i negri». Non l'avessi mai fatto. Le penne di lusso, su numerosi quotidiani, mi redarguirono aspramente. Pier Luigi Battista del Corriere mi crocifisse. L'Ordine dei giornalisti mi processò dopo avermi tenuto sotto inchiesta quattro anni: fui assolto, e me ne stupii piacevolmente. Avevo dato la causa per persa, poiché nessuno aveva letto l'articolo che difendeva i poveracci: tutti si erano soffermati con indignazione solo sul termine «negri». Il nostro direttore Alessandro Sallusti è pure stato sottoposto a procedimento disciplinare (si attende la sentenza) perché ha chiamato zingari gli zingari. E come doveva chiamarli? Extraterrestri? Le fobie linguistiche contrassegnano la nostra epoca politicamente corretta, forse, sicuramente imbecille. I netturbini non sono più spazzini, anche perché non spazzano una mazza, ma operatori ecologici. Guai a non attenersi al nuovo bon ton. Magari non ti denunciano, ma ti sputtanano, ti danno del razzista. Veniamo ai sordi. Che non sono più tali anche se non sentono: meritano l'appellativo di audiolesi. Tra poco definiremo così gli impotenti: tirolesi. Ovviamente gli orbi non sono orbi ma ipovedenti. E i ciechi non sono ciechi ma non vedenti. Con angoscia mi chiedo: come posso etichettare uno stitico seguendo lo stesso metodo glottologico? Sono in imbarazzo. Il vituperato Tavecchio immagino sia sorpreso dal trattamento ricevuto per avere detto la verità con parole sue, brutte ma chiare. Condannato per una banana. Non è serio. Anche perché egli ha centrato il problema. Il nostro calcio è in declino in quanto esterofilo: apre le porte all'Africa e le chiude alla Campania e al Friuli, vivai di campioni o almeno di ottimi giocatori. Anche all'estero hanno arricciato il naso per le banane di Tavecchio. Ridicolo. Noi italiani, anche orobici, valdostani e veneti, veniamo dileggiati con i soliti luoghi comuni: spaghettari, mandolinari, pizzaioli. E ci tocca stare zitti o, al massimo, sorridere. Se però evochiamo la banana siamo rovinati. E i primi a rovinarci sono i nostri compatrioti spaghettari della malora.

Italiani ipocriti, come se il problema del calcio fosse solo una banana.

La follia dell’accesso allo stadio in Italia: storia di una domenica pomeriggio qualsiasi, scrive Leonardo Daga. E’ mattina presto, è la befana. Non cerco vicino un camino che non ho se ho regali nella calza, cerco solo le mie cose per proteggermi da un freddo che non ci sarà e partire alla volta di Parma. C’è una partita, Parma-Toro, che il Toro perderà meritatamente, ma non è questo il punto. Io parto da una località sulla costa Marchigiana, 390 Km di autostrada destinazione Parma, appuntamento con i miei amici di Roma nei pressi di Bologna per andare insieme allo stadio. A loro tocca percorrere circa 460 Km. Non ci spaventa. Non abbiamo i biglietti, la società che li emette ha chiuso l’emissione negli ultimi giorni per motivi non precisati, anche ai detentori della tessera del Tifoso. Abbiamo deciso di andare lo stesso, come l’anno scorso faremo i biglietti per la curva dei tifosi locali e poi ci faranno entrare lo stesso nel settore ospiti… tipica follia italiana. Arriviamo un’ora prima al casello, la polizia ferma le macchine e ci costringe ad entrare in un parcheggio nei pressi del casello di Parma. Dobbiamo prendere un autobus per arrivare allo stadio, per motivi di sicurezza e perché nei dintorni dello stadio non ci sono abbastanza parcheggi per le macchine. Non ci scomponiamo, siamo abituati in quanto tifosi a questo essere trattati da extracomunitari appena approdati a Lampedusa. Aspettiamo pazienti, non siamo tifosi turbolenti come gli steward dicono essere i tifosi dell’altra squadra di Torino. Ma passa il tempo, molto tempo. Mezz’ora ad aspettare, ci giungono voci di file ai botteghini, incomprensibili. Ci chiedono quanti di noi non hanno il biglietto, pensiamo che sia perché ce li vogliono mettere da parte in biglietteria, ma non è per questo. La polizia che fa i fatti propri, noi che ci lamentiamo ma cerchiamo di mantenere la calma. Si parte finalmente. Lo stadio è al centro della città, la città viene bloccata al passaggio dei tifosi, un servizio di almeno 6-7 poliziotti ci fa da scorta manco dovessimo recarci ad un penitenziario. Arrivo allo stadio. Ci rechiamo alla biglietteria sotto il settore ospiti. I biglietti sono in vendita solo per i possessori della tessera del tifoso. Bisogna andare alla biglietteria della tifoseria locale. E’ una follia. Corriamo, una lunga fila si prospetta davanti a noi, per la maggior parte tifosi del Parma, la fila avanza lenta perché i terminali funzionano male o gli operatori non sono sveglissimi. Inizia la partita, noi abbiamo ancora una ventina di persone davanti a noi. Ci giunge notizia del gol di Immobile, è il 20′ minuto. Siamo contenti per il risultato ma siamo ancora fuori, ancora 6-7 persone davanti a noi. Facciamo finalmente il biglietto, è il 30′ minuto, ci chiedono il documento ma non il codice fiscale, quindi praticamente il controllo riguardo ai diritti di accesso è nullo. Facciamo il biglietto per la curva del Parma perché non si può fare il biglietto per la curva ospiti, ma poi corriamo in quella ospiti e ci fanno entrare lo stesso. La partita non è stata un granché, il Toro viene recuperato e sorpassato come succede spesso negli ultimi anni a Parma, ma non è questo il punto. La partita allo stadio è solo uno spettacolo ma i tifosi vengono trattati come se fossero dei criminali. Qualcuno dovrebbe chiedersi se questa è la ragione per cui molta gente smette di andarci. Qualcuno dovrebbe chiedersi quanto i comuni che ospitano queste manifestazioni perdono economicamente perché la tifoseria ospite viene trattata come un bagaglio scomodo da fare entrare ed uscire velocemente dalla città piuttosto che ospitarla a dovere e promuovere l’immagine della città. Qualcuno dovrebbe chiedersi questo, non solo i politici locali, anche gli stessi responsabili (all’interno del club) dei rapporti con le tifoserie. Soldi e opportunità buttati al vento, in città italiane che avrebbero tanto da offrire e che invece mostrano solo sbarre e polizia.

Caro Direttore, (scrive Giuseppe di Paola a Xavier Jacobelli) conosciamo tutti le traversie che sta passando il nostro calcio, a livello sportivo e dirigenziale. Eppure tutti i disastri letti ed ascoltati in questi giorni non sono nulla rispetto a quanto mi è capitato la settimana scorsa. Vado a rinnovare l'abbonamento della mia squadra del cuore, armato di personale Tessera del Tifoso, modulistica, autorizzazioni e visti che manco andassi in guerra. Con l'occasione, e sfidando i rimbrotti della mia famiglia, penso sia arrivato il momento di regalare il primo abbonamento a mio figlio, che a 9 anni comincia ad appassionarsi al calcio. Mi piace l'idea di tramandare la passione, come mio nonno e poi mi padre hanno fatto con me. Altra modulistica, documento d'identità, segnalazione delle generalità dell'accompagnatore, ma ... la signorina del box office mi chiede: "Dov'è la Tessera del Tifoso del bambino?". "Come, scusi? Ma è un bambino di 9 anni, che Tessera del Tifoso dovrebbe avere? Le garantisco che non ha carichi penali". "Mi spiace, ma l'abbonamento si carica nel chip della Tessera del Tifoso, ed in mancanza di questa non posso fare a suo figlio alcun abbonamento". Ma come, i bei discorsi sull'avvicinare le famiglie allo stadio, riempire le curve di bambini appassionati che saranno la nuova linfa dello sport ... Tutte balle. Obbligare un bambino ad avere la Tessera del Tifoso è spregevole. Chi ha generato questo mostro giuridico non ha mai messo un piede allo stadio, e se l'ha fatto è per andare dritto in Tribuna Elite, con tanto di scorta. Vergogna. Altro che banane. Un papà deluso e scoraggiato.

Antonio Giangrande: LA POLEMICA SU CARLO TAVECCHIO. ITALIANI DA QUALE PULPITO VIEN LA PREDICA? ABBIAMO SEMPRE DEGNI RAPPRESENTANTI. Da ultima e non per ultima è nata la diatriba, politica o meno, fondata o meno, sulla elezione di Carlo Tavecchio alla Federcalcio. Di sicuro ne esce malconcia la credibilità del calcio e delle su componenti, come se non bastasse quanto già avvenuto prima. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it. Per dovuta esperienza posso esprimere questi pareri. Per quanto riguarda le battaglie di civiltà posso dire che sono battaglie contro i mulini al vento. Non perché esse non siano fondate, in quanto, come specialista del campo, proprio perché ho scritto “Sportopoli, lo sport truccato”, posso garantire che i temi sollevati sono già stati pubblicati sui giornali con degli articoli, da me o da altri, come di seguito indicato, e nulla è scaturito.

Eppure i nemici giurati di Tavecchio hanno avuto una bella visibilità dai soliti giornali. Come nel caso di Massimiliano Nerozzi per La Stampa, giornale degli Agnelli, contrari a Tavecchio. “Figc, l'ex vicepresidente dei Dilettanti, Ragno: Tavecchio non è eleggibile. Magari sarà una questione di cavilli, che sono poi la versione giuridica della buccia di banana. «Guardi che Carlo Tavecchio non è eleggibile», dice con voce pacata Luigi Ragno, 74 anni, ex sottotenente dei carabinieri («ma solo nei venti mesi di leva»), ex direttore di banca, e per trent’anni in Federcalcio. «Basta leggere l’articolo 29 del nuovo statuto della Figc: la riabilitazione è espressamente richiamata in riferimento a provvedimenti disciplinari sportivi, e non quando si parla di condanne penali, dove invece non è indicata. Poi però non ho idea di come andrà, perché ne ho viste di tutti i colori». Specialmente tra il 1999 e il 2000, quando da vice presidente della Lega Nazionale Dilettanti Ragno si trovò proprio al fianco di Tavecchio, al suo primo mandato: il numero uno aveva fatto alcune operazioni bancarie «con gravi irregolarità», secondo Ragno, che aveva presentato immediate dimissioni. «Era il 24 ottobre 2000 - ricorda oggi l’ex vice presidente - e scrissi una lettera a diversi organi federali, anche per tutelare la mia persona: con i precedenti che all’epoca aveva Tavecchio, e che tutti conoscevano, non si potevano lasciare venti miliardi di lire in un conto di private banking, e con una sola persona con potere di firma, lui». Non successe nulla. «L’unico risultato fu che il collegio dei revisori minacciò di querelarmi per diffamazione: bene, risposi, almeno chiariremo tutto davanti a un tribunale. Ho sempre tenuto tutti i documenti. La denuncia non arrivò mai». ? Quindici anni più tardi, tutto può ruotare ancora attorno alle precedenti condanne di Tavecchio (totale, 1 anno e tre mesi) nonostante furono pene sospese e con non menzione sul certificato penale. Su questo tema si erano innescate interpellanze parlamentati, ma Tavecchio aveva alzato lo scudo: un parere sulla sua candidabilità richiesto alla Corte Federale nel 1999, e la riabilitazione ottenuta in base all’articolo 178 del codice penale. Tutto vero, ma discutibile, almeno secondo alcune fonti vicine alla giustizia sportiva della Federcalcio. «Ricordo che emettemmo un parere - dice il professor Andrea Manzella, illustre costituzionalista ed ex presidente della Corte - e molto ben motivato. Certo, era il 1999, e tenemmo conto della normativa sportiva e penale dell’epoca». Nel frattempo, lo statuto della Figc è cambiato quattro volte, l’ultima il 30 luglio scorso, con decreto del commissario ad acta, il professor Giulio Napolitano.? Il punto è l’articolo 29, dove l’inciso «salva riabilitazione», è indicato solo nella frase dei provvedimenti sportivi, non nel periodo seguente, quando si parla di «condanne penali passate in giudicato per reati non colposi» con pene detentive superiori a un anno. Interpretazione letterale: se l’estensore avesse voluto prevedere la riabilitazione anche per le condanne penali, l’avrebbe specificamente indicato. «Forse è la sorpresa di Malagò», sorrideva ieri un giurista. Dopo di che c’è pure la lettura favorevole a Tavecchio, ovvero in linea con i principi giuridici generali: in fondo la riabilitazione, tra le altre cose, serve proprio per evitare gli effetti deteriori che una condanna produce sotto il profilo sociale e lavorativo. Se ne può discutere, insomma: come potrebbe poi decidere di fare il Coni, come organo di sorveglianza, tenuto a ratificare i risultati dell’assemblea”.

Il passato scomodo di Tavecchio, scrivono da par loro Tommaso Rodano e Carlo Tecce per Il Fatto Quotidiano. "Spuntano una denuncia per calunnia contro il super candidato alla Federcalcio e un dossier depositato in procura che lo riguarda. E si scoprono strane storie, dalle spese pazze fino al doppio salvataggio del Messina. Ogni giorno che passa, e ne mancano cinque all’annunciata investitura in Federcalcio, il ragionier Carlo Tavecchio arruola dissidenti, smarrisce elettori: resiste però, faticosamente resiste. Nonostante le perplessità di Giovanni Malagò (Coni), dei calciatori più famosi e di qualche squadra di serie maggiore o inferiore. Il padrone dei Dilettanti, che dal ‘99 gestisce un’azienda da 700.000 partite a stagione e da 1,5 miliardi di euro di fatturato, com’è da dirigente? Dopo aver conosciuto le sue non spiccate capacità oratorie, tra donne sportive handicappate e africani mangia-banane, conviene rovistare nel suo passato. E arriva puntuale una denuncia per calunnia contro Tavecchio, depositata in Procura a Varese due giorni fa, a firma Danilo Filippini, ex proprietario dell’Ac Pro Patria et Libertate, a oggi ancora detentore di un marchio storico per la città di Busto Arsizio. Per difendersi da una querela per diffamazione – su un sito aveva definito il candidato favorito alla Figc un “pregiudicato doc” – Filippini ha deciso di attaccare: ha presentato documenti che riguardano il Tavecchio imprenditore e il Tavecchio sportivo, e se ne assume la responsabilità. Oltre a elencare le cinque condanne che il brianzolo, già sindaco di Ponte Lambro, ha ricevuto negli anni (e per i quali ha ottenuto una riabilitazione) e i protesti per cambiali da un miliardo di lire dopo il fallimento di una sua azienda (la Intras srl), Filippini allega una lettera, datata 24 ottobre 2000, Tavecchio era capo dei Dilettanti dal maggio ‘99. Luigi Ragno, un ex tenente colonnello dei Carabinieri, già commissario arbitrale, vice di Tavecchio, informa i vertici di Lega e Federazione di una gestione finanziaria molto personalistica del presidente. E si dimette. “Mi pregio comunicare che nel corso del Consiglio di Presidenza – si legge – è stato rilevato che la Lega intrattiene un rapporto di conto corrente presso la Cariplo di Roma, aperto successivamente al Primo Luglio 1999 (…). L’apertura del conto corrente appare correlata alla comunicazione del Presidente di ‘avere esteso alla Cariplo, oltre alla Banca di Roma già esistente, la gestione dei fondi della Lega. Entrambi gli Istituti hanno garantito, oltre alla migliore offerta sulla gestione dei conti, forme di sponsorizzazione i cui contenuti sono in corso di contrattazione”. Quelle erano le premesse, poi partono le contestazioni a Tavecchio: “Non risulta che alcun organo collegiale della Lega sia mai stato chiamato a esprimere valutazioni in ordine a offerte formulate dagli Istituti di credito di cui sopra”. “Risulta che non sono state prese in considerazione dal presidente più di venti offerte di condizione presentate in busta chiusa da primarie banche che operano su Roma, le quali erano state contattate dal commissario”. “Non risulta che né la Banca di Roma né la Cariplo abbiano concluso con la Lega accordi di sponsorizzazione”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale del bilancio della Lega non appare, nella voce ‘banche’, la presenza del conto corrente acceso presso Cariplo”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale, alla voce ‘Liquidità/Lega Nazionale Dilettanti’ risulta l’importo di Lire 18.774.126.556, che non rappresenta, come potrebbe sembrare a prima vista, il totale delle risorse finanziarie dei Comitati e delle Divisioni giacenti presso la Lega, bensì è costituito da un saldo algebrico tra posizioni creditorie e posizioni debitorie nei confronti della Lega”. Segue una dettagliata tabella dei finanziamenti ai vari Comitati regionali, e viene così recensita: “Il presidente della Lega ha comunicato che ai suddetti ‘finanziamenti di fatto’ è applicato il tasso di interesse del 2,40%, la cui misura peraltro non è stata stabilità da alcun organo collegiale”. Il vice di Tavecchio fa sapere di aver scoperto anche un servizio di “private banking”, sempre con Cariplo, gestito in esclusiva dal ragionier brianzolo: “Nessun Organo collegiale della Lega ha mai autorizzato l’apertura di tale rapporto (…) e mai ha autorizzato il presidente a disporre con firma singola (…) Trattasi di un comportamento inspiegabile e ingiustificabile, anche in considerazione della consistenza degli importi non inferiore ai venti miliardi di lire”. Ragno spedisce una raccomandata alla Cariplo, e si congeda dai Dilettanti di Tavecchio: “Di fronte all’accertata mancanza di chiarezza, di trasparenza e di correttezza e di gravi irregolarità da parte del massimo esponente della Lega, non mi sento di avallare tale comportamento gestionale e comunico le immediate dimissioni”. Per comprendere la natura del consenso costruito minuziosamente da Tavecchio nella gestione della Lega Dilettanti, un caso esemplare è quello del Messina calcio. La società siciliana approda in Lnd nella stagione sportiva 2008-2009. La famiglia Franza è stufa del suo giocattolo, vorrebbe vendere la squadra, ma non trova acquirenti. Il Messina è inghiottito dai debiti. Dovrebbe militare in serie B, ma il presidente Pietro Franza non l’iscrive al campionato cadetto: deve ricominciare dai dilettanti. Il problema è che il Messina è tecnicamente fallito (la bancarotta arriverà dopo pochi mesi) e non avrebbe le carte in regola nemmeno per ripartire da lì. E invece Tavecchio, con una forzatura, firma l’iscrizione dei giallorossi alla Lega che dirige. L’uomo chiave si chiama Mattia Grassani, principe del foro sportivo e, guarda caso, consulente personale di Tavecchio e della stessa Lnd: è lui a curare i documenti (compreso un fantasioso piano industriale per una società ben oltre l’orlo del crac) su cui si basa l’iscrizione dei siciliani. In pratica, si decide tutto in casa. Nel 2011 il Messina, ancora in Lega dilettanti, è di nuovo nei guai. Dopo una serie di vicissitudini, la nuova società (Associazione Calcio Rinascita Messina) è finita nelle mani dell’imprenditore calabrese Bruno Martorano. La gestione economica non è più virtuosa di quella dei suoi predecessori. Martorano firma in prima persona la domanda d’iscrizione della squadra alla Lega. Non potrebbe farlo: sulle sue spalle pesa un’inibizione sportiva di sei mesi. Non solo. La documentazione contiene, tra le altre, la firma del calciatore Christian Mangiarotti: si scoprirà presto che è stata falsificata. Il consulente del Messina (e della Lega, e di Tavecchio) è sempre Grassani: i giallorossi anche questa volta vengono miracolosamente iscritti alla categoria. Poi, una volta accertata l’irregolarità nella firma di Mangiarotti, la sanzione per il Messina sarà molto generosa: appena 1 punto in classifica (e poche migliaia d’euro, oltre ad altri 18 mesi di inibizione per Martorano). Tavecchio, come noto, è l’uomo che istituisce la commissione “per gli impianti sportivi in erba sintetica” affidandola all’ingegnere Antonio Armeni, e che subito dopo assegna la “certificazione e omologazione” degli stessi campi da calcio alla società (Labosport srl) partecipata dal figlio, Roberto Armeni. Non solo: la Lega Nazionale Dilettanti di Tavecchio ha un’agenzia a cui si affida per l’organizzazione di convegni, cerimonie ed assemblee. Si chiama Tourist sports service. Uno dei due soci, al 50 per cento, si chiama Alberto Mambelli. Chi è costui? Il vice presidente della stessa Lega dilettanti e lo storico braccio destro di Tavecchio. Un’amicizia di lunga data. Nel 1998 Tavecchio è alla guida del comitato lombardo della Lnd. C’è il matrimonio della figlia di Carlo, Renata. Mambelli è tra gli invitati. Piccolo particolare: sulla partecipazione c’è il timbro ufficiale della Figc, Comitato Regionale Lombardia. Quando si dice una grande famiglia."

«Denuncio Tavecchio. Carriera fatta di soprusi» dice Danilo Filippini a “La Provincia Pavese”. A quattro giorni dalle elezioni Figc, Carlo Tavecchio continua a tenere duro, incurante delle critiche e delle prese di posizione - sempre più numerose e autorevoli - di coloro che ritengono l’ex sindaco di Ponte Lambro del tutto inadeguato a guidare il calcio italiano. Tavecchio è stato anche denunciato per calunnia da Danilo Filippini, ex presidente della Pro Patria che ha gestito la società biancoblù dall’ottobre 1988 all’ottobre 1992.

Filippini, perché ha deciso di querelare Tavecchio?

«Scrivendo sul sito di Agenzia Calcio, definii Tavecchio un pregiudicato doc e un farabutto, naturalmente argomentando nei dettagli la mia posizione e allegando all’articolo il suo certificato penale storico. Offeso per quell’articolo, Tavecchio mi ha denunciato per diffamazione. Così, tre giorni fa, ho presentato alla Procura di Varese una controquerela nei suoi confronti, allegando una ricca documentazione a sostegno della mia tesi».

In cosa consiste la documentazione?

«Ci sono innanzitutto le cinque condanne subite da Tavecchio. Poi i protesti di cambiali per una somma di un miliardo di vecchie lire dopo il fallimento della sua azienda, la Intras srl. Ho allegato inoltre l’esposto di Luigi Ragno, già vice di Tavecchio in Lega Dilettanti, su presunte irregolari operazioni bancarie con Cariplo. Più tutta una serie di altre irregolarità amministrative».

Quando sono nati i suoi dissidi con Tavecchio?

«Ho avuto la sfortuna di conoscerlo ai tempi in cui ero presidente della Pro Patria. Quando l’ho visto per la prima volta, era presidente del Comitato regionale lombardo. In quegli anni ci siamo scontrati continuamente. Con Tavecchio in particolare e con la Federazione in generale».

Per quale motivo?

«I miei legittimi diritti sono sempre stati negati, in maniera illecita, nonostante numerosi miei esposti e querele, con tanto di citazioni di testimoni e prove documentali ineccepibili. Da vent’anni subisco dalla Federcalcio ogni tipo di abusi».

Per esempio?

«Guardi cos’è successo con la denominazione “Pro Patria et Libertate”, da me acquisita a titolo oneroso profumatamente pagato, e che poi la Federazione ha girato ad altre società che hanno usato indebitamente quel nome. Per non parlare della mia incredibile radiazione dal mondo del calcio, che mi ha impedito di candidarmi alla presidenza della Figc, come volevo fare nel 2001. Una vera discriminazione, che viola diritti sanciti dalla Costituzione. Sa qual è l’unica cosa positiva di questa vicenda?»

Dica.

«Sono uscito da un mondo di banditi come quello del calcio. E ora mi occupo di iniziative a favore dei disabili: impiego molto meglio il mio tempo».

Tavecchio risulta comunque riabilitato dopo le cinque condanne subite.

«Mi piacerebbe sapere in base a quali requisiti l’abbia ottenuta, la riabilitazione. E comunque, una volta riabilitato, avrebbe dovuto tenere un comportamento inappuntabile sul piano etico. Non mi pare questo il caso».

Insomma, a suo parere un’eventuale elezione di Tavecchio sarebbe una iattura per il calcio italiano...

«Mi auguro davvero che non venga eletto. Questo è il momento di cambiare, di dare una svolta: non può essere Tavecchio l’uomo adatto. Avendolo conosciuto di persona, non mi sorprende neanche che abbia commesso le gaffes di cui tutti parlano. Lui fa bella figura solo quando legge le lettere che gli scrivono i principi del foro. Comunque, ho mandato la mia denuncia per conoscenza anche al Coni e al presidente Malagò. Non ho paura di espormi: quando faccio una cosa, la faccio alla luce del sole».

Da parte sua Gianfrancesco Turano su “L’Espresso” ha messo un carico pesante, naturalmente buttandola in politica: Claudio Tavecchio, chi è il potente del calcio. L'impresentabile che piace tanto a destra. "Il brianzolo, celebre per le sue sparate su neri mangiatori di banane e donne handicappate, è diventato il padrone della Figc. Grazie a un piano che unisce affari e politica e ad amicizie influenti. Come quella con Galliani e Lotito. Il ragioniere, il geometra, il pedagogo. Claudio Tavecchio, Adriano Galliani e Claudio Lotito hanno i titoli di studio in regola. Sono loro la nuova Triade che tenterà di rilanciare il calcio italiano eliminato al primo turno ai Mondiali, bersagliato dalla violenza e dalle scommesse clandestine, squilibrato nella struttura e nei conti, surclassato nei risultati in campo. Alle elezioni della Federcalcio fissate in prima convocazione il giorno 11 di agosto 2014, il candidato Tavecchio ha ottime possibilità di essere eletto al primo colpo con la maggioranza qualificata di due terzi. Dal terzo ballottaggio basterà la metà più uno dei voti. L’unico avversario che ha qualche chance di farlo fuori è lo stesso Tavecchio, protagonista di uno show pre-elettorale indimenticabile a base di un mitologico “Optì Pobà”, calciatore della Lazio mangiabanane, dequalificato e senza “pitigrì” (pedigree). Le scuse successive sono state peggiori della gaffe: esibizioni di fotografie in compagnia di uomini neri, dichiarazioni sulla falsariga “molti dei miei migliori amici sono africani” e il provvidenziale intervento a sostegno del medico della nazionale del Togo. Kossi Komla-Ebri, residente in Ponte Lambro (Como), ha garantito per il candidato: «Quando Tavecchio era sindaco, abbiamo fatto un gemellaggio con Afagnan in Togo». Appena finito di scusarsi con i mangiatori di banane, è arrivata un’altra frase culto. «Prima si pensava che la donna fosse handicappata rispetto al maschio per resistenza ed altri fattori, adesso invece abbiamo riscontrato che sono molto simili». Gaffe del candidato alla presidenza della Figc, Carlo Tavecchio, che durante l'assemblea dei dilettanti, parlando dei giocatori stranieri, ha commentato: "Le questioni di accoglienza sono una cosa, quelle del gioco un'altra. L'Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che 'Opti Poba' è venuto qua che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così". Tavecchio si è poi scusato: "Mi riferivo al curriculum". Sulle sue cinque condanne penali a qualche mese, piccolezze per un dirigente politico italiano, nota che la più recente è del 1998 e la prima è del 1970. Nessuna traccia è rimasta sul certificato penale. Il saldo di queste dichiarazioni è che l’Unione europea, la Fifa di Sepp Blatter, l’Uefa di Michel Platini e il Coni di Giovanni Malagò farebbero volentieri a meno di Tavecchio. Lui, al momento, non se ne dà per inteso e si copre con un alibi storico: lo sport è indipendente dalla politica. Figuriamoci il calcio. Tirèmm innanz verso le elezioni dell’11 agosto. Cinematograficamente Tavecchio è l’anello mancante fra il Lambertoni del “Vedovo” e il cumènda brianzolo Cavazza della “Contestazione generale” (“alegher alegher...”). L’aspirante re del calcio è la quintessenza del ragiunàtt lombardo che entra in banca a 19 anni e per altri 19 è eletto primo cittadino di Ponte Lambro con le liste dello scudo crociato (1976-1995). Nulla di rivoluzionario. Nulla di rottamatorio, soprattutto. Ci è voluta la gaffe su Optì Pobà perché Graziano Delrio, plenipotenziario renziano per lo sport, iniziasse a dubitare dell’uomo che, fino ad allora, gli era parso il successore ideale del dimissionario Giancarlo Abete. In effetti, anche a non considerare l’uscita razzista, l’elezione di Tavecchio consentirà alla destra un takeover totale sullo sport più amato in Italia e nel mondo. Non è un caso se gli unici difensori del ragioniere comasco siano stati Daniela Santanchè e Maurizio Gasparri. Né c’è bisogno di insistere sulle simpatie politiche di Lotito o di Galliani, che da una posizione defilata rimane il vero dominus del calcio italiano, capace di mettere nell’angolo mister trenta scudetti Andrea Agnelli e, in modo assai più agevole, il suo azionista Barbara Berlusconi, che avrebbe voluto in Figc un quarantenne invece del settantunenne presidente della Lega Dilettanti. Altri fan di peso erano in prima fila alla manifestazione romana sfociata nel numero su Optì Pobà. Tre su tutti: il membro del Cio Franco Carraro, l’ex numero uno di Figc e Lega Antonio Matarrese e il presidente della Lega di serie A e capo della comunicazione di Unicredit Maurizio Beretta, ferocemente soprannominato “dimmi, Claudio”, nel senso di Lotito. L’alto-brianzolo Tavecchio non sarà fine di ingegno come il basso-brianzolo Galliani. Sarà anche una figura debole, e perciò stesso gradita, rispetto allo strapotere della Lega di serie A. Sul web spunta il video di un'intervista alla trasmissione Report su RaiTre in cui il candidato alla presidenza del calcio italiano si esprime in questi termini sulle donne: "Noi siamo protesi a dare una dignità anche sotto l'aspetto estetico alla donna nel calcio". Il video, risalente a una puntata del 5 maggio 2014, si sente la intervistatrice interdetta che chiede spiegazioni a Tavecchio delle sue parole. "Finora si riteneva che la donna fosse un soggetto handicappato rispetto al maschio sotto l'aspetto della resistenza, del tempo, dell'espressione atletica. Invece abbiamo riscontrato che sono molto simili". Ma non va preso sotto gamba. Nello sport italiano l’anzianità di servizio e la capacità di relazione contano molto. E qui Tavecchio non teme concorrenti. Il suo primo sbarco negli organi direttivi della Lega nazionale dilettanti (Lnd) risale al 1987, quando la poltrona di consigliere del comitato regionale Lombardia era giusto un’occasione per l’allora sindaco e presidente della Pontelambrese di rafforzare il consenso locale grazie allo spargimento di qualche contributo finanziario. Oggi, dopo quindici anni ininterrotti di Tavecchio alla presidenza nazionale, la Lnd è diventata una macchina colossale con 1,3 milioni di tesserati, 14 mila società iscritte e un fatturato complessivo che lo stesso Tavecchio stima in 700 milioni di euro all’anno, oltre un terzo di quanto fattura la serie A. In questi anni, il ragiunàtt di Ponte Lambro non ha smesso di allargare il suo perimetro d’impresa prendendosi in carico non solo il calcio femminile, ma anche il beach soccer e soprattutto il calcio a cinque, una delle realtà economico-sportive emergenti di questi anni. Per deformazione professionale l’ex dirigente della Banca di credito cooperativo Alta Brianza sa badare ai danè come pochi altri. Sul modello del Coni, ha dotato la Lega dilettanti di una società di capitali, la Lnd Servizi. La cassaforte della Lega ha un attivo di tutto rispetto (31 milioni di euro) che cresce di anno in anno grazie a varie operazioni immobiliari, finanziate da un prestito infruttifero di 20 milioni di euro da parte del socio unico Lnd e quindi anche dai contributi delle società dilettantische. Oltre a non pagare interessi sui 20 milioni, Lnd servizi ha aiutato le proprie prestazioni contabili tagliando dal 10 al 5 per cento le royalties dovute alla casa madre per l’uso del marchio. In questi anni, Lnd servizi ha comprato, ampliato e ristrutturato le sue due sedi principali a Roma in piazzale Flaminio e in via Cassiodoro, dove ci sono gli uffici della commissione impianti in erba artificiale, cuore del business dilettantistico. Una volta riservato agli amatori dei tornei scapoli-ammogliati, il sintetico è stato esteso all’attività agonistica e trasformato da Tavecchio in un affare dai contorni poco trasparenti con un andirivieni di collaudi di moquette, sottofondi e consulenze tecniche per l’omologazione che ogni anno muovono milioni di euro per sdoganare oltre 2 mila impianti con fondo artificiale. È una realtà che si concilia poco con l’enfasi tavecchiana sul volontariato sportivo e che ha già impegnato il presidente della Lnd come consulente del Ministero dell’economia sulla fiscalità dello sport dilettantistico. Il volontariato è bello e Tavecchio lo esercita anche fuori dai campi in sintetico come consigliere della Healthy Foundation guidata da Sergio Pecorelli, rettore dell’Università di Brescia, presidente dell’Agenzia del farmaco e ginecologo personale dell’ex ministro forzista Mariastella Gelmini. Ma senza soldi non si canta messa e il cattolicissimo Tavecchio lo sa. Così appena ricevuta l’investitura a candidato per la Federcalcio, ai primi di luglio, mentre l’Italia si riprendeva dall’eliminazione al primo turno in Brasile, il ragiunàtt di Ponte Lambro ha concluso il suo progetto di spinoff regalandosi per il settantunesimo compleanno (13 luglio) la Lnd Immobili, dove sarà trasferito il tesoretto di fabbricati e terreni di Lnd servizi e dove continueranno gli investimenti per dotare ognuna delle venti regioni italiane di un centro federale di reclutamento. L’ultimo, in Molise, è stato acquistato a marzo e comporterà lavori per 1,2 milioni di euro. Che poi i grandi club puntino sul Molise - o sul Veneto o sull’Umbria - per rimpolpare le loro squadre, invece di andare a pescare il nuovo Optì Pobà in Africa è tutto da vedere. Anche l’altra idea-guida di riportare il settore tecnico della Nazionale a uno staff di allenatori cresciuti all’interno dei ranghi federali e non nei club sembra anacronistica rispetto ai tempi di Ferruccio Valcareggi, Enzo Bearzot e Azeglio Vicini. Un commissario tecnico oggi è un allenatore di primo livello. Pensare di pagarlo 200 mila euro all’anno significa perderlo in fretta, se è vincente. Ma il programma politico dipende poco o nulla da Tavecchio. La carta di navigazione per rilanciare il calcio italiano è stata scritta da due autori di serie A: Lotito e Agnelli. Al di là del folklore campagnolo sugli handicap femminili e sugli africani poco qualificati, Tavecchio o chiunque vincerà le elezioni avrà scarso margine di manovra rispetto al diktat della prima divisione. Certo, il laureato in pedagogia Lotito è schieratissimo con Tavecchio. Agnelli molto meno. C’è un pregresso di polemiche furiose che risale a tre anni fa quando la commissione federale rigettò la richiesta juventina di revocare all’Inter lo scudetto 2006 di Calciopoli. L’interistissimo Tavecchio si espose sulla ribalta del grande calcio difendendo la scelta della Figc, di cui era vicepresidente vicario, e respingendo gli attacchi juventini a Giacinto Facchetti. Agnelli non gliel’ha perdonata ma è abbastanza pragmatico per accettare le garanzie di Lotito che Tavecchio saprà stare al suo posto limitandosi a qualche battuta infelice di quelle che fanno la gioia dei social network e dei nostri concorrenti all’estero. Quindi, si porterà la serie A a diciotto squadre, si scremeranno le serie minori che già si scremano da sé con la crisi. E il resto continuerà come prima, con le grandi che perdono terreno sulla concorrenza europea e le piccole che tirano a campare con le plusvalenze e il factoring sui diritti televisivi scontato da qua a trent’anni, mentre tutti mostrano grande volontà di cambiamento nimby (not in my backyard). Su una cosa Tavecchio ha ragione. È quando gli scappa detto: «Ora devo occuparmi di questo bordello». Dopo 27 anni che lavora nella politica e nel calcio, forse sa di che parla."

Ciò nonostante, per un eventuale ricorso di annullamento nulla ha potuto fare il Coni, pur pungolato. Per quanto riguarda il ricorso al Tar, già è stato presentato ma per altri motivi che quello della incandidabilità. Un ricorso al Tar del Lazio contro le regole di elezione del vertice della Federcalcio italiana e contro ogni altro atto legato a questo passaggio viene annunciato dal Codacons all'indomani dell'elezione di Carlo Tavecchio. Un ricorso non tanto contro il neo presidente o contro Albertini, se fosse stato questi ad essere eletto a capo del calcio italiano, quanto invece contro il meccanismo che - precisa Carlo Rienzi, presidente del Codacons - "esclude i primi fruitori dell'attività sportiva calcistica, e cioè i tifosi". Secondo Rienzi, infatti, "i tifosi non hanno voce in capitolo, non possono dire la loro sulla presidenza, non è previsto il loro coinvolgimento attraverso una consultazione magari anche online". Dr Antonio Giangrande

Estratto dell'articolo di Antonello Sette per “il Foglio Sportivo” il 20 febbraio 2023.

(...)

 Ora Ventura vive a Bari, dove prese il posto di un certo Conte…

 “Dell’esperienza a Bari ricordo la passione, l’entusiasmo, la gioia, la voglia di vivere e di vincere, che avevano la città e i suoi tifosi. Arrivammo decimi e fu un mix memorabile di risultati sportivi e di emozioni umane”.

 (...)

 “Ovunque sono andato, ho garantito plusvalenze, ma il record assoluto di oltre 200 milioni l’ho stabilito a Torino. I ‘plusvalenti’ glieli elenco, così come mi tornano in mente: Angelo Ogbonna ceduto alla Juventus, Alessio Cerci all’Atletico Madrid, Ciro Immobile al Borussia Dortmund, Davide Zappacosta al Chelsea, Kamil Glick al Monaco. Rimango dell’idea che, se non hai una proprietà ricca e solida alle spalle, l’unica via sia quella dell’autogestione, che vuol dire coniugare i risultati sportivi con quelli economici. I risultati sportivi li ottieni con l’organizzazione di gioco e la crescita dei calciatori. Quelli economici con la valorizzazioni di giovani. Per me è sempre stato così”.

A proposito di Torino, lei è rimasto cinque anni alla corte di Urbano Cairo, ottenendo risultati importanti, fra cui la partecipazione all’Europa League. Eppure con i tifosi non è stato sempre rose e fiori. L’accusano ancora oggi di supponenza…

Cinque anni di fila in un ambiente complicato, quale era all’epoca quello del Torino, sono tantissimi. Ho battuto anche il record di permanenza di un’icona come Gigi Radice. Quanto alla supponenza, che vuole che le dica, uno si dovrà pur difendere. In quegli anni la contestazione a Cairo era continua e spesso feroce. Io ero accusato di essere un suo colluso nelle scelte impopolari. E, poi, non c’era un’ondata mediatica favorevole”.

 Dal Torino alla Nazionale il passo fu breve e alla lunga doloroso…

Della Nazionale preferisco non parlare. Una big, di cui non voglio fare il nome, mi aveva offerto tre anni di contratto. Vi rinunciai per andare là dove mi portava il cuore e quell’amore per la maglia azzurra, che era stato il tratto comune, quasi il refrain, della mia generazione. Ricordo, come parte di me, tutti gli alti e tutti i bassi, i trionfi e le delusioni.

L’epopea di Gigi Riva, il gol del 4 a 3 di Gianni Rivera contro la Germania, ma anche, a ritroso, i pomodori lanciati a Marassi contro Edmondo Fabbri, dopo l’eliminazione contro la Corea del Nord ai Mondiali inglesi del 1966. L’azzurro lo avevo dentro di me e per questo amore, tenuto stretto sin da bambino, ho ceduto alle insistenze, mi sono fatto coinvolgere e ho fatto una scelta sbagliata, perché non occorreva un lampo di genio per capire che non ci fossero i presupposti per fare bene”.

 Si spieghi meglio.

Chi vuol capire capisca. Dico solo che in quattro anni, nel commentare due mancate qualificazioni mondiali, si è passati dalla tragedia epocale del 2018 all’incidente di percorso del 2022. Credo che anche da questa abissale differenza si possa intuire come, già al momento di accettare l’incarico, non ci fossero i presupposti necessari”.

 Il 12 novembre del 2021 lei ha comunicato la decisione di abbandonare per sempre il mondo del calcio, che era stata la sua vita. Era venuto a mancare ogni residuo stimolo…

Avevo voglia di riprendermi quella vita, che avevo accantonato per quaranta anni e più. Da dodici giorni di vacanza, con la mente già proiettata al primo giorno di raduno agli anni trascorsi, attimo dopo attimo, con te stesso e con la donna che ami. A facilitare il commiato è stato sicuramente un calcio, che non era più il mio e in cui non mi ritrovavo più. Mi sono fermato anche perché il calcio è cambiato nei rapporti con le società, con i presidenti, con giocatori, con i tifosi, con la stampa e con tutti gli addetti ai lavori. Prima erano rapporti umani e strette di mano.

 Oggi è tutta un’altra cosa. È tutto esagerato. Stefano Pioli in tre o quattro mesi è passato dal migliore al peggiore allenatore italiano. Un tempo c’erano valutazioni meno superficiali e affrettate sulla produttività dei singoli. Oggi, se hai i media a favore puoi permetterti di perdere sette partite senza colpo ferire. Se li hai contro, bastano tre sconfitte e vai a casa.

E, poi, è cambiato lo spettacolo. Oggi il calcio è bello da vedere, solo quando lo giochi bene, come il Napoli e a tratti la Lazio e l’Atalanta. Tutte squadre, dove, già prima che ti arriva il pallone, devi sapere dove si trova il compagno a cui lo passerai. Tutto il resto, almeno dal mio punto di vista, è una gran noia. Si scimmiotta quello che fanno gli altri, senza un gesto o un’idea originali. Il calcio lo guardo, ma non mi diverto quasi mai. Sono in pace con me stesso. Sarò anche supponente, ma al calcio ho dato tutto quello che avevo: testa, cuore, passione, onestà, impegno e determinazione”.

 A 75 anni Gian Piero Ventura ha persino scoperto la felicità?

Sì, sono felice. Ho ritrovato Bari, che è diventata bellissima e ho avuto la fortuna di incontrare Luciana, la donna che mi ha dato una sterzata di adrenalina sul piano sentimentale e su quello della vita quotidiana. Sento il dovere di restituirle qualcosa, perché sino al 2021 le ho dato molto meno di quanto meritasse. Quello che sono oggi è tutto merito suo. Come tutti possono vedere, sto finalmente bene. In tutti i sensi”.

Da Le Iene - leiene.it martedì 5 dicembre 2023.

Quest’estate Roberto Mancini ha detto addio alla panchina della Nazionale di Calcio Italiana per l’Arabia Saudita, dove, in qualità di allenatore, percepirà per quattro anni circa 25milioni di euro all’anno. L’ex c.t. della Nazionale ha ammesso di aver preso questa decisione non per motivi economici ma per scelte personal, aggiungendo ai commenti sulla sua scelta anche quello che il presidente della FGC Gabriele Gravina, aveva cambiato lo staff a cui era legato. 

Le notizie stampa si sono rincorse ma i due protagonisti non sono più tornati sull’argomento. Nel servizio in onda stasera, martedì 5 dicembre, in prima serata, su Italia 1, Stefano Corti ha incontrato entrambi per provare a fare chiarezza, tra una polemica e l’altra. 

Alla domanda sul perché Roberto Mancini si fosse dimesso, il presidente Gabriele Gravina ai microfoni dell’inviato risponde: «Questo dovete chiederlo a Roberto Mancini, in questo momento non riesco ancora a rimuovere l’amarezza che ho provato. Con Roberto ho condiviso cinque anni e quando vivi cinque anni di sensibilità, emozioni fortissime, un risultato storico, come fai a rinnegare tutto? Sarebbe una sconfitta incredibile per me pensare di avere investito in un rapporto umano che poi non lascia nulla» – e prosegue -, «tutti abbiamo delle fragilità, lui ne ha manifestata qualcuna con qualche dichiarazione, a mio avviso, non corretta, io non posso abboccare e vivere puntando solo su quelle dichiarazioni.».

Corti gli domanda se fosse vero che Mancini fosse andato da lui più volte per parlare dei problemi e del perché avrebbe voluto lasciare la Nazionale. Gravina spiega: «No, io e Roberto di questo tema non ne abbiamo parlato, né nei cinque anni né un minuto prima che lui volesse presentare le sue dimissioni. Diciamo che ha avuto momenti di tentennamenti qualche ora prima di mandare la PEC». Infine, la Iena gli chiede se si sia sentito tradito da Mancini: «Tradito non lo so, ripeto, ancora non riesco a rimuovere quest’amarezza. Credo che abbia sbagliato nei metodi, nei tempi. Vi garantisco che non mi sarei mai opposto, perché di fronte a proposte che ho letto sulla stampa, questa andava sicuramente accettata. Non sarebbe rimasto con lo stesso entusiasmo di fronte a una proposta del genere.».

Dopo Gravina Stefano Corti incontra Roberto Mancini. «Come sto ora? È un po’ faticoso, è un po’ diverso», dice l’ex c.t, che spende anche qualche parola sulla qualifica dell’Italia: «Questo mi fa molto piacere. Sono tutti ragazzi che meritavano questo, avevano già avuto una grande delusione per il Mondiale, poi è giusto che l’Italia possa essere lì a difendere il titolo.». Poi si passa al discorso che coinvolge la sua scelta personale di partire per l’Arabia Saudita. Abbiamo letto quello che ha dichiarato Gravina, cioè che con Spalletti l’Italia ha svoltato. – gli dice l’inviato -. «Ma io sono felice», esclama Mancini. Corti continua dicendo che Gravina ha dichiarato di essere rimasto male per la sua decisione, anche perché l’avrebbe fatto da un giorno all’altro. Mancini spiega: «Anche io ci sono rimasto male.

Diciamo che dopo tanti anni, forse, a volte, bisognava prendere una decisione. Forse è una decisione che andava presa un po’ prima, però, allo stesso tempo, posso anche capire che ci si possa rimanere male. Anche io sono rimasto male di tante cose, e con grande dispiacere perché io sarei rimasto altri dieci anni, se fosse stato possibile. Qualcosa era cambiato rispetto a prima, ma posso dire una cosa? È stato detto anche troppo.» (Si riferisce alle notizie apparse sulla stampa, ndr.): «Quando c’erano giornali, giornalisti, direttori e proprietari seri di giornali si scrivevano cose vere, adesso si scrivono un sacco di stupidaggini. Le cose scritte sono per la maggior parte stupidaggini: sono andato via per tante motivazioni.». Quindi non è andato via per soldi, lo incalza Corti. «Una delle motivazioni è anche quella», conclude lui. 

Per strappare un sorriso a entrambi Stefano Corti consegna a Roberto Mancini una piccola riproduzione dell’opera comunemente nota come Il Dito, di Maurizio Cattelan, da parte di Gabriele Gravina.

Il Bestiario, il Calciatorigno. Giovanni Zola il 31 Agosto 2023 su Il Giornale.

Il Calciatorigno è un animale leggendario che si batte contro il razzismo, ma di fronte ai milioni dell’Arabia Saudita si dimentica di difendere i diritti civili

Il Calciatorigno è un animale leggendario che si batte contro il razzismo, ma di fronte ai milioni dell’Arabia Saudita si dimentica di difendere i diritti civili.

Il Calciatorigno è un essere mitologico che, fino a quando rimane sul territorio occidentale, si batte convintamente a favore dei grandi principi di giustizia ed uguaglianza rilasciando dure interviste contro il razzismo negli stadi proponendo di fermare le partite in caso di insulti a giocatori appartenenti ad etnie non italiche. Il Calciatorigno, sempre a casa sua, si indigna quando un collega lo apostrofa come diversamente eterosessuale, accusando di razzismo coloro che insultano gli appartenenti del mondo LGBTQ+. Memorabili le prese di posizione del Calciatorigno contro la violenza sulle donne definita come “inaccettabile” e accompagnate da sbaffi rossi sul viso mostrati fieramente sul campo da gioco.

Tutto vero e giusto fino a quando al Calciatorigno vengono offerte montagne di soldi dallo stato arabo più ricco del mondo. Da bravo mercenario incassa e tace, dimenticando i propri principi morali a cui evidentemente non ha mai creduto. Così il Calciatorigno dimentica all’improvviso che in Arabia Saudita vengono imposte punizioni corporali, inclusa l'amputazione delle mani e dei piedi per i ladri e la fustigazione per alcuni crimini come l’omosessualità.

Non possedendo la memoria a lungo termine, l’animale leggendario, scorda che le donne, in Arabia Saudita, frequentano le scuole in istituti separati da quelli maschili, devono avere un tutore maschio per viaggiare all'estero, sposarsi, sottoporsi ad un intervento chirurgico, aprire un proprio conto in banca, avere un giusto processo ed interagire con altri uomini. Alle donne è stato permesso di guidare nel 2018 e hanno ottenuto il diritto di voto nel 2015.

Il Calciatorigno, non avendo una dieta adeguata a base di pesce, non ha memoria del fatto che, nel Paese dei suoi datori di lavoro, l'attività sessuale fuori dal matrimonio eterosessuale è illegale. La punizione per la sodomia e il travestimento varia dalla prigione all'esecuzione.

Il Calciatorigno, che in linea di massima si dichiara cristiano battezzato, ha ricordi confusi riguardo al fatto che la libertà religiosa, nella nazione in cui allena orgogliosamente la nazionale di calcio, non esiste e il governo proibisce la pratica pubblica di altre religioni.

Suggerendo al Calciatorigno di fare uso del Memoril due volte al giorno a stomaco vuoto, non ci resta che ringraziarlo per essere stato escluso dal Mondiale perdendo con la Macedonia del Nord. Questo ce lo ricordiamo bene.

Mancini, Figc verso la causa per danni. Il presidente Gravina conferma al Consiglio federale la richiesta di un parere legale. Marcello Di Dio il 29 Settembre 2023 su Il Giornale.

Scorie di uno strappo ferragostano che tanto ha fatto parlare gli italiani sotto l'ombrellone. E che ora rischia di finire in tribunale. È passato un mese e mezzo dall'addio improvviso di Roberto Mancini alla Nazionale e la Figc ha deciso (finalmente) di rivolgersi a un professionista per avere un parere tecnico legale sulle opportunità dell'ipotesi di una richiesta di risarcimento danni. Materia bollente di fronte a contratti ricchi di clausole e penali come ha insegnato la storia recente tra Spalletti e De Laurentiis che ha finito per intrecciarsi con il possibile contenzioso Federazione-Mancini.

Il presidente Gravina e l'ex ct azzurro, emigrato in fretta e furia in Arabia per incassare il sostanzioso assegno dei sauditi, si sono incrociati mercoledì sera nella cena di gala della Ryder Cup. Un saluto tra i due, freddo ma dovuto «per quel principio del rispetto e dell'educazione fondamentale nel mondo civile e sportivo», ha sottolineato il n. 1 della Figc. Che già sapeva di dover affrontare la mattina dopo nel Consiglio federale la spinosa vicenda sulla quale ha deciso di prendere tempo. Quello utile per metabolizzare il «tradimento» dopo aver trovato l'alternativa (il già citato Spalletti) in meno di una settimana. Quello utile a far sbollire la rabbia di un rapporto chiuso all'improvviso e con un'«istituzionale» Pec ma che si stava consumando giorno dopo giorno e che era tenuto vivo per amore della Nazionale. Fino a quando, almeno dal lato di chi sedeva in panchina, non ha iniziato a evaporare lentamente.

Si finirà probabilmente in tribunale, perché secondo i bene informati Mancini avrebbe potuto rescindere il contratto solo se avesse raggiunto determinati obiettivi (vedi qualificazione ai Mondiali in Qatar e ai prossimi Europei, incombenza quest'ultima lasciata di punto in bianco al suo successore). Se ne riparlerà a parere legale ottenuto e forse non prima di fine anno. Quando magari la Nazionale avrà già (speriamo) ottenuto il pass per Germania 2024.

Estratto dell'articolo di Matteo Pinci per "la Repubblica" mercoledì 30 agosto 2023.  

Come in ogni divorzio, tra Roberto Mancini e la Federcalcio potrebbe arrivare il momento in cui contare non i cocci della separazione, ma i danni. […] 

Il contratto di Mancini da ct presentava l'opzione per liberarsi unilateralmente e gratuitamente solo a determinate condizioni, legate al raggiungimento di alcuni risultati sportivi. Ma la Nazionale, semplicemente, non è andata al Mondiale e non si è ancora nemmeno qualificata per l'Europeo, quindi, secondo la disciplina Fifa, il recesso unilaterale apre lo scenario del risarcimento del danno.

D'altronde, se fosse stata la Figc a mandare a casa il ct, avrebbe dovuto onorare il suo stipendio (4,5 milioni netti a stagione) e pagargli in più un risarcimento. 

Adesso, visto che è stato Mancini ad andarsene, potrebbe essere lui a pagare. È solo un'ipotesi, al momento. Quando la moglie-avvocato, Silvia Fortini, pochi giorni dopo l'annuncio delle dimissioni, ha inviato in federazione una mail per chiedere, in sostanza, la rinuncia a qualunque azione risarcitoria, non l'ha ottenuta. 

A quanto pare la Federcalcio non ha ancora scelto quale strada prendere. L'intenzione di Gravina è quella di investire il Consiglio federale di quanto accaduto, in modo che siano tutte le componenti a decidere i prossimi passi.

Fosse anche un indennizzo simbolico, è difficile che Mancini possa cavarsela senza versare nemmeno un euro alla Figc, soprattutto dopo lo show di lunedì, quando a Riad ha firmato in mondovisione il contratto fino al 2027 da 18 milioni netti a stagione più 6 di bonus con i Falconi verdi. Una somma che renderà digeribile per Mancini anche l'assegno da versare ai suoi vecchi datori di lavoro.  […] 

Da Posta e risposta - “la Repubblica” mercoledì 30 agosto 2023.

Caro Merlo, nel luglio 2021, dopo la vittoria della coppa europea contro l’Inghilterra, Roberto Mancini si fece fotografare nella sua Jesi in maglietta azzurra e bermuda rispettando in fila il distanziamento Covid e poi con le volontarie della Croce Rossa e, ancora, mentre mangiava la pizza. 

L’immagine che esibì da vincitore non coincide con quella dell’altro giorno nello spot televisivo in Arabia Saudita dove si è trasferito dopo il fiume di meritati insuccessi seguìto alla meritata vittoria del 2021. Mi chiedo quale sia il Mancini vero, il sobrio, semplice e umile vincitore o quello che dice — orrore! — «ho fatto la storia in Europa e ora farò la storia in Arabia Saudita».

Enrico Frusciante — Benevento

Risposta di Francesco Merlo

La fine è la perfezione dell’inizio. E l’Arabia saudita illumina, chiudendola, l’intera storia di Mancini, un vanitoso che in Italia non poteva più permettersi di perdere, senza definitivamente perdersi. I soldi arabi lo fanno ricco ma non salvano lui, salvano noi.

"Informazioni false e manipolazioni". Mancini (al veleno) torna a parlare del suo addio all'Italia. L'ex ct dell'Italia è tornato a parlare del suo addio repentino dagli azzurri rivolgendosi ai tifosi italiani: "Immagino che sarete stati confusi da certe notizie di stampa". Marco Gentile il 29 Agosto 2023 su Il Giornale.

Il giorno dopo la presentazione sontuosa a Riad, come nuovo ct dell'Arabia Saudita, Roberto Mancini ha deciso di tornare a parlare del suo addio repentino e inaspettato alla guida della nazionale italiana: "Informazioni false e manipolazioni sono esistite da sempre", così l'ex il tecnico jesino in un lungo post su Instagram.

Il saluto ai tifosi e la stoccata

Mancini ha voluto dire grazie ai tanti milioni di tifosi italiani che l'hanno sempre sostenuto: "Voglio ringraziare tutti voi per il grande sostegno e la vera amicizia dimostratami da sempre, ed in particolare in questi ultimi giorni e ore frenetiche, che mi hanno visto non in panchina ma al “centro campo”. Le vostre testimonianze di affetto e di stima sono tutte contenute in parole importanti, vere e sincere come “ricordati che sei il gol di tacco”, “l’uomo della vittoria extra time”, “non ti sei mai arreso, fino all’ultimo secondo”, ”sei l’abbraccio dell’amicizia”. Ecco, le ho messe tutte in valigia e mi accompagneranno e mi ispireranno nell’affrontare le nuove sfide che mi aspettano".

Il Mancio ha poi affondato il colpo spiegando passo dopo passo questo suo folle mese d'agosto: "Tanti di voi mi hanno chiesto del perché della mia uscita dalla Nazionale e delle tempistiche del nuovo ingaggio. Immagino che sarete stati confusi da certe notizie di stampa. D’altra parte, informazioni false e manipolazioni sono esistite da sempre se già i poemi antichi erano pieni di false notizie, fatte circolare dagli dèi solo per confondere i mortali. La tempistica è unicamente quella che ho poi anche ribadito ieri in conferenza stampa, cioè il vero e concreto contatto con i rappresentanti della Federazione saudita risale al 18 agosto, nulla di più. E poi, per chi conosce davvero il calcio sa che i tempi di raggiungimento degli accordi sono sempre estremamente rapidi, anche di pochi giorni".

Chiusura con un pensiero sul ruolo del calcio nella sua vita: "Nella mia vita, il calcio è sempre stato tutto per me, fin da quando ero poco più di un bambino, nei campi sterrati, a tredici anni, sempre e solo a sfidare un pallone. E a questa vita, per me l’unica, ho sempre associato parole fondanti come sacrificio, lavoro, merito e fiducia. Sì, fiducia. Perché ricevere la piena fiducia, con l’autonomia che ne consegue, è sempre stato il mio primo criterio di scelta nella relazione sia umana che professionale. Perché dove non c’è fiducia, non c’è calcio, ne’ vittoria e né futuro. Conto su di voi e sul vostro sostegno, di cuore e di pancia, come solo un vero tifoso conosce".

Rapporti ai minimi termini

Mancini non si è lasciato bene con la Federazione azzurra con il numero uno Gabriele Gravina che ha ribadito di essere rimasto deluso dal suo comportamento. ll neo ct dell'Arabia Saudita aveva parlato così relativamente al suo rapporto con il numero uno della Figc: "Non ho fatto niente per essere massacrato così. Mi sono solo dimesso e ho detto che è stata una mia scelta. Mica ho ucciso nessuno, ho solo esercitato un diritto alle dimissioni. Perché tanti attacchi così violenti sul piano personale? Non mi aspettavo certi giudizi morali", dice. E assicura: "Le mie dimissioni non sono legate a un accordo già raggiunto. Ho cercato più volte di parlare con Gravina ed esporgli le mie ragioni. Gli ho spiegato che in questi mesi mi doveva dare tranquillità, lui non l'ha fatto e io mi sono dimesso. Non è stata eliminata la clausola di esonero in caso di mancata qualificazione a Euro 2024, il 7 agosto ho fatto mandare un messaggio a Gravina da chi mi rappresenta legalmente, cioè mia moglie, per farla rimuovere. In caso contrario avevo avvertito che mi sarei dimesso".

Stereotipi e caricature. Così Riad banalizza la cultura dell'Italietta. Caffè, bar sport e bel canto: l'arsenale delle ovvietà per raccontare un Paese che appare fermo agli anni '60. Valeria Braghieri il 29 Agosto 2023 su Il Giornale.

È Roma oggi ma sembra Cuba negli anni Sessanta. La radio a valvole col suono che gracchia prima di sintonizzarsi, il tramonto rosa (c'è l'Altare della Patria ma stupisce non vederci stagliato il monumento a Maximo Gomez), la tazzina di caffè fumante, i dipinti sgargianti, un bar sgangherato fermo nel tempo e nel risultato calcistico di Wembley 2020 (giocato nel 2021), i venditori ambulanti di giornali, la terrazza intinta nel caldo di una serata estiva. E c'è Roberto Mancini, ovviamente con la cravatta verde a pois bianchi che scruta l'orizzonte sulle note di Con te partirò di Andrea Bocelli che a Formentera, guarda caso, usano proprio per accompagnare il tramonto. Ha rotto gli indugi l'ex ct della Nazionale italiana apparendo nel video di presentazione della Federazione calcistica di Riad: «Ho fatto la storia in Europa, adesso è tempo di fare la storia con l'Arabia Saudita».

E se mai Mancini ha avuto un tentennamento, un attimo di indecisione sul da farsi in tutta questa dolorosa e milionaria faccenda di «resto in Italia o me ne vado», pensiamo di averlo visto in quel tamburellare delle dita sul bancone della cucina durante lo spot. Poi però... Alea iacta est. La decisione è presa, come pure i 25 milioni netti l'anno. Dagli torto, al Mancio. Che però, se non altro, avrebbe potuto incastonarsi in un'immagine dell'Italia più veritiera e meno macchiettistica, lui che l'Italia la conosce. Quando si è felici, non è il momento di essere generosi? Avrebbe potuto «piantarla» in asso un po' meglio, come si fa con le fidanzate alle quali si resta affezionati anche dopo che l'amore è finito. E invece, anche Mancini si è unito al coro del finto incenso e non c'è gas più letale.

Il caffè, la cravatta e l'abito sartoriali, il sole, i quadri che per estensione sono l'arte tutta, i monumenti (anche agli eroi che hanno perso come il ritratto equestre di Carlo Alberto col capo chino), il tifo, il belcanto e il sole gagliardo... Mancavano la pizza, la bandiera e poco altro (a proposito di bandiera, c'è chi ha intravisto quella dell'Arabia Saudita nei colori della cravatta dell'allenatore). Ancora lì stiamo, o meglio stanno loro, quelli che decidono di narrare l'Italia rendendola irrimediabilmente Italietta. E dire che ci vogliono venire tutti, se la vogliono comprare tutti pezzo dopo pezzo, la vogliono mangiare tutti questa Italia contro la quale chiunque ha sempre pronta una caricatura senza estro e profondità. Come in un film di Checco Zalone. Al ristoratore norvegese che fa cuocere la pasta 40 minuti e sulla sua insegna osa far troneggiare la scritta «cucina italiana», il comico urla: «Non si scrive l'Italia invano». Tolto il nuovo ct dell'Arabia Saudita pagato venticinque-diciamo-venticinque milioni all'anno, di solito è da Riyad che si viene verso l'Italia, non il contrario. Libero di andare, ovvio. Ma per salutare come in quel video, forse sarebbe stato meglio non salutare affatto.

Roberto Mancini, da Medjugorje alla Mecca. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera lunedì 28 agosto 2023

Il nuovo allenatore saudita ha scaricato con una PEC la nazionale italiana per sostenere il disegno politico di uno Stato autoritario che vieta ogni libertà religiosa: glielo dirà che è cattolico?

«Lo stile per me è importante dentro e fuori dal campo, non è una questione di superficie ma di sostanza». Lo diceva Roberto Mancini, spiegando come fosse importante trasmettere certi valori anche ai suoi giocatori. Il nuovo allenatore saudita non può dunque pensare che il modo e i tempi in cui ha scaricato con una PEC la nazionale italiana (non uno dei vari club allenati in giro per l’Europa in un mondo sempre più mercenario come il calcio: la Nazionale italiana) possa essere accettato alla pari della commessa d’un architetto all’estero.

Lo stesso messaggio video segnato da ganassite acuta manco lui fosse Carlo Magno e si occupasse di sistemi planetari non di pallone («Ho fatto la storia in Europa, ora è tempo di fare la storia con l’Arabia Saudita») meriterebbe solo la celebre filastrocca di Trilussa («La lumachella de la Vanagloria / ch’era strisciata sopra un obelisco, / guardò la bava e disse: Già capisco / che lascerò un’impronta ne la Storia») se la scelta non fosse al servizio di un disegno politico nettissimo. Quello di usare il calcio come grimaldello per mostrare lo stato autoritario guidato da Mohammad bin Salman e dalla Sharja, tra i paesi più sferzati da Amnesty International (196 impiccati nel solo 2022) e al 170º posto (su 180!) nella classifica di Reporters Sans Frontières sulla libertà di stampa, come un paese «normale», aperto, ospitale, dove democraticamente accogliere prima possibile i mondiali di calcio, l’Expo, le Olimpiadi... Auguri.

Magari quando sarà lì, probabilmente in una reggia ancora più grande e sfarzosa di quella svettante sulla collina già comprata coi modesti guadagni precedenti nella natia Jesi, Mancini potrà approfittarne per raccontare ai sauditi, anche se vietano severamente ogni minima manifestazione di libertà religiosa che non sia islamica, della sua fede («Sono credente, cattolico, praticante, cresciuto in parrocchia») e della sua devozione alla Madonna di Medjugorje: «Se credo alle sue apparizioni? Sì, ci credo. Sono andato diverse volte...». Dopo la prima visita, anzi, raccontò in tv a Pierluigi Diaco, il Manchester City che guidava recuperò in sei giornate 8 punti in classifica andando a vincere il campionato inglese. Chissà se i sauditi, come portafortuna, ci faranno un pensierino…

Estratto da itasportpress.it martedì 29 agosto 2023.

Esattamente due settimane dopo le improvvise dimissioni da ct della nazionale italiana, Roberto Mancini ha scelto di ripartire dall'Arabia Saudita. […] Mauro Berruto è stato il ct della nazionale italiana di pallavolo tra il 2010 e il 2015, per poi abbandonare lo sport e tuffarsi in politica, e non ha usato giri di parole per stroncare la condotta di Mancini attraverso un lungo post sul proprio profilo Instagram: "Ciascuno di noi è padrone del proprio destino, così come ciascuno di noi, addetti ai lavori o tifosi, deve poter essere libero di chiamare questa decisione nel modo che ritiene più opportuno. Per me, per esempio, si chiama vilipendio alla maglia azzurra" le parole usate dal tecnico torinese.

"Ci ho dovuto pensare un po' su, non credo di aver ancora messo a fuoco bene le mie sensazioni - spiega Berruto - Forse perché non posso essere obiettivo, perché per tanti anni una Squadra Nazionale l'ho allenata anche io. Prima ho sognato di farlo, poi ho lavorato per anni in ruoli di staff, infine ho avuto in sorte il privilegio di fare il CT e portare la Squadra Nazionale del mio Paese ai Giochi Olimpici. Anche nel mio caso quella irripetibile storia finì con delle dimissioni, il 29 luglio 2015 (...) Rassegnai le dimissioni spiegando il perché, con una lettera dove scrivevo che ritenevo (e ancora ritengo) alcuni valori non negoziabili: il rispetto delle regole e della maglia azzurra.

Lasciai la Nazionale e anche la pallavolo, perché sapevo che non sarebbe stato possibile, con qualsiasi altra esperienza pallavolistica, avvicinarsi neanche lontanamente a quello che la maglia azzurra mi aveva dato e che ha rappresentato la più incredibile delle mie esperienze (...) Commentare le dimissioni del CT della nazionale di calcio, nove giorni dopo essere stato incaricato della direzione tecnica delle nazionali giovanili e, 20 giorni più tardi, presentarsi come nuovo CT di una nazionale senza storia calcistica a fronte di un contratto imbarazzante per quantità di denaro è una scelta legittima. Ci mancherebbe. Forse semplicemente sbagliavo. Forse tutto, davvero tutto, è negoziabile. O forse no". […]

Da ilnapolista.it martedì 29 agosto 2023.

Durante la trasmissione Sky Calcio Club, il giornalista Fabio Caressa ha parlato del nuovo incarico di Roberto Mancini come tecnico dell’Arabia Saudita: «Sono rimasto molto male, non volevo pensare davvero che ci fosse l’Arabia Saudita. Caro Mancio, se ti volevi dimettere perché non c’era più entusiasmo – e in Olanda si era capito benissimo – allora dovevi dirlo dopo la Nations League. Se poi ha lasciato ora perché è arrivata l’Arabia è tutto molto più brutto». 

Nonostante le voci già girassero da qualche tempo, Caressa non aveva dato peso alle parole: «In piazzetta a Porto Rotondo girava la notizia che lui avesse firmato con l’Arabia, si era capito benissimo. Io avevo detto che non ci credevo anche se lo hanno scritto tutti. Ma poi gli arabi hanno chiamato dopo le dimissioni? Dai, non ci crediamo. Rispetto che lui sia rimasto male per alcune cose, però così è brutto. Magari non è così, ma la sensazione è quella. Ci sono rimasto male».

Da ilnapolista.it martedì 29 agosto 2023.

Se sappiamo comprendere i valori della vita, questa clip è un gioiello che sfiderà le ere. E Roberto Mancini è una persona che porta elegantemente con sé il fascino dei valori.  La clip è raffinata, un rapido scorcio di Roma, la mano scorre tra le decine di cravatte, la giusta piega ai pantaloni e poi una radio che si accende – una radio, con tanto di manopola, nel Duemilaventitré. La modulazione di frequenza. Il brusio di una valvola che si scalda, il caffè che fuma.

Già ebbe modo di mostrare i valori alla nazione intera quando, con espressione severa, in quel gennaio del Duemilasedici, al termine di una serata calcistica contro il Napoli di Sarri, si riferì sdegnosamente al tecnico toscano che su di lui aveva gettato parole di scherno. Un signore come lui, disse il Roberto dei valori, non può stare nel calcio. Si deve vergognare. “Se lui è un uomo, sono orgoglioso di essere frocio e finocchio” chiosò, bevendo in diretta il calice della segregazione.

Oggi il professionista Mancini ci lascia. Ha fatto la storia in Europa e va a farla in Arabia Saudita. La potenza della sfida cui si accinge non è ancora chiara a tutti. Ad anni di distanza da quella sera dei diritti, quella notte che incise una cicatrice nel suo animo, i tempi sembrano compiersi e quella indignazione assume nuovo significato. Egli sembra dirci: andiamo dove quelle parole ingiuriose sono rimosse per legge, dove le uniche deviazioni lecite sono quelle del portiere, dove mai più bisogna sentirsi reietti e chiamati con nomi di ortaggi e la anormalità è definita dai libri sacri.

Mancini va a insegnare agli allenatori avversari a scegliere solo improperi compatibili coi valori, mentre l’Italia lo tratta come il mostro di Firenze. 

Poi c’è la fede. Quella non si batte. Quella che oggi fa fatica tra i giovani. Chierichetto. Un ragazzo di quarant’anni fa. Don Bosco. L’aiuto fondamentale della madonna di Medjugorje. L’ultima partita del City, la vittoria dello scudetto, il 13 maggio, proprio nel giorno dell’anniversario della madonna di Fatima. “Io credo che le persone che pregano hanno un aiuto”. I valori. I valori che tornano.

E la sfida di Roberto Mancini che nella nuova destinazione non potrà certo portarsi una Bibbia o entrare in una chiesetta o trovare un curato di campagna. La sfida di Mancini è una sfida anche per la Madonna: per le persone che credono in lei, Ella forse accetterà di apparire a Riad. O durante una partita di qualificazione. E poi vediamo chi avrà il coraggio di ammanettarla, in mezzo al campo.  Vai, Roberto. Insegna agli dei ad apparire dove nessuno se lo aspetta.

Estratto da gazzetta.it lunedì 28 agosto 2023

Sempre più appannata l'immagine di Roberto Mancini, dopo la brutta figura fatta con l'addio improvviso alla Nazionale, per accasarsi in Arabia. Anche gli sponsor, adesso, iniziano a mollarlo. “Propongo alla Regione Marche di recedere dal contratto che vede Mancini nostro testimonial turistico e di sostituirlo con Gianmarco Tamberi. Abbiamo bisogno di messaggi e testimonial positivi e unificanti, non divisivi”: queste le dure parole di Matteo Ricci, sindaco di Pesaro, che valuta il possibile danno d'immagine alla sua regione.

“Alla faccia della Patria. Brutta e triste la vicenda di Mancini e la nazionale. Molte scuse, quando in fondo era solo questione di milioni, i tanti che intascherà per andare ad allenare l’Arabia Saudita. Senza ipocrisia - prosegue Ricci - sappiamo bene che il calcio funziona così purtroppo, ma la nazionale non dovrebbe essere trattata come un club. Gli azzurri sono il nostro orgoglio, rappresentano un forte senso di appartenenza popolare, qualcuno direbbe ‘patriottismo’. Mancini, che va ringraziato per l’Europeo vinto, ha scelto di arricchirsi ulteriormente dando poca importanza alla sua immagine, che ne esce danneggiata da questa vicenda".

[…]

La proposta è stata però subito stoppata dal presidente della Regione Francesco Acquaroli, che su Facebook ha commentato: "Ogni stagione, anche nello sport, ha un inizio e una fine, non sta a me addentrarmi in giudizi che non mi competono e che non riguardano il rapporto tra la Regione Marche e Roberto Mancini, che continuerà anche in futuro, su nuove strategie di promozione mirate oggi più che mai anche ai mercati esteri, come abbiamo fatto con il lancio della campagna 'Let's Marche!'. La scelta dei testimonial non deve dividere, o mettere in contrapposizione figure che amano le Marche, deve essere un percorso costruttivo". […]

Andrea Melli per la Stampa - Estratti lunedì 28 agosto 2023

Le dimissioni da commissario tecnico della Nazionale italiana, con immediato passaggio a cittì dell’Arabia Saudita, da un lato la hanno invaso a gran parte degli sportivi italiani e dall’altro invece gli permetteranno di accrescere un patrimonio di per sé spaventoso. Contratto sino al 2026 (che potrebbe anche arrivare al 2027) in Arabia, una pioggia di petroldollari o meglio di euro che termineranno nelle sue, già, pienissime tasche: 50 milioni di euro per i prossimi due anni e mezzo, ai quali se ne potranno aggiungere un’altra decina di bonus. Roba da far girare la testa. 

Soldi, soldi e ancora soldi, gli stessi Mancini che ha guadagnato nella sua lunga carriera, da calciatore prima e da tecnico poi. In azzurro, la Federazione gli riconosceva circa 3 (ritoccati rispetto ai 32iniziali) milioni di euro: dopo Antonio Conte, per sedersi sulla panchina dell’Italia, il “Mancio” è stato l’allenatore più pagato di sempre. Ma quanto fruttato negli anni, con gli scarpini sino al 2000 e guidando poi club e Nazionali nei 23 anni successivi, non ha rappresentato l’unica fonte di reddito per lo jesino, il cui patrimonio farebbe sobbalzare dalla sedia la gran parte degli italiani.

Proprio a Jesi, Mancini possiede tre abitazioni, un paio di garage di oltre 100 metri quadri, un ufficio e un piccolo stabilimento industriale. Per molti sarebbe tantissimo, per lui, in pratica, non è nulla. A Roma, - città in cui Mancini ha vissuto sia da calciatore che da allenatore, giocando nella Lazio e guidando i biancocelesti, l’ex tecnico di Inter (che nel 2008, nonostante un contratto rinnovato sino al 2012, fu esonerato dall’allora presidente Massimo Moratti, intascandosi poi una buona uscita pari a 8 milioni di euro) e Manchester City (in Inghilterra firmò un contratto da 3,5 milioni a stagione che aumentò dopo la vittoria della Premier League) possiede due ville che superano gli oltre 1000 metri quadri ciascuna, oltre a cinque garage che si aggirano sui 150 metri quadri l’uno.

Un uomo vincente, elegante, raffinato, amato dalle donne e corteggiato anche dagli sponsor che spesso lo hanno scelto per le proprie campagne pubblicitarie. Come il caso di Poste Italiane, Top Partner della Nazionale Italiana, che in Mancini ha individuato il testimonial perfetto per “Poste delivery”: una scelta, per l’azienda, azzeccatissima, vista la partnership andata in onda anche nel corso dell’Europeo vinto nel 2021. 

Polemica a parte, il patrimonio del Mancio non si “limita” a ciò sopracitato: il neo cittì dell’Arabia Saudita possiede il 100% delle quote della società Immobiliare 2014 Srl (costituita a Roma nel 2008 con una capitale di poco maggiore ai 10mila euro), che si occupa di gestione e locazione di immobili: legato alla società, il patrimonio equivarrebbe circa a 3,3 milioni di euro.

Finita qui, penserete voi. Macchè. Secondo un’ inchiesta giornalistica internazionale del consorzio Icij (International Consortium of Investigative Journalists), rinominata Pandora Peppers - alla quale presa parte L’Espresso, che nel 2021 in Italia svelò tantissimi nomi di personaggi dello sport e dello spettacolo che avevano scelto “paradisi fiscali” - , Mancini viene indicato nei documenti come l’azionista di Bastian Asset Holdings. 

Trattasi di una società offshore (che non è altro che un’impresa che ha la sede legale in un Paese diverso rispetto alla sede operativa, solitamente per motivazioni fiscali) delle Isole Vergini Britanniche che l’ex commissario azzurro ha controllato dal dicembre 2008 (ceduta poi nell’ottobre 2011) e tramite la quale avrebbe acquistato un aereo Piaggio P180 Avanti, al prezzo di 7 milioni di dollari. Sempre secondo L’Espresso, il 13 gennaio 2009 Bastian riceve un prestito, erogato da una società svizzera con sede a Zurigo, di 5,5 milioni di dollari e come garanzia, la finanziaria svizzera si prende in pegno sia il velivolo che le azioni della Bastian.

E nel novembre 2009, - come svelato dall’inchiesta - poco prima di sedersi sulla panchina del Manchester City, Mancini scrive alla sua fiduciaria, col fine di avvalersi dello scudo fiscale varato dall’allora ministro dell’economia Giulio Tremonti: si pagava il 5% del valore dei beni detenuti all’estero, in cambio della non punibilità dei reati tributari.

Estratto dell'articolo di Paolo Tomaselli per il “Corriere della Sera” lunedì 28 agosto 2023 

Un c.t. da mille e una notte, annunciato da un video sui social ieri alle 21: «Ho fatto la storia in Europa, ora è il momento di farla in Arabia». Dopo le dimissioni dall’Italia, Roberto Mancini oggi vola a Riad per la firma e la presentazione (alle 16 italiane) come tecnico dei «Falconi Verdi» che lo renderanno uno degli allenatori più pagati: l’accordo sarà fino al gennaio 2027, da trenta milioni all’anno esentasse, bonus compresi, secondo fonti arabe. 

[…] «Mi hanno trattato come il mostro di Firenze, sì, Pacciani... » dice all’agenzia Italpress. Per poi aggiungere via Instagram un commento più istituzionale, nel quale l’interesse arabo sembra sopraggiunto dopo le dimissioni dall’Italia, anche se non è così: «In questi giorni ho ricevuto una manifestazione di piena fiducia sulla mia persona e di apprezzamento del mio lavoro dalla Federcalcio araba che mi ha scelto per il prestigioso incarico di Head Coach della National Team. 

