Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2023

LO SPETTACOLO

E LO SPORT

QUARTA PARTE


DI ANTONIO GIANGRANDE


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

INDICE PRIMA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Artista.

Il rapper, il trapper oppure del sottogenere dei «gangsta».

L’hip-hop.

L'Autotune.

Si stava meglio quando si stava peggio.

Laureati.

Gli Stadi.

Imprenditori ed Agenti.

Gli Autori.

I Parolieri.

Il Plagio.

Le Colonne Sonore d’Italia.

Le Fake news.

Le Relazioni astratte.

Le Hollywood d’Italia.

Revenge songs.

Achille Lauro.

Ada Alberti.

Adele.

Adriano Celentano.

Adriano Pappalardo.

Ainett Stephens.

Alain Delon.

Alan Sorrenti.

Alba Parietti.

Alberto Fortis.

Alberto Marozzi. 

Al Bano Carrisi.

Al Pacino.

Aldo Savoldello: Mago Silvan.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Ale e Franz.

Alec Baldwin.

Alena Seredova.

Alessandra Martines.

Alessandra Mastronardi.

Alessandra e Valentina Giudicessa.

Aleandro Baldi.

Alessandro Baricco.

Alessandro Benvenuti.

Alessandro Bergonzoni.

Alessandro Borghi.

Alessandro Cattelan.

Alessandro Cecchi Paone.

Alessandro e Leo Gassmann.

Alessandro Haber.

Alessandro Preziosi e Vittoria Puccini.

Alessia Fabiani.

Alessia Marcuzzi.

Alessia Merz.

Alex Britti.

Alex Di Luca.

Alexia.

Alfonso Signorini.

Alvaro Vitali.

Amadeus.

Amanda Lear.

Amara Rakhi Gill.

Ambra Angiolini.

Amedeo Minghi.

Amleto Marco Belelli, il Divino Otelma.

Anastasia Bartoli.

Andrea Bocelli.

Andrea Delogu.

Andrea Pucci.

Andrea Roncato.

Angela Cavagna.

Angela White.

Angelina Jolie.

Angelo Branduardi.

Angelo Duro.

Annalisa.

Anna Chetta alias Linda Lorenzi.

Anna Falchi.

Anna Mazzamauro.

Anna Tatangelo.

Anna Valle.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonella Marino.

Antonino Cannavacciuolo.

Antonio Banderas.

Antonio Diodato.

Antonio Albanese.

Antonio Ricci.

Ariete si chiama Arianna Del Giaccio.

Arnold Schwarzenegger.

Articolo 31.

Arturo Brachetti.

Asia e Dario Argento.

Barbara Bouchet.

Barbara D’Urso.

Barbra Streisand.

Beatrice Fazi.

Beatrice Rana.

Beatrice Venezi.

Bebe Buell.

Belen Rodriguez e Stefano De Martino.

Beppe Convertini.

Beppe o Peppe Vessicchio.

Biagio Antonacci.

Bianca Balti.

Bob Dylan.

Bobby Solo.

Brad Pitt.

Brenda Lodigiani.

Brendan Fraser.

Brigitte Bardot.

Britney Spears.

Brooke Shields.

Bruce Willis.

Bruno Gambarotta.

Bugo.

Candy Love.

Carla Signoris.

Carlo Conti.

Carlo Freccero.

Carlo Verdone.

Carlotta Mantovan.

Carmen Russo.

Carol Alt.

Carole Andrè.

Carolina Crescentini.

Cate Blanchett.

Caterina Caselli.

Catherine Deneuve.

Catiuscia Maria Stella Ricciarelli: Katia Ricciarelli.

Cecilia Gasdìa.

Celine Dion.

Cesare Cremonini.

Capri Cavanni.

Charlize Theron.

Cher.

Chiara Claudi.

Chiara Francini.

Chiara Mastroianni.

Christian Clay.

Christian De