Sono entusiasta di aver accettato questo nuovo progetto che si fonda sulla condivisione della visione strategica di crescita del settore calcistico e in particolare del mondo dei giovani a cui tengo da sempre. Questo incarico è un riconoscimento del valore attribuito al calcio italiano e anche in questa esperienza porterò con orgoglio la nostra italianità nel mondo». 

L’orizzonte contrattuale è quello della Coppa d’Asia 2027, che l’Arabia ospiterà e che non vince dal 1996. Ma gli obiettivi — dopo la clamorosa vittoria sull’Argentina al Mondiale in Qatar — sono tanti, anche a breve termine: Mancini e il suo mega staff di 9-10 persone (Oriali sta valutando, altri riflettono sui 183 giorni di residenza nel Paese per godere dei benefici fiscali), debutteranno l’8 settembre in amichevole a Newcastle con la Costa Rica, nello stadio del Public Investment Found (Pif) di Riad. 

[…] 

L’obiettivo di Riad, che sta costruendo un campionato miliardario, è quello di diventare i migliori nell’area: il primo mondiale di lingua araba organizzato da Doha deve diventare un pallido ricordo. E Mancini, primo tecnico del City emiratino e campione d’Europa con l’Italia è considerato l’uomo giusto, per esperienza e immagine. 

Nei giorni scorsi, Mancini ha mandato un’altra Pec alla Figc per firmare la risoluzione del contratto, data la presenza di alcune opzioni per un nuovo impiego. La Figc non ha dato seguito alla comunicazione e il contratto resta da risolvere. Se ci sarà un contenzioso legale (ipotesi meno probabile), Mancini potrà puntare come motivazione per le dimissioni sui pezzi persi del suo staff (Evani, Sandreani) che porterà con sé in Arabia. Ma le trattative con Riad sono iniziate ben prima delle dimissioni del 13 agosto.

Estratto dell'articolo di Tony Damascelli per “il Giornale” lunedì 28 agosto 2023 

Si scordi il ciauscolo e derivati dal suino, Roberto Mancini, il figlio delle Marche, oggi diventa il figlio del deserto, così viene chiamata la nazionale saudita di calcio, ecco la verità, nient’altro che la verità sulla famosa «scelta personale» esibita dall’ex commissario tecnico azzurro, già campione d’Europa ma entrato nella storia per la mancata qualificazione al mondiale in Qatar, addirittura premiata con il rinnovo dell’incarico e nuove gratificazioni professionali. 

[…] Si chiude, per il momento, la farsa di questo bell’uomo e ottimo allenatore che ha interrotto la sua contraddittoria avventura azzurra macchiando la propria immagine più di quella della nostra nazionale. Una misera bugia, tipica della sua astuta arroganza, un tradimento dell’impegno che aveva assunto anche nei confronti dei ragazzi del gruppo azzurro, un comportamento capriccioso di un ragazzo viziato che da sempre ha approfittato, al di là dei propri effettivi meriti di campo, di cortigiani e violinisti a lui riverenti nel nome dell’amicizia goliardica. 

[…] 

Mancini viaggia su conti correnti diversi, la sua scelta è comprensibile, soltanto gli ipocriti si indignano per l’offerta clamorosa ma l’errore grossolano sta nella forma e nel comportamento, nessuna parola chiara, nessun ammissione di una svolta professionale anche comprensibile ma addirittura il vittimismo di chi presume di essere non soltanto più bravo ma anche più intelligente degli astanti. 

Tradimento e fuga, accompagnato dalla folta corte di avidi collaboratori, evito l’accenno ad Ali Babà. Prevedo che nel bagaglio appresso ci sia comunque una lettera di dimissioni. Anche con gli emiri, meglio premunirsi.

Ivan Zazzaroni per corrieredellosport.it lunedì 28 agosto 2023

È difficile, se non addirittura impossibile, caro Roberto, far credere al lettore, alla gente, che saresti rimasto in Nazionale se il presidente Gravina ti fosse venuto incontro sul tema dello staff (in fondo l’ha fatto) confermandoti così la fiducia più piena e convinta. Quella che non avvertivi da tempo, come confessasti a me e Alberto Dalla Palma, a febbraio. 

È difficile, se non addirittura impossibile, convincere gli italiani che per ben due volte rispondesti no agli arabi per restare in azzurro quando - a dicembre ‘22 e tre mesi fa, subito dopo il terzo posto nella Nations League - il tuo amico Nasser, franco-marocchino che lavora per la federazione saudita, ti invitò a trattare con l’Arabia per il posto da ct. «Resto con l’Italia fino ai Mondiali», furono le tue parole. 

È difficile, se non addirittura impossibile, pensare che tu non l’abbia fatto per i milioni, 70 fino a luglio 2027 (hai aggiunto la coppa d’Asia), anche se in questi quarantuno anni - ti conosco dall’82 - mi hai sempre ripetuto di non aver mai fatto scelte per la moneta. È difficile, se non addirittura impossibile, tenerti la parte, una volta valutate tempistica, coincidenze, supposizioni e certezze di molti tuoi colleghi e non solo. «Vedrai che il primo settembre Roberto sarà ct dell’Arabia, fidati di me» mi disse il presidente Gravina il 13 agosto quando ti dimettesti.

È anche difficile, se non addirittura impossibile, dimenticare il trionfo all’Europeo, quell’abbraccio con Luca, ma anche l’esclusione dai Mondiali per due rigori sbagliati. È difficile, se non addirittura impossibile, ma non per tutti. Visto che ho sempre creduto all’amico, voglio e devo continuare a farlo: mi piace pensare che, sì, saresti rimasto se… I tuoi messaggi di questi giorni erano tutti dello stesso tenore: «Cazzate, non ho firmato nulla, ti giuro che non me ne sarei andato, ma adesso sono libero di fare quello che mi pare…».

È difficile, se non addirittura impossibile, non ripensare ai tuoi discorsi sull’amore per la Nazionale. Che non è un club, non può né deve esserlo. Caro Roberto, è assai più facile e bello riconoscersi nelle parole di Oscar Wilde: «Un amico è qualcuno che ti conosce molto bene e, nonostante questo, continua a frequentarti». Hataa naltaqi mujadadan, arrivederci, amico mio. Sperabilmente nel 2026, soprattutto ai Mondiali.

Roberto Mancini ct Arabia: quei milioni di «motivi personali». Daniele Dallera su Il Corriere della Sera domenica 27 agosto 2023.

Perché Mancini avrebbe dovuto dire a Gravina che voleva andare in Arabia: sarebbe stato capito, è un’offerta irrinunciabile. Invece il presidente della Federazione si è sentito preso in giro 

Trenta milioni all’anno (con i bonus) di «motivi strettamente personali» per lasciare la Nazionale in mezzo a una strada. Roberto Mancini, che smentisce la dimensione dell’ingaggio, ha ragione quando sostiene che uno, qualsiasi cosa faccia, si può dimettere, lasciare il proprio posto di lavoro, capita a tutti, in particolare a quelli che hanno un mercato, alte responsabilità, un ruolo prestigioso. 

Tutto vero, ma se avesse detto, soprattutto a Gabriele Gravina, il suo datore di lavoro, che sarebbe andato in Arabia a fare il c.t.— sceicco avrebbe fatto miglior figura. I due si danno del tu: «Guarda Gabriele faccio le partite di settembre, contro Macedonia e Ucraina, poi vado via, ad allenare l’Arabia Saudita, mi hanno fatto un’offerta che non si può rifiutare…», questo avrebbe dovuto dire Mancini a Gabriele Gravina: uomo, manager, imprenditore, politico esperto, che conosce il mondo, Gravina ci sarebbe rimasto male, ma l’avrebbe arrangiata, avrebbe capito Mancini, invece si è sentito preso in giro, giustamente non ci sta, difatti lo ha raccontato al Corriere della Sera .

Mancini ha preferito parlare di «motivi strettamente personali», ha aggiunto addirittura «no, non lascio perché ho ricevuto un’offerta dall’Arabia…», ha parlato di atmosfere mutate in Nazionale e in federazione. Saranno anche cambiate, per carità, Evani non è stato trattato bene come forse avrebbe meritato, ma qui la cosa che viene rivoluzionata è il conto corrente di Mancini, come tutti quelli che vanno a giocare e allenare da quelle parti. Compresa la sua squadra di collaboratori, una compagnia di giro che sognava da tempo un giorno come questo: giusto che siano riconoscenti a Mancini.

Così come dobbiamo esserlo noi tifosi della Nazionale, Mancini ci ha regalato un titolo europeo, che resta, resterà per sempre, e purtroppo un Mondiale visto in tv. Ecco doveva evitare e risparmiarci questa ultima puntata, il copione è stato scritto male e recitato peggio.

Estratto dell'articolo di Gabriele Gambini per “La Verità” venerdì 25 agosto 2023.  

Quando un vaso di ceramica cade e si frantuma al suolo, diverse sono le reazioni possibili. Si può sfoderare l’arte del turpiloquio, fantasiosa e assai creativa dalle nostre parti anche grazie alle specialità linguistiche regionali. 

Oppure, se si ama il Giappone, si può provare col kintusgi: unire i pezzi rotti di un oggetto con l’oro, impreziosendone le cicatrici come tratto distintivo del tempo che passa e della ricchezza interiore acquisita. Vale come metafora.

Pensiamo a Roberto Mancini. Il rapporto con la Figc, in queste settimane, si è interrotto per incomprensioni e scarsa duttilità dei vertici del calcio nostrano a gestire al meglio la controversia. Lui ha scelto di defilarsi, ma l’oro per abbellire le sue cicatrici esistenziali lo ha trovato eccome.

Diciamola tutta. Il portafoglio di un commissario tecnico di una nazionale di calcio non è mai stato tanto pingue come oggi: l’accordo con la selezione dell’Arabia Saudita sta essere annunciato, i dettagli sarebbero stati limati. 

Il Mancio firmerebbe un contratto fino al 2026 da 25-30 milioni di euro netti all’anno. Uno sproposito. Le sirene arabe blandivano l’allenatore già da diversi mesi e hanno prevalso. Gabriele Gravina dovrebbe archiviare questa conclusione di telenovela fra le svariate onte per il pallone tricolore. Insomma, agli arabi si presentava un ventaglio di possibilità per sostituire Hervè Renard, ct francese capace di conquistare il cuore di Riad portando la nazionale ai scorsi Mondiali del Qatar e migliorandone le qualità fisico-tattiche con l’arguzia tecnica degli specialisti europei: c’erano molti nomi, c’era Mourinho, c’era anche Mancini. Ma alla fine hanno scelto proprio Mancini. In parole povere sono riusciti a scippare - termine grossolano, però rende l’idea - un allenatore dalla panchina della Nazionale quattro volte campione del mondo.

Una figura niente affatto lusinghiera per noi. Il mister di Jesi ci ha messo del suo, si è sentito, ha detto, poco considerato, avrebbe visto i suoi più stretti collaboratori collocati altrove per far spazio a nomi a lui poco graditi. Ma, abbandonando gli azzurri con un’email da Mykonos, si è consolato alla svelta. Non sarà da solo nella nuova avventura, molti dei suoi pretoriani lo scorteranno. 

Si vocifera che nello staff arabo lo accompagni Lele Oriali, ex team manager dell’Italia, oltre al tattico Andrea Gagliardi e ai fedelissimi ex blucerchiati Salsano, Nuciari, Lombardo, non scordando Battara e Scanavino. Insomma, un’Arabia saudita al sapor di pasta al pomodoro, ben lieta di spendere i suoi danari ingaggiando la meglio italianità. Come Mancini risolverà la grana contrattuale con Gravina è da capire. Di certo il presidente federale italiano non ha usato parole al miele nei confronti del suo ex ct: «Avevamo un rapporto professionale e di amicizia, le sue affermazioni sono state offensive e inopportune, non me le meritavo.

Quanto all’allontanamento del suo staff come motivazione del suo addio, posso dire che solo Evani era uscito. Ed era in Nazionale prima dell’arrivo di Roberto. Di recente gli avevamo rafforzato il gruppo con Barzagli e Gagliardi, nomi indicati da lui». Tra le righe, Gravina vorrebbe intendere: in verità, Mancini aveva già pianificato di andarsene. Nonostante, qualche giorno prima, il diretto interessato avesse sottolineato: «Se a Gravina fosse interessato tenermi sulla panchina degli azzurri, mi avrebbe chiamato». Resta il fatto che l’Italia fa una figura poco edificante agli occhi del mondo e pure la questione dell’ingaggio di Luciano Spalletti, nuovo ct, presenta criticità. 

La clausola rescissoria imposta da Aurelio De Laurentiis per lasciar libero l’ex allenatore del Napoli - circa 3 milioni di euro - è ancora motivo di contenzioso tra avvocati, la piazza partenopea pare parteggiare per il patron, considerando i termini dell’addio di Spalletti, tutt’ora alle prese con la controversia giuridica, poco chiari e poco onorevoli per la città campana, e a inizio settembre ci aspettano al varco le partite contro la Macedonia del Nord e l’Ucraina in vista della qualificazione a Euro 2024. Compagini non irresistibili, ma se si perde son dolori. Nel frattempo, Mancini dovrà mettere a punto il suo progetto mediorientale. Il campionato saudita sta accrescendo il potenziale a vista d’occhio, complice l’innesto progressivo dei più fecondi pedatori del mondo. L’obiettivo della monarchia araba è qualificarsi ai prossimi Mondiali, ma anche vincere la Coppa d’Asia in programma dal prossimo gennaio. 

Non accade dal 1996.  

(...)

Estratto da open.online giovedì 24 agosto 2023

Oggi la Gazzetta dello Sport dedica una prima pagina a tutto tondo sull’ex ct degli azzurri Roberto Mancini che andrà alla guida della Nazionale araba. «Da Riad – spiega il quotidiano sportivo in un articolo a firma di Fabio Licari – arriva insistente la voce che per Mancini sia quasi fatta. Potrebbe essere questione di giorni, poi il nuovo c.t. sarà annunciato con il suo staff. Si parla di un ricco contratto da 25-30 milioni all’anno fino al Mondiale nordamericano del 2026 che non è però il primo obiettivo: a gennaio c’è subito la Coppa d’Asia in Qatar, vinta tre volte dai sauditi, ma l’ultima risale al 1996, preistoria». 

(...) 

Chi tratta per Mancini

La Gazzetta anticipa che a breve Mancini terrà una riunione per organizzare il team. Sul suo incarico, spiega, non è la federazione saudita a trattare direttamente: in questi casi entrano in gioco i plenipotenziari della famiglia reale. Lo staff, dai salari altissimi e con svariati benefit, dovrebbe comprendere Salsano, Lombardo, Nuciari, Battara, Gagliardi, Scanavino e forse Oriali che non proseguirà il rapporto con la Figc. Rimane la questione della risoluzione consensuale del contratto con la Figc. 

«Ma è chiaro – riporta la testata – che andrebbe lo stesso ad allenare in Arabia, come altrove, a prescindere da eventuali strascichi in tribunale». In Arabia vogliono iniziare subito. La nazionale è impegnata in una doppia amichevole a Newcastle, Inghilterra, l’8 settembre con la Costa Rica e il 12 con la Corea del Sud. A novembre partono le qualificazioni asiatiche al Mondiale 2026, secondo turno. Dal 12 gennaio al 10 febbraio comincia la Coppa d’Asia (in Qatar). Insomma, non c’è tempo da perdere.

Estratto dell'articolo di Giulia Cazzaniga per “La Verità” lunedì 21 agosto 2023.

Non aveva dubbi che la decisione sarebbe ricaduta su Luciano Spalletti, Renzo Ulivieri, ma avverte subito che se gli chiediamo valutazioni sul nuovo Ct della Nazionale sarà «esagerato». E lo dice con un sorriso soddisfatto perché lo lega a lui «troppa amicizia da sempre»: «Da casa mia vedo quasi casa sua, non posso che parlarne bene, no?». All’attivo Ulivieri ha la carriera di calciatore e quella di allenatore che lo ha reso celebre. Si è pure impegnato in politica. Oggi presiede l’Associazione italiana allenatori calcio da ben quattro mandati. Ottantadue anni, risponde al telefono dalla sua San Miniato.

Cosa si dice nell’ambiente calcio? Quali sono i veri motivi dell’addio di Roberto Mancini?

«Mi sembra una faccenda molto vaga e poco chiara, se devo essere sincero». 

L’ex mister azzurro ha parlato di rinnovi dello staff non richiesti, ma sembra che la mancata eliminazione della clausola sulle qualificazioni all’Europeo sia stata decisiva.

«Non sono convinto sia stato detto tutto. È vero che lo staff è un elemento importantissimo per l’allenatore, ma ho l’impressione che nei prossimi mesi, o chissà anni, salterà fuori il retroscena decisivo». 

E se avesse già firmato con l’Arabia Saudita? Si dice potrebbe diventare il secondo allenatore più pagato al mondo.

«Fare ipotesi a caso non mi garba, non le dirò qual è la mia idea.

Ribadisco: stiamo a vedere». 

La hanno mai corteggiata da Oriente?

«Mi è capitato di avere a che fare con Turchia e Russia, ma ai tempi miei andare ad allenare all’estero voleva dire “uscire dal giro”, pure se si trattava di una squadra importante come capitò a me. Era pericoloso per la carriera, andare oltre confine, si rischiava di compromettersi. Non c’era la circolazione di mercato di oggi».

Si è cambiato in meglio?

«Al contrario: avere i Paesi arabi che si comprano tutto è un problema non solo per noi, ma anche per Uefa e Fifa. Perché diventa un mercato falsato, c’è poco da aggiungere. Si sa che non ho particolare simpatia per il libero mercato, questo è da premettere. Ma mi sembra logico che chi mette al primo posto il denaro ha altri obiettivi: il calcio è un mezzo per apparire, apparire nel mondo». 

Se la squadra gioca bene, d’altra parte, pure l’Italia ne fa un merito.

«Siamo però la dimostrazione eccezionale che per vincere abbiamo bisogno di buoni calciatori italiani, che facciano esperienza e che si ritrovino al momento giusto al massimo rendimento della carriera. Così è accaduto con i nostri quattro titoli mondiali». 

Dopo l’addio di Mancini la Nazionale è al centro delle polemiche. Con De Laurentiis che non arretra sulla penale con il Napoli, l’ex senatore Quagliariello ha detto che la Federcalcio si comporta come fossimo in Unione sovietica…

«Lasci dire, lasci dire. La verità è che ci fanno comodo anche le polemiche, menomale che ci sono. Perché uniscono. Noi italiani siamo così: un popolo che nelle difficoltà si compatta meglio di quando la strada è in discesa. Lo dice la nostra storia, non solo sportiva. E poi guardi che il calcio è una cosa seria».

Lo ribadisce perché sta parlando con una femmina?

(Ride) «Ma no, lo dico perché lo è davvero». 

Nei giorni scorsi se l’è presa con lei l’allenatrice Carolina Morace, dice di non essere stata chiamata a causa sua per la successione a Milena Bertolini, lei ha diramato una nota…

«Non è il momento di polemiche da ombrellone o personalismi. Il calcio femminile in Italia sta attraversando un momento di crisi, ma vedo pure tanto entusiasmo e resto fiducioso». 

Anche lei ha allenato le donne, qualche anno fa.

«Ho avuto il vantaggio di essere entrato in quel mondo già da anziano. Mi dissero: devi saperti adeguare». 

Lo ha fatto?

«Al contrario. Sono arrivato e ho detto invece alla squadra che si sarebbe adattata a me. Le cose poi sono andate bene. Perché il calcio è calcio, non c’entra il genere di chi lo gioca. Non ci sono altre logiche se non scegliere la miglior formazione per la partita della domenica. Ma sul calcio come atto politico mi lasci dire un’altra cosa».

Per lei la politica è una passione vera, è un combattente.

«Non saprei che dirle, “combattente” mi sembra una parola grossa, non esageri».

 Qualche anno fa si incatenò persino al cancello della Figc per difendere il patentino allenatori…

«Lì mi trovai solo, completamente solo, e agii per amore di questo sport. Ero disperato, più ancora che incazzato. Ecco, volevo dirle proprio che a me garba la giustizia soprattutto. Non sarò soddisfatto finché ogni squadra di bambini non avrà un allenatore diplomato.

Perché ogni ragazzino ha il diritto di avere qualcuno di qualificato accanto a lui. La funzione educativa dell’allenatore è fondamentale. Sono arrivato a pensare che c’entri anche con l’astensionismo di questo Paese, sa?». 

Alle urne, intende?

«Sì, si sta smarrendo il senso della partecipazione. Si vive isolati. Per come lo intendo io, l’allenamento di calcio è il miglior antidoto e insegna, alla Giorgio Gaber, che libertà è partecipazione. Che sia a destra o a sinistra, non mi importa, a me quel che preoccupa è la sfiducia». 

Lei era iscritto al Partito comunista. Ora?

«Fino a 3 mesi fa ero con Potere al popolo, tesserato»

Non più?

«Sto riflettendo». 

Sedotto da Meloni? O da Elly Schlein?

(Ride ancora di gusto) «No, no, non esageriamo. Sto cominciando però a pensare che attività e posizioni di sinistra devono poter incidere, servire per davvero, per aiutare i deboli. E pure i lavoratori, con gli stipendi che ci sono al giorno d’oggi. Mi viene il dubbio che sia da cambiare strategia, perché si rischia di smarrire il senso della realtà». 

Possibile che, come sostiene qualcuno, la premier si stia intestando alcune battaglie di sinistra?

«Eh, guardi, questo tema in effetti c’è. Come andrà a finire sarà tutto da verificare. Resta il fatto che che noi pensavamo di essere quelli con il sol dell’avvenire in tasca e un mondo migliore per tutti, e invece…».

(…)

Estratto dell’articolo di Paolo Fiorenza per fanpage.it domenica 20 agosto 2023.

In questo agosto surreale per il calcio italiano, può accadere che se da un lato la Federcalcio e Spalletti finiscano in tribunale […], dall'altro la stessa FIGC intraprenda a sua volta azioni legali nei confronti di Roberto Mancini nel caso in cui l'allenatore jesino dimissionario decida di accasarsi immediatamente in Arabia Saudita, dove è c'è pronto per lui un contratto di tre anni da 40 milioni netti complessivi. 

Sembra una commedia e forse lo è, ma a ridere sono soprattutto i media esteri che osservano lo scempio del nostro calcio, con un Ct che lascia all'improvviso il 12 agosto a pochi giorni da due partite decisive per la qualificazione ai prossimi Europei e una Federazione che è appesa ai pareri dei propri legali per poter muovere qualsiasi passo.

Mancini era legato all'Italia da un contratto da 3 milioni netti annui fino al 2026, un vincolo che non gli consente di liberarsi a zero qualora – come pare sia nelle sue intenzioni – voglia subito sedersi su un altra panchina. Dunque anche lui dovrà pagare – esattamente come Spalletti – per essere libero di accettare altre offerte durante il periodo residuo del contratto.

[…]  Non sarà una cosa veloce, […] non solo per il fatto che il Ct ha ‘appeso' l'Italia senza alcun preavviso alla vigilia degli impegni di settembre con Ucraina e Macedonia, ma pure perché era vincolato anche da accordi come testimonial per tre sponsor della Federcalcio: Poste Italiane, Telepass, Facile Ristrutturare. Tutte cose che hanno un peso economico da quantificare: non finirà a tarallucci e vino. 

Quanto alle ragioni di un addio così improvviso e inatteso, Mancini nel suo sfogo rilasciato ad alcuni giornali ha parlato soprattutto di un motivo che lo ha indotto a trarre le conclusioni che lo hanno portato alle dimissioni: la recente rivoluzione nel suo staff, che a suo dire gli sarebbe stata imposta.

"Si è mai visto un presidente federale che cambia lo staff di un Ct? Gravina è da un anno che voleva rivoluzionarlo, io gli ho fatto capire che non poteva, che al massimo poteva inserire un paio di figure in più, ma che non poteva privarmi di un gruppo di lavoro che funzionava, che funziona e che ha vinto l'Europeo. Semmai sono io che potevo sostituire un membro dello staff – ha spiegato lo jesino, facendo capire che quello era un modo per sfiduciarlo di fatto – Da un po' di tempo lui pensava cose opposte alle mie, per questo doveva mandare via me. Invece ha colto l'occasione perché alcuni miei collaboratori erano in scadenza e ha giocato su questo". 

Una ricostruzione che tuttavia non collima col contenuto dell'sms che la moglie di Mancini, Silvia Fortini, ha inviato a Gabriele Gravina l'8 agosto – quattro giorni prima delle dimissioni – per informarlo del ‘malessere' del marito e fargli capire che sarebbe stato meglio chiamarlo.

Telefonata poi avvenuta e conclusa con un "ci dormo sopra e la notte mi porterà consiglio" da parte dell'ex Ct, che di lì a poco avrebbe lasciato. Ebbene, in quel sms mandato al presidente federale dalla moglie del tecnico, che è avvocato e segue anche gli interessi dell'allenatore, non c'era alcun riferimento allo staff di Mancini, come svelato dalla Gazzetta dello Sport. 

La parola "staff" manca del tutto, il messaggio parte con una premessa per capire se Gravina sia in vacanza e possa essere disturbato, e poi va al sodo della questione in maniera molto concreta. Il nocciolo è uno solo, è lì l'inquietudine del Ct: la clausola presente nel contratto di Mancini che consente di dargli il benservito qualora non si qualificasse per i prossimi Europei, dunque con due anni di anticipo sul contratto rinnovato nel 2021.

La moglie di Roberto chiede al presidente della FIGC di eliminare quella clausola risolutiva, che agita i sonni del marito, soprattutto dopo che le qualificazioni non sono partite col piede giusto, con la sconfitta casalinga con l'Inghilterra. 

E del resto lo stesso Mancini – a precisa domanda – ha confermato che avrebbe voluto "un segnale" su questa questione: "La clausola? Eliminarla avrebbe potuto essere un segnale. Lo avevo chiesto per lavorare tranquillo in questi mesi, ma è chiaro che sarei andato via se non fossimo riusciti a qualificarci". Peggio di così, davvero non poteva finire.

Estratto dell’articolo di Emanuela Audisio per “la Repubblica” giovedì 17 agosto 2023.

Non è mai stata una poltrona per due. Ma molto condivisa. Anzi molto affollata, con 60 milioni di italiani arrampicati sopra. E non in modo virtuale. Tutti ct senza dubbi, molto sovversivi, con la loro idea di chi far giocare. E pronti a fare la formazione sulla poltrona che scotta. Il mestiere più difficile del mondo, quello dell’allenatore della Nazionale di calcio italiana […] 

Lancio di fitti pomodori a parte, la Corea del ct Edmondo (Mondino) Fabbri durò per tutta la vita e divenne un modo di dire una brutta cosa, una sciagura, quel diagonale di Pak Doo Ik che s’infilò alla destra di Albertosi a Middlesbrough, devastò non solo quella trasferta, ma l’intera esistenza del ct. Tanto che nel ’94, un anno prima della sua morte, Fabbri ancora ripeteva: «Non auguro a nessuno di provare quello che ho provato io». Esagerato, penserete.

Così tanto per rinfrescarci la memoria: l’aereo atterrò a Genova dove si sperava in un’accoglienza più clemente e dove invece gli lanciarono di tutto, fu costretto ad uscire dall’aeroporto nel baule della macchina del cugino della moglie. Qualche cartello simpatico nei cantieri: «Si accettano manovali azzurri, approfittate, si accetta anche Fabbri». Altre scritte più pesanti sui muri di molta Italia, «A morte Fabbri», tanto che gli venne assegnata una scorta personale. 

Fabbri diventò non un ct sfortunato, ma il nemico pubblico numero uno, per cercare un po’ di pace fu costretto a ritirarsi tra le mura dell’eremo di Camaldoli. Un’umiliazione totale: rescissione del contratto, squalifica di sei mesi e un accertamento fiscale da Al Capone. Così imparava a farsi fare gol dai nordcoreani. La brutta figura all’Italia del calcio era reato.

La stampa ricordò i difetti di Mondino: la bassa statura, il carattere poco incline ai compromessi e l’essere nato a Castel Bolognese, a nemmeno 40 chilometri da Predappio, dove un altro dittatore romagnolo aveva fallito. Onestamente, cosa c’entrava? La scusa: era l’Italia del boom, non poteva scendere così in basso. 

Italia-Germania 4-3 se la ricordano tutti, ci mancherebbe. Messico, 1970, finale con il Brasile, 4-1 per Pelé e compagni. I 6 minuti di Gianni Rivera decisi dal ct Ferruccio Valcareggi. La nazionale azzurra rientra su Roma. Il comandante dell’aereo avvisa: «Ci sono diecimila tifosi a Fiumicino, meglio dirottare verso Ciampino» Ma il presidente Franchi risponde: «Non possiamo privare i nostri sostenitori della gioia di abbracciare i tifosi».

Sulla pista un altro film, poco trionfale: i tifosi cercano di ribaltare il bus di Walter Mandelli, presidente del settore tecnico, il coro è: «Viva Rivera, Mandelli in galera». Clima da guerra civile, lunghe contestazioni a Valcareggi e a Franchi. E questo per essere arrivati secondi dietro un Brasile stellare. 

Se siedi su quella poltrona non sei intoccabile. Anzi stai lì a prenderti le freccette e i colpi bassi. Anche se sei un ct campione del mondo e un immenso (ex) portiere. Dino Zoff il 4 luglio 2000 ci mise sette minuti a dimettersi dalla panchina dell’Italia. Silvio Berlusconi lo aveva appena definito: «Indegno e dilettante ». Aggiungendo che Zidane doveva essere marcato a uomo. Questo per la finale degli Europei persa dall’Italia 2-1 (golden gol di Trezeguet). La Nazionale è di tutti, no? Per Zoff: «Le frasi di Berlusconi sono andate oltre i confini della critica».

[…] Arrigo Sacchi nel ’91 è stato il primo grande tecnico vincente di club ad arrivare in Nazionale. Prima di Zoff, Trapattoni, Lippi, Prandelli, Ventura, Conte, Mancini. Ma la passione dell’Italia verso quella poltrona forse si è affievolita o perlomeno ora si accende a intermittenza. Mario Sconcerti sull’Italia del calcio ha scritto: «È una parte di casa nostra dove si passa, si pranza, e non si paga. È un abbraccio, non sono viscere». 

Per dire che più della radice comune, conta quella locale, le piccole patrie. Una volta il ct che lasciava la panchina il 13 agosto, anche con valide ragioni personali, a un mese dalle qualificazioni europee sarebbe stato crocefisso, ieri nessun tg serale ha aperto con la notizia di Mancini, relegandola allo sport. […]

Estratto dell’articolo di Paolo Condò per “la Repubblica” lunedì 14 agosto 2023

Roberto Mancini è stato il quinto commissario tecnico a vincere un grande torneo con la Nazionale dopo Vittorio Pozzo, Ferruccio Valcareggi, Enzo Bearzot e Marcello Lippi, e basterebbe questo pantheon per descrivere l’importanza dei suoi cinque anni sulla panchina dell’Italia. Sono deludenti le modalità dell’addio, questo sì, perché se avesse chiuso con l’azzurro a giugno dopo la Nations League — desiderio che un po’ tutti gli leggevamo in viso, in coda ai mesi più tristi della sua vita — avrebbe messo un fiocco sull’intera esperienza […]

Il nostro giudizio rimane quello più volte espresso: […] Si è letteralmente inventato dei (buoni) giocatori, da commissario tecnico, segnalando in modo politicamente spietato le resistenze dei club all’utilizzo di giovani italiani. Un addio a giugno sarebbe stato nell’ordine delle cose. Mancini avrebbe concesso al successore l’intera estate per entrare nel nuovo ruolo e studiare i sommovimenti in atto, ben rappresentati dal modo in cui Tonali si è subito impadronito del Newcastle. Così, chi verrà […] dovrà organizzare in fretta e furia le convocazioni e accontentarsi del mini ritiro prima del viaggio in Macedonia del Nord per disegnare la sua prima formazione, in campo il 9 settembre. […] Mancini non lascia un’Italia ormeggiata in porto, ma in mezzo a un mare agitato.

[…] Perché l’ha fatto? L’interpretazione delle nomine del 4 agosto a lui favorevole era evidentemente sbagliata, o almeno esagerata: dai tempi della Samp il suo stile di vita […] è imperniato su un gruppo di fedelissimi con i quali discutere una scelta tattica ma anche svagarsi a cena, ed è possibile che qualche allontanamento di troppo abbia finito di rompere un cristallo già incrinato dalla perdita di Vialli.

Il tam-tam del mercato non può fare a meno di rilanciare un interesse della nazionale saudita, che a gennaio giocherà la coppa d’Asia e al momento è senza ct: gli assegni di principi, emiri e sceicchi ci hanno ormai tolto il diritto a qualsiasi ingenuità, ma ugualmente non vogliamo pensare a un passaggio troppo rapido. Per lo stile che gli riconosciamo, mica per altro.

Dagospia domenica 13 agosto 2023. PERCHÉ MANCINI SI È DIMESSO IMPROVVISAMENTE DA CT DELLA NAZIONALE? DOVE NASCE “IL DISAGIO" DEL CT CHE RECENTEMENTE ERA STATO NOMINATO COORDINATORE DELL'UNDER 20 E DELL'UNDER 21? IL CAMBIO DI STAFF, LE VOCI SU BONUCCI E BUFFON – CARESSA: “LE DIMISSIONI DI MANCINI MI SORPRENDONO IL GIUSTO. SI ERA ROTTO QUALCOSA, SI ERA CAPITO GIÀ DURANTE LE FINALI DI NATIONS LEAGUE IN OLANDA. LUI AVEVA PERSO ENTUSIASMO DOPO L’ELIMINAZIONE DAL MONDIALE, ANCHE FORSE DOPO LA…”

Perché Mancini si è dimesso improvvisamente da commissario tecnico della Nazionale? Dove nasce “il disagio“ del Mancio che recentemente era stato nominato coordinatore dell'Under 20 e dell'Under 21? 

Si sussurra che il tecnico di Jesi non abbia preso bene il cambio di staff. Dei suoi collaboratori storici è rimasto il solo Salsano con Attilio Lombardo dirottato alla guida dell’Under 20 e “Chicco” Evani che ha lasciato la Federazione. Secondo gli addetti ai livori, Mancini non pare neanche aver gradito la nomina di Carmine Nunziata come nuovo ct dell’Under 21. Qualcosa non torna. Infatti anche il ministro Abodi si è chiesto: “Le nomine dello staff tecnico azzurro annunciate recentemente erano state concordate con lui o no?". Si rincorrono le voci, le chiacchiere. Il presidente della FIGC Gravina avrebbe spinto per l'inserimento del difensore della Juventus Leo Bonucci nello staff della Nazionale, una linea non condivisa con Mancini. 

Inoltre il ct dimissionario non sarebbe stato d’accordo con la scelta come capo delegazione della Nazionale di Gigi Buffon che dopo l’eliminazione dal Mondiale parlò di "batosta" e graffiò: “qualche responsabilità ce l'ha anche Mancini”. 

Quanto ha influito sulla decisione del tecnico marchigiano il fatto di avere una Nazionale dalla qualità modesta, con diversi problemi in difesa, a metà campo e soprattutto in attacco? 

Fabio Caressa (Sky Sport) spiega in un video pubblicato sui social. “Le dimissioni di Mancini mi sorprendono il giusto. Si era rotto qualcosa, si era capito già durante le finali di Nations League in Olanda. Lui aveva perso entusiasmo dopo l’eliminazione dal Mondiale, anche forse dopo la scomparsa di Vialli. Sicuramente ha influito il cambio di staff, ma alla fine è meglio così. La Nazionale ha bisogno di nuovo entusiasmo. Spero che si vada su un allenatore importante…” 

Antonio Di Cello per sportface.it domenica 13 agosto 2023.

13 agosto 2023 passerà alla storia come il giorno delle dimissioni di Roberto Mancini. Sono arrivate a riguardo le parole del Ministro dello Sport, Andre Abodi. Il Ministro ha parlato delle dimissioni improvvise del tecnico ai microfoni dell’ANSA. Queste le sue parole. 

Abodi: “Sono dispiaciuto e perplesso, è una decisione che arriva a sorpresa a Ferragosto: tutto molto strano. “L’ho saputo dai media. Tra l’altro mi viene da pensare: le nomine dello staff tecnico azzurro annunciate recentemente erano state concordate con lui o no?“.

Estratto dell’articolo di Alessandro Bocci e Paolo Tomaselli per corriere.it domenica 13 agosto 2023.

Una Pec, arrivata sabato sera molto tardi negli uffici della Federcalcio, ha sancito il clamoroso divorzio: Roberto Mancini non è più l’allenatore della Nazionale. Tra settembre e novembre, in sei partite, si sarebbe giocato le qualificazioni all’Europeo 2024, ma con il presidente Gravina aveva parlato di programmi sino al Mondiale americano del 2026 e concordato un drastico rinnovamento dello staff per questa seconda fase del viaggio azzurro. 

Mancini era stato accontentato: voleva la promozione di Bollini, che era stato promosso suo vice, l’ingresso nel gruppo di lavoro dell’ex difensore Barzagli e il ritorno del match analyst Gagliardi. Niente avrebbe fatto prevedere qualcosa di così netto, tranciante.

La Federcalcio è stata presa in contropiede. Gravina nei giorni scorsi, parlando con amici e famigliari di Mancini, aveva capito che qualcosa non andava. Roberto, dicevano, è nervoso […] a meno di una settimana dalle pre convocazioni per le decisive partite di settembre, il 9 a Skopje contro la Macedonia e il 12 a Milano con l’Ucraina si è dimesso. Due gare da vincere per riaggiustare la classifica del girone e mettere la strada in discesa verso l’Europeo in Germania che dobbiamo difendere al meglio. 

Mancini verso la Nazionale dell’Arabia Saudita?

La Federcalcio sta cercando di capire se dietro il disagio dell’ormai ex c.t. ci sia un’offerta irrinunciabile: le indiscrezioni parlano della possibilità che vada ad allenare la Nazionale dell’Arabia Saudita. […]

La moglie di Roberto Mancini Silvia Fortini e il suo ruolo nelle dimissioni: la prima ad avvisare Gravina. Storia di Daniele Dallera su Il Corriere della Sera domenica 13 agosto 2023.

I primi sospetti che stia accadendo qualcosa di grosso, di Irrimediabile nascono dalla sensibilità di una donna, avvocato. Oltre che del cuore innamorato di Roberto, si occupa anche della sua carriera. Ma adesso è l’uomo che la preoccupa, capisce che c’è un malessere. Sono giorni tesi in casa Mancini, non può essere diversamente, Roberto ha dei dubbi, si confida ovviamente con la moglie. Con nessun altro.

Non sono vacanze serene quelle di casa Mancini. Ogni tanto arriva la telefonata di Andrea, il figlio di Roberto, che sta facendo il praticantato da ds, i primi passi, nella Samp, ha bisogno di consigli di papà. Sono gli unici momenti di svago di Mancini, che ha sempre nel cuore la Samp, ma questo «malessere del ct» esiste, diventa profondo, prende spazio nella sua vita e arriva naturalmente in Federazione, negli uffici presidenziali di Gabriele Gravina.

Venerdì sera, dopo aver sentito la moglie Silvia, il presidente chiama Mancini, parlano a lungo, è una telefonata serena, Gravina si rende conto che il malessere c’è, è reale, difatti lo rincuora, gli sta vicino come sempre, gli ricorda che solo pochi giorni fa hanno deciso programmi e struttura della Nazionale, insieme hanno deciso le nomine di nuovi collaboratori, le scelte di Mancini sono state assecondate, concordate (non quella di Buffon che è di pertinenza di Gravina). Mancini ringrazia il presidente, per la telefonata, per le parole dette, ma la chiacchierata si conclude con un «grazie presidente, ci dormo sopra e la notte mi porterà consiglio…».

Chi è l’ex ct dell’Italia Roberto Mancini: il padel, la meningite, il tifo per la Juve, il cachemire

Una frase che significa tutto e niente. Ma mette in allarme, in ansia Gravina. Che non pensa però alle dimissioni. Fino a quando non arriva la mail di Mancini: mi dimetto. Ora bisognerà capire dove andrà a finire quel «malessere da ct». Presto lo sapremo. Ma la prima a capirlo, a saperlo, anche stavolta sarà la moglie avvocato Silvia Fortini.

Chi è l’ex ct dell’Italia Roberto Mancini: il padel, la meningite, il tifo per la Juve, il cachemire. Redazione Sport su Il Corriere della Sera domenica 13 agosto 2023.

L’allenatore dell’Italia si è dimesso, lasciando un grande vuoto. Ecco chi è il «Mancio». grande calciatore, grande tecnico, ma soprattutto un uomo dalle idee decise

Roberto Mancini si dimette da c.t. della Nazionale

L’aveva condotta alla vittoria degli Europei nel 2021, dopo un’attesa durata oltre 50 anni. Ma ora la lascia a sorpresa in pieno agosto. Roberto Mancini si è dimesso all’improvviso da c.t. della Nazionale italiana di calcio. Questo il comunicato ufficiale della Figc: «La Federazione Italiana Giuoco Calcio comunica di aver preso atto delle dimissioni di Roberto Mancini dalla carica di Commissario Tecnico della Nazionale italiana, ricevute ieri nella tarda serata. Si conclude, quindi, una significativa pagina di storia degli Azzurri, iniziata nel maggio 2018 e conclusa con le Finali di Nations League 2023; in mezzo, la vittoria a Euro 2020, un trionfo conquistato da un gruppo nel quale tutti i singoli hanno saputo diventare squadra»

Grande calciatore e grande allenatore

Roberto Mancini è stato uno dei più grandi calciatori italiani. È ancora uno dei più grandi allenatori italiani. E uno dei soli 5 c.t. vincenti della storia del calcio italiano. Da calciatore Roberto Mancini aveva vinto praticamente tutto, ma con la Nazionale non aveva mai avuto un grande rapporto: ci aveva giocato 36 volte, segnando 4 gol. Pochissimo, considerando che di attaccanti (meglio: «fantasisti») con la sua classe e i suoi piedi in Italia se ne sono visti pochi. Da quando però si è seduto sulla panchina azzurra sembra essere nato per l’azzurro: empatia col gruppo, buonissime critiche, soprattutto risultati e sviluppo di una continua e esaltante politica dei giovani e del «bel gioco». Nonostante l’esclusione dai Mondiali del Qatar 2022 che avevano portato a non poche polemiche sulla sua figura (da più parti erano state chieste le dimissioni) Mancini era rimasto al timone degli azzurri portandoli al terzo posto in Nations League. Ma qualcosa ribolliva in pentola e quindi ha deciso di dire addio alla Nazionale.

Addio al sogno Mondiali

Mancini deve rinunciare così al suo sogno di bambino, cioè diventare campione del Mondo con la Nazionale italiana. Del resto il Mondiale per lui da calciatore è stato solo un incubo visto che, nonostante la sua grandezza, non ci ha giocato neanche un minuto. Messico 1986 lo perse per una bravata: una notte in discoteca al mitico Studio 54 con Marco Tardelli che fece imbufalire Bearzot. Accadde a New York, nel 1984. Sei anni dopo, a Italia 1990, Vicini lo tenne 70 giorni in ritiro senza regalargli neanche dieci minuti di gioia, né una spiegazione. Poi, nel 1994, Mancini si fece fuori da solo all’aeroporto di Malpensa, contestando Sacchi e sbattendo la porta: era il 23marzo, aveva accettato (anche se a fatica) di fare il vice Baggio, ma a Stoccarda il Codino non c’era. Quella doveva essere la notte del Mancio, che però venne sostituito da Zola. Al ritiro bagagli, Roberto non si tiene: «Non è stato ai patti, non mi chiami più. Con la Nazionale ho chiuso» dice ad Arrigo. Che lo prenderà in parola.

Nato juventino

Marchigiano, nato e cresciuto a Jesi, profondamente legato alle sue radici, figlio di un falegname, Aldo, e di una casalinga, Marianna, da ragazzo Roberto tifava Juventus e il suo idolo era Roberto Bettega, un altro attaccante che faceva dell’eleganza la sua cifra stilistica. Negli anni la passione si è annacquata. E la squadra del cuore di Mancini è diventata per sempre la Sampdoria.

Il Milan e l’indirizzo sbagliato

Nel 1977, Mancini era il miglior talento di Jesi., dove è nato. Fece un provino col Milan, giocò divinamente, i dirigenti rossoneri gli dissero: tieniti pronto, puoi già considerarti nostro. Mancini tornò a casa e cominciò a sognare. Passò una settimana, ne passò un’altra, e la lettera di convocazione non arrivò mai. Qualche anno dopo, Mancini scoprì che il Milan aveva spedito la lettera all’indirizzo sbagliato: non all’Aurora (dove giocava Roberto) ma alla Real Jesi.

La meningite

Mancini la ricorda come la lezione più importante della sua vita, la vicenda che gli ha cambiato prospettiva. A SportWeek ha raccontato: «Sono sempre stato molto fortunato, ho avuto la meningite da piccolo e me la ricordo come se fosse ieri, non so per quale motivo. Ero giovanissimo, avevo 10anni e ricordo tutto di quel giorno. E poi quando ho iniziato a capire qualcosa, mi hanno detto che ero stato molto fortunato. Avere avuto una malattia per cui in quegli anni lì si poteva morire facilmente è una cosa a cui penso spesso»

Il gemello Vialli

Con Gianluca Vialli ha costituito una coppia inseparabile: in campo nella Sampdoria dello scudetto 1991, fuori nella vita divertente e divertita di due amici per la pelle. E alla morte di Gianluca, avvenuta per un tumore che non gli ha lasciato scampo, è come se avesse perso un parte del suo io più profondo.

Cucciolo

Nella vita del Mancini giocatore, oltre a Vialli, ha contato anche tutto il gruppo della grande Sampdoria degli anni ‘90. Una squadra ma, soprattutto, amici. A quei tempi i «capi» dello spogliatoio erano i «Sette nani» che si riunivano nel ristorante da «Edilio», proprio dietro Marassi. Col Mancio c’erano Vialli, Mannini, Lombardo e gli altri. Mancini era «Cucciolo».

Sarri ( e le libertà)

Tanti gli episodi che costellano invece la carriera di Mancini allenatore. Nel 2016, al termine di Napoli-Inter di Coppa Italia, fu celebre la sua denuncia in tv ai danni del collega Maurizio Sarri: «Mi ha detto frocio e finocchio, deve vergognarsi. Gente come lui non può stare nel mondo del calcio». «Ero furioso, mi scuso ma certe cose devono rimanere in campo», avrebbe poi risposto Sarri. Oggi Mancini dice che «l’omosessualità è come l’eterosessualità. Io sono per la libertà, in tutte le cose della vita. Ho vissuto molto male quest’ultimo anno di limitazioni, malissimo. E oggi penso, ancor più di quanto già pensassi, che le persone debbano essere libere, sempre. Non ho nessun tipo di problema».

Michael Jordan e il Papa

Roberto Mancini racconta sempre di avere avuto due idoli nella sua vita. «Michael Jordan nello sport e nella vita Papa Woijtyla». Il suo rapporto con la religione lo racconta così: «Sono cattolico. Sono cresciuto in una parrocchia, all’oratorio San Sebastiano e sono anche cresciuto bene». Il c.t. nel 2019 ha incontrato, assieme alla squadra, papa Francesco regalandogli una maglia della Nazionale.

Lucio Dalla

La canzone della vita di Roberto Mancini è «L’anno che verrà», di Lucio Dalla, non a caso un grande bolognese. «Quella che faceva “Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po’”. Era il 1979. Io avevo lasciato Jesi da poco, avevo 13 anni e mezzo, quasi 14.Ero andato via da casa e dai miei amici per trasferirmi a Bologna, da solo, in una città grande e quella canzone lì mi faceva compagnia». Quanto al film preferito, «ce ne sono diversi: uno, molto bello, è “Il nome della Rosa”».

Un uomo chiamato cachemire

L’eleganza e la ricercatezza sono la sua griffe. Come se fuori dal campo cercasse di rappresentare ancora — con successo — la perfezione estetica di certe sue giocate. Da giocatore alla Sampdoria disegnava lui le divise sociali, sceglieva il tessuto personalmente, si occupava anche dell’abbigliamento dei compagni nel dopogara. Da allenatore ha introdotto la moda della sciarpa: il colore cambia con la squadra, il tessuto mai. Rigorosamente cachemire.

Pazzo per il padel

Come ormai tantissimi calciatori e ex calciatori, e come mezza Italia, il suo grande hobby è il padel. «L’ho scoperto al TC Aeroporto di Bologna molto tempo fa — ha raccontato a Padel Magazine — . All’epoca a Bologna c’erano solo pochi campi e nessuno conosceva lo sport. Mi è subito piaciuto perché ci si diverte subito e si progredisce velocemente ».Il c.t. va ancora spesso a Bologna, con un ristrettissimo gruppo di amici. E anche quando allenava i club in Italia il lunedì – giorno di riposo – era dedicato al padel: tre-quattro ore, poi cena con gli amici. Dicono sia molto forte.

Lo yacht

Mancini possiede uno yacht divenuto famoso nel 1999 quando – invitandolo per un giro in mare – convinse l’allora centravanti della nazionale Bobo Vieri a firmare per la Lazio. Lo yacht è un trenta metri, battezzato «Firefly». Mancini negli anni è divenuto anche imprenditore nautico.

La gaffe sul Covid

Roberto Mancini è anche molto attivo sui social. Nell’ottobre del 2020 è stato protagonista di una gaffe sul Covid che ha generato diverse polemiche. Colpa di una vignetta pubblicata su Instagram in cui si vede un paziente malato su un letto di ospedale che, alla domanda sull’origine del malessere, dà la colpa di troppi tg. A inizio ottobre Mancini era entrato in pesante polemica con l’allora ministro della Salute, Roberto Speranza dopo che questi aveva sostenuto come «la priorità sono le scuole, non gli stadi. Non possiamo correre rischi per riportare lì migliaia di persone». Mancini era stato molto duro nei confronti del ministro: «Si dovrebbe pensare, prima di parlare. Lo sport è un diritto di tutti esattamente come la scuola». Qualche giorno prima della vignetta Mancini aveva pubblicato, sempre su Instagram, la testimonianza di Hermann Goering al tribunale di Norimberga: «L’unica cosa che si deve fare per rendere schiave le persone è impaurirle». In seguito si è difeso così: «Ho soltanto condiviso una vignetta che mi è sembrata sdrammatizzare un momento così complicato. Tutto qui. Non c’era alcun messaggio sottinteso e nessuna intenzione di mancare di rispetto ai malati e alle vittime di Covid, se così fosse suonato me ne scuso».

Tre figli e due mogli

Dal matrimonio con Federica Morelli il Mancio ha avuto tre figli: Filippo (31 anni), Andrea (28) e Camilla (27). Filippo ha provato a seguire le orme del padre, giocando nelle giovanili dell’Inter e con le maglie di Entella e Manchester City (con il padre allenatore) senza mai debuttare. Anche Andrea ha giocato nelle giovanili dell’Inter e nel City e, dopo aver giocato in serie minori, ha chiuso la carriera nel 2017 con i New York Cosmos, l’anno seguente ha superato l’esame finale da direttore sportivo a Coverciano. Dopo la fine del suo matrimonio, Roberto Mancini ha iniziato una relazione con Silvia Fortini, che gestisce un importante studio legale a Roma. I due si sono sposati nel 2018.

Le vittorie, le sconfitte e quel finale agrodolce: chi è davvero Mancini. Lasciare la Nazionale a Ferragosto solleva molti dubbi. Soprattutto dopo le ultime sconfitte. Ma chi era davvero il Mancio? Luca Bocci il 13 Agosto 2023 su Il Giornale. 

Non è certo la prima volta che Roberto Mancini lascia gli esperti e gli osservatori del calcio a meditare sulle ragioni della sua scelta. Fin da quando si presentò nel mondo del calcio che conta, nel lontano 1982, le scelte di Roberto Mancini sono spesso state all’insegna del percorrere strade controcorrente.

Il mondo del calcio nostrano si era accorto del talento da Iesi quando era ancora giovanissimo, debuttando con il Bologna ed iniziando a far capire che, con la palla al piede, sapeva fare quel che voleva. Tanti si erano presentati nella città delle due torri per assicurarsi i servigi del giovane talento marchigiano ma ecco che il carattere di Mancini si fa notare. Niente spazio alle grandi, dove avrebbe forse faticato a trovare spazio: meglio la fascinazione dell’esperimento Doria, alla corte di un tecnico poco convenzionale come Vujadin Boskov. È proprio al Ferraris che trova il compagno-fratello di una vita, un altro talento di provincia con una voglia incredibile di spaccare il mondo. Roberto Mancini e Gianluca Vialli diverranno inseparabili con la maglia della Sampdoria, per sempre collegati nelle menti dei tifosi di calcio italiani e di tutto il mondo come i gemelli del gol. 

Arrivò lo storico titolo, il primo della storia del club blucerchiato, la cavalcata memorabile in Coppa dei Campioni, la finale di Wembley contro una squadra leggendaria come il Barcellona di Cruijff, la dolorosissima sconfitta. Sembrava che quella squadra di campioni unita come una famiglia non dovesse mai separarsi, continuando a stupire il mondo del calcio e quello che era il campionato più bello e seguito al mondo. Invece no, arrivò una lite ancora inspiegabile con il figlio dello storico patron Mantovani e la nuova tappa di una carriera che molti pensavano vicina alla fine. Con la Lazio di un altro tecnico particolare, lo svedese col cuore caldo Sven-Goran Eriksson, nessuno si aspettava chissà cosa ma il tecnico l’aveva detto: “prendetemi Mancini e vincerò lo scudetto”. Il titolo arrivò, per la grande gioia dei tifosi biancocelesti. Anche quella stagione vittoriosa sembrava non dover finire mai, con il posto da assistente del tecnico e un futuro magari da dirigente. Robygol, però, aveva in serbo un’altra sorpresa: nel gennaio 2001 lasciò tutti di stucco, firmando un contratto con il Leicester e provando l’esperienza di player-manager. Non andò benissimo, visto che lasciò dopo sole cinque partite ma tutti iniziarono a capire che Roberto Mancini era diverso dai soliti allenatori.

Del carattere del Mancio ce ne eravamo accorti già prima, come quando si scagliò contro la stampa dopo aver segnato un gol contro la Germania negli sfortunati europei del 1988, ma l’avevamo pensato come uno dei caratteri inevitabili del genio. Mancini era così alle volte, umorale, tanto geniale quanto imprevedibile, uno che gli allenatori o adoravano o mettevano subito sul taccuino degli indesiderabili. Un personaggio non lineare, che ha sempre odiato le scelte facili ma accomunato da una caratteristica: saper vincere sempre e dovunque. L’occasione arrivò poco dopo, quando giunse la chiamata dell’Inter ed i tifosi nerazzurri impararono subito a fidarsi del giudizio del proprio tecnico. Arrivarono parecchie delusioni ma anche diversi titoli, ultimo dei quali lo scudetto del 2008, il terzo dell’era Mancini. Decisamente meno bene in Europa, però, dove si andava da delusioni a delusioni. Roberto da Iesi incassava le critiche una dopo l’altra, fino a quando, nella conferenza stampa dell’11 marzo 2008, dopo la dolorosa eliminazione in Champions contro il Liverpool, ne ebbe abbastanza. 

I giornalisti presenti rimasero tutti di stucco quando annunciò su due piedi le dimissioni. Non durò molto, ci ripensò, restando quanto bastava per consegnare alla bacheca della Beneamata il suo terzo scudetto, ma fu abbastanza per rovinare i rapporti con Moratti. L’addio arrivò il 29 maggio, una volta che l’Inter aveva già sistemato le cose con il suo successore, José Mourinho. Mancini aveva voluto fare le cose di testa sua e pagò di tasca propria, rimanendo fermo per qualche tempo, fino a quando non arrivò la chiamata giusta, quella della sempre più ricca Premier League e di un club che aveva vinto poco ma era ambizioso come pochi, il Manchester City. Quando prese il posto di Mark Hughes, aveva ricevuto un solo incarico: vincere più possibile. Ci volle qualche tempo ma riuscì a trasformare gli Sky Blues dai fratelli sfigati dei Red Devils nella squadra campione d’Inghilterra. Il suo pupillo, Mario Balotelli, gli fece passare diversi problemi e, alla fine, anche il regno del Mancio sulla sponda blu di Manchester ebbe fine ma nella città del nord dell’Inghilterra lo ricordano ancora con affetto.

Ci fu tempo di tornare in Italia, provare a ripetersi alla Pinetina, con la sua Inter ma il Mancio imparò che la seconda volta le cose non sono più le stesse, che certe ruggini sono davvero dure a sparire. I trionfi rimasero un ricordo, la situazione si complicò sempre di più fino a giungere al secondo esonero. Roberto Mancini da Iesi non se la prese più di tanto, passò un’intera stagione a studiare, prepararsi per la nuova opportunità che, ancora una volta, non arrivò dalle solite note. Stavolta ad attirarlo fu un’altra squadra ambiziosa che non aveva vinto molto all’estero, lo Zenit San Pietroburgo, che gli mise a disposizione un budget importante e gli chiese di vincere in Europa. Stavolta il miracolo non riuscì del tutto ma prima che la situazione degenerasse arrivò la chiamata della vita, quella cui è davvero difficile dire di no, quella della Nazionale. 

Quando a metà maggio del 2018 il tecnico marchigiano prese la guida dell’Italia dopo la disastrosa gestione di Ventura e la mancata qualificazione al mondiale in Russia, sembrò che avesse trovato la sua dimensione ideale. Niente risse quotidiane con la stampa, niente impegni tre volte alla settimana, tempo di portare avanti progetti in proprio, la passione per il padel. A Mancini, insomma, la vita del commissario tecnico sembrava piacere, sembrava contento, finalmente soddisfatto, dopo una vita passata ad inseguire il prossimo obiettivo, il prossimo trionfo. Gli effetti sull’Italia si videro, la nazionale giocava bene, divertiva e, soprattutto, vinceva. Il record di vittorie consecutive si trasformò, poi, nel trofeo più inatteso di tutti, raccolto quando nessuno sembrava credere che fosse davvero possibile. Quell’11 luglio 2021 a Wembley, quella vittoria ai rigori contro l’Inghilterra, in casa loro, sembrava l’apoteosi di un giocatore che con la maglia dell’Italia era stato incapace di raccogliere quanto avrebbe meritato. Da quel momento, però, si aprì la sfida più difficile: ripetersi dopo aver vinto, un’impresa nella quale nessuno a parte Vittorio Pozzo è ancora riuscito. 

I festeggiamenti incredibili per il trionfo ad Euro 2020 complicarono non poco quella transizione, quel passaggio generazionale che è sempre difficile per ogni commissario tecnico. Forse Mancini si fidò troppo dei suoi pretoriani, quelli che gli avevano regalato la gioia più grande, forse la malattia dell’amico fraterno Vialli ebbe le sue conseguenze. C’è chi dice che sperimentò troppo, che non aveva più un’idea chiara di gioco ma i risultati, che fino a quel momento avevano sempre accompagnato l’Italia del Mancio iniziarono a non arrivare più. I rigori sbagliati contro la Svizzera, la qualificazione diretta svanita nel nulla furono il prologo alla serata più dolorosa, quella passerella annunciata al Barbera che si trasformò in uno psicodramma collettivo e nella seconda, inaudita, mancata qualificazione al mondiale di calcio. 

Le polemiche erano fioccate, come le chiamate per le dimissioni immediate, che però non erano arrivate. Roberto Mancini non ha voluto dare soddisfazione alla critica, a chi si era scagliato contro di lui, aspettando il momento di massima debolezza. Il carattere del campione era venuto fuori, tenendo duro, continuando a credere in un progetto che ha portato un record incredibile, le 37 partite senza sconfitte che potrebbe durare molto a lungo. Il Mancio se ne va così, senza fornire spiegazioni, senza riuscire a coronare il sogno di una vita, quella Coppa del Mondo solo sfiorata nel mondiale di casa da giocatore, per le troppe liti con gli allenatori e per una buona dose di sfortuna. Questo sicuramente gli peserà ma, almeno a giudicare da quanto fatto in passato, saprà tornare ancora più forte di prima. Non lo farà con l’Italia; ai posteri giudicare se sarà stato un bene o un male.

Estratto dell'articolo di Xavier Jacobelli e Fabrizio Patania per il Corriere dello Sport martedì 15 agosto 2023.

«Non sono scappato da nessuna parte. Non ho ucciso nessuno. Non credo di meritare tutto il fango che mi stanno buttando addosso. Non ho ammazzato nessuno, merito rispetto. E l’Arabia Saudita non c’entra nulla. Proprio nulla».

Nella lunga e caldissima mattinata di Mykonos, dalle isole Cicladi, parla Roberto Mancini. Ha voglia di spiegare e di raccontare. Due lunghe telefonate, ripetendo gli stessi concetti, riunite in una sola intervista. La delusione per una decisione sofferta, spiazzante, di cui forse non si rende ancora bene conto per l’effetto prodotto e le modalità di esecuzione, si mescola con la rabbia per le reazioni velenose e le critiche provocate dalle sue dimissioni.

Sorprendenti per gli italiani e la Federazione. Meno per chi aveva raccolto l’indiscrezione di una possibile off erta in arrivo dall’Arabia Saudita e qualche turbamento per il faticoso parto del nuovo staff tecnico, uffi cializzato il 4 agosto in via Allegri. Lunedì scorso lo avevamo chiamato per salutarlo e verifi care se l’ipotesi araba potesse acquistare realmente consistenza. «No, non è vero» ci aveva risposto. Molto meno rassicurante era sembrato a proposito dei temi legati al suo lavoro azzurro, alle novità appena partorite, ai prossimi impegni. Ci aveva quasi gelato al telefono: «Di fronte a questo, che fai? O ti dimetti o vai avanti. Io vado avanti».

Un dubbio ci aveva assalito, chiudendo la conversazione. Mister, ci vediamo in Macedonia? La risposta era stata affermativa: «Sì, vado avanti». I saluti, fi ssando l’appuntamento classico a fi ne mese per le probabili convocazioni. È seguito il silenzio, interrotto domenica, quando è arrivata la notizia delle dimissioni, di cui ha deciso di parlare ieri. 

Gli italiani non hanno capito perché lascia la Nazionale, qual è il motivo? «Perché dopo cinque anni e mezzo può succedere, ne mancavano altri due e mezzo di contratto, era da mesi che ci stavo pensando, forse era arrivato il momento di lasciare, perché quando certe cose, certe situazioni, cambiano all’interno, vuol dire che comunque si sta andando verso la fine. Lo ripeto, non credo di aver ammazzato e di aver mancato di rispetto. Non ho ucciso nessuno. Mi dispiace aver letto e sentito certe cose. Ho sperato di poter andare avanti perché allenare l’Italia mi piaceva moltissimo, però, quando poi le situazioni cambiano e capisci che è arrivato il momento di lasciare, devi anticipare i tempi delle tue decisioni e, ripeto, con grande dispiacere, l’ho fatto. Lo so, il momento, ma c’è anche una squadra che ha fatto la Nations a giugno, non la lascio per la strada e non parte il campionato domani mattina, anche se c’è poco tempo. Quando prepari una Nazionale hai una sola settimana di allenamento. Questo è il nostro lavoro purtroppo, ma non mi sembra giusto tutto quello che ho sentito. Era il momento di lasciare». 

In federazione sono offesi. Si sentono parte lesa, siamo a Ferragosto, non è stato un addio usuale alla Nazionale.

«È dal 7 agosto che parlo con la Federazione. La decisione è stata presa adesso, ci sono venticinque giorni agli impegni con Macedonia del Nord e Ucraina (non tanti per la verità, ndr). Mi dispiace, certo. Potevo anticipare di una settimana la mia scelta, questo sì. È quanto mi rimprovero. Le nomine delle nazionali erano state ufficializzate il 4 agosto. Non è passato troppo tempo da allora». Ci spieghi meglio la storia dello staff. Ha accettato, come dicono in via Allegri, o non ha accettato il riordino dei quadri tecnici? Gravina le aveva consegnato il coordinamento delle Under 21 e 20, certe scelte risulta siano state indirizzate da Mancini. «Non è che non fossi d’accordo con la nomina a supervisore: in quanto allenatore della Nazionale A, avevo dato indicazioni riguardo l’Under 21 e l’Under 20 e i giocatori che la massima rappresentativa avrebbe potuto attingere da queste due squadre. Potevo essere il coordinatore, ma la faccenda non era così importante...».

Le motivazioni dell’addio sono legate agli stimoli, alla stanchezza che avvertiva, non solo ai cambi, in parte condivisi e in parte “accettati”, all’interno del Club Italia? «Le motivazioni sono un po’ tutte. Quando si inizia a parlare di cose che comunque competono al nostro lavoro, è il mio parere, penso sia giusto cambiare. Quando si cambiano delle cose e non si è sempre sul pezzo, è meglio per tutti cambiare. Quindi... Ho cercato di andare avanti perché ci tenevo tanto, purtroppo le cose finiscono». Dello staff era rimasto Salsano. Evani è andato via. Lombardo, Nuciari, Di Salvo, ancora in Federazione, ma più distanti dal suo gruppo di lavoro. Non confermato Sandreani. Gravina voleva rinnovare, così sapevamo da un anno. 

«Quando le cose cambiano o iniziano a cambiare, secondo me non si è più sulla stessa lunghezza d’onda e prima che accada qualcosa di più grave è sempre meglio anticipare, sebbene l’abbia fatto con grande dispiacere. Alla Nazionale tenevo moltissimo».

Gravina dice che vi siete sentiti venerdì e poi nella serata di sabato sono arrivate le dimissioni via Pec.

«Vero. La prima volta ci siamo scambiati dei messaggi il 7 agosto. Ci siamo risentiti al telefono. E dopo altri due giorni ho mandato la Pec. Un atto dovuto, l’unico possibile dal punto di vista formale, solo così avrei potuto dimettermi. Punto. Dovevo fare questo, mandare una Pec, avendo maturato la decisione di lasciare. Poi dopo le cose potevano cambiare». 

In che senso potevano cambiare? Si aspettava che Gravina potesse trattenerla?

«Certo. Se uno vuole, le cose può farle cambiare».

È ancora una possibilità oppure no? «No... Penso stiano prendendo Spalletti, al quale faccio tanti auguri».

In Federazione e non solo sostengono che Mancini abbia deciso per una questione di soldi, allettato da una ricchissima offerta. Si parla di Arabia Saudita.

«Guardate, di offerte ne ho sempre avute, ne ho avute dopo l’Europeo, durante l’Europeo, prima e dopo l’elimi nazione dal Mondiale. Ne ho sempre avute e ne ho, perché faccio questo lavoro. Sono un allenatore e nel momento in cui mi capiterà la proposta che mi piace la accetterò. Il motivo per cui ho lasciato la Nazionale non è sicuramente questo, altrimenti lo avrei fatto prima. Per me l’Italia è venuta sempre prima di tutto. Poi, dopo tanti anni, ho ricevuto diverse proposte che valuterò nelle prossime settimane (anche il Messico, ndr), ma al momento non c’è niente di concreto. Faccio l’allenatore, non è che possa stare fermo. Certo, se capita qualcosa che m’interessa... Però l’Arabia Saudita non c’entra nulla». 

Dunque nel momento dell’indecisione avrebbe voluto avvertire più fiducia. Questo sta dicendo? «Se mi avessero dimostrato che mi volevano comunque… Ho pensato una cosa che non mi è stata poi dimostrata. Io avevo bisogno di tranquillità per lavorare perché secondo me si è iniziato a toccare un po’ di cose, sono venute meno certe situazioni. Questo è il mio dispiacere».

Non si può dire che Gravina e la Federazione non l’abbiano difesa e protetta dopo l’esclusione dal Mondiale. Per quanto potessero esserci idee diverse su come andare avanti, gli italiani sono rimasti sorpresi. Mancini ha spiazzato tutti.

«Ma non è successo niente... Cambia l’allenatore. Ho vinto l’Europeo, è la cosa più bella che abbia vinto e che resta lì. Ho deciso di lasciare, non mi sentivo più di andare avanti, non perché abbia ricevuto altre off erte, lo ripeto». 

Il sogno sarebbe stato lasciare l’Italia dopo il Mondiale 2026, sembrava questo il suo obiettivo.

«Eh... Molto, mi pesa molto non poterci arrivare, perché ci tenevo, ma la vita è così». Qualche contraddizione resta. «La decisione è mia, come ho detto prima. Il presidente Gravina non c’entra nulla, sicuramente credo che quando inizi a cambiare certe situazioni si rovina qualcosa. Tutto qui. Le cose poi finiscono, basta. Non c’è bisogno di buttare o far buttare addosso da altri della spazzatura, diciamo della rumenta, per forza. Sono state scritte cose assurde, come è successo in queste ore». 

(…) Dopo la Pec con le dimisssioni, ha più sentito Gravina?

«No, non l’ho sentito».

E i suoi collaboratori, da Oriali a Lombardo che ha preso l’Under 20, che faranno?

«Non lo so, non li ho ancora sentiti, molti di loro non sapevano niente».

Estratto dell'articolo di Enrico Currò per la Repubblica martedì 15 agosto 2023.

«Non ho fatto niente per essere massacrato così. Mi sono solo dimesso e ho detto che è stata una mia scelta». Roberto Mancini risponde al telefono dalle vacanze, ancora furioso dopo la lettura dei giornali. Prova a fornire la sua verità sul divorzio improvviso dalla Nazionale consumato a meno di un mese dalle prossime sfide decisive per andare all’Europeo. 

Roberto Mancini risponde al telefono dalle vacanze, ancora furioso dopo la lettura dei giornali. Prova a fornire la sua verità sul divorzio improvviso dalla Nazionale consumato a meno di un mese dalle prossime sfide decisive per andare all’Europeo. 

Mancini, la sua decisione ha sorpreso l’Italia.

«Mi sono solo dimesso e mi sono assunto tutta la responsabilità della decisione.

Non mi sono nascosto. Avevo parlato con il presidente Gravina e cercato di spiegargli le mie ragioni.Non mi sono mai permesso di accusare nessuno e mi ritrovo accusato».

Cos’ha portato alla rottura con la Federcalcio? Il 4 agosto era stato annunciato il suo ruolo di coordinatore.

«Ho cercato più volte di parlare con Gravina ed esporgli le mie ragioni. Gli ho spiegato che in questi mesi mi doveva dare tranquillità, lui non l’ha fatto e io mi sono dimesso».

La tempistica, ammetterà, lascia sorpresi.

«Dovevo farlo prima? Può darsi. Ma io ho lasciato la Nazionale a 25 giorni dalla prossima partita, non tre. E penso di essere sempre stato corretto in questi anni». 

Ma il motivo per cui se ne è andato? Davvero c’entra il nuovo staff?

«Di tutto, certo. Si è mai visto un presidente federale che cambia lo staff di un ct? Gravina è da un anno che voleva rivoluzionarlo, io gli ho fatto capire che non poteva, che al massimo poteva inserire un paio di figure in più, ma che non poteva privarmi di due persone di un gruppo di lavoro che funzionava, che funziona e che ha vinto l’Europeo. Semmai sono io che potevo sostituire un membro dello staff. Sapete la verità?».

Quale?

«È da un po’ di tempo che lui pensava cose opposte alle mie. Ma allora perché intervenire sullo staff? Cosa c’entra? A quel punto doveva mandare via me. Invece ha colto l’occasione perché alcuni miei collaboratori erano in scadenza e ha giocato su questo. Io potevo essere più duro, certo, ma pensavo lo capisse da solo». 

Cosa risponde all’accusa di aver tradito la Nazionale?

«Che io sono sempre stato corretto. (...)  Se Gravina avesse voluto, mi avrebbe trattenuto. Non l’ha fatto».

Che intende?

«Mi sarebbe bastato un segnale, non me l’ha dato. La verità è che non ha voluto che restassi, e che erano mesi che c’era questa situazione. Però Gravina verrà ricordato come il presidente che ha vinto l’Europeo, non per gli errori che ha fatto».

È vero che voleva eliminare dal suo contratto la clausola di esonero in caso di mancata qualificazione a Euro 2024?

«Quello poteva essere un segnale. Lo avevo chiesto per lavorare tranquillo in questi mesi, tutto qui, è chiaro che sarei andato via se le cose non fossero andate bene e non fossimo riusciti a qualificarci». 

Non ha pensato invece di dimettersi dopo il Mondiale mancato, un anno fa?

«Io me ne sarei anche andato, ma mi hanno chiesto di rimanere. Sono stati cinque anni incredibili, l’Europeo sarà il mio ricordo più bello».

Andrà in Arabia Saudita?

«Quello che sto dicendo è indipendente da quello che potrà succedere in futuro e da dove andrò. Ora non voglio pensare a niente».

DAGONOTA mercoledì 16 agosto 2023.

Le trattative tra Roberto Mancini e il fondo sovrano saudita PIF erano già in corso da tempo ma il sospetto tra gli “addetti ai livori” è che l’ex Ct non trovasse il pretesto per rompere con la Figc e abbracciare la proposta di Riad. Prima ha chiesto, minacciando le dimissioni, il ruolo di coordinatore di tutte le nazionali maschili e gli è stato concesso. A quel punto, probabilmente - dovendo trovare un altro pretesto – la moglie-avvocato del “Mancio” ha evocato la cancellazione della clausola, prevista dal contratto in essere con la Figc, dell’esonero automatico in caso di mancata qualificazione al prossimo Europeo.

Una trovata piuttosto paracula: chiedere la modifica di un contratto federale alla vigilia di due partite decisive per la qualificazione (il 9 settembre contro la Macedonia e il 12 contro l’Ucraina). Una richiesta esagerata nei confronti della Federcalcio che a Mancini ha dato supporto e fiducia anche dopo la mancata qualificazione ai Mondiali in Qatar.

Carlos Passerini per corriere.it mercoledì 16 agosto 2023.

Se alla fine era soprattutto una questione di soldi, lo sapremo presto. Anzi prestissimo, assicurano dall’Arabia Saudita, dove danno per imminente l’accordo fra l’ormai ex c.t. azzurro Roberto Mancini e la Federcalcio di Riad, che sogna in grande non solo per il campionato ma anche per la Nazionale, oggi tristemente 54esima nel ranking Fifa. 

Sul tavolo un ingaggio choc da oltre 60 milioni di euro in tre stagioni, una follia rispetto ai 4,5 milioni l’anno più premi fino al 2026 che gli dava la Figc. Risulta che a spingere per la soluzione mediorientale sia anche il clan dei fedelissimi del Mancio, che laggiù vedrebbero accrescere proporzionalmente i proprio stipendi […]

Ma c’è di più: la scelta araba consentirebbe a Mancini di ricomporre subito il suo cerchio magico, andato in pezzi dopo il recente rimpasto federale che evidentemente non ha mai davvero condiviso. […] 

La verità è che Fausto Salsano, Chicco Evani, Attilio Lombardo e Giulio Nuciari sono per lui molto più che collaboratori storici: sono amici fraterni, fidati. Come lo era Vialli. «Non ha mai veramente superato la morte di Gianluca» ha ammesso al Quotidiano Nazionale la mamma di Mancini, la signora Marianna.

Già svuotato dal fallimento della mancata qualificazione al Mondiale, i malesseri dell’ex c.t. sono peggiorati proprio dopo il riassetto degli organici, col solo Salsano rimasto al suo fianco: Lombardo è finito all’Under 20, il preparatore dei portieri Nuciari è stato retrocesso a osservatore, Evani è rimasto addirittura fuori dopo il no alla Nazionale donne. 

Per ora chi è rimasto nei quadri federali (appunto Salsano e Lombardo) non ha annunciato dimissioni, ma è probabile che si dimetteranno non appena il caposquadra troverà un nuovo incarico.

"Dichiarazioni offensive nei miei confronti": Gravina a gamba tesa su Mancini. Il presidente della Figc, Gabriele Gravina, ha raccontato il suo stupore e l'amarezza per le dimissioni di Roberto Mancini: dalla clausola sul contratto ai problemi con lo staff. "Dichiarazioni offensive". Alessandro Ferro il 23 Agosto 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Le parole di Gravina

 La clausola della discordia

 I nodi sullo staff

È rimasto in silenzio parecchi giorni per far "sedimentare" e "riflettere" dopo quanto accaduto, inaspettatamente e repentinamente, un caldo giorno d'agosto (il 13) in cui improvvisamente, con una Pec, Roberto Mancini ha dato le sue dimissioni da ct della Nazionale. In un'intervista al Corriere della Sera, il presidente della Figc Gabriele Gravina ha vuotato il sacco raccontando la sua versione dei fatti che lo hanno lasciato amareggiato, perplesso ma soprattutto offeso.

Le parole di Gravina

Dopo cinque anni di lavoro insieme, il numero uno della Federcalcio non si sarebbe mai aspettato un trattamento del genere. "Adesso posso dirlo con sincerità: sono amareggiato. Ci sono rimasto male. Non porto rancore, ma i tempi di questo divorzio mi lasciano perplesso". E sì, perché non c'era stata alcuna avvisaglia, "Roberto non mi ha mai detto che voleva andarsene. È stato un fulmine a ciel sereno", ha dichiarato Gravina al quotidiano. Mancini, chiamato per nome, non è un caso vista l'amicizia, oltre alla professionalità, che legava i due. Tant'è che la parola dimissioni l'ha sentita pronunciare dalla moglie (che è pure il suo avvocato), Silvia Fortini, 24 ore prima che arrivasse la famosa Pec. "Considerati i rapporti personali avrei apprezzato di più se Mancini mi avesse espresso la sua volontà guardandomi negli occhi".

"La verità sulle mie dimissioni...". Mancini spiega così l'addio alla Nazionale

La clausola della discordia

Come abbiamo visto sul Giornale.it, Mancini ha fatto riferimento a una clausola nel suo contratto che prevedeva l'esonero nel caso in cui la Nazionale non si fosse qualificata a Euro 2024: l'ex ct avrebbe voluto che fosse rimossa e che altrimenti si sarebbe dimesso. Gravina, invece, racconta un'altra versione: la prima parte è uguale, ossia il messaggio dell'avvocato di Mancini per rimuovere quella clausola ma poi, il numero uno Figc, ha sottolineato "niente altro": non ci sarebbe mai stato, quindi, l'aut aut con le eventuali dimissioni. Le dichiarazioni del Mancio, però, sono scritte nero su bianco da numerosi quotidiani. "Adesso continuo a chiedermi perché Mancini abbia detto certe cose. E mi chiedo se le ha dette per davvero, perché sa benissimo che le cose sono esattamente contrarie a quanto lui sostiene. Tutti e tre, io, Roberto e Silvia, sappiamo come sono andate", ha spiegato Gravina.

I nodi sullo staff

Altra nota stonata riguarda i componenti dello staff: Mancini ha accusato di aver avuto sottratti i suoi collaboratori più stretti ma Gravina risponde, anche stavolta, per le rime. "Questa poi è grossa. Solo Evani, che non ha accettato un altro ruolo, era uscito - ha dichiarato - Gli altri sono rimasti. Lombardo e Nuciari, che avevano altri incarichi, sarebbero tornati a Coverciano nei giorni di Nazionale. E abbiamo rafforzato il gruppo con Barzagli e Gagliardi indicati da lui". Insomma, alla fine resta la parola dell'uno contro quella dell'altro, paradossale se si pensa ai cinque anni insieme, al trionfo dell'Europeo e alla stima e fiducia rinnovata all'ex ct nonostante la cocente eliminazione dal Mondiale in Qatar. "Non voglio alimentare ulteriori polemiche ma sono state dichiarazioni sconfortanti, inappropriate e offensive nei miei confronti. Non rinnego il rapporto di amicizia con Roberto, che ha sempre dimostrato stile. Spero riveda la sua posizione. Anzi, vado oltre e vi dico: chiamatelo perché non posso credere che si sia espresso così".

Estratto dell'articolo di Alessandro Bocci e Daniele Dallera per il “Corriere della Sera” mercoledì 23 agosto 2023.  

(...)

Presidente perché ha scelto Spalletti?

«Perché ha vinto lo scudetto facendo emozionare Napoli e tutti quelli che amano il calcio, è una guida forte e sicura, ha esperienza e un gioco brillante. Ma soprattutto perché, già alla prima telefonata, ha mostrato un entusiasmo contagioso». 

Quando vi siete conosciuti?

«Nella notte dei tempi, lui da allenatore dell’Empoli ha affrontato per due volte il mio Castel di Sangro. Luciano mi piace sin da allora. È un tecnico all’avanguardia, che lavora sempre per migliorarsi. L’uomo giusto al posto giusto. Il primo nome a cui ho pensato.

Una scelta romantica e ponderata, perfetto per ciò che abbiamo in testa: portare avanti il rinnovamento puntando sui giovani». 

La clausola che lega il nuovo c.t. al Napoli non è stato un freno?

«All’inizio neppure sapevo dell’esistenza di questo documento, l’ho scoperto dai giornali. I nostri avvocati mi hanno rassicurato: potevamo parlare con lui, il resto è una questione tra Luciano e il suo vecchio club». 

Si aspettava un atteggiamento diverso da parte di De Laurentiis?

«Con Aurelio ci siamo sentiti. Ma non mi aspettavo niente di diverso da quanto è successo. Altre cose, invece, non mi aspettavo».

Ce le racconti, presidente…

«Tanto odio e ipocrisia da parte di alcuni detrattori, ma fa parte del gioco. Ho letto anche nomi di allenatori che non rientravano nei piani. Ho chiamato subito Spalletti, l’altro candidato era Conte che non può essere considerato una seconda scelta. Stop: finita qui». 

Cosa altro non si aspettava?

«Che De Laurentiis parlasse del contratto di Mancini. Un contratto che non conosce.

Mi è sembrata una invasione di campo. Certe dichiarazioni mi sono sembrate inopportune come quando ha detto che se volevamo Spalletti avremmo dovuto pagare…». 

Ci spieghi meglio.

«La situazione è stata chiara sin dall’inizio. Luciano stesso mi ha subito detto che la clausola è un problema tra lui e il Napoli. E la Figc non ha mai pensato di subentrare». 

Magari non si aspettava neppure certe dichiarazioni da parte di Mancini…

«(...) sono amareggiato. Ci sono rimasto male. Non porto rancore, ma i tempi di questo divorzio mi lasciano perplesso». 

Ci racconti come è andata.

«Roberto non mi ha mai detto che voleva andarsene. È stato un fulmine a ciel sereno. Ho sentito parlare di dimissioni per la prima volta dalla moglie, Silvia Fortini, che è il suo avvocato, il giorno prima che arrivasse negli uffici della Federcalcio una pec formale. Considerati i rapporti personali avrei apprezzato di più se Mancini mi avesse espresso la sua volontà guardandomi negli occhi». 

Ma davvero non c’erano avvisaglie?

«Ho ricevuto un messaggio l’8 agosto, sempre dal suo avvocato, in cui manifestava il disagio sulla clausola di uscita nel caso non ci fossimo qualificati per l’Europeo.

Niente altro». 

E adesso?

«Adesso continuo a chiedermi perché Mancini abbia detto certe cose. E mi chiedo se le ha dette per davvero, perché sa benissimo che la realtà è il contrario esatto di quanto ha dichiarato. Tutti e tre, io, Roberto e Silvia, sappiamo cosa è successo veramente». 

Mancini sostiene che non avvertiva più fiducia…

«La mia era totale e l’ho dimostrata con i comportamenti. A Palermo, dopo la sconfitta con la Macedonia che ci è costata il Mondiale in Qatar, sono andato in conferenza con lui. Ho messo la mia faccia per difendere la sua. Se non avessi avuto fiducia lo avrei messo sotto contratto sino al 2026? E lo avrei promosso coordinatore dell’Under 21 e Under 20?».

Però gli ha rivoluzionato lo staff?

«Questa poi è grossa. Solo Evani, che non ha accettato un altro ruolo, era uscito. Peraltro, stiamo parlando di un allenatore che faceva parte degli organici federali ed è entrato prima di Roberto. Gli altri sono rimasti. Lombardo e Nuciari, che avevano altri incarichi, sarebbero tornati a Coverciano nei giorni di Nazionale. E abbiamo rafforzato il gruppo con Barzagli e Gagliardi indicati da lui». 

Restano le parole di Mancini…

«Non voglio alimentare ulteriori polemiche. Ma sono state dichiarazioni sconfortanti, inappropriate e offensive nei miei confronti. Non rinnego il rapporto di amicizia con Roberto, che ha sempre dimostrato stile. Spero riveda la sua posizione. Anzi, vado oltre e vi dico: chiamatelo perché non posso credere che si sia espresso così». 

Come era il vostro rapporto?

«Amicizia e professionalità. Non ho mai invaso il campo, mai suggerito un giocatore, mai ho chiesto la formazione. Non meritavo parole così».

Mancini ha detto anche che lei avrebbe potuto fermarlo non accettando le dimissioni.

«Eliminando la clausola? Stendiamo un velo pietoso. Più facciamo certi discorsi e più l’amarezza cresce. Le motivazioni di Mancini sono deboli e superficiali». 

Lei pensa che andrà a allenare la Nazionale dell’Arabia Saudita?

«Leggo, come tutti. A me non ha detto niente. Se fosse così avrebbe potuto parlarmene. Ciascuno di noi vive alcune fragilità, le sue le avrei comprese. Se andasse in Arabia sarà lui a spiegare le ragioni della sua scelta». 

È stato il momento più difficile da quando è presidente federale?

«Non ci sono giorni facili in via Allegri. Però questi li ho sofferti e mi sono serviti per capire tante cose». 

(...) 

Gravina tra un anno e mezzo ci saranno le elezioni: si ricandiderà?

«Manca molto tempo, preferisco concentrarmi sul lavoro che è tanto. Di cose buone ne abbiamo fatte parecchie. Il mio obiettivo per il futuro è contribuire a un calcio migliore. Come e dove non è importante».

Estratto dell'articolo di Gabriele Gambini per “La Verità” martedì 22 agosto 2023.

(…) La clausola per liberare Spalletti dalla panchina partenopea è ancora valida e il presidente non intende mollare l’osso. A Napoli lo sanno. E tutti, tifosi compresi, sembrano parteggiare per De Laurentiis. Poco importa che la Figc abbia annunciato l’accordo col mister toscano. 

Napoli talvolta non è una città, è un’idea platonica incastrata tra l’iperuranio e il mondo, e il fatto che la tifoseria campana veda nell’abbandono del proprio allenatore, sebbene accasato alla Nazionale, una sorta di tradimento degli impegni siglati in precedenza, la dice lunga su quanto Gabriele Gravina e i dirigenti federali dovranno muoversi con i piedi di piombo nel trattare una faccenda che rischia di seminar zizzania pure nel futuro. 

Mettendo in ordine gli avvenimenti: Spalletti ormai dovrebbe essere il nuovo ct tricolore. Il suo contratto partirebbe dal primo settembre di quest’anno e andrebbe in scadenza nel 2026, lo stipendio si aggirerebbe sui 3,2 milioni di euro netti all’anno. Ma la Nazionale dal 9 settembre dovrà vedersela con la Macedonia del Nord e con l’Ucraina nei gironi di qualificazione a Euro 2024. Il tempo stringe, il nuovo tecnico si dice già al lavoro nel diramare le convocazioni dei giocatori.

Una riunione con i vertici della Figc sarebbe già avvenuta: all’ordine del giorno, il completamento dello staff (in cui entrerebbero, su indicazione dello stesso Spalletti, Domenichini, Baldini e Sinatti), e la compilazione della lista non vincolante dei preconvocati, con chiamata obbligatoria per gli atleti impegnati all’estero e per gli oriundi, facoltativa per quelli di Serie A e B. Il raduno ufficiale a Coverciano si terrebbe il 3 settembre. 

Qualcuno storce il naso: se l’intesa tra allenatore e Nazionale fosse operativa dal primo settembre, ma Spalletti fosse già oggi alle prese con la messa a punto del suo progetto, convocazioni comprese, ecco allora che il suo lavoro cozzerebbe con l’impegno contrattuale che ancora nel mese di agosto lo legherebbe al Napoli. Resta peraltro da capire in che modo verrà sciolto il vincolo di contratto. De Laurentiis pretende la somma di poco meno di 3 milioni versata fino all’ultimo centesimo, la Figc pare si sia defilata formalmente, offrendo però pieno supporto al Ct, impegnato in un contenzioso diretto con la sua ex società.

L’avvocato esperto di diritto sportivo Mattia Grassani ha commentato: «Spalletti non pagherà spontaneamente la clausola», confermando che si andrà verso una controversia legale per dimostrare che la Nazionale non fa parte delle squadre concorrenti del Napoli per cui la clausola era stata creata e con cui il mister aveva assunto l’impegno di non trattare fino all’anno prossimo. A Napoli la tifoseria è schierata col presidente. Non per scarso amor di patria, ma per comprensibile strenua difesa della dignità locale. 

 Significherebbe, in buona sostanza, non beneficiare in toto del supporto di una delle curve più calorose ed entusiaste d’Italia in caso di partite decisive: è già capitato del resto in passato che persino Maradona, totem cittadino, venisse fischiato ai Mondiali.

Non sono pagliuzze facili da rimuovere, sono travi nell’occhio. 

(...)

Spalletti è il nuovo ct, ma Adl vuole soldi e chiarezza. Giovanni Vasso su L'Identità il 20 Agosto 2023 

Luciano Spalletti sarà il nuovo ct della Nazionale. Ma il passaggio da un azzurro all’altro non sarà indolore. La Federazione italiana giuoco calcio ha deciso di premere sull’acceleratore e di “sfidare” Aurelio de Laurentiis, che vanta un accordo di non concorrenza firmato dal mister di Certaldo dopo l’addio alla panchina del Napoli. Un gentlemen agreement dal valore di 2,75 milioni di euro. Che qualcuno dovrà pur accollarsi. Altrimenti Adl, che ha già affermato urbi et orbi di averne fatto una questione di principio, non lo libererà. Insomma, non c’è pace in via Allegri. La scelta di Spalletti, dopo il clamoroso addio di Roberto Mancini (è già in volo verso i doratissimi lidi sauditi?), sembrava quasi obbligata. “Lucio” ha riportato lo scudetto a Napoli dopo 33 anni e lo ha fatto da underdog. Ma non è solo una questione di successi. O, almeno, non sarà stato solo quello. Perché se c’è una cosa che Spalletti sa fare è rifondare le squadre dove viene chiamato ad allenare. Scardina dinamiche, sbullona scranni senatoriali, monta e smonta gli spogliatoi e ha le spalle abbastanza grandi per sfidare i sentimenti delle piazze. A Milano ha agevolato l’uscita di Mauro Icardi, a Roma ha decretato la fine della carriera infinita di una leggenda che risponde al nome di Francesco Totti. A Napoli, se possibile, ha fatto anche meglio: ha letteralmente smontato la squadra, manco fosse una libreria Ikea, ricostruendola con innesti nuovi e rivitalizzando chi già c’era, come Kim, Osimhen, Lobotka e Kvaratskhelia, passando dall’aperta contestazione all’entusiasmo irrefrenabile. Non è tutta farina del suo sacco perché buona parte del merito va anche al ds Cristiano Giuntoli, oggi alla Juventus. Ma tutto riconoscono che Luciano Spalletti sia stato l’uomo copertina del terzo e più inaspettato scudetto napoletano.

Il fatto è che Adl e Spalletti non si sono lasciati benissimo. E sui siti scorrono fiumi di byte che descrivono una situazione tesa a Castelvolturno che non poteva concludersi che con un addio. Comunque sia (davvero) andata, il presidente del Napoli non ha la minima intenzione di lasciare andare a Coverciano l’artefice del successo che si è congedato, da lui e dai tifosi, adducendo la volontà di stare vicino alla famiglia, di godersi un anno sabbatico senza calcio per recuperare le forze, prosciugate, dopo una stagione vissuta tanto intensamente.

A De Laurentiis, che ha già perduto Giuntoli, sarebbe saltata la mosca al naso. In punta di diritto il tema è capire se la Nazionale possa essere considerata una “concorrente” per una squadra di club. A tutta prima, diverse le competizioni, sembrerebbe di no. Ma da Castelvolturno si prepara una solida battaglia legale. In fondo le nazionali “interferiscono” con i campionati reclamando i calciatori migliori. E, talora, restituendoli ammaccati o comunque stanchi, alle loro squadre. La battaglia, però, non è soltanto legale. Ma è anche politica dal momento che Adl reclama il rispetto delle regole al cospetto della Federazione e dell’intero mondo del calcio italiano. Ne ha fatto una questione di principio. E andrà fino in fondo. La Figc (o meno probabilmente Spalletti) dovrà scucire quanto previsto dalla penale. Perché le regole si rispettano, rivendica De Laurentiis. E, politicamente, dopo un’estate a dir poco incresciosa, tra ricorsi al Tar, squadre retrocesse, poi riammesse, dopo il carosello dei ricorsi al Tar (che ancora non s’è concluso), la giostra dei calendari sorteggiati (ancora una volta) con le “X” al posto dei club, per via Allegri, il caso di Spalletti rischia di trasformarsi in un ennesimo motivo di scontro. E un altro carico di polemiche potrebbe risultare indigesto al presidente federale Gabriele Gravina, già fatto bersaglio delle critiche per i deludenti risultati sportivi delle Nazionali (dal secondo mondiale di fila ciccato dagli azzurri alla gestione stessa del caso Mancini, passando poi per i flop delle rappresentative giovanili ai tornei di categoria e per quello, a suo modo clamoroso, delle ragazze del calcio femminile ai mondiali).

Di sicuro quello di Luciano Spalletti, come ct, sembra il nome giusto, o quantomeno il più quotato, sulla carta, per tirare una riga sulla gestione Mancini e ricominciare da capo. Bisognerà risolvere la vicenda contrattuale. E farlo prima possibile: l’Italia, tra qualche settimana, dovrà affrontare i match chiave per centrare la qualificazione a Euro2024.

Estratto dell’articolo di Enrico Currò per “la Repubblica” il 18 agosto 2023.

Da oggi ogni momento è buono per l’annuncio: Luciano Spalletti nuovo ct della Nazionale. La scadenza ultima è domani sera, tutt’al più domenica. […] il colloquio del presidente federale Gravina con l’ex allenatore del Napoli — al quale il presidente del club De Laurentiis minaccia una causa di lavoro per il pagamento di una penale a scalare in caso di interruzione dell’anno sabbatico concordato — ha confermato che il candidato numero uno alla panchina azzurra è motivatissimo. Resta però l’intreccio caotico, legale e sportivo, nelle ore in cui prende il via (da domani) la Serie A.

La presentazione a Roma non può slittare oltre la conclusione della prima giornata, quando il nuovo ct dovrà diramare le preconvocazioni dei calciatori che giocano all’estero: il 4 settembre la squadra si raduna a Coverciano per le partite del 9 a Skopje con la Macedonia del Nord e del 12 a Milano con l’Ucraina, decisive per la qualificazione a Euro 2024.

Il contenzioso minacciato da De Laurentiis, in teoria, può durare anni. L’accordo con Spalletti è stato siglato davanti alla camera di conciliazione del lavoro e davanti al giudice del lavoro si dovrebbero presentare le parti. Le interpretazioni giuridiche si moltiplicano: da quella che attribuirebbe a De Laurentiis un risarcimento per i mancati introiti derivati dall’immagine dell’allenatore dello scudetto a quella che, fondata su una sentenza della Cassazione, favorirebbe Spalletti, perché non è possibile limitare in modo irragionevole la libertà professionale di un dipendente. Nulla impedisce comunque il contratto con la Figc, i cui termini economici sono stati anticipati da De Laurentiis stesso: 3 milioni di euro netti l’anno, esclusi eventuali accordi con gli sponsor della Nazionale come quelli di Mancini, che coprirebbero l’ipotetica penale.

[…] Nel suo nuovo staff figurerebbero i collaboratori storici Marco Domenichini e Daniele Baldini e il preparatore atletico Francesco Sinatti. Del gruppo di Mancini, il casus belli, uscirebbero Salsano, Gagliardi e Lombardo, con la possibile proposta a Bollini di passare all’Under 20 e con la conferma di Barzagli assistente e Buffon capo delegazione. […]

Estratto dell’articolo di Ciro Troise e Simone Golia per il “Corriere della Sera” il 18 agosto 2023. 

«Il contratto col Napoli era lunghissimo. Io l’ho letto tutto, ma è stata dura». L’ex esterno azzurro Faouzi Ghoulam ha spesso ricordato le complicate pratiche burocratiche che hanno costellato le sue otto stagioni italiane (2014-2022). Il 32enne ha vissuto in prima persona il modus operandi del suo vecchio presidente Aurelio De Laurentiis […] Ghoulam a Dazn aveva confidato […]: «I contratti di De Laurentiis sono validi anche nello Spazio».

In che senso? A spiegarne le ragioni fu il presidente in persona, invitato da Fazio a Che tempo che fa dopo lo scudetto: «La mia famiglia ha sempre avuto una gran cultura per la musica. La società oggi avrà più di 1.500 colonne sonore, nei contratti che facevamo c’era scritto “nell’universo”. Se un astronauta sta andando su Marte, la Nasa gli manda le immagini di una partita o di un film. Un domani potrebbero esserci molte più persone». 

Non aspettiamoci poi che un tesserato del Napoli, lasciata la società, possa svelare qualcosa riguardo al club. Nei contratti è presente una rigida clausola di riservatezza. Higuain, arrivato alla Juve nel 2016 in seguito alla rottura col presidente, dopo aver segnato ai suoi vecchi compagni (dicembre 2017) rispose ai fischi del San Paolo indicando De Laurentiis ed esclamando: «È colpa tua». Della serie: parlo in campo perché non posso farlo fuori. […]

C’era pure nel contratto di Maurizio Sarri, che nel 2018 va al Chelsea al termine di un lunghissimo braccio di ferro con De Laurentiis. Decisiva la mossa del Chelsea, che soffia Jorginho al City offrendo più soldi, in modo da comprendere nell’affare la clausola da 8 milioni del tecnico. Dopo Sarri, a Napoli fu il turno di Ancelotti. Nel 2019 Il Fatto Quotidiano svelò alcune voci del suo contratto, dall’auto («obbligo di utilizzarla per tutti gli spostamenti, di non cederla ad altri, di non portarla in officine non autorizzate. La benzina, i lavaggi e i rabbocchi di olio a carico dell’allenatore») ai social, con Ancelotti costretto a fornire al club le password: «Ma solo per post con fini commerciali», specificò subito la società. Insomma, la clausola di non concorrenzialità di Spalletti è in buona compagnia. 

La vicenda. Spalletti, incoerenza e provincialismo di alcuni napoletani anche quando la città non c’entra. E Adl ha torto. C'è chi sta attaccando l'allenatore che ha conquistato il terzo scudetto. Colui il quale ha gran parte del merito per aver ottenuto questa vittoria. Un tecnico che da campione d'Italia - con tatuaggio sul braccio - siederà sulla panchina della Nazionale, coronando un altro sogno. Sono gli stessi che meno di un anno fa davano del Pappone al Presidente De Laurentiis. Invece ora ne esaltano le gesta e la moralità. E saranno gli stessi che gioiranno alla prima sconfitta dell'Italia. Gli stessi pronti a gridare al complotto e a piangersi addosso al primo passo falso e ingiusto del Napoli. E a prendersela di nuovo con Adl che nel frattempo si sta comportando in modo sbagliato. Andrea Aversa su L'Unità il 19 Agosto 2023

Siamo felici per Luciano Spalletti. Il tecnico toscano può, se vuole – per legge – allenare un’altra squadra. E così ha fatto. Se il Napoli vorrà potrà decidere di rivalersi in tribunale. Poteva essere la storia dell’allenatore del Napoli campione che siederà sulla panchina italiana. Senza grida e urla. Ma così non è stato. Chi scrive è napoletano e tifa Napoli ed è orgoglioso del fatto che la nazionale sarà guidata dall’allenatore dello scudetto. Un trionfo tatuato sul braccio. E sarei stato ancora più orgoglioso se la SSC Napoli, comportandosi in modo signorile e con superiorità, lo avesse liberato senza discussioni.

Spalletti tecnico della Nazionale cosa succederà tra Italia e Napoli

È ovvio, questa è un’opinione personale. Altrettanto legittima come quella che afferma il ‘principio Aureliano‘ di rispettare penali e contratti. Eppure De Laurentiis poteva decidere di essere ricordato solo per essere stato il Presidente del terzo scudetto. Invece rischia di restare negli annali come il patron avaro e affarista. Incapace di investire nella sua reputazione. Stiamo parlando dell’Italia non di un club qualsiasi. Qual è la concorrenza rispetto al Napoli? È la nazionale un buon motivo per cambiare idea e non trascorrere più un anno sabbatico con la famiglia? Si, e non è necessario pensare a nessuna dietrologia: “Spalletti e Gravina erano già d’accordo“. Certo, alla base possono esserci motivi politici e / o personali. È risaputo che la federazione nostrana non ha certo brillato di recente per trasparenza ed efficienza.

Tuttavia in questi giorni sono apparsi sui social post assurdi. La maggior parte di chi li ha scritti non svolge il lavoro di avvocato, non è esperto di diritto del lavoro e di certo non ha letto il contratto che legava Spalletti al Napoli. Eppure si pronunciano, giudicano, esprimono sentenze come se fossero in possesso della verità. Che presunzione. Non c’è voluto molto tempo per cambiare slogan: da ‘Pappone cacc e sord‘ a ‘Gravina cacc e sord e dimettiti‘, è stato un attimo. In fondo il discorso è sempre lo stesso. Bisognerebbe restare per sempre a Napoli. Chi va via deve passare per ‘traditore‘. Poi se c’è di mezzo il sentimento ‘anti italiano‘, allora tutto torna. Peccato, anzi per fortuna, che Spalletti ha fatto al meglio il proprio dovere.

Il patron dagli avidi principi

Senza entrare nel merito della questione legale o di vicende passate (il Napoli fatto fallire, episodio che però è convenuto a De Laurentiis; la possibilità del patron azzurro di tenere ancora due club; lo scudetto perso con Sarri; la questione dei fitti pagati dopo anni al Comune di Napoli per l’uso dello stadio che Adl ha inteso come di sua proprietà e che si è visto rinnovare con i fondi della Regione; il mistero dell’appalto per il montaggio dei tornelli esterni al Maradona; la Figc che essendo ente statale non può pagare penali con i soldi pubblici; la penale la paghi Spalletti; l’invio della famosa Pec; i caratteri spigolosi di Adl e del tecnico toscano e il possibile sgarro fatto dall’uno all’altro).

I tifosi piagnoni

E senza fare assolutamente discorsi di moralità che coprono di ridicolo chi li affronta, questa è piuttosto un’analisi sulla Napoli provinciale e piagnona. Quella incapace di sentirsi vincente. Che forse gode nel perdere così è poi autorizzata a lamentarsi e a prendersela con il ‘palazzo‘. Questa storia, nel paese dove i contratti non si fanno, molti di quelli firmati sono ‘farlocchi’ e dove c’è un esercito di partite iva che sostituiscono proprio i contratti di lavoro, fa sorridere. Così come suscita simpatia un dibattito nato in una città dove le istituzioni sono incapaci di fare rispettare le regole del vivere civile. Ma si sa, a Napoli quando si parla di ‘Pallone‘ tutto è concesso. Non sia mai. A noi non resta che augurare il meglio a Spalletti. Che la questione la risolva chi di dovere. E ovviamente forza Napoli e forza Italia.

Andrea Aversa 19 Agosto 2023

Da ilnapolista.it sabato 19 agosto 2023.

L’addio al veleno tra Spalletti e De Laurentiis nelle parole di Antonio Corbo sull’edizione napoletana di Repubblica.

Bentornati, tra feste e veleni. Luciano Spalletti smette l’azzurro dei campioni d’Italia per quello della Nazionale. Già finito il suo anno sabbatico, nessuno immaginava così presto, è durato solo 40 giorni. 

Diventa Ct. Era fuggito per “troppo amore”, come disse per spiegare lo strappo del 3 maggio un minuto dopo lo scudetto, temeva di non ricambiare quanto i napoletani gliene davano. Proprio vero, in amore vince chi fugge Non dispiace ad Aurelio De Laurentiis, non si sopportavano un minuto in più, finti anche i sorrisi nelle foto, Luciano lo definiva il Sultano con un risolino più acido che divertito il mattino del 4 maggio al coffee-break dell’hotel udinese “La dimorèt” sulla stradona che porta al confine di Tarvisio, ma l’adorazione dei sudditi lentamente svanisce, se mai c’è stata. 

Basta leggere quel dettaglio infilato tra le righe dal previdente Andrea Chiavelli, genio delle clausole. Penale se l’allenatore cambia club o Federazione. Gravina balla sul vuoto, quindi.

Massimiliano Gallo per ilnapolista.it sabato 19 agosto 2023.

Luciano Spalletti è il nuovo commissario tecnico della Nazionale. Al di là degli aspetti tecnici, il primo dato è che Federcalcio e tecnico se ne sono infischiati della minaccia di De Laurentiis. E non è una buona notizia, al di là dell’esito dell’eventuale contesa in tribunale. Così come, al di là delle effettive ragioni e degli effettivi torti, non ci pare una buona notizia la nascita di questo presunto movimento della purezza con a capo il presidente del Napoli che ora gode di vastissimo consenso tra i nostri concittadini. I tifosi sono eccitati all’idea di Napoli contro tutti, è una sorta di prosecuzione dello striscione esposto dai tifosi dopo la conquista dello scudetto: “campioni in Italia” non d’Italia. Populismo con una spruzzata di secessionismo. Afrodisiaco. 

A noi, almeno a me personalmente, questa prospettiva non eccita. Decisamente meglio il tweet di Ferragosto di De Laurentiis: «Ci onoriamo di essere una squadra napoletana ma anche italiana» rispetto a quel comunicato che potrebbe condurre a uno scontro da cui, a nostro avviso, il Napoli avrà ben poco da guadagnare. Ci sono tanti modi per far valere le proprie ragioni, non tutto si può sempre ridurre a “qua le pezze e qua il sapone”.

Aggiungiamo due cose. Una è che Adl sa benissimo che i contratti nel calcio non contano più niente, altrimenti non avrebbe triplicato l’ingaggio a Osimhen come sembra che annuncerà nei prossimi giorni, o non avrebbe “consigliato” a Lozano e Zielinski di rinnovare pena restare un anno fermi. E l’altra è che facciamo fatica a comprendere il perché delle numerose interviste quotidiane dell’avvocato Grassani. Parlare troppe volte è un segnale di debolezza, si finisce naturalmente per perdere efficacia. Non a caso Grassani è arrivato a dichiarare che Spalletti se n’è andato impedendo al Napoli di prendere top allenatori perché si erano già sistemati. Come a dire che Garcia è stato un ripiego. Che ci sembra pure verosimile ma non ci aspetteremmo mai di ascoltarlo dall’avvocato mediaticamente associato al club.

Ovviamente questa situazione coglie in contropiede solo coloro che hanno fatto finta di credere alla sceneggiata di fine stagione. Spalletti, come scritto più volte, non è andato via per il troppo amore ma perché non tollerava più De Laurentiis. Girava da tempo con un quadernino con su annotati tutti gli sgarbi (eufemismo) che a suo dire il presidente gli aveva fatto in due anni. Ne parlava a chiunque gli capitasse a tiro. In due parole: lo detestava. Non che Aurelio lo amasse. Ma in questa contesa il presidente ha commesso un errore grave per lui e preoccupante per noi: non ha capito quel che stava avvenendo. Era sicuro di convincere Luciano a rimanere, come fatto in passato con Mazzarri e Sarri. De Laurentiis è un profondo conoscitore dell’animo umano, quasi sempre sa toccare le corde giuste.

Ma stavolta non aveva inquadrato la situazione. E – ripetiamo – è una spia pericolosa. A scudetto vinto, il primo e unico pensiero di due protagonisti importanti del successo – Giuntoli e Spalletti – è stato di scappare a gambe levate. Insomma, siamo molto vicini al classico elefante nella stanza. Che a Napoli tutti fanno finta di ignorare, del resto siamo ancora in piena fase orgasmica. De Laurentiis ha reagito all’affronto alzando l’asticella: dimostrerò che il merito è mio e soltanto mio, vincerò lo scudetto senza di loro. Come se non fosse stato lui il protagonista principale della vittoria. È in questa cornice che va inquadrato tutto quel che è accaduto in queste settimane  e che accadrà nelle prossime (calciomercato e rinnovi compresi).

De Laurentiis ama i conflitti, se ne nutre. L’aria dei tribunali gli apre i polmoni, proprio come a Noodles la puzza della strada. Ma è anche uno capace di giravolte repentine. Non dimentichiamo che dopo un decennio a parlare di legge Thatcher contro gli ultras, si è messo in posa per la foto di rito e ora è tutto un tubare con la tifoseria organizzata. La politica non gli si addice. Non è uomo da battaglie di trincea, di resistenza. Nel merito potrebbe avere ragione, probabilmente ne ha, ma avrebbe potuto governare e gestire diversamente questa ragione. Senza per questo obbligatoriamente rinunciare ai soldi o a vantaggi di posizione. 

Metterla sul piano della purezza, o farsi trascinare sul piano della purezza, storicamente non è una scelta che porta benefici. In genere finisce che si trasforma in un boomerang. E in tempi di società liquida i consensi basati sul populismo sono più ballerini che mai. Del resto è passato in pochi mesi da uomo più odiato della città a vendicatore di presunti atavici soprusi. Alla fine, come sempre, conterà solo il risultato del campo. E in questo la campagna acquisti sembra confortante. Il resto è accessorio.

Un’estate di calcio e tribunali: Spalletti e De Laurentiis vanno in aula? L’approdo del tecnico alla Nazionale rischia di finire davanti ai giudici. L’avvocato Grassani: «Può mai essere tollerabile che quel documento diventi carta straccia?» Gennaro Gimolizzi su Il Dubbio il 17 agosto 2023

Mai come in questa fase occorrono freddezza e lucidità per evitare – è proprio il caso di dirlo - clamorosi autogol. La vicenda Spalletti-Nazionale potrebbe giungere ad una svolta in queste ore. Gli staff legali del Napoli e della Figc hanno lavorato incessantemente da quando Roberto Mancini ha comunicato le proprie dimissioni da commissario tecnico della Nazionale e si è diffusa la notizia di un probabile arrivo a Coverciano di Luciano Spalletti.

Stiamo assistendo ad un’operazione, che, come per i calciatori, richiede diplomazia per avvicinare le parti non il contrario. Non sono mancate, però, le tensioni negli ultimi giorni. Il presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, campione anche negli affari e nelle trattative con i divi del cinema, è stato chiaro: per “liberare” mister Spalletti e farlo accasare alla Nazionale va rispettato l’accordo d’uscita anticipata dal contratto di prestazione sportiva che lo ha legato alla società partenopea fino a pochi mesi fa. Non è una questione di «vil denaro, bensì di principio», ha affermato il patron degli azzurri napoletani. Dunque, per vedere Spalletti sulla panchina dell’Italia dovrà essere versata una penale che sfiora i 3 milioni di euro. Chi metterà mano al portafoglio? Il tecnico di Certaldo o la Federazione italiana giuoco calcio? Per ora non è dato saperlo.

Il brocardo latino “pacta sunt servanda” è valido pure nel calcio, nonostante le bizze di alcuni protagonisti dello sport più bello del mondo. Si è tanto parlato negli ultimi giorni di “clausola di non concorrenza”. Chi ha acquisito delle conoscenze e ha fatto delle esperienze presso il precedente datore di lavoro non può metterle a disposizione di competitor per un determinato periodo. E qui si apre il dibattito tra i giuristi, ma prima ancora tra i legali del Napoli e della Nazionale. Dalla sede capitolina della Figc ci si trincera dietro la frase: «Preferiamo lavorare, anziché parlare».

Cosa succede, nel contesto in questione, se il passaggio da una panchina all’altra non riguarda due club, ma un club e una Nazionale di calcio? Aspetti di non poco conto, in merito al possibile trasferimento di Spalletti a Coverciano, ruotano attorno a questa domanda. Il sogno, ancora una volta tinto d’azzurro, seppur con sfumature diverse, di Luciano Spalletti sta creando un precedente significativo per il diritto dello sport. L’avvocato Mattia Grassani, legale del Napoli, cerca di smorzare i toni e, soprattutto, ritiene che la vicenda debba essere gestita direttamente dall’allenatore campione d’Italia e la Figc. La palla, dunque, viene lanciata nel campo in cui si trovano il tecnico toscano e la Nazionale. Con il Napoli che, per il momento, resta in tribuna a guardare e che potrebbe trasferirsi in Tribunale per tutelare le proprie ragioni. Siamo quindi in una fase di stallo? «Non saprei dirlo», dice al Dubbio l’avvocato Grassani. «Il tema – precisa - non riguarda il Napoli, perché al club partenopeo non è richiesto nulla: Spalletti, come più volte ribadito, può liberamente collocarsi ovunque lo ritenga, pienamente consapevole delle conseguenze delle sue scelte. Il club non è in alcun modo coinvolto nella negoziazione tra l’allenatore e la Figc».

Il tema del non farsi concorrenza è il vero, grande scoglio che impedisce a Spalletti di trasferirsi a Coverciano. Su questo, però, il Napoli non si esprime. «Bisognerebbe chiederlo all’allenatore», evidenzia Mattia Grassani. «Certo è – aggiunge l’avvocato dei campioni d’Italia - che la clausola è molto chiara ed è nota al tecnico non solo dal 18 luglio, ma addirittura da settimane prima, visto che lo specifico punto è stato discusso e negoziato a più riprese con i suoi legali, che certamente avranno informato l’interessato». Nella vicenda si è fatto riferimento alla distinzione tra club e Nazionale. Grassani non crede che si sia aperto un precedente anche perché in passato tutto è stato messo nero su bianco con grande chiarezza tra il Napoli e Spalletti. «Il testo della clausola – spiega il legale - non è interpretabile e prevede espressamente l’impegno del mister a non svolgere attività neppure per federazioni sportive nazionali, italiane o estere». Il presidente De Laurentiis ha sottolineato che non si tratta di una questione di danaro “ma di principio” e che i patti devono essere rispettati. «È cosi – sostiene Grassani - e dalla lettura dell’accordo la volontà delle parti risulta chiarissima. Può mai essere tollerabile, e credibile per il sistema, che un documento di sette pagine, passato al setaccio riga per riga, parola per parola, firmato in sede sindacale, dopo soli 25 giorni rappresenti carta straccia per uno dei due contraenti?». E comunque se Spalletti dovesse diventare il nuovo Ct dell’Italia, sorgerebbe spontanea un’altra domanda. L’allenatore della Nazionale, in causa con il club campione d’Italia, che fornisce giocatori alla Nazionale stessa, cosa penserà al momento della scelta delle convocazioni? «Si tratta – risponde Grassani - di uno scenario paradossale, anche destabilizzante per chi la Nazionale la vede dal di fuori. Non oso pensare alle polemiche che potrebbero essere costruite su questa specifica dinamica. Mi auguro, comunque, che prevalga il buon senso e gli accordi raggiunti vengano rispettati».

Al momento, dunque, immaginare l’esito della vicenda non è ancora possibile. Appellarsi alla ragionevolezza di tutte le parti è, comunque, sempre buona norma. «Non saprei dire come andrà a finire – conclude l’avvocato del Napoli -, anche perché quando non si tratta soltanto di questioni economiche è difficile prevedere le scelte delle parti coinvolte. Di certo siamo in presenza di manager di altissimo livello che percorreranno tutte le strade per evitare contenziosi».

Estratto dell’articolo di Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” domenica 10 settembre 2023.

Lasciate stare Luciano Spalletti. Sono questi i giocatori che abbiamo. Li conoscete, li avete visti, no? Se vogliamo restare dentro la speranza di andare ai prossimi Europei, dobbiamo essere consapevoli della loro sostanziale modestia tecnica. E non scandalizzarci perché la Macedonia del Nord, dopo averci sbattuto fuori dai Mondiali, ora ci mette in ginocchio con un pareggio assolutamente meritato. 

[…]  L’unica speranza da alimentare – ma dev’essere forte, fortissima – è che il nuovo c.t. riesca ad allestire presto qualcosa di simile a una squadra. […]

Il primo scarabocchio […] è puro colore: stadio mezzo vuoto e rugginoso, sudicio, con la tribuna stampa allestita nel punto più alto, i tavoli pieni di ragnatele, le sedie sbilenche, e zanzare e strani calabroni che si buttano in picchiata sul prato – chiamiamolo così, anche se è molto spelacchiato: guardiamo la partita con i calciatori che, laggiù, sembrano i pupazzetti del Subbuteo.

Però una cosa s’intuisce, subito: gli azzurri, appena possono, verticalizzano. È la grande novità tattica, dopo anni di palleggio ostinato, e presuntuoso. Ma è chiaro che cercare questo tipo di giocata richiede prove quotidiane, addestramento ossessivo. 

[…] I registi delle squadre allenate da Spalletti, di solito, hanno sempre almeno tre opzioni. Stasera per Cristante è più complicata. Il c.t. ha dovuto spiegare tutto a tutti in poche sedute. Così, adesso, è costretto a fare il vigile. Vai là, sali, entra, torna, spostati. Quando i suoi sbagliano, e sbagliano abbastanza, non ha un ciuffo da accarezzarsi con disgusto, come faceva quell’altro. Ma occhiate piene di brace viva, quelle sì.

Palo di Tonali. È vero che poco fa i macedoni si sono mangiati un gol. Però siamo in partita. Proviamo a metterci ritmo, agonismo, convinzione. Molti tiri, molti rimpalli. Alessandro Bocci, seduto qui accanto: «Ricordati che questa partita l’abbiamo già vista a Palermo. Solo che, alla fine, segnarono loro». Si lavora dentro botte di notevole situazionismo. 

[…]  lì sotto c’è Spalletti che sta chiedendo a Barella e Tonali di buttarsi dentro con maggior convinzione. Dovrebbero farlo a turno. Un paio di volte vanno però insieme e, nella ripartenza, la Macedonia rischia di farci male, trovando a centrocampo trenta metri di zolle libere. Zolle non è una forma retorica: il campo, alla fine del primo tempo, è arato.

Nemmeno a scriverlo quanto e come i signori dell’Uefa dovrebbero vergognarsi. Meglio la cronaca battente. SAnche perché gli azzurri, al secondo minuto della ripresa, segnano. Legnata da fuori area di Barella, traversa, e Immobile — il peggiore fin qui — che piomba e la butta dentro di testa. Dovrebbe essere andata, più o meno, proprio così: ci arrangiamo con un i-Pad collegato alla tv macedone, tipo zona di guerra. 

E Spalletti? Non ha esultato. Ha visto troppo calcio e si porta addosso troppa vita per sospettare che la partita si sia messa bene. A lui, per lui, niente è facile. Piccoli segnali lugubri: gli azzurri abbassano i giri. Le linee di passaggio sono diventate vaghe. Diventiamo fallosi. Il c.t. ha le mani in tasca. E china la testa. È la classica postura spallettiana, di quando ha i neuroni alla ricerca di una buona idea.

[…] Il pareggio della Macedonia è annunciato da una vibrazione negativa. Quel genere di cose che si avvertono dentro uno stadio. L’altra cosa che si avverte, nei lunghi minuti che seguono, è un senso di cupa ansia calcistica. Anzi, no: è qualcosa — come scritto all’inizio del pezzo — che lambisce la rassegnazione. Luciano, aiutaci tu.

Da ilnapolista.it il 2 luglio 2023.

I giornalisti della Gazzetta dello Sport, Nesti e Fiandrino, fanno sulle pagine del quotidiano un resoconto degli errori arbitrali in Serie A nel corso degli ultimi tre anni. Nel conto gli errori che riguardano gol, rigori, fuorigioco, espulsioni e punizioni. Diverse squadre come il Napoli hanno subito più errori contro che a favore ma tutto sommato il bilancio è tutt’altro che negativo. 

Negli ultimi tre campionati, la squadra che ha beneficiato di più dagli errori della classe arbitrale è la Juventus. “Ha avuto 115 errori “a favore” (più di tutte) davanti a Milan (109) e Inter (99)“. Quella che invece avrebbe tutto il diritto di chiedere più attenzione è il Torino che “con 205 errori, davanti a Milan (102) e Inter (93)“, domina la classifica degli “errori contro”.

La Gazzetta va poi nel dettaglio. “Nella stagione 2020-21, Juventus e Roma hanno avuto più errori “a favore” (37) mentre il Torino 67 “contro” (la Juve 38); nel campionato 2021-22, ancora la Juve davanti con 42 errori a favore (dietro, il Milan con 32 e il Napoli con 30) e nei “contro” ancora il Torino con 55 davanti a Milan e Roma. Nell’ultimo campionato, alla prima voce in questa virtuale classifica sono in testa Juve e Inter (36) e il Torino dall’altra parte capeggia con 83 contro”. 

Nell’ultima stagione il Napoli ha avuto 30 errori che lo hanno penalizzato, 25 invece quelli a favore: 

“Nell’ultima stagione il conto di Nesti-Fiandrino mette in luce un totale di 36 errori a favore per Juve e Inter; di 35 per il Milan, di 29 per la Roma e di 25 per il Napoli. Poi, 21 per l’Atalanta, 18 per la Fiorentina, 16 per il Torino. Ma quelli che invece non hanno portato benefici? Il Torino ne ha avuti 83, la Roma 46, il Milan 35, il Napoli 30, l’Inter 28, la Juventus 27“.

Estratto da corrieredellosport.it il 7 marzo 2023.

Cosa ha detto, davvero, il quarto uomo di Cremonese-Roma, a José Mourinho per farlo infuriare? Le Iene, in onda stasera su Italia 1, provano a ricostruire l'accaduto. Intanto, per prima cosa, Filippo Roma sottopone la ripresa di quel concitato momento a Giuliano Callegari, un ragazzo sordo esperto della lettura del labiale. 

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 Serra, le prime parole in tv e la lettura del labiale

Le Iene sono insieme all’esperto della lettura delle labbra Giuliano Callegari, che nella vita è non udente, quindi, sa bene di ciò di cui parla: “In questo video vi spiego quanto è accaduto tra i due, ho fatto un’analisi molto attenta - dice Giuliano rivolgendosi alle telecamere della trasmissione -. Serra è di spalle e non si capisce cosa dice ma Mourinho risponde: «Ma io parlo con loro», si sta riferendo ai calciatori della Roma in campo. Questo è il momento in cui Serra dice a Mourinho «Ti prendono tutti per il c**o… vai casa, vai a casa».

Mourinho, nel frattempo, gli sta rispondendo a sua volta: «Vai a casa?». Serra gli parla di nuovo ma è di spalle allora Mourinho, sconcertato, gli risponde «Ma sei fuori?». A questo punto Mourinho dice a Serra: «Però parli tu con me di educazione, giusto? Tu devi parlare di educazione con me? Bella educazione. E il rispetto? Educazione con me? Parli tu di educazione con me?». In questo momento arriva uno della Roma a fermare Mourinho". Filippo Roma gli chiede se abbia notato altro: "Noi osserviamo moltissimo i gesti, il fatto che Serra abbia le mani in tasca nei confronti di Mourinho è già una mancanza di rispetto, è una sfida, lo tratta come una persona qualsiasi”.

 Le parole di Serra a Le Iene

Ascoltata la ricostruzione di Giuliano Callegari, l’inviato prova a chiedere conto direttamente all’arbitro Serra che però nega tutto: “Non ho detto quelle parole lì.” “Lei nega di aver detto quelle parole lì?”, gli domanda l’inviato. “Sì”, risponde l’arbitro. “Sicuro, sicuro? – continua Filippo Roma - Perché noi abbiamo fatto la lettura del labiale e qualcosa esce fuori. Lei non si ricorda di aver detto, ad esempio «Ti prendono tutti per il c**o… vai casa, vai a casa»? “Non ho detto quello, veramente, ho detto un’altra cosa. Ho detto: ti stai mettendo lo stadio contro. Vai nell’area, vai nell’area". Ma allora perché Mourinho si sarebbe arrabbiato così?”.

Ma a quest'ultima domanda Serra non risponde. Dando per buona la versione dell’arbitro, l’inviato si chiede: ma cosa interessa al quarto uomo se Mourinho si mette lo stadio contro? Poi sottopone ancora all’esperto del labiale la presunta frase "vai nell’area, vai nell’area" domandandogli se sia possibile che Serra abbia pronunciato quelle parole.  "Non può essere area, assolutamente no. Si vede molto bene la s di casa, casa, ha detto vai a casa". A chi darà ragione la Corte sportiva d’appello della FIGC che dovrà decidere sulla squalifica sospesa di Josè Mourinho?

Da ilnapolista.it l’8 marzo 2023.

Venerdì la Corte Sportiva d’Appello deciderà in merito al caso Cremonese-Roma, ovvero in merito alla lite tra l’allenatore della Roma, José Mourinho e il quarto arbitro, Serra. Ieri, nella puntata de Le Iene, è stato passato al setaccio il video in cui si riconoscono, attraverso il labiale, le parole proferite da Serra all’indirizzo di Mourinho. Video che sarà preso in considerazione dalla Corte, scrive il Corriere dello Sport.

 All’orizzonte, per Serra, si profila il deferimento: sarebbe un precedente giudiziario unico. Non è mai stato deferito un arbitro dai tempi di Calciopoli. A spingere in questa direzione è anche il fatto che la versione di Serra non convince la Procura Figc.

Il quotidiano sportivo, a proposito di Serra, scrive:

Un deferimento e una successiva squalifica potrebbero segnare la fine della sua carriera all’interno dell’Aia. Toccherà a CSA e Procura valutare la solidità della linea difensiva di Serra, ma nel frattempo non convince la sua versione ‘pubblica’ affidata ai microfoni de Le Iene nel servizio andato in onda ieri sera su Italia 1”.

 E ancora

Il servizio televisivo conferma quindi quanto anticipato nei giorni scorsi. Mourinho potrebbe vedere ridotta la squalifica a una sola giornata, da scontare domenica contro il Sassuolo, per tornare in panchina contro la Lazio. Ma la squalifica potrebbe essere clamorosamente cancellata del tutto. Perché ci troviamo di fronte a un caso che farà giurisprudenza. Per la prima volta dopo Calciopoli la Procura potrebbe deferire un arbitro. La documentazione di cui è in possesso la Corte sportiva potrebbe avere conseguenze devastanti”.

La Corte avrà a disposizione anche il filmato de Le Iene.

Il dossier conteneva i riflessi filmati di Sky e Dazn al quale si aggiungerà in queste ore il contributo de Le Iene, che sarà acquisito anche dalla Procura Federale e dalla Corte Sportiva d’Appello”.

 Del resto, anche il referto arbitrale di Cremonese-Roma è lacunoso in più parti.

Il referto arbitrale di Cremonese-Roma sembra contenere molte lacune e la Procura Federale – che due giorni fa ha ascoltato l’arbitro Piccinini e i due assistenti Galletto e Pagliardini – potrebbe chiedere una sanzione grave nei confronti di Serra, il cui comportamento sarebbe, anche per quello che è accaduto negli spogliatoi a fine gara, confermato anche dalle deposizioni dei numerosi testimoni convocati in tribuna. Se viene messo in discussione il referto arbitrale, saremo di fronte a un precedente giurisprudenziale unico. Già la sospensiva di una squalifica non era mai stata presa in considerazione”.

Marco Serra, deferimento dopo la lite con Mourinho. Storia di Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 9 marzo 2023.

Se la squalifica del giudice sportivo per due giornate a José Mourinho era stata sospesa in attesa degli approfondimenti della Procura federale sul famoso caso della lite con il quarto uomo Marco Serra (e proprio domani è attesa la decisione della Corte d’appello della Figc che dovrà esprimersi sul ricorso della Roma), adesso arriva la conclusione della Procura federale: è partito un avviso di deferimento rivolto all’arbitro, accusato dal tecnico portoghese di avergli rivolto frasi irrispettose («Ti stanno prendendo tutti per il c... vai a casa, vai a casa», secondo l’interpretazione sposata da molti e «confermata» da un esperto di lettura dei labiali contattato dalla trasmissione Le Iene.

La Procura, quindi, è intenzionata ad aprire un procedimento disciplinare contro l’arbitro che però ha negato di aver pronunciato quelle parole: «Ho detto “Ti stai mettendo lo stadio contro. Vai nell’area, vai nell’area”», la sua versione sempre alle Iene. Dopo lo scontro sul campo da gioco, il diverbio era proseguito negli spogliatoi. Secondo ricostruzioni mai smentite, Mou aveva bussato alla porta dello spogliatoio degli arbitri ed era entrato (autorizzato): all’interno c’erano gli assistenti dell’arbitro Piccinini, un ispettore federale e il team manager della Roma Vito Scala. «L’ultima volta che sono stato espulso (nella partita all’Olimpico contro il Torino, ndr) sono andato dall’arbitro a chiedergli scusa», l’esordio di José, che poi si sarebbe rivolto direttamente a Serra: «Se sei un uomo ripeti quello che mi hai detto in campo, poi mi chiedi scusa e la cosa finisce qui». Serra però si sarebbe rifiutato di fare alcun passo indietro («Scusa di che?») e quindi Mourinho avrebbe perso il controllo. Ora la storia sembra destinata ad avere una coda in un procedimento disciplinare.

(ANSA il 26 aprile 2023) - Marco Serra, IV Uomo di Cremonese-Roma, è stato deferito dalla procura federale dopo la lite con Josè Mourinho. Lo apprende l'ANSA. L'indagine era scattata dopo la denuncia nel post partita dello Special One in conferenza stampa, lamentando un atteggiamento irrispettoso del direttore di gara nei suoi confronti. 

Le indagini della procura federale hanno rilevato da parte di Serra la violazione dell'art 4 del codice di giustizia sportivo e del Codice deontologico degli associati AIA, con il IV Uomo di Cremona che viene dunque accusato di "comportamento inopportuno, ingiurioso e finanche offensivo delle parole utilizzate", si legge nell'atto di deferimento.

Le ricostruzioni della procura, inoltre, hanno confermato che a Mourinho, avvicinatosi a Serra per chiedere chiarimenti su una decisione arbitrale durante il secondo tempo di Cremonese-Roma, sono state rivolte "le seguenti testuali parole: 'Ti stanno prendendo tutti per il culo. Vai a casa, Vai a casa'". Ora sarà il Tribunale Federale Nazionale a dover giudicare dopo il deferimento di Serra. (ANSA).

(ANSA il 26 aprile 2023)  - "Amareggia rilevare come la valutazione equilibrata della Procura Federale sia stata messa in disparte da chi non ha condotto l'inchiesta né si è confrontato con Serra e con la sua difesa". Lo dice l'avvocato Gabriele Bordoni, difensore dell'arbitro Marco Serra, commentandone il deferimento per la lite con Mourinho, dopo che inizialmente l'ufficio voleva chiedere l'archiviazione, ma la Procura generale dello sport ha poi invitato la stessa procura federale a "insistere per il deferimento".

"Marco, sentito dal dottor Chinè, ha portato elementi chiari e convincenti a supporto della sua verità - ha spiegato il legale -, negando recisamente le frasi contestate, ma dicendosi comunque dispiaciuto per quel proprio atteggiamento che, nel complesso, ha riconosciuto essere imperfetto; mentre da parte mia si sono mossi rilievi procedurali dirimenti. Ed ora vediamo un deferimento coatto, con il termine per avviarlo già scaduto irrimediabilmente da tempo, quindi inutile prima che infondato; mi dispiace per Marco ma anche per chi ha lavorato bene in ambito investigativo", aggiunge Bordoni. 

"Se mister Mourinho lo vorrà, potremo comunque organizzare un incontro con Serra, per una stretta di mano fra sportivi che vada oltre, nel nome del calcio e dei valori nei quali vogliamo ancora riconoscerci", conclude l'avvocato

 Se anche le calciatrici pestano l'arbitro. In Congo sei atlete inseguono il direttore di gara e lo massacrano di botte. Nino Materi il 21 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Il menu à la carte del politicamente corretto (comprensivo di piatti farciti con salse femministe) prevede nella lista delle pietanze anche un polpettone ideologico secondo cui «se nella stanza dei bottoni ci fossero più donne, nel mondo ci sarebbe meno violenza».

Relativamente alla - non meglio precisata - «stanza dei bottoni», non risultano dati ufficiali; ma rispetto al campo di calcio esistono prove certe: il contributo di alcune calciatrici in direzione della filosofia gandhiana del football è pressoché nullo.

Chi a tal proposito nutrisse dubbi, può guardare sul web un video che nonostante la gravità delle immagini non è diventato «oggetto di dibattito», forse perché il caso non è stato rilanciato dal «genio» del momento: Fedez.

La scena dura una manciata di secondi, ma tanto basta per comprendere la brutalità della vicenda. Siamo nella Repubblica Democratica del Congo, stadio «Kibassa Maliba» di Kinshasa, campionato femminile di calcio di serie A: l'arbitro fischia la fine della partita, avviandosi a passo veloce verso lo spogliatoio; lo fa con apprensione, forse perché già immagina che per lui si sta mettendo decisamente male.

Ma cosa può temere un uomo tutto muscoli da quel gruppo di 6 giocatrici della squadra DCMP Bikira de Lumbumbashi che lo sta circondando? Può temere molto.

Infatti, nel giro di qualche istante, le calciatrici appartenenti al presunto (molto presunto) sesso «debole» (e figuriamoci se fosse stato «forte») iniziano a suonare come un tamburo il povero direttore di gara, tramortito a colpi di schiaffi, pugni e calci.

Motivo del pestaggio? I suoi presunti errori arbitrali.

Nel video si sentono fuori campo risate femminili che provengono dagli spalti dove si assiste divertiti alla fuga dell'arbitro inseguito - dopo la prima scarica di botte - dalle scatenate atlete, desiderose evidentemente di dargliene ancora. Sembra la scena di un film comico, invece è una tragedia. In Italia tutto è passato sotto silenzio.

Un sospetto: non sarà mica perché in questa storiaccia la dinamica e status dei personaggi esulano dalla narrazione classica tanto cara al mainstream?

Qui infatti le cattive sono donne di colore che picchiano, senza ragione, un uomo «reo» solo di fare il proprio lavoro. Ma quando verità semplici e scomode rischiano di sovvertire i vecchi cliché, meglio ignorarle. Puntare sui luoghi comuni è più rassicurante. Non solo nel calcio.

Estratto dell'articolo di Filippo Femia per “la Stampa” il 15 febbraio 2023.

Un arbitro preso di mira, insultato, per il colore della pelle. È accaduto domenica scorsa a Loria, poco più di 9 mila anime in provincia di Treviso. […] Mamady Cissé, 35 anni e origini della Guinea, ha interrotto la partita tra Bessica e Fossalunga di seconda categoria […] La colpa di Mamady? Aver concesso un rigore contro i padroni di casa.

Poco dopo il pareggio della squadra ospite, all'87', è arrivato l'insulto razzista[…] Il direttore di gara non ha avuto esitazioni: ha fischiato la fine del match in anticipo e senza avvisare i capitani si è diretto verso gli spogliatoi. […]

 […]Ieri è intervenuto anche il presidente Figc Gabriele Gravina, con parole dure: «Io oggi sono Cissé, tutto il calcio e Cissé e deve combattere questa forma di cultura becera che va espulsa dal nostro sistema». […] «Quello che serve è una maggiore collaborazione dei protagonisti mondo del calcio e dello sport con sanzioni più forti. Servono provvedimenti severissimi contro mascalzoni e delinquenti».

Mamady è molto conosciuto nel Trevigiano per il suo impegno nel mondo del calcio. «Essere arbitro mi ha aiutato a integrarmi in una seconda famiglia, a crescere e maturare», aveva detto in un'intervista pubblicata sui canali dell'Associazione italiana arbitri. […] Quello di domenica non è il primo episodio di cui Cissé è vittima: nel 2018 gli insulti razzisti erano arrivati da un dirigente. «Se stavolta ha sospeso il match significa che sono state parole molto gravi o semplicemente non riesce più a sopportare l'idiozia e l'ignoranza», spiega un giocatore che lo conosce bene.

Estratto dell’articolo di Filippo Femia per “la Stampa” il 16 febbraio 2023.

«Adesso mi sento un po' più leggera, anche se il mio peso è rimasto identico». Martina Scavelli, 34enne di Catanzaro,  non ha perso il sorriso, nonostante poche ore fa abbia preso la decisione più complicata e sofferta della sua vita: dimettersi dal ruolo di arbitro di pallavolo dopo 15 anni. […]

 I controlli sul peso ci sono sempre stati?

«Sì, sono norme federali basate su indicazioni sanitarie. Bisogna rientrare in determinati parametri antropometrici, come il BMI (l'indice di massa corporea) e la circonferenza addominale. Io ho sempre seguito un regime alimentare particolare per rispettarli, se li superavo mi autodenunciavo».

È singolare che un arbitro, che durante le partite non si muove, debba rispettare tali parametri.

«Sono norme intese per tutelare la salute e non le discuto. Ma è paradossale che un giocatore possa essere obeso e che gli allenatori o i dirigenti non debbano rispettare tali parametri. Perché?»

 Nel suo sfogo ha usato termini pesanti. «Non sopporto più di essere pesata come si fa con le vacche», ha scritto.

«Confermo. Ricordo ancora quelle file, decine di persone in attesa: qualcuno si sentiva umiliato. E non parlo solo di donne: anche uomini o persone non binarie».

 […]

Nella sua carriera ha mai ricevuto insulti per il suo fisico?

«In più di un'occasione, soprattutto da parte di genitori dei giocatori: è la categoria che più avvelena lo sport. Ma sa qual è la cosa che fa più male?».

Quale?

«Essere presa di mira per il tuo fisico e non per le tue abilità o gli errori tecnici. Se commetto uno sbaglio perché devo sentirmi urlare che sono "cicciona"?».

[…]

Estratto di lastampa.it il 28 gennaio 2023.

[…] Al minuto 45 del match tra Benfica e Sporting Lisbona valevole per la Coppa portoghese di calcio femminile l'arbitra ha estratto un cartellino bianco […] che ha una valenza diametralmente opposta ai fratelli maggiori usati per punire le condotte scorrette. Il cartellino bianco, infatti, si va ad inserire in un programma dello sport portoghese per incentivare al gioco pulito e rispettoso […]. Nel match in questione, il cartellino è stato sventolato in faccia al personale medico di entrambe le squadre: le due equipe hanno soccorso simultaneamente un tifoso che si era sentito male sugli spalti.

Paolo Casarin per il “Corriere della Sera” il 3 Gennaio 2023.

Sembra di ripartire con un calcio nuovo. Non è così anche se, durante il Mondiale, sono successi, in Italia, fatti che hanno scosso i fischietti. In particolare l'Associazione Arbitrale ha vissuto le dimissioni di Trentalange in seguito alla scoperta di errori di gestione del vertice. Sarà solo la Federazione a giudicarne la gravità. Si parla di nuove elezioni a breve e basta questo per creare tanti pretendenti. Tutto sottotraccia, per ora, ma preoccupazione diffusa tra le oltre 200 sezioni italiane. Infatti il loro compito è quello di ricercare nuovi arbitri che garantiscano il ricambio.

Da qualche anno si sono ridotti i flussi in entrata in maniera sensibile, fenomeno confermato anche all'inizio di questa stagione. Inoltre cresce il disagio tra le famiglie dei giovanissimi arbitri costrette ad anticipare i costi delle trasferte per le gare del figlio, recuperati poi con ritardo. Una molteplicità di ragioni che possono causare l'abbandono e, quindi, la crisi dell'intero movimento.

 Dal Mondiale in Qatar, invece, nuovi arbitraggi con lo scopo di ottenere un tempo effettivo stabile attorno ai 60 minuti e un numero di gol superiore ai 3 per gara. Obiettivo ragionevole quello del tempo di gioco sfiorato sia nel Mondiale di Messico '86 (57 minuti ), Italia '90 (56) e raggiunto a Usa '94 con 61' grazie al recupero «italiano». Del resto anche in serie A nel periodo 1988/89-1992/93 il tempo effettivo fu di circa 57' per gara. Per i gol dal Mondiale del Cile 1962 a quello degli Usa stabilità attorno ai 2,7 gol per gare da 57'. In conclusione segni 3 gol o più solo se giochi più di un'ora.

In serie A, campionato 2021/22, tempo effettivo disceso fino a 50 minuti. Perché? Perché sono aumentate le proteste, per la Var non recuperata, per il minuto perso per ogni corner, anche per le rimesse laterali (40 per gara) si perde tempo, per la preparazione burocratica delle punizioni dal limite, per l'assegnazione e preparazione del rigore con predicozzo al portiere. L'arbitro fischi ogni fallo giusto: le proteste scompariranno magicamente. E lasciamo la gioia in campo per ogni gol, solo per gli eccessi si recuperi il tempo.

I Paperoni.

La Geopolitica.

Le Inchieste.

Le Truffe.

I Debiti.

Il Salva Sport.

I Paperoni.

I paperoni del calcio: ecco i dieci giocatori più pagati al mondo. Cristiano Ronaldo riprende la vetta della classifica redatta dalla rivista Forbes. Ecco chi sono gli altri nove. Federico Garau il 14 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Cristiano Ronaldo torna nuovamente in vetta, almeno nella classifica dei giocatori più pagati nel mondo del calcio: sulla base dei dati riportati dalla rivista Forbes, quindi, Cr7 scalza dalla vetta dei paperoni del rettangolo verde Kylian Mbappé, che "precipita" al quarto posto, superato anche dagli ex compagni di squadra nel Paris Saint-Germain Lionel Messi e Neymar. C'è da tenere presente che quest'anno, oltre all'attaccante portoghese, la lega di calcio Araba ha spalancato le proprie porte anche ad altri calciatori, due dei quali si sono aggiunti a Ronaldo nella top ten dei calciatori più pagati in assoluto.

La classifica

Come anticipato, quindi, Cr7 balza in testa alla classifica di Forbes, con un incasso totale di 260 milioni di dollari per la stagione in corso 2023/2024: la maggior parte del bottino dell'attaccante lusitano deriva dal contratto da 200 milioni a stagione siglato con l'Al-Nassr. A questi si aggiungono gli incassi derivanti da sponsorizzazioni, contratti pubblicitari e una serie di attività extra-calcistiche.

Segue al secondo posto Lionel Messi, di recente passato dal Paris Saint-Germain all'Inter Miami di David Beckham. Nella Major League Soccer, il capitano dell'Albiceleste incasserà 65 milioni di dollari a stagione, a cui si devono aggiungere gli oltre 70 milioni derivanti da sponsorizzazioni e guadagni extra-calcistici. Messi intascherà quindi circa 135 milioni di euro nella stagione 2023/2024.

Ultimo gradino del podio per Neymar, che quest'estate ha accettato la corte e il denaro messo sul piatto dall'Al-Hilal: oltre al contratto da 80 milioni all'anno, O'Ney può disporre di villa con personale, flotta di auto di lusso, jet privato, bonus per le vittorie della squadra e per ogni post sui social network, oltre che dell'autorizzazione eccezionale per convivere con la compagna pur non sposato. I contratti siglati con colossi del calibro di Puma, Konami e Red Bull portano i suoi guadagni fino a 112 milioni.

Kylian Mbappé si deve "accontentare" di 110 milioni, frutto della somma tra l'ingaggio percepito al Paris Saint-Germain (90 milioni) e una serie di importanti accordi commerciali e di sponsorizzazioni (20 milioni). Quinta piazza per Karim Benzema, secondo calciatore della Saudi Pro League dopo Ronaldo: l'ex attaccante del Real Madrid percepirà nel 2023/2024 circa 106 milioni, 100 dei quali derivanti dall'ingaggio del suo nuovo club, ovvero l'Al-Ittihad. Al sesto posto Erling Haaland: il bomber del Manchester City incasserà 58 milioni, tra i 46 percepiti dal club di appartenenza e i 12 derivanti da sponsorizzazioni e contratti extra-calcistici.

Settimo Mohamed Salah con 53 milioni: il calciatore egiziano intascherà circa 53 milioni, la maggior parte dei quali (35) derivanti dallo stipendio elargitogli dal Liverpool. Gli altri 18 sono frutto di accordi commerciali di altro genere. Ottavo posto per Sadio Mané: coi 48 milioni incassati dalla sua nuova squadra, l'Al-Nassr, e i 4 extra-calcistici, il giocatore percepirà complessivamente 52 milioni nella stagione 2023/2024. Nona piazza per Kevin De Bruyne: il belga percepirà 35 milioni dal Manchester City e 4 milioni per le sue attività fuori dal campo, per un totale di 39 milioni. Chiude la top ten Harry Kane, che intascherà 26 milioni dal Bayern Monaco e 10 per una serie di attività extra-calcistiche, incassando quindi 36 milioni.

La Geopolitica.

Quel nesso profondo tra calcio, politica e potere. Narcís Pallarès-Domènech, Valerio Mancini e Alessio Postiglione sono da oggi in libreria con "Calcio, politica e potere. Come e perché i Paesi e le potenze usano il calcio per i loro interessi geopolitici", saggio in cui si analizzano le ricadute globali dello sport più popolare e il ruolo di potere, economia, propaganda nelle sue dinamiche. Narcís Pallarès-Domènech Valerio Mancini Alessio Postiglione Balsamo il 30 Marzo 2023 su Il Giornale.

Diego Armando Maradona e Fidel Castro. Il legame personale che univa il Pibe de Oro e il Lider Maximo è uno degli esempi più noti di osmosi tra calcio e politica

Su gentile concessione degli autori pubblichiamo oggi un estratto del saggio di Narcís Pallarès-Domènech, Valerio Mancini e Alessio Postiglione, edito da "Mondo Nuovo", "Calcio, politica e potere. Come e perché i Paesi e le potenze usano il calcio per i loro interessi geopolitici".

Il calcio non è solo uno sport, ma un vero e proprio strumento di soft power da parte di Stati e gruppi di interesse. Uno strumento geopolitico, utilizzato dalle potenze economiche e politiche, ed esso stesso un attore geopolitico globale. In un mondo in cui le potenze economiche dettano le proprie condizioni agli Stati e alla politica, il calcio, essendo un grande business, domina il mondo.

Il calcio vanta un giro d’affari di 28,4 miliardi di euro1 La Premier League comanda la classifica con 5,5 miliardi di valore complessivo. Seguono, Bundesliga e Liga spagnola, con 3 miliardi e 2,95 miliardi. Il calcio italiano genera invece 2,5 mld; il 12% del PIL del calcio mondiale viene prodotto in Italia: offre lavoro a 40mila persone e un contributo fiscale di 1,2 miliardi. I “big five”, i 5 campionati europei principali – in ordine di grandezza: quello inglese, tedesco, spagnolo, italiano e francese –, hanno prodotto un fatturato di € 15,6 miliardi nel 2022, un risultato inferiore rispetto ai 17 miliardi conseguiti prima che esplodesse la pandemia, nella stagione 2017/2018, ma comunque indicativo della forza del pallone.

In tempi in cui trovare pochi milioni per potenziare la scuola o la sanità è sempre più difficile, l’economia del calcio surclassa quella di molti Stati sovrani. Il calcio muove interessi, fa battere i cuori: è più diffuso delle principali religioni monoteistiche e della democrazia liberale. I telespettatori complessivi dei Mondiali del 2018 sono stati pari a 3.572 miliardi, più della metà della popolazione mondiale di età pari o superiore a quattro anni.

Identità, talento e successo economico: le lezioni del modello Ajax

Gli Stati utilizzano il calcio per affermare la propria esistenza: l’Uruguay, nato come Stato cuscinetto fra Argentina e Brasile per separare le pretese coloniali di spagnoli e portoghesi, alla luce anche del ruolo dell’Impero britannico che ne favorì la nascita, organizzò e vinse il primo mondiale nell’anno del suo centenario, per affermarsi cme nazione, in senso geopolitico e identitario.

Mussolini organizzò il secondo Mondiale per mostrare al mondo i risultati del regime fascista. L’organizzazione del Campionato, che l’Italia vinse, non fu semplice, ma si trattò di un evento a cui il Duce, esperto di comunicazione e manipolazione delle masse, aveva – giustamente –, dato molto peso. Gli azzurri di Pozzo bissarono la vittoria iridata – anche in questo caso connotata politicamente –, quattro anni dopo.

Celebre fu la partita Francia – Italia dei quarti, giocata in casa dei transalpini, a Marsiglia, allorquando tutti gli antifascisti, a cominciare dagli esuli italiani, tifavano per i bleus. L’Italia, provocatoriamente, scese in campo con tanto di maglia nera – succederà nella storia della nazionale italiana 5 volte –, facendo il saluto romano. L’Italia si impose 1–3 e avrebbe concluso il suo percorso trionfale – una vera e propria apoteosi fascista –, battendo in semifinale il Brasile del grande Leonidas, e, in finale, l’Ungheria per 4–2. Per uno scherzo del destino, l’Italia si laurea campione allo Stadio Colombes, quello di Fuga per la Vittoria, il celebre film di John Huston interpretato da Pelé, che, anni dopo, avrebbe narrato la “partita della morte”, fra nazisti ed antifascisti.

L'Italia invincibile di Pozzo e la propaganda fascista

Non è un caso che gli Stati totalitari utilizzassero indifferentemente mezzi di comunicazione, cinema e sport per influenzare le masse. Nei Mondiali di Francia del ’38, comunque, l’Italia ebbe sempre tutto il pubblico di casa e neutrale contro.

Gli Stati utilizzano il calcio per proiettarsi geopoliticamente: il Mondiale in Giappone e Corea del Sud è servito per far emergere la centralità del Pacifico, rispetto ai vecchi assetti atlantici; Brasile, Sud Africa e Russia, economie emergenti del cosiddetto gruppo dei BRICS, hanno organizzato gli ultimi Mondiali per mostrare al mondo il proprio nuovo status. Con il Qatar si afferma il protagonismo dei Paesi del Golfo e, soprattutto, l’Islam politico, rappresentato proprio dal piccolo emirato e dalla Turchia, dove governano forze vicine ai Fratelli Musulmani.

Il Marocco guida la "decolonizzazione" del calcio africano

Non sono solo gli Stati ad utilizzare geopoliticamente il calcio ma anche le nazioni senza Stato. È il caso delle nazionali di Catalogna, Québec e Kurdistan. La Palestina, semplice osservatore presso l’ONU, è membro a tutti gli effetti della FIFA, dove siedono anche Macao e Hong Kong, inglobate dalla Cina secon do il principio “un Paese due sistemi”; la FIFA ha concesso una nazionale perfino a Taiwan, la cui indipendenza e sovranità non è stata mai riconosciuta da Pechino. Diverso il caso di Scozia, Galles e Irlanda del Nord, che pur non esistendo più politicamente indipendenti e sovrane, inglobate nel Regno Unito, “rivivono” nel pallone.

Le Inchieste.

Scandali, partite truccate, fine dei soldi. Contrordine compagni: il calcio non è più il sogno dei cinesi. Gianluca Modolo su L’Espresso il 14 Aprile 2023

La stagione calcistica il cui inizio era in dubbio fino a qualche settimana fa, riparte domenica. Ma nel frattempo dal panel sono state escluse otto squadre. Fallimenti, dirigenti corrotti così il progetto di Xi di fare della cina una potenza mondiale del calcio è naufragato

Scandali e arresti per corruzione. Partite truccate. Squadre indebitate che non riescono ad iscriversi ai campionati e che spariscono dalla mappa del pallone ad un ritmo sempre più regolare. Giocatori dagli ingaggi faraonici che ormai hanno fatto le valigie da tempo. Una Nazionale che continua a deludere. Il sogno di Xi Jinping di trasformare la Cina in una grande potenza del calcio sta svanendo. 

La Chinese Super League, la Serie A cinese, ha appena registrato un altro fallimento. Quello del Guangzhou City. Da non confondere con il Guangzhou Fc che fu di Cannavaro e Lippi, che comunque non se la passa troppo bene ugualmente. Dalla stagione calcistica che ripartirà domenica (dopo voci di possibili slittamenti: a dimostrazione del caos, la data di inizio ufficiale è stata annunciata con meno di una settimana di anticipo), tra massima serie e serie minori sono state escluse otto squadre. Tra queste pure lo Hebei Fc, che ha ammesso di avere difficoltà a pagare le bollette dell'acqua e dell'elettricità, per non parlare degli stipendi.

Passaggio di consegne tra Lippi e Cannavaro al Guangzhou. Erano i tempi d'oro del calcio cinese 

Nove sono invece i dirigenti che negli ultimi mesi sono finiti sotto indagine per "gravi violazioni della legge e della disciplina”. Tradotto: per corruzione. Nomi di peso, come Chen Xuyuan, il numero uno della Cfa, la Federcalcio mandarina: l’uomo che qualche anno fa presentava direttamente al leader Xi i suoi grandiosi piani per riformare il calcio comunista e renderlo grande. Il suo vice, Du Zhaocai. E, ancora, l’ex segretario generale della Cfa. L'ex direttore della Chinese Super League. Lo scorso novembre era stato arrestato pure l’ex ct della Nazionale, Li Tie, la stella del calcio mandarino che giocò pure in Premier League nell’Everton (il “David Beckham cinese”). Il Partito ha messo ora in piedi una squadra di 7 persone per commissariare sostanzialmente la Federcalcio e provare a fare pulizia.

Dopo quella chiacchierata tra Chen e Xi, nel 2015, il Consiglio di Stato (il governo) lanciò un piano per aumentare i finanziamenti alla squadra nazionale, costruire nuovi campi di allenamento e istituire 50mila scuole calcio nell’arco di un decennio. I sogni di gloria di Xi - appassionatissimo di pallone e, leggenda vuole, pure simpatizzante dell’Inter - risalgono a quattro anni prima quando - ancora vicepresidente - disse che la Cina avrebbe dovuto qualificarsi, ospitare e vincere la Coppa del Mondo. Diventando una “superpotenza mondiale del calcio” entro il 2050. La nazionale cinese si è qualificata soltanto una volta ai Mondiali, nel lontano 2002: tre sconfitte, zero gol fatti e via a casa.

La nazionale cinese ai mondiali del 2002 

Manca una visione, non c’è ancora quella cultura del pallone che abbiamo noi. I cinesi sono bravissimi ad eseguire gli ordini, quello che non viene insegnato è la fantasia”, ci racconta Michael, cinquantenne di Manchester, tifosissimo dello United, in Cina da oltre vent’anni, che insegna in una scuola calcio di Pechino. 

Che cosa ha fatto deragliare i sogni di gloria della Cina? La pandemia e la difficile situazione economica di questi anni non hanno certo aiutato. Per decenni il calcio in Cina è però stato un pozzo di corruzione. E le ultime indagini lo confermano. Poi sono arrivati pure i cattivi affari, seguiti dalla sbornia di acquisti milionari. Le grandi aziende si sono affrettate negli anni scorsi a investire in squadre professionistiche, sia in patria che all'estero, ingaggiando giocatori con stipendi astronomici. Gente che un tempo non avrebbe mai preso in considerazione l'idea di una carriera qui, improvvisamente vi si è precipitata. Ben presto la Serie A cinese ha rivaleggiato con i maggiori campionati europei in termini di denaro speso. Nell'anno del boom, il 2015-16, sono stati spesi 451 milioni di dollari per i trasferimenti, entrando nella top five dei campionati che spendono di più al mondo. 

Un giro di soldi che ha messo in allerta le autorità che, tardivamente, hanno iniziato a mettere dei paletti. Nel tentativo di promuovere i talenti locali, nel 2017 la Chinese Football Association ha aumentato la tassazione sugli acquisti all'estero: ogni club che avesse speso più di 7 milioni di dollari avrebbe dovuto versare una somma uguale alla Cfa. I club hanno reagito stringendo drasticamente i portafogli, con conseguenti ripercussioni sull'affluenza dei tifosi e sull'interesse degli sponsor. L’arrivo della pandemia, con gli stadi vuoti, ha dato il colpo finale.

Il leader cinese Xi Jin Ping con l'ex premier britannico David Cameron e la coppa Rimet 

Dal 2020 39 squadre sono fallite. Il fallimento più spettacolare quello del Jiangsu Fc, proprietà Suning. Quattro mesi dopo aver vinto il primo scudetto, a febbraio del 2021 l’azienda ha chiuso il club, che Zhang Jindong si era comprato nel 2015 per 523 milioni di yuan. Non c’erano più soldi. Molti campioni se ne sono andati senza ricevere gli stipendi. Il Jiangsu per anni aveva sperperato per campagne acquisti faraoniche: 32 milioni per il centrocampista brasiliano Ramires dal Chelsea, 50 milioni per il giovane attaccante Alex Texeira, strappato alla concorrenza del Liverpool e subito ingaggiato come testimonial negli spot della casa madre per invogliare i cinesi a comprare condizionatori. 

I grandi gruppi industriali che un tempo controllavano le squadre più importanti del Paese si sono dati alla macchia. Nei guai c’è il Guangzhou Evergrande, visti i debiti della società immobiliare che lo controlla. Qui sono passati il centrocampista argentino Dario Conca: all’epoca, nel 2011, il terzo giocatore più pagato di sempre dopo Cristiano Ronaldo e Messi: 10,6 milioni di euro a stagione. 

Un dato illustra meglio di tutti, però, le grandi delusioni del sogno cinese. Nonostante investimenti milionari, oggi la Nazionale, nella classifica Fifa, si se la gioca con Oman, Uzbekistan e Gabon. Tra i dimenticati del pallone.

Il problema del calcio italiano? Non sono le plusvalenze. È il traffic. Gianfrancesco Turano per corriere.it il 7 aprile 2023.

Le procure di mezza Italia vanno a caccia di “scambi truccati”. L’effetto a catena delle inchieste è garantito da centinaia di transazioni di mercato all’anno. E anche se finora la giurisprudenza ordinaria non è mai riuscita a provare il dolo, l’effetto mediatico è garantito

La giustizia italiana ha trovato la sua emergenza principale. Mafia? Corruzione? Opere pubbliche progettate per sprofondare i conti dello Stato? Ma no. La minaccia numero uno sono le plusvalenze nel calcio, un po’ come il traffico è la piaga di Palermo (copyright Johnny Stecchino).

Dopo la Juventus, coinvolta nell’inchiesta Prisma di Torino, il nuovo blitz romano riguarda l’As Roma e il senatore Claudio Lotito nella sua veste doppia, al tempo dei fatti, di proprietario della Ss Lazio e della Salernitana. Qui indaga Tivoli per competenza territoriale sul centro sportivo biancoceleste di Formello. Non è finita. Ci sarebbero inchieste sullo stesso argomento aperte a Bologna, Bergamo, Genova, Udine, Verona e chi più ne ha più ne metta.

Montagne di carte sono già state sequestrate dalla Guardia di finanza per portare alla luce quello che è già stato oggetto di processi conclusi con assoluzioni di massa. L’eccezione, ma solo sul fronte della giustizia sportiva, risale al settembre 2018 quando il Chievo fu penalizzato di tre punti con tre mesi di inibizione al presidente Luca Campedelli a fronte di una richiesta di -15 e tre anni di inibizione. I ricorsi del club veneto, fallito dopo il Covid nel 2021, furono respinti dai gradi successivi fino al Collegio di garanzia del Coni, la Cassazione dello sport. Un anno fa di questi tempi, peraltro, la procura della Federcalcio guidata da Giuseppe Chiné incassava una sconfitta con il proscioglimento di 59 indagati per 62 transazioni sospette segnalate dalla Covisoc, l’organo di controllo finanziario della federazione. Solo l’avanzata del processo Prisma ha riportato d’attualità le sanzioni sportive con il -15 alla Juventus, sul quale pende ricorso, e l’esclusione degli altri club da ogni complicità.

Ma le poche condanne della giustizia sportiva non compensano una giurisprudenza penale fatta di sole assoluzioni, a partire dal processo storico sull’Inter morattiana e il Milan berlusconiano chiuso da un proscioglimento nel 2003. Secondo gli esperti di diritto, è impossibile condannare qualcuno perché si scambia un bene a prezzi considerati eccessivi. E il calciatore non ha una valutazione se non quella che si può ricavare dai siti specializzati come il tedesco Transfermarkt. Come, per le macchine, su Quattroruote. Ma nessuno collegio emetterà una condanna sull’autorità, pur considerevole, di Transfermarkt.

Provare il dolo in una compravendita di giocatori presuppone confessioni da parte di acquirente e venditore che sono virtualmente impossibili in un mondo come quello del calcio professionistico, dove l’omertà è una piaga più grave del traffico a Palermo.

L’ultimo blitz su Roma e Lotito ha l’aggravante, rispetto ai 62 casi denunciati da Chiné, di riguardare professionisti di buon livello fra serie A e serie B, e persino qualche atleta da nazionale (Spinazzola, Cristante, Kumbulla). Il coinvolgimento di Lotito, con l’andirivieni fra i suoi due club, può essere più interessante ma riguarda un’altra fattispecie, quella delle multiproprietà che furoreggiano in tutto il mondo, soprattutto con capitali arabi, senza che la Fifa muova un dito.

Ultimamente il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha promesso novità legislative in un’intervista al Sole 24 ore. «Le plusvalenze sono una bellissima cosa, per carità. Ma quando diventano deliberatamente artefatte lo Stato deve mettere mano a evitare che questo accada».

In attesa che il parlamento fissi una banda di oscillazione per terzini e mediani, contro i principi sulla libera impresa della costituzione e dell’Europa, le procure investono le loro forze parecchio esigue nella caccia alla plusvalenza in nome di una sempre più tenue obbligatorietà dell’azione penale.

La materia abbonda grazie alle ramificazioni infinite del calciomercato che ogni anno conclude parecchie centinaia di transizioni fra la sessione estiva e quella invernale.

Alla fine, forse aveva ragione il personaggio di Johnny Stecchino. Il problema del calcio italiano è il traffico.

Estratto dell’articolo di Luigi Ferrarella per corriere.it il 6 aprile 2023.

Denaro e crediti per oltre 1 miliardo di euro, flussi finanziari collegati alla compravendita del Milan, sono stati fatti affluire nelle Isole Cayman e in Delaware da due società lussemburghesi del fondo americano Elliott del finanziere Gordon Singer appena 24 ore dopo il blitz della Guardia di Finanza milanese del 26 gennaio, e cioè all’indomani dell’emergere in pubblico dell’inchiesta sulla cessione del Milan dal fondo Elliott al fondo RedBird del finanziere Gerry Cardinale.

 Un’operazione per la quale ora il socio di minoranza di Elliott, il fondo Blue Skye, chiede al Tribunale Fallimentare di Milano (che per decidere ha fissato udienza il 24 maggio) di dichiarare l’insolvenza non del Milan, ma delle due società lussemburghesi tramite le quali Elliott controllava il Milan sino alla cessione a RedBird.

 […]

 Il punto di partenza è quando nel 2017 il controverso uomo d’affari di Hong Kong, Li Yonghong, compra da Silvio Berlusconi il Milan usando il veicolo societario lussemburghese Rossoneri Sport e prendendo in prestito i soldi (attraverso la sottoscrizione di sofisticati titoli di debito denominati TPCEs, e con un pegno sul Milan) dalla lussemburghese Project Redblack, posseduta da Elliott con il socio di minoranza Blue Skye.

 Quando nel 2018 Li Yonghong non riesce a ripagare il prestito, i creditori escutono il pegno e diventano quindi padroni del Milan, gestendolo attraverso la nomina di propri amministratori nel cda.

Tutto fila liscio fino al maggio-giugno 2022, quando il Milan viene ceduto al fondo americano RedBird di Gerry Cardinale con una decisione del socio di maggioranza Elliott. Il socio di minoranza Blue Skye la contesta perché afferma di averla appreso solo dalle dichiarazioni ai giornali del presidente del Milan Paolo Scaroni (entrato in cda come rappresentante di Elliott ai tempi del cinese), protesta che con una differente vendita si potesse strappare un prezzo migliore, asserisce la violazione degli accordi statutari su questo tipo di decisioni, lamenta la revoca in Rossoneri Sport del proprio amministratore Giovanni Caslini.

 […]

Tutto l’armamentario di cause e controcause (pendenti negli Stati Uniti, in Lussemburgo, a Hong Kong e in Italia) non ferma la cessione nell’agosto 2022: RedBird (che agisce tramite l’olandese ACM Bidco B.V.) compra il Milan al prezzo di 1 miliardo e 160 milioni, di cui versa 600 milioni in denaro a Rossoneri Sport, mentre per pagare i restanti 560 milioni prende i soldi in prestito dal venditore Rossoneri Sport («vendor loan»).

 Un mese e mezzo fa, il 26 gennaio, la Gdf si presenta in alcuni studi legali milanesi ad acquisire carte sull’operazione, il che disvela l’esistenza di una inchiesta della Procura (originata da un esposto di Blue Skye) per l’ipotesi di «appropriazione indebita» e di «ostacolo alle funzioni di vigilanza» della Covisoc sui bilanci delle società di calcio.

Ora si scopre che, nelle 24 ore successive al blitz della GdF, Rossoneri Sport a titolo di parziale rimborso dei prestiti è corsa a versare a Redblack 515 milioni di euro in denaro e altri 541 milioni in note di credito; e che, immediatamente nella stessa giornata, Redblack si è precipitata a distribuire gli attivi a Elliott, e dunque a fare risalire il denaro e i titoli per due terzi alla Elliot International che sta alle Isole Cayman, e per un terzo alla Elliot Associates che sta in un altro paradiso fiscale come il Delaware.

Estratto dell'articolo di Marco Juric per “la Repubblica - Edizione Roma” il 6 aprile 2023.

Non possono punire solo la Juventus, per questo se la prendono con tutti”. Le perquisizioni della Guardia di Finanza negli uffici di Roma e Lazio (oltre che in quelli della Salernitana) hanno scatenato un putiferio social da parte di entrambe le tifoserie. 

 (...)

Anche qui, il coro sui social è unanime, senza distinzioni di tifo: “ Sono loro ( gli juventini, ndr) i mandanti.Se vanno giù loro vogliono portarsi tutti dietro”. La rabbia è cieca, ma la paura di penalizzazioni è viva negli occhi dei tifosi di Roma e Lazio. Per una notizia che nessuno si aspettava, almeno in questi termini e a questo punto della stagione con ancora tutto in ballo.

In attesa dello sviluppo delle indagini sui social è partita la guerra degli sfottò tra le due tifoserie, con il chiaro intento di allontanare i brutti pensieri. Andrea, un tifoso della Roma, predica tranquillità su Twitter: “È un semplice controllo, devono fare tutti gli accertamenti possibili.Ma troveranno tutto in ordine”. Anche Valentina, su Facebook non si fa prendere dall’ansia, anzi rilancia: “ Tutta polvere negli occhi. Semmai dalle perquisizioni di Lazio e Salernitana può uscire qualcosa di interessante”. Lucio su Twitter aggiunge un elemento, quello relativo all’uscita dalla Borsa della Roma a fine del 2022: “Ma la Consob glielo ha comunicato che aveva già controllato?”.

C’è chi invece non ha interesse a parlare di tecnicismi finanziari o sfottò ai laziali. Gianluca su Facebook si lascia andare al fatalismo più estremo del tifoso giallorosso: “ Se controllano i bilanci e vedono che abbiamo pagato 42 milioni per Schick, al massimo ci comminano un bonus tenerezza”. I tifosi della Lazio invece si dividono in due fazioni. Chi difende la società con il vecchio adagio “ ci vogliono fermare, diamo fastidio”.

 (...) Chi invece quasi esulta alla notizia, come Antonio su Twitter: “ Se Akpa Akpro ci libera di Tare e Lotito gli costruisco personalmente la statua fuori Formello”. Seguito da Leonardo su Facebook: “ Società da cambiare, questi due personaggi non possono più rappresentarci”. E si è solo all’inizio delle indagini e ancora tutto deve avvenire. Con un campionato in pieno svolgimento e una squadra a dominare. Anche lei messa nel mirino dai tifosi di Roma e Lazio. “ A questo punto attendiamo però anche notizie da Napoli sulle cifre dell’affare Osimhen”.

Estratto da lastampa.it il 2 marzo 2023.

Raffica di assoluzioni per i big del calcio italiano dalle accuse di irregolarità fiscali nel processo «Fuori gioco». La settima sezione penale del tribunale di Napoli ha prosciolto tutti i presidenti o ex presidenti imputati: Aurelio De Laurentiis, Claudio Lotito, Adriano Galliani, Andrea Della Valle e Luca Campedelli. Assolto anche il calciatore Ezequiel Lavezzi. Unica condanna per Alessandro Moggi: un anno, pena sospesa, per non aver contabilizzato una fattura relativa a una consulenza per la cessione di Lavezzi.

 La sentenza arriva a sette anni dall'apertura di un’inchiesta che fece scalpore nel mondo del calcio. Nel gennaio 2016 i pm della procura di Napoli puntarono l'indice contro «un radicato sistema» per evadere il fisco realizzato, secondo l'accusa, da 35 società di Serie A e di Serie B e da un centinaio tra dirigenti, calciatori e procuratori sportivi.

I presunti illeciti sarebbero stati collegati alle operazioni di mercato, attraverso un sistema che da un lato avrebbe sottratto soldi alle casse dello Stato e dall'altro favorito società, calciatori e soprattutto i loro agenti. Un teorema smentito dalla sentenza di oggi: lo stesso Alessandro Moggi è stato condannato per uno solo dei capi di imputazione [...] Ma sono circa quaranta i capi d'imputazione per i quali è stato assolto con formula piena «perché il fatto non sussiste».

[...] Il Tribunale ha sconfessato duramente la tesi della Procura e ha assolto il procuratore sportivo da tutti i capi di imputazione riguardanti le operazioni di compravendita dei calciatori. Di tale pronuncia ne hanno beneficiato anche le società che hanno ricevuto le fatture emesse e, per l'effetto, sono stati assolti con Moggi anche tutti i rappresentanti legali delle società calcistiche». [...] 

Indagati i Friedkin, Pallotta e dirigenti Roma. (ANSA il 5 aprile 2023) - Il presidente e il vicepresidente della Roma Dan e Ryan Friedkin e l'ex presidente della società James Pallotta sono indagati nell'inchiesta della procura di Roma relativa alla compravendita di diversi giocatori. In tutto sono 9 gli indagati, oltre alla stessa società sportiva: tra questi gli ex amministratori delegati Umberto Gandini e Guido Fienga, l'ex vice presidente esecutivo ed ex direttore esecutivo Mauro Baldissoni e alcuni dirigenti.

 Indagati Lotito, Tare e altri cinque. (ANSA il 5 aprile 2023) - Il presidente della Lazio, Claudio Lotito e il direttore sportivo del club biancoceleste, Igli Tare, sono indagati dalla Procura di Tivoli assieme ad altre cinque persone nell'ambito dell'indagine su operazioni di compravendita di calciatori. E' quanto emerge dal decreto di perquisizione. (ANSA).

Estratto da corriere.it il 5 aprile 2023.

Indagine sulla compravendita dei diritti alle prestazioni sportive di taluni calciatori professionisti. I finanzieri del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di finanza di Roma, su disposizione della Procura della Repubblica, hanno eseguito un provvedimento di perquisizione e contestuale sequestro probatorio presso le sedi della S.S Lazio Spa, della U.S. Salernitana 1919 Srl e della Roma.

 Le indagini riguardano operazioni di trasferimento di calciatori tra le due società avvenute nelle stagioni sportive 2017/18, 2018/19, 2019/20 e 2020/21. I reati contestati sono emissione di fatture per operazioni inesistenti e dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, nonché false comunicazioni sociali.

Titolare delle indagini è la procura di Tivoli. […] Un provvedimento di perquisizione, e contestuale sequestro probatorio, è stato effettuato anche nella sede della Roma. Le attività di polizia giudiziaria si riferiscono a operazioni di trasferimento di calciatori professionisti avvenuti tra il 2017 e il 2021.

Il calcio italiano trema: perquisizioni e sequestri della Guardia di Finanza nelle sedi delle società sportive Lazio, Roma e Salernitana. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 5 Aprile 2023

L'indagine sulla Roma è relativa compravendita dei diritti alle prestazioni sportive di alcuni calciatori, si riferisce ad operazioni di mercato avvenute nel 2017, 2018, 2019 e 2021. Nei confronti della Lazio Si procede per i reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti e dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti e per false comunicazioni sociali

I finanzieri del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza , su disposizione della Procura di Roma, hanno eseguito un provvedimento di perquisizione e contestuale sequestro probatorio presso gli uffici società calcio As Roma. L’indagine, relativa compravendita dei diritti alle prestazioni sportive di alcuni calciatori, si riferisce ad operazioni di mercato avvenute nel 2017, 2018, 2019 e 2021. Tra gli indagati per la Roma figurano: James Pallotta, Umberto Maria Gandini, Francesco Malknecht, Mauro Baldissoni, Guido Fienga, Thomas Daniel Friedkin, Ryan Patrick Friedkin, Giorgio Francia e Pietro Berardi. 

Sono 11 i giocatori acquistati o venduti dalla Roma che sono citati nell’indagine dei pm di piazzale Clodio sulla compravendita di calciatori effettuata dalla società negli anni dal 2017 al 2021. In particolare, nel mirino dei magistrati sono finite le cessioni di Marchizza e Frattesi al Sassuolo, di Tumminello all’Atalanta, di Luca Pellegrini alla Juve, di Cetin, Cancellieri e Diaby al Verona. Quanto agli acquisti, i nomi sono quelli di Defrel dal Sassuolo, di Spinazzola dalla Juve, di Cristante dall’Atalanta e di Kumbulla dal Verona. 

Analoghi accertamenti di polizia giudiziaria (perquisizione e sequestro), sempre da parte del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di finanza su disposizione della procura di Tivoli, hanno riguardato anche le sedi della Lazio e della Salernitana. In questo ultimo caso, al vaglio degli investigatori, ci sono alcune operazioni di trasferimento di calciatori tra le due società tra le stagioni 2017/18, 2018/19, 2019/20 e 2020/21.  Per quanto riguarda il caso di Lazio e Salernitana gli indagati sono: Claudio Lotito, Marco Moschini, Marco Cavaliere e Igli Tare oltre a Luciano Corradi, Ugo Marchetti ed Angelo Mariano Fabiani

I pm hanno disposto le perquisizioni, come si legge nel decreto, “poiché vi è fondato motivo di ritenere che presso le sedi sociali delle società sportive della “U.S Salernitana 1919 srl” e della “S.S. Lazio S.p.A.”, possa rinvenirsi tutta la documentazione avente ad oggetto la compravendita dei calciatori Sprocati, Casasola, Marino, Cicerelli, Novella, Morrone, Akpa Akpro“

Nel capo di imputazione si afferma che Lotito, in qualità di Presidente del Consiglio di Gestione della «S.S. Lazio S.p.A.», assieme a Marco Moschini in qualità di Consigliere Delegato, Marco Cavaliere, quale Direttore Amministrativo e Tare quale Direttore Sportivo della Società, “in concorso tra loro, avvalendosi delle fatture di vendita dei giocatori ceduti dalla U.S. Salernitana 1919 srl, frutto di valutazione artefatte rispetto al valore di mercato del singolo calciatore al momento della cessione, indicavano nelle dichiarazioni dei redditi annuali elementi passivi fittizi (costi “gonfiati“), nonché facevano figurare nei bilanci societari i rispettivi valori di acquisto spropositati dei calciatori, così falsando il valore del patrimonio della società sportiva”.

Con un comunicato stampa la Salernitana chiarisce la propria posizione in merito alle perquisizioni della Guardia di Finanza in sede. Il club in una nota fa sapere che “in relazione alle notizie di stampa che riferiscono di perquisizioni presso le sedi di alcune società  di calcio, tra cui la stessa Salernitana, chiarisce che l’attuale compagine societaria è del tutto estranea alle operazioni oggetto di indagine, riferendosi le stesse a In un comunicato stampa la Salernitana chiarisce la propria posizione in merito alle perquisizioni della Guardia di Finanza in sede. La scrivente società  ha prestato la massima collaborazione agli organi inquirenti e resta a loro ulteriore disposizione”.

Le perquisizioni sono state disposte al fine di acquisire, come previsto dall’art. 247 c.p.p., documentazione contabile ed extracontabile attinente alle cessioni degli sportivi, ed in particolare quella relativa ai contratti sottoscritti tra le due società, agli accordi intercorsi tra le società ed i singoli calciatori, ai pagamenti eseguiti, alle modalità con le quali si è arrivati a fissare il prezzo ufficiale di vendita ed il valore dei calciatori ceduti.

Le indagini in corso di cui sono titolari i due magistrati del Gruppo di Lavoro della Procura della Repubblica di Tivoli che tratta i reati di criminalità economica competente sul luogo (Formello) ove ha sede legale la “S.S Lazio SpA”, viene precisato in una nota ufficiale della procura, non sono collegate con altre svolte da altre Procure della Repubblica di cui vi è stata notizia sugli organi di informazione. Si procede per i reati di cui agli artt. 8 e 2 D.Lvo 74/2000 (emissione di fatture per operazioni inesistenti e dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti), nonché per i reati di cui agli artt. 2621 c.c. e 2622 c.c. (delitti di false comunicazioni sociali) . Le indagini, saranno svolte con la dovuta celerità al fine di pervenire rapidamente alle determinazioni di competenza della Procura.

Roma e Lazio caos: indagati i vertici per plusvalenze e calciomercato. Giovanni Capuano su Panorama il 5 Aprile 2023

Dan e Ryan Friedkin oltre all'ex proprietario Pallotta, Lotito e Tare iscritti nel registro degli indagati a Roma e Tivoli. L'ipotesi: valori gonfiati per sistemare i bilanci delle due società

L'onda lunga delle inchieste sui guasti del calciomercato arriva fino alla Capitale e colpisce i vertici, presenti e passati, di Lazio e Roma. Due i filoni di indagine, indipendenti tra loro e rispetto ai movimenti della Procura di Torino che si è occupata dei bilanci della Juventus e dai quali è nato il processo sportivo che ha portato alla penalizzazione di 15 punti per i bianconeri. Nel mirino le compravendite realizzate dalle due società nel periodo dal 2017 al 2021. A portare alla luce l'attività della Procura di Roma, che si occupa del club giallorosso, e di quella di Tivoli, impegnata per competenza territoriale su Lazio e Salernitana, sono state le perquisizioni compiute dalla Guardia di Finanza nella giornata di martedì 5 aprile presso le sedi delle società calcistiche.

Nel registro degli indagati per la Roma risultano iscritti il presidente e il vicepresidente Dan e Ryan Friedkin e l’ex presidente James Pallotta. Insieme a loro gli ex amministratori delegati Umberto Gandini (attuale presidente della Lega Basket) e Guido Fienga, l’ex vice presidente esecutivo ed ex direttore esecutivo Mauro Baldissoni e alcuni dirigenti. L'ipotesi di reato per i vertici societari è quella di false comunicazioni sociali. La Procura ipotizza che “al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico" gli indagati "consapevolmente esponevano fatti materiali non rispondenti al vero, ovvero omettevano fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore”. Va ricordato che all'epoca la Roma era quotata in Borsa, da cui è uscita nei mesi scorsi per volontà della famiglia Friedkin. Secondo i magistrati, che hanno sequestrato documentazione contabile e non solo, la società romana ha iscritto nel bilancio chiuso il 30 giugno 2021 importi maturati nell’ambito di operazioni nelle quali emergevano valori "notevolmente maggiorati o comunque non conformi rispetto a quelli di mercato”. Nell'elenco delle operazioni sospette c'è lo scambio avvenuto con la Juventus e che ha coinvolto i giocatori Luca Pellegrini e Leonardo Spinazzola, avvenuta negli ultimi giorni del mese di giugno 2019: in questo caso gli atti sono arrivati da Torino. L'indagine ha, però, messo sotto analisi anche altre trattative di mercato: le cessioni di Marchizza e Frattesi al Sassuolo, di Tumminello all’Atalanta, di Cetin, Cancellieri e Diaby al Verona e gli acquisti di Defrel dal Sassuolo, di Cristante dall’Atalanta e di Kumbulla dal Verona. All'ex proprietario e presidente James Pallotta e ai dirigenti di allora sono invece contestati i movimenti di mercato iscritti nei bilanci chiusi nel giugno 2017 e nel giugno 2018.

La Roma ha risposto con un comunicato ufficiale: "L’AS Roma prende atto dell’avvio di indagini da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma nei confronti della Società nonché di alcuni suoi attuali e precedenti dirigenti. La società sta collaborando con le autorità competenti e auspica che venga fatta piena chiarezza sulla vicenda nel minor tempo possibile, ritenendo di aver sempre operato nel pieno rispetto delle norme vigenti".

L'INCHIESTA SULLE COMPRAVENDITE DELLA LAZIO La Procura di Tivoli ha, invece, iscritto nel registro degli indagati il presidente della Lazio Claudio Lotito e il direttore sportivo del Igli Tare. Nel decreto di perquisizione compaiono anche i nomi di altre cinque persone: Marco Moschini, Marco Cavaliere, Luciano Corradi, Angelo Marchetti e Angelo Fabiani. Le operazioni di calciomercato su cui i magistrati hanno chiesto un approfondimento riguardano Sprocati, Casasola, Marino, Cicerelli, Novella, Morrone e Akpa Akpro. Si tratta delle trattative che nel corso degli anni si sono intrecciate sull'asse tra Lazio e Salernitana, club che avevano in comune la proprietà di Lotito. L'ipotesi su cui la Procura lavora è che gli indagati "in concorso tra loro, avvalendosi delle fatture di vendita dei giocatori ceduti dalla 'U.S. Salernitana 1919 srl' , frutto di valutazione artefatte rispetto al valore di mercato del singolo calciatore al momento della cessione, indicavano nelle dichiarazioni dei redditi annuali elementi passivi fittizi (costi "gonfiati"), nonché facevano figurare nei bilanci societari i rispettivi valori di acquisto spropositati dei calciatori, cosi falsando il valore del patrimonio della società sportiva".

La Lazio ha risposto con una nota ufficiale: "La S.S. Lazio è una casa di cristallo nella quale tutti i documenti sono a posto e sempre a disposizione di tutte le Autorità. Ci siamo sempre attenuti, nel nostro operato, ad un’ottica di leale e totale cooperazione e, quindi, qualsiasi documentazione ci fosse stata richiesta sarebbe stata da noi immediatamente consegnata. Nutriamo comunque il massimo rispetto per la Magistratura e confidiamo pertanto di fugare celermente qualsiasi equivoco o dubbio in relazione alle ipotesi contestate".

Estratto dell’articolo di Alberto Abbate e Valeria Di Corrado per il Messaggero il 7 aprile 2023.

Si scoperchia il vaso di Pandora del calcio italiano. Non solo Juve, Roma e Lazio. Inchieste aperte in tutte le Procure, da Bologna a Genova, passando per Cagliari, Empoli, Udine, Verona, Modena e Bergamo.

 (...)

Nel caso della Lazio, infatti, indaga la Procura di Tivoli proprio perché la società biancoceleste ha il suo "quartier generale" a Formello. L'utilizzo di plusvalenze fittizie è una prassi consolidata ormai da oltre un ventennio. La prima volta se ne parlò nel 2001 con Milan e Inter, anche se poi i magistrati non riuscirono a dimostrare penalmente l'illecito, come anche nel 2008, quando fu coinvolto anche il Genoa. 

(...)

Quarantadue operazioni sotto indagine, da Audero a Rovella, passando per Arthur, Pjanic, Cancelo e Danilo. In altri casi, però, i fascicoli sono stati aperti sulla base di verifiche fiscali già avviate in autonomia dalla Guardia di Finanza sulle società calcistiche e poi, dove è stato trovato il "fumus commissi delicti" (ossia la probabilità effettiva della consumazione del reato), le carte sono state inviate alle rispettive Procure competenti. 

 (...)

 Il problema sorge quando la plusvalenza viene effettuata con uno scambio di giocatori alla pari, ovvero a "specchio" - termine riportato negli atti della Procura di Roma e di Torino - per la valutazione di ogni cartellino. La plusvalenza a specchio crea un valore positivo per il bilancio (che cresce proporzionalmente al valore attributo al giocatore) ma comporta una serie di costi per i bilanci successivi che appesantiscono la situazione societaria nel futuro. Il vero nodo è: chi può decidere quanto vale un giocatore? La Figc da anni sta cercando uno strumento oggettivo, che sia un algoritmo, un bilancio sportivo e uno economico, e fare in modo che suoni da allarme se i valori non dovessero tornare e quindi cominciare a controllare in anticipo. Lo stesso presidente della Lega di Serie A, Lorenzo Casini, aveva dichiarato: «Di per sé le plusvalenze non sono un male, il problema è l'abuso».

Come limitarlo? Il Governo vuole intervenire in modo serio. Il ministro per lo Sport Andrea Abodi ha già annunciato la volontà di dare un contributo «di concerto con il Parlamento». E il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti ha aggiunto: «Si dà per scontato che vi sia un ricorso sistematico a plusvalenze fittizie nel mondo delle società professionistiche del calcio. Ne ho parlato con il collega Maurizio Leo (viceministro al Tesoro) e stiamo riflettendo se la normativa fiscale art. 86 del testo unico sull'imposta dei redditi in qualche modo fotografa in modo coerente e corretto questo fenomeno. Quando una plusvalenza diventa deliberatamente artefatta lo Stato deve mettere mano per evitare che questo accada». Le Procure di tutta Italia sono intervenute prima.

Da ilnapolista.it il 7 aprile 2023.

Quanto impiegherà la giustizia sportiva a chiudere la questione relativa al nuovo filone di plusvalenze, quello riguardante Roma e Lazio? L’interrogativo è posto da La Repubblica. Le due inchieste, al momento, sono basate sulle valutazioni di Trasfermarkt, che già in passato si è rivelato non sufficiente: ad “incastrare” la Juve sono state, piuttosto, le intercettazioni, che anche in questo caso farebbero la differenza. E’ dunque partita la caccia a chat e conversazioni telefoniche.

 (...)

 A questi ritmi, Roma e Lazio potrebbero arrivare a un processo sportivo nel 2024. Forse, nella seconda metà: la giustizia sportiva eserciterebbe la sua funzione 7 anni dopo i primi fatti contestati”.

 La sensazione, comunque, è, per tutti i quotidiani, che l’inchiesta della Procura di Tivoli sulle plusvalenze della Lazio sia in una fase più avanzata di quella della Procura di Roma sul club giallorosso.

Estratto da corriere.it il 14 aprile 2023.

Il mondo del calcio rischia di essere scosso da una nuova inchiesta, portata avanti dal programma tv Report, sulla Lega calcio. A far discutere già oggi è un'anticipazione - diffusa dal conduttore Sigfrido Ranucci - dell'intervista rilasciata dal presidente del Brescia, Massimo Cellino, all'inviato Daniele Autieri, che sarà trasmessa nella puntata di lunedì sera.

Nell'estratto, di circa un minuto, Cellino parla del suo breve periodo (era il 2006, in piena fase post Calciopoli) alla guida della Lega Calcio, che assunse pro tempore al posto del dimissionario Adriano Galliani. «Cercavo di tenere la baracca in piedi, stava crollando tutto - dice Cellino - iniziai a pulire tutte le schifezze che c'erano là dentro, non sapevo da dove iniziare. Eravamo 6-7 presidenti, sempre riuniti in Lega, a cercare di organizzare il campionato». Poi la confessione choc: «Avevo un contenitore con tutti i dossier: chi era iscritto con una fideiussione falsa, chi si scaricava come Irpef il trasporto...andammo nel piazzale giù di sotto, c'era un bidone di ferro: buttammo tutto dentro e lo facemmo bruciare con la trielina. La Finanza tornò e non trovò un cazzo. E io non c'ero neanche...».

Le Truffe.

Bolt truffato, sono oltre 12 i milioni di dollari «spariti» dal conto in Giamaica. Storia di Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 18 gennaio 2023.

Soldi spariti nel nulla, gli avvocati di Usain Bolt sono al lavoro per capire dove siano finiti i 12,7 milioni di dollari che il re dello sprint aveva depositato presso una società d’investimento in Giamaica. Anche le autorità stanno indagando, Linton P. Gordon , legale del primatista Mondiale nei 100 metri ha mostrato una copia di una lettera inviata a Stocks & Securities Limited chiedendo la restituzione del denaro e minacciando ulteriori iniziative. La somma - secondo Bolt- era presente sul conto, che adesso invece presenta un saldo di appena 12.000 dollari. Dal fondo prendono tempo, spiegando all’Associated Press che stanno monitorando la situazione. Le autorità finanziarie di controllo giamaicane sono intervenute per commissariare la società, per portare avanti qualsiasi operazione adesso il fondo ha bisogno di un’autorizzazione governativa.

«Se non si è trattato di un errore siamo di fronte a un atto criminale nei confronti del nostro cliente» spiega l’avvocato che ha inviato un ultimatum di dieci giorni per restituire la somma iniziale. Dietro alla sparizione dei soldi ci sarebbe una truffa organizzata che ha colpito anche diversi altri clienti del fondo. Il ministro delle finanze giamaicano Nigel Clarke definisce il quadro «allarmante»: «Ma non bisogna nemmeno screditare le nostre istituzioni per colpa di pochi disonesti».

Sportivi truffati: da Bolt a Conte e Van Basten, milioni persi

L’ex velocista, otto volte oro olimpico e 11 volte oro mondiale aveva svelato i fatti qualche giorno fa attraverso il suo manager Nugent Walker, il quale ha raccontato tutto alla testata giamaicana The Gleaner. Bolt, che oggi ha 36 anni e si è ritirato dalle gare dal 2017, è considerato il più grande velocista di tutti i tempi. Anche se ha perso parte dei suoi guadagni, può contare su altre entrate. È diventato molto ricco, non solo grazie a i premi, ma soprattutto grazie alla cessione dei diritti della sua immagine, e ancora oggi è un importante testimonial di brand internazionali. Secondo Forbes, il suo patrimonio netto sarebbe superiore ai 34 milioni di dollari.

Sportivi truffati: da Bolt a Conte e Van Basten, milioni persi. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 15 Gennaio 2023.

Sono a decine gli sportivi eccellenti che sono rimasti truffati nel corso della loro carriera. È capitato anche a Cristiano Ronaldo, Andrea Silenzi, Roberto Cazzaniga e altri

Bolt e i milioni scomparsi

Usain Bolt aveva investito diversi milioni di dollari in un fondo giamaicano. Sono spariti nel nulla da un giorno all’altro. L’ex velocista, otto volte oro olimpico e 11 volte oro mondiale, è stato protagonista di una spiacevole disavventura finanziaria, un furto clamoroso ai suoi danni. A rivelarlo è stato il suo manager Nugent Walker, che ha raccontato tutto alla testata giamaicana The Gleaner. Bolt, che oggi ha 36 anni e si è ritirato dalle gare dal 2017, è considerato il più grande velocista di tutti i tempi. Anche se ha perso gran parte dei suoi guadagni, non si trova al verde. Nella sua carriera ha vinto molti premi, ma è diventato molto ricco soprattutto grazie alla cessione dei diritti della sua immagine, e ancora oggi è un importante testimonial. Secondo Forbes, il suo patrimonio netto sarebbe superiore ai 34 milioni di dollari. E non è l’unico sportivo finito nella rete dei truffatori.

Antonio Conte (e gli altri) coinvolto nel giallo Bochicchio

Recente la truffa nella quale è incappato Antonio Conte, oggi tecnico del Tottenham. Pensava di aver affidato 30 milioni di euro a un broker, invece era un truffatore seriale: Massimo Bochicchio, il Madoff dei Parioli. Nel tranello sono cascati anche Marcello Lippi e Stephan El Shaarawy: il trader, già nel 1999 cancellato dall’albo degli intermediari della Consob per irregolarità, che si serviva di carte intestate taroccate, prometteva rendite milionarie, e in realtà ha fatto sparire le fortune di numerosi vip. Bochicchio poi è morto il 19 giugno 2022 in un incidente stradale in moto sulla via Salaria a Roma: il suo corpo è stato trovato carbonizzato nell’incendio seguito allo scontro.

Roberto Baggio e la miniera di marmo nero

A metà degli anni ’90 a Roberto Baggio dissero che da una miniera in Perù si ricavava del marmo nero preziosissimo. Valeva più dell’oro. Ed ecco che il Divin Codino fu coinvolto da un’organizzazione specializzata nella raccolta illecita di risparmio e nella intermediazione finanziaria. I promoter abusivi promettevano guadagni immediati, ma i soldi non arrivarono mai agli investitori. Dieci anni dopo due banchieri genovesi ritentarono la stessa truffa ad altre persone.

Roberto Cazzaniga e la fidanzata inesistente

Truffa diversa (e ancora più recente, risale alla primavera 2022) per il pallavolista Roberto Cazzaniga, raggirato da una donna che si fingeva una modella e con la quale lui aveva instaurato una relazione a distanza via social, nonostante i due non si fossero mai incontrati dal vivo. Lei lo supplicava, inventava fantomatici problemi di salute, reclamava denaro per inesistenti operazioni chirurgiche, pretendeva regali costosissimi. Addirittura 15 anni di bonifici per un totale di 700mila euro. Dopo la scoperta della truffa, il giocatore fu aiutato da amici e compagni di squadra a uscire dall’incubo.

Cristiano Ronaldo, Nani e l’agenzia viaggi

Anche Cristiano Ronaldo è stato vittima di un raggiro. Il campione portoghese e all’amico e connazionale Nani, per gli spostamenti personali, si affidavano a un’agenzia di viaggi lusitana. La signora Maia Silva pensava a tutto. E andava anche in vacanza e spendeva anche i soldi dei due calciatori: ben 200mila euro.

Marco Van Basten e la crisi dei mercati finanziari

C’è anche Marco Van Basten, ex centravanti del Milan di Arrigo Sacchi, tra gli atleti truffati. L’olandese nella sua autobiografia Fragile ha raccontato di aver perso una decina di milioni di euro per un pasticcio dei suoi consulenti. «Firmavo qualsiasi cosa senza capire un tubo», rivelò. E spiegò di aver affidato, nei primi anni 2000, l’equivalente di 23 milioni di euro alla divisione «gestione di patrimoni» della banca olandese Abn Amro e di essersi trovato, in seguito alla crisi dei mercati finanziari del 2001-2002, con perdite potenziali sugli investimenti effettuati dai suoi gestori pari a circa 10 milioni di euro.

Riyad Mahrez e lo shopping a Miami. Dove non era mai stato...

L’attuale trequartista del Manchester City Riyad Mahrez nel 2021 perse la carta di credito, una delle tante di sua proprietà. Se ne accorse un mese più tardi quando, leggendo l’estratto conto, notò una serie di spese in boutique di Miami, in Florida, in cui non era stato. In totale, chi aveva utilizzato la carta, aveva speso 175mila sterline in shopping, quasi 200mila euro.

Mirko Vucinic, Philippe Mexes, Matteo Ferrari e le auto... «noleggiate»

Ai tempi della Roma il difensore francese Philippe Mexes e l’attaccante montenegrino Mirko Vucinic vennero raggirati da una concessionaria d’auto. Il truffatore in questione vendeva macchine che prendeva a noleggio, con gli inconsapevoli calciatori che ogni mese ricevevano solleciti di pagamento per finanziamenti mai chiesti. La truffa fu scoperta dopo la denuncia di un cittadino che, dopo l’acquisto di due Smart nel 2011, non era mai riuscito a ottenere il passaggio di proprietà. Le auto, infatti, erano state noleggiate e mai state restituite.

Andrea Silenzi, Giorgio Venturin e le Porsche

Sempre a Roma, ma una ventina d’anni prima, furono truffati Andrea Silenzi, all’epoca in maglia giallorossa, e Giorgio Venturin, in casacca biancoceleste. Andarono dal concessionario, comprarono una Porsche a testa e fu chiesto loro di attendere due settimane per sistemare gli accessori. Invece, 15 giorni dopo, la concessionaria non esisteva più: capannone vuoto, colossale truffa.

Alessandro Gamberini e la fideiussione

Nel 2014 Alessandro Gamberini — ex difensore di Bologna e Fiorentina — denunciò alla Guardia di Finanza di aver firmato una fideiussione ed essere stato truffato. Due persone gli avevano presentato la prospettiva di un investimento vantaggioso nella propria attività imprenditoriale. Che finì nel nulla. Secondo la ricostruzione, ci rimise un milione di euro. Le due persone, due fratelli, furono condannati dal Tribunale di Prato assieme a un funzionario di banca per concorso in truffa aggravata nei confronti dell’ex calciatore.

Nacka Skoglund e il ragioniere «scomparso»

Stella malinconica dell’Inter, Nacka Skoglund cadde nella rete dei truffatori negli anni ’50. Girava tutti i suoi guadagni a un connazionale, un ragioniere di Stoccolma. Lui lo rassicurava sugli investimenti, ma sparì con i soldi e il giocatore nerazzurro si ritrovò con le tasche vuote.

Roberto Bettega e i quadri

A Roberto Bettega nel 2006 vennero venduti quadri tarocchi da un gallerista, tra cui persino un Morandi. Salvo scoprire, solo a pagamento avvenuto, che nemmeno si trattava di un quadro, ma di fotografia anticata incollata su tela. Una truffa bella e buona.

Scottie Pippen e l'aereo

A Scottie Pippen, monumento della Nba, fecero comprare un aereo, in saldo, a quattro milioni di dollari. Pippen, stella dei Chicago Bulls che con Michael Jordan vinceva tutto negli anni Novanta, seppur titubante, diede l’ok per l’acquisto, sognando forse di volare davvero. Invece, gli arrivò un aereo tutto scassato, buono per un giro in pista, ma impossibilitato a decollare. E allora Pippen si rassegnò e sborsò altri due milioni di euro per sistemare il mezzo.

I Debiti.

Estratto dell'articolo di Carlo Tecce per l’Espresso il 25 luglio 2023.

Questa è la nuova cifra che racchiude e rinchiude il pallone tricolore: 5,6 miliardi di euro. Va imparata a memoria. Ripetuta con tono mite. Una litania collettiva. Ancora, e ancora, e ancora: 5,6 miliardi di euro è il debito consolidato, emerso, dei campionati professionistici in Italia.  

(...) 

In questo contesto di «profonda trasformazione», s’è detto, eccome se non s’è detto, valgono la direzione (dove si vuole andare) e le regole (come si vuole andare). La Figc di Gabriele Gravina ha provato a fissare regole per affrontare la «profonda trasformazione» e non smarrire la direzione. 

Nella primavera del ’22, proprio per rimettersi in cammino con una distanza già allarmante dai tornei rivali, il Consiglio Federale ha approvato un pacchetto di norme per subordinare l’iscrizione ai campionati al rispetto di un indice di liquidità, dunque a una capacità di gestione nel medio e lungo periodo: evitare sorprese, implosioni, sperequazioni. Come osservano quelli bravi: rassicurare gli investitori esteri. Però la Lega ha impugnato il provvedimento. Allora la Figc ha utilizzato l’indice per la compravendita dei calciatori che viene bloccata se il rapporto tra ricavi e costo del lavoro supera 0,70.

Questa primavera il Consiglio Federale è intervenuto per far incastrare le leggi statali con quelle sportive e impedire che le ristrutturazioni dei debiti (vedi il caso Reggina) creino immotivati vantaggi. Nel mezzo ha spadroneggiato Claudio Lotito che, con la sua doppia veste di proprietario della Lazio e di influente senatore forzista del Molise, ha escogitato, e ne rivendica il successo con fierezza, il comma per spalmare in 60 rate e in 5 anni oltre 800 milioni di euro di tasse scadute del calcio. Come possano conciliarsi le strategie federali con i rammendi di Lotito è un mistero avvolto in un enigma. Semplice: non si conciliano.

Se alla pozione appena descritta - piena di contraddizioni e non meno di veleni - si aggiungono le stramberie della giustizia sportiva, si arriva agli effetti allucinogeni di questi giorni. Con la Reggina che è fuori e dentro al campionato di Serie B, con il Leccoche di mattina è in Serie B e di pomeriggio è in Terza Categoria, con il Perugia, il Siena, il Foggia eccetera eccetera. E una costante: il Collegio di Garanzia del Coni che ribalta le decisioni Federali oppure - è l’esperienza del processo Juventus - dilata i calendari e incentiva la confusione. 

Che la giustizia sportiva sia da riformare è argomento condiviso: per la Figc di Gravina, per il ministero dello Sport di Andrea Abodi, per il ministero del Tesoro di Giancarlo Giorgetti. E lo stesso Giorgetti è stufo di un calcio insofferente alle scadenze nei pagamenti e, soprattutto, è preoccupato per un debito, in gran parte tributario e fiscale (ogni anno il calcio deve circa 1,4 miliardi di euro), che non smette di gonfiarsi. Un debito che, ristrutturato o spalmato che sia, presto o tardi, più presto che tardi, si potrebbe abbattere sui conti pubblici. Il ministro vuole coinvolgere in varie iniziative la Guardia di Finanza ed esige maggiore fermezza dalle autorità sportive. Comprensibile.

C’è bisogno anche di leggi specifiche. Non di leggi Lotito, però. Il calcio e lo sport italiano hanno bisogno di spazio. Il giro di affari di pubblicità in attività sportive e collaterali è di 1,58 miliardi di euro in Italia (di cui 710 nel pallone) contro i 4,81 miliardi in Gran Bretagna e i 5,67 in Germania. A Roma siamo ai livelli del 2017 e si avanza di un paio di punti percentuali. Nel Regno Unito di oltre dieci. La Serie A ha firmato 675 accordi pubblicitari che per un modesto 19 per cento hanno riguardato aziende straniere, percentuale che per la Serie B si riduce al 3.

I diritti radiotelevisivi sono ormai l’unica salvezza o miraggio di salvezza, certamente fonte sicura di reddito. Nel 20/21 i proventi televisivi domestici e di gare Uefa hanno raggiunto 1,7 miliardi per un ampio ventaglio di circostanze che, inesorabilmente, sono mancate nel 21/22 quando si è atterrati a 1,2 miliardi. Un prodotto appetibile per gli spettatori globali della Serie A, che dovrebbero essere mezzo miliardo con addirittura la metà in Asia, è un prodotto spettacolare, ovvio, e anche un prodotto serio, lineare, rigoroso. Un po’ di ironia. 

Per consolarsi. In Italia aumentano soltanto le scommesse sul calcio. Nel ’22 la raccolta è stata di 13,2 miliardi con un gettito fiscale di 342 milioni. Nel mondo la Serie A attrae 36,6 miliardi di euro, non lontano dai 38,4 miliardi della Liga spagnola, quasi triplicata dalla Premier inglese con 80 miliardi. In futuro, si teme, ogni cosa andrà peggio, molto peggio. Chi vuole scommetterci?

Il calcio di domani tra riforme, un sistema paludoso e valori dimenticati. L’incontro dei Dialoghi dell’Espresso a Rivisondoli con i protagonisti del mondo del pallone italiano. Redazione de L'Esprresso il 26 Luglio 2023

Quale direzione sta prendendo il calcio italiano? Dove sta andando l’industria che da sola vale il 3% del PIL nazionale mentre i suoi talenti più rappresentativi si trasferiscono in Arabia e il gap interno tra i diversi campionati e quello esterno rispetto agli altri principali movimenti europei aumenta sempre di più?

Ne ha parlato nel ritiro estivo della Salernitana a Rivisondoli il direttore dell’Espresso Alessandro Mauro Rossi insieme al presidente della Figc Gabriele Gravina, il membro del CdA della Salernitana e Presidente Federbasket Gianni Petrucci, l'Ad granata, Maurizio Milan, l'avvocato e docente di diritto commerciale Francesco Fimmanò ed il tecnico granata Paulo Sousa. 

«Il calcio italiano ha un indebitamento consolidato di 5,6 miliardi - ha esordito il numero uno della Figc – cresciuto del 4,4%. Siamo un’industria con numeri altissimi e grandi criticità. Negli anni ci siamo cullati nel rincorrere in maniera errata il concetto di crescita. A preoccuparmi molto è soprattutto il rapporto tra il valore della produzione ed il costo del lavoro. Noi ci prendiamo le nostre colpe ma dobbiamo fare in modo che tutti nel nostro paese si assumano le proprie responsabilità. Non si risolvono i problemi rinviando la copertura delle perdite e parlando sempre e solo di diritti. Pensiamo a quello che è accaduto al decreto crescita che si è tradotto in una rincorsa a tesserare sempre più calciatori stranieri. Dobbiamo mettere tutte le società nelle condizioni di competere allo stesso modo guardando agli esempi e ai club virtuosi come la Salernitana. Il nostro calcio ad oggi non ha una visione, occorre procedere con riforme serie ed è arrivato il momento di trasformare le idee in progetto. Ci sono tre pilastri fondamentali da cui dobbiamo ripartire: infrastrutture, vivai e capitale umano. Abbiamo chiuso lo scorso campionato con due immagini: una società che vince il campionato, il Lecco, ed una che saccheggia lo stadio perché retrocessa (il Brescia). Oggi il Lecco è in C ed il Brescia in B. È evidente che c’è qualcosa che non va».

Sulla stessa lunghezza d’onda Gianni Petrucci. «Il calcio è una bella malattia ma gestire questa industria nel nostro paese è una difficoltà enorme. Purtroppo non si è ancora arrivati al decreto collettivo. Le società sono in difficoltà: è giusto togliere il vincolo collettivo, ma bisogna dare i tempi tecnici. Sul tema delle riforme il Presidente Gravina sta lavorando seriamente in un momento molto difficile».

Il rapporto tra club e procuratori è un altro argomento entrato in modo prepotente nella discussione. L'avvocato Francesco Fimmanò va dritto al punto: «Non abbiamo nulla contro gli agenti ma dobbiamo prestare attenzione al conflitto di interessi. Con il decreto legislativo 37 abbiamo un nuovo rapporto giuridico, una messa in contatto: questa figura giuridica deve fare gli interessi di tutte le parti in campo. Siamo passati dalla sentenza Bosman al paradosso che la proprietà di un giocatore non era più della società che lo aveva pagato ma del procuratore». Gli ha fatto eco l’ad Maurizio Milan affrontando il tema dei diritti tv, altro grosso tasto dolente del calcio: «Operiamo in un contesto malato. Guardo alla Lega e vedo un luogo di non decisione, paludoso. Occorre trovare la giusta stabilità ed applicare un modello in cui siamo convinti di essere molto lungimiranti, senza accettare compromessi che ci vengono continuamente richiesti». 

Ma siccome il calcio non è soltanto riforme, numeri e strategie politiche ci ha pensato il tecnico della Salernitana Paulo Sousa a riportare il pallone al centro: «La crisi non è soltanto economica, ma anche di valori. Tutti noi che lavoriamo in questo mondo dobbiamo impegnarci a riportare al centro di tutto i giusti valori si questo sport e lo dobbiamo fare soprattutto per le nuove generazioni. Soltanto così potremo avere un calcio migliore in futuro».

Il Salva Sport.

Estratto dell'articolo di Federico Strumolo per “Libero quotidiano” il 2 giugno 2023. 

Guai a dirlo ai tifosi, ma retrocedere in serie B per le società coinvolte potrebbe poi non essere così male. […] Che nessuno fraintenda[…] la retrocessione rappresenta un incubo sportivo per qualsiasi giocatore o allenatore, ma per come è strutturato il calcio in Italia è evidente che finire in B possa trasformarsi in un vantaggio economico grazie al cosiddetto “paracadute”. Che altro non è che un sostegno per le società che da una stagione all’altra si ritrovano senza i ricavi garantiti dalla serie A, con le ovvie conseguenze sul bilancio.

Un (ricco) aiuto basato sullo storico dei club coinvolti e diviso in tre fasce: la più ricca, che garantisce 25 milioni di euro, per le squadre che hanno partecipato alla serie A per tre delle ultime quattro stagioni, anche non consecutive […] ; quella di mezzo, da 15 milioni, per le società che hanno preso parte a due degli ultimi tre campionati di A; l’ultima, da 10 milioni, per le neopromosse che tornano subito in serie B.

In sostanza la Cremonese dalla sua penultima posizione in classifica guadagnerà 10 milioni, la Sampdoria già certa dell’ultima posizione ne incasserà ben 25, esattamente come chi uscirà sconfitta dalla lotta salvezza tra Verona e Spezia.

Ma chi arriva meglio all’ultimo atto tra scaligeri e aquilotti? […]  La netta superiorità delle rose di Milan e Roma, comunque, pone Verona e Spezia in una situazione di svantaggio e servirà un’impresa, un meraviglioso colpo di coda, per uscire vincitori dagli ultimi novanta minuti della stagione. Che poi ultimi potrebbero non essere, dato che l’ombra dello spareggio salvezza si fa sempre più ingombrante: dovessero terminare a pari punti, come dice tra l’altro in questo momento la classifica (Verona e Spezia sono a quota 31), a decidere chi si salverà sarebbe una sfida in gara secca, con rigori in caso di parità dopo il 90’.

Giusta la norma salva-sport; una questione economica, sociale, sanitaria. Giovanni Capuano su Panorama il 20 Dicembre 2022.

Se non ci saranno cancellazioni a sorpresa nella manovra il Governo mette a disposizione dello sport, di tutti gli sport, 800 milioni per la loro missione educativa, medica e non solo agonistica

Lo sport italiano avrà la norma che lo aiuta ad uscire dalla crisi, inserita nella manovra di bilancio la cui ultima, a meno di smentite, riscrittura pare aver trovato l’equilibrio necessario perché lo Stato si facesse carico dei danni della pandemia sull’intero settore. Superate le resistenze e rimasti gli strepiti di chi ancora attacca utilizzando l’argomentazione del “regalo ai presidenti della Serie A” con in prima linea Renzi che sta conducendo una battaglia disperata per accreditarsi il ruolo di castiga-sprechi. E’ l’articolo 38-bis in cui si prevede che le tasse accumulate dal 2020 a oggi, frutto dei rinvii concessi in momenti in cui stop e restrizioni avevano quasi azzerato i ricavi della filiera sportiva, possano essere restituite in rate mensili per i prossimi cinque anni con una mora del 3% e, nel caso del calcio e delle altre discipline, senza sanzioni penali o sportive. Un provvedimento che obbligherà il Governo a non incassare nell’immediato diverse centinaia di milioni di euro (se ne stimano 800 milioni solo per il calcio) ma che regala ossigeno a una filiera in costante anossia. E non solo il tanto detestato pallone dei ricchi o presunti tali della Serie A, rappresentati dal numero uno della Lazio e senatore di Forza Italia, nonché vicepresidente della Commissione Bilancio e longa manus del compromesso. Aveva garantito il neoministro dello Sport, Andrea Abodi, che non sarebbe stato fatto nessuno sconto al calcio e allo sport e così è stato. Ma allo stesso tempo si è data una risposta complessiva a un settore economico che, secondo le stime più recenti, ha generato nel 2021 96 miliardi di euro di ricavi, dato lavoro a 389mila persone e contribuito al Pil italiano per il 3,6% (Osservatorio sullo Sport System di Banca Ifis). Un treno di cui il calcio professionistico rappresenta da sempre la locomotiva con il suo miliardo e 400 milioni di euro di tasse e imposte versati nell’ultimo anno e con un sistema di mutualità che ha tenuto in piedi per decenni tutto il movimento fino ai dilettanti e il resto dello sport, finanziato dal giro d’affari generato dal massimo campionato di pallone. Girare la testa dall’altra parte, appellarsi ai tanti errori gestionali, agli scandali e alle malversazioni che sono sotto gli occhi di tutti, non solo avrebbe aggravato la crisi pallonara ma si sarebbe scaricato su tutto il resto travolgendolo. A perderci sarebbero stati tutti, cominciando dallo Stato che dallo sport riceve un’enormità di benefici per la sua funzione sociale e di welfare. Spesso a costo zero o guadagnandoci, sfidando anche la coerenza laddove, ad esempio, alle imprese del settore è vietato fare ricorso alle partnership con l’industria del betting dalla quale lo Stato incassa ricchi dividendi ogni anno. Da anni la Figc misura il valore sociale del calcio con un parametro economico che ne fotografa l’impatto su economia, salute e benessere sociale. Già nel 2019, prima dello tsunami del Covid, l’indice era superiore ai 3 miliardi di euro compresi 1,2 miliardi alla voce risparmi della sanità. Numeri da aggiornare considerando l’intero perimetro dello sport italiano i cui vertici già nel 2020 avevano denunciato il rischio di azzeramento a causa delle conseguenze della crisi pandemica. Erano i mesi del blocco totale delle attività, prolungato ben oltre il lockdown, delle limitazioni a stadi e palazzetti mentre altrove la vita ripartiva e dei sostegni a pioggia e a fondo perduto distribuiti un po’ ovunque (ma non alle società di calcio e non solo) all’insegna del “non si possono regalare denari ai ricchi scemi del pallone”. Che ricchi lo sono stati ma di sicuro non lo sono da tempo, come testimoniano i miliardi di euro bruciati nei bilanci della Serie A e delle leghe professionistiche dal 2020 al 2022. Senza aiuti allora, se non le briciole, e senza aiuti adesso perché “non si può trattare lo sport diversamente dal resto dell’industria” (cosa fatta negli ultimi due anni), tutto il sistema rischiava di andare in tilt. Su questo la manovra ha preso una posizione coraggiosa, sfidando il sentimento popolare e allargando a tutti delle misure necessarie. Ora servono le riforme perché la nave smetta di imbarcare acqua. Serve lo snellimento delle procedure e la chiusura dell’epoca dei veti incrociati perché lo sport possa investire in infrastrutture (il 93% degli stadi italiani è ancora proprietà pubblica con 63 anni d’età media), dotarsi degli strumenti per camminare con le proprie gambe e continuare a rispondere alla funzione sociale che gli è riconosciuta ovunque e non solo in Italia. In fondo è la base che ha spinto l’Avvocatura generale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea a bocciare i ribelli della Superlega: la Uefa (che gestisce il calcio europeo) è effettivamente un monopolio e un’industria che muove miliardi di euro, ma può derogare alle norme sulla concorrenza proprio in virtù della sua mission sociale. Con buona pace di chi attacca i presidenti della Serie A facendo finta di non capire che attacca tutto il sistema.

Estratto da sportmediaset.mediaset.it mercoledì 27 settembre 2023.

Francesco Facchinetti è pronto a intraprendere una nuova carriera. Dopo una vita nel mondo della musica, il figlio del cantante dei Pooh Roby si è buttato da qualche anno sulla comunicazione e ora è pronto a sbarcare anche nel calcio: ha infatti superato l'esame per diventare agente Fifa […]. "Sono tornato bambino, sto impazzendo, sono felicissimo – ha scritto nelle storie su Instagram - Per tanti di voi non vuol dire niente, ma per me vuol dire tantissimo. Esame passato. Seicento pagine in inglese, venti domande, potevi fare al massimo cinque errori, la prima volta mi hanno bocciato per sei errori e la seconda è stata quella buona. Ho studiato per due mesi e mezzo, ma ce l’ho fatta, ringrazio quelli che mi sono stati vicino. Sono libero di operare sul mercato mondiale”.

 Ivan Zazzaroni per corrieredllosport.it mercoledì 27 settembre 2023.

Il calcio italiano sta per dichiarare guerra agli agenti e anche a se stesso. Vuole combattere il Diavolo, ovvero tutti quei personaggi che fanno i milioni sui piedi dei giocatori e sui portafogli di quegli angioletti dei presidenti. Domani il Consiglio federale si esprimerà sull’adozione del nuovo regolamento Fifa (una chiavica). Non solo: andrà addirittura oltre - questa l’intenzione - limitando ulteriormente la libertà economica della categoria più detestata dal popolo del pallone. 

Troppo generoso il “Fifa”, che prevede commissioni fino a un massimo del 10% della somma incassata dalla società. Oppure, nel caso in cui l’agente assista un calciatore, il limite al 3% dello stipendio pattuito fra l’atleta e il club che l’acquista. Percentuali inaccettabili, secondo i federali: urge un’italica sforbiciata. Mi ricorda tanto la storia del marito cornuto che, per fare un dispetto alla moglie fedifraga, si tagliò le balle.

A prescindere dal fatto che abbiamo una legge dello Stato che regolamenta perfettamente l’attività dei professionisti dell’intermediazione, l’effetto che il nostro calcio rischia di ottenere è l’isolamento dal resto d’Europa e del Mondo (Arabia). In sostanza, potremmo essere gli unici top a uscire a tutti gli effetti dal mercato: i tribunali di Spagna, Olanda e Svizzera si sono attivati e a breve emetteranno le rispettive sentenze. Tutto lascia pensare che saranno contrarie al “Fifa”. La Germania ha fatto sapere che lo considera illegittimo e non ne terrà conto per operazioni di mercato che interessino il territorio, sia che riguardino giocatori sia procuratori o intermediari tedeschi.

«Abbiamo una legge dello Stato e ci teniamo quella perché è ben fatta», è stata la reazione dei francesi, mentre il 30, un giorno prima dell’introduzione del nuovo regolamento, si pronuncerà il Regno Unito attraverso il risultato di un arbitrato tra la federazione e l’associazione degli agenti inglesi. Ricordo che la Fifa è la stessa che nel 2015 proclamò il “vale tudo”, abolendo l’albo degli agenti e autorizzando una giungla di eccessi nei confronti dei quali non è mai intervenuta. Aggiungo che non ha mai mosso un dito neppure per punire quei club che, pur di accaparrarsi il campione più ambito, hanno versato decine di milioni alle famiglie del giocatore, pratica vietatissima.

Prima di commettere un errore esiziale (riducendo infinitamente il potere d’acquisto e “seduttivo” della serie A), perché non sedersi a un tavolo con giudici terzi per valutare quale possa essere la soluzione più corretta? A quanto ci risulta, gli agenti sani erano e sono disposti ad accettare un tetto ai compensi, ma chiedono di partecipare alla discussione su un tema fondamentale per il futuro del calcio italiano e non solo del loro conto corrente.

O il regolamento lo adottano tutti i Paesi o nessuno. Molto più serio e risolutivo sarebbe esercitare controlli capillari su tutte le operazioni che peraltro obbligano già agenti e società alla registrazione dei compensi. La demagogia muove dall’alto verso il basso, e quindi dà voce non già a esigenze reali del popolo, ma all’astuzia di detentori del potere che mirano a carpire il consenso popolare per continuare a coltivare i propri interessi. Suggerisco a Infantino, Ceferin e ai consiglieri federali la lettura de “Il populismo fra democrazia e demagogia” di Carlo Chimenti, che è stato un grande costituzionalista.

Estratto dell'articolo di Claudio De Carli per “il Giornale” il 6 febbraio 2023.

L’ereditiera? Beh, intanto si presenta bene, appunto che in un contesto largamente maschilista ha una sua valenza, eleganza poco appariscente, pulita, semplice, ottimista, diretta, e poi competenza assoluta, tenacia, volontà. Quando negli anni Novanta il presidente del Brasile Fernando Henrique Cardoso eletto col Psdb di centro destra decide una lotta senza frontiere alla corruzione che affossa l’economia del Paese, inserisce nel suo staff antitrust una squadra di giovani studenti e chiama lei, Rafaela Pimenta, neolaureata in legge.

Rafaela non ha ancora la più pallida idea di cosa ne sarà ma si getta nel nuovo progetto, ed è in queste circostanze che conosce casualmente Mino Raiola. […] L’imprinting fra i due è formidabile, Mino intuisce che Rafaela è la persona che cerca, Rafaela non ha dubbi che sia Mino la persona che la farà svoltare. […]

Su Mino un impatto impensabile, neppure lui è già il migliore nel campo, è abituato a fare tutto in prima persona, non delega, non è affatto propenso a condividere le sue mosse, ma sente che Rafaela è di altra categoria e quando decide di spostare la sua attività a Monte Carlo anche Rafaela si trasferisce nel Principato, discreta, sempre un passo dietro, misteriosa. Di lei non si conosce nulla, lavora all’ombra del più grande agente sulla faccia della terra che arriva a chiederle una compartecipazione nella sua agenzia, proposta che lascia sbalorditi, la One è una potenza inimmaginabile, muove i più grandi calciatori in circolazione, una famiglia.

L’ex commerciante italiano di mozzarelle e la brasiliana zia Rafa, come la chiamano i suoi assistiti, ora sono la punta del mercato calcistico mondiale.

 Lei si rivolge ai calciatori con estrema educazione, gli dà un carattere, li forma, si occupa di tutto, logistica, problemi familiari, l’istruzione dei loro figli, perfino del loro account, va addirittura in vacanza con loro, si presenta alle feste di compleanno e anniversari, una missione: Caro, qual è il tuo più grande desiderio? Poi un maledetto giorno Mino lascia la terra, adesso cosa ne sarà dei vent’anni della One, chine prenderà in mano le sorti? […]

Rafaela adesso è la più influente donna del calcio mondiale, presidente onorario della Iafa, l’Italian Association of football agents, e non esita a scagliarsi contro la Fifa che vuole regolamentare a modo suo il settore. […]

 […] Naturalmente non mancano i suoi detrattori, l’hanno anche insultata con epiteti poco riportabili, ha atteso il momento giusto e quando è arrivato non si è fatta trovare impreparata nel rispetto totale delle linee di Mino ma ferma anche nei confronti dei suoi famigliari più stretti […]

Razzismo.

Violenza.

Razzismo.

Estratto dell'articolo di Matteo Pinci per “la Repubblica” il 25 maggio 2023.

[…] Vinícius, 22 anni, il fantastico attaccante brasiliano del Real Madrid, ha postato su Instagram un terribile video con tutti gli episodi di discriminazione di cui è stato vittima […]. Allo stadio Mestalla di Valencia, […]è diventato il bersaglio dei razzisti fin dall’arrivo sul pullman del Real Madrid ai cancelli dell’impianto. A Valencia era stato espulso lui, nonostante tutto, per una reazione nervosa contro un avversario che lo aveva preso per il collo da dietro: espulsione cancellata, l’arbitro al Var che aveva inviato le immagini, ritenute parziali, rimosso[…]

Nel frattempo la questione è diventata un caso diplomatico su scala internazionale. A Ginevra ha parlato l’Alto commissario Onu per i diritti umani, Volker Turk: «Invito chi organizza eventi sportivi a mettere in atto strategie per contrastare il razzismo. Occorre fare molto di più». Il Brasile[…] ha […]pento la luce del Redentore del Corcovado, a Rio. 

Il presidente Lula, che lo ha chiamato dopo i fatti, si è fatto carico della questione e la affronterà personalmente col primo ministro spagnolo Pedro Sanchez. Un sostegno che Vinicius non ha ricevuto nella stessa misura in Spagna. Anzi. Javier Tebas, presidente della Liga spagnola, la società che organizza il campionato, ha accusato il giocatore di aver disertato gli appuntamenti sul razzismo organizzati dalla Liga aggiungendo un inquietante “non lasciatevi manipolare”.

Poi si è dovuto scusare, dando la colpa alla fretta e all’emotività del momento, ma il suo atteggiamento riflette quello di molte istituzioni sportive, […] Ma perché lui, come altri, appare più interessato a tutelare il valore commerciale del torneo che a tentare di fare pulizia dai tanti razzisti che regolarmente fanno mostra di sé negli stadi con ululati bestiali contro i giocatori neri. 

Un fenomeno che non ha confini: prima di Valencia era successo a Madrid, dove i tifosi dell’Atletico avevano impiccato un manichino con la maglia di Vinicius e dove in vari casi si sono avvertiti insulti come “macaco” verso i giocatori avversari, come Araujo del Barcellona. Da anni il Real segnala casi di xenofobia ai danni del giocatore, la Liga ne ha contati almeno nove dal 2018 a oggi e mai era successo nulla: è servito che lui affrontasse in campo i razzisti per far aprire a una Procura spagnola un’indagine che ha portato finora a sette arresti, tra Valencia e Madrid.

È stata chiusa anche la tribuna Mario Kempes dello stadio valenciano per cinque turni: in almeno altre sette circostanze non era accaduto, prova tangibile di quanto i vertici del calcio abbiano preferito far finta di nulla, invece di dare un segnale netto contro i razzisti. […]

Reti bianche. Gli insulti razzisti nella Liga e un presidente che vota Vox. Valerio Moggia su L'Inkiesta il 23 Maggio 2023

Nella Spagna che va verso le elezioni, come in Italia si incolpa chi subisce le discriminazioni di inesistenti «provocazioni» invece di punire i responsabili, che calibrano il turpiloquio sul colore della pelle dei calciatori. L’accanimento su Vinícius Jr. si ripete ogni domenica, ma la lista è lunga

«Non è la prima volta che succede, non è la seconda e nemmeno la terza». Basterebbe questa frase, scritta sui suoi canali social da Vinícius Júnior, per rendere adeguatamente l’idea dello stato del razzismo nel calcio spagnolo. Se la Serie A è spesso al centro di polemiche legate a cori discriminatori (come si è visto nei recenti casi di Lukaku e Vlahović), la Liga non è purtroppo da meno. Ed è in particolare l’attaccante brasiliano del Real Madrid la vittima preferita dei tifosi razzisti di Spagna: in quasi ogni stadio in cui si reca a giocare, c’è sempre qualcuno che gli urla «scimmia».

La lista è impressionante, anche solo in quest’unica stagione: a settembre i tifosi dell’Atlético Madrid cantavano «Vinícius è una scimmia» fuori dal proprio stadio, prima di un derby; a dicembre gli stessi insulti arrivarono dai tifosi del Real Valladolid; a febbraio è toccato a quelli del Maiorca; domenica sera, infine, Valencia si è aggiunta alla mappa.

Ma il problema va ben oltre i tifosi, e basta leggere l’intervista che lo scorso febbraio il difensore del Cadiz Juan Cala ha rilasciato a Relevo: alla domanda se ci sia razzismo nel calcio spagnolo, ha risposto candidamente di no. Nel 2021, Cala era stato accusato di aver riferito insulti razzisti a Mouctar Diakhaby del Valencia, e pochi mesi fa, a proposito di quei fatti, ha dichiarato: «Sono un cittadino spagnolo con diritto alla presunzione di innocenza e ad essere ascoltato. Questo sì che è razzismo, approfittarsi di un fatto del genere per vendere copie».

Provocazioni e razzismo

Il fatto che Vinícius sia così spesso vittima di questi episodi si porta appresso una narrazione tossica che finisce per circolare molto sui social anche al di fuori dell’ambito spagnolo, ad esempio tra i tifosi italiani. Ovvero che il brasiliano non sia insultato per il colore della sua pelle, ma in quanto provocatore. La stessa cosa che, qui da noi, è stata detta di Balotelli, di Kean, e di Lukaku. Lo ha detto in tv lo scorso settembre il noto procuratore Pedro Bravo, e la stessa cosa aveva detto proprio Cala nella sua intervista a Relevo: «È per il suo modo di giocare, non per il suo colore».

Sembra banale dover ripetere che il fatto stesso di utilizzare epiteti razzisti per insultare un giocatore, invece di qualsiasi altro insulto più neutro, è implicitamente un segno di razzismo. Ma la verità è che la notorietà del brasiliano e la frequenza degli episodi che lo coinvolgono distolgono l’attenzione da tutti gli altri, che non sono certo pochi.

A marzo Antonio Rüdiger è stato vittima di discriminazioni; a febbraio è successo nei confronti di Samu Chukwueze; ad aprile a Nico Williams; e nelle passate stagioni cose simili sono accadute a Iñaki Williams e ad Ansu Fati, offeso addirittura sulle pagine di Diario Abc. Quindi, non è solo Vinícius e non è solo questione di atteggiamento del giocatore.

Quanto accaduto al Mestalla di Valencia ha tutte le potenzialità per diventare il nuovo caso emblematico del calcio spagnolo, viste le reazioni che ha sollevato. Diversi giocatori e giornalisti stanno condannando l’accaduto, e anche Carlo Ancelotti, tecnico del Real Madrid, ha usato parole particolarmente dure.

«La Liga ha un problema. Sono curioso di vedere cosa succederà adesso», ha dichiarato nel post-partita e quando la giornalista gli ha domandato che conseguenze si attendesse ha precisato «Nessuna». Il suo attaccante è tornato ad accusare la Liga di non fare abbastanza su questo fronte e di abbandonare le vittime, e la risposta che i vertici del campionato spagnolo gli hanno dato mette in luce un altro aspetto del problema.

Lo specchio della politica

«Siccome quelli che dovrebbero spiegarti cos’è e cosa può fare la Liga contro il razzismo non lo fanno, abbiamo cercato di spiegartelo noi, ma tu non ti sei presentato a nessuno degli incontri che avevi richiesto. Prima di criticare e insultare la Liga, è necessario che ti informi correttamente». Queste parole sono state scritte su Twitter, come replica a Vinícius, dal presidente del campionato spagnolo Javier Tebas, che già lo scorso dicembre, dopo il caso contro il Valladolid, aveva risposto al brasiliano definendo «ingiuste» le sue accuse alla Liga di non fare nulla contro il razzismo.

Nel 2020, per dichiarazioni non più gravi di queste, Greg Clarke era stato costretto a dimettersi da presidente della Football Association. Difficile immaginare che Tebas possa seguire lo stesso destino, così come a suo tempo nessuno in Italia chiese conto a Carlo Tavecchio delle sue dichiarazioni razziste.

Nel Paese con uno dei governi più a sinistra d’Europa, l’estrema destra xenofoba è un problema crescente: alle elezioni del 2019 i neofascisti di Vox avevano conquistato il quindici per cento dei voti, diventando il terzo partito. Un risultato che la formazione di Santiago Abascal punta a confermare nelle prossime elezioni del 28 maggio, con la speranza di potersi alleare al Partido Popular ed entrare così nella maggioranza di governo.

Forse non sorprenderà nessuno, a questo punto, scoprire che tra i principali sostenitori di Vox c’è proprio Javier Tebas. Già militante del partito estremista Fuerza Nueva negli anni Ottanta, un anno fa il presidente della Liga aveva rivelato di votare per il movimento nostalgico del Franchismo: «Si dicono cose di noi per cui, personalmente, mi sento offeso: razzisti, xenofobi… Quando la maggior parte degli elettori di Vox non sono niente di tutto questo».

Il quadro, per quanto possa sembrare cupo, è in realtà abbastanza chiaro: uno dei campionati con il più serio problema di razzismo in Europa è presieduto da un uomo che sostiene un partito razzista e preferisce attaccare le vittime di discriminazione piuttosto che i responsabili.

Ma come al solito, in questi casi, l’estrema destra è più altro la spia e non la causa primaria del problema. La mancanza di una solida cultura antirazzista in Spagna emerge dal mondo del calcio in tutta la sua forza.

Accanto a Tebas, fanno discutere le parole di Borja Sanjuan Roca, portavoce del Psoe a Valencia e tifoso valenciano, che su Twitter, dopo una veloce condanna generale del razzismo, si è sentito in dovere di contestare le parole di Ancelotti (accusato di aver incolpato l’intero stadio Mestalla degli insulti a Vinícius), definendole «bugie» e accusando l’allenatore italiano di aver parlato così solo perché protetto «dal potere mediatico di Madrid».

Vlahovic, i cori razzisti in Atalanta-Juventus, l’ammonizione e Gasperini: cosa è successo. Alessandro Bocci, inviato a Bergamo su Il Corriere della Sera il 7 Maggio 2023

Nel finale di Atalanta-Juventus Dusan Vlahovic viene bersagliato dagli ultrà bergamaschi con cori razzisti. Da lì il gol, l'esultanza e il giallo. Poi le parole di Gasperini

Succede ancora. Stavolta non con un giocatore di colore, ma con un giovane serbo. «Sei uno zingaro», urla la Curva Pisani a Dusan Vlahovic nel momento più concitato di Atalanta-Juventus, spareggio per la Champions . Tutto comincia al 90’ quando il centravanti della Juve, entrato a metà ripresa al posto di Milik, allontana il pallone dopo aver subito fallo da Maehle. Koopmeiners e De Roon invitano gli ultrà bergamaschi a fermarsi, ma non succede. Il finale è rovente. Vlahovic è scosso, l’arbitro Doveri ferma la partita per un minuto, l’altoparlante fa il solito annuncio.

Il gol, l'esultanza e il giallo

Poi si riprende e Vlahovic, che qui era stato preso di mira già quando giocava con la Fiorentina, segna il gol del raddoppio mettendosi l’indice alla bocca senza però rivolgersi ai suoi contestatori. Chiesa, che aveva regalato l’assist al compagno, mette le mani dietro le orecchie e i cori maledetti ripartono. L’arbitro ammonisce Vlahovic per esultanza provocatoria e gli fa segno di calmarsi. Sembra la riedizione del caso Lukaku. Anche se il serbo della Juve, non essendo diffidato, non sarà squalificato. Da vedere se la società bianconera farà ricorso: «Questi cori vanno combattuti con forza. Ma chi sta in campo deve far finta di niente quanto più possibile perché solo ignorando certa gente si può risolvere la cosa. Poi tocca a chi di dovere prendere i provvedimenti», il commento di Allegri.

Gasperini: «Razzismo cosa seria, non va confuso»

Assurda la presa di posizione di Gasperini: «Condanno i cori, ma nell’Atalanta giocano Pasalic e Djimsiti e in passato a Bergamo ci sono stati tanti giocatori di quell’etnia. Bisogna differenziare. A volte ci sono insulti per altre cose. Il razzismo è una cosa molto seria e non va confuso. Se fosse razzismo ci sarebbe anche contro giocatori che sono qui…». La Figc, intanto, ha contattato la Juventus per manifestare la sua solidarietà.

Lettera di Antonello Piroso a Dagospia l'8 maggio 2023.

Caro Dagospia,

vedo che hanno provocato sconcerto, critiche e ripulsa le frasi di Gasperini -uno che non è esattamente nel Pantheon delle mie simpatie- sul razzismo negli stadi. Con commenti, intinti nello sdegno, delle "firme" degli (ex) grandi giornali. 

Ma fattelo dire da chi per la Federcalcio ha ideato e realizzato in passato la campagna "Razzisti, una brutta razza", e che per di più è figlio di un calabrese nato in una città, Como, in cui a cavallo tra la fine degli anni 50 e l'inizio degli anni 60 potevi trovare cartelli in cui si annunciava: "Non si affitta ai terroni" (scritto proprio così, mi raccontava mio padre: non "meridionali", ma "terroni", puoi dunque intendere quale possa essere la mia posizione nei confronti di ogni forma di razzismo e xenofobia; una casa poi alla fine ci fu sì affittata, ma da un...veneto): in punta di logica, l'allenatore dell'Atalanta non ha torto. 

Il suo non fluidissimo ragionamento rimanda, senza saperlo -o magari sì, sapendolo; vai a sapere- a Desmond Morris, "La scimmia nuda", do you remember?, del quale mi era sfuggita un'intervista del 2019 che ho recuperato grazie alla ripresa che ne ha fatto proprio Dagospia. 

Intervistato dunque da Marino Niola, non dal primo fesso che scrive sui giornali (antropologo, suggerisco la lettura dei suoi "Miti d'oggi", "Il presente in poche parole" e "Baciarsi"), alla domanda : "Negli stadi italiani imperversano i cori razzisti. C'è anche qui una spiegazione etologica?", Morris così rispondeva, distinguendo tra razzismo e tribalismo, e ovviamente non negando che le offese razziste esistano, eccome: "Più che altro (c'è una spiegazione) sociale. In realtà se a fare goal sono i giocatori di colore della nostra squadra, la tifoseria esulta e li osanna. Mentre insulta quelli delle squadre avversarie. Insomma, il nostro nero è un eroe, il loro è un selvaggio. Ma questo non è razzismo nel senso pieno della parola, è piuttosto un comportamento tribale. Proprio per questo intitolai il mio libro La tribù del calcio. Perché questo sport è l' ultimo rifugio del tribalismo". 

Dopo di che, io ad occuparsi dei teppisti delle curve manderei la Celere, ma questa è un'opinione da boomer, mi rendo conto. 

Ps il "giallo" appioppato a Vlahovic per -almeno così pare (non so ancora nulla del referto arbitrale)- aver esultato reagendo agli insulti pone adesso un problema alla Figc, visto che Lukaku, squalificato dopo un rosso, è stato graziato dal presidente Gravina per aver reagito a "ripetute manifestazioni di odio": il giallo allo juventino rimarrà o no? Quando in tv a Domenica Dribbling ho posto il tema del "precedente", qualche "utonto" dei social mi ha spernacchiato. Ma se gli arbitri devono sanzionare i giocatori che reagiscono agli insulti, quando a replicare non sono solo i neri, ma -per dire- gli "zingari" o i "napoletani", e anche per loro scatta l'ammonizione, potranno tutti contare sul "precedente Lukaku" sì o no? (Per me evidentemente sì, perchè altrimenti saremmo di fronte a un caso di "grazia" discriminatoria...al contrario).

Estratto dell'articolo di Marco Beltrami per fanpage.it l'8 maggio 2023. 

La partita tra l'Atalanta e la Juventus è stata funestata dai cori discriminatori dei tifosi di casa nei confronti di Vlahovic. "Sei uno zingaro" hanno urlato a più riprese i sostenitori atalantini per una situazione che fa il paio con quanto accaduto due stagioni fa quando vestiva la maglia della Fiorentina.

[…] Gasperini ha voluto fare un distinguo. […] ha spiegato che a suo dire c'è la necessità di non fare confusione sulla tipologia degli insulti che spesso arrivano dagli spalti. Per questo Gasperini ha tirato in ballo anche alcuni suoi giocatori: "Condanna dei cori discriminatori a Vlahovic? Sì assolutamente però devo anche evidenziare che nell'Atalanta giocano Pasalic, Djimsiti, Ilicic, Sutalo, tanti giocatori di quella etnia se volete. E quindi bisogna anche differenziare le cose". 

[…]"A volte gli insulti sono legati anche ad altre cose no? Come quando si prendono anche altri tipi di insulti. Il razzismo è una cosa molto seria eh, non va confusa. A volte la confondiamo, poi che vada combattuto non c'è dubbio. Ma non va confuso perché sennò il razzismo riguarda tutti quanti, anche i nostri giocatori. Invece se non è così qualche volta bisogna distinguere". 

[…]"L'insulto è anche quando ti dicono "figlio di p…" o "pezzo di m…". Se un insulto è al singolo o è un insulto razzista. Se è razzismo sarebbe riferito anche a tanti giocatori che sono qua e invece non è così. Va differenziato perché sennò si fa di tutta l'erba un fascio. Poi dopo bisogna combattere il razzismo vero, e non gli insulti individuali. La maleducazione? Questo è un altro discorso, perché va distinta. È più difficile perché è diffusa e generalizzata, combatterla è un'impresa".

Porto-Inter, «Italiano? Non puoi entrare» «Inglese? Sì»: l’assurda commedia andata in scena allo stadio. Che poteva finire in tragedia. Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2023

La trasferta si è trasformata in un’odissea, al culmine di una serie di equivoci e disastri organizzativi che potevano avere delle conseguenze molto serie. Ecco com’è andata

«Italiano?», «No, no, I’m from England». Mai avrei pensato in vita mia di dover camuffare le mie origini per poter ottenere qualcosa. Eppure è quel che è assurdamente successo martedì sera in quel di Porto, dove l’Inter disputava gli ottavi di Champions, al culmine di una serie di equivoci (e di disastri organizzativi da parte della società ospitante) che hanno rischiato di trasformarsi in una tragedia.

Ma riavvolgiamo il nastro: quando apprendo che i nerazzurri dovranno recarsi in Portogallo il primo tentativo, mio e di due amici, è quello di ricorrere all’acquisto dei biglietti nel settore ospiti. Non sono moltissimi e sono quasi tutti appaltati agli Inter Club, di cui non facciamo parte: uno dei due amici vive in Lussemburgo e riesce a comprare direttamente lui dal sito del Porto i biglietti (60 euro l’uno), perché non c’è alcuna limitazione all’acquisto nei cosiddetti settori neutri (cioé non le curve). Come del resto accade spesso a San Siro, dove i tifosi avversari sono mescolati con i nostri al di fuori della Nord e della Sud ( e così è accaduto all’andata infatti).

Tranquilli, ci rechiamo a Porto, prendendo aerei e alloggio, insomma nel nostro piccolo, investendoci dei soldi. Tranquilli sì, fino al pomeriggio, quando apprendiamo che il Porto ha deciso che nessun tifoso della squadra ospite potrà recarsi nei settori appunto neutri. Da lì parte una febbrile trattativa tra le due società che sembra concludersi per il meglio: alla fine gli interisti potranno andare nei posti da loro regolarmente acquistati, ma senza indossare sciarpe e magliette della propria squadra. Ci rechiamo al Dragao, lo stadio del Porto. E subito vediamo un’atmosfera che non ci convince, poco amichevole nonostante le rassicurazioni, con gli italiani, a qualunque settore appartengano , che sistematicamente vengono mandati in una sorta di anticamera cuscinetto tra il settore ospiti e il resto dello stadio.

Andiamo anche noi in quest’area e presto capiamo che da questo limbo difficilmente potremo uscire. Non si avanza verso gli ospiti, con la scala che porta verso questo ingresso nel frattempo stipata all’inverosimile come si è visto in diverse instantanee:un qualunque inconveniente creerebbe il disastro, perché le vie di fuga sono pochissime. Realizzato che non è stata prevista un’area «aggiuntiva» per gli interisti, proviamo a tornare all’ingresso per il nostro posto, ma ci viene detto che in quanto italiani dalla zona «limbo» non possiamo uscire. Italiani e basta, non interisti, tifosi o quant’altro. La situazione intanto si fa irrespirabile con la gente sempre più ammassata su quelle maledette scale. A un certo punto, a partita ormai quasi iniziata, ci consentono di riprovare a metterci in fila nel nostro settore dove avevamo il biglietto regolarmente acquistato.

Ci andiamo, ma anche qui, ci accorgiamo, di nuovo, che qualcosa non va, come del resto avevamo subodorato all’inizio: la polizia controlla i documenti alla gente in fila, se scopre che sei italiano (italiano e basta) ti prende e ti riporta kafkianamente nel limbo da cui eravamo fuggiti. Inoltre molti di quei biglietti non funzionano ai tornelli (disattivati? Errore tecnico?): anche lì ti viene chiesto il documento. «Italiano? Non puoi entrare». Se invece dissimuli, l’addetto alla porta ti consente di accedere. Di qui l’idea di camuffarci: l’amico entra con la patente lussemburghese, io mi spaccio per inglese e non mi chiedono nulla, l’altro per norvegese e invece non basta. Io e il lussemburghese riusciremo dunque ad entrare, per il secondo tempo ormai, l’altro no: rimandato di nuovo in quel limbo (dove resteranno almeno 500 italiani), decide di rinunciare. Sembra una commedia di quart’ordine, senonché si è rischiata la tragedia in quel budello. Inaccettabile a questi livelli.

Da ilnapolista.it il 5 gennaio 2023.

Su Le Parisien l’apertura dello sport è dedicata agli ululati razzisti dei tifosi della Lazio nei confronti di Umtiti che è uscito in lacrime alla fine del match che il Lecce ha vinto 2-1 sulla squadra di Sarri. Sull’edizione on line de L’Equipe è la seconda notizia. Inutile dire che non si trova in evidenza su nessun quotidiano on line italiano.

 Scrive invece Le Parisien:

Fedeli alle loro cattive abitudini, i tifosi della Lazio si sono mostrati nel peggiore dei modi. Questa volta a farne spese è stato Samuel Umtiti. Il difensore centrale del Lecce, in prestito dal Barcellona, ha dovuto subire cori razzisti, come il suo compagno di squadra Lameck Banda. L’ex giocatore del Lione ha pianto.

Racconta Le Parisien che dopo il 2-1 il settore dei laziali ha cominciato a intonare cori razzisti nei confronti di Umtiti e del giocatore dello Zambia Banda.

A fine partita Umtiti è scoppiato in lacrime tra le braccia del suo presidente, mentre i suoi sostenitori cantavano il suo nome.

 Prosegue Le Parisien:

Questo tipo di comportamento è diventato un’abitudine in diversi stadi italiani e non è la prima volta per i tifosi laziali. Lo scorso novembre, le autorità sportive italiane hanno annunciato indagini sui cori antisemiti durante il derby contro la  Roma. Nell’ottobre 2021, in Europa League, il calciatore del Marsiglia Bamba Dieng sarebbe stato vittima di versi di scimmia. Nel febbraio 2016, la partita Lazio-Napoli fu interrotta per lo stesso motivo, i versi furono rivolti al difensore senegalese del Napoli Kalidou Koulibaly.

Violenza.

Chi non salta...Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 5 settembre 2023.

La storia della Panda rossa utilizzata come piano d’appoggio da un branco di bipedi per sbirciare lo storico sbarco a Ciampino del calciatore Lukaku è emblematica. Non ho ancora capito bene di che cosa, ma lo è.

Otto tifosi della Roma, due bambini e sei sedicenti adulti, si inerpicano sul tettuccio di un’utilitaria parcheggiata nei pressi dell’aeroporto, proprio come avrei fatto io a otto anni se non ci fosse stato mio padre ad arginarmi con un’occhiataccia. Sottovalutano, i temerari, che da quando ogni telefono è munito di telecamera, non esiste più la minima possibilità di passare inosservati.

La foto dell’arrampicata, con tutti quei piedoni intenti a calpestare vetri e lamiere, irrita comprensibilmente la proprietaria dell’auto Martina Innamorati, un cognome che la vita sta mettendo a dura prova: è reduce da una missione in carrozzeria dove ha scoperto che l’ammontare dei danni supera il valore del veicolo. Nei giorni successivi, tanti tifosi a cui non verrebbe mai il ghiribizzo di saltare sopra una Panda altrui si offrono per senso civico di saldare il conto, ma giustamente la signora non vuole i soldi da loro. Li pretende dai menefreghisti che sulla sua macchina ci sono saliti per davvero e che persistono a tal punto nel loro menefreghismo dal rifiutarsi di uscire allo scoperto.

Morale della Panda: a non pagare sono i colpevoli e a voler pagare gli innocenti. Così va il mondo, al contrario. Se fossi un generale dei parà, ci scriverei un libro.

Panda distrutta a Ciampino, parla Martina Innamorati: «La Roma non mi ha chiamata, tanti tifosi gentili si sono offerti di rimborsarmi». Giulio De Santis su Il Corriere della Sera lunedì 4 settembre 2023.

La padrona dell'auto danneggiata durante l'attesa di Lukaku: «Non ho accettato soldi da chi non ha colpe, voglio paghino i responsabili. Il carrozziere mi ha chiesto più di quanto vale» 

«Nessuno della Roma mi ha chiamata per fare le scuse. E neanche i tifosi che sono saltati sulla mia Panda mi hanno cercata. Anzi tanti mi hanno attaccata. Però altrettanti, anzi molti di più, mi hanno contattata per offrirmi di riparare l’auto con i loro soldi. Dei signori. Però gli ho detto no». Si sfoga Martina Innamorati, la ragazza proprietaria della Panda rossa danneggiata da un gruppo di sostenitori giallorossi saliti sulla sua macchina il giorno della sbarco di Romelo Lukaku a Ciampino, avvenuto lo scorso giovedì, dove attendere il neo attaccante giallorosso sono andate circa 7mila persone. Subito le immagini dei momenti in cui i tifosi salgono sul tettino dell’auto, incuranti delle conseguenze, sono diventate virali. Dai video si vedono otto persone, sei adulti e due bambini, ben piantati con i piedi sul tettuccio, nella speranza di vedere il neo acquisto giallorosso, appena sbarcato all’aeroporto.

In primo post su Facebook, scritto sull’onda della rabbia per aver trovato l’auto danneggiata, Martina aveva usato l’arma del sarcasmo per definire il suo stato d’animo, dicendo “essere una delle fortunate vincitrici dell’oscar dell’inciviltà”. A distanza di due giorni, le parole di Martina, che ha frequentato il liceo Vivona all'Eur e oggi lavora da Zara, hanno ancora un sapore amaro, ricordando l’episodio. Anche, stavolta, Innamorati – assistita dall’avvocato Massimo Cavatorta - riconosce che non tutti i tifosi vanno marchiati come incivili.

Cosa ha pensato che fosse successo quando ha visto la macchina ridotta in quelle condizioni?

«Mi si è stretto il cuore soprattutto perché, a parte i danni, la macchina era di mia nonna».

La società Roma le ha mandato un telegramma o fatto una telefonata?

«No, nessuno. La società non mi ha contattata».

Si è fatto avanti qualcuno tra i tifosi presenti all’arrivo del giocatore per chiederle scusa?

«No, però altri tifosi invece mi hanno cercata».

Perché?

«Mi hanno scritto dicendo di essere disponibili a rimborsare i danni. Ci tengo a sottolinearlo, non tutti i tifosi sono dei barbari, anzi. Sono stati davvero molto gentili».

Allora potrà riparare la sua Panda.

«Non ho accettato le loro offerte, seppure sono stati generosi».

Perché non ha accettato la proposta di ripararle la Panda di sua nonna?

«L’ho fatto perché non è giusto che a pagare danni in situazioni del genere siano sempre quelli che non hanno alcuna colpa, piuttosto che i veri responsabili o chi non ha organizzato bene questo evento, pur potendo prevedere le conseguenze».

Lei per quale squadra tifa, ammesso segua il calcio?

«Non seguo il calcio e sinceramente spero che non sia data più molta pubblicità a questa vicenda».

Innamorati ha portato la macchina dal carrozziere. Secondo il primo preventivo, dovrebbe affrontare un costo superiore al valore dell’auto per aggiustarla. Ancora non sa pertanto se procederà a sistemare l’auto, che spesso divide per motivi di lavoro con il suo compagno, un pilota di aerei. Per ora non contrattualizzato con compagnie di bandiera. «Con molta signorilità, Martina non ha voluto sfruttare la generosità di tante persone – dice l’avvocato Cavatorta - Lei è ben consapevole che non tutti i tifosi sono incivili ed anche e, soprattutto, perché non vuole essere considerata privilegiata, rispetto a tutti gli altri danneggiati. Mantengo assoluto riserbo su eventuali iniziative giudiziarie per evitare qualsiasi strumentalizzazione, posto che tra l'altro sono in corso indagini».

Da ilnapolista.it il 16 maggio 2023.

Repubblica Milano traccia l’identikit degli ultras che hanno chiamato a rapporto il Milan sotto la loro curva, in occasione di Spezia-Milan. Un confronto che Pioli ha definito pacifico, con gli ultras che intendevano solo stimolare la squadra e che il presidente Scaroni ha derubricato addirittura ad “un episodio di incoraggiamento e simpatia”. 

Ma gli ultras che hanno convocato la squadra e il suo allenatore, Stefano Pioli, non sono esattamente degli stinchi di santo. Si portano tutti dietro precedenti penali, dall’estorsione, al tentato omicidio, dalla rissa alla rapina, alle lesioni.

Il capo ultrà che ha arringato la squadra è Francesco Lucci, fratello di Luca, capo della curva Sud rossonera, condannato nel maggio 2022 a 7 anni in un’inchiesta su un traffico di droga che lo aveva portato qualche mese prima in carcere. Luca Lucci è ai domiciliari. Nemmeno Francesco è esente da guai con la giustizia. Il quotidiano milanese scrive: “Oltre a vari Daspo e diverse indagini per reati da stadio, Francesco Lucci è finito in carcere nel giugno 2018 con la moglie per un tentativo di estorsione ai danni del datore di lavoro della donna, dipendente in una ditta di abbigliamento. A scatenare la violenza dell’ultrà, una lettera di richiamo dell’imprenditore alla consorte. I due coniugi, è il 14 giugno 2018, si presentano così al negozio, minacciano di morte l’uomo davanti ad altri dipendenti e testimoni, e pretendono trecentomila euro come risarcimento per l’affronto subito. Se la consegna di una prima tranche non fosse avvenuta entro una settimana, ci sarebbero state conseguenze. Il passaggio di denaro è avvenuto però sotto lo sguardo di una telecamera piazzata dalla squadra mobile di Milano. E alla fine Francesco Lucci è stato condannato a tre anni”. 

A sinistra di Lucci, nella foto che ha fatto il giro del mondo, c’è Alessandro Sticco, un altro esponente di primo piano nella Curva Sud rossonera, sempre al fianco dei fratelli Lucci. Soprannominato “Shrek”, “Sticco è stato indagato e arrestato nel 2006 per lesioni e rapina. I fatti riguardano il Milan-Roma del 14 maggio 2006, quando a San Siro, recitano gli atti giudiziari dell’epoca, “sottrae a due tifosi della Roma, percossi con delle spranghe, due sciarpe raffiguranti i colori dell’omonima squadra ed un paio di occhiali da sole”. Fatti vecchi. Ma già allora i magistrati sottolineano “il suo stabile inserimento nelle frange violente del tifo calcistico“”. 

Su Sticco scrive anche Il Fatto Quotidiano: “ha precedenti per rapina da stadio e aggressioni “anche con spranghe di ferro””. A pochi metri da lui c’è Fabiano Capuzzo. 

Finito nella rete di un’inchiesta che aveva svelato un commercio di tonnellate di hashish dal Marocco a Milano, l’ultrà rossonero è stato condannato in primo grado per spaccio a un anno e quattro mesi, poi assolto in appello. Quella di Capuzzo resta una storia movimentata: dal 2009, ha una lunga scia di precedenti penali che vanno dalla rissa al tentato omicidio, dalle lesioni personali al porto d’armi“. 

Infine, l’unico che non è vestito di nero, ma indossa uno sgargiante piumino arancione e un berretto verde. Si tratta del “vecchio “barone” Giancarlo Capelli, ex leader della curva rossonera. A 75 anni, Capelli è ormai esautorato da ogni potere nella gestione della curva, ceduto nelle mani dei fratelli Lucci e dei loro amici. Padre nobile della curva rossonera, è stato indagato e poi assolto dall’accusa di tentata estorsione ai danni del Milan da parte di un gruppo di ultrà”.

Estratto dell'articolo di Giulio Cardone per “la Repubblica” il 31 marzo 2023.

Il tifo violento è costato alle grandi della Serie A oltre un milione e mezzo nelle ultime cinque stagioni. Il conto complessivo delle multe pagate da Juventus, Milan, Inter, Napoli, Roma, Lazio, Atalanta e Fiorentina da agosto 2017 a oggi per cori beceri e discriminatori, lanci di oggetti in campo, utilizzo di laser, fumogeni e petardi ed esposizione di striscioni dal contenuto offensivo ammonta a 1.631.500 euro. […]

La Roma è infatti la squadra più multata tra le big del campionato: dalla stagione 2017-18 ha totalizzato 357 mila euro di multe per i comportamenti dei propri sostenitori sugli spalti. Al secondo posto, con quasi 60 mila euro in meno, c’è l’Atalanta, che ha pagato 299 mila in ammende. Terza piazza per il Napoli a 279 mila. La quarta tifoseria “più cattiva” è quella dell’Inter, costata alle casse nerazzurre 174 mila euro.

Seguono il Milan a 151 mila, la Lazio a 150 mila, la Juventus a 117 mila e la Fiorentina a 103 mila. Il bacino d’utenza non sembra un fattore influente: non è vero, in altre parole, che chi ha più tifosi totali ha anche una percentuale maggiore di frange facinorose. Il discorso è semmai più legato a quanto siano vistosi certi comportamenti rispetto ad altri. Il lancio di fumogeni e l’utilizzo di materiale pirotecnico costano in media tra i 2 mila e i 6 mila euro. Si sale invece tra i 10 mila e i 15 mila se a essere bersaglio del lancio di oggetti o di materiale esplosivo sono i tifosi nel settore ospiti.

I “cori beceri” valgono 5 mila euro per ogni esecuzione, che deve essere udita e riportata a verbale dagli ispettori federali. Per gli ululati razzisti e per gli episodi di violenza a pesare e richiamare l’attenzione mediatica, più delle multe, sono invece le conseguenti chiusure dei settori degli stadi. […]

La tifoseria laziale non è l’unica a essere finita più volte sulle prime pagine per comportamenti di matrice razziale. Tra squalifiche sospese per un anno con la condizionale e pene invece da subito effettive, dal 2017 ai biancocelesti è successo tre volte come anche all’Inter, più una a testa per Juve, Roma e Atalanta. […]

Estratto dell’articolo di Titti Beneduce per corriere.it il 19 marzo 2023.

I tifosi dell'Eintracht, il pomeriggio di mercoledì 15 marzo, […] «marciavano come un  esercito per le strade del centro cittadino, scandendo cori contro la squadra avversaria». Ma sono stati i napoletani (circa 200 e in maggioranza con il volto coperto da caschi) ad accendere la scintilla degli scontri che per ore hanno infiammato la città: «Armati di bastoni e altri oggetti similari, aggirate le  misure faticosamente adottate da polizia e carabinieri, scatenavano una vera e propria guerriglia urbana». Lo scrive il gip di Napoli Leda Rossetti che ha convalidato il fermo di due tifosi napoletani bloccati nella notte tra mercoledì e giovedì, Antonio Orefice di 51 anni e Diego Iaquinangelo di 38.

 In quattro pagine il giudice ricostruisce i gravissimi episodi che hanno preceduto la partita, poi vinta dal Napoli per 3 a 0: i napoletani hanno lanciato «pietre, bottiglie, bombe carta, sedie, mazze e tavolini, scaraventati come oggetti contundenti anche all'indirizzo degli equipaggi di polizia che fungevano da cuscinetto onde evitare il contatto tra le tifoserie».

 Decisive per la convalida le immagini che il giudice ha visionato, immagini di scontri che hanno fato il giro del mondo. Antonio Orefice, in particolare, leader dei Mastiffs della Curva A, viene ripreso mentre tiene in mano una cintura arrotolata a mo' di tirapugni. Lui stesso, sottolinea il giudice, ammette che voleva utilizzarla come arma, anche se cerca di giustificarsi dicendo: «Mi era giunta la voce che i tedeschi volessero devastare Napoli».

 Nel paragrafo dedicato alle esigenze cautelare il gip si sofferma sulla pericolosità sociale degli indagati […]. Ci sono, ritiene ancora il giudice, «elementi indicativi di una propensione criminosa e di una non marginale pericolosità sociale». Di qui la decisione di tenere ai domiciliari due dei tre fermati, mentre per il terzo non ritiene che siano sussistenti i gravi indizi di colpevolezza.

Guerriglia a Napoli con gli ultrà dell’Eintracht. Scontri con le forze dell’ ordine e tensione anche dopo la partita di Champions League. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Marzo 2023

Scontri tra tifoserie. In fiamme anche un'auto della polizia. Lanci di petardi e fumogeni prima e dopo la partita di Champions League vinta dalla squadra di Spalletti al Maradona. Berlino: "La violenza distrugge lo sport". La Lega: "Il governo tedesco paghi i danni"

Dopo le violenze che hanno preceduto la partita vinta dagli azzurri allo stadio Maradona contro l’Eintracht, ancora fibrillazioni a Napoli. Lancio di petardi e fumogeni sul lungomare. Gruppi di tifosi da due lati limitrofi agli alberghi, subito dopo il match, hanno gettato i petardi e poi sono stati dispersi verso via Chiatamone e lungo via Partenope. Ad agire persone vestite di nero e con il volto coperto. La polizia ha risposto sparando fumogeni. Sul posto anche gli idranti.

Prima della partita di Champions la città di Napoli è stata ostaggio di violenze e devastazioni. Piazza del Gesù, a Napoli, e la vicina via Calata Trinità maggiore, prima delle 18 di mercoledì pomeriggio erano un tappeto di vetri, immondizia, residui di fumogeni e lacrimogeni, acqua degli idranti utilizzati dalle forze dell’ordine.

A scatenare le violenze è stata la calata in città di centinaia di ultrà dell’Eintracht Francoforte che si sono ribellati al divieto della vendita di biglietti ordinata dal Viminale e a poche ore dal ritorno degli ottavi di Champions al Maradona hanno cercato lo scontro con gli odiati rivali partenopei.

Circa 400 supporter tedeschi erano arrivati ieri sera a Salerno, e da quella città avevano preso il treno per Napoli. Sono senza biglietto, vista la battaglia finita anche davanti al Tar che ha reso definitivo il divieto di vendita per loro a causa degli scontri in Germania dell’andata, quando il Napoli vinse 2-0. Ma tutti hanno regolarmente pagato un albergo nel capoluogo campano. E’ passata la mezzanotte da 30 minuti quando in piazza Bellini un gruppo di dieci ultrà dell’Eintracht Francoforte con il volto coperto e vestite di nero ha scagliato bottiglie di vetro contro il bar Alkymya Bellini che era chiuso, e quindi il lancio è senza conseguenze se non piccoli danni. Sul posto sono arrivati i Carabinieri, allertati dai militari dell’Esercito in servizio di vigilanza in piazza.

Successivamente vi è stato sono un corteo e due episodi di tentata aggressione ai tifosi tedeschi con protagonisti gruppi di ultrà del Napoli. Agenti dell’Ufficio Prevenzione Generale hanno notato in piazza Dante la presenza di circa 100 tifosi partenopei della curva B divisi in piccoli gruppi; uno di questi, quando ha visto la volante della Polizia, si è dileguato abbandonando 5 aste di bandiera in plastica, due fumogeni e un razzo. 

Nelle ore successive, circa 150 tifosi della curva A, molti dei quali a volto coperto e armati di aste di bandiere, dopo essersi riuniti sempre in piazza Dante, si sono recati in corteo in direzione dell’albergo sul lungomare napoletano che ospitava i tifosi tedeschi, ma sono stati fermati. Sempre nell’area dell’albergo, nel corso della notte, sono stati allontanati altri gruppi di tifosi napoletani armati di pietre, bottiglie e aste di bandiere.

Non solo i tedeschi non sarebbero dovuti venire a Napoli, ma non meritano nemmeno di entrare nello stadio. E’ una sconfitta per lo Stato, per noi; poi dicono che siamo noi i cattivi, questi ci stanno venendo a sfidare in città. Chi li ha fatti entrare si assuma le responsabilità. C’é una guerra in atto, chi aveva l’autorità per fermarli e non lo ha fatto ha commesso un errore grave. Stiamo mandando messaggi distensivi, ma qui c’é gente colpita senza motivo, picchiano i bambini, tolgono i cellulari di mano alla gente, lanciano razzi. E’ una cosa assurda quella che sta succedendo, si sta facendo male al calcio, alle persone a un popolo”. Gennaro Montuori, il ‘Palummella‘ del gruppo storico del Napoli “Commando Ultrà Curva B“, ha così commentato all’Adnkronos dallo stadio ‘Maradona’ i disordini creati dai tifosi dell’Eintracht arrivati dalla Germania per la partita di Champions.

A me è sembrato un tranello quello che stanno facendo, qui tutti ci vogliono colpire, invidiano la tifoseria, la squadra. Allo stadio non c’é nessun tedesco e speriamo di non vederli proprio: gridano ovunque ‘Napoli vaff… ‘ – racconta Palummella – hanno dato fuoco a una macchina della Polizia. Ma si ricordino che una manciata di scugnizzi mandò via da Napoli un esercito di tedeschi con bombe e carri armati. Oggi stiamo dimostrando grande civiltà, perché se reagiamo veniamo chiamati teppisti e ci siamo stancati. Stanno venendo a comandare a casa nostra ma si fermano i napoletani, non i tedeschi. Qua potrebbe succedere una guerra perché dopo una giornata a provocare, la gente è arrabbiata. Quando andammo noi in Germania in Coppa Uefa per un fumogeno arrestarono dieci ragazzi e dovemmo pagare la penale, addirittura ci sequestrarono le felpe”.

Il grosso del gruppo dei tifosi tedeschi è in albergo, ma alcuni potrebbero essere usciti. La scaramuccia è durata poco tempo. A lanciare i petardi potrebbero essere stati anche ultrà partenopei. Al momento in cui scriviamo i gruppi dovrebbero essere dispersi.

Arrivato il giorno, la tensione è salita. Alle 13 oltre seicento tifosi dell’Eintracht Francoforte  hanno lasciato  come in corteo il loro albergo sul lungomare ed hanno attraversano tutto il centro per arrivare fino in piazza del Gesù, ‘marciando’ lungo la Riviera di Chiaia, passando per via Calabritto, piazza dei Martiri, via Chiaia, attraversato piazza Trieste e Trento, piazza Municipio e via Monteoliveto. I reparti mobili della la Polizia hanno seguito il corteo , mentre la zona veniva sorvegliata dall’alto da un elicottero. In piazza i tifosi tedeschi, sembravano solo voler mangiare pizza e bere birra, circondati e protetti da un cordone delle forze dell’ ordine in tenuta antisommossa, con camionette, la zona cinturata e l’elicottero che continuava a sorvolare la zona interessata da possibili scontri. 

Arrivate le ore 17 la situazione è letteralmente precipitata. Dalla zone più popolari di Napoli sono arrivati verso via Calata trinità maggiore decine di persone, pronte a coprirsi il volto. Di sicuro hanno fuochi d’artificio, non potenti, anzi innocui, e qualcuno comincia a spararli in orizzontale verso gli ultrà dell’Eintracht. Immediata la reazione rabbiosa dei tifosi tedeschi che hanno afferrato e lanciato in ogni direzione sedie bottiglie, pietre. di tutto e di più. La Polizia riusciva a tenere separate i due gruppi delle rispettive tifoserie. Partiti i lacrimogeni, attivato in funzione l’idrante. Il parapiglia è totale. Turisti e passanti hanno cercano rifugio nei negozi e nella chiesa del Gesù nuovo, la cui facciata restaurata è stata restituita alla città soltanto ieri. I commercianti hanno chiuso in fretta e furia le porte dei negozi.

Un’auto della polizia di Stato è finita viene incendiata. Molte i mezzi danneggiati e con i vetri in frantumi. Vetrine rotte anche per le attività commerciali della zona. Paura, colluttazioni, grida, scene da guerriglia urbana indegne per una partita di calcio. Le forze dell’ ordine sono riuscite a riportare la calma, ed a gestire i tifosi tedeschi, facendoli salire su bus dell’Anm che li hanno riportato in albergo. Un rientro di non facile, con gruppi di tifosi napoletani che in alcuni tratti del percorso stradale hanno lanciato pietre contro gli autobus che trasportavano i tifosi tedeschi. Nessuno sembra essersi fatto male, sia in piazza che a bordo dei bus. Il lungomare, intorno ai due alberghi è blindato.

La Lega: “Il governo tedesco paghi i danni”

La Lega ha difeso la scelta di Piantedosi di vietare la trasferta da Francoforte. “Che sia il governo tedesco a pagare i danni. Aveva ragione il ministro Piantedosi a chiedere di vietare la trasferta a questi teppisti”, dichiarano fonti leghiste.  

Berlino: la violenza distrugge lo sport 

La ministra dell’Interno tedesco, Nancy Faeser, ha condannato “con la massima fermezza” gli incidenti avvenuti prima della partita di ritorno degli ottavi di Champions League tra Napoli e Eintracht. “Questa violenza deve essere condannata con la massima fermezza. Criminali violenti e che creano caos distruggono lo sport”, ha scritto in un tweet. Redazione CdG 1947

Napoli, una giornata di guerriglia: ultrà scatenati, scontri, feriti e incendi. Angelo Agrippa su Il Corriere della Sera il 16 Marzo 2023

Incidenti tra i tifosi dell'Eintracht Francoforte e quelli partenopei: a fuoco un'auto della polizia

I cori sportivi si sono ben presto trasformati in inni di guerra. E la strada, nel terreno di scontro dove sampietrini, bombe carta e fumogeni hanno preso violentemente il sopravvento. Piazza del Gesù a Napoli è stata sfigurata dalla cecità dei teppisti, fino a cadere sotto i colpi della guerriglia. E ciò che è rimasto è soltanto rabbia e devastazione. Con un’auto della polizia data alle fiamme, altre vetture danneggiate, cinque bus dell’Azienda napoletana di mobilità presi a sassate, alcuni feriti — tra cui un autista, alla guida di uno dei mezzi per il trasferimento degli ultrà dell’Eintracht, colpito ad un occhio dal lancio di un oggetto contro il finestrino — locali e ristoranti saccheggiati e circa duecento tifosi tedeschi identificati e posti sotto controllo. Poi, la guerriglia si è spostata durante la notte nella zona del lungomare, tra via Chiatamone e via Partenope, dove i supporter bianconeri hanno scelto di alloggiare in uno dei principali alberghi. Qui è continuata la sassaiola, a fine partita, con decine di ultrà azzurri che hanno assaltato con petardi e bombe carta l’hotel e colpito con i sampietrini i bus con a bordo i tifosi ospiti in predicato di essere trasferiti fuori città per organizzare il ritorno in Germania. Seicento, secondo una stima, gli ultrà di Francoforte che sono riusciti, martedì sera, a raggiungere Napoli in treno, facendo scalo a Salerno, e con essi anche supporters atalantini, rivali storici dei partenopei. Benché il prefetto di Napoli non avesse autorizzato la presenza della tifoseria tedesca allo stadio temendo proprio ciò che invece è avvenuto. Episodi che hanno spinto fonti di Polizia a sottolineare come «il divieto di vendita dei biglietti» ai tifosi dell’Eintracht «era più che giustificato». Del resto, gli apparati di sicurezza italiani avevano «piena contezza della pericolosità» delle frange estreme dei sostenitori tedeschi e del concreto rischio di conflitto con quelli locali, tanto da rinnovare il provvedimento dopo la decisione di sospensione del Tar, nonostante alcuni sostenessero che si trattasse di un «atto discriminatorio» quello commesso dall’Italia. Già al loro arrivo si erano registrate le prime tensioni, con l’assalto condotto a colpi di petardi da alcune fazioni di facinorosi napoletani contro un bus su via Marina e il lancio di bottiglie all’indirizzo di un bar chiuso di piazza Bellini ad opera di un gruppo di ultrà della squadra ospite. Tuttavia, una volta accesa la miccia del conflitto è diventato quasi impossibile spegnerla. Fino alle 17 di ieri, quando almeno duecento supporters del Francoforte, sotto scorta della Polizia, hanno raggiunto il centro storico di Napoli, ma ad attenderli vi erano alcune decine di sostenitori azzurri. I tentativi di accerchiamento esperiti da questi ultimi sono stati più di una volta respinti dagli agenti di Polizia e dai Carabinieri che, in assetto anti sommossa, hanno separato e distanziato le due fazioni. È qui che, tra piazza del Gesù e Calata Trinità Maggiore, è stata scatenata la guerriglia. Nei luoghi della movida turistica e sotto lo sguardo terrorizzato di passanti e commercianti della zona che sono riusciti a malapena a trovare un riparo sicuro. Gli ultrà tedeschi hanno infranto le vetrate dei locali, divelto i gazebo di ristoranti e bar e scaraventato sedie, tavolini e fioriere contro il massiccio cordone delle forze dell’ordine; mentre gli altri violenti, costretti ad indietreggiare lungo la strada, hanno dato fuoco ad una vettura della Polizia, danneggiandone altre due. «Non dovevano consentire ai tedeschi di entrare nel centro storico di Napoli — hanno lamentato i titolari dei locali di piazza del Gesù —. È stata una mossa del tutto sconsiderata. Ora chi ci risarcirà? Abbiamo registrato tutto, possediamo i video, documenteremo ogni cosa. Qualcuno dovrà pagare». Ed è la stessa voce che si è levata dal consiglio comunale di Napoli, anticipando la volontà di tutelare l’immagine della città in tribunale. Alle 17,40 sono arrivati i bus dell’Anm per caricare i tifosi stranieri e trasferirli sul lungomare, dove sono rimasti per tutto il tempo della gara sotto stretta sorveglianza della Polizia. Ma durante il tragitto, i mezzi pubblici sono stati ripetutamente colpiti da sassi e petardi da parte di alcune decine di appartenenti alla tifoseria azzurra. La Polizia ha temuto fino a tarda notte che la tensione potesse nuovamente esplodere. Come è poi accaduto.

Estratto dell’articolo di Francesco Bonazzi per “la Verità” il 17 marzo 2023.

Lasciate che i Nuovi Barbari vengano a noi. E sfascino tutto. Che siano tifosi tedeschi, come quelli che mercoledì hanno messo a ferro e fuoco Napoli, o che siano olandesi, come quelli che nel 2015 devastarono il centro di Roma, compresa la fontana di Piazza Navona, poco importa.

 Quando le loro squadre calano nella Penisola per giocare le coppe europee, lasciano quasi sempre una scia di violenze, danneggiamenti e lattine di birra.

Chiedere al governo italiano di turno di prendere provvedimenti «alla Thatcher» si può sempre fare e suona bene.

Ma serve a poco. Forse sarebbe il caso che i paesi di origine degli hooligan ripagassero i danni e che si rendessero conto una volta per tutte della feccia che mandano in giro. Che poi gli italiani sarebbero quelli che non rispettano mai le regole e loro sono i civili e i «frugali».

 L’autentica guerriglia nel centro di Napoli portata da centinaia di tifosi dell’Eintracht poteva essere affrontata meglio sotto il profilo dell’ordine pubblico ed è chiaro che qualcosa non ha funzionato se, tra un pestaggio e l’altro, sono pure andati a fuoco cinque autobus e un’auto della polizia.

Però è altrettanto evidente che il problema è all’origine e che molti violenti sono riusciti a raggiungere il capoluogo campano pur non avendo la possibilità di acquistare un regolare biglietto per la partita di mercoledì sera con gli azzurri. […] Il problema è che i fatti di Napoli hanno dei precedenti illustri, purtroppo.

Quello più vivo nella memoria riguarda Roma, che tra il 18 e il 19 febbraio del 2015 subì la furia di migliaia di tifosi del Feyenord, arrivati per vedere il match di Europa League con la squadra giallorossa. Cominciarono la sera prima in Campo dei Fiori per poi scatenarsi tutto il giorno seguente su macchine, negozi e monumenti.

Fu addirittura danneggiata la fontana della Barcaccia del Bernini, fatto per il quale il Tribunale di Roma ha poi condannato con pene fino a quattro anni sei tifosi olandesi. Altri 19 sono stati condannati per le devastazioni. Per restare all’Olanda, sempre nella capitale, il 16 marzo dell’anno scorso è andata in scena a un passo dal Colosseo una violenta rissa tra tifosi della Roma e fan del Vitesse di Arnhem, con le sedie che volavano in mezzo ai turisti allibiti.

A Milano, invece, nell’aprile del 2002 mezzo migliaio di tifosi del Feyenord, che doveva giocare con l’Inter, ha bivaccato allegramente sul sagrato del Duomo per un intero pomeriggio, lasciando poi dietro di sé un tappeto di bottiglie e lattine di birra e dopo aver sparato razzi e bengala anche dai gradini della cattedrale.  […] Oggi non si chiede lo stesso, ma che almeno paesi come Olanda e Germania si rendano conto di che cosa combinano i loro civilissimi tifosi.

Estratto dell'articolo di Federica Zaniboni per “il Messaggero” il 17 marzo 2023.

«Alcuni ultrà sono riusciti a salire al decimo piano tramite le scale di emergenza, hanno preso dei piatti da una cucina di servizio e li hanno lanciati contro ai poliziotti». Teresa Naldi, proprietaria dell'hotel Royal Continental a Napoli, dove hanno alloggiato gli ultrà dell'Eintracht di Francoforte, ha assistito «terrorizzata» agli scontri tra forze dell'ordine e tifosi. […]

  «Le urla, i poliziotti in tenuta antisommossa […] È stato un vero incubo». La tensione era palpabile. «Anche i dipendenti erano molto spaventati dal dover gestire queste persone - spiega -, non sapevamo cosa potesse venire loro in mente[…]». Nei momenti di vera e propria guerriglia, alcuni tifosi hanno lanciato stoviglie contro la polizia dal decimo piano dell'albergo.

Nel ristorante in cui si sono riuniti a pranzo prima degli scontri, i supporter tedeschi «hanno sniffato coca sui tavoli, molestato sessualmente le cameriere e inneggiato a Hitler». Lo racconta Anna Arenella, socia di due locali tra piazza del Gesù e Calata Trinità Maggiore, parlando di un vero «massacro».

[…] Tutto chiuso anche nella pizzeria Giuliano, il cui proprietario racconta che «i lacrimogeni sono arrivati nel locale». Un grande dispiacere «soprattutto per i turisti». Nel pomeriggio «i napoletani sono arrivati da Monteoliveto e Sant'Anna dei Lombardi, mentre i tedeschi erano in mezzo alla piazza», sottolinea uno dei commercianti. La polizia era nel mezzo. Poi c'è stata la carica e l'incendio della macchina».

Nella chiesa di San Gesù Novo «c'era un gruppo di donne in pellegrinaggio - spiega il titolare di un altro locale -, molte erano anziane. Si sono trovate tra i tifosi dell'Eintracht che salivano verso piazza del Gesù e i supporter del Napoli. Hanno iniziato a battere le mani sulle vetrate del mio bar, le abbiamo assistite e calmate». Una domanda che adesso si stanno facendo in molti, tra negozianti e proprietari dei locali, è «chi pagherà per i danni subiti». Quelli morali, invece, «non si possono quantificare».

Le radici dell’odio tra gli ultrà del Napoli e dell’Eintracht Francoforte. Fabio Postiglione su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2023

Lo scontro ormai trentennale tra gli atalantini, gemellati con i tedeschi, e i napoletani, gemellati con il Monaco 1890 e il Borussia Dortmund. Ma lo scacchiere comprende anche Paris Saint-Germain, Stella Rossa di Belgrado, Genoa, Sampdoria, Roma. Così ogni occasione diventa buona per la «vendetta»

Il Napoli. Il Francoforte.

E poi l’Atalanta.

E ancora il Borussia Dortmund, la Stella Rossa di Belgrado.

Chi da una parte, chi dall’altra e tutti contro tutti. Mossi dall’odio, un sostantivo impossibile da pronunciare quando si parla di calcio. Eppure, ecco lo stato d’animo che in queste ore spinge gli ultras del Napoli a caccia degli ultrà dell’Eintracht di Francoforte , che di certo non si nascondono.

Piccoli gruppi, almeno fino alle prime ore del pomeriggio di mercoledì. Non gruppi organizzati di ultrà, ma «cani sciolti», che usano azioni da guerriglia militare. Perlustrano, colpiscono, si sparpagliano e scompaiono.

Odio, si diceva. Odio territoriale che affonda le radici, in questo caso specifico, nello scontro ormai trentennale tra gli atalantini, gemellati con i tedeschi, e i napoletani, gemellati con il Monaco 1860 e il Borussia Dortmund, a loro volta nemici giurati dell’Eintracht.

Nella (folle) logica dei patti internazionali tra ultrà, anche in Europa ci si può vendicare dell’altra fazione. E così se il Napoli incrocia il Francoforte gli atalantini si sentiranno in dovere di dover sostenere gli ultrà tedeschi negli scontri e nella caccia all’uomo. È stato così nella partita d’andata in Germania il 21 febbraio. Dove i tedeschi, sin dal giorno prima, hanno aggredito anche famiglie di napoletani ai ristoranti. Ed è così a Napoli nelle ore che precedono la partita al Maradona di ritorno degli ottavi di Champions.

Per la stessa logica il Paris Saint Germain, gemellato del Napoli, potrebbe colpire in qualunque momento gli ultrà della Roma nemici dei partenopei, per «interposta persona». E fu così quando il Napoli giocò contro il Marsiglia, gemellato con i sampdoriani, in conflitto con il Napoli che era gemellato con i genoani.

Una scacchiera dove ogni passo porta con sé conseguenze difficili da prevedere e che sottende un gravissimo rischio: ogni occasione è buona per vendicarsi.

Martedì sera, quando sono arrivati a Salerno — e poi a Napoli — circa 350 tedeschi, tra loro la Digos ha individuato ultrà dell’Atalanta che lanciavano cori (in italiano) mentre uscivano dalla stazione. Gli ultrà del Napoli lo sapevano. Sapevano già tutto. E perlustravano i quartieri attorno alla stazione, mentre altri erano al centro storico.

Lo scacchiere e le alleanze nel mondo ultràs. Perché i tifosi del Napoli e quelli dell’Eintracht Francoforte sono rivali: gli scontri e la guerriglia in città. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Marzo 2023

Quella della guerriglia esplosa oggi nelle strade del centro di Napoli era una cronaca annunciata. Annunciata da quello che era successo all’andata degli ottavi di finale di Champions League a Francoforte con l’Eintracht. 2 a 0 per il Napoli di Luciano Spalletti. Se questa sera dovesse riuscire a qualificarsi, la squadra azzurra raggiungerebbe un risultato mai raggiunto prima: i quarti di finale. Ma più che del campo e della stagione impressionante del Napoli in queste ore si parla degli scontri in città tra gli ultràs.

Qualcosa di prevedibile, come si era detto, che affonda le radici in decenni di rivalità sullo scacchiere di gemellaggi incrociati anche a livello europeo. Secondo alcune stime sono 600 i tifosi tedeschi – che avevano creato problemi già a Roma, in occasione di una partita con la Lazio, nel 2018 – arrivati a Napoli. La tensione era altissima già da ieri, per le decisioni delle autorità sulla trasferta. Il ministro degli Interni Matteo Piantedosi aveva deciso di negare la trasferta. Il Tar della Campania ha sospeso il divieto del Viminale. “Finisce per sposare ‘l’opzione zero’, senza considerare la possibilità di contenere il paventato rischio con misure alternative e meno invasive”. Il prefetto di Napoli ha allora imposto il divieto di trasferta solo ai residenti e nati a Francoforte. L’Eintracht si è appellato al Tar della Campania, che però ha respinto il nuovo ricorso.

Gli incidenti verificatisi in occasione dell’incontro di andata dello scorso 21 febbraio con la squadra del Napoli non possono dirsi affatto sporadici o non probanti. Episodi che avrebbero ingenerato un sentimento di ‘rivalsa’, documentato da un monitoraggio social, certo non riconducibile ai soli tifosi tedeschi, ma che comunque farebbe presagire azioni violente delle opposte tifoserie”. Contrario al divieto anche il presidente della UEFA Aleksandr Ceferin. “È inaccettabile che le autorità italiane decidano che i tifosi tedeschi non sono ammessi. Questa situazione è intollerabile. Abbiamo urgente bisogno di fare qualcosa perché la decisione presa dalle autorità è assolutamente sbagliata“.

Lo scontro si è consumato nel primo pomeriggio. Alla fine di un corteo non autorizzato dei tifosi tedeschi per le strade del centro della città fino a Piazza del Gesù Nuovo. Almeno un’auto della polizia è stata data alle fiamme, alcuni locali sono stati assaltati, ci sono stati lanci di pietre, cassonetti ribaltati. Le forze dell’ordine hanno prevenuto il contatto diretto tra tifosi tedeschi con i napoletani. In strada c’erano cittadini comuni, turisti, ragazzi che uscivano da scuola. I tedeschi sono stati alla fine fatti salire su pullman e trasportati agli hotel sul lungomare dove alloggiano. Al momento non risultano feriti.

La rivalità

Si può definire una rivalità per procura quella tra i partenopei e tedeschi. Qualcosa che affonda le radici in trent’anni di rivalità tra napoletani e atalantini. I bergamaschi a loro volta sono gemellati con i tedeschi. I napoletani sono gemellati con il Monaco 1890 e il Borussia Dortmund, a loro volta nemici dell’Eintracht. Alcune tensioni si erano verificate già all’andata in Germania, con minacce e insulti e anche a famiglie napoletane aggredite nei ristoranti. Alcuni tifosi tedeschi si erano lanciati tra il 20 e il 21 febbraio in una sorta di caccia dei napoletani. C’erano stati diversi feriti, scontri all’esterno dello stadio, pullmini italiani distrutti. 33 gli arresti tra i tedeschi.

Le forze dell’ordine avevano segnalato già in mattinata un’aggressione di tifosi tedeschi presso un bar di piazza Bellini la notte scorsa e un’altra ai danni di tifosi tedeschi. Il Corriere della Sera scrive come durante gli scontri alcuni tifosi napoletani si fossero lanciati nel pomeriggio in azioni di guerriglia, piccoli gruppi che vogliono raggiungere i tedeschi, colpire e sparire. Gli agenti della Digos hanno individuato tra i tedeschi arrivati ieri sera prima a Salerno e poi a Napoli, anche ultrà dell’Atalanta che lanciavano cori in italiano. I napoletani erano già informati. “Sono in contatto continuo con il prefetto e con il questore. Spero che la situazione possa essere gestita senza danni alla città. Oggi deve essere una grande giornata di festa e di sport e mi auguro che questi comportamenti violenti non incidano sulla sicurezza dei cittadini”, ha commentato il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Estratto dell’articolo di Alessia Marani per “il Messaggero” il 16 marzo 2023.

Nemici giurati, vendette incrociate e, di contro, legami che invece si rinsaldano. Il codice non scritto del mondo ultrà travalica i confini nazionali per allearsi o farsi la "guerra" in giro per l'Europa.

 La "semestrale" delle informative delle squadre Digos racconta di scenari in continua evoluzione, basta un nonnulla per sciogliere antiche amicizie o fare nascere nuovi e bellicosi gemellaggi: una polveriera.

 Un puntuale aggiornamento, con scambio di informazioni tra le polizie, tuttavia, manca a livello internazionale, lasciando "cani sciolti" e gruppi più o meno organizzati liberi di agire a briglia sciolta nelle città italiane. Come accaduto ieri a Napoli. Ma quali sono le tifoserie e le alleanze europee che più fanno paura?

L'Eintracht Francoforte è senz'altro una delle compagini più temute: detiene il record di presenze in trasferta (andarono in 35mila a Barcellona nell'aprile del 2022) ed è legata all'Italia da un gemellaggio trentennale con gli ultras "rossi" dell'Atalanta.

 Il 21 febbraio nella partita di andata di Champions i tifosi tedeschi aggredirono i napoletani seduti ai ristoranti con le loro famiglie e così accadde quando la Lazio nel 2018 andò a Francoforte. […]

 L'Eintracht non è l'unica squadra sotto i fari di Digos e Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive. Quando gli ultras della Stella Rossa il 17 febbraio scorso hanno bruciato sugli spalti del "Rajko Miti" di Belgrado, durante la partita contro il Cukaricki, lo striscione sottratto due settimane prima, a Roma, ai Fedayn, poco più in là campeggiava la scritta in serbo: «Avete scelto la compagnia sbagliata», in riferimento al gemellaggio dei romanisti con i Bad Blue Boys della Dinamo Zagabria.

Tornando ancora al 2018, a margine del match di Europa League del 13 dicembre contro la Lazio, si registrarono violenti scontri con i Frankfurter Ultras che tennero la Capitale letteralmente sotto scacco, protagonisti di saccheggi e devastazioni. […]

Ad alto rischio sono le sfide tra il Marsiglia (gemellato con Livorno e Sampdoria) da una parte e Lazio e Napoli (gemellata con i genoani) dall'altra. A separare le compagini anche la diversa fede politica. Un comune sentore di destra unisce, invece, i laziali a Levski Sofia e Wisla Cracovia, ultranazionalisti come i serbi della Stella Rossa. […]

Estratto dell’articolo di Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 16 marzo 2023.

La sintesi di quanto accaduto ieri potrebbe essere questa: tutto previsto da giorni, con il Viminale che ha cercato in ogni modo di evitare che le due tifoserie del Napoli e dell'Eintracht entrassero in contatto. Ma la decisione di non consentire la vendita dei biglietti agli ultrà tedeschi è stata criticata da più parti: sono entrati in campo il Tar della Campania, la Uefa, tirando in ballo diritti e regole, e anche ministri e sindaci tedeschi.

 Così, ieri, dopo lo scempio che ha coinvolto il centro di Napoli, messo a ferro e fuoco da un bel gruppetto di "teste calde" tedesche e non solo, la "Bild", giornale di Berlino, si è convertito e ha urlato «vergogna», accanendosi contro i tifosi arrivati dalla Germania in Campania.

Certo, non tutto ha funzionato alla perfezione nella gestione dell'ordine pubblico. E c'è stato anche un momento in cui gli ultrà tedeschi sono riusciti a muoversi incontrollati. Ma per contenere i disordini - viene spiegato - si doveva reprimere, e questo, i mille poliziotti schierati sul campo, hanno voluto evitarlo fino alla fine, proprio per non trovarsi davanti a qualcosa di più grave. Sul campo è rimasta persino una pistola, caduta a un agente durante l'aggressione e i tafferugli. È stata recuperata da un altro poliziotto, ma si è corso un grosso rischio.

 (…)

 Insomma - è l'atto di accusa - se si sapeva che sarebbe accaduto tutto questo, perché consentirlo? Il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi aveva provato in ogni modo a bloccare gli arrivi dalla Germania, vietando ai tifosi dell'Eintracht Francoforte di seguire la propria squadra allo stadio Maradona contro il Napoli, nel match valido per il ritorno degli ottavi di Champions.

E la ragione era semplice: i due gruppi si erano già scontrati in occasione della gara di andata. L'intervento italiano, però, era stato recepito con rabbia: l'Eintracht aveva chiesto chiarimenti all'Uefa per una decisione che - a loro dire - non avrebbe rispettato il principio di reciprocità (divieto di partecipare alla trasferta per entrambe le tifoserie). Piantedosi è finito anche nel mirino della curva del Bayern Monaco che ha eposto uno striscione di insulti nel corso della gara contro il Psg in Champions League.

 È intervenuto una prima volta il Tar della Campania che ha sospeso il provvedimento, ma il prefetto di Napoli, Claudio Palomba, ne ha emesso un altro e i giudici amministrativi lo hanno autorizzato nella parte in cui prevedeva il divieto di acquisto dei biglietti solo per i cittadini tedeschi provenienti da Francoforte. 

(...)

Immediate le reazioni per quanto accaduto: il governo ha espresso «amarezza e disappunto», soprattutto perché avevano provato a bloccare la trasferta. Dal Viminale hanno ribadito: «Abbiamo schierato mille agenti, di più non potevamo fare. I tifosi tedeschi sono violenti, ma bisogna dire che anche i napoletani hanno provocato molto». Sulla vicenda è intervenuta pure la Lega di Salvini per chiedere che la Germania risarcisca i danni.

Estratto da fanpage.it il 16 marzo 2023.

(...) Circa 600 ultras tedeschi, sprovvisti di biglietto, sono arrivati a Napoli martedì sera, nonostante il divieto di assistere alla partita. E l'indomani si sono visti i risultati: muro contro muro coi tifosi del Napoli e le forze dell'ordine a fare da cuscinetto; lancio di oggetti, due auto della polizia incendiate, la situazione è tornata alla normalità dopo che i tifosi tedeschi sono stati scortati al Royal Continental Hotel. Gli scontri sono continuati anche dopo la partita.

 Cos'è successo: i tifosi della squadra tedesca, che in mattinata avevano sfilato nel centro città, sono stati presi d'assalto dagli ultras napoletani a piazza del Gesù poco dopo le ore 16. Partite sassaiole, lancio di oggetti ed un'auto della polizia di stato è stata incendiata.

I supporters partenopei, quasi tutti vestiti di nero, alcuni col volto coperto, sono comparsi dal lato della chiesa di Santa Chiara quindi presumibilmente si sono dati appuntamento in zona Decumani-piazza Bellini. I tedeschi hanno forzato il blocco degli agenti, dando il via agli scontri.

Grossi petardi inesplosi, bottiglie rotte e cocci di vetro sul Lungomare e nella zona di Santa Lucia questa mattina a Napoli, devastata dagli scontri che hanno coinvolto i tifosi dell'Eintracht Francoforte, in città per la partita di Champions League, proseguiti anche nella notte nella zona degli alberghi. Stamattina le strade del Lungomare erano una distesa di frammenti di vetro. In via Chiatamone ritrovati a terra anche dei grossi petardi inesplosi.

Gli ultimi tifosi dell'Eintracht, intanto, stanno lasciando Napoli questa mattina in bus, diretti alle stazioni ferroviarie di Salerno e Roma o all'Aeroporto di Capodichino. Le operazioni di trasferimento sono in corso da ieri sera.

 Da ilnapolista.it il 16 marzo 2023.

Una giornata di guerriglia a Napoli. Per una partita di Champions, ma l’odio ha radici ben più profonde. Gli ultras dell’Eintracht, mischiati a quelli dell’Atalanta, hanno spadroneggiato in città sotto gli occhi delle forse dell’ordine. Gli ultras napoletani non sono stati da meno. Ieri abbiamo raccontato la cronaca della guerriglia, proseguita anche durante la notte. Un disastro annunciato di cui oggi scrive La Repubblica che racconta:

Con gli ultrà dell’Eintracht che intonano canzoncine mentre attraversano per tutta la mattinata il centro storico in blocco compatto e un po’ lugubre, corteo marcato stretto dalla polizia. E i napoletani che volteggiano intorno alla scorta, vogliono picchiare, lasciare il segno dopo i colpi subìti dagli ultrà azzurri a Francoforte il 21 febbraio scorso. Tentano più volte di assaltarli, sempre respinti. Poi, mentre i tedeschi sono in quattrocento ormai raccolti in piazza del Gesù, epicentro del grande turismo, eccoli che i “nemici” calano in massa dai vicoli dei Quartieri: un’onda, in duecento, spranghe, bombe carta, torce. E al settimo tentativo di giornata, sorprendono alle spalle le forze dell’ordine”.

La macchina della sicurezza non è riuscita a contenere la violenza. Ancora Repubblica:

Alle 16.40, la macchina della sicurezza implode. Le divise restano in mezzo, sono costrette ad arretrare. I tedeschi a quel punto caricano gli agenti, lanciano tavolini, segnali stradali, tutto. È l’inferno. Un’auto con i colori della polizia brucia. Altre 4 auto della questura distrutte, i vetri in frantumi. La piazza a ferro e fuoco. È un miracolo che non ci scappi il morto. Una catena di errori, su più livelli, porta al disastro”.

 L’impianto di sicurezza si è rivelato insufficiente.

Perché consentire, sotto le accuse di «discriminazioni» volate dall’Uefa e dall’Europa, la libera circolazione di centinaia di ultrà che non avrebbero potuto neanche raggiungere lo stadio, perché privi di biglietto? (…)  La Napoli della storia millenaria che diventa terra di barbari”.

Estratto dell'articolo di Rinaldo Frignani per roma.corriere.it il 5 febbraio 2023.

Due feriti, uno con un taglio alla testa. Una rapina fuori dallo stadio Olimpico alla fine di Roma-Empoli sabato sera. A piazza Mancini potrebbe essere andata in scena una vendetta trasversale nel mondo ultrà: una trentina di tifosi dai primi accertamenti della polizia sembra della squadra di basket serba della Stella Rossa, di passaggio nella Capitale dopo aver assistito a Milano lo scorso 2 febbraio al match di Eurolega contro l’Olimpia, hanno circondato un pulmino con tre romanisti a bordo che conteneva il materiale di uno dei gruppi storici del tifo giallorosso, quello dei Fedayn.

 (...)

 Il sospetto - ma è solo un’ipotesi perché c’è ne sarebbero anche altre al vaglio - è che ci possa essere un collegamento con gli scontri di qualche settimana fa tra romanisti e napoletani sull’A/1 all’altezza dell’area di servizio di Badia al Pino, in provincia di Arezzo: i tifosi biancorossi sono infatti gemellati con gli azzurri fin dal 2018. Gli aggressori dell’altra sera, secondo alcune testimonianze, erano vestiti di nero, e alle 20.30 hanno approfittato del buio per dileguarsi. Ma le indagini sono appena cominciate. Solo poche settimane fa nel corso del derby di Belgrado fra le due squadre locali i tifosi del Partizan, rivali della Stella Rossa, avevano provocato i rivali esponendo in curva uno striscione in napoletano.

Estratto dell'articolo di Michele Spiezia per “la Stampa” il 23 gennaio 2023.

Il fuoco divampa violento, le fiamme avvolgono un pullman, il fumo nero si alza tra le abitazioni, in piena ora di pranzo, a un'ora dall'inizio di una gara di serie D: è così che all'incrocio tra via Leopardi e via Foscolo a Pagani, comune della provincia di Salerno […] Scene di guerra, un'altra cartolina della vergogna che in poche ore fa il giro dei social […] che induce il Viminale a promettere «sanzioni e provvedimenti urgenti ed esemplari». […]

È durissima la nota che il Ministero dell'Interno diramerà a fine giornata: «Siamo pronti a procedere con massimo rigore nei confronti dei responsabili degli incidenti e delle due tifoserie, ma verrà sviluppata anche una approfondita riflessione circa i criteri con cui sarà, d'ora in avanti, consentito lo svolgimento di partite considerabili a rischio anche nelle serie minori».

[…] Appena due settimane dopo gli incidenti tra ultrà di Napoli e Roma, quindici giorni dopo che bande di teppisti mascherati da tifosi avevano bloccato il traffico sulla A1 nei pressi di una stazione di servizio vicino ad Arezzo. […] Nell'attesa il pallone però è tornato a bruciare. All'incrocio tra due vie nei pressi dello stadio di Pagani. Lì dove un gruppo di tifosi di casa attendeva l'arrivo dei rivali di Caserta, a bordo di due autobus scortati da (appena) due auto dei carabinieri […], mentre il reparto anti-sommossa della Polizia giunto da Bari era allo stadio. A duecento metri dall'impianto, gli scontri.

Un fumogeno vola dentro l'autobus, le fiamme divampano in pochi secondi, dall'autobus scendono i tifosi, molti armati di spranghe. I precedenti tra le due tifoserie erano noti, tanto che all'andata la trasferta era stata vietata. Stavolta invece bombe carta, fumogeni, petardi, bastoni e mazze di ferro: guerriglia in pieno centro urbano, le fiamme distruggono anche un negozio, attingono il balcone di un'abitazione. Tre i feriti, un carabiniere e due tifosi. Per la cronaca, dopo gli incidenti tutti i tifosi (di casa e ospiti) sono stati fatti entrare allo stadio. […]

Virali le immagini dei tafferugli. Guerriglia tra tifosi in città: scontri e bus in fiamme nel derby Paganese-Casertana. Vito Califano su Il Riformista il 22 Gennaio 2023.

Sono agghiaccianti e ormai virali le immagini che arrivano da Pagani, in provincia di Salerno. Era in programma oggi il derby di serie D tra i padroni di casa della Paganese e gli ospiti della Casertana. Veri e propri attimi di paura hanno investito il centro della cittadina dell’Agro nocerino quando sono esplosi gli scontri tra i tifosi nei pressi dello stadio Torre.

Un pullman che trasportava presumibilmente i tifosi della squadra ospite è stato dato alle fiamme: si trovava nei pressi di alcune abitazioni. Le fiamme hanno lambito i balconi di alcuni palazzi circostanti. Alcuni tifosi sono scesi in piazza armati di mazze e di bastoni. Sono state colpite e danneggiate anche alcune automobili. Pare che gruppi delle due tifoserie siano venute in contatto all’incrocio tra via San Domenico e via Leopardi.

Le informazioni sono al momento ancora parziali e frammentarie. Almeno un centinaio risultavano essere i tifosi della Casertana in trasferta. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco, i carabinieri del battaglione Bari con camionetta blindata e in tenuta anti-sommosssa. Attesi anche rinforzi da Salerno. Al momento non risultano feriti. Il match è partito regolarmente, come previsto, con il fischio d’inizio alle 15:30.

I tafferugli sono esplosi a due settimane dagli scontri avvenuti sull’autostrada A1 tra le tifoserie di SSC Napoli e Roma, immagini che avevano riproposto il tema del tifo violento. Il ministero dell’Interno ha disposto il divieto di trasferta per due mesi alle due tifoserie.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Estratto dell'articolo di Francesco Stocchi per “il Foglio” il 12 gennaio 2023.

Domenica scorsa circa 300 facinorosi riconducenti alle tifoserie di Roma e Napoli se le sono date di santa ragione in mezzo a una corsia dell’A1, nei pressi dell’area di servizio di Badia al Pino (Arezzo). La presenza di coltelli, bastoni, bengala, picconi addirittura, fa pensare a un atto premeditato, se non addirittura concordato, tra due fazioni antagoniste che si fronteggiano regolarmente da oltre vent’anni.  (...)

 Alla notizia di non convalida dei primi arresti, numerosi giornali hanno definito la notizia scandalosa, parlando di “manica larga” del giudice, di “cavilli che salvano gli ultras”.

 La tendenza giustizialista di “sbattere il mostro in prima pagina” come si suol dire, così cara agli organi di stampa nostrani, ha forse fatto vendere qualche copia in più ma di rado ha prodotto buoni risultati. Successe con Tortora, con Amanda Knox e con numerosi altri imputati che hanno dovuto difendersi prima dall’opinione pubblica che dalla magistratura.

Un malcostume che porta a invocare punizioni esemplari per responsabilità penali ancora tutte da chiarire. Lorenzo Contucci, avvocato di difesa, ci dice che “si confondono i cavilli con la Costituzione, in realtà mancavano i criteri di urgenza e impossibilità di effettuare l’arresto sul posto. Non è la polizia ma solo il giudice che può limitare la libertà di una persona”.

 Le indagini andranno avanti, i responsabili, la maggior parte dei quali già noti alle forze dell’ordine, verranno indagati e perseguiti come è doveroso che avvenga in un stato di diritto. Quello che si dovrebbe evitare in caso di disastro ricorrente è la consueta ricerca del capro espiatorio.

 La seconda riflessione riguarda una non adeguata gestione dell’ordine pubblico che avrebbe invece impedito un evento prevedibile. La presenza di 6-8 agenti della Stradale e la decisione sbagliata di bloccare le uscite dell’autostrada, fermando i napoletani alla stazione di servizio in attesa del passaggio dei romanisti si è dimostrata scellerata.

Oggi si riunisce l’Osservatorio per le manifestazioni sportive del Viminale. Si prevedono misure restrittive esemplari, anche repressive ma sono misure che denotano una tale difficoltà di gestione delle manifestazioni pubbliche fino a impedirle. Come nel caso della tragica morte in piazza a Torino in occasione di una finale trasmessa sui megaschermi. La soluzione fu impedire i raduni in piazza, piuttosto che ammettere delle falle organizzative e prendersi carico delle responsabilità organizzative di gestione di flussi di persone. Sarebbe semplice gestire l’ordine pubblico con un pizzico di pragmatismo, invece si preferisce abdicare, o almeno così sembra.

Abatantuono sugli ultras: «Le trasferte del tifo organizzato vanno abolite». Diego Abatantuono su Il Corriere della Sera il 13 Gennaio 2023.

Costi rilevanti per la sicurezza e il Daspo che rappresenta un paradosso. L'attore però precisa: «Per dare l’esempio ai ragazzini le società dovrebbero prima multare i giocatori che simulano o protestano»

Credo che ogni appassionato sia di fronte a una occasione. Lo dico con un po’ di amarezza perché certi spigoli del calcio riusciamo a trattarli solo in emergenza, mai con un anticipo colmo di visione e serenità. Anche perché, forse, di calcio discutono quasi sempre allenatori, ex calciatori meno interessati alle contraddizioni di una cultura complessa. Da anni sono convinto che le trasferte del tifo organizzato vadano abolite.

Gli svantaggi; enormi. Centinaia di agenti impiegati per accompagnare e sorvegliare i viaggi del tifo, pagati e sottratti ad altri compiti utili. Un costo rilevante per uno sforzo che non elimina i danni inflitti a treni, bus, stazioni, vetrine, luoghi di sosta. Danni consueti e, mi pare, mai conteggiati. Credo possa saltar fuori una cifra spaventosa. Poi c’è la paura degli altri. Di una famiglia estranea al calcio che per caso si trova nell’autogrill dove infuria la battaglia . Persone che restano traumatizzate come quando un ladro entra in casa di notte. Qui non è questione di danni materiali ma di altre ferite, spesso profonde. Certo, assistere a una partita e tifare è un diritto. Bene, si può partire con figli e amici, abbinare la gita a un’esperienza gioiosa, un pranzo in trattoria in serenità.

Il Daspo è un paradosso visto che negli stadi accadono cose che altrove, invece del Daspo, farebbero scattare le manette. Possiamo fare meglio? Ma certo. Esempio: qualche passo illuminato da parte del sistema calcio, lentissimo quando si tratta di svoltare verso una modernità. I giocatori vengono ammoniti per proteste, risse, simulazioni, perdite di tempo. Sono atteggiamenti amorali che generano tensione anche in tribuna. Beh, cari presidenti, perché non inserire nei contratti una clausola che preveda multe in denaro per ogni ammonizione di questo tipo? Cifre calcolate in percentuale sull’entità dell’ingaggio, da destinare a scopi benefici.

Toccare i soldi fa sempre qualche affetto. In aggiunta, l’iniziativa varrebbe come invito a un’etica più salda. Sono certo che il primo presidente capace di un gesto così diretto venga rispettato, ammirato, imitato. Il prestigio del club: più alto. Mi pare uno sforzo possibile e utile per dare un vero esempio ai ragazzini che cominciano a giocare, ai loro genitori, ai tifosi. Chiudo con una riflessione. Domenica scorsa ho pensato a quegli ultrà che dopo aver fatto a mazzate hanno osservato, allo stadio, un minuto di silenzio in onore di Vialli. Beh, come avranno utilizzato quel minuto? Me lo domando mentre immagino che proprio Vialli, a proposito dell’uso del tempo che ci resta, sarebbe d’accordo con me.

Felice Manti per “il Giornale” il 12 gennaio 2023.

Se si liberano gli ultras violenti, armati e «daspati» è discrezionalità dei gip, se i ladruncoli la fanno franca è colpa della riforma Cartabia. Come se in passato i topi d'appartamento venissero assicurati subito alla giustizia. Ma il sospetto che dietro le strane scarcerazioni di questi giorni ci sia un disegno per «avvertire» la politica c'è.

 Anche il giudice di Napoli non ha convalidato l'arresto dell'ultras coinvolto negli scontri perché «non connotato da alcun intento offensivo». A differenza di Roma, dove invece il gip ha ritenuto insussistente il presupposto dell'urgenza e della necessità in fase di arresto nonostante il pericolo di reiterazione del reato.

Vanificando, di fatto, il prezioso lavoro delle forze di polizia. E mandando un segnale pericoloso di impunità. Ma siccome la magistratura vive il suo momento peggiore in termini di credibilità, alla vigilia dell'elezione del Csm e dell'avvio di una stagione riformista che cambierà finalmente la giustizia che terrorizza le toghe militanti- meglio far lanciare qualche fumogeno agli ultras delle Procure, come Fatto e Cinque stelle.

 I membri M5s nelle commissioni Giustizia della Camera e del Senato, dagli ex magistrati Federico Cafiero De Raho e Roberto Scarpinato alla coordinatrice del comitato Giustizia Giulia Sarti, blaterando di «smantellamento della giustizia e restaurazione classista», denunciano «un diffuso allarme sociale» perché «restano impuniti autori di furti, danneggiamenti e altri reati tipicamente rivolti a semplici cittadini» e accusano il governo di Giorgia Meloni di «sovranismo dell'impunità» per aver concesso «benefici penitenziari a corrotti e corruttori».

 Ma è davvero così? Dal 30 dicembre scorso una serie di reati punibili fino a due anni (dalle frodi informatiche alle lesioni personali o stradali) sono perseguibili solo su querela della persona offesa, non più su iniziativa d'ufficio del magistrato.

 «La riforma ha molti buoni aspetti che pretendono un'adesiva attitudine delle parti processuali per dare frutti insieme a farraginosità procedurali inutili e talvolta persino dannose», dice al Giornale il pm antimafia Stefano Musolino, segretario nazionale di Magistratura democratica, che marca ancora le distanze rispetto ai toni apocalittici di Area attraverso l'ex presidente dell'Anm Eugenio Albamonte, che ipotizza la sostanziale impunità di chi compie furti e borseggi: «Si assisterà, tra qualche settimana, a scarcerazioni di delinquenti che abitualmente mettono in atto condotte illecite di questo tipo».

Per il procuratore generale di Napoli Luigi Riello c'è una «depenalizzazione camuffata», al Fatto quotidiano il presidente della Corte d'Appello di Napoli Giuseppe De Carolis denuncia: «Serve la querela pure per perseguire i reati con metodo mafioso». A chi paventa un possibile scarceramento di massa replica però Via Arenula: «Nessun condannato definitivo per reati per i quali è prevista la custodia cautelare uscirà dal carcere per effetto della Cartabia», assicura una fonte vicina al Guardasigilli Carlo Nordio. Tra chi difende la riforma c'è il capo dei pm di Bologna, Giuseppe Amato («Polemica di lana caprina») e il presidente facente funzioni del Tribunale di Milano, Fabio Roia, che difende «una riforma rivoluzionaria che vuole razionalizzare l'esercizio dell'azione penale».

Sarà, ma ieri a Milano il sistema informatico sugli atti processuali utile per la creazione del cosiddetto «fascicolo penale digitale» è andato in tilt. Un magistrato di Magistratura indipendente ammette al Giornale: «C'è del populismo giudiziario anche dentro la magistratura. Se sento che cresce del malcontento, io che ambisco al potere me ne faccio portatore mentre il buonsenso porterebbe a dire "troviamo una soluzione"». Qualcuno tra le toghe soffia sul fuoco. Ma rischia di bruciarsi.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Pipitone per ilfattoquotidiano.it il 12 gennaio 2023.

 Sono stati sequestrati e picchiati dagli uomini di Cosa nostra. Il motivo? Avevano rapinato un negozio senza l’autorizzazione del capomafia. In un contesto simile è comprensibile, dunque, che le vittime di questo pestaggio non abbiano alcuna intenzione di querelare i boss che li hanno già picchiati una volta.

 Mancando la denuncia, però, i pm della procura di Palermo non hanno avuto altra scelta che chiedere la revoca della misura cautelare per tre uomini di Cosa nostra. L’ennesima storia legata agli effetti nefasti della riforma della giustizia firmata da Marta Cartabia rischia di regalare l’impunità a tre mafiosi di rango. Almeno per quello che riguarda un pestaggio in piena regola, compiuto secondo le più feroci regole della mafia. In questo senso quello di Palermo rischia di diventare un caso studio di come le nuove leggi creino un danno gigantesco alla giustizia.

 A Palermo il caso studio della Cartabia – Anche in questo caso il punto è che la querela è diventata la condizione di procedibilità per certi reati. Tra questi ci sono pure i sequestri di persona e le lesioni.

Proprio di questi reati, aggravati dal metodo mafioso, sono accusati Giuseppe Calvaruso, considerato il reggente del mandamento mafioso di Pagliarelli, il suo braccio destro, Giovanni Caruso, e Silvestre Maniscalco. Il 14 dicembre del 2022, i tre sono stati condannati in primo grado con l’abbreviato per una serie di reati. Pene alte visto che a Calvaruso, ritenuto il nuovo capofamiglia, sono stati inflitti 16 anni di carcere, tre in meno per Caruso, mentre a Maniscalco sono toccati 4 anni e 4 mesi.

[…] Boss restano in carcere per altri reati – Intanto entra in vigore la riforma Cartabia, che trasforma in maniera retroattiva una serie di reati da “perseguibili d’ufficio” a “perseguibili a querela“, cioè solo su richiesta formale della vittima. Non si tratta di fattispecie di poco conto, visto che includono anche il sequestro di persona e le lesioni, pure quando sono aggravati dal metodo mafioso.

 Reati che erano contestati a Calvaruso, Caruso e Maniscalco, arrestati prima dell’entrata in vigore della riforma. Per i tre vale dunque il regime transitorio, che obbliga il giudice a verificare la volontà delle persone offese. Se le vittime non vogliono procedere con la querela, la misura cautelare è inefficace e il reato non si può più perseguire. È quello che è successo a Palermo: interpellati dal giudice, i ladri, che provengono dallo stesso contesto sociale dei boss mafiosi, si sono rifiutati di depositare querela nei confronti degli uomini che li avevano pestati a sangue.

Ai pm Dario Scaletta, Federica La Chioma e Bruno Brucoli, coordinati dall’aggiunto Paolo Guido, non è rimasto che chiedere l’inefficacia della misura cautelare per i tre. Che rimangono in carcere perché già accusati e condannati in primo grado per associazione a delinquere di stampo mafioso e altri reati. Ma se fossero stati accusati solo del sequestro e del pestaggio, seppur aggravati dal metodo mafioso, sarebbero tornati in libertà. Di sicuro per la questione del pestaggio non saranno più processati.

Fabio Postiglione per corriere.it l’11 gennaio 2023.

Spranghe, bastoni, bottiglie, cinture e pietre. Nei bagagliai dei minivan partiti da Napoli c’era di tutto. Gli ultrà della Curva A erano pronti per la battaglia. E il campo dove si sarebbero affrontati con i nemici non era l’Autostrada del Sole, ma lo stadio Marassi di Genova.

 Nel giorno del ricordo a Gianluca Vialli era in programma un mega assalto, una rissa stile anni Ottanta tra i napoletani e un gruppo di quattro tifoserie che per l’occasione si erano dati appuntamento a Genova: i sampdoriani, i baresi, i ternani e i veronesi. Ecco un altro retroscena sul quale sono al lavoro gli agenti della Digos che hanno tra le mani le immagini della curva dello stadio Marassi di Genova, poco prima dell’inizio della partita tra la Sampdoria e il Napoli.

 Gli ultrà della Curva A del Napoli a quell’incontro-scontro non ci sono mai arrivati perché poche ore prima, all’autogrill di Badia al Pino avevano teso un agguato a una carovana di tifosi della Roma che era diretta a Milano. Una guerriglia voluta dai napoletani che hanno lanciato bottiglie e pietre contro i romanisti — che, questa volta hanno deciso di fermarsi, di scendere dalle auto, di percorrere a piedi un tratto di autostrada e di scontrarsi con i napoletani.

Dopo gli incidenti però la polizia ha deciso di non correre altri rischi, anche perché le notizie che arrivavano da Genova non erano confortanti.

 E così, con un posto di blocco all’altezza di Arezzo ha deciso di rispedire tutti gli ultrà del Napoli a casa. Le auto sono così ritornate indietro e gli ultrà non sono mai arrivati all’appuntamento con i Doriani.

 Ma che cosa sarebbe successo a Genova? L’idea, secondo le prime informative redatte dagli investigatori, era quella di un assalto ai minivan degli ultrà del Napoli, che la zona dello stadio Marassi la conoscono molto bene.

 Napoli è stata per anni legata a Genova per un gemellaggio con i genoani. Conoscono ogni strada attorno allo stadio ed erano pronti a rispondere. E a Marassi, così come testimoniano le foto già nelle mani della Digos, a centro curva, durante il minuto di silenzio in ricordo di Gianluca Vialli, c’erano gli stendardi di altri tre gruppi ultras storicamente nemici di quelli del Napoli. I Doriani hanno ospitato gli ultras della Ternana, quelli del Bari e il gruppo Hellas Army di Verona. Tutti uniti per l’assalto finale ai napoletani. Che all’appuntamento, però, non sono mai arrivati.

Da corrieredellosport.it il 10 gennaio 2023.

 Un patto europeo per picchiare i romanisti, e vendicare così la morte di Ciro Esposito. Questa è la ricostruzione che fa il Corriere della Sera sugli scontri tra ultras di Napoli e Roma avvenuti domenica scorsa sull’A1, all’altezza dell’area di servizio di Badia al Pino dove morì Gabriele Sandri. Cinque mesi dopo la morte di Ciro Esposito, avvenuta il primo novembre 2014, sarebbe partito un “patto di vendetta” siglato dai tifosi del Napoli con ultras da tutta Europa. Un patto sancito da uno striscione esposto dai tifosi del Napoli proprio nella sfida contro la Roma di quel novembre di più di otto anni fa. “Ogni parola è vana, se occasione ci sarà non avremo pietà”. E da quel momento, sarebbe partita la caccia al romanista con l’epilogo (per ora) di due giorni fa a Badia al Pino.

 Anche gli ultras del Psg contro i romanisti

Il Corriere della Sera riporta una serie di esempi a favore di questa tesi. Il primo episodio il 22 novembre di nove anni fa, pochi giorni dopo quello striscione. Duecento tifosi dell’Atalanta cercarono di assalire un pullman di romanisti, nove furono arrestati. A Napoli qualche giorno dopo comparvero murales con scritto “Fuori Bergamo dalle galere” e partì anche una colletta per sostenere le spese legali degli atalantini arrestati. Perfino la curva del Psg avrebbe cacciato chi sosteneva i romanisti. “Se si picchia un romanista nessuno viene lasciato solo”. Questo il motto che muoverebbe gli attacchi ai giallorossi in Italia e perfino in Europa: si sono visti per esempio da parte delle tifoserie di Monaco 1860 e Borussia Dortmund in Germania, e della Stella Rossa di Belgrado in Serbia.

Rinaldo Frignani per corriere.it l’8 gennaio 2023.

Uno scontro tra tifosi di Napoli e Roma ha causato il blocco del traffico nel primo pomeriggio della autostrada A1 nei pressi di Arezzo. All’altezza di Monte San Savino, secondo quanto informa il sito Autostrade per l’Italia, si è formata una coda lunga 13 chilometri, in aumento. Sempre la società di gestione segnala code anche in direzione opposta a partire da Arezzo.

 I tifosi del Napoli erano diretti a Genova per assistere al match contro la Sampdoria mentre i romanisti erano attesi a San Siro per la partita contro il Milan. Gli scontri sono scoppiati nell’area di servizio di Badia al Pino, in direzione Nord. È la stessa località dove l’11 novembre del 2007 morì il tifoso laziale Gabriele Sandri , ucciso da un colpo esploso dall’agente di polizia Luigi Spaccarotella.

 Negli scontri odierni, secondo le prime informazioni, sarebbero coinvolte circa 300 persone. Alcuni video diffusi su Twitter mostrano dei tifosi che hanno invaso una delle carreggiate e bloccano il flusso del traffico.

Alle 13 circa di domenica oltre 150 tifosi napoletani diretti a Genova hanno presidiato l’autogrill dopo essere scesi da decine di mini van e di auto. Al passaggio di alcune vetture con i romanisti in autostrada, diretti a Milano per la partita contro il Milan, hanno lanciato oggetti sulle corsie in direzione Nord sulle quali stavano passando decine di veicoli, non solo dei tifosi. Un agguato in piena regola, secondo chi indaga. Solo per un caso non si è verificato un incidente dalle conseguenze imprevedibili, mentre i romanisti, anche loro su pulmini e auto, si sono fermati all’altezza dell’uscita dell’area di servizio, sono tornati indietro e si sono scontrati con i rivali.

 Almeno un ultrà giallorosso è rimasto ferito e con mezzi propri si è recato all’ospedale di Arezzo per farsi medicare. Non sarebbe grave e rischia una denuncia. Nell’area di servizio c’era un servizio di vigilanza della polizia stradale e della questura di Arezzo, come anche in quella successiva, Arno. Gli agenti sono intervenuti per evitare conseguenze peggiori mentre gli ultrà si affrontavano con spranghe, aste delle bandiere, caschi e cinghie. Ci sarebbero anche altri feriti.

Successivamente i romanisti si sono allontanati mentre sull’autostrada l’incolonnamento ha toccato i 14 chilometri in direzione Nord e almeno altri sei in direzione Sud. I napoletani sono stati identificati dalla polizia e poi rimessi in parte sui mini van per ripartire. Alcuni sono stati condotti in Questura ad Arezzo per essere identificati.

 Poco dopo le 14.30 l’autostrada è stata riaperta. L’incolonnamento, che nel frattempo ha toccato i 15 chilometri, ha faticato a smaltirsi.

"L'appuntamento, poi l'agguato". Cos'è successo in A1. È successo nell'area di servizio di Badia al Pino dove morì il tifoso laziale Gabriele Sandri. I tifosi romanisti erano diretti a Milano per la trasferta a San Siro. Antonio Prisco l’8 gennaio 2023 su Il Giornale.

Un agguato dei tifosi del Napoli a quelli della Roma, diretti a Milano per la sfida tra i giallorossi di Mourinho e il Milan di Pioli. Questa la ricostruzione degli scontri avvenuti sull'Autostrada del Sole, che è rimasta bloccata nel tratto aretino, tra Monte San Savino e Arezzo nei pressi dell'autogrill Badia al Pino est.

Una maxi rissa nella quale sarebbero state coinvolte circa 300 persone, a colpi di spranghe, aste di bandiere, sassi, lacrimogeni, cinghie e sassi. I tifosi napoletani diretti a Genova e all'interno dell'area di servizio Badia al Pino chiusa, insieme a quella di Arno e Montepulciano, proprio per scongiurare possibili scontri. I tifosi romanisti in viaggio, sui minivan diretti a Milano per la partita di domenica sera contro i rossoneri.

Sono da poco passate le 13 quando i supporter campani intravedono all'altezza del chilometro 364 i giallorossi un tempo ormai lontano loro gemellati: iniziano a lanciare sassi e bottiglie contro i pulmini, che non proseguono il viaggio ma si fermano sull'autostrada A1 nel tratto aretino. I tafferugli sono iniziati nel piazzale del distributore, poi hanno invaso anche la corsia nord dell'A1. Alcuni tifosi sono scesi dalle auto a volto coperto brandendo bastoni e lanciando petardi e fumogeni. Sarebbe stato ritrovato persino un estintore.

Lo scontro tra le due parti, è talmente violento che gli agenti della Polstrada già impegnati a presidiare l'intero tratto autostradale, sono costretti a chiudere tra Monte San Savino e Arezzo. Ad avere la peggio un tifoso romanista, portato all'ospedale di Arezzo per le ferite riportate ma ci sono anche diversi contusi. Al vaglio dei poliziotti e dei carabinieri sul posto insieme agli agenti della Polstrada e del Reparto Mobile di Firenze le immagini delle telecamere di videosorveglianza grazie alle quali si spera di poter identificare i protagonisti.

Il traffico è rimasto paralizzato per alcune ore per poi riprendere, seppur a ritmo lento. Le code si sono vistosamente ridotte, dopo che avevano raggiunto oltre 10 km. Attualmente è ancora in corso l'identificazione dei partecipanti ai tafferugli, che hanno riportato alla memoria quanto accaduto l'11 novembre 2007 a Gabriele Sandri, rimasto ucciso nei pressi dell'area di servizio di Badia al Pino, quando l'agente Luigi Spaccarotella - nel tentativo di sedare una rissa - sparò un colpo di pistola che però colpi lo stesso Sandri, in attesa di amici per andare proprio a Milano per assistere a Inter-Lazio. Proprio per questo motivo è chi l'ha definita un'area di servizio "maledetta" e non ha tutti i torti.

Inoltre c'è stata anche l'ipotesi che tifosi di Napoli e Roma si fossero dati appuntamento in un'area di servizio nel tratto aretino dell'A1 all'origine degli scontri avvenuti oggi all'altezza dell'autogrill di Badia al Pino. Lo si apprende dalla questura di Arezzo che precisa così le prime indicazioni fornite che parlavano di un agguato teso dai tifosi napoletani ai romanisti. Proprio per il timore di scontri il servizio di ordine pubblico all'area di servizio di Badia al Pino era stato potenziato così come all'autogrill Arno.

Da alcuni video in rete si vede il momento in cui le due tifoserie della Roma e del Napoli entrano in contatto proprio nell'autogrill, vicino ai distributori di benzina. I tifosi si muovono in gruppo, indossano felpe e giubbotti neri, molti sono travisati con cappucci e sciarpe. Si sentono urla e il rumore dei sassi lanciati e dei lacrimogeni.

"Gli hanno rotto gambe e braccia". Ecco gli audio dei tifosi degli scontri sulla A1. Martino Di Tosto non sarebbe l'unico ferito negli scontri tra tifosi: ce ne sarebbero anche altri, forse più gravi, come emerge da alcuni audio. Francesca Galici il 10 Gennaio 2023 su Il Giornale

Si delineano nuovi contorni negli scontri di domenica pomeriggio tra i tifosi di Roma e Napoli sulla A1. Gli inquirenti proseguono nell'attività di ricerca delle persone coinvolte e sono già quasi 200 le persone identificate dalla Digos tra i circa 400 tifosi che si sono affrontati all'autogrill di Badia al Pino, nei pressi di Arezzo. Nelle ultime ore, come riporta il Corriere della sera, sono stati rintracciati anche alcuni audio che raccontano una versione diversa rispetto a quella finora conosciuta, soprattutto in ragione delle persone che sono rimaste ferite a seguito degli scontri.

"Gesto folle". Quattro arresti per gli scontri sull'A1

Finora, infatti, si aveva ragione di credere che l'unico tifoso ad aver riportato ferite così gravi da richiedere le cure mediche fosse Martino Di Tosto, lo chef 43enne ultrà della Roma, che domenica pomeriggio è stato accompagnato dai suoi compagni all'ospedale e lasciato fuori dal pronto soccorso, dove poi è stato arrestato. Secondo gli inquirenti, era in prima linea durante i violenti tafferugli con gli omologhi partenopei tanto da essere ferito ad una gamba, forse con una arma da taglio. Gli inquirenti gli contestano il reato di rissa aggravata. Dagli audio in mano agli inquirenti e in possesso anche del Corriere della sera, invece, si viene a conoscenza di altri feriti, forse anche più gravi di Martino Di Tosto.

"Jerry è tutto spaccato, l’hanno portato al pronto soccorso, a un altro hanno rotto gambe e braccia", si sente in una delle tracce audio. Ovviamente, gli inquirenti sono ora alla ricerca di tutte le persone che, nel pomeriggio di domenica, si sono presentate al pronto soccorso di Arezzo o in quelli delle vicinanze per farsi medicare. Intanto sale a 4 il numero degli arrestati. Oltre a Martino Di Tosto, che è stato il primo a essere rintracciato, gli investigatori hanno individuato altri due tifosi romanisti e un tifoso del Napoli. L'azzurro è Antonio Marigliano, di 35 anni, aderente al gruppo ultras "Brigata Carolina" della curva A dello stadio Diego Armando Maradona. Ieri sera gli è stato notificato un arresto in flagranza per differita e nei prossimi giorni è prevista l'udienza di convalida davanti al giudice. Le accuse per lui sono di possesso di oggetti atti ad offendere nei luoghi interessati dal transito di coloro che assistono a manifestazioni sportive e rissa aggravata.

È stato riconosciuto attraverso l'analisi delle immagini contenute nei video relativi agli scontri in autogrill. Intanto prosegue l'analisi delle targhe dei veicoli presenti domenica pomeriggio nel luogo degli scontri così come quella dei tabulati telefonici, per rintracciare e identificare tutte le persone che in quel momento si trovavano nell'area di servizio e potrebbero aver preso parte agli scontri. Oltre al tifoso del Napoli denunciato domenica pomeriggio a Genova per il possesso di tre spranghe nel suo bagagliaio, nelle stesse ore un tifoso della Roma è stato fermato a Milano, allo stadio, con 20 dosi di cocaina addosso.

Salvatore Mannino per il “Corriere della Sera” il 9 gennaio 2023.

«Non sembravano neppure tifosi ma black bloc. Avevano le felpe indosso e i cappucci tirati sulla testa, con le facce torve di chi già prepara l'assalto, niente a che fare con quelli che hanno la maglietta della loro squadra».

 È il racconto di un addetto all'autogrill di Badia al Pino est, che accetta di parlare solo con la garanzia dell'anonimato, come tutti gli altri che lavorano nell'area di servizio teatro della battaglia di strada fra ultrà napoletani e romanisti, poi degenerata negli scontri direttamente in corsia Nord, fra le vetture di passaggio, prima che la polizia stradale riuscisse a chiudere quel tratto di A1 per sedare gli scontri.

 Chi c'era ha visto ma parla malvolentieri e senza esporsi col nome, per paura: «Temiamo rappresaglie, le minacce le abbiamo già sperimentate ai tempi (11 novembre 2007, ndr ) in cui fu ucciso il tifoso della Lazio, Gabriele Sandri. Sì quello fu fulminato dal poliziotto appostato nell'altra area di servizio con un colpo di pistola. C'è ancora l'altarino in memoria, lì dietro».

 «Era quasi l'ora di pranzo, le 13 più o meno - riprende il suo racconto l'uomo dell'autogrill - e ci preparavamo al cambio di turno. Quelli del Napoli hanno parcheggiato i loro pullmini a ridosso delle pompe di benzina, davanti all'altro punto di ristoro, gestito direttamente dal distributore. Erano centinaia. Poi si sono lanciati verso la corsia di marcia. La mia netta impressione è che fosse tutto preparato. Un agguato».

«Hanno puntato alla rete che separa l'area di servizio dalle corsie di marcia - spiega un benzinaio - ci hanno fatto un buco e hanno cominciato la sassaiola contro i romanisti in transito su auto e pullmini». Una trappola, sì, ma alla quale gli ultrà giallorossi hanno risposto subito: «Sono scesi e hanno cominciato anche loro a menare, rispondendo ai razzi coi razzi, ai petardi con i petardi, ai sassi con i sassi».

 Tanto che, ricorda l'addetto dell'autogrill, «l'autostrada si è coperta di nebbia dei lacrimogeni. Non so come abbiano fatto le prime auto, quando la polizia non aveva ancora bloccato il traffico, a passare indenni in mezzo a tutto quel caos». Il mucchio selvaggio in mezzo all'A1 è durato per un bel po': «Da lontano vedevamo i bastoni e le sassate. Poi sono arrivati i poliziotti della celere. Hanno chiuso i due ingressi come in un imbuto e sono riusciti a isolare i napoletani dai romanisti. Una cosa da matti, ma ormai ci siamo abituati. Sembra quasi che qui si diano appuntamento gli ultrà di tutta Italia. E dire che pare ci fosse un patto per evitare scontri qui, in memoria di Sandri. Violato anche quello».

Intanto, a Badia al Pino arrivano i reduci dalla coda di 15 km creata dalla chiusura dell'A1: «Nessuno ci ha detto niente di cosa era successo, sono state due ore allucinanti - raccontano Salvatore e Piero, in viaggio da Roma a Milano -. No, non per vedere la partita, questi sono teppisti, il calcio non c'è più...».

I mali della Polizia negli incidenti tra tifosi sull'A1. Linda Di Benedetto su Panorama il 9 Gennaio 2023 Previsioni sbagliate, problemi di organico.

I sindacati spiegano come sia stato impossibile prevedere ed evitare la guerriglia urbana di ieri in autostrada tra ultras di Roma e Napoli

Non si spengono le polemiche per quanto accaduto sulla A1, con la guerra tra ultras di Roma a Napoli, nel bel mezzo del traffico. Scene di guerriglia urbana che hanno messo in difficoltà le forze dell’ordine causando danni e disagi alla circolazione. Tutto è iniziato dopo le 13,30 quando 350 tifosi del Napoli si sono fermati all’autogrill di Badia del Pino ed hanno iniziato un fitto lancio di oggetti verso le autovetture, scontrandosi con i tifosi giallorossi. incidenti tra tifosi sull'A1

Il bilancio è un romanista ferito con un’arma da taglio e115 ultras della Roma e 80 del Napoli identificati dalla polizia. L'acredine tra le due tifoserie non si è mai placata da quando è stato identificato e condannato Daniele De Santis, ex ultrà della Roma, per l'omicidio di Ciro Esposito avvenuto nei pressi dello stadio Olimpico il 3 maggio 2014. L'autogrill in cui si sono consumati gli incidenti è lo stesso in cui è stato ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri nel 2007. Com'è stato possibile? C'è chi sostiene che la Questura abbia commesso degli errori... «Non ci sono stati errori nella gestione dell’ordine pubblico, i poliziotti intervenuti sono stati bravissimi nonostante non fossero abbastanza per contrastare la violenza di centinaia di tifosi» commenta Felice Roma segretario generale del Siulp Non sapevate che sarebbero arrivati così numerosi? «La Digos ha avvisato che sarebbe arrivata la tifoseria nell’autogrill dove era morto Sandri ma non erano previsti tutti quei tifosi perché dalle attività info investigative non è stato possibile prevederlo. Il motivo è che invece di affittare i pullman che potevano dare un’idea di quanti fossero questi ultras sono venuti a bordo di minivan da 8-9 passeggeri rendendosi di fatto non conteggiabili e la questura di Arezzo prevedendo un numero di tifosi più basso ha mandato un numero di agenti più scarso del necessario...» Da cosa nascono queste errate valutazioni? «Vede come già le ho detto nei prossimi 7 anni andranno in pensione 40mila poliziotti. Tra questi ci sono soprattutto quelli che ricoprono i ruoli chiave nella Digos, all’antiterrorismo e nella lotta contro la criminalità organizzata e di cui già da ora siamo in forte carenza». Le forze dell’ordine come cercano di fermare le frange violente degli stadi? «Nel 2007 con la violenza negli stadi eravamo arrivati ad avere 1000 feriti all’anno che ci costavano in termini di prevenzione e contrasto anche oltre 168mila euro per indennità, ordine pubblico e trasferte. Dopo l’omicidio dell’ispettore Filippo Raciti la politica è intervenuta per arginare le frange violente degli stadi con il Daspo e la tessera del tifoso, che ci ha permesso grazie al biglietto nominativo l’identificazione precisa del gruppo tifoso. Così si è instaurato un patto in base al quale il tifoso non era più un estraneo in un’arena dove sfogarsi ma un luogo dove dare supporto ai propri beniamini. Poi durante la pandemia furono sollevate delle perplessità sulla tessera che ledeva i diritti del tifoso e cosi le società hanno un po’ abbandonato quest’idea. Anche il daspo è stato attaccato sotto il profilo giuridico quando andrebbe dato a vita in casi come questi. Inoltre aggiunga che per reati del genere non è prevista una sanzione efficace e immediata. La Cartabia infatti ha depenalizzato tutti i reati di allarme sociale. Ad esempio con un furto senza querela non si può più agire e così le istituzioni sono in forte debito di credibilità, perchè tutti fanno quello che vogliono restando impuniti». Dura anche la condanna del sindacato di polizia Coisp «I gravissimi scontri avvenuti ieri sull’A1 confermano che questi criminali travestiti da tifosi rappresentano un rischio grave e concreto per i cittadini e per le Forza dell’Ordine. I poliziotti intervenuti ieri con professionalità e sangue freddo, a Badia al Pino sono stati costretti a intervenire nelle corsie autostradali aperte alla circolazione e a fare i conti con persone armate di tutto punto, con bastoni e bombe carta, nonché abbigliate in modo da rendere difficile la loro identificazione» spiega il segretario generale del sindacato di Polizia Coisp, Domenico Pianese Cosa chiedete al Governo? «Per questo motivo chiediamo al ministro dell’Interno Piantedosi di valutare la sospensione delle trasferte fino alla fine del campionato per le tifoserie che si macchiano di episodi di violenza. E per coloro che saranno identificati quali autori degli scontri di ieri, auspichiamo l’applicazione del Daspo a vita. Di fronte a vicende del genere, infatti, l’unica via da applicare è quella dell’assoluta severità»

Estratto dell'articolo di Simone Golia per corriere.it venerdì 15 settembre 2023.  

[…] In serie A sono tanti i figli d'arte che stanno provando a ripercorrere le orme dei padri, ma qualcuno non ce l'ha fatta. Fra questi c'è Christian Maldini, 27 anni, difensore come papà Paolo, una leggenda dal cognome pesante. La Primavera del Milan, poi un esordio in prima squadra che non arriverà mai. Da lì Reggiana, Hamrun Spartans, Pro Sesto, Fondi, Pro Piacenza, Fano e Lecco, infine la decisione di dire addio al calcio giocato per iniziare una seconda vita, quella da procuratore. […]

Andrea Mancini, classe 1992, ha giocato nelle giovanili dell'Inter quando suo padre allenava la prima squadra (2004-2008). Poi Monza, Bologna e Manchester City U21, esordendo tra i professionisti nel 2010 con la maglia dell’Oldham, nelle serie inferiori britanniche. Quindi Fano, Valladolid B, Honved (Ungheria) e poi all’Haladas. Infine, la Mls con D.C. United e New York Cosmos. Oggi è il direttore sportivo della Sampdoria, dove suo papà ha vinto tutto.

Una vita decisamente più movimentata invece per Edinho, figlio di Pelé, cresciuto con la madre e in contatto col padre solo una volta compiuti i 18 anni. Ha giocato e allenato nel Santos con scarsa fortuna, poi nel 2005 viene arrestato a San Paolo per traffico di droga. Rilasciato alla fine del 2006, nel 2014 è stato condannato a 33 anni di carcere da un tribunale brasiliano di prima istanza, con l'accusa di riciclaggio di soldi provenienti dal narcotraffico […]

Nato dalla relazione tra Cristiana Sinagra e Diego Armando Maradona, Diego Jr incontrò suo padre per la prima volta solo nel 2003 in occasione di un torneo di golf a Fiuggi. […] . Per Maradona Jr, cresciuto nel settore giovanile del Napoli, soprattutto una carriera nel beach soccer, giocando anche i Mondiali con l'Italia. Da giugno è il nuovo allenatore del Pompei, squadra di Eccellenza campana.

Storia tragica, invece, quella di Stephan Beckenbauer, figlio di Franz. Da calciatore ha collezionato una dozzina di partite in Bundesliga, ruolo difensore […] Poi la decisione di dedicarsi alla carriera da allenatore, guidando le giovanili del Bayern e crescendo giocatori come Schweinsteiger, Hummels e Thomas Müller. È morto nel 2015 all'età di 46 anni dopo una lunga malattia. […] 

Romeo Beckham, 21 anni, gioca come attaccante per la squadra riserve del Brentford, nella B inglese. Dicono abbia un piede educato come quello del padre David (oltre che lo stesso successo con le donne), soprattutto sui calci piazzati. Nel 2015 non venne riconfermato nelle giovanili dell'Arsenal […]

Se il fratello minore Timothy (23 anni) in estate si è trasferito alla Juventus, la carriera di George Weah Jr — classe 1987 — non è mai decollata. Dopo le giovanili nel Milan, viene scartato dal club rossonero nel 2007 a causa di una lunga serie di infortuni. Nel maggio 2014 fa il suo debutto con la squadra riserve del Paris Saint-Germain nel Championnat de France Amateur. Prima il nulla assoluto, con qualche parentesi in giro per l'Europa fra Svizzera, Bulgaria e Francia. Nel 2021 è stato arrestato a Parigi per una chiassosa festa organizzata in casa nonostante il coprifuoco alle 18 provocando così un piccolo incidente diplomatico tra la Liberia di papà George e la Francia.

Nazionali e nazionalismo. Il calcio internazionale europeo è diventato un’arena di rivendicazioni. Valerio Moggia su L'Inkiesta il 16 Settembre 2023

Non è un caso che la Uefa preveda accoppiamenti vietati nei gironi. Fin dalle origini il pallone è espressione di ideali e ambizioni politiche: oggi l’esistenza di una selezione è vista come un prerequisito per affermarsi in quanto Stato

Martedì 12 settembre, mentre l’Italia di Spalletti otteneva la sua prima vittoria sconfiggendo l’Ucraina, a Bucarest la partita tra Romania e Kosovo veniva interrotta già nel primo tempo, a causa delle proteste dei giocatori ospiti verso uno striscione mostrato dai tifosi di casa. «Kosovo è Serbia» c’era scritto, riprendendo una nota rivendicazione dei nazionalisti serbi. Subito sopra, un altro striscione simile recitava «Bessarabia è Romania», paragonando la questione balcanica a quella tra Bucarest e la regione oggi nota come Moldavia. 

Si tratta solo di una partita, eppure i contenuti geopolitici richiederebbero pagine e pagine di approfondimento. Nulla di nuovo, perché ormai da diversi anni il calcio europeo, soprattutto durante la sosta per le nazionali, offre numerosi spunti di dibattito sulla politica internazionale: una rivista come Limes, se volesse, potrebbe dedicare un intero numero anche solo a uno o due turni delle qualificazioni europee, ritrovandosi piena di argomenti di cui discutere. Mentre ancora, in certi ambienti, resiste la retorica secondo cui sport e politica dovrebbero restare separati (come ribadito anche da Fifa e Uefa), la realtà quasi quotidiana racconta una storia ben diversa.

Un calcio figlio del nazionalismo

Non è un caso se, ogni volta che la Uefa deve effettuare un sorteggio dei gironi di qualificazione prevede alcuni accoppiamenti vietati, cioè alcune nazionali che non possono affrontarsi per nessun motivo. Come è immaginabile, tra di esse ci sono Kosovo e Serbia, anche se questo non basta a scongiurare tensioni in altri incontri.

Lo si è visto in Romania lo scorso martedì, ma anche nel 2018 per la gara dei Mondiali tra la selezione di Belgrado e la Svizzera, nella quale giocano diversi immigrati kosovari. L’esultanza di Xhaka e Shaqiri, che mimarono con le mani l’aquila albanese, fece il giro del mondo.

Dal canto suo, il Kosovo è uno Stato che ha costruito un’intera strategia politica sul calcio. Il riconoscimento da parte della Uefa nel 2016 ha aperto un precedente storico, permettendo al piccolo Paese balcanico di acquisire uno status preciso come squadra di calcio prima che come soggetto politico.

Ad oggi, solo centuno membri dell’Onu su centonovantatré riconoscono l’indipendenza di Pristina, che però gode di una posizione molto più solida in ambito sportivo. In poche parole, l’esistenza di una squadra nazionale di calcio è divenuto un prerequisito necessario per affermarsi in quanto Stato-nazione.

In questa strategia riecheggiano le parole dello storico Eric J. Hobsbawm, che già nel 1992 scriveva che «la comunità immaginata di milioni sembra molto più reale quando è incarnata da una squadra di undici». Questo per ricordare come da sempre il calcio per nazionali sia espressione di ideale (e ambizioni) nazionaliste, in quanto figlio della società ottocentesca.

Non è un caso se proprio la prima gara tra selezioni di questo tipo – di cui per altro nell’ultimo turno delle qualificazioni a Euro 2024 si è celebrato il centocinquantesimo anniversario – sia stata Scozia-Inghilterra. Ovvero non la sfida tra due Stati, ma tra due nazioni all’interno di uno stesso Stato.

Lo specchio delle fratture dell’Europa

Le rivalità tra nazionali sono cosa nota, ma la predisposizione dell’Europa a questo tipo di rivendicazioni affonda le sue radici nei travagliati eventi del Novecento. La formazione e la dissoluzione degli Stati multietnici, prima al termine della Grande Guerra e poi alla caduta del comunismo, ha riempito il continente di fratture politiche che non si sono più del tutto rimarginate.

Vale per i tristemente noti Balcani, ma non solo. Tant’è vero che nell’aprile 2021 furono i media spagnoli a rifiutarsi di pronunciare il nome del Kosovo, avversario durante una partita delle qualificazioni ai Mondiali. Nelle grafiche televisive, il nome del paese balcanico venne scritto in piccolo, e non fu mai chiamato «inno» l’inno nazionale kosovaro. Questo perché la Spagna non riconosce Pristina, dato che questo aprirebbe delle controversie in merito all’indipendentismo catalano.

Una situazione simile, ma con altri protagonisti, si è verificata lo scorso 8 settembre a Eskisehir, in Turchia, quando la tv locale ha silenziato l’inno dell’Armenia. I rapporti tra Yerevan e Ankara sono da sempre tesissimi a causa del genocidio commesso dai turchi tra il 1915 e il 1923.

Nella gara di andata, giocatasi a marzo, i tifosi armeni avevano esposto uno striscione con sopra scritto «Nemesis», il nome dell’operazione paramilitare condotta dalla Federazione rivoluzionaria armena tra il 1920 e il 1922, che portò all’uccisione di sette persone, turche e azere, responsabili del genocidio.

Quello tra Armenia e Azerbaijan è un altro fronte aperto, nella politica e nel calcio. Gli ultimi mesi hanno riportato al centro della cronaca estera la questione del Nagorno-Karabakh, il territorio storicamente conteso tra i due Paesi a cui gli azeri hanno imposto un discusso blocco, isolando la comunità armena.

Questo mese, l’Armenia ha siglato un accordo di cooperazione con gli Stati Uniti, vicini all’Azerbaijan, che ha permesso una distensione nella regione, e quasi in contemporanea, lunedì 11 settembre durante Armenia-Croazia, alcuni tifosi di casa sono riusciti a far volare sopra il terreno un drone che sventolata la bandiera dell’Artsakh, il soggetto politico armeno nel Nagorno-Karabakh.

Se la politica internazionale continua a essere co-protagonista di molti match di calcio europeo durante i turni di qualificazione, non va però sottovalutato il recente aumento di queste rivendicazioni, che stanno diventando sempre più frequenti.

I motivi sono senza dubbio molteplici, ma non si può non notare come tutto questo vada di pari passo con il risorgere dei nazionalismi in tutto il Vecchio Continente. E infatti dodici delle cinquantacinque federazioni affiliate alla Uefa rappresentano paesi che in questo momento hanno governi esplicitamente nazionalisti.

Tensioni tra Romania e Kosovo: quando il calcio incontra la politica. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 14 Settembre 2023

La partita di calcio tra Romania e Kosovo, giocatasi martedì sera all’Arena Nationala di Bucarest, era appena iniziata da un quarto d’ora quando l’arbitro ha deciso di richiamare i giocatori negli spogliatoi, sospendendo il match per circa 45 minuti. La causa? I cori e gli striscioni realizzati dai padroni di casa, che hanno portato la politica sugli spalti esibendo scritte eloquenti, come “Bessarabia è Romania” e “Kosovo è Serbia”. Per capirne il legame è necessario tornare al 17 febbraio 2008, quando Pristina proclamò unilateralmente l’indipendenza da Belgrado. La Romania, così come Spagna, Cipro, Grecia e Slovacchia, si rifiutò di riconoscere tale cambiamento nello status quo, preoccupata dalle istanze di autonomia avanzate dalla minoranza magiara. Inoltre, facendo leva su questa interpretazione del principio di integrità territoriale, Bucarest non ha abbandonato le rivendicazioni sulla Bessarabia, regione sotto il controllo di Bucarest tra le due guerre mondiali e oggi coincidente in gran parte con la Moldavia. A fare da sfondo ai cori pro-Belgrado inscenati martedì sera è, infine, la questione religiosa, con Romania e Serbia accomunate dalla fede ortodossa.

I magiari di Romania sono la principale minoranza etnica del Paese, dove si contano circa 1 milione e mezzo di ungheresi (6,5% della popolazione). I magiari vivono principalmente in Transilvania, regione storicamente contesa tra Bucarest e Budapest. A seguito della prima guerra mondiale e del crollo dell’Impero austro-ungarico, la Transilvania venne infatti assegnata alla Romania dal Trattato di Trianon del 1920. Il trasferimento territoriale ha portato una significativa minoranza ungherese all’interno del Paese, che ancora oggi continua a vivere nella regione. Da allora gli ungheresi transilvani hanno sempre avuto un rapporto travagliato con il governo centrale di Bucarest, responsabile di diversi tentativi di assimilazione culturale, perlopiù falliti dal momento che hanno scalfito l’identità della regione solo in minima parte. Gli esecutivi romeni cercano di mantenere il proprio controllo in loco attraverso una forte presenza militare sul territorio e sostenendo le istituzioni ecclesiastiche ortodosse, che agiscono da presidio ideologico nei confronti degli ungheresi, di tradizione cattolica. La maggiore sponda politica della minoranza magiara è l’Alleanza Democratica degli Ungheresi di Romania, che dal 1989 chiede autonomia territoriale per il Székelyföld (o Terra dei Siculi, dove il vive il nucleo principale della popolazione magiara) e autonomia culturale per tutti gli ungheresi del Paese. Istanze che Bucarest respinge, recidendo i rapporti con quelle esperienze estere (come il Kosovo) suscettibili di alimentare l’indipendenza magiara.

La Bessarabia è invece una regione storica compresa tra i fiumi Prut e Nistro, che nel 1918 ottenne l’indipendenza sulle ceneri dell’Impero russo. Nello stesso anno venne assorbita da Bucarest, diventando una provincia orientale della Grande Romania (espressione con cui viene indicato il territorio romeno tra il 1918 e il 1941). Dopo la seconda guerra mondiale, la Bessarabia fu annessa da Mosca, diventando la Repubblica Socialista Sovietica Moldava. Nel 1991, a seguito della dissoluzione dell’URSS, si trasformò nella Repubblica di Moldavia, da cui si sono staccate con un moto secessionista russofono alcune città, dando vita alla Transnistria, uno Stato non riconosciuto a livello internazionale. Oggi gran parte della regione storica della Bessarabia coincide con la Moldavia mentre la restante area meridionale è sotto l’amministrazione ucraina.

Dopo la Rivoluzione romena del 1989, che portò al crollo del regime dittatoriale di Nicolae Ceaușescu, nacque il Movimento per l’unificazione della Romania e della Moldavia, ispirato al periodo interbellico. Raggiunta l’indipendenza, la Moldavia adottò la bandiera romena con uno scudo moldavo al centro e scelse come inno nazionale quello in vigore a Bucarest. Tuttavia, la possibile fusione con la Romania venne frenata dal Fronte Popolare Moldavo, che da movimento di opposizione era nel frattempo salito al potere. Col passare degli anni, il sentimento unionista è scemato, soprattutto a Chisinau, senza però sparire dal dibattito pubblico e dalle agende politiche. I principali movimenti unionisti si chiamano Noii Golani, Deşteptarea e Basarabia – Pământ Românesc. L’unificazione trova sostegno in fette più o meno ampie della popolazione, tanto rumena quanto moldava, variando a seconda del contesto sociale o delle radici familiari. Ad esempio, i moldavi di origine russa, ucraina o gaugaza tendono a essere contrari all’unione con la Romania, preferendo l’attuale divisione. L’unificazione va tenuta distinta dall’irredentismo, che ha invece come base l’elettorato nazionalista romeno (protagonista martedì scorso all’Arena Nationala) e come maggior espressione politica il partito ultra-conservatore Grande Romania.

A destare preoccupazione a Bucarest, in ottica di un’eventuale unificazione con Chisinau, è la situazione della Transnistria, uno Stato non riconosciuto ma indipendente de facto, che si opporrebbe fortemente a un avvicinamento amministrativo tra Bucarest e Moldavia, da cui almeno formalmente dipende. In particolare, preoccupa il rischio che la Transnistria utilizzi il precedente del Kosovo per rafforzare la propria posizione, anche e soprattutto a livello internazionale, dove si gioca l’importante partita del riconoscimento statale. Timori simili sono al centro delle agende politiche di Slovacchia, Grecia, Cipro e Spagna, gli altri Paesi dell’Unione europea che non riconoscono il Kosovo per le conseguenze che tale scelta avrebbe sulle questioni interne secessioniste. Madrid, ad esempio, fa i conti con diversi movimenti indipendentisti, con sede soprattutto in Catalogna e nei Paesi Baschi, per anni associati alle azioni dell’organizzazione armata Euskadi Ta Askatasuna (ETA). [di Salvatore Toscano]

In Portogallo.

In Germania.

In Inghilterra.

In Portogallo.

(ANSA il 18 maggio 2023) - La polizia portoghese ha perquisito ieri diversi uffici delle maggiori squadre di calcio del Paese - Benfica, Sporting e Porto - nell'ambito di un'inchiesta denominata 'Operazione penalty'. Per Benfica e Sporting le autorità giudiziarie hanno avviato l'istruttoria. Tra le sedi prese di mira da 67 mandati di perquisizione ci sono anche le case di alcuni calciatori e gli uffici della Gestifute, la società di Jorge Mendes, procuratore sportivo di molte star del panorama calcistico internazionale.

Gli inquirenti indagano per sospetta frode fiscale, truffa e appropriazione indebita. L'inchiesta prende spunto da documenti divulgati tempo fa dall'hacker Rui Pinto, che furono all'origine del cosiddetto scandalo 'Football Leaks'. Gli avvocati di Pinto, che è sotto processo in attesa di una sentenza - la cui lettura, originariamente fissata ad aprile, è stata rinviata al 13 luglio - non hanno voluto commentare la notizia. Ma il giovane ha subito twittato: "Nel 2015 il progetto Football Leaks diede il calcio d'inizio. Dopo centinaia di rivelazioni d'impatto globale, la palla è passata ora alla giustizia".

In Germania.

Estratto da gazzetta.it il 29 aprile 2023.

Tensioni, in campo e fuori. Il Bayern Monaco non sta vivendo un momento facile. Dopo esser stato eliminato da Champions League e Coppa di Germania, e aver perso il primato in Bundesliga a 5 giornate dal termine, i bavaresi hanno ricevuto la visita delle forze dell’ordine. Perquisite la sede e lo stadio del club. Gli investigatori dell’ufficio federale di polizia criminale, in collaborazione con quello della polizia bavarese, stanno cercando prove relative al presunto riciclaggio di denaro di cui è indagato l’oligarca russo Alisher Usmanov, miliardario amico di Putin.

Usmanov avrebbe, fra il 2017 e il 2022, spostato denaro che si ritiene possa provenire da una precedente evasione fiscale. Le cifre in questione sono altissime (decine di milioni di euro). Al momento non è dato sapere nello specifico di quali prove gli investigatori andassero effettivamente a caccia. Il punto di contatto tra l’oligarca e il Bayern però c’è: il presidente onorario Uli Hoeness e Usmanov, stando a quanto riportato dalla Bild, si conoscono perché abitavano entrambi sul Tegernsee, da dove Usmanov ha poi traslocato all’inizio della guerra in Ucraina. Il russo, inoltre, ha ricevuto diversi biglietti omaggio per le gare di Champions del club tedesco. Gli inquirenti fanno però sapere che il Bayern non è indagato, ma ritenuto a conoscenza dei fatti. ...

 Estratto dell'articolo di Alessandra Bocci per la Gazzetta dello Sport il 29 aprile 2023.

[…] Piovono pettegolezzi sulla fine della storia fra Julian Nagelsmann e il Bayern Monaco, una storia prima felice, con una conclusione mesta. E come sempre si cerca la causa […]. Una che è piaciuta parecchio soprattutto ai siti di gossip, ma anche ai giornali seri: una delle motivazioni del divorzio del giovane tecnico tedesco dal club più potente di Germania avrebbe un nome e un cognome: Lena Wurzenberger, ex giornalista della Bild.

La ragazza, o per meglio dire il suo mestiere, non sarebbero andati troppo a genio a parte dello spogliatoio, che non si fidava di lei. […]  Qualcuno dentro la squadra temeva che Nagelsmann li lavasse anche in salotto o al tavolo della colazione e da lì finissero nella centrifuga della Bild. Da parte sua, invece, Lena si era lamentata spesso in redazione: quando la sua relazione con il tecnico del Bayern era diventata pubblica, la direzione del quotidiano l’aveva spostata dalla redazione sportiva alla cronaca di Monaco, ma non era bastato. […]

Alla fine, proprio poco prima dell’esonero di Nagelsmann, la Wurzenberger ha dato l’addio alla Bild. […] Lena e Julian si erano conosciuti quando lei era una cronista al seguito del Bayern. Per lei Nagelsmann avrebbe lasciato la moglie Verena, con la quale si frequentava da sempre e con la quale ha avuto due figli. Cose che capitano, ovvio, e magari se la nuova compagna non fosse stata una giornalista sportiva nessuno nel club si sarebbe occupato dei cambiamenti nella vita privata dell’allenatore. Fatto sta che al Bayern le cose a un certo punto non hanno più funzionato come prima.

Nagelsmann e Lena erano in vacanza, a sciare durante la pausa di campionato, quando è arrivata a sorpresa la telefonata dell’amministratore delegato del club, Oliver Kahn, che comunicava la decisione di rimpiazzarlo con un altro bavarese, Thomas Tuchel. Se abbia ragione l’ex nazionale Markus Babbel («So che il suo fidanzamento con Lena era un argomento enorme nello spogliatoio») e Lena abbia giocato un ruolo in negativo nell’esonero di Nagelsmann non è dato sapere. Voci di spogliatoio, appunto, come quella che vorrebbe ai titoli di coda anche la loro storia. 

Precedenti Non sarebbe comunque il primo caso in cui la compagna giornalista crea imbarazzo e sospetto: dal ginepraio dei commenti sono passati Rudi Garcia e Francesca Brienza, famoso è il bacio fra Iker Casillas e Sara Carbonero in diretta tv al Mondiale 2010, stanno insieme da anni senza esoneri Ilaria D’Amico e Gigi Buffon. […]

Eintracht, il presidente Fischer accusato di possesso ed uso di cocaina. «Ha sniffato il figlio 13enne».  Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 06 Febbraio 2023

Il massimo dirigente della squadra che incontrerà negli ottavi il Napoli in Champions è nei guai. Secondo le accuse il figlio 13enne avrebbe sniffato. Gli investigatori avrebbero trovato tracce di cocaina in casa e nel dessert

In Germania è scoppiato uno scandalo che coinvolge i vertici dell’Eintracht Francoforte, avversario del Napoli negli ottavi di Champions (21 febbraio-15 marzo). Secondo quanto scrive la «Frankfurter Allgemeine Zeitung» che ne ha avuto conferma dalla Procura cittadina, il presidente del club tedesco, Peter Fischer, è infatti finito sotto indagine per possesso e consumo di cocaina. Le autorità tedesche inoltre, stanno indagando anche sulla moglie e sul figlio maggiore di 25 anni. Ma non è finita qui. Perché ad aggravare la vicenda, naturalmente sempre se le accuse fossero provate, è che l’episodio sarebbe venuto a galla a causa dell’altro figlio di Fischer, che ha solo 13 anni. Anche lui, come riportano i media tedeschi, avrebbe fatto uso della sostanza stupefacente insieme a un suo amico.

Secondo le prime ricostruzioni, è stata la moglie di Peter Fischer a dare l’allarme, dopo aver notato nel figlio 13enne strani comportamenti ed una visibile alterazione dell’umore. Arrivata la segnalazione, le autorità tedesche hanno perquisito l’appartamento del presidente dell’Eintracht Francoforte e uno dei cani antidroga avrebbe ritrovato tracce di cocaina sul comodino di Fischer e addirittura nel dessert che stavano mangiando in famiglia. Ed ecco, allora, che tutta la famiglia è finita sotto indagine: l’accusa nei loro confronti è di aver conservato la droga in modo tale che il figlio più piccolo potesse trovarla. Al momento né Fischer né l’Eintracht Francoforte hanno rilasciato commenti ufficiali a riguardo. Se le accuse trovassero conferma in tribunale, il numero uno del club tedesco potrebbe essere costretto alle dimissioni.

Fischer è presidente dell’Eintracht dal 2000 ed è stato rieletto per altri quattro anni alla fine di settembre 2022 ed è attualmente al suo ottavo mandato. Nel 2018 era stato riconfermato addirittura con il 99% dei sì dei circa 100mila soci. Un trionfo. Che ora rischia però di essere soltanto un lontano ricordo.

In Inghilterra.

Manchester City, inchiesta sulle violazioni finanziarie: di cosa è accusato e cosa rischia. Arianna Ravelli su Il Corriere della Sera il 07 Febbraio 2023

Nel mirino del board della Premier League le sponsorizzazioni e gli stipendi di giocatori e dirigenti (compreso Mancini). Il club rischia dalla multa alla penalizzazione in punti fino all’esclusione dal campionato

Le entrate (soprattutto i ricavi da sponsorizzazioni) e le spese, soprattutto quelle per i contratti di giocatori e dirigenti, compreso Roberto Mancini, l’allenatore vincitore del primo titolo, nel 2012, di cui non sarebbero stati forniti i dettagli su tutte le voci di remunerazione.

Sono gli ambiti in cui il Manchester City avrebbe commesso violazioni finanziarie («Oltre cento») secondo quanto sostiene il board della Premier League che si occupa delle questioni disciplinari e che ieri ha emesso un comunicato in cui annunciava il deferimento del club. Non solo Juventus, dunque: a ciascun campionato la sua grana giudiziaria.

Anche in Inghilterra a essere colpita è una big. Il City, di proprietà dell’Abu Dhabi United Group, è accusato di non aver fornito informazioni finanziarie accurate «che diano una visione veritiera ed equa della posizione finanziaria, in particolare per quanto riguarda i ricavi (compresi quelli da sponsorizzazione), le sue parti correlate e i suoi costi operativi».

Tra le accuse anche quelle di non aver rispettato il Fair play finanziario (gli anni contestati sono quelli dal 2013-14 al 2017-18), di aver violato le norme della Premier in materia di redditività e sostenibilità (dal 2015-16 al 2017-18) e di non aver collaborato alle indagini, durate ben quattro anni, iniziate sulla base dei documenti riservati rivelati nel 2018 dall’attività di hackeraggio «Football Leaks» e che sono andate a spulciare i conti del club indietro nel tempo, a partire dal 2009, l’anno successivo all’acquisto da parte del fratello del sovrano di Abu Dhabi, 14 anni fa ormai.

Ma, a differenza dei procedimenti Uefa, in Premier non c’è la prescrizione: nel 2020, infatti, il City — da tempo, assieme al Psg, guardato con sospetto per quanto spende e quanto incassa da sponsor fin troppo vicini alla proprietà: il primo dei critici è il presidente della Liga spagnola Javier Tebas — era stato riconosciuto colpevole dalla Uefa e inizialmente bandito dalla Champions per due anni, sanzione poi cancellata dal Tribunale arbitrale dello sport (Tas) anche perché le infrazioni più gravi risalivano a più di cinque anni prima, il termine massimo per poter essere sanzionate.

In Premier invece il City potrebbe ancora essere punito. È chiaro che questo è solo il calcio d’inizio di una disputa legale che la Bbc, per esempio, immagina «lunga e costosa»: chiunque commette gravi violazioni del regolamento rischia dall’ammonizione alla multa, alla penalizzazione in punti, fino all’espulsione dalla competizione (non è mai successo nella storia della Premier). Lo deciderà una commissione indipendente, composta da tre membri.

Il club, che con questa proprietà ha vinto sei campionati (4 negli ultimi 5, con Pep Guardiola in panchina: ora è secondo e insegue l’Arsenal a 5 punti di distacco), ha risposto dicendosi «sorpreso dalla pubblicazione di queste presunte violazioni», affermando di aver collaborato eccome alle indagini, consegnando una «vasta quantità di materiale dettagliato» e accoglie con favore di finire davanti a una commissione indipendente dove portare «prove inconfutabili», a sostegno della propria correttezza. «Siamo ansiosi di chiudere la questione una volta per tutte». Ma non sarà né breve né facile.

Estratto dell'articolo di Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 7 febbraio 2023.

Welcome to Britaly. Se secondo il settimanale Economist il Regno Unito sta diventando sempre più simile all’Italia (vedi l’instabilità politica e 5 primi ministri negli ultimi 7 anni), ora c’è un altro pesante parallelo.

 Non solo il coinvolgimento del ct azzurro Roberto Mancini. Perché da ieri, dopo la Juventus, un altro top club come il Manchester City è all’indice per accuse simili. E, se confermata la colpevolezza, anche per lo stellare club allenato da Pep Guardiola si prospetta una penalizzazione di molti punti o persino la retrocessione in Championship. Qualcosa di mai visto in Premier League.

Ieri mattina, ore 11. Un corriere si presenta alla sede del City e consegna «documenti legali». La Premier League, che in contemporanea pubblica tutto sul suo sito, accusa i Citizens dello sceicco emiratino Mansour bin Zayed di aver falsificato i bilanci e il più bel e ricco campionato del mondo per almeno un decennio, dal 2009 al 2018. Intanto, i citizens hanno vinto tre campionati e due FA Cup. I dirigenti del City sono furiosi e basiti: la Premier non li ha avvertiti preventivamente. Il club risponde: «Proveremo la nostra innocenza ».

Qualcuno della dirigenza sparge veleno al Times : «Il tempismo di questa mossa è eloquente», sostiene una anonima fonte, «la Premier League vuole dimostrare al governo britannico di avere il controllo della situazione prima della riforma». Il riferimento è al nuovo libro bianco del calcio inglese, tra due settimane, in cui ci dovrebbero essere regole molto più stringenti sulla trasparenza dei bilanci dei club, oltre all’inappellabile divieto di unirsi a qualsiasi Superlega europea. Ma la realtà sembra essere un’altra. Se infatti in Italia la penalizzazione di 15 punti per la Juventus è arrivata «troppo velocemente » per alcuni osservatori, in Inghilterra la Premier League ha impiegato oltre 4 anni per queste accuse al Manchester City, che ora saranno giudicate da una commissione indipendente.

(...)

Anche il vecchio contratto di Mancini è nel mirino: secondo gli inquirenti, l’allenatore italiano sarebbe stato pagato segretamente anche da un altro club di Abu Dhabi.

Non si sa quando arriverà il verdetto, ma molti club stanno già invocandolo prima della fine della stagione. E, a differenza della sentenza Uefa, stavolta il City non potrà neanche appellarsi al Tas. Insomma, l’impero di Mansour rischia davvero di sgretolarsi. Pep Guardiola aveva detto dopo la prima indagine: «Io ho totale fiducia nel City. Ma se mi hanno mentito, ne sarò fuori in un minuto ».

Football Leaks, l'inchiesta che ha svelato i bilanci truccati del Manchester City. Il club inglese rischia sanzioni o l’espulsione dalla Premier League. Tutto nasce da questa inchiesta che l’Espresso, con altre testate internazionali, pubblicò nel 2018. Vittorio Malagutti e Stefano Vergine su L’Espresso il 05 Febbraio 2023

Aggiornamento 6 febbraio 2023. La Premier League ha deferito il Manchester City ad una commissione indipendente per presunte numerose violazioni dei regolamenti finanziari. Tra i possibili provvedimenti a carico del City: penalizzazioni in termini di punti, retrocessione ed espulsione dalla Premier League. Ecco l’inchiesta Football Leaks da cui sono emrse le irregolarità

Dall’anonimato all’olimpo del calcio mondiale. Nel giro di dieci anni Paris Saint-Germain e Manchester City sono diventate due delle squadre più forti e popolari in circolazione. Hanno vinto più volte i rispettivi campionati nazionali, hanno iniziato a dare filo da torcere ai più blasonati club europei nella Champions League, il trofeo più ambito nel Vecchio Continente.

Il problema è che questi straordinari risultati sportivi sono stati raggiunti grazie a un’abbondante dose di doping finanziario, aggirando nella più totale impunità le regole di bilancio fissate per i club dall’Uefa, la Federazione europea del pallone.

Ecco, allora, le sponsorizzazioni gonfiate, iscritte a bilancio a un valore molto più alto di quello reale. Le società esterne usate per scaricare costi eccessivi. E una lunga serie di trucchi contabili che hanno permesso alle due società di investire somme colossali, fuori dalla portata delle altre grandi squadre continentali, per aggiudicarsi i migliori giocatori sulla piazza, da Neymar a Mbappé, da De Bruyne ad Agüero.

A raccontarlo sono i documenti di Football Leaks: contratti, email, presentazioni riservate ottenute dal settimanale tedesco Der Spiegel e analizzate da L’Espresso insieme alle testate internazionali che formano il consorzio di giornalismo investigativo European Investigative Collaboration (EIC). Migliaia di carte che dimostrano come Psg e City siano riuscite a dribblare le regole del fair play finanziario, ad evitare le sanzioni più dure previste dai regolamenti. Tutto questo con l’aiuto di due degli uomini più potenti del calcio mondiale, la coppia che ha governato la Uefa fino al 2016: il presidente Michel Platini e il suo segretario generale Gianni Infantino, oggi al vertice della Fifa.

Fair play con il buco

Il fair play finanziario è stato introdotto di fatto dalla Uefa nel 2013, poco dopo l’ingresso nel calcio europeo degli emiri del Qatar e di Abu Dhabi, diventati rispettivamente padroni del Psg e del City. La regola generale, sostenuta con orgoglio da Platini e Infantino, prevede che ogni squadra europea abbia un bilancio quasi in pareggio, senza perdite eccessive (al momento è concesso un rosso di 30 milioni di euro in tre anni). L’obiettivo è evitare che le società più ricche possano annientare le più povere solo grazie al potere dei soldi, al deficit.

Impedire cioè che i nuovi magnati del calcio - sceicchi arabi, oligarchi russi, finanzieri americani e industriali cinesi - pompino milioni di euro nelle casse della loro squadra nel tentativo di annientare la concorrenza dotata di mezzi finanziari molto inferiori. Proprio questo era l’obiettivo dei nuovi padroni del Paris Saint-Germain e del Manchester City. I manager dei due club hanno truccato i bilanci. La Uefa lo ha scoperto, ma alla fine ha preferito usare le maniere morbide invece che espellere le due squadre dalle coppe europee, come successo per molto meno a diversi club minori in questi anni, dalla Dinamo Mosca al Galatasaray, dal Malaga alla Stella Rossa di Belgrado. Non proprio quello che aveva promesso le Roi Michel. «Avrò il coraggio di punire i club famosi», aveva scandito Platini poco prima dell’introduzione delle nuove regole l’allora presidente della Uefa. «Imporremo le più dure sanzioni», gli aveva fatto eco il fido Infantino. Niente di più lontano dalla realtà, come vedremo.

Francesi impuniti

Partiamo dal Psg, la corazzata controllata dal regime del Qatar. Nel 2013 la Uefa inizia un’indagine sui conti della società. A condurla è il Club Financial Control Body, una specie di procura interna alla Uefa. Sotto osservazione finisce soprattutto il contratto di sponsorizzazione tra i parigini e Qta, la Qatar Tourism Authority. L’ente del turismo qatariota ha firmato un accordo di sponsorizzazione quinquennale che porterà nelle casse della società parigina 1,075 miliardi di euro, circa 200 milioni all’anno. Somma enorme se si pensa che squadre blasonate come Real Madrid, Bayern Monaco o Barcellona incassano al massimo 30 milioni all’anno per avere un logo sulla loro maglietta.

La Qatar Tourism Authority è disposta a mettere sul piatto quasi sette volte tanto. E senza nemmeno avere il proprio nome stampato sulle divise dei parigini. Ad ogni modo, per le regole del fair play finanziario ciò che conta è innanzitutto se la Qatar Tourism Authority è una “parte correlata”, cioè un’azienda controllata in qualche modo sempre dai proprietari del Psg. Gli investigatori della Uefa arrivano alla conclusione che è proprio così. In altre parole, gli emiri hanno siglato un contratto con se stessi per aggirare le norme e dotare la società parigina di nuovi mezzi finanziari. A questo punto la norma vorrebbe che quel contratto venga registrato nel bilancio al suo valore di mercato.

Nel loro rapporto, i detective dell’organo che governa il calcio europeo citano anche il parere di una società esterna, la Octagon. Secondo l’azienda americana specializzata in marketing calcistico, ai valori di mercato quel contratto vale in realtà circa 3 milioni di euro all’anno. «Le prove dimostrano che l’accordo tra Qta e Psg è finalizzato a eludere gli obiettivi» del fair play finanziario, è la conclusione contenuta nel report degli investigatori Uefa. I quali ricordano che, nel caso in cui non fosse possibile trovare un accordo con il club, il tribunale interno della Uefa dovrebbe imporre al Psg le misure previste in casi come questo: «inclusa la possibilità di esclusione dalle prossime competizioni Uefa», si legge.

È a questo punto che entrano in campo Infantino e Platini. La coppia al vertice della Uefa si dà un gran da fare per risolvere i problemi del Psg. Alla fine di febbraio del 2014 il club ottiene un incontro riservato nella sede dell’organizzazione, in Svizzera. Sulle rive del Lago di Ginevra, a Nyon, sbarca il presidente della società Nasser Al Khelaifi. Accompagnato dal suo braccio destro, Jean-Claude Blanc, l’emissario dell’emiro del Qatar trova ad aspettarlo Platini e Infantino. Nella riunione volano parole grosse, gli animi si scaldano. Alla fine Infantino e Platini propongono però al numero uno del Psg un accordo amichevole. Alle nostre richieste di commento, la Fifa ha risposto a nome di Infantino ricordando che «il Club Financial Control Body della Uefa è completamente responsabile delle proprie decisioni».

Platini, che al momento non ricopre più alcun incarico nell’organizzazione, non è voluto entrare nel merito delle nostre domande, glissando anche sul suo possibile conflitto d’interessi con il Qatar visto che il figlio, Laurent Platini, lavora da anni per una società degli sceicchi. L’ex fuoriclasse della Juventus si è limitato a sottolineare «l’indipendenza» degli organi Uefa preposti a far rispettare le regole del fair play finanziario. Di sicuro la decisione del pool di investigatori del Club Financial Control Body arriva poco dopo quell’incontro riservato a Nyon. Nessun deferimento del Paris Saint-Germain al tribunale interno ma un accordo, un “settlement agreement”. Un patto i cui dettagli più importanti erano rimasti finora segreti.

Le carte di Football Leaks raccontano che alla fine del 2014 la Uefa ha concesso al club dell’emiro al Thani di iscrivere a bilancio il contratto con la Qatar Tourism Authority per un valore di 100 milioni di euro all’anno. La metà rispetto all’originale, ma comunque infinitamente di più rispetto al valore di mercato attribuito dagli esperti consultati dall’autorità di controllo, che avevano fissato l’asticella a soli 3 milioni di euro all’anno.

Per la verità, la decisione della Uefa ha creato qualche dissidio all’interno dell’organizzazione. Poco prima dell’accordo lo scozzese Brian Quinn si è infatti dimesso dal ruolo di capo degli investigatori. Secondo alcune fonti che hanno seguito da vicino la vicenda, Quinn - che è rimasto comunque fino alla metà del 2015 uno dei membri dell’autorità investigativa - all’epoca disse ai colleghi di non aver voluto firmare quell’accordo perché lo riteneva «troppo indulgente» verso il Psg vista l’entità della violazione. Poco male. Al posto di Quinn è stato nominato l’italiano Umberto Lago. Un commercialista vicentino, professore di Economia all’università di Bologna, che pochi anni dopo aver lasciato la Uefa finirà dall’altra parte della barricata: consulente nel Milan sui temi del fair play finanziario. Ma questa è un’altra storia. Ciò che conta in questa vicenda è che con Lago al vertice degli investigatori, l’accordo con il Psg viene siglato.

Il City la fa franca

Il docente italiano non ha usato il guanto di velluto solo con il Psg. C’era sempre lui a capo dei detective della Uefa quando si è trattato di decidere sul caso del Manchester City. Come la squadra francese, anche i Citizens erano accusati di aver imbellettato il bilancio societario. Un maquillage contabile che, secondo gli ispettori della Uefa, era stato ottenuto grazie ad alcuni sponsor di Abu Dhabi di fatto controllati sempre dalla famiglia reale: Aabar, uno dei fondi sovrani locali, ed Etisalat tra i più grandi gruppi telefonici del Medio Oriente. Pubblicamente la Uefa in quei mesi faceva la voce grossa. «La nostra organizzazione», dichiarò Infantino, «non ha paura di fare ciò che necessario per proteggere il gioco, per mantenere sana la competizione». Il coraggio di Gianni venne subito messo alla prova, visto ben presto gli investigatori della Uefa scoprirono le magagne finanziarie del club dell’emiro. Negli anni precedenti il City aveva infatti inserito nel bilancio diverse sponsorizzazioni a un prezzo tre volte maggiore rispetto a quello di mercato. Contratti firmati senza che ci fosse nemmeno una negoziazione preventiva, a dimostrazione del fatto che quelli non erano sponsor indipendenti ma semplici rami dell’impero finanziario della famiglia reale di Abu Dhabi.

I report interni alla Uefa parlano chiaro. Il contratto con Aabar, registrato per 17 milioni di euro all’anno, ne valeva al massimo 4. Quello con Etilsalat secondo gli esperti aveva un valore di mercato di 4 o 5 milioni, mentre il club incassava 18,5 milioni di euro a stagione. Se il City avesse dichiarato il reale valore di quei ricavi, le perdite sarebbero schizzate a 233 milioni di euro. Insomma bye bye Champions League, che significa arrivederci ai tanti milioni garantiti grazie alla vendita dei diritti televisivi. Ma le strade che portano al fairplay finanziario sono infinite.

E l’8 maggio del 2014, a Londra, la squadra degli sceicchi di Abu Dhabi imbocca quella giusta. Infantino incontra l’amministratore delegato del City, Ferran Soriano, in quello che il manager descrive in una email come «secret meeting». Soriano non ha voluto commentare il contenuto di quella conversazione, mentre il City si è rifiutato di rispondere a domande basate su materiale «che - ci ha scritto - si presume sia stato rubato nel chiaro tentativo di danneggiare la reputazione del Club». Una settimana dopo quell’incontro segreto a Londra, l’accordo confidenziale viene firmato. Il club inglese non ottiene tutto quello che vuole, cioè il completo proscioglimento dalle accuse, ma rispetto alle cifre contenute nel report degli investigatori non può proprio lamentarsi. La Uefa gli concede infatti di registrare, per tre anni, gli stessi contratti incriminati, a un valore di 26 milioni superiore a quello di mercato. E come al Psg impone una multa: 60 milioni di euro, di cui 20 milioni da pagare subito e gli altri 40 da versare in caso di mancato rispetto delle regole durante l’anno successivo.

Com’è finita? A settembre del 2015 la Uefa ha annunciato di aver cancellato la multa al Paris Saint-Germain e al Manchester City. «Entrambi i club», ha scritto l’organizzazione gestita dall’attuale presidente della Fifa, «hanno dimostrato di aver rispettato tutti gli obiettivi del pareggio di bilancio». Avanti tutta con la Champions, allora. Con buona pace di chi, per molto meno, si è dovuto accontentare di guardare lo spettacolo della Coppa dalle grandi orecchie solo in televisione.

Ottavo Pallone d’oro per Lionel Messi su Il Corriere del Giorno il 30 Ottobre 2023

Decisiva la vittoria dell'Argentina alla Coppa del Mondo, in Qatar, con 'la pulce' tra i protagonisti della manifestazione

Leo Messi  In poco più di dieci mesi, ha alzato due tra i trofei più ambiti per un calciatore: quello della Coppa del Mondo, vinta con l’Argentina in Qatar nel dicembre 2022, e oggi il Pallone d’Oro, l’ottavo per una leggenda del calcio che a 36 anni conserva lo status ufficiale di giocatore “migliore del mondo“. Quattro Champions League, dieci titoli della Liga, sette Copa del Rey, tre Mondiali per club, otto Supercoppe spagnole e tre Supercoppe europee.

Il 36enne di Rosario riceve l’ambito riconoscimento, al Theatre du Chatelet di Parigi, dalla leggenda del Manchester United David Beckham e ore presidente della squadra di Messi a Miami. Il campione argentino ha preceduto il norvegese Erling Haaland, centravanti del Manchester City, e il francese Kylian Mbappé, attaccante del Psg e fino a pochi mesi fa compagno di squadra di Messi.

Il suo ritorno nella capitale francese non poteva essere più trionfale. Dopo una discreta ultima stagione al Paris Saint-Germain, in cui ha vinto il titolo della Ligue 1 ma ha dovuto dire addio al sogno Champions League, ricevendo anche qualche fischio dai tifosi al Parco dei Principi, la pulce ha fatto i bagagli per trasferirsi al di là dell’oceano, nel campionato americano.

I ringraziamenti di Lionel Messi

“Ringrazio tutte le persone che mi hanno votato. Lo condivido con i compagni della Nazionale argentina, Lautaro Martinez, Julian Alvarez, e tutti loro. Non voglio dimenticare Erling Haaland e Kylian Mbappé, che hanno avuto un’annata incredibile. Haaland ha vinto tutto e senza dubbio nei prossimi anni porterà a casa questo premio. I giocatori si rinnovano ma il livello non si abbassa mai, ci divertiremo ancora per tanti anni”, ha detto Messi dopo l’incoronazione.

Raramente le sette partite della Coppa del Mondo hanno avuto un peso così grande nell’assegnazione del premio individuale più prestigioso del calcio mondiale, che lunedì ha celebrato la sua 67ª edizione. Stavolta, però, a tutti è sembrato ovvio che il successo di Messi sia arrivato proprio per il suo ruolo nella manifestazione in terra araba.

Una carriera “pazzesca”

Sono passati più di 14 anni dal suo primo Pallone d’oro e più di vent’anni da quando il Barcellona si è accorto di un ragazzo con un dono speciale per il calcio, portandolo in Europa dal Newell’s Old Boys. 

Dopo aver esordito nella squadra azulgrana sotto la guida di Frank Rijkaard, Messi ha acquisito l’aura di stella planetaria con Pep Guardiola in panchina, ben aiutato da campioni come Andrés Iniesta, Xavi Hernández e, più recentemente, da Luis Suárez a Neymar.

Con il Barça ha segnato un’enormità: 672 gol in 778 presenze. I suoi successi con il Barça si sono contrapposti alle ricorrenti delusioni con l’Albiceleste, fino alla vittoria in Qatar. E forse ha ragione Pep Guardiola quando disse: “Il Pallone d’Oro dovrebbe avere due categorie, una per Messi e una per gli altri”. 

Messi: “Grazie Maradona”

“Tutti i Palloni d’oro sono importanti per me, in questa giornata non posso non rivolgere a Maradona un pensiero speciale”. Così Lionel Messi ha commentato la vittoria del Pallone d’Oro 2023 ricordando l’ex Pibe de Oro che oggi avrebbe compiuto 63 anni. “Vorrei ringraziare tutti le persone che mi hanno votato e che mi hanno fatto vincere questo premio. Devo questo trofeo ai miei compagni e alla Nazionale argentina per ciò che abbiamo raggiunto insieme durante il Mondiale. Non voglio dimenticarmi di Haaland e Mbappé, che hanno fatto una stagione incredibile – ha sottolineato Messi riferendosi agli altri due giocatori finiti sul podio -. Sicuramente entrambi nei prossimi anni si porteranno a casa questo premio. Ci sono tanti giovani di classe che in futuro ci porteranno grande qualità e un grande calcio“.

“L’unica cosa che mi mancava in carriera era la Coppa del Mondo, e chi mi segue da tutta la carriera sa che si trattava da sempre del mio sogno. Vorrei ringraziare anche Diego Maradona – prosegue -, non c’è posto migliore per augurargli buon compleanno. Tutti i Palloni d’oro sono speciali, anche se ho sempre detto che i trofei collettivi sono molto più importanti. È sicuramente speciale avere questo riconoscimento, ma è solo una conseguenza del lavoro che viene fatto con la squadra“.

“Non avrei mai immaginato di poter avere una carriera cosi vincendo tutto, – ha detto ancora Messi – “Ho giocato nel miglior club del mondo, ma ho subito anche tante sconfitte dure e momenti difficili. Malgrado questi” – ha concluso – ho sempre continuato a lottare per vincere i trofei che mi mancavano come la Copa America e il Mondiale. In Qatar ho colto il desiderio di tantissime persone, non solo argentine, che io e la Nazionale vincessimo quel trofeo. Dopo questa vittoria mi godo davvero tanto il momento, sono più sciolto e tranquillo e l’unica cosa che posso fare è continuare a divertirmi in campo e fuori“.

La classifica

1. Lionel Messi (ARG, 36 ans, Paris-SG, Inter Miami)

2. Erling Haaland (NOR, 23 anni, Manchester City)

3. Kylian Mbappé (FRA, 24 anni, Paris-SG)

4. Kevin De Bruyne (BEL, 32 anni, Manchester City)

5. Rodri (ESP, 27 anni, Manchester City)

6. Vinicius Jr. (BRA, 23 anni, Real Madrid)

7. Julian Alvarez (ARG, 23 anni, Manchester City)

8. Victor Osimhen (NGA, 24 anni, Napoli)

9. Bernardo Silva (POR, 29 anni, Manchester City)

10. Luka Modric (CRO, 38 anni, Real Madrid)

11. Mohamed Salah (EGY, 31 anni, Liverpool)

12. Robert Lewandowski (POL, 35 anni, Barcellona)

13. Yassine Bounou (MAR, 32 anni, Siviglia/Al-Hilal)

14. Ilkay Gündogan (GER, 33 anni, Manchester City/Barcellona)

15. Emiliano Martinez (ARG, 31 anni, Aston Villa)

16. Karim Benzema (FRA, 35 anni, Real Madrid/Al-Ittihad)

17. Khvicha Kvaratskhelia (GEO, 22 anni, Napoli)

18. Jude Bellingham (ING, 20 anni, Borussia Dortmund/Real Madrid)

19. Harry Kane (ING, 30 anni, Tottenham/Bayern Monaco)

20. Lautaro Martinez (ARG, 26 anni, Inter)

21. Antoine Griezmann (FRA, 32 anni, Atlético Madrid)

22. Min-jae Kim (CDS, 26 anni, Napoli/Bayern Monaco)

23. André Onana (CAM, 27 anni, Inter/Manchester United)

24. Bukayo Saka (ING, 22 anni, Arsenal)

25. Josko Gvardiol (CRO, 21 anni, RB Lipsia/Manchester City)

26. Jamal Musiala (GER, 20 anni, Bayern Monaco)

27. Nicolo Barella (ITA, 26 anni, Inter)

28. Martin Odegaard (NOR, 24 anni, Arsenal)

28. Randal Kolo Muani (FRA, 24 anni, Eintracht Francoforte/Paris-SG)

30. Ruben Dias (POR, 26 anni, Manchester City).

Redazione CdG 1947

Estratti dell’articolo di Giuseppe Antonio Perrelli per repubblica.it domenica 5 novembre 2023.

Il giurato portoghese che non dà vincente Messi, eterno rivale di Cristiano Ronaldo. Le zero preferenze raccolte da cinque calciatori, tra cui Barella. La vittoria del campione argentino con un vantaggio netto ma non abissale su Haaland. France Football ha svelato il dettaglio dei voti del Pallone d’Oro e le chicche sono davvero gustose. 

Per Messi una vittoria netta, ma non plebiscito

Ricordiamo che ognuno dei giurati ha indicato cinque nomi: al primo sono stati assegnati 6 punti, al secondo 4, al terzo 3 e così via. Leo Messi – protagonista assoluto del Mondiale vinto dall’Argentina in Qatar – ha conquistato il premio per l’ottava volta in carriera ottenendo 462 punti: è stato inserito al primo posto da 87 dei 92 giurati dei primi 100 Paesi del ranking Fifa ma non ha neanche avvicinato il totale (549) di Karim Benzema, trionfatore del 2022. Erling Haaland – che ha conquistato il treble con il Manchester City – si è piazzato secondo, con 105 punti in meno.

(...) 

Pallone d’Oro, le scelte eccentriche di Portogallo e Svizzera

Tra i cinque giurati che non hanno indicato Messi al primo posto c’è anche quello portoghese, che gli ha preferito Bernardo Silva, alla fine nono, e Haaland. Eccentrica la scelta svizzera: nella cinquina composta da Haaland, Vinicius, Yassine Bonou (portiere del Marocco), Bernardo Silva e Saka, mancano clamorosamente sia Messi che Mbappé.

Pallone d’Oro, i cinque giocatori senza voto

Soltanto tre giocatori hanno ottenuto più di cento voti, contro i cinque del 2022: Kevin De Buyne ne ha incassati esattamente cento. Cinque dei trenta finalisti non hanno ricevuto neanche una preferenza: con Musiala, Odegaard, Kolo Muani e Ruben Dias c’è anche l’interista Niccolò Barella.

Da calciomercato.com il 12 gennaio 2023.

 Clamorose rivelazioni sulla rottura fra il Barcellona e le due ex-bandiere Leo Messi e Gerard Piqué sono state svelate oggi da El Periodico, che ha pubblicato gli screen delle chat interne della dirigenza del club catalano con l'avvocato Roman Gomez Ponti, Oscar Grau e il presidente Joseph Maria Bartomeu in prima linea nelle trattative, tutt'altro che semplici, per il rinnovo della Pulce e la riduzione dell'ingaggio del difensore.

È soprattutto l'avvocato Ramon Gomez Ponti ad usare la mano pesante con la stella argentina definita in un whatsapp prima "Topo di fogna" e poi "nano ormonato che deve al Barcellona la vita". All'epoca dei fatti Messi stava trattando il rinnovo, mai concretizzatisi con il club catalano, ma soprattutto c'era in ballo la trattativa per la riduzione degli ingaggi in seguito alla Pandemia Covid con Gomez che sottolinea la richiesta di Messi: "Abbiamo sofferto una dittatura di acquisti, cessioni e rinnovi solo per lui e ora mi scrive: "Abbassa gli stipendi di tutti, ma non a me e a Luis (Suarez)".

Gli insulti non si limitano però, come detto, al solo Messi, perché in altre conversazioni arrivano insulti importanti anche per Gerard Piqué, anche lui ex-capitano e oggi svincolatosi dal Barcellona a stagione in corso. Sempre Ramon Gomez Ponti parlando del suo contratto ribaidsce che: "Dobbiamo filtrare (ridurre) i suoi contratti. Continua ad avere pochi scrupoli ed è un grandissimo figlio di p...".

Intanto, secondo il quotidiano catalano Mundo Deportivo, Messi avrebbe ricevuto un'offerta da 300 milioni di euro all'anno per andare a giocare in Arabia Saudita all'Al-Hilal, club rivale dell'Al-Nassr, dove gioca Cristiano Ronaldo.

Francia sconfitta ai rigori. L’ Argentina di Messi è campione del mondo. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Dicembre 2022.

E’ stata la finale Mondiale più bella, almeno fin dove può arrivare la memoria o possono venire in soccorso i filmati del passato. Che sia accaduto al torneo più folle nella collocazione e più opaco nell’attribuzione, conferma che calcio e sport sanno trovare da soli la cura per salvarsi, quando tutto congiura contro.

È stata una finale pazzesca: l’Argentina conquista il suo terzo Mondiale. Primo per Messi e primo dalla Selección dal 1986, quando c’era Maradona. Match a senso unico in avvio: l’Argentina domina e va sul 2-0 proprio con Messi e Di Maria. Clamorosa svolta a dieci dalla fine con la doppietta di Mbappé nello spazio di 97 secondi. Nei supplementari altri colpi di scena: segnano ancora Messi (doppietta) e ancora Mbappé (tripletta). Ai rigori è festa albiceleste: decisivi gli errori francesi e il rigore di Montiel

Una gioia incontenibile per il capitano argentino, autore di una doppietta in finale: “Ho desiderato tanto questa coppa, è la cosa più bella che ci sia. Chiudere la mia carriera con questo trofeo è impressionante”. E sul futuro con l’Argentina aggiunge: “Voglio giocare qualche partita da campione del mondo“. Per il ct Scaloni: “Dovrebbe giocare anche il prossimo Mondiale“

Lionel Messi non trattiene l’emozione ed esprime tutta la sua gioia dopo aver conquistato il suo primo Mondiale con l’Argentina, il terzo nella storia dell’Albiceleste. “Guarda cos’è, è bellissima – dice il n° 10, con la Coppa del Mondo in mano, ai microfoni di tutte le principali tv del mondo -. La desideravo tanto. Dio me l’ha voluta regalare, avevo la sensazione che fosse questo il momento giusto, abbiamo sofferto molto ma ce l’abbiamo fatta. Ora non vedo l’ora di essere in Argentina per vedere quanto sarà folle (la festa n.d.r.)”.

Autore di due gol nella finale contro la Francia e 7 complessivi in quest’edizione, il capitano dell’ argentina spiega, poi, l’importanza di questo trionfo: “Volevo chiudere la mia carriera con questo trofeo, non potevo chiedere di meglio. Grazie a Dio mi ha dato tutto. Chiudere quasi la mia carriera così, è impressionante…“, e sul suo futuro con l’Argentina aggiunge: “Sono riuscito a vincere la Copa América, la Coppa del Mondo. Amo il calcio, quello che faccio. Mi piace stare in Nazionale, il gruppo, voglio continuare a vivere qualche altra partita da campione del mondo”.

Scaloni: “Leo dovrebbe giocare anche il prossimo Mondiale”

Sul futuro di Messi si esprime anche il Ct Scaloni che vede lontano il ritiro dell’argentino. “A Leo dovrebbe essere riservato un posto anche per il prossimo Mondiale – dice l’allenatore in conferenza stampa -. Finché vorrà continuare a giocare, il numero 10 sarà sempre suo. Si è guadagnato il diritto di decidere cosa fare della sua carriera“.

È stata una partita di grande sofferenza, lo sapevamo: non siamo riusciti a controllare la partita come dovevamo. Ma per diventare campione del mondo devi soffrire. Ho sempre sognato era vincere un Mondiale e ora non ho parole per descrivere la mia felicità”: in lacrime, Emiliano Martinez celebra la serata che ha incoronato l’Argentina campione del mondo e lui eroe della serata e miglior portiere della manifestazione , con la parata sul rigore finale di Coman. “Quando siamo andati ai rigori – ha detto il portiere dell’Aston Villa – ho detto ai miei compagni di rimanere sereni, perché un paio li avrei presi… Dedico questo trionfo alla mia famiglia e ai miei amici”.

Anche Dybala, l’attaccante della Roma, è in paradiso dalla gioia. È entrato a fine supplementari per calciare il secondo rigore, di importanza altissima dopo l’errore del francese Coman. “Quello che è successo oggi passerà alla storia – dice Paulo -. Quello che i tifosi ci hanno dato in questo mese è stato incredibile. Vogliamo sollevare la coppa e andare a festeggiare laggiù, a Buenos Aires“.

Nemmeno nei miei sogni più belli pensavo a questo. La gente è felice, noi siamo felici. Non ci sono parole per descrivere tutto ciò”, è un Leandro Paredes raggiante dopo la vittoria del Mondiale. “Questo è un progetto che va avanti da più di quattro anni, abbiamo lavorato sodo per raggiungere questo obiettivo”, ha concluso il centrocampista della Juventus.

La sua gioia Lautaro Martinez l’ha voluta condividere su Instagram con una diretta che ha fatto vedere la festa argentina nello spogliatoio. “Una sensazione unica, c’è tantissima emozione. Si tratta di un sogno che avevo sin da bambino, non sono ancora in grado di spiegare quanta gioia c’è. Penso alla mia famiglia, al popolo argentino che ci aspetterà per festeggiare insieme. Il Qatar dista tanto dall’Argentina, ma qui sembrava di essere a casa, c’erano tanti tifosi e siamo riusciti a sfruttare anche quello. Siamo super contenti di alzare questa coppa”.

L’Argentina torna sul tetto del mondo 36 anni dopo l’ultima volta, quando nel 1986, in Messico, alzò al cielo il secondo titolo mondiale grazie a Diego Armando Maradona. Stavolta c’è Messi nella storia, finalmente eroe dell’Albiceleste dopo una carriera Nazionale in salita, in cui sembrava mancare d’incisività, tanto da essere costretto ad annunciare l’addio alla Seleccion nel 2016, per poi tornare sui suoi passi e andare a conquistare, con pazienza, la sua prima Copa America nel 2021. Una successo che ha aperto le porte ad un nuovo destino: quello dei vincenti, sigillato con ogni record in questo Mondiale. Il destino dei più grandi, comune solo a chi può prendere il proprio Paese per mano e portarlo alla vittoria. Da oggi c’è anche questo nella carriera di Leo Messi. 

Il presidente argentino Alberto Fernández che, anche per ragioni di cabala ha scelto di seguire la finale del Mondiale a casa con la famiglia, si è rallegrato oggi con i calciatori, il tecnico e con tutto il popolo argentino. Via Twitter Fernández, che ha pubblicato una foto davanti alla tv con la moglie e il figlio Francisco, ha prima scritto: “Grazie ai calciatori e all’équipe tecnica. Sono l’esempio che non dobbiamo mai scoraggiarci. E del fatto che abbiamo un grande popolo e un grande futuro!“. In un sintetico secondo tweet ha aggiunto: “Siempre unsieme, sempre uniti. Siamo campioni del mondo. Non ci sono altre parole. Grazie“.

E’ stata la finale Mondiale più bella, almeno fin dove può arrivare la memoria o possono venire in soccorso i filmati del passato. Che sia accaduto al torneo più folle nella collocazione e più opaco nell’attribuzione, conferma che calcio e sport sanno trovare da soli la cura per salvarsi, quando tutto congiura contro. Ne abbiamo viste tante, una finale a Natale ci mancava, francamente però non sentiamo il bisogno di un bis. La prossima edizione tornerà d’estate, in compenso si giocherà in tre Paesi (Canada, Stati Uniti, Messico) e avrà 48 squadre anziché 32. Tanto per rimanere in esercizio con le stranezze.

Leo finalmente campione (senza l'ombra di Maradona). Ha vinto sette palloni d'oro, sei Scarpa d'oro, ha il record di gol realizzati in un anno solare, è il maggior goleador di una nazionale sudamericana, ha conquistato 11 campionati e 4 Champions. Gli mancava una cosa sola, se l'è presa. Tony Damascelli il 19 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Prima o poi. La sognava, la voleva, infine l'ha presa. A trentacinque anni Lionel Andrés Cuccittini ritorna bambino, i suoi compagni piangono, lui sorride e agita le braccia a salutare il popolo che aveva goduto e poi tremato, l'onda albiceleste si muove ubriaca di gioia, Celia Maria, la madre di Lionel, lo stringe al petto, lo bacia, lo accarezza.

Il Qatar nulla sapeva e nulla sa davvero del football, ieri sera ha scoperto il fascino esclusivo, impossibile di questo sport, esaltato dai campioni, acceso dalla giovinezza feroce di un ventiquattrenne di Francia, illuminato dalla classe di un ragazzo uomo già carico di ogni medaglia ma adesso più ricco di qualunque emiro o sultano. Proprio costoro, i padroni del mondiale e del mondo, se la spassano avendo alle proprie dipendenze entrambi gli eroi di una finale leggendaria, come ItaliaGermaniaQuattroatre di cui si conserva lapide all'Azteca di Città del Messico.

Parigi val bene un Messi, oltre che un Mbappé. Leo è il felino, non aveva bisogno di questo titolo per essere considerato il re della foresta pallonara, Leo è IL, non un fuoriclasse, i paragoni con l'altro fenomeno argentino dei favolosi anni, hanno stancato in una nenia fastidiosa, sono ormai coriandoli bagnati, Messi era, Messi è, Messi ha vinto sette palloni d'oro, sei Scarpa d'oro, ha il record di gol realizzati in un anno solare, è il maggior goleador di una nazionale sudamericana, con il Barcellona ha conquistato dieci campionati, sette coppe del re, otto supercoppe, trasferitosi in Francia ha proseguito con il Paris St. Germain vincendo un campionato e una supercoppa, in Europa quattro champions, tre supercoppe Uefa, tre coppe del mondo per club e con la nazionale un oro alle olimpiadi, il mondiale under 20, una coppa America, un coppa Conmebol-Uefa.

Di che altro si dovrebbe scrivere per allestire dibattiti? L'argenteria di Lionel Messi ribadisce che il titolo conquistato ieri è soltanto il completamento di una storia, di un campione, di un ragazzo che si è liberato di un'ombra verso la quale si deve rispetto ma che appartiene definitivamente al passato, ad un'epoca differente, a un uomo diverso.

Finalmente. Sfatata una Maledizione diventata tradizione. Trentasei anni dopo Maradona fa festa un Paese nel nome di Messi e Martinez. Riccardo Signori il 19 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Non poteva bastare un Angel (Di Maria) per trascinare fuori dalla maledizione l'Argentina e Lionel Messi. C'è voluto un San Martinez, portiere volante di mani e di piedi, per regalare al capitano l'apoteosi nello stadio Iconic. Il Qatar aveva previsto tutto tra iconici e Iconic, una finale così nemmeno l'avessero pagata. No, di tutto si può dubitare ma non di una finale sgorgata nella sincerità del calcio, con un arbitro divagante nelle valutazioni, due ragazzi faccia da campioni a giocarsela mostrando il meglio del repertorio, e mezzo mondo e forse più contro la Francia, non proprio miss simpatia, del Macron dapprima imbellettato in giacca, poi scamiciato tra sorrisi, sudori, fin alla delusione finale provocata da rigoristi dai piedi morbidi.

La maledizione, fors'anche tradizione, ha vegliato su questa partita dove Mbappè inseguiva il Pelè del doppio mondiale e Messi la prima volta proprio nell'ultima volta. Sofferenza e riverenza per un calcio che ha mantenuto le promesse: Lionel soffri ma poi vinci, Kylian e Francia avete già avuto. Storia da giocarsi e ricordarsi nel segno della M che diventerà come la Z di Zorro: vince Messi che ha raggiunto Maradona in un Mondiale mettendo a terra, come un pugile all'ultimo pugno, il campione Mbappè, sospinto dal Di Maria El Fideo in cui aver fede ma soprattutto dal Martinez portiere che di nome fa Emiliano e non Lautaro (Martinez, sempre questa M) destinato ai gol che contano e che stavolta si è mangiato occasioni che contavano, ma ha spinto Messi all'ultima rete finché il Montiel Gonzalo Ariel, difensore del Siviglia, non ha segnato il rigore della liberazione. Mettiamoci pure il Macron sgonfiato come un soufflé e il Marciniak, arbitro dai rigori pro e contro.

Maledizione e liberazione sono stati tutt'uno nello scorrere del protagonismo di questa partita e di tutto il mondiale: l'Argentina che si strappa la rabbia accumulata dal 1986 ad oggi quando Maradona la lasciò campione e più nessuno era stato capace di accompagnarla su quel podio dove ieri è salito come fosse un Maradona sui generis Emiliano Martinez, detto Dibu, portiere da mani e piedi che ipnotizzano: soprattutto i rigoristi. Fair play a parte, un grande portiere che si prende la rivincita sul Paese che ha sempre e soltanto pensato ai piedi d'oro.

Sembrava un finale già scritto, ma la Francia ha provato fino in fondo a rovinare il copione: Messi che lascia il mondiale e finalmente vince il titolo, Messi che segna e diventa il miglior giocatore del mondiale. Mbappè ci ha provato a suon di gol, e con lui la Francia a caccia del raddoppio, a distanza quadriennale, permesso solo a Italia e Brasile. Peccato che Kolo Muani (a proposito di M) abbia tagliato gambe e speranza mandando al Diavolo, sarà stata una lontana influenza dell'Angel avversario?, palloni che sembravano già in rete.

Così sfumano in lontananza vincitori e vinti, Maledizioni e tradizioni. Ed anche i morti che hanno impestato la storia di questo mondiale. Mettiamoci pure l'ultimo vincitore di una tradizione da strappare: il cantante canadese Drake che si era giocato un milione sul successo sudamericano. Era tristemente noto per portare sfortuna ai favoriti delle sue scommesse. Messi e l'Argentina hanno battuto anche questa maledizione.

Il piede de Dios e una partita vinta tre volte. La "M" di Mondiale fa rima con Messi che corona la carriera vincendo una finale da leggenda contro il super Mbappé. Davide Pisoni il 19 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La «M» di Mondiale fa rima con Messi che corona la carriera vincendo una finale da leggenda contro il super Mbappé. L'Argentina l'ha dovuta conquistare tre volte la sua terza coppa del Mondo: sul due a zero, poi sul tre a due e infine ai rigori. È la realizzazione mondiale di Leo, da ieri in un paradiso terreno senza fine fuori dall'ombra di Diego: il piede de dios. Il predestinato Kiki è da ieri in un purgatorio da cui uscirà alla sua maniera, a una velocità illegale, ma senza raggiungere Pelé.

I due 10 nel deserto si sono sfidati a suon di gol e di record battuti. Immaginarli tra dieci giorni insieme al Psg è uno sforzo di fantasia disumano. Loro sì, di un altro pianeta: hanno confermato di esserlo nel rettangolo verde, ricavato tra la sabbia a suon di miliardi. A loro diciamo grazie perché hanno rimesso il pallone al centro tra fasce arcobaleno, mani sulla bocca e scene mute agli inni.

Gianni Infantino l'unico che ha parlato troppo, che ha messo da parte i diritti umani e i lavoratori morti. Uno show unico chiude il Mondiale che è stato precursore di quel Qatargate, che sta sconvolgendo l'Europa politica con le valigie piene di soldi, ma che sarebbe bastato poco per evitare se si fosse capito cos'era successo nella Fifa dodici anni fa per assegnare i mondiali 2022. Il Qatar minaccia ritorsioni all'Ue, destinata a fare la fine del pallone: in mano agli sceicchi, che ieri hanno scoperto la bellezza del calcio.

L'Argentina ha accarezzato la coppa per un'ora con Di Maria. Mbappé ha riacceso la Francia e ha reso l'ultimo atto epico, con la liturgia dei supplementari. Leo con tanto di tecnologia, Kiki con un tris, capocannoniere del torneo, hanno trascinato il mondo in un'altra dimensione, ai rigori. In una narrazione da antologia i due giganti hanno segnato i primi tiri.

Poi hanno affidato l'immortalità sportiva ai compagni. Infallibili quelli della Pulce. E così Messi batte per sempre CR7, che secondo Evra potrebbe ritirarsi, soprattutto pareggia il conto mondiale con Maradona e lo supera per titoli. L'abbraccio della mamma, non la vestizione da sceicco, prima di alzare la coppa di mvp e quella del Mondo, è la foto di una storia irripetibile.

Messi e la tunica che macchia la storia. Giovanni Capuano su Panorama il 18 Dicembre 2022.

L'argentino ha alzato la coppa con addosso il Bisht tradizionale fattogli indossare dall'emiro del Qatar. Tradendo regolamento, sponsor e unicità del momento

La tunica con cui Lionel Messi ha alzato al cielo la coppa del Mondo appena conquistata dall'argentina è una macchia incancellabile sul mondiale del Qatar. Anche se si tratta di un abito tradizionale indossato dalle grandi personalità in grandi momenti, quasi riconoscendo all'argentino il rango di regnante sull'impero del calcio. Il Bisht fatto mettere dall'emiro in persona, con il presidente della Fifa Infantino compiacente, è una macchia che non si potrà cancellare perché mutila di simboli un momento unico nella storia di un uomo e di un popolo, quello argentino. E' contro il regolamento, che non prevede deroghe all'abbigliamento (anche nelle premiazioni) come la Fifa ha rigidamente imposto in Qatar. Beffa lo sponsor tecnico oscurato nel momento di massima esposizione e valorizzazione del proprio enorme investimento. Celebra il paese ospitante, la sua cultura e tradizione, violando uno spazio e un tempo unici per Lionel Messi e l'Argentina. Una violenza più che un atto di cordialità. Uno sfregio che la Fifa avrebbe avuto l'obbligo di impedire fermando l'emiro. I soldi da ora possono davvero tutto, anche comprarsi il momento iconico della vittoria di un Mondiale.

Dagonews il 21 dicembre 2022.

L'aver indossato il "Bisht", il mantello tradizionale che Al Thani ha appoggiato sulle spalle di Leo Messi durante la cerimonia di premiazione del Mondiale, in Occidente è stato giudicato un grottesco e inopportuno atto di sottomissione allo strapotere economico del Qatar. 

In realtà, quel gesto è stato un messaggio che l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani ha mandato al mondo arabo, in primis ai suoi storici nemici degli Emirati Arabi. Una dimostrazione di potere che suona come un guanto di sfida lanciato verso i ricconi di Dubai che già hanno molto sofferto per l’assegnazione dei mondiali al Qatar. 

A corredo della ostentazione di supremazia da parte degli emiri di Doha non c’era solo il campionissimo Messi, che si è prestato al gioco in quanto è a libro paga dei qatarini del Psg, ma anche il suo “valletto” Macron. Il toy boy dell’Eliseo, come il suo predecessore Sarkozy, ha un rapporto di affinità elettiva verso il Qatar…

Da open.online il 21 dicembre 2022.

Nella premiazione della finale di ieri, 18 dicembre, Lionel Messi si è trovato a dover mettere sopra la maglietta dell’Argentina un abito nero passato dall’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani. Il campione ha così alzato la coppa con addosso una giacca della tradizione qatariota. Ed è iniziata la polemica sui social. Il dibattito si è diviso tra chi sostiene che si tratti di un atto di rispetto nei confronti del calciatore e chi ci vede un gesto di arroganza e potere. L’abito indossato da Messi durante la premiazione dei Mondiali è un Bisht, un mantello tradizionale del golfo Persico – tipicamente maschile – che simboleggia prestigio, regalità e ricchezza. Solitamente, infatti, lo indossano gli uomini di spicco in Qatar. 

Cos’è un Bisht e perché ha suscitato clamore

Un simbolo culturale diventato presto un protagonista dei Mondiali, ma tra non poche polemiche. A partire dall’ex calciatore difensore dell’Argentina Pablo Zabaleta che ha commentato la vicenda dicendo: «Mi chiedo solo, perché? Perché? Non c’era motivo per farlo». Così come l’allenatore inglese Alan Shearer: «Nemmeno io pensavo che Infantino glielo avrebbe lasciato fare». E anche sui social il pubblico si è diviso. «Senza vergogna, il Qatar si è spinto a tanto in un momento così», scrive un utente. Ma c’é anche chi lo vede come un gesto di rispetto. «Il Bisht è lo indossavano i guerrieri dopo una vittoria. il re del Qatar ha voluto onorare Messi», scrive un altro. Nel dibattito si è inserito anche Tlon che definisce discutibile il gesto. Per più ragioni. 

Una vestizione simbolica per manifestare potere

In primis, l’emiro Al Thani «ha costretto il calciatore più forte del mondo a sottomettersi a una vestizione simbolica a quanto sembra non concordata, al solo scopo di manifestare il proprio potere effettivo sul calcio (basti guardare fino a dove continuava a spingersi dopo aver dato la coppa al capitano) e sull’economia mondiale». A far infuriare gli utenti è che coprendo la maglia dell’Argentina si è voluto inviare un messaggio economico-politico. Ma non solo. Nonostante ci siano stati paragoni tra Maradona e Messi sul campo, questo gesto sembra aver tracciato una distinzione tra i due: «Il primo – spiega Tlon – è contro la Fifa e contro il potere e ci si è spesso messo contro, pagando carissima la propria direzione ostinata e contraria. Il secondo, invece, quel potere lo ha spesso assecondato».

Dal “Corriere della Sera” il 21 dicembre 2022.

Caro Aldo, sono rimasto esterrefatto nel vedere, al termine della finale del Campionato mondiale di calcio, il portiere della nazionale argentina Martinez premiato quale migliore portiere del Mondiale e vincitore con la sua nazionale, esibire il trofeo con un gestaccio, davanti a milioni di telespettatori di tutto il mondo.

Arnardo Zambon 

C'è un limite all'esultanza? Io penso proprio di no! Il gesto triviale e volgare del portiere argentino lo dimostra. Le esultanze sguaiate e scomposte non mi piacciono e le censuro. Che ne pensa?

Duilio Sfalcin 

Risposta di Aldo Cazzullo

Cari lettori, l'esultanza eccessiva e a volte volgare è stata uno dei tratti di questo Mondiale. Il Dibu Martinez ha sostenuto di aver rivolto quel gesto ai suoi critici; ma l'aveva già fatto in passato. 

Rodrigo De Paul ha invitato chi aveva scritto male di lui a praticargli un rapporto orale; ma se perdi con l'Arabia Saudita, è difficile che i giornali scrivano bene di te. Gli inviati argentini, più qualche straniero, hanno atteso per tre ore i campioni del mondo fuori dagli spogliatoi. Quando sono arrivati, in testa Messi con la Coppa, non hanno parlato, ma cantato un coro degli Hinchas, gli ultras, che dice «puto periodista y la puta que lo parió», insomma giornalisti figli di buona donna.

I colleghi non si sono offesi; in Argentina è un'espressione più scherzosa che ingiuriosa; e poi si sentivano campioni del mondo anche loro. Però Messi - che, spero vi sia chiaro, è un finto buono - deve tenere conto che in zona mista non ci sono Borges e Soriano, e neppure i direttori del Clarín e della Nación ; ci sono veterani dei Mondiali e giovani free-lance, molti con la sua maglietta numero 10, che avevano attraversato l'oceano per raccontare le sue gesta. Qualche parola non banale poteva pure dirla.

Di solito si confidava con il suo biografo, Guillem Balagué; infatti tutti ci appostavamo accanto a lui, sapendo che si sarebbe fermato. Mbappé non faceva neppure quello. Professione Reporter, la newsletter molto informata di Andrea Garibaldi, ha ripubblicato un articolo scritto da Mario Sconcerti due anni fa sulla Lettura . Il grande giornalista, scomparso alla vigilia della finale che sarebbe stata la più bella anche della sua vita (Italia-Germania 4-3 e Italia-Brasile 3-2 non furono finali), raccontava della consuetudine che c'era e non c'è più tra giornalisti e calciatore; in particolare di un viaggio con Burgnich su una macchina cui bisognava aggiungere l'acqua nel radiatore a ogni autogrill, e Burgnich che aveva marcato Pelé si prestava volentieri, Sconcerti lo ricorda con l'annaffiatoio in mano (ora non c'è più nessuno dei due). Erano ragazzi normali, che guadagnavano bene ed erano grati che ci fossero persone interessate a loro. Ve lo immaginate Burgnich che fa in mondovisione un gesto come quello del portiere dell'Argentina?

Lionel Messi, la «partita Iva» del papà gestita da un commercialista romano. Mario Gerevini su Il Corriere della Sera il 22 dicembre 2022.

Codice fiscale MSSJGH58D … Partita Iva 113145… È un cliente del commercialista romano Stefano De Angelis, 60 anni. Non un cliente qualsiasi. MSS sta per Messi; JGH per Jorge Horacio. Cioè il padre (64 anni) del capitano dell’Argentina Leo Messi (35 anni), che si è appena laureato campione del mondo nel torneo del Qatar ed è uno degli sportivi più pagati in assoluto: 120 milioni annui tra sponsor e ingaggio al Paris Saint-Germain.

A gestire le finanze di Lionel è il papà. Dunque se il figlio è il sogno di qualsiasi squadra di calcio, il padre lo è di qualsiasi studio di commercialisti. Ma cosa ci fa da De Angelis, Jorge Horacio Messi che, tra l’altro, dai documenti risulta cittadino italiano? E chi è questo commercialista?

La pratica di settembre

Alla Camera di Commercio di Roma a settembre 2022 è stata registrata con il numero di protocollo 493520/2022 la pratica con cui De Angelis, su carta intestata professionale, dichiara «di essere stato incaricato dal titolare dell’impresa individuale alla presentazione e sottoscrizione» della domanda di iscrizione al registro imprese. L’impresa individuale è, appunto, la Jorge Horacio Messi che indica come attività primaria quella di «pubbliche relazioni e comunicazione» e secondaria quella di «agente sportivo». Ad oggi, tuttavia, Jorge non risulta iscritto né al registro Fifa degli agenti sportivi né a quello della Figc.

La sede milanese a Torre Solaria

Roma sembra essere una nuova tappa: due anni fa era emerso che Messi senior, regista e stratega dei contratti economico-sportivi della «Pulce», aveva preso casa a Milano, nell’esclusiva Torre Solaria a Porta Nuova, dove oggi ha sede la ditta e dove gli immobili vengono venduti intorno ai 14-15 mila euro al metro quadrato, ovvero quanto guadagna il fuoriclasse di Rosario in un’ora. La notizia aveva fatto sognare i tifosi dell’Inter perché all’epoca era girata la falsa voce che la famiglia Zhang (già però in riserva finanziaria), potesse trattare l’acquisto del campione del Barcellona. Contestualmente Jorge aveva ufficialmente aperto la partita iva, registrandosi all’Inps e all’Agenzia delle Entrate.

L’esperto tributario

Ma per le pratiche, anche più recenti a Roma, tutto è passato dall’ufficio di De Angelis. E alla base ci potrebbero essere motivazioni fiscali come, per esempio, il regime forfettario a 100 mila euro per i redditi prodotti all’estero introdotto dalla Legge di Bilancio del 2017. Non è noto il perimetro di attività affidato a De Angelis (né il commercialista si è reso disponibile al telefono) ma probabilmente è stato ingaggiato da Jorge Messi in quanto «esperto di diritto tributario - si legge sul sito dello studio Coccia De Angelis - con particolare specializzazione in materia di sport e spettacolo». Entrambi, professionista e studio, con una solida reputazione anche nel mondo dello sport. Del resto la famiglia Messi non può rischiare di scivolare di nuovo sulle tasse dopo ciò che è successo in passato.

La condanna per frode fiscale

Il tribunale supremo spagnolo nel 2017 aveva confermato in appello la condanna a 21 mesi di carcere (poi convertita in multa) di Leo Messi per frode fiscale, per avere dirottato verso paradisi fiscali, tra il 2007 e il 2009, 10,1 milioni di euro di diritti d’immagine. Inoltre la corte aveva ridotto da 21 a 15 mesi la condanna del padre, accusato in quanto amministratore dei beni del figlio. Nel 2013, prima dell’inizio della procedura, Messi aveva pagato al fisco spagnolo 5 milioni di euro a saldo dei diritti di immagine dei 3 anni in questione e degli interessi.

Messi per sempre. Giovanni Capuano su Panorama il 18 Dicembre 2022.

Leo trascina l'Argentina al titolo mondiale 36 anni dopo Maradona e raggiunge il Pibe de Oro nell'olimpo degli immortali. Ora può dire davvero di essere il numero uno

Si è preso tutto in una notte, Lionel Messi: Coppa del Mondo, gloria eterna, riconoscenza di un intero popolo e anche passato e futuro di una carriera straordinaria che rischiava di restare per sempre quella del secondo dopo Diego, incapace di salire l'ultimo gradino dell'Olimpo degli dei del calcio. Ha fatto tutto in tre lunghissime, strazianti, bellissime, agoniche ore di calcio, Lionel Messi. La sua Argentina è tornata sul tetto del Mondo 13.321 giorni dopo la coppa alzata da Maradona al cielo di Città del Messico e lo ha fatto in coda a una finale che ricorderemo per sempre, uno dei più bei spettacoli che il fùbtol abbia mai regalato in un secolo di storia. C'è stato dentro tutto nella sfida con la Francia di un enorme Mbappé (tripletta inutile, ma il prossimo decennio sarà tutto suo): l'euforia del dominio, il terrore della rimonta, l'ardore della resilienza e il coraggio dei singoli. Non solo di Messi, che ha spinto i suoi compagni oltre l'ostacolo firmando il primo vantaggio da rigore e quello illusorio del 3-2 col piede sbagliato - quando i francesi parevano in soprannumero. E' stata la notte di Emiliano Martinez e della sua parata senza logica a un secondo dalla fine dei supplementari, quella di Di Maria che ha gettato stampelle e vecchiaia per dipingere calcio fino a quando Scaloni non lo ha tolto (sbagliando) nel momento del dominio. E' stata la notte di Montiél che sarà ricordato in esterno dagli argentini, il loro Fabio Grosso che ci regalò nel 2006 la vittoria contro una Francia incapace di conquistare la coppa se si arriva alla sfida dal dischetto. Tutti ispirati da Lionel Messi che ha vissuto il mese in Qatar reincarnando lo spirito di Maradona del 1986, ha elevato tutti al suo rango e si è anche messo al servizio dei compagni.

Mai trionfo è stato più meritato. Messi ha raggiunto Maradona laddove si trova, in un luogo magico in cui ci sono solo quelli che hanno fatto la storia del calcio. Forse lo ha anche superato, adesso che la Coppa del Mondo arricchisce la sua personale bacheca, proprio perché per arrivare all'obiettivo ha dovuto ripercorrere le tracce di Diego 36 anni dopo. Suo il gol al Messico che ha rianimato una nazionale stordita dal ko iniziale. Sue le magie con l'Australia e poi la faccia dura messa su nella corrida con l'Olanda e suo l'imprinting sulla semifinale dominata con la Croazia. Sarà stato meno appariscente di Maradona impegnato nel duello con il resto del Mondo all'Atzeca, ma il senso è lo stesso: si è caricato sulle spalle il peso di tutti e lo ha portato al traguardo. I paragoni con Maradona hanno poco senso, dal punto di vista tecnico e da quello umano. Inutile contare i trofei e i gol segnati, tutti a vantaggio della Pulce in un calcio lontano anni luce da quello del Pibe. Non si può usare il metro dell'aritmetica ma bisogna affidarsi al cuore. Lionel Messi ha emozionato così come faceva Diego Armando Maradona. Ha toccato il cuore di tutti, anche dei non argentini. Ha scritto il finale più letterario di una storia unica e consegnato all'Argentina un trionfo che sa di riscatto anche sociale. Il legame era indissolubile, non per volontà altrui ma perché gli argentini per primi a lui chiedevano di essere questo: la reincarnazione di Diego. E' possibile che la carriera gli riservi altre soddisfazioni e successi. Magari un altro Pallone d'Oro da aggiungere alla collezione, oppure la Champions League che gli sfugge beffarda dalla notte di Berlino 2015, quella delle lacrime juventine. Qualunque cosa accada da qui in poi, però, nulla potrà replicare l'apice toccato a Doha. Non c'era niente di normale nella sfida che Messi ha dovuto affrontare dentro questo Mondiale e nulla di normale c'è stato. Per comprenderlo fino in fondo bisognerebbe scomodare categorie superiori. Se Maradona è stato il D1OS del calcio, Messi ha avuto tutti gli déi dalla sua parte. Non per privilegio, ma per senso di appartenenza. Immortale, come lo spettacolo di questa finale che non si potrà dimenticare.

Goat debate. Leo Messi non aveva bisogno dei Mondiali per essere il più forte di tutti. Alessandro Cappelli su L’Inkiesta il 18 Dicembre 2022.

La vittoria con l’Argentina ai Mondiali in Qatar è il coronamento di una carriera lunghissima, vincente, inimitabile

Al rigore di Montiel ha esultato tutta l’Argentina, tutti i tifosi, i giocatori in campo, la panchina intera, mentre il ct Lionel Scaloni attraversava lo stadio per salutare la famiglia in tribuna. Nell’esultanza, mentre i giocatori della Francia guardavano nel vuoto cercando di consolarsi, quelli dell’Argentina erano in lacrime, si cercavano e si abbracciavano, piangevano tutti. Tutti tranne uno. Lionel Messi non piangeva. Sembrava più travolto da una felicità primordiale che somiglia a una liberazione: è la vittoria più cercata, più voluta, più attesa. L’unica che ancora mancava. La perfetta chiusura del cerchio.

La finale era stata presentata come la partita che avrebbe consegnato all’eternità Leo Messi in caso di successo, il capitolo finale dell’interminabile dibattito su chi sia il Goat – Greatest Of All Time –, il più grande di tutti i tempi. La sua risposta in campo sta in una prestazione in cui è sembrato levitare alcuni centimetri sul prato del Lusail Stadium per almeno un’ora, sta in quei tocchi di prima con cui organizzava i compagni e prendeva in controtempo il pressing francese, sta nei due rigori – uno in partita e uno nella lotteria finale – battuti con la fiducia di chi non può sbagliare.

Eppure non ce ne sarebbe stato bisogno, Messi non aveva bisogno di questa vittoria per essere il migliore. Se la partita fosse finita diversamente, se avesse vinto la Francia, se l’Argentina avesse perso ancora una volta in finale, Messi sarebbe ugualmente il campione immortale che è stato negli ultimi quindici anni.

Una competizione di sette partite, disputata ogni quattro anni, episodica come solo i tornei a eliminazione diretta sanno essere, non può bastare a mettere in una prospettiva diversa l’intero arco narrativo di un talento generazionale. Sarebbe un cortocircuito logico inaccettabile.

È un equivoco costruito negli anni attorno a un calciatore premiato a ripetizione dal campo e dalla critica, ma costretto a vivere un eterno confronto con altri campioni: il confronto contemporaneo, sanguigno, stellare con Cristiano Ronaldo, a chi fa più gol, vince più Palloni d’Oro, più Champions League, e il confronto ancora più pesante con un fantasma del passato, con l’astrazione di Diego Armando Maradona e del suo ricordo, soprattutto del suo titolo mondiale del 1986.

Per anni l’Argentina ha rinfacciato alla Pulce di essere andato via di casa troppo presto, troppo piccolo, troppo poco argentino forse. Così le sconfitte dell’Albiceleste diventavano le sconfitte di Messi come per metonimia, una scusa per giustificare le delusioni di una nazione mentre Messi con il Barcellona faceva razzie di titoli.

L’estate scorsa Leo è riuscito a battere un colpo vincendo la Copa América al Maracanã. Adesso, in Qatar, ha definitivamente rotto la maledizione, ha cancellato ogni velleità di critica, non può esserci più niente sopra di lui.

C’è stato un momento, subito dopo il gol del 3-2 che sembrava aver deciso la partita, in cui Messi ha aizzato i tifosi argentini lanciando le braccia al cielo, vestendosi da capo popolo, líder máximo, caudillo. In quel momento Messi è andato oltre se stesso. Non aveva mai chiesto di diventare il salvatore della patria né una guida suprema. Anzi, il suo talento è sempre sembrato fare a pugni con un carattere tranquillo, timido, introverso. Negli anni il confronto con Maradona è stato viziato da un’epica che Diego sobillava anche con la politica – la vittoria uno contro tutti con l’Inghilterra ai Mondiali del 1986 avrebbe avuto lo stesso impatto senza lo scontro per le Falkland/Malvinas sullo sfondo? – mentre Messi la appiattiva sul campo mentre sfondava le difese avversarie, dall’Elche al Real Madrid, in Spagna come in Europa, con la monotonia e la semplicità di chi vince per manifesta superiorità.

Il calcio non avrebbe gli strumenti per individuare il più forte di tutti senza ricorrere almeno a un pizzico di soggettività contestabile, non ci sono parametri universali per giudicare giocatori contemporanei, come lo sono Leo Messi e Cristiano Ronaldo, figuriamoci se si può stabilire il più forte tra giocatori di epoche diverse, le cui carriere sono determinate da metodi di allenamento, stili di gioco, contesti tattici e tecnici non paragonabili. Il calcio di oggi sembra già molto diverso da quello degli anni Duemila; quello degli anni Ottanta di Maradona sembra Medioevo, l’epoca di Pelé che vince i Mondiali da teenager e poi non ancora trentenne è preistoria.

Per anni Messi è riuscito a imporre il contesto di gioco in ogni partita, a essere un sistema a sé stante attorno a cui far ruotare tutto il resto, indipendentemente da chi ci fosse nei paraggi, avversari e compagni. Al Barça ha condiviso l’attacco con Ronaldinho, Eto’o, Henry, Suarez, Neymar, Ibrahimovic, Griezmann, Dembélé: è sempre stato il centro del mondo delle sue squadre da quando è stato in grado di reggerne il peso. E lo è ancora oggi. In questo mese in Qatar, Messi ha dominato in modo diverso rispetto a inizio carriera, o come avrebbe fatto anche solo cinque o sei anni fa: stavolta ha dovuto fare ricorso più spesso all’arte dell’inganno e della pausa per compensare quel che il fisico non può più concedergli in termini di esplosività e resistenza.

In questo Mondiale è racchiuso il senso della sua straordinaria longevità, che gli permette a 35 anni di essere ancora il giocatore più decisivo del mondo nonostante l’usura e gli evidenti segni del tempo sul suo gioco. Bisognerà aspettare forse il suo ritiro per mettere nella giusta prospettiva tutti i record, i primati e le vittorie della sua carriera.

Ci si dimentica troppo facilmente che nel 2009 ha vinto la sua prima Champions League da protagonista assoluto con il Barcellona, e ancora nel 2018/19 ha chiuso la Liga spagnola con trentasei gol e quattordici assist in trentaquattro partite, più dodici gol e tre assist in dieci partite di Champions League. In mezzo ci sono altri innumerevoli momenti e periodi di onnipotenza senza senso: nel 2012 la Pulce ha superato il record di gol realizzati in un anno solare, tra Barcellona e Argentina, frantumando il primato detenuto da Gerd Müller.

Per Messi quello che potrebbe essere il picco, il prime della carriera di un campione, è un plateau che attraversa tre decenni e si decora di titoli e trofei stagione dopo stagione. La vittoria di oggi dovrebbe suggerire che Messi non solo non è paragonabile ai campioni del passato, ma in ogni discussione su chi sia il più grande di tutti i tempi dovrebbe partire almeno con il vantaggio di una carriera impareggiabile.

Emiliano Guanella per “la Stampa” il 18 Dicembre 2022.   

Non c'è niente di più argentino che il concetto «dell'allegria per il pueblo» e non c'è nulla di più forte del calcio per giungere, quasi per magia, a questo sentimento di euforia collettiva. Nel primo Mondiale senza Maradona la selección del Messi più maradoniano di tutti i tempi ha incendiato la passione di un Paese che arriva alla fine dell'anno stremato dall'ennesima e gravissima crisi economica.

Nell'ultimo mese l'inflazione è stata del 5%, su scala annuale è del 96%, un deprimente record mondiale, ma questo a nessuno importa più. Il futbol, qui, è pasión, ode nazionalpopolare, laboriosa conquista emozionale fatta di sforzi, talento e sacrifici. 

Non a caso oggi molti benedicono l'Arabia Saudita, quella debacle che ha obbligato i ragazzi di Scaloni a fare a pugni con la realtà. Da quasi favoriti a villani, da eroi predestinati ad oggetto degli sfottò dei brasiliani e dell'ironia di molti europei, tutto sembrava un film già visto; la celeste y blanca che si squaglia sul più bello e relega Messi all'ennesima delusione. 

Ma è arrivato l'orgoglio e l'etica del «paso a paso» di Basilesca memoria (da Aldo Basile, bicampione della Copa America ai tempi di Batistuta), testa bassa e a lavorare, trascinati da una Pulce in stato di grazia. Se i ragazzi a Doha ce la stavano mettendo tutta, in patria non si poteva essere da meno. 

I bambini delle scuole elementari con la maglietta sotto il grembiule bianco, i negozi con le bandiere al posto di Babbo Natale. È il primo Mondiale con la splendida primavera in fiore dei jacarandà, sono stati sistemati maxi schermi in piazze e parchi, i datori di lavoro hanno fatto uscire prima i loro dipendenti, nessuno si è dovuto fingere malato. 

Tutti i politici, dall'impopolare presidente Alberto Fernandez in giù, hanno approfittato della situazione, per un mese nessuno a reclamare della corruzione o della violenza, nessuno a chiedere perché nel granaio del mondo un bambino su due è malnutrito. Pane e circo, può dire chi da queste parti non è mai venuto e come dargli torto. Poco importa, l'hastag «Argentina, non sforzarti a capirla» ha fatto capolino in centinaia di video che ritraggono l'illogica follia mundialista. 

Gente che ha venduto l'auto per volare a Doha, chi ha perso il lavoro, la abuela (nonnetta) portata in trionfo su Tik Tok, la foto del pensionato di 82 anni di Entre Rios che si è piazzato con la sdraio davanti al negozio chiuso di elettrodomestici del suo paese per poter vedere la partita con l'Olanda davanti ad una tv da 52 pollici; tre giorni dopo gliene hanno regalata una nuova di zecca. C'è il nuovo inno cantato dal gruppo La Mosca, che parla dei ragazzi della guerra delle Malvinas e delle lacrime versate nelle tre finali perse tra 2014 e il 2020. 

La maledizione spezzata con la Copa America vinta contro i "brazucas" nel Maracanã, Lionel Andrés che fa la pace con la bacheca e accende il motore della Scaloneta. 

La chiosa del brano è una fitta al cuore, c'è il dolore della perdita e la felicità per il passaggio delle consegne, dramma e nostalgia, come in un tango. «C'è Diego, nel cielo lo possiamo vedere, è con Don Diego e con la Tota, a tifare per Lionel».  

Il riconoscimento per il percorso realizzato è generale, molti andranno a salutare la selección all'aeroporto anche se perderà. Messi ha messo finalmente a tacere tutti quelli che lo criticavano, sapendo diventare leader e condottiero anche con la pelota ferma. Quel "Que mirás bobo?" (cosa guardi, fesso?) al malcapitato oranje Weghorst è la quinta essenza della sua trasformazione maradoniana, l'abbraccio finale con la parte più passionale e virulenta del tifo, con buona pace dei moralisti di turno. 

 «La rabbia è il mio combustibile», diceva Diego e oggi quella rabbia è l'emblema della squadra che si sente pronta, senza trionfalismi ma senza paura a sfidare Mbappé e compagni. L'atroce incanto di essere argentini, diceva anni fa lo scrittore Marcos Aguinis, quel mix di emozioni e momenti sempre contrastanti, di gioie e dolori, di cadute e risalite. Il Paese dei cinque premi Nobel e della dittatura più sanguinaria d'America, di Quino e dei default a ripetizione. 

I sociologi stanno analizzando a fondo l'oasi di felicità pallonara che si sta vivendo nel mezzo del Titanic generale. «Il sentimento più diffuso rispetto al momento economico e politico del Paese - spiega Nicolas Rotelli - è la tristezza. Il calcio ha regalato una luce di sollievo in questo buio generale». Erano tutti pronti per un altro Natale con litigi in famiglia, giovani senza lavoro e anziani con pensioni da fame. Problemi che rimangono, questo è chiaro, ma il clima ora è un altro. 

È bastato, per così dire, il genio di Lionel, ma anche la freschezza di Julian Alvarez, la guapperia del Dibu Martinez, la modestia di Scaloni e dei suoi collaboratori Samuel, Ayala ed Aimar, tutti molto amati dai tifosi. Manca solo un passo ed è il più importante, ma comunque vada l'anno per gli argentini si è magicamente raddrizzato.

Estratto dell'articolo di Emanuela Audisio per “la Repubblica” il 18 Dicembre 2022.  

 […] Le ultime cartoline dal primo mondiale arabo d'inverno dicono che è stato molto simile a un'Olimpiade. Tutti insieme appassionatamente in una sola città. Quasi a chilometro zero. Non era mai successo, né ricapiterà, nel 2026 se lo divideranno tre nazioni con fusi, monete diverse e lunghe distanze (Canada-Messico-Usa).  

Era facile organizzarlo? Sì. Ma bisogna dire che tutto ha funzionato e che la gente è arrivata: gli stadi, tranne uno, erano raggiungibili con metropolitane veloci e moderne […], i tantissimi volontari […] hanno dato informazioni giuste e il divieto di bere alcolici in strada che tanto ha dato fastidio alla fine ha prodotto notti pacifiche e per la prima volta nella storia nessun tifoso inglese arrestato (non è una barzelletta). 

[…] Invece in Sudafrica 2010 c'erano state aggressioni e furti come in Brasile 2014. […] Le notti post-partita sono stati piacevoli, anche per il buon clima (meteo) e perché Doha anche all'alba si è rivelata una città aperta. […]

Si è protestato molto all'inizio, ma ora che il mondiale si chiude non varrebbe la pena di chiedere e di informarsi su che fine hanno fatto i giocatori iraniani che hanno rifiutato di cantare l'inno e sulla sorte dell'ex calciatore Amir Nasr-Azadani, condannato a morte? O certi diritti non meritano i supplementari? Si è parlato di un mondo arabo che oscura le donne, vero, ma all'università il numero delle studentesse è il doppio di quello degli uomini, e la quota femminile lavorativa è del 37%.  

Vero che la nazionale femminile di calcio, nata nel 2009, quando il Qatar preparava la sua candidatura e bisognava presentarsi al mondo con un po' di rispettabilità, ha giocato l'ultimo incontro nel 2014, e da otto anni è scomparsa, nemmeno all'Aspire Academy (centro sportivo più importante) c'è un programma per le donne. 

Anche per questo si parla di sportwashing […] Ma vero anche che il progressista Occidente ha portato al mondiale un calcio dove le donne non esistono: solo un'arbitra è scesa in campo, e tra le 32 squadre solo Spagna e Croazia hanno due team-manager (Navas e Olivari). […] 

Il Qatar vorrebbe le Olimpiadi del 2036, l'Arabia Saudita i mondiali del 2030 e ha già ottenuto i Giochi invernali asiatici del 2029, a Neom. […]Certo, costerà. 500 miliardi di dollari. Altro che lavaggio, qui siamo al programma centrifuga. In attesa della fusione nucleare, buona domenica. E shukran.

Maurizio De Santis per fanpage.it il 19 dicembre 2022. 

Lionel Messi alza lo sguardo al cielo e invoca l’intervento provvidenziale dell’ex Pibe.

Gonzalo Ariel Montiel ha gli occhi di tutti il mondo puntati addosso. La responsabilità di battere il calcio di rigore che può decidere la finale di Coppa del Mondo è sulle sue spalle, nei suoi piedi. Dentro di sé ha un groviglio di emozioni ma deve mantenere la calma: ha l'occasione di togliersi dalla coscienza (anche) il peso di aver commesso al 116° il fallo punito dall'arbitro Marciniak con il penalty del 3-3 di Mbappé. 

Un tiro, manca solo la sua conclusione per mettere le mani sul trofeo tanto ambito, sfuggito nel 2014 contro la Germania, sfumato nel 2018 al cospetto proprio della Francia negli ottavi di finale. Prima di lui, con precisione e freddezza, hanno segnato Lionel Messi, Paulo Dybala e Leandro Paredes. 

Montiel spiazza Lloris, segna il rigore che dà la vittoria dei Mondiali all’Argentina.

Il portiere Damián Emiliano Martínez Romero, alias Dibu, ha fatto già quel che poteva per innervosire e ipnotizzare i francesi: ha intuito e quasi parato la prima conclusione di Kylian Mbappé con la mano di richiamo; intercettato il tiro di Kingsley Coman con destrezza; disturbato Aurélien Tchouaméni abbastanza da rendergli più difficile presentarsi sul dischetto, compiendo l'ennesimo errore. 

Dibu Martinez miglior portiere dei Mondiali, ma col trofeo ha una cattiva idea (in mondovisione)

Tocca al terzino destro del Siviglia, la tensione si taglia a fette. In carriera si è presentato 5 volte dagli undici metri, l'ultima risaliva al 9 maggio 2021 in coppa nazionale argentina. Allora vestiva la maglia del Rivera Plate, nell'estate successiva sarebbe passato agli andalusi. Non ha mai sbagliato e questo un po' lo ha aiutato a trovare il coraggio, aggrappandosi alla sua particolare interpretazione di quei momenti. Si piazza in posizione un po' defilata rispetto alla palla per calciare di destro e quasi sembra guardare altrove per non incrociare lo sguardo del portiere e concedere alcun margine d'intuizione all'avversario.

La telecamera stacca su Messi, lo inquadra mentre è abbracciato ai compagni di squadra a centrocampo. Tutti uniti per darsi forza nella buona e nella cattiva sorte. E fa qualcosa che dà un'aura di misticismo a quella situazione. Aveva già realizzato il calcio di rigore simulando il modo di calciare dell'ex Pibe de Oro, omaggio e devozione verso Maradona ne scandiranno anche quell'invocazione che è anche preghiera. 

Alza gli occhi al cielo e, da Dieci a D10s, chiede il suo intervento provvidenziale perché ci metta ancora una volta la sua mano divina. Perché aiuti Montiel a restare concentrato e fare gol. "Vamos Diego, daselo!" dice la Pulce e un istante dopo serra i pugni e le braccia in segno di vittoria.

In tribuna, Victor Hugo Morales, il radiocronista di Radio Nacional, lui che raccontò del "barrilete cosmico" esaltando le gesta di Maradona a Messico 86, descrive con pathos cosa sta accadendo. "L'Argentina ora deve capitalizzare i due gol di vantaggio… Montiel va a calciare il quarto rigore per la squadra argentina. Con l'Argentina avanti di due gol, l'Argentina si prepara a esultare, vediamo… Montiel prende le rincorsa, corre, tira, vaooooooooooool". 

L'Argentina è in estasi, Morales celebra la solennità di quella rete e di quel trionfo accostando Messi a Maradona. Parole che fanno venire la pelle d'oca al popolo albiceleste e a chi se ama il Dieci non dimentica. "È quello che voleva tutto il mondo del calcio – ha aggiunto -. Che Messi dicesse addio con la Coppa del Mondo tra le mani. Dio è Maradona e Messi è il messia. Diego è in paradiso e Messi sulla terra per realizzare questa favolosa storia che amiamo".

(ANSA il 18 dicembre 2022) In centinaia a seguire la partita, tra boati e brusii di delusione, poi l'esultanza incontenibile nel cuore di Napoli per il successo ai Mondiali dell'Argentina, la nazionale che all'ombra del Vesuvio si ama nel nome di Diego. La festa è scattata stasera nello slargo dei Quartieri Spagnoli ormai diventato Largo Maradona, dove una folla straripante ha esultato alla vittoria ai rigori di Messi e compagni. E' la festa dei napoletani che si sentono calcisticamente argentini, ma anche degli argentini di Napoli che hanno scelto i Quartieri per la festa davanti al grande ritratto di Maradona.

Cori per Diego, e per Messi, cori di quello stadio ormai intestato a Diego. E anche centinaia di bandiere, di giovani con la maglia dell'Argentina, con quella del Napoli e anche con quella del Boca Juniors, una delle squadre del Pibe de Oro. 

La folla in festa dopo i rigori ha invaso una buona parte dei Quartieri Spagnoli, mischiandosi ai turisti che stasera hanno sentito i cori per l'Argentina e per l'ex asso azzurro intonati a tutto volume dalle casse acustiche dei bar. Polizia e carabinieri sono intervenuti per garantire l'ordine pubblico costituendo un senso unico tra i vicoli per consentire l'omaggio al ritratto di Diego e uno svolgimento ordinato della festa che andrà avanti per tutta la sera tra i vicoli dei Quartieri Spagnoli.

Da corriere.it il 19 dicembre 2022.

Una folla immensa si è riversata per le strade di Buenos Aires per festeggiare la vittoria dell'Argentina ai Mondiali in Qatar. Una vera e propria marea umana ha invaso le strade attorno all'iconico obelisco della Capitale: la festa con balli, canti e fuochi d'artificio è andata avanti fino a notte fonda.

Estratto dell’articolo di Enrico Currò per “la Repubblica” il 19 dicembre 2022.

L'argentino più illustre, Papa Francesco, tifoso del San Lorenzo e del bel gioco, la partita non l'ha vista: nel suo appartamento non ha neanche il televisore. […] Questo è la coppa araba per l'Argentina: euforia calcistica inseguita per trentasei anni e ritrovata, mentre il Paese attraversa la sua peggiore fase economica dal default del 2001, con due famiglie su tre sotto la soglia di povertà, un'inflazione vicina al 100% su base annua, il fenomeno crescente della denutrizione infantile, lo scontro politico incandescente, il presidente Alberto Fernandez in affanno, la vicepresidente Cristina Kirchner appena condannata a 6 anni per frode, l'incognita delle elezioni del 2023 all'orizzonte.

Sul palco di Lusail, in assenza del presidente Fernandez, sembrava davvero un capo di Stato virtuale Lionel Messi, l'ex bambino di Rosario costretto a costose cure per evitare il nanismo, l'ex ragazzo che nell'agosto 2005 debuttò in Ungheria con la Selección nella maniera più traumatica possibile (quel giorno il terzino destro era Scaloni): un minuto e subito il cartellino rosso per fallo di reazione. 

[…] Fernandez è rimasto a Buenos Aires ufficialmente per ragioni di cabala, ma in realtà perché non era il caso di dare il cattivo esempio col viaggio a Doha. Dopo la gara ha twittato «Grazie ai calciatori e ai tecnici. Sono l'esempio che non dobbiamo mai scoraggiarci. Abbiamo un grande popolo e un grande futuro». In serata ha poi ricevuto la telefonata di congratulazioni di Vladimir Putin.

[…] Di Maria, risarcito della finale persa otto anni fa per un altro infortunio. […] il filiforme Fideo, lo spaghetto, ha incarnato l'apologo della famiglia che tirava avanti lavorando nella miniera di carbone […] Ha incarnato le storie parallele del portiere Dibu Martinez, figlio di un pescatore e di una domestica di Mar del Plata, di Otamendi che da ragazzino prendeva ogni giorno tre autobus con la mamma per andarsi ad allenare, del terzino Montiel diventato eroe con l'ultimo rigore, come Grosso nel 2006. Perché tutto si può togliere, a un argentino, tranne l 'ilusión.

Estratto da repubblica.it il 19 dicembre 2022. 

Di portieri capaci - soprattutto durante i rigori - in Qatar se ne sono visti molti. Dal marocchino Bounou al croato Livakovic. Ma nella serie di tiri dal dischetto tra Argentina e Francia che ha deciso il Mondiale il portiere sudamericano Emiliano Martinez è stato determinante nel neutralizzare il tentativo di Coman (subito dopo Tchouaméni ha calciato fuori). Non solo, nei supplementari ha compiuto una parata stellare in uscita su Kolo Muani. Ha messo le mani sul Mondiale, dunque, meritando il premio di miglior numero uno del torneo.

Dopo aver ricevuto il riconoscimento, però, Martinez si è lasciato andare a un gesto volgare. Si è portato il trofeo - una manona che indossa un guanto da portiere - all'altezza dei genitali. Non è chiaro se si sia trattato di un momento di euforia o di un'offesa rivolta ai tifosi francesi (pochi) presenti allo stadio di Lusail. Quel che è certo è che quegli istanti, inquadrati dalle telecamere, hanno rovinato la cerimonia di premiazione culminata con Lionel Messi che ha alzato al cielo la terza Coppa del mondo nella storia dell'Argentina. [...] 

La regia internazionale ha inquadrato più volte il numero uno dell'Albiceleste infastidire gli avversari prima del tiro, parlando con loro, provocandoli. Con smorfie e sorrisetti.

L'arbitro Marciniak lo ha perfino ammonito perché, prima che Tchouaméni calciasse, ha allontanato il pallone dal dischetto per costringere il centrocampista a perdere tempo e concentrazione. Ci è riuscito, perché il francese ha tirato fuori dallo specchio della porta. [...]

Da corriere.it il 19 dicembre 2022.

 «Ragazzi, adesso ci siamo illusi di nuovo, voglio vincere la Terza, voglio essere campione del mondo». Recita così quello che è diventato l’inno (ufficioso) dell’Argentina ai Mondiali in Qatar (e anche il tormentone del torneo), la canzone che ha accompagnato la cavalcata di Messi e compagni fino alla finale di domani contro la Francia. La «Seven nation army» dei The white stripe, che tutti gli italiani conoscono con quel «po-popopo-po-po-po» ripetuto all’infinito e diventato la colonna sonora del successo azzurro del 2006 in Germania.

Il canto argentino, che anima le strade di Doha e accompagna dagli spalti la Selección si sintetizza in una parola: «Muchachos», il nostro «ragazzi», a indicare quella squadra che sta facendo sognare un popolo intero. E la cantano anche loro, i ragazzi, stretti in cerchio a centrocampo, dopo ogni vittoria. 

La musica, su cui i tifosi argentini hanno costruito il coro, è della canzone «Muchachos, esta noche me emborracho» (Ragazzi, stasera mi ubriaco), del gruppo ska argentino La mosca tse-tse, nota anche in Italia come «Para no verte mas» (Per non vederti più) del 1999, già utilizzata dai tifosi del Boca Junior come coro da stadio. 

L’evoluzione, però, al Mondiale in Qatar, dove è diventato di fatto un inno ispirato ai due numeri 10 della Selección: Diego Armando Maradona e Lionel Messi (ma anche alla guerra delle Isole Falkland del 1982). 

«In Argentina sono nato — cantano i tifosi argentini — terra di Diego e Lionel. Dei ragazzi di Malvinas che mai dimenticherò». Poi il ricordo delle tre finali perse (nel 1930, nel 1990 e nel 2014): «Non te lo posso spiegare perché non capiresti», riscattate dalla vittoria in Coppa America del 2021 contro il Brasile, al Maracanà di Rio de Janeiro: «Ragazzi, adesso ci siamo illusi di nuovo, voglio vincere la terza (dopo quella del 1978 e del 1986, ndr), voglio essere campione del mondo». E la dedica agli eroi dell’Albiceleste: «E a Diego dal cielo lo possiamo vedere, con Don Diego (suo padre) e con la ToTa (sua madre) incitando Messi». 

Dall’altra parte del mondo, invece, in quell’Argentina in cui si festeggia il primo Mondiale estivo della storia (sì, perché a luglio a quelle latitudini è inverno), contrapposta ai «muchachos», c’è una «abuela» (nonna), diventata la prima tifosa della Selección grazie ai social.

Dopo la prima vittoria del Mondiale (quella contro la Polonia, che ha scacciato la paura dopo l’avvio terribile contro l’Arabia Saudita), un gruppetto di tifosi ha cominciato a ballare in strada assieme a una vivace signora anziana («abuela», per l’appunto), spacciandola per la nonna di Messi. Vittoria dopo vittoria, tutto documentato dai video sui social, il gruppetto di persone è diventato una strada intera che saltava e scandiva in coro la parola «abuela» attorno alla simpatica nonna.

Alessio Morra per fanpage.it il 19 dicembre 2022.

La Francia ha giocato la seconda finale consecutiva dei Mondiali di calcio. Un evento che capita raramente. Vincere due Mondiali di fila è successo solo due volte, l'ultima sessant'anni fa. Questo dato fa capire quanto è complicato il bis. Ma la Francia non ha mollato di una virgola, ci ha provato e ci ha creduto anche quando la partita sembrava ampiamente decisa, grazie a un Mbappé straordinario, l'attaccante ha realizzato una tripletta una finale, evento che si era verificato solo nel 1966 (con Hurst).

E alla fine i rimpianti sono e saranno tantissimi per un trofeo sfuggito ai rigori, come nel 2006. A fine partita i calciatori e lo staff tecnico erano assai delusi, è sceso in campo Macron che ha provato a dargli manforte, a dire qualcosa, qualche parola di coraggio. Ma le parole del presidente non hanno attecchito ed anzi Macron è stato quasi ignorato da Mbappé e Deschamps. 

Si può solo provare a immaginare la delusione dei calciatori della Francia, che ha giocato contro tutto e tutti, perché in parecchi volevano vedere Messi campione del mondo. Una partita che sembrava persa è stata quasi ribaltata da 0-2 a 2-2, con due gol in un paio di minuti. Poi i supplementari e un'altra rimonta, Messi segna il 3-2, Mbappé pareggia ancora su rigore, 3-3, con la chance di vincere al 120′. Ma Martinez c'è e si guadagna così anche il Guanto d'Oro. Poi i rigori. Sbagliano Coman e Tchouameni. Argentina campione del mondo.

Non basta il titolo di capocannoniere a Mbappé per consolarsi, non basta la quasi impresa a Deschamps che perde un'altra finale. Sugli spalti c'era anche il presidente Macron, che partecipa da vero tifoso alle partite. Lo fa con calore e non nasconde le sue emozioni. A fine partita il presidente francese scende in campo, deve premiare i calciatori ma vuole soprattutto consolare i calciatori. 

Vede Mbappé, con il quale ha un buon rapporto, gli va vicino. Lo vede mentre è seduto a terra e parla con Martinez. Gli dice qualcosa. L'attaccante del PSG non lo ignora, ascolta, dice qualcosa, ma poi si alza, Macron lo insegue e continua a parlare, ma non riceve né una risposta né uno sguardo. Nemmeno uno sguardo da parte di Deschamps.

Il presidente francese si avvicina, gli dice qualcosa, ma il c.t. è avvolto nei suoi pensieri e lo considera poco. Un tentativo poco riuscito quello di Macron, che sicuramente avrà usato delle parole calzanti ma non è riuscito a catturare l'attenzione né dell'allenatore della nazionale né del calciatore più rappresentativo. Quelle immagini sono state notate, non solo in Francia. 

Macron poi si è presentato in TV, ha elogiato Mbappé, e ha anche rivelato cosa gli ha detto: "È straordinario quello che ha fatto Kylian, ma anche tutto il resto della squadra. Ci ho creduto immensamente. Avevamo fatto anche un secondo miracolo e abbiamo avuto il match point. Cosa ho detto a Mbappé? È un grandissimo giocatore ma è giovane, gli ho detto che ha solo 23 anni. È stato capocannoniere in questo Mondiale, ne ha vinto uno e ha giocato oggi un'altra finale. Ero triste quanto lui ma gli ho detto che ci ha reso molto orgogliosi e alla fine abbiamo perso una partita di calcio, questo è lo sport". 

E Macron ha chiesto a Deschamps di rimanere sulla panchina della Francia. Qualcosa di non scontato. Considerato che Deschamps deve decidere, tocca a lui la scelta, e considerato che l'alternativa è Zinedine Zidane, un mito del calcio e soprattutto un simbolo del calcio francese: "Certo che gli ho chiesto di continuare, voglio che resti". 

Arianna Ravelli per corriere.it il 19 dicembre 2022.

Ha sconfitto tutti, non gli dei del calcio: Pelé che resta irraggiungibile con il bis Mondiale e la storia di Messi che si compie con il titolo che mancava. Perché altro che Argentina-Francia, la finale più bella degli anni Duemila è stata Messi-Mbappé, all’ultimo tiro, all’ultima resistenza, all’ultimo rigore. Tutto o niente, morti, risorti, ancora morti, risorti di nuovo. 

Oggi perde lui, Kylian, che è l’uomo del presente, che versa poche lacrime nella maglietta, solo un momento, è palesemente infastidito dal presidente Emmanuel Macron che va a parlargli tre volte, in campo dopo i rigori finiti come sono finiti e poi quando va a ritirare la scarpa d’oro per il titolo di capocannoniere (otto gol) e la medaglia del secondo, premi di consolazione che non consolano, il dialogo sembra di sentirlo «sei giovane, ne vincerai altri», «sì vabbè, ma quello da vincere era questo».

Macron lo ha convinto a restare al Psg dove è arrivato quell’altro: pochi mesi per studiarsi, decidere che non si piacciono più di tanto, ringraziare Leo per i 6 assist («È sempre calmo, calmo qualunque cosa succeda attorno a lui» dice il francese dell’argentino), e ridarsi appuntamento qui, oggi, finale del Mondiale, l’unico posto dove volevano essere e dove si ignorano. 

Kylian Mbappé ha lasciato la scena a Lionel Messi per 70 minuti e in 97 secondi gli aveva rubato la Coppa: rigore trasformato e gol, tutto riacceso, la decido io, del finale della tua storia non m’importa niente. Poi quell’altro si è inventato una rete di rapina e sembrava avere già rimesso le mani su quella benedetta Coppa, pochi minuti ancora e il destino era compiuto, ma non per Mbappé che si è conquistato il secondo rigore e, a differenza di Harry Kane a cui ha riso in faccia dopo l’errore negli ottavi, non ha sbagliato. 

Tripletta (prima di lui c’era riuscito in finale solo Geoff Hurst in Inghilterra-Germania nel ’66 che si complimenta), ma non rende l’idea dell’esplosione di potenza vista in campo, di un altro gol mancato di un soffio, degli argentini portati a spasso. 

Mai visto un giocatore così nullo e così decisivo nella stessa partita, macché partita, il romanzo di due Paesi, un pomeriggio qatarino che segnerà la vita di milioni di persone. 

Per 70’ Mbappé semplicemente non c’era, e di conseguenza non c’era la Francia. In quella prima accelerazione, il simbolismo che in una finale come questa è in tutti i ciuffi d’erba, vuole che Mbappé salti Leo Messi. Ne esce un tiro alto, ma è un segno di vita. L’ossessione del secondo Mondiale sembrava diventata un pomeriggio di impotenza, di talento inespresso, di inchino al campione che organizza l’uscita di scena, il compimento del tempo di prima e tu in sala d’attesa.

E invece è bastata una scintilla, un fallo di Otamendi su Kolo Muani e un rigore trasformato perché con i fuoriclasse la cui carriera è stata programmata dall’età di 10 anni (quando già la Nike gli mandava gli scarpini a casa, diventerà testimonial a 14) da papà Wilfrid, allenatore delle giovanili dell’As Bondy e mamma Fayza, giocatrice di pallamano, funziona così: quando serve non sbagliano. 

Ed è ancora Messi che perde quella palla a centrocampo che, dopo un’azione bellissima, diventa il tiro al volo per il secondo gol di Kylian: scende uno, sale l’altro, i vasi comunicanti del talento e delle emozioni. Fino ai rigori finali, e anche qui Mbappé fa il suo dovere, apre la serie senza errori, il suo bleu è immacolato, ma la Francia perde come nel 2006 contro l’Italia, come agli Europei contro la Svizzera. Lui perde, inaudito.

E adesso? Adesso che ha quella faccia seccata, come quando in campo i compagni non sono all’altezza di lui, che si prepara a compiere 24 anni (martedì 20 dicembre) tormentandosi per l’occasione persa, che quella serata di pioggia in Russia in cui ha alzato la Coppa del mondo resta un ricordo solitario, adesso non cambia niente: perché è già il suo tempo, di un giocatore mostruoso, creatore e realizzatore assieme, sì, un po’ Messi e un po’ Ronaldo (suo idolo). A settembre, al Wall Street Journal che gli chiedeva se era pronto a prendere la scena in un mondo post Ronaldo e post Messi aveva detto: «Non credo di avere scelta. Il pedale del freno non funziona più». E non sarà questa sera triste di Doha ad azionarlo.

Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport il 19 dicembre 2022.Come molti peccati, anche Qatar 2022 ha ottenuto il perdono. Proprio all’ultimo, grazie alla più bella finale di questo secolo, atto conclusivo del più contestato, odioso eppure calcisticamente significativo Mondiale del Millennio. Significativo poiché ha consacrato la grandezza di Leo Messi, al quale mancava “soltanto” la coppa più prestigiosa (già una volta sfiorata) per poter accedere all’attico delle leggende occupato da Di Stefano, Pelé, Maradona e Cruijff.  

 Certo, come si fa a raccontare ai pochi che non l’hanno vista cos’è stata Argentina-Francia? Non può bastare un altro “amici, cosa vi siete persi”. Servirebbe l’arte dei grandi scrittori (anche) di sport del passato: Buzzati, Arpino, Del Buono, Oriani, Mario Soldati. Ideale risulterebbe la poetica di Pasolini, la sua “scrittura zero”.  

La descrizione delle decine di emozioni fortissime e opposte che abbiamo provato nel giro di 140 minuti, tanto è durata la partita, è un esercizio riservato a pochi eletti. Rivederla ora, o più avanti, non produrrebbe gli stessi effetti sui nostri occhi, cuore e cervello.  

Ci siamo goduti un calcio sempre sopra le righe, di momenti disordinati, ma altissimi. Uno spettacolo fiabesco. Nel primo tempo l’Argentina ha stravinto nel gioco e nel punteggio. Poi, all’improvviso, è stata la Francia ad avvicinarsi al trionfo: dopo settanta minuti di solo Messi e profondo isolamento di Mbappé, il Ronaldo francese (Luis Nazàrio, non Cristiano) ha pensato bene di svegliarsi e in meno di cento secondi ne ha buttati dentro un paio. Oddio, Messi la perde di nuovo - abbiamo tutti pensato -, alla fine lo rivedremo fragile, terribilmente infelice e piangente.  

Superato in fretta lo shock, Leo si è riportato avanti e nel secondo supplementare ha trovato il guizzo del 3-2. Tutto finito di nuovo? Nient’affatto: Macron, che s’era tolto la giacca, stava per essere ridotto in mutande quando un altro rigore ha imposto la decisione dagli undici metri che sembravano cento. Una “locura”. Spettatori sfiniti, assai più dei giocatori delle due squadre che negli istanti finali hanno avuto la possibilità di portarla a casa ma fatto i conti con un miracolo per parte.  

Una gioia anche per la Joya - Dybala c’ero anch’io -, la gloria sempiterna per Montiel e il più favoloso atto di giustizia sportiva si è così compiuto.   

In Qatar Messi, 35 anni e mezzo, è diventato Maradoha: ha ottenuto da Diego il permesso di sedere al suo fianco. Leo ha usato i tocchi più raffinati e impressionanti, mostrato gli occhi del fuoriclasse maturato anche attraverso il timore di una nuova disperazione, ha imparato a esprimere gioia con lo sguardo del leader. Ma quel che è più, è riuscito a vincere il confronto diretto con il suo giovane erede e compagno di club al quale neppure una tripletta è bastata.  

L’ottavo Pallone d’oro è prenotato: alzi la mano chi, anche se solo per un secondo, non ha immaginato lo sconforto del rivale di sempre dell’argentino, Ronaldo, questa volta Cristiano.  

Buenos Aires è impazzita e Napoli ha festeggiato come se avesse vinto l’Italia. Dalle parti del lungomare Caracciolo qualcuno ha ricordato cosa accadde un anno dopo l’ultimo successo dell’Argentina in un Mondiale. Era l’86, era la Selección di Diego, erano la mano di Dio e il piede di tutti i santi del calcio. Il più mancino.  

Stamane avrei certamente letto l’articolo di Mario Sconcerti, un poeta inconsapevole e un appassionato di sé che non aveva mai smesso di studiare per creare un altro stile, un altro modo. Mario se n’è andato spiazzando tutti e portandosi via l’originalità, la fantasia, i paradossi, la competenza, straordinari salti di tono e una quantità industriale di esperienze e conoscenze. 

È stato il mio direttore e un amico, di un’amicizia partita con dei vaffanculo e cresciuta nella stima e nel rispetto reciproco. Fino all’ultimo giorno. 

Probabilmente non mi avrebbe convinto, ma l’avrei apprezzato una volta di più. 

Da fanpage.it il 19 dicembre 2022.

Attesissimo da media e tifosi di tutto il mondo, Leo Messi oggi farà il suo esordio ai Mondiali in Qatar, i suoi quinti della carriera. Saranno anche gli ultimi, come il 35enne di Rosario ha annunciato nell'incontro con la stampa di ieri. L'Argentina è con Brasile e Francia la grande favorita del torneo e non potrebbe essere diversamente quando in squadra si ha uno dei calciatori più forti di tutti i tempi, sette volte Pallone d'Oro. Il primo match della selezione di Scaloni si presenta sulla carta molto agevole, visto il livello dell'Arabia Saudita: i primi conti potranno farsi poi quando l'Albiceleste affronterà Messico e Polonia, le altre due squadre del Gruppo C.

Intanto Messi arriva all'appuntamento al top della forma, nonostante qualche immagine dell'ultimo allenamento abbia spaventato i tifosi argentini: non era niente, come ha chiarito lo stesso fuoriclasse del PSG, che in questo inizio di stagione ha numeri strepitosi col suo club: 12 gol e 14 assist in 19 partite giocate. Insomma è il vero Messi, dopo i problemi dell'anno scorso al suo arrivo sotto la Tour Eiffel, complici acciacchi fisici e Covid. 

Leo Messi in allenamento: è l’uomo dei sogni per l’Argentina

Se oggi la Pulce è qua a giocarsi quel Mondiale che potrebbe accostarlo ancora di più alla divinità Maradona, grande merito va a chi – quando era un ragazzino afflitto da problemi di crescita – fece di tutto per fargli guadagnare quei centimetri decisivi per poter competere ad alto livello. 

Oggi l'ex Barcellona è alto quasi un metro e 70 centimetri, che davvero non è poco visto com'era all'età di 10 anni. "Leo mi chiese se sarebbe cresciuto abbastanza per diventare un calciatore. Io gli risposi: ‘Non preoccuparti, sarai più alto di Maradona. Non so se sarai migliore di lui, ma sarai più alto di lui'. Alla fine ebbi ragione. Maradona era alto 1,67 e Messi era alto 1,69. Questo è più o meno quello che avevo previsto", ha raccontato qualche giorno fa al Times il medico che prese in cura quel bambino così minuto che era baciato dalla grazia del Dio del calcio. 

Dibu Martinez miglior portiere dei Mondiali, ma col trofeo ha una cattiva idea (in mondovisione)

Il dottor Diego Schwarzstein dunque somministrò al piccolo Leo l'ormone della crescita, di cui era carente, e a 13 anni Messi lasciò il Newell’s Old Boys per approdare alla Masia, nelle giovanili del Barcellona. La gratitudine per chi aveva reso possibile tutto questo si concretizzò in una maglia rossonera del Newell's donata a Schwarzstein: era la preziosa numero 9 indossata per l'ultima volta da Messi nel club di Rosario prima di partire per l'Europa. "Per Diego, con affetto da Leo Messi", c'era scritto sopra.

Insomma un rapporto forte quello tra i due, che non si è indebolito neanche con gli anni e col diventare Messi un'icona globale. Il campione argentino infatti qualche anno fa invitò il figlio di Schwarzstein nello spogliatoio del Barcellona. Tuttavia, a dispetto di tutto quello che li lega, il medico argentino ha spiegato di augurarsi con tutto il cuore che l'Albiceleste faccia un disastro ai Mondiali. 

Una presa di posizione che coglie di sorpresa e che ha motivazioni extra sportive: "Come tifoso di calcio vorrei che l'Argentina diventasse campione – ha detto Schwarzstein – Da cittadino argentino, da essere umano, vorrei che perdessero tutte e tre le partite e venissero eliminati al primo turno. Come mai? Sono convinto che questo governo oscenamente populista che abbiamo qui userebbe il successo dell'Argentina ai Mondiali per insabbiare le cose. Potrebbero annunciare la svalutazione della valuta il giorno in cui la squadra gioca, quando nessuno è concentrato su questo".

Schwarzstein ha aggiunto, parlando del governo peronista in carica dal 2019: "Ho vissuto molte crisi in questo Paese, ma questa è la peggiore. I dati del governo dicono che per non essere povero devi guadagnare 120mila pesos argentini al mese (716 euro, ndr). Il salario minimo mensile è di 60mila pesos, quindi anche chi ha un lavoro è povero". Il medico si riferisce all'inflazione galoppante in Argentina, arrivata a sfondare l'80% sotto la guida del presidente Alberto Fernandez e secondo alcune stime avviata verso fine anno a toccare il 100%. Il calcio, come spesso accade in Sudamerica, è un oppio potente e un trionfo di Messi e compagni in Qatar sarebbe manna a tutti i livelli in Argentina, anche dalle parti della Casa Rosada.

Giulia Zonca per “la Stampa” il 19 dicembre 2022.

Adesso finalmente è solo. Lionel Messi senza più confronti, privo di passato, fuori dalle ombre lunghe di chi lo ha preceduto, dalle rivalità che lo hanno spinto a moltiplicare i numeri: campione del mondo con un'Argentina tutta sua. Unico, libero, felice. Il bacio al trofeo che ha inseguito per tutta la carriera lo dà in privato davanti a uno stadio stracolmo, più di 80 mila persone dentro e 4 miliardi fuori a guardare la tv: un attimo di assoluta intimità sfacciatamente pubblica. 

Un travolgente, passionale bacio dato all'ossessione inseguita per una vita intera, un amore fino a qui non corrisposto e impossibile da dimenticare, nonostante plurimi tentativi di pensare ad altre vittorie. Infinite e mai abbastanza intense per soddisfarlo.

Messi bacia il Mondiale prima di sollevarlo, prima di condividerlo, ci appoggia le labbra sopra quando sfila a ritirare il premio di migliore in campo, da solo. E si gode quell'attimo con gli occhi che gli brillano, senza l'idea di una lacrima. Smetti di piangere Argentina, che sarà ancora populismo e garra e cancha e hinchas e «Muchachos», «Tierra del Diego y Lionel. De los pibes de Malvinas...», come recita la canzone con cui il tifo saluta il trionfo atteso 36 anni, ma stavolta senza strazio. Nessuna faccia devastata da una beatitudine che rende troppo sensibili. Stavolta si ride. 

Siamo al Lusail Stadium e l'Argentina ha appena battuto la Francia 7-5, ai rigori.

Messi ne segna due: uno in partita, tra i più glaciali mai visti e uno nel duello testa a testa contro Mbappé dagli 11 metri dopo aver piazzato pure una rete su azione, quando ormai ha in testa solo un'idea: vincere. Non ha fatto altro e l'abitudine si vede pure quando tutto finisce e lui è finalmente pronto. 

Non avrebbe accolto così il successo otto anni fa quando ha perso la prima occasione, né nel 2010, quando Maradona era ct e gli toglieva l'aria, né nel 2018 delle faide interne che non ha mai avuto voglia di domare e di sicuro non nel 2006 dell'esordio. Gli serviva passare da lì, cinque edizioni mondiali, 26 presenze, più di chiunque altro e del resto comanda ogni statistica.

Il più coinvolto nelle azioni decisive, 12 gol, 7 solo in Qatar e 8 assist (3 qui), il più premiato per incisività nelle singole partite, quello con più minuti, più palle toccate, più giocate uomo contro riuscite, solo che dopo decenni a contare ogni record ha esaurito le cifre da aggiornare e non ha nemmeno più voglia di smettere, di chiudere con la nazionale: «È l'ultima partita a un Mondiale e la regalo alla gente, ma non mi ritiro, voglio indossare la maglia dell'Argentina da campione».

Purché sia solo per lo sfizio perché non vogliamo vederlo invecchiare mentre gioca. Ci piace così, rannicchiato su un prato da quanto se la gode, appagato. Ad abbracci esauriti e mucchi selvaggi sciolti, a rete tagliata e coppa alzata in ogni angolo, portato in trionfo, forse non dovrà nemmeno camminare mai più, Messi si lascia cadere a terra e non è per sfinimento. È piacere: «Lo sapevo che Dio mi avrebbe dato questa gioia. ho avuto la fortuna di conquistare ogni titolo ma volevo arrivare qui. Ora mi diverto».

La prima volta in cui ha assaporato l'idea era un bimbo, a Rosario, dove è nato in un barrio decisamente pericoloso, uno di quelli dove i supermercati hanno il metal detector e le sbarre. Messi già strabiliava e prima di risolvere i problemi alla schiena, di firmare un contratto su un tovagliolo di carta ha detto: «Voglio vincere il Mondiale». 

Poi è partito per Barcellona, a 13 anni, lì lo hanno fatto crescere in centimetri e qualità, ne hanno esaltato il talento e rapito l'anima. Almeno secondo il racconto popolare che da Riquelme a Tevez ha sempre chiamato altri a guidare il popolo. Perché Messi era di Barcellona. 

Oggi è del Qatar, per chi avesse dei dubbi in merito a chi lo paga, basta vederlo nel momento in cui riceve ufficialmente la coppa dall'emiro capo Tamim ben Hamad al-Thani. Indossa, meglio, deve indossare il bisht, la veste tradizionale che gli uomini arabi portano per le grandi occasioni. Ha a che fare con cerimoniali legati a politica e clero: il Medio Oriente ha annesso Messi alla famiglia reale.

Il Qatar gli paga lo stipendio al Psg, l'Arabia Saudita lo foraggia come uomo immagine e lui mette su il bisht insieme con l'unica espressione schifata della serata. Tanto non lascia traccia, cancellata dalla grazia. Più nulla incide sul Messi campione del mondo, è oltre ogni giudizio. Pure quello morale, ammesso che ne esista una dietro le sue firme.

Messi è solo, lui e il Mondiale, lui e l'Argentina e non c'è più un paragone che tenga, lui e la famiglia che lo segue in campo, lui e una moltitudine che lo lascia comunque solo a cullare i sogni di gloria.

Ora sono realizzati e può riviverli all'infinito e non importa quanta gente ha intorno, resta una storia a due, lui e la magnifica ossessione. Non con Ronaldo, incrociato per decadi e ora a distanza e non con Mbappé, che probabilmente ha già preso il suo posto al centro della scena del calcio. Non con Maradona, con buona pace delle sentenze nostalgiche. C'è solo Messi e il Mondiale uniti da un bacio travolgente che gli resterà addosso in eterno.

L’era del Messi-a finisce in gloria alla faccia degli invidiosi. Gianfrancesco Turano su L’Espresso il 19 Dicembre 2022.

Amato dal mondo ma sempre criticato per una presunta mancanza di leadership, Leo trascina l’Argentina al terzo titolo mondiale. E riscatta sul piano sportivo un torneo nato con le inchieste su Blatter e finito con gli arresti di Panzeri e soci

La finale più bella nel mondiale più brutto. È la prova, l’ennesima, che la parte sana del calcio sono i giocatori.

Mentre in Europa si parla di Qatargate, di corruzione scambiata per lobbismo, di sacchi e trolley pieni di denaro, la finale dello stadio Lusail ha tentato di riscattare, riuscendoci per 135 minuti più rigori, l’affarismo dei padroni del pallone.

Argentina-Francia è stata il trionfo del calcio nella sua doppia dimensione di gioco di squadra dove nessun fuoriclasse basta a vincere una partita e di scena operistica dove, alla fine, il pubblico pretende di applaudire il grande tenore.

Ieri sera erano in due. Quello con il tabellino individuale migliore, Kylian Mbappé, ha perso il titolo. Il vecchio, Leo Messi, ha sconfitto l’attor giovane.

Non lo diranno più adesso che il dieci albiceleste non è un leader, che Maradona era un’altra cosa. E chi lo dirà, perché nell’era dei Webeti qualcuno che neghi il reale si trova sempre, dovrà sfidare il ridicolo di fronte all’elenco di vittorie, gol, splendori tecnici del Messi-a.

In quanto a grandezze, ognuno ha i suoi preferiti sull’altipiano della gloria calcistica dove vivono gli immensi. Per alcuni al primo posto rimane o Rey, la Perla Nera, Pelè che sembrava giocare con il pallone sgonfio perché il pallone si ammorbidiva da solo al tocco del brasiliano. Il triplo campione del mondo, che combatte con le sue condizioni di salute, ha mandato i suoi complimenti al capitano argentino.

Se è vero che ogni epoca calcistica ha il suo eroe, questa è certo l’età di Messi, da almeno quindici anni, ed è fatale che la qualità di Leo si sia manifestata in una delle finali più pazzesche a memoria di mondiale.

Fino al minuto 70, Argentina-Francia è stata una non partita con una sola squadra in campo contro una banda di ectoplasmi in blu. Ma il calcio è l’imprevedibilità dell’esistere e ieri, insieme a Messi, esisteva Otamendi. Già segnalatosi fra i peggiori del Mondiale 2010 con Maradona in panchina, il centralone difensivo albiceleste ha prima provocato un rigore e poco dopo è andato a farfalle sul raddoppio di Mbappé.

In contemporanea, il Messi dominatore assoluto dei primi 45’ si era affievolito, quasi a godersi i frutti della sua creazione. Sul 2-2 il mach si è ribaltato ma il numero 10 ha ripetuto il prodigio di Messico 1986, quando i tedeschi avevano raggiunto l’Argentina di Maradona, ed è tornato in partita con il gol del 3-2. Ma ormai si combatteva ad armi pari e il 3-3 provocato da Molina ha portato ai rigori.

Gli ultimi secondi dei supplementari sono da infarto con gol salvato dal miracoloso e odioso portiere argentino. Sul fronte opposto, l’interista Lautaro si è bevuto una palla di gol di testa.

Tutto doveva andare verso l’ultimo duello con Mbappé e Messi primi sul dischetto, a chiudere entrambi una partita straordinaria. Sono stati comprimari a fare la differenza. Bene gli argentini, male i francesi.

Giusto così, come era giusto tifare per Messi. È vero che molti grandi non hanno vinto il mondiale. Ma a Messi non doveva, non poteva capitare. Poi qualcuno si troverà a gettare fango sul rosarino emigrato da piccolo a Barcellona. Anche dopo la finale, si è detto che Maradona non avrebbe mai coperto i colori dell’Argentina in riferimento alla cappa da emiro, peraltro trasparente, che Messi ha indossato per ritarare la coppa. Qualcun altro con razzismo inconsapevole ha alluso ai due scudetti di Maradona al Napoli, impresa chi sa perché impossibile in una squadra che oltre a Diego era piena di campioni. Per anni hanno accusato Messi di essere troppo poco appariscente, di non protestare con gli arbitri, di non avere carisma. Poi lo hanno attaccato per avere reagito con le mani sulle orecchie al ct olandese Luis Van Gaal, un provocatore nato, che lo aveva definito “l’uomo in meno” della finale del 2014.

Eppure Messi rischiò di vincere quella partita con un diagonale dei suoi, rasoterra sul secondo palo. Ne ha fatti centinaia di quei gol. Contro la Germania nel 2014 la palla uscì di millimetri. Era quello, fino a ieri sera, il tarlo di Leo.

Adesso è finita in gloria. Senza invidiosi che gloria sarebbe?

Maurizio De Giovanni per “La Stampa” il 19 dicembre 2022.

È stato un momento, un solo momento, quando tutto era finito in cui ho apprezzato la vera, profonda differenza; e non è stato un momento in cui la palla era in gioco, e il magico piede sinistro di piccola misura sotto il magico numero dieci si prendeva le sue responsabilità dipingendo calcio. E non è nemmeno stato un momento di sospensione tra un rigore e l’altro, in cui lo stomaco si chiudeva e il destino sembrava danzare sul filo a cento metri dal suolo. 

E nemmeno è stato uno dei momenti in cui il Dieci sussurrava a un compagno dove trovare il coraggio di sopravvivere a quello che stava succedendo, o quando le telecamere cercavano un segno di scoramento o di certezze folli, che facessero presagire come sarebbe andata a finire.

Il momento della vera differenza è stato un altro, ma ve lo diremo alla fine. Perché adesso accettiamo di perderci nella più oziosa e inutile delle questioni, nella domanda che ossessivamente viene posta in questi giorni a chiunque, e cioè se questa vittoria, se questa casella finalmente barrata con una V maiuscola, se questa coppa finalmente alzata nel cielo del deserto sia la parola finale su chi sia stato il più Grande di ogni tempo. 

A che serve rispondere a questo inutile quesito? Serve agli statistici, che continueranno a pesare le emozioni come fossero numeri? Serve ai giornalisti, che potranno dire di aver celebrato l’uno o l’altro? Serve ai tecnici, impegnati a confrontare due modi di calcare il terreno all’interno di due sport così radicalmente diversi per impegno atletico e tattico? Soprattutto: serve a Lionel Messi, che alla soglia dei trentasei anni taglia finalmente il traguardo più ambito, che sembrava essergli definitivamente sfuggito? 

Di certo non serve a Lui, che non c’è più e che ha sempre bonariamente sorriso quando sollecitato sull’argomento senza rispondere mai, perché non stava a Lui rispondere. E di certo non serve a chi lo ha visto in campo, giocandogli contro o al fianco, perché già conosce la risposta. E di certo, e soprattutto, non serve a chi ha avuto la fortuna di riempire gli stadi urlando dalla sua parte, e infatti non ponete la domanda a due popoli, quello argentino e quello napoletano, che sono certi di quello che hanno visto e che non avrebbero dubbi nel pronunciare, in un coro ritmato, lo stesso nome.

Il calcio, sapete, non è uno sport individuale: è uno sport di squadra. Sembra banale, ma è la chiave di volta di ogni discorso. Perché mentre vedevamo il piccolo Lionel alzare fieramente la coppa, e ne condividevamo l’assoluta felicità, riflettevamo su un tempo in cui un certo gol di mano sarebbe stato annullato dal VAR, è vero: ma è altrettanto vero che al primo dei millemila calcioni sferrati a tradimento e a palla lontana, assorbiti senza un lamento, l’avversario feroce del tempo sarebbe stato ammonito e poi espulso, lasciando gli altri in dieci e poi in nove e poi in otto. 

Ed è sicuramente vero che quell’Argentina trascinata alla vittoria aveva contenuti tecnici immensamente inferiori a questa, coi Burruchaga e i Valdano a guidare una schiera di sconosciuti, non certo gente come Dybala, Paredes e Lautaro lasciati in panchina al fischio d’inizio.

Ma non è nemmeno questa, la differenza. Perché è sicuramente vero che la vittoria albiceleste di ieri è avvenuta al cospetto di un altro M10, un ventiquattrenne delle banlieue parigine che ha nelle gambe statistiche stratosferiche, pronto a prendersi la corona, muore il re viva il re, avanti un nuovo fenomeno che sposterà le colonne d’Ercole un po’ più in là. 

Bill Shankly, allenatore mitico di un mitico Liverpool del tempo dei Beatles, disse una volta: qualcuno dice che il calcio è una questione di vita o di morte. Non sono d’accordo. Il calcio è molto, molto di più. Vero, probabilmente, se ieri siamo rimasti tutti incantati a guardare una partita che forse è stata la più bella della storia del calcio o almeno dei mondiali, una sequenza folle di gol che nemmeno il più mentalmente instabile degli sceneggiatori avrebbe osato immaginare; dimenticando diritti umani calpestati, donne ridotte al rango di schiave domestiche, centinaia di morti nei cantieri per allestire questo spettacolo. E soprattutto dimenticando un sistema di tangenti così consolidato da far traballare perfino le istituzioni europee. 

Lo spettacolo è stato superbo, e se lo sarà goduto da morire chiunque ami il calcio. Incluso Lui, da sopra le nuvole, come recita il canto degli argentini. E anche Sinisa, innamorato com’era del pallone che ha inseguito per una vita troppo breve. Incluso Mario Sconcerti, che l’avrebbe raccontata in maniera mirabile e profonda, ultima penna letteraria di un giornalismo che purtroppo va scomparendo. E chissà, forse anche Lando Buzzanca, che a un arbitro di calcio ha legato l’inizio della sua incredibile carriera.

 Eppure, nonostante quello che diranno gli annali, c’è stato un momento in cui siamo stati certi della differenza. Perché possiamo dirvi con assoluta convinzione che quando l’emiro avesse proposto a Lui di vestire quell’assurdo costume, a coprire la maglietta sporca di sudore e fango, a simboleggiare la proprietà della coppa, del pallone, del campo, del Paese e anche della squadra di club in cui entrambi i numeri dieci della finale di ieri militano e quindi buona per ogni esito della finale, be’, Lui avrebbe rifiutato. 

E avrebbe orgogliosamente chiesto: me la date la coppa, per alzarla con la mia maglia addosso e non con questa ridicola vestaglietta velata, o no? Perché altrimenti me ne torno negli spogliatoi. 

La differenza è questa. Potete starne certi.

Riccardo Canaletti per mowmag.com il 19 dicembre 2022.

Il mondiale delle polemiche è finito. Ovviamente con una polemica. Dopo una partita che alcuni hanno definito tra le più belle finali di sempre, ecco una nuova ondata di indignazione per il mantello pregiato che l’emiro Tamim bin Hamad Al Thani, con il benestare del boss della Fifa Gianni Infantino, ha posto sulle spalle di Lionel Messi prima della tradizionale alzata della coppa al cielo. 

Un gesto che non è piaciuto ed è stato definito inaccettabile, perché sembrerebbe simboleggiare il potere del Qatar su questo mondiale, comprato a suon di soldi. Il “bisht”, questo il nome dell’indumento, è un accessorio tipico dei Paesi del Golfo Persico, usato come segno di ricchezza e prestigio, e indossato anche dalla famiglia reale. 

Quasi un’incoronazione del numero 10 dell’Argentina. Apriti cielo. Ennesimo schiaffo alla democrazia e al rispetto dei diritti, a favore di una sudditanza neanche velata verso un potere autoritario e antiumanitario. La mantellina della discordia insieme all’ingaggio del calciatore come volto di Vision 2030, il programma per il turismo in Arabia Saudita, sarebbero l’unica nota stonata in questo momento storico del calciatore che, da ieri, ha conquistato anche l’ultimo risultato che gli mancava in carriera, la coppa del mondo.

Che questo mondiale sia stato interamente espressione di subordinazione nei confronti del Qatar, un Paese su cui vi sarebbe molto da dire a partire dalle analisi sulla Goal economy di Marco Bellinazzo, è chiaro; ma fa specie notare come la polemica si sia innescata ripetutamente per via delle simpatie “contrattuali” della Pulce, più volte paragonato a Maradona, ma raramente nel caso in cui si dovessero ricordare le amicizie e gli incarichi che il Pibe de Oro intrattenne durante l’arco della sua intera carriera. Come se vi sia un unico “peccatore”, Messi.

Eppure Maradona ha indossato gli abiti di uno Stato come gli Emirati Arabi, e da loro ha accettato soldi e un jet privato come benefit, scegliendo di sedere in panchina prima con l’Al-Wasl di Dubai nel 2011 e poi con l’Al-Fujairan nel 2017. Lui, amico di Fidel Castro (ed espressione massima di comunista con il rolex, anche se intoccabile per via della santità calcistica). Proprio lui, evocato nelle agiografie televisive come evento unico nel mondo del calcio di cui sembra sia bene ricordare solo il talento acrobatico e il genio coreografo, a spese delle contraddizioni che, quand’anche evocata, lo rendono più un soggetto per Sorrentino che non un nome che sia possibile criticare.

Vogliamo parlare della foto in stile Sirenetta di Maradona nella vasca a forma di Ostrica insieme ai fratelli Giuliano di Forcella, re della Napoli criminale degli anni Ottanta? Una conoscenza amichevole e buoni rapporti che il campione non aveva mai negato e di cui non si pentì mai. Non solo. Dopo l'esperienza araba pensò di spostarsi in Messico e diventare allenatore dei Dorados de Sinaloa, nel cuore dei territori del narcotraffico nel regno del Cartello di Sinaloa, forse il più pericoloso e vasto al mondo.

Non che Maradona facesse parte di alcun cartello, ma dal momento che si chiede sempre di più alle star di prendere le distanze da qualsiasi cosa, dagli sponsor poco green al vicino che usa una frase omofoba o maschilista, perché non si dovrebbe ricordare che Diego si mosse nella direzione opposta, ovvero accorciando, fisicamente, le distanze fino a prestare i suoi servizi (e la sua immagine e fama) a un territorio avvelenato dalla droga? 

I più dubitano che, dopo l’entusiasmo iniziale, si possa davvero continuare a identificare Leo Messi con Diego Armando Maradona. Nonostante questo, forse qualcosa in comune ce l’hanno, l’amore per i soldi e, d’ora in poi, anche una bella mantellina per i giorni più freddi e più bui, con buona pace per i “maradoneti” dalla memoria selettiva convinti che Maradona non avrebbe mai coperto la maglia della sua nazionale con un indumento qatariota, nonostante abbia dimostrato in più occasioni di saper coprire adeguatamente il suo habitus morale, con una bella coperta di sghei.

Emiri, dittatori e camorra. Davvero Maradona era meglio di Messi? YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani il 19 dicembre 2022

Se con la vittoria dei mondiali Messi aveva messo a tacere per qualche minuto i continui paragoni con Maradona, il suo consenso nell’indossare la bisht ha scatenato sui social aspre critiche. I paragoni tra i due si sono spostati dal calcio alla politica. Ma ancora, una volta, sono del tutto sbagliati

Alzando la coppa del mondo al cielo nello stadio Lusail in Qatar, Lionel Messi ha messo fine alla sua croce: i continui paragoni calcistici con il leggendario Diego Armando Maradona. Nonostante avesse vinto di tutto sia a livello di squadra che individuale, al numero 10 dell’Argentina del presente, erede di quello del passato, mancava un unico trofeo per mettere a tacere le critiche e confermare il suo valore: incastonare nella maglia della sua nazionale la terza stella d’oro in onore del Mondiale vinto.

Ma mai Messi avrebbe pensato che quel momento di gloria eterna avrebbe portato con sé una piccola macchia nera, immortalata in tutte le foto della celebrazione finale. 

Dopo aver ricevuto il trofeo di migliore giocatore del torneo e prima di salire sul palco per festeggiare la vittoria dei Mondiali insieme ai suoi compagni di squadra, l’emiro Tamim bin Hamad al-Thani ha voluto far indossare a Lionel Messi la bisht, un mantello nero tipicamente usato in Qatar in occasione delle cerimonie e indossato dagli esponenti della famiglia reale.

Si è trattato di un gesto simbolico con il quale l’emiro (proprietario del Paris Saint-Germain in cui gioca Messi) ha voluto ribadire il suo potere politico ed economico di fronte al mondo intero e ha risposto platealmente alle critiche sulle violazioni dei diritti umani e civili delle ultime settimane.

Se con la vittoria dei Mondiali Messi aveva messo a tacere per qualche minuto i continui paragoni con Maradona, la sua decisione di indossare la bisht ha scatenato sui social aspre critiche concentrate sulla differenza morale tra i due giocatori più forti in assoluto dell’Albiceleste.

Commenti come «Maradona non avrebbe mai accettato di indossarlo», «Diego non lo avrebbe fatto», e ancora «Questa è la differenza tra Messi e Maradona» sono tra i più diffusi sulle piattaforme social. Ma è veramente così?

GLI AMICI ARABI DI DIEGO

C’è un breve scambio su Twitter che può dare una risposta al dibattito delle ultime ore. Nel 2017, durante le proteste in Venezuela contrastate con la violenza dalle autorità capeggiate da Nicolas Maduro, Diego Armando Maradona ha scritto un tweet di sostegno al presidente del Venezuela. «Chavisti fino alla morte e quando Maduro chiamerà, sarò vestito da soldato per un Venezuela libero, per combattere contro l’imperialismo», scriveva il Pibe de oro.

Dura e sintetica la risposta di José Luis Chilavert, storico portiere del Paraguay. «Maradona è rincitrullito, parla contro l’imperialismo ma vive a Dubai».

Negli ultimi anni di vita, infatti, Maradona ha trovato nei paesi del Golfo arabo una calda accoglienza oltre a soldi e amicizie. Negli Emirati Arabi Uniti ha chiuso contratti milionari per sedere sulle panchine delle squadre di Al-Wasl e Al-Fujairah.

Maradona ha vissuto parte della sua vita tra emiri e sceicchi senza mai sollevare critiche di alcun tipo proprio come Messi e tanti altri giocatori e gli Emirati Arabi Uniti sono al pari del Qatar nella gerarchia dei paesi che rispettano i diritti umani e civili. E per gli emiri, Maradona è stato anche ambasciatore onorario dello sport di Dubai.

LA CAMORRA E IL SUDAMERICA

Una tappa storica della carriera calcistica di Maradona è stata indubbiamente Napoli. La città italiana lo ha accolto a braccia aperte e oggi il suo nome riecheggia nelle strade del centro storico al pari di una divinità. 

Al Pibe de Oro è stato anche intitolato l’ex stadio San Paolo e una sua statua in bronzo lo ricorderà per sempre ai suoi tifosi. Dopo la vittoria dell’Argentina migliaia di tifosi sono scesi in strada brandendo foto e bandiere con il volto di Maradona e hanno festeggiato la vittoria del mondiale dell’Argentina.

Ma Napoli, per Diego, è stato anche un luogo di perdizione tra un figlio riconosciuto, dopo una lunga battaglia legale, con 18 anni di ritardo e rapporti scomodi legati alla criminalità organizzata.

In un’intervista rilasciata a Maurizio Costanzo Maradona ha spiegato bene i suoi legami con la camorra. «Uscivo di notte e incontravo questa gente, mi fotografavano; io non chiedevo il passaporto per farmi fotografie, non sapevo fossero camorristi – ha detto – Alla camorra non ho mai chiesto niente, loro mi hanno dato la sicurezza che alle mie due bambine non sarebbe successo niente. Parlai con Carmine Giuliano dopo la Coppa America dell’87 e su La Gazzetta dello Sport uscì che se non fossi tornato a Napoli avrebbero fatto del male alle mie bambine: lui mi rassicurò, dicendo che a loro non sarebbe successo niente». 

La vicinanza di Diego Armando Maradona agli uomini di potere è nota. Fidel Castro e Hugo Chavez sono solo alcuni dei capi di stato e di governo lodati dall’ex calciatore argentino. Messi, invece, ha sempre tenuto distante la politica, anche per questo entrambi non possono essere paragonati. Ancora una volta.

YOUSSEF HASSAN HOLGADO. Giornalista di Domani. È laureato in International Studies all’Università di Roma Tre e ha frequentato la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Fa parte del Centro di giornalismo permanente e si occupa di Medio Oriente e questioni sociali.

"Pelè il migliore di tutti i tempi. Leo numero uno oggi, Mbappé..." Intervista a Josè Altafini, campione del mondo col Brasile di "O Rei" nel 1958: "Il francese super, ma che sfortuna..." Nino Materi il 20 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Se sfreghi la Lampada del Calcio viene fuori un Genio che è la copia esatta di José Altafini: anzi no, è proprio lui. I giovani di oggi non possono apprezzare a pieno i fuoriclasse contemporanei come Messi o Mbappé se non hanno ammirato, almeno una volta, le imprese vintage di José; i «giovani» di ieri non ne hanno invece bisogno, perché sanno bene chi è Altafini, alias «Mazzola» (per la somiglianza al grande Valentino). Ridurre questo 84enne - ancora oggi dalla simpatia che prende alla gola e rischia di farti strozzare dal ridere - al riassuntino Wikipedia è oltraggioso: «Ex calciatore brasiliano naturalizzato italiano, di ruolo attaccante. Ha fatto parte della nazionale verdeoro, con cui si è laureato campione del mondo nel 1958 e, dal 1961, di quella italiana». Macché, José è una filosofia di vita.

Lo raggiungiamo al telefono mentre guida in autostrada. Ma a mettere le cinture di sicurezza siamo noi. Che rischiamo di essere investiti dalla velocità delle sue risposte.

José, posso farti qualche domanda?

«Cos`è, stai preparando il mio coccodrillo? Guarda che ho 84 anni, ma sto benissimo».

No, no... niente coccodrillo. Vogliamo solo sapere se ieri hai visto la finale dei Mondiali.

«Ma sei scemo? Certo che l`ho vista».

E come ti è sembrata?

«Stupenda».

L`Argentina ha trionfato meritatamente?

«Sì. E sono contento per Messi».

Hai tifato per l`Albiceleste?

«Impossibile che un brasiliano tifi Argentina».

Mbappé ha preso solo il trofeo come il miglior goleador.

«Sfortunato. Mai successo che chi fa tre gol in finale poi non sollevasse la Coppa d`oro».

Come quella che conquistasti tu nel `58.

«Altra epoca. Confronto improponibile».

Con te ai Mondiali in Svezia c`era un giovanissimo Pelè.

«Non aveva ancora 18 anni»

Messi, Maradona e Pelé. Il migliore?

«Non ho dubbi: Pelé. Messi è però oggi il numero uno, l`erede indiscusso di Maradona».

Messi è stato paragonato da un «analista» italiano, specializzato in iperbole, a «Gesù».

«Lasciamo stare Gesù. Io, ad esempio, parlo ogni giorno con il mio angelo custode. Ma non discutiamo mai di football. E comunque non mi piacciono i commentatori che vogliono insegnare il calcio ai calciatori».

Anche tu sei stato un telecronista spettacolare, anzi il papà di tutti i commentatori showman.

«Ideavo tormentoni lessicali. Allegria, brio. Ma non facevo il ct. Pur avendo una certa pratica di calcio».

Altro che una «certa pratica». Hai fatto 85 gol nel Palmeiras, 120 nel Milan, 71 nel Napoli, 25 nella Juve, 9 tra nazionale carioca e italiana.

«Vengo da una famiglia poverissima. Ho sempre mangiato solo pane e gol».

Per questo ti sei arrabbiato quando nel film dedicato a Pelé ti hanno raffigurato come un ragazzino ricco la cui famiglia aveva come governante la mamma del piccolo «O Rei».

«Una balla enorme».

Il grosso della tua carriera si è svolta in Italia nel triangolo Milano, Napoli, Torino. È vero che l`allenatore del Milan, Gipo Viani, ti appioppò il soprannome di «coniglio» perché una sera ti beccò in discoteca e tu ti nascondesti dietro un divanetto?

«Altra balla stratosferica. Viani era uno che scaricava sugli altri le sue responsabilità. Io "coniglio"? Non ho mai giocato una partita indossando i parastinchi. Mai tirato indietro la gamba».

Col Nereo Rocco sulla panchina rossonera andò poi meglio

«Il "Paron", persona leale».

A Napoli col mister Bruno Pesaola fu uno spasso.

«Col "Petisso" ci allenavamo divertendoci».

Natale è alle porte, sfodera il tuo slogan per le grandi occasioni.

«Incredibile amici!».

Un augurio per un amico speciale?

«Pelé, ti voglio bene. Guarisci presto. Un abbraccio da tuo fratello José».

Estratto dell’articolo di Cristiano Gatti per altropensiero.net il 20 dicembre 2022.

(…) Messi è meglio di Maradona. Lo pensavo già prima di questo Mondiale, questo Mondiale non cambia nulla, caso mai aggiunge qualcosa senza alterare la classifica. Né tanto meno ho bisogno del patetico melodramma di Adani, peraltro un difensore che la sparava di stinco al terzo anello, per comprendere e apprezzare il capolavoro: Adani, caso mai, ti porterebbe d’istinto a odiarlo, il povero Messi. Ma chiaramente non possiamo prendercela con Messi se il suo cantore italiano è diventato Adani. Pelé e Maradona avevano Brera e Mura, a Messi è rimasto il fondo di magazzino.

Da lastampa.it il 20 dicembre 2022.

Una foto da record che resterà nell’immaginario collettivo. Il capitano dell'Albiceleste ha voluto documentare come ha trascorso la sua prima notte sul suolo argentino, da campione del mondo. Così ha postato sul proprio profilo Instagram la foto di se stesso che dorme abbracciato alla Coppa, poi quella di lui sveglio sempre con la Coppa in mano e poi che sorseggia del mate, sempre con la Coppa accanto.

La foto festante con la Coppa del Mondo, pubblicata sul suo profilo, ha ottenuto il maggior numero di «like» mai fatto registrare prima, andando oltre i 57 milioni di «mi piace». 

Su Instagram il post di Messi ha battuto la foto detentrice dello scorso record, un uovo pubblicato il 4 gennaio 2019 dal profilo «world_record_egg» (appositamente nato con l'obiettivo di prendersi proprio quello scettro ed entrare nel Guinness dei primati) che aveva raggiunto i 56,16 milioni di like.

I precedenti: l’omaggio di Chiellini e Bonucci a Cannavaro

Messi emula Giorgio Chiellini quando l'anno scorso, dopo il successo dell'Italia agli Europei, era andato a dormire con il trofeo menzionando a sua volta il capitano della spedizione azzurra ai mondiali 2006: «Seguendo la tradizione del grande maestro Fabio Cannavaro».

Da liberoquotidiano.it il 20 dicembre 2022.

Leo Messi è finalmente riuscito a coronare una carriera leggendaria mettendo le mani sulla Coppa del Mondo. Un secondo dopo la vittoria ai rigori dell’Argentina contro la Francia è partita la discussione: Messi ha superato Diego Maradona? A livello di numeri e di palmares la bilancia pende tutta dalla parte di Leo, ma a livello simbolico Diego sembra sempre irraggiungibile. Giuliano Ferrara su Il Foglio ha spiegato quella che a suo avviso è la “radicale differenza” tra i due numeri dieci dell’Albiceleste. 

Diego è incomponibile con Leo, non so se per come giocava, questo lo lascio agli esperti, certo per come viveva, per come era, per quanto rappresentava al cospetto delle passioni”, ha scritto Ferrara. “Cocaina, lealtà verso gli amici criminali, sesso estremo e variamente figliante - ha proseguito - familismo un po’ turpe della Tota (e di mamma, per fortuna, ce n’è una sola), caudillismo e poveraccismo erano il suo stigma; Messi vincitore, con l’aiuto del suo immenso talento e di una imperscrutabile fortuna, senza bisogno della mano de Diós, ha indossato una veste regale donatagli da al Thani l’Emiro, sotto gli occhi esterrefatti dei maradoniani Castro e Che Guevara dal cielo, e ha sollevato una coppa che sa di denaro, di buoni investimenti, di ragazzini legali, i suoi propri, di allenamenti disciplinati, di professionismo antipopulista, di familismo ordinario, banalmente conformista, non di campetto fangoso”. 

Ferrara ha poi tirato in ballo il regista Emir Kusturica, autore del documentario su Maradona nel 2008: “Faticherebbe a girare anche solo un fotogramma della vita di Leo, lui che ha celebrato vita e morte di Diego in un magnifico, opulento, immoralità documentario biografico del grandissimo eroe nero che le folle hanno adorato e adorano fino a accettare nell’oblio il suo erede così perbene. L’altare di Maradona però resta cristico, un luogo di dolore e di trasfigurazione del male in bene e viceversa, mentre il palco di Messi è laica rappresentazione di una sfilza di successi sportivi, niente di più ovvio e disincantato. La questione non è scegliere l’idolo giusto, gli idoli sono loro a scegliere gli idolatri”.

G.Zon. per “la Stampa” il 20 dicembre 2022.

Gli arabi si sono presi Messi e lo hanno vestito a festa per piazzare la sua foto nel loro album di famiglia, una rappresentanza forzata che lascia strascichi: così la parentela diventa disfunzionale. L'emiro Tamim veste l'uomo simbolo dei campioni del mondo con il tradizionale bisht, il soprabito nero trasparente che nel Golfo usano i reali e i politici di alto rango. Per il Comitato Supremo che gestisce l'organizzazione, l'investitura è un semplice omaggio, peccato che somigli a un'appropriazione.

E nel Mondiale che mischia arabi e africani, mette in campo 136 giocatori nati in un Paese diverso da quello della loro nazionale pare un clamoroso passo indietro. Il calcio è fluido, pure se si resta alla logica dei soldi. Messi viene pagato dal fondo del Qatar al Psg ma l'Argentina non rientra nel pacchetto. Altrimenti sarebbe stata quantificata. L'Adidas che paga come sponsor mondiale e pure come marchio legato a Messi non ha gradito che il logo fosse oscurato dal bisht nel momento clou, per lo scatto che resta. E persino Infantino che a Doha ha preso casa e ci vuole lasciare un quartier generale Fifa, ha fatto una smorfia. Se è troppo per lui, è di sicuro un gesto molto oltre.

Arianna Ravelli per il “Corriere della Sera” il 20 dicembre 2022.

La finale dei Mondiali coincideva, forse non per caso ma per una regia studiata da anni, con la festa nazionale del Qatar: 18 dicembre 1868 quando Jassim bin Mohammed al-Thani, antenato dell'attuale emiro, ha riunito le tribù. Quello che ai qatarini era sfuggito è che il 18 dicembre è anche la giornata internazionale dei migranti, coloro che a decine di migliaia hanno costruito le infrastrutture dei Mondiali e che, in un numero difficile da quantificare (non inferiore a 6.500 secondo le Ong) sono morti nei cantieri. 

Insomma fino all'ultimo fotogramma questo Mondiale è riuscito a tenere tutto assieme, il calcio al suo massimo livello (Leo Messi che finalmente vince il Mondiale), con la volontà di potenza del Qatar e le sue contraddizioni. Certo, vedere il capitano campione del mondo che solleva la Coppa non solo con la maglietta della sua Nazionale ma anche con un mantello tipico (il «bisht», lungo mantello, spesso nero, con rifiniture in vero oro che viene indossato nei Paesi del Golfo nelle cerimonie) è uno spottone al Qatar che neanche tutte le agenzie di pubblicità al mondo avrebbero potuto inventare: un po' come mettere il proprio marchio nel momento cruciale, e dire a Messi «sei il protagonista del nostro spettacolo».

Quando l'emiro (che indossava lui stesso il «bisht») l'ha messo sulle spalle di Messi (commenti dei social «Sembrava Harry Potter» o «Sembrava Santi Licheri», il giudice di Forum), il campione sembrava un po' rigido, ma è stato solo un momento: certo non poteva sottrarsi (e i più cinici hanno pensato che non dispiacesse al mega contratto da testimonial dell'Arabia Saudita). 

I fotografi (e l'Adidas) avrebbero preferito restasse con la camiseta albiceleste, e in teoria così avrebbe dovuto preferire anche Gianni Infantino, il presidente Fifa, che vuole sempre tenere il calcio al riparo da tutto e invece si gustava la scena sorridente. È vero che il mantello non è un simbolo politico, ma un indumento tradizionale (un modo, dicono, anche per rendere omaggio a Messi) e che anche i piloti di F1 vanno sul podio con sombreri e colbacchi ma trasformare la vittoria di Messi in quella del Qatar, beh potevamo farne a meno.

Giancarlo Dotto per La Gazzetta Dello Sport il 20 dicembre 2022.

Sipario. Finisce come doveva finire. Crollano tutti a terra come burattini di una storia più grande per loro. Più esausti che felici o infelici. Argentini e francesi. Pulci e colossi. Ma anche italiani, turchi, arabi, nepalesi, senegalesi e spagnoli. Milioni nelle case, nelle piazze e nei bar, a centinaia negli studi tivù, quelli che non hanno trovato le parole per dirlo. Stecchiti. 

Dopo due ore e mezzo di spettacolo crudele e, a tratti, insostenibile. Centocinquanta minuti mai visti primi in uno stadio di calcio, di tutto e il contrario di tutto, di caos molecolare e mostruosa bellezza, quando la bellezza è pescare chissà dove energie che non immaginavi di avere. E alla fine solo lacrime. Per tutti. Una liberazione. 

Leo Messi, ex genio autistico, ora leader che trascina le folle e apre le acque, cede alla tentazione di credersi Dio. Sa di contare sulla benedizione di Papa Francesco. Cerca la famiglia nel formicaio impazzito. Tutti i suoi compagni argentini cercano le famiglie come per ancorarsi a qualcosa di reale, dopo il sogno che stava diventando incubo. I francesi non cercano le famiglie, ma trovano Macron. Kylian Mbappé è una tartaruga improvvisamente centenaria.

Fino ai match da eliminazione diretta il mondiale 2022 è ancora calcio, per quanto misto a furore. Poi solo furore. Un reality estremo, la versione calcistica di Squid Game. 

Dentro o fuori, vita o morte. Botte da orbi. Otto campi da gioco diventano un mondo a parte, spazi protetti modellati sulle tende beduine dove darsele di santa ragione, sotto gli occhi delle telecamere e di arbitri compiacenti, dotati di cartellini rossi, ma con il veto di estrarli dal taschino, pena la radiazione. 

Dagli ottavi in poi, è puro romanzo, psicodramma senza terapia plausibile che non sia passare al turno successivo. L’incandescenza deforma i lineamenti. Gente trasfigurata, facce stravolte. Irriconoscibili. Non solo gli occhi spiritati e le guance scavate di Modric, sempre, quelli di Antoine Griezmann in finale. L’occhio da folle invasato, la faccia da lupo, mai visto prima, di Leo Messi. Che accetta finalmente la sfida con il fantasma di Maradona. Che non è in cielo, né in terra e in nessun luogo, solo un pugno di cenere. Più minaccioso che mai. Pargoletti in calore e vecchi in trance. 

Il figlio di Perisic che consola un Neymar affranto, invecchiato di venti anni. Marquinhos che collassa come un fantoccio fulminato a terra dopo il rigore sbagliato. I tre spagnoli che, guardali, hanno già sbagliato il loro rigore ancora prima di tirarlo. Le lacrime delle donne, tutte bellissime, sugli spalti. Baionette acute e moleste. Giapponesi che ti infilzano al grido di banzai.

E la mestizia offesa di Cristiano Ronaldo in panchina. Chiamato a sciogliere il suo rebus gigante. Come fa una divinità a gestire la sua decadenza in mondovisione? C’è uno stile adeguato per questo?  Cerca istruzioni, non le trova. Si confonde. Si demoralizza. Mentre davanti a lui insiste il sorriso incomprensibile di Bono, il portiere marocchino. Un ghigno da Joker. O, forse, è solo una faccia divorata dall’ansia. Marocco contro Portogallo, un match selvaggio. Lo Scorsese sanguinario di Gangs of New York. Scontri a mani nude. Ragazzi devastati dalla fatica. O, forse è dolore. Bruno Fernandes, alla fine, è solo due occhi enormi che galleggiano nella desolazione. I tic facciali di Fernando Santos in panchina si moltiplicano. Non è più un uomo, è un flipper impazzito. Bufal rapisce la vecchia madre e danza con lei al centro del campo.

Argentina contro Olanda. All’ultimo respiro. Rosse da saloon. Quindici ammoniti. Violenza pura, catartica. Il Sam Peckinpah di Mucchio selvaggio. Leo Messi cerca l’odiato sulla panchina arancione, il totemico Van Gaal e gli ringhia sotto. Mai visto prima. Un altro Leo, Leandro Paredes. 

Occhi da killer siberiano, prova a decapitare con una pallonata isterica l’intera panchina olandese. “Immagini che non vorremmo vedere” recita il bravo telecronista in versione sacrestia, ma tutti, buoni e cattivi, laici e credenti, sono invece felici di vederle, non si saziano mai. Di vedere nani come Otamendi e Lisandro Martinez arrampicarsi assatanati su perticoni pallidi o neri, il doppio di loro. Mali e malori. I supplementari, un deliro. Muore un giornalista americano in tribuna. Gli argentini esultano in faccia agli olandesi. Finirà in una mattanza?

Disperazione. Mani nei capelli. Vesti stracciate, Occhi che non vogliono guardare, occhi che non credono a quello che vedono. I marocchini si battono alla morte contro i non amati francesi. Non è un modo di dire, ma un modo di morire. Vedi leggiadri ed efebici campioni, Messi, Ziyech, Griezmann ammazzarsi di fatica come somari qualunque. I tic. Le preghiere. Le suppliche. Le unghie divorate. Le lacrime. Ancora Cristiano Ronaldo, lui da solo e le sue lacrime in fondo al tunnel. Sono la fine grandiosa di una storia grandiosa? Il grottesco è lì che marca stretto il tragico. Sfuma l’immagine dolente di Cristiano e passa lo spot in cui lo stesso Cristiano comunica raggiante “Insieme possiamo cambiare il mondo”.

E poi, l’ultimo romanzo prima della parola fine. “Missione compiuta”, si dice Leo, sempre più simile a Dracula, il sangue negli occhi e una nazione alle spalle. Mbappé ci prova a rovinarlo e quasi ci riesce. Partita folle. L’Argentina per settanta minuti è solo Di Maria e recondita armonia. Francesi sbranati che sembrano animali imbalsamati, comparse di una scena muta e diventano, improvvisi, assassini. Folla. Mai sta così follia. Sventrati dalle emozioni. Piccone e cachemire. Sono i Sex Pistols e Carlos Gardel, un francese che canta e danza argentino. Persino Jorge Valdano se la ride.

Fabrizio Biasin per “Libero quotidiano” il 19 dicembre 2022.  

A un bel punto dei festeggiamenti per il trionfo argentino, la Rai manda in onda lo speciale della Bobo tv per celebrare i neo campioni del mondo. "Dai ragazzi! Fateci divertire! Forza! Siamo con voi!". Cioè, si tratta del programma più cool dell'universo twitch che Viale Mazzini ha pensato di "importare" - ovviamente pagandolo, ovviamente con il nostro grano - per darci un mix di competenza, sfrontatezza, giusta ilarità. 

Sì, ecco, diciamo che le clip messe in onda fin qui non sono state tutta 'sta bellezza, pareva dovessero farci un piacere, ma ora i nostri beniamini hanno la possibilità di rifarsi con il trionfo di Messi! Ci sono tutti, Vieri, Ventola, Cassano e Adani che di Messi è biografo auto-eletto! Tocca a voi!

Pronti, via: va in scena un teatrino pre-registrato, pre-cotto, assai tristanzuolo, fatto di frasi fatte e senza alcun riferimento alla finale. Insomma, tutto totalmente inutile. Se avesse vinto la Francia avrebbero inserito la "cassetta" pre registrata della Francia e stop. Ecco, passi che le clip non sono state tutta 'sta meraviglia, passi che twitch e tv sono due mondi diversi, ma a tutto c'è un limite: la presa per il culo post trionfo - anche solo per una questione di amor proprio- potevano tranquillamente evitarla.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 19 dicembre 2022.

Record di ascolti per i Mondiali di Calcio in Qatar: Rai1 ha ottenuto ottimi risultati, quasi insperati visto che non giocava l'Italia. Gli orari hanno penalizzato il Tg1, fatalmente a favore della concorrenza (strano che il cdr del Tg1 non abbia scritto un comunicato contro lo «sfregio» arrecato all'informazione dal calcio). 

Ancora una volta, la tv generalista dimostra la sua forza quando diventa evento, ritualità, condivisione, quando ritrova quella funzione di «orologio sociale» che ha svolto per molti anni in tutto il mondo. La Rai ha puntato su Rai Play come supporto all'evento, forse per conquistare i più giovani, ma i risultati non sono stati quelli auspicati (forse gli highlights erano troppo lunghi?).

Stupisce invece che sia stato sacrificato il canale di Rai Sport che avrebbe potuto essere sfruttato per alcuni eventi «minori» o per rubriche di vero approfondimento (se no, perché tenerlo?). 

Si è parlato molto di telecronache. Da tempo auspico un modo nuovo di raccontare i fatti ma, per come sono andate le cose, Lele Adani è stato un metro sopra tutti gli altri (ha persino regalato una scarica di adrenalina a Stefano Bizzotto che prima usava un registro catastale nel racconto). 

Sconcertante la scelta come seconda voce di Andrea Stramaccioni, allenatore di una squadra qatariota. È arrivato persino a dichiarare in un'intervista che «il Qatar è capofila tra i Paesi islamici per l'apertura ai diritti civili». Spero che qualcuno, chi l'ha scelto, gli chieda conto di queste parole. Sabato e domenica, quando si giocavano le partite più importanti, non è più andato in onda sulle generaliste Rai «Il Circolo dei Mondiali». 

La trasmissione era così brutta, così scentrata che ha preferito traslocare su Rai Play, in punta di piedi. Capire che si è sbagliato, se pur tardivamente, non prendersela con il mondo intero, non insultare è comunque segno di assennatezza.

Francesco Barana per corrieredelveneto.corriere.it il 20 dicembre 2022.

Il chiacchiericcio impazza. E i social, tra meme, post e commenti, ironie e parodie, ci sguazzano su. Ma la dicotomia tra la proverbiale sobrietà di Stefano Bizzotto e l’esuberanza a volte fuori dalle righe di Lele Adani — seconda voce del giornalista bolzanino nelle telecronache Rai ai Mondiali del Qatar — alla fine è più un cliché narrativo dell’immaginario comune che realtà. Bizzotto, 61 anni, professionalmente al suo settimo Mondiale («il primo nel 1990 per la Gazzetta dello Sport, poi dal 1998 per la Rai», ricorda) e reduce dal racconto della finalina Croazia-Marocco, al telefono da Doha se la ride: «Hanno voluto creare una contrapposizione tra me e Lele che non esiste. Anzi, siamo complementari, lui esperto di calcio sudamericano, io appassionato di quello mitteleuropeo». 

C’è poi anche un pizzico di insospettabile (e auto-ironica) vanità in Bizzotto: «Lele è uno divisivo, piace o non piace, ma fa parlare di sé e grazie a lui ho avuto maggiore risonanza anch’io. Magari se avessi avuto accanto una seconda voce più cerchiobottista in pochi si sarebbe accorti di noi». E invece, in assenza della nostra Nazionale, in Italia da qualche settimana si parla quasi più di Bizzotto-Adani che dei Mondiali che si giocano in campo…«Ma Lele è un grande conoscitore di calcio. È un entusiasta, lo apprezzo molto». 

Lo rimproverano di essere troppo tifoso. Lei che ha fama di essere giornalista equilibrato e imparziale, che cosa dice al proposito?

«Guardi, ho letto un pezzo di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, inviato qui a Doha, che ha scritto che tifa Argentina. Perché non può farlo Adani? È umano avere delle simpatie, dei sentimenti. Ma ricordo che Lele non “vede” soltanto Argentina o Messi, nelle telecronache è stato molto equilibrato nel sottolineare i meriti dell’Olanda e di un campione come Modric della Croazia».

Finale Francia-Argentina. Chi vince?

«Dipende da come si alzano dal letto Messi e Mbappé, i grandi fuoriclasse delle due squadre». 

La Francia pare avere qualcosa in più, ma lei l’Argentina l’ha vista da vicino.

«L’Argentina, a differenza della Francia, è in crescita, contro la Croazia ha disputato una partita di grande livello, a differenza di quelle precedenti. La Francia invece contro il Marocco ha fatto fatica, ma recupera Rabiot, che è il direttore d’orchestra della squadra. E poi, oltre a Mbappé, ha Griezmann che è straordinario, senza dimenticare Giroud». 

Capitolo Marocco: una sorpresa o la conferma che la globalizzazione ha reso il calcio per tutti?

«Mi ha sorpreso, io delle africane puntavo sul Senegal. Però è anche vero che non siamo più alla favola del Camerun di Roger Milla nel ’90 che sfiorò la semifinale nei quarti con l’Inghilterra. I calciatori del Marocco giocano tutti in Europa, alcuni in grandissimi club, vedi Hakimi del Paris Saint Germain, Mazraoui nel Bayern Monaco e Ziyech nel Chelsea». 

Che Mondiali sono stati?

«Anomali perché giocati a cavallo di novembre e dicembre, dunque nel pieno della stagione agonistica dei calciatori, che sono arrivati a Doha con solo 22-23 partite sulle gambe e quindi freschi. In genere li giochi in estate dopo 50 partite stagionali. La morale è che abbiamo visto grandi prestazioni sul piano fisico, ma un tasso tecnico generale non eccelso. Sono mancati i dribbling, i duelli uno contro uno, che invece si sono visti nel Marocco e in fuoriclasse come Messi e Mbappé che con le loro giocate hanno risolto le partite». 

L’Italia come si sarebbe comportata?

«L’Italia non si è qualificata perché ha mostrato limiti offensivi e ha sbagliato troppo nelle partite determinanti, ma non la ritengo inferiore alla Croazia. E la nostra serie A è in salute, tanti calciatori di questo Mondiale giocano da noi, compresi sette finalisti: Theo Hernandez, Giroud, Rabiot, Paredes Di Maria, Lautaro Martinez, Dybala».

Antonio Barillà per “la Stampa” il 20 dicembre 2022.

Cartoline albicelesti. Non tutte positive. Della coppa alzata dopo 36 anni, non rimarranno solo immagini festose. La storia del calcio tramanderà il pallone scagliato con violenza da Paredes contro la panchina dell'Olanda e, dopo l'ultimo rigore, l'irrisione degli oranje sconfitti: provocazioni e sberleffi verso un avversario in ginocchio, estromesso ai quarti di finale. Stona sempre, il calcio ha una sua etica, ma ancor di più nel Mondiale degli abbracci: l'immagine del piccolo Leo, figlio di Perisic, che consola Neymar dopo l'eliminazione con la Croazia rende ancora più imbarazzante e becera la reazione argentina.

Il ct Scaloni, dopo la corrida, si ribella pubblicamente al ritratto di squadra rissosa, ricorda precedenti concilianti e riduce tutto, semplicisticamente, alla tensione che certe sfide possono generare. Difficile chiuderla così, derubricare ad eccesso d'agonismo un'evidente mancanza di rispetto, interpretata anche da Messi, il capitano, che porta le mani alle orecchie davanti a Van Gaal e, alla fine, apostrofa Weghorst in diretta: «Que mira, bobo? Cosa guardi, scemo?».

Si bisbigliava: l'Argentina non sa perdere. Pregiudizio, probabilmente, però costruito su evidenze: si ricorda ancora la rissa scoppiata dopo la sconfitta con la Germania nel 2006. Poi, certo, c'era chi già banalizzava e invocava l'alibi della passionalità, del carattere focoso, dell'attaccamento eccessivo alla maglia. Dopo il Qatar, si diffonde una sensazione nuova, più triste e grave: l'Argentina non sa nemmeno vincere.

Perché ai quarti il peggio s' è visto quando i rigori avevano ormai condannato l'Olanda e perfino con la Francia, dopo una finale meravigliosa vinta, certe brutte scene si sono ripetute. Smontando, fra l'altro, la teoria della Seleccion, poveretta, caduta nella trappole dialettiche tese ad arte dal diabolico Van Gaal. Quando Montiel segna l'ultimo penalty e tutti lo rincorrono impazziti di gioia, Lautaro Martinez si stacca dal gruppo e punta, sbraitando, i francesi attoniti, paralizzati a metà campo. Imperdonabile. E più di Emiliano Martinez, non tanto per i trucchetti usati al momento dei rigori allo scopo di innervosire gli avversari, quanto per il gesto volgare cui si lascia andare durante la premiazione come miglior portiere del torneo.

I tifosi bleus lo fischiano, è vero, ma non c'è provocazione che tenga. «Con me l'arroganza non funziona» la dichiarazione a discolpa: nessuna obiezione, sappia però che assai meno funziona la maleducazione. Reiterata anche nello spogliatoio, intrisa nel cattivo gusto, quando, nel mezzo dei festeggiamenti, chiede un minuto di silenzio per Mbappé. È la prova finale: l'Argentina non sa vincere.

L’altro Mondiale: cronache assurde da Qatar’22. Enrico Phelipon su L'Indipendente il 20 Dicembre 2022

Benvenute e benvenuti alla quarta e ultima puntata de l’altro Mondiale, tenete duro, mancano solo 3 anni e mezzo alla prossima Coppa del Mondo. Quella che si terrà nel 2030 in Messico, Canada e l’altro paese nel mezzo tra i due. La finale di Qatar 2022 si è giocata domenica 18 dicembre, tra Argentina e Francia. Bellissima partita, finita ai calci di rigore dopo il 3 a 3 dei tempi supplementari. Ha vinto l’Argentina ed è una mezza vittoria anche per l’Italia visto il legame storico tra i due paesi. Una finale che a casa di diversi parlamentari europei deve aver assunto un altro sapore, visto lo scandalo scoppiano nel frattempo. Ormai saprete che ne hanno arrestati diversi per corruzione. In pratica questi parlamentari avrebbero preso dei soldi per fare lobbying in favore del Qatar. La gran protagonista della vicenda, la greca Eva Kaili, è stata fermata con un sacco di denaro contante in una valigia. Contante guadagnato duramente col sudore… avendo avuto il coraggio di dichiarare da Vice Presidente del Parlamento Europeo come il Qatar fosse un paese paladino dei diritti dei lavoratori.

Ma torniamo al calcio giocato, l’altra finalista era la Francia, che aveva raggiunto la finale battendo il Marocco per 2 a 0. La squadra nordafricana ha di certo vinto il premio di gran sorpresa e squadra simpatia della competizione, avendo sconfitto la Spagna prima e il Portogallo poi, prima di arrivare alla semifinale. I festeggiamenti della comunità marocchina per le vittorie della loro nazionale avevano fatto discutere nel nostro bel paese, risultato meno simpatici ai più. Danneggiamenti a Milano e aggressioni neo-fasciste subite a Verona. Non è andata bene nemmeno all’estero dove i festeggiamenti, nelle scorse settimane, erano sfociati in veri e propri disordini. Tanto che in vista della partita Marocco – Francia, a Parigi avevano predisposto un cordone di forze dell’ordine tale che sembrava dovessero contenere la rivoluzione d’Ottobre. Un gran casino c’era anche nelle formazioni delle due squadre, 13 francesi con origini africane, 10 marocchini nati in Francia. I disordini in Francia sono riesplosi anche domenica sera, dopo la sconfitta in finale, quando sono stati riportati tafferugli e scontri in diverse città. A Buenos Aires invece erano circa un milione a festeggiare per le strade, forse di più. Io vi vedo che sorridete, non sta bene crogiolarsi delle sconfitte altrui. Bisogna cercare di essere sportivi sempre, anche con i francesi. Come il portiere argentino Emi Martinez che ha esibito in maniera sobria il premio come miglior portiere della competizione.

Parlando di sportività mi pare giusto spendere due parole anche sulle squadre che hanno lasciato dalla competizione ad un passo dalla possibile vittoria: Brasile e Inghilterra. La settimana scorsa agli inglesi non è andata proprio benissimo. Sconfitta con la Francia, sbagliando un rigore nei minuti finali. Londra bloccata da una nevicata, scioperi all’orizzonte e pare che il principino Harry non verrà invitato alla cena di natale nella tenuta di Sandringham. ‘Sta cosa l’ho sentita al telegiornale, per caso, e mi sto ancora chiedendo perché un tiggì italiano ci debba raccontare tali questioni. I media brasiliani invece si sono concentrati sulle cose serie, dando spazio all’ipotesi che la sconfitta della Seleção sarebbe derivata dalla maledizione del gatto. Un tizio dello staff della nazionale brasiliana, durante una conferenza stampa, ha gettato per terra un gatto che si era appisolato sul tavolo davanti ai microfoni. Il gatto sta bene, non si è fatto niente ed è diventato un star. Alcune associazioni animaliste però hanno fatto causa alla Federazione Calcio Brasiliana chiedendo scuse pubbliche, proponendo un corso di diritto animale per tutti i dipendenti della federazione e una multa di 180.000 euro.

Ci mancava che chiedessero la pena di morte. La stessa che in Iran stanno subendo parecchi giovani, gli ultimi sono due ragazzi arrestati durante le proteste che infiammano il Paese. Le esecuzioni hanno suscitato indignazione in tutto il mondo occidentale. Giustamente. La pena di morte in Italia è stata abolita nel 1889, reintrodotta durante il fascismo e abolita definitivamente nel 1947. Però ci sta ricordare che la pena capitale esiste ancora in 144 paesi del mondo, alcuni dei quali sono alleati o partner anche della nostra Repubblica. Tuttavia, quando le portano a termine loro, si sta zitti. Negli Stati Uniti ne sono state eseguite 17 nel 2022, altre 65 sono in programma e ci sono 2.436 persone in attesa nei “bracci della morte” delle varie carceri americane. Per questi quante volte avete sentito indignarsi un politico nostrano?

Ma basta parlare di cose brutte che ormai è Natale, cerchiamo di essere positivi. Positivi come il tal Panzeri anche lui parlamentare europeo indagato per corruzione. La foto sopra, diffusa dalla polizia belga, immortala il denaro sequestrato a casa sua e della vicepresidente Kaili. “Italiani e greci, stessa faccia stessa razza”, espressione, ancora usata e dall’origine incerta, che rimanda a una comunanza di valori e di atteggiamenti tra i due popoli che va al di là delle contingenze storiche. Tra la Kaili e Panzeri evidentemente la comunanza era più di valore che di valori. Dato che i valori e diritti che avrebbero dovuto difendere come rappresentanti della sinistra europea a quanto pare stavano in vendita al migliore offerente. Per fortuna qualcuno che difende i valori ancora c’è, ha una certa età e non è di sinistra, ma sulle battaglie importanti non si è mai tirato indietro. Durante la cena di natale della sua nuova squadra di calcio non ha infatti esitato a difendere il suo Diritto all’Eleganza.

Il diritto all’eleganza evidentemente stava molto a cuore anche ai reali del Qatar, prima della premiazione l’emiro Al Thani ha fatto indossare a Messi un grembiulino nero stile Harry Potter.

La mantellina si chiama Bisht, ed è un abito tradizionale dei paesi del Golfo Persico che caratterizza gli uomini di un certo rango. Sarebbe stato meglio vedere Messi indossare una tuta blu da operaio, ma sappiamo bene quale era il loro “rango” in Qatar. Per fortuna il mondiale è finito, da domani nessuno si ricorderà più della condizione dei lavoratori, che in Qatar potranno continuare a trattare come degli schiavi senza i giornalisti stranieri a rompere le scatole. Che poi non è che lo abbiano fatto molto nemmeno da inviati per l’evento. [di Enrico Phelipon]

Il delirio dell'Argentina. Messi dribbla la politica e non nasconde la crisi. La squadra campione del mondo si concede ai tifosi ma dice no all'invito del president. Paolo Manzo il 21 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Più di 4 milioni di persone vestite di bianco e azzurro, i colori dell'Argentina, ieri sono scese in piazza per celebrare il terzo titolo mondiale dell'Albiceleste. Strapieni di folla l'Obelisco e la Plaza de Mayo mentre la 25 de Mayo, un'autostrada da cui passava l'autobus scoperto di Messi e compagni, è stata invasa da decine di migliaia di «fanáticos» dopo che l'AFA, la federazione calcistica del paese del tango, aveva annunciato che i giocatori avrebbero salutato ad un incrocio. Per la troppa folla e la pessima organizzazione statale, con tutta Buenos Aires bloccata e la metropolitana chiusa, alla fine molto pochi ieri sono riusciti a vedere i loro campioni. Il bus (5 giocatori che erano sul tetto del pullman hanno evitato in extremis di essere fulminati dai cavi dell'alta tensione del tram) non ce l'ha fatta a raggiungere né l'Obelisco né Plaza de Mayo.

L'autobus scoperto dell'Albiceleste non ha così potuto percorrere il percorso che era stato programmato, tanto da rendere necessario il trasbordo in elicottero che è avvenuto, «per ragioni di sicurezza», in una base militare. Alla fine, in serata, la comitiva è giunta alla sede dell'AFA (il cui presidente, Chiqui Tapia, si è scusato per «non aver potuto salutare tutte le persone che erano all'Obelisco») per la cena di gala con famigliari e dirigenti.

Niente visita invece di Messi&Co. alla Casa Rosada, dove li aspettava impaziente il presidente Alberto Fernández, non molto amato da gran parte dei campioni del mondo che hanno così evitato di farsi strumentalizzare.

Il kirchnerismo al governo, ovvero l'ala più sinistrorsa del peronismo, aveva infatti predisposto ieri una studiata «operazione di propaganda» perché i campioni salutassero la folla accorsa dallo storico balcone adorato da Juan Domingo Perón, Evita e, naturalmente, dalla vicepresidente Cristina Kirchner, condannata qualche giorno fa a 6 anni di carcere per corruzione. Messi ha dunque fatto un pernacchio al gotha kirchnerista che, in tutta risposta, ha cominciato a festeggiare sui social... Maradona.

I campioni del mondo tornati ieri a Buenos Aires hanno «trascorso 34 giorni, 816 ore lavorando e allenandosi», sottolinea il celebre giornalista Eduardo Feinmann «e rappresentano un esempio perché la nostra leadership politica veda cos'è la dedizione, lo sforzo e il lavoro necessari per migliorare la nostra società».

«È destino che l'Argentina vinca i mondiali quando c'è bisogno di fare distrarre el pueblo da problemi ben maggiori» si sfoga Giuseppe «Juan» Abrate, un pensionato i cui bisnonni emigrarono dalla provincia di Cuneo. Oggi in Argentina la povertà sfiora il 50%, con quasi 20 milioni di persone indigenti. Il paradosso è che l'Argentina potrebbe produrre cibo per 400 milioni di persone.

Bene dunque il trionfo in Qatar ma che non serva a dimenticare la realtà di un paese che, dopo la festa di ieri, deve affrontare il dramma del suo pueblo.

Dieci cose su Leo Messi che forse non sapete ancora. Dopo la vittoria in Qatar, sono molti a considerarlo il più grande di sempre. Per non farsi prendere dall'entusiasmo del momento perché non guardare ad alcuni tra i tanti fatti pazzeschi che hanno reso Lionel Messi un campione davvero unico? Luca Bocci il 25 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Dopo aver finalmente alzato al cielo la coppa più bella, quasi tutti si sono sperticati in lodi quasi imbarazzanti del talento di Rosario, la “Pulga Atomica”, il nuovo re del calcio mondiale. Forse è il caso di guardarsi indietro e provare a mettere più a fuoco qualcuno dei numeri della incredibile carriera di Lionel Messi. Ecco qui dieci fatti tra i più impressionanti della lunga strada che ha portato Leo dai campetti della sua Argentina al trionfo dell’Iconic Stadium di Losail.

Quanti gol ha fatto in carriera?

Quella che può sembrare la domanda più semplice del mondo ha però bisogno di qualche ricerca per fornire un verdetto definitivo. Come successo peraltro con il marcatore più prolifico di tutti i tempi, quell’Edson Arantes do Nascimiento meglio conosciuto come Pelè, ci sono diverse controversie, dovute al fatto di considerare o meno le reti segnate anche in partite amichevoli. Visto che da qualche tempo le autorità del calcio hanno deciso di chiarire un attimo le cose, la situazione della Pulga è piuttosto chiara. Questo però non rende meno impressionante il suo bottino, specialmente se visto accanto al numero di partite giocate. Messi è il migliore marcatore della Liga spagnola, con il record di reti segnate per la stessa squadra, il Barcellona: l’enormità di 672 gol in 778 partite. Visti gli infortuni ed il numero di stagioni disputate all’ombra della Tour Eiffel, il raccolto è stato meno impressionante: 23 reti in 53 partite. Con la maglia dell’Albiceleste le cose sono invece andate meglio: 98 reti in 173 partite. I totali sono da libro dei record: 793 reti in 1004 partite, una montagna da scalare per i giovani leoni che sognano di scalzarlo dal trono del calcio.

Quanti Palloni d'Oro ha vinto?

Ora, sebbene siano in molti a storcere la bocca e ricordare come il famoso Pallone d’Oro sia “solo” il premio messo in palio dal 1958 da un giornale francese, “France Football” e che quindi non sia certo l’unica autorità in materia, è innegabile che l’iconico trofeo sia il sogno nemmeno troppo nascosto di chiunque inizi a tirare calci ad un pallone. La lista dei vincitori è una specie di Hall of Fame dei grandi del calcio, con la sola clamorosa assenza del grandissimo Ferenc Puskas. Nessuno però ne ha collezionati tanti quanti il rosarino: addirittura sette, otto se si considera già chiusa la competizione per la stagione in corso. Dall’anno scorso, infatti, non si considera più l’anno solare ma la stagione calcistica. Ora, il fatto che negli ultimi anni questa competizione sia diventata un feudo di Messi e Cristiano Ronaldo è per molti prova che sia più una gara di popolarità che un modo per valutare accuratamente i meriti sportivi di un calciatore ma tant’è. Possibile che gente del calibro di Alfredo di Stefano o Johan Cruyff ne abbiano meno della metà della Pulce? È davvero due volte più bravo di Michel Platini? Comunque la pensiate, le cose stanno così, alla faccia dei nostalgici del calcio di una volta.

Quanto guadagna davvero?

Se sono fin troppi coloro che tessono le lodi del capitano dell’Argentina, dipingendolo come una specie di capopopolo, un Maradona reincarnato, basta dare un’occhiata al bilancio della multinazionale Messi per rendersi conto che di popolare la Pulga ha davvero poco. Avere numeri precisi in questa materia è quasi impossibile, ma le stime fatte dalla rivista specializzata americana Forbes sono abbastanza affidabili. Secondo i colleghi d’oltreoceano, Leo sarebbe lo sportivo più pagato al mondo, raccogliendo la ragguardevole cifra di 130 milioni di dollari all’anno. Oltre al principesco stipendio di oltre 35 milioni di dollari all’anno che riceve dal Paris Saint-Germain, l’anno scorso incassò altri 25 milioni come bonus una volta firmato il passaggio dal Barcellona. Aggiungi altri milioni di premi partita e si arriverebbe a 75 milioni, più di ogni altro atleta al mondo. Come si arriva a 130? Con i guadagni dalle varie sponsorizzazioni, campo nel quale la Pulce è terza dietro alle superstar di tennis e basket Roger Federer e LeBron James. Il totale? 55 milioni dall’anno. 20 milioni dalla società di criptomonete Socios, il resto da multinazionali del calibro di Adidas, Budweiser e Pepsi. Fare il capopopolo seduto su un patrimonio da 620 milioni di dollari viene più facile. Magari sarebbe il caso di ricordarlo a chi vorrebbe farlo passare come un eroe del popolo invece della enorme impresa che è.

Dove giocherà nel 2023?

Se anche le pietre sanno che il capitano dell’Argentina gioca nella collezione di figurine più costosa al mondo, il PSG della famiglia dell’emiro del Qatar, non molti sono consci del fatto che, nel passare dal Barcellona, la Pulce firmò un biennale, che scade il 30 giugno 2023. Nel contratto c’era anche la possibilità di estenderlo di un anno ma non in maniera automatica, come succede nella Premier, ma solo con l’accordo di entrambe le parti. Alla luce di quanto visto a Doha, ovviamente la questione è tornata di attualità, tanto da far scatenare una ridda di voci sulla futura maglia del rosarino. Le offerte non mancherebbero: dal fascinoso ritorno al Camp Nou al passaggio all’ambiziosa MLS, più specificamente al ricco Inter Miami di Beckham e soci, che non vedrebbe l’ora di vederlo prendere il posto di Gonzalo Higuain. A complicare il ritorno in azulgrana sarebbe il limite ai salari imposto dalla Liga mentre il trasferimento in America sarebbe prematuro per uno che ha appena vinto il mondiale. Più facile, quindi, che il PSG decida di fargli un’offerta irrinunciabile per averlo almeno un altro anno al Parco dei Principi, cosa che potrebbe liberare l’altro fenomeno rouge-et-bleu, Kylian Mbappè, per un fantasmagorico passaggio alla Casa Blanca. Come andrà a finire davvero, onestamente, non credo lo sappia nemmeno Leo. Vedremo.

Quante Champions ha vinto?

Questa è facile: quattro, tutte con il Barcellona, visto che verso la coppa dalle grandi orecchie il Paris Saint-Germain ha una vera e propria allergia. Forse più interessante il confronto con l’eterno rivale, Cristiano Ronaldo, che alle quattro vinte con la camiseta blanca del Real Madrid aggiunge quella alzata da giovane alla corte di Sir Alex Ferguson. Dato che, a meno di qualche improbabile accordo dell’ultimo minuto, CR7 difficilmente potrà giocarsi la Champions di quest’anno, alla Pulce rimane la possibilità di pareggiare i conti quest’anno. La doppietta Champions-Mondiale è un’impresa riuscita davvero a pochi calciatori e gli garantirebbe con assoluta sicurezza di allungare anche nel derby del Pallone d’Oro nei confronti del portoghese. Anche in quanto a scudetti, Messi batte CR7 con un convincente 11 (10 Liga, 1 Ligue 1) a 8 (3 Premier League, 3 La Liga, 2 Serie A).

Quando e dove è nato?

Lionel Andres Messi Cuccittini è nato il 24 giugno 1987 nella città di Rosario, nell’Argentina centrale, a parecchie ore di distanza dalla capitale Buenos Aires. Come successo al dirimpettaio CR7, non è che la sua famiglia se la passasse benissimo dal punto di vista economico. Il padre lavorava come operaio in un’acciaieria mentre la madre dava una mano al budget familiare pulendo le case delle famiglie più ricche. Come spesso capita nel paese sudamericano, entrambi i lati della famiglia sono di origini italiane. Il padre, Jorge Horacio Messi è ultimo erede di Angelo Messi, partito da Recanati (Macerata) nel 1883. La madre, Maria Celia Cuccittini è ultima discendente di una famiglia di emigrati di San Severino (Macerata), giunta in Argentina dopo aver cercato fortuna in Brasile. Il nome originario della famiglia Cuccittini era, infatti, Coccettini e proveniva proprio dalla cittadina marchigiana. Insomma, se le cose fossero andate in maniera diversa, la “Pulce atomica” avrebbe potuto vestire la maglia azzurra.

Chi è più forte, Maradona o Messi?

La domanda da millemila miliardi di euro, tanto affascinante quanto impossibile da rispondere. Paragonare giocatori di epoche diverse è un esercizio profondamente futile, visto che il calcio, come tutto al mondo, non è mai uguale a sé stesso. Quale criterio poi usare per mettere a confronto giocatori tutto sommato molto diversi? Gol segnati? Messi ha gonfiato la rete più del doppio delle volte di Maradona. Trofei vinti? Anche qui non c’è paragone: Messi vince a mani basse, dalle Champions ai titoli nazionali. Finora Diegol era avanti per essere riuscito ad alzare al cielo la coppa più bella ma da qualche giorno la Pulga ha colmato anche questa lacuna.

Diego, però, aveva iniziato molto prima, debuttando con l’Argentinos Juniors a soli 15 anni ed ha passato gran parte della carriera in una squadra fascinosa ma certo non parte dell’elite mondiale come il Napoli. C’è chi ha dedicato molto più spazio di quanto abbiamo a disposizione a questo esercizio di stile ma ci basta al momento dire che si tratta di due grandi campioni molto diversi che hanno trovato la propria strada verso le vette più alte dell’olimpo del calcio. A meno che non siate a Napoli: nel tal caso la domanda non si pone proprio.

Quante triplette ha fatto Messi?

Se a fare impressione è stata la tripletta messa a segno nella finalissima del mondiale dal suo erede designato, il compagno di squadra Kylian Mbappè, il cosiddetto hat trick è un marchio di fabbrica della Pulga. Ne ha messe a segno ben 56, inclusa la manita personale inflitta all’Estonia lo scorso giugno. Anche qui il duello è contro il rivale di sempre, Cristiano Ronaldo, che però in questo caso è decisamente avanti. CR7 ne ha messe ben 60 tra club e nazionale. Se però andate a spulciare gli archivi di quei malati di statistiche della RSSSF, spunta fuori un personaggio incredibile del quale ben pochi maniaci del calcio hanno mai sentito parlare. Il record apparterrebbe ad Erwin Helmchen, bandiera della squadra tedesca del Chemnitz che, dal 1924 al 1951 segnò la bellezza di 141 triplette in partite ufficiali. Non solo, questo bomber da oltre 800 reti segnò otto reti nella stessa partita ben due volte, sette in tre occasioni e così via. A parte questo bomber dell’era eroica, un certo calciatore del Santos non è stato da meno: secondo il Guinness Book of Records, Pelè mise a segno 92 triplette in carriera. Insomma, anche in questo la Pulga ha parecchio da recuperare.

Chi è la moglie di Messi?

Se a fare notizia spesso sono le wags, le colorite mogli dei calciatori famosi, la compagna poi moglie di Leo Messi non è certo una tipa da copertina. La Pulce, in questo, è molto diverso dal suo rivale CR7, che non ha mai avuto problemi a mostrare molto anche della sua vita privata. La differenza principale è che Leo ed Antonella Roccuzzo si sono conosciuti molto prima che Lionel diventasse una superstar del pallone. Anto, anche lei di famiglia italiana, calabrese per la precisione, è nata a Rosario, appena un anno dopo del suo futuro marito ed aveva catturato l’attenzione di Messi fin dal primo momento. Non fu colpo di fulmine, ci volle parecchio perché Antonella si accorgesse delle avances del timido Leo. Da un’amicizia alimentata da montagne di lettere si passò ad una relazione a distanza nei lunghi anni passati alla Masia, sognando di scalare il mondo del calcio. Il primo passo avvenne nel 2000, quando la famiglia Messi si trasferì a Barcellona e le visite a Rosario includevano spesso e volentieri fermate a casa Roccuzzo. Lei studiava all’università e considerava il campione un amico o poco più. A precipitare la situazione la morte in un incidente stradale di una carissima amica di Antonella. Quando si ritrovò sotto casa Leo, arrivato con un volo privato direttamente da Barcellona, iniziò a capire che c’era qualcosa di più.

Sempre molto riservati, i due resero ufficiale la relazione solo dopo il mondiale del 2010. Da qui in avanti la loro unione è stata solidissima, fino al matrimonio da favola del 2017 a Rosario. Erano già arrivati i primi due figli, Thiago nel 2012 e Mateo nel 2015, con la famiglia che si è completata con l’ultimo arrivato, Ciro, nel 2018. I paparazzi li perseguitano ma Antonella non se ne preoccupa troppo: dall’alto dei suoi 20 milioni di followers su Instagram ha imparato a gestire i rapporti con la stampa da professionista.

Che malattia ha Messi?

Il talento di Leo Messi era talmente straripante da farlo notare quando era molto giovane, forse ancora prima del suo idolo Diego Maradona. A complicare parecchio la carriera della Pulce, però, ci si mise una grave malattia, la GHD, Growth Hormone Deficiency, ovvero un deficit nella produzione dell’ormone della crescita nel bambino. Diagnosticato quando aveva 11 anni, questa condizione cronica rischiava di farlo rimanere per sempre più basso e gracile della media, rovinandogli una possibile carriera professionistica. Per fortuna, da qualche anno era stato sintetizzato l’ormone della crescita umano e con regolari iniezioni la normale crescita poteva essere ripristinata.

Purtroppo, però, la medicina costava parecchio. Gli scout del River Plate avevano segnalato da tempo lo straordinario talento di Rosario ma nemmeno i Millionarios erano disposti ad investire centinaia di migliaia di dollari per farlo crescere regolarmente. A risolvere la situazione arrivarono gli scout del Barcellona, che l’invitarono alla Masia per una prova. Il tecnico delle giovanili Carles Rexach rimase così impressionato da Messi da offrirgli sul posto un contratto, scritto su un tovagliolo di carta, che includeva il salato conto dei trattamenti medici. Ecco perché a 13 anni Leo si trasferì a Barcellona, dando il via ad una delle accoppiate più fortunate della storia del calcio.

Ecco quindi dieci cose pazzesche che magari non conoscevi su Lionel Messi, la Pulce Atomica, un campione tra i più grandi della storia del calcio. Magari non sarà più grande di Pelè, Puskas, Di Stefano, Cruyff o Maradona, ma sicuramente non sfigura nel pantheon dei pedatori più talentuosi del gioco che fa impazzire il mondo.

Estratto da tuttosport.com l'8 giugno 2023.

Lionel Messi rompe gli indugi sul suo futuro annunciando per quale squadra giocherà la prossima stagione. Il fuoriclasse argentino volerà negli USA al servizio dell'Inter Miami, il cui presidente è David Beckham. Dopo i rumors che si sono rincorsi per tutta la giornata, in un'intervista concessa ai media catalani "Mundo Deportivo" e "Sport", la Pulce ha dichiarato: "Non tornerò al Barcellona, andrò all'Inter Miami". A fine contratto col Paris Saint Germain, dove era arrivato due estati fa, Messi era stato a lungo corteggiato sia dai sauditi dell'Al Hilal sia dal Barcellona, specie dopo l'incontro fra il padre Jorge e il presidente blaugrana Joan Laporta. Ma le difficoltà economiche del club catalano hanno allontanato il sogno di un ritorno a casa di Messi.

Messi ha deciso così di giocare in MLS tra le fila dell'Inter Miami. La Pulce argentina ha dichiarato: "Ho deciso che andrò a Miami. Non abbiamo ancora chiuso al 100% e manca qualcosa, ma abbiamo deciso di continuare il percorso lì. Ci tenevo molto al Barcellona, ero molto entusiasta di poter tornare, ma, dopo aver vissuto quello che ho vissuto e l'addio che ho avuto, non volevo essere di nuovo nella stessa situazione: in attesa di vedere cosa stava per succedere e lasciare il mio futuro nelle mani di qualcun altro, per così dire.

Ho voluto prendere una decisione pensando a me stesso, alla mia famiglia". L'ok della Liga al piano di sostenibilità del Barcellona avrebbe influito sulla sua scelta: "Ho sentito che dovevano vendere giocatori, abbassare gli stipendi e non volevo essere il responsabile di tutto questo. Sono già stato accusato di tante cose che non erano vere nella mia carriera al Barcellona e non volevo ritrovarmi nella stessa situazione. Anche se mi sarebbe piaciuto, non è stato possibile". 

Messi tende a precisare che "l'aspetto economico non è stato mai un problema o un ostacolo per me. La verità è che non siamo nemmeno arrivati a parlare di contratto. Se fosse stata una questione di soldi, sarei andato in Arabia Saudita".  

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Estratto dell'articolo di Marco Letizia per corriere.it l'8 giugno 2023.

L’accordo sembra fatto. Nella prossima stagione Lionel Messi giocherà nell’Inter Miami, sperando di rilanciare il club, reduce da una stagione piuttosto negativa. Avrà il vantaggio di non dover faticare troppo per il trasloco o nella ricerca dell’abitazione. Da fine 2020 infatti Messi è il felice possessore di un appartamento di 500 metri quadri circa nella lussuosa ed esclusiva Porsche Tower di Miami. Per farlo ha dovuto staccare (all’epoca) un assegno da 8,2 milioni di euro. Poca cosa per chi mediamente guadagna oltre 100 milioni l’anno. Ma comunque questo investimento fa pensare come Messi pensasse già da molto tempo a giocare nell’Msl a fine carriera. 

L’edificio

Situato in riva all’oceano l’appartamento ha un facilissimo accesso alla spiaggia. 

Il parcheggio

Il problema di dove mettere l’auto è presto risolto. Basta presentarsi all’ingresso dove un ascensore dedicato provvede a depositarla nello spazio apposito all’interno del grattacielo. 

L’ingresso

La hall del condominio è decorata con arredi di lusso e permette perfino la visione di alcune delle auto dei condomini. 

[…]La piscina privata

Per chi come Messi ha optato per acquistare un appartamento con 5 stanze da letto, c’è però la possibilità di avere una piscina più piccola sul proprio balcone. […] 

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Master suite

La camera da letto padronale ha salotto annesso e vista sull’oceano.

Estratto dell'articolo di AD per calciomercato.com l'8 giugno 2023.

[…] In attesa che vengano perfezionati gli ultimi dettagli di un accordo pressoché ufficiale ma non ancora completo in ogni sua parte, emergono dettagli molto significativi su come si strutturerà il contratto che legherà Messi alla franchigia di Miami per le prossime stagioni. […]

Non essendo ancora un accordo concluso, ad oggi non è dato sapere quanto la Pulce andrà a percepire in questa nuova avventura oltreoceano, mentre è estremamente chiaro il coinvolgimento di colossi protagonisti di prestigiose partnership con la lega americana. Secondo quanto riferisce The Athletic, per il pagamento dell'ingaggio di Messi sarà fondamentale il contributo di Adidas, che dal 1996 investe nell'MLS e che recentemente ha rinnovato per altri 6 anni per una cifra di 830 milioni di euro.

Il celeberrimo marchio di abbigliamento sportivo avrebbe proposto al campione argentino una partecipazione agli utili generati, destinati a crescere in maniera esponenziale con l'avvento di Messi a Miami. Un'operazione analoga a quella messa in piedi da Apple TV+, il cui accordo per trasmettere nei prossimi 10 anni tutte le partite del campionato genererà nelle casse della lega introiti per 2,5 miliardi di dollari; anche in questo caso per Messi sarebbe prevista una fetta consistente dei guadagni complessivi.

Ma non finisce qui, perchè Miami e l'MLS stanno già pensando a quello che potrebbe essere il futuro di Leo una volta appese le scarpette al chiodo. La franchigia di cui David Beckham è uno dei proprietari […] sarebbe disposta a far entrare nell'organigramma del club lo stesso Messi dopo il ritiro, cedendogli parte del pacchetto azionario e trasformandolo nei fatti in socio in affari dell'ex Spice Boy. […]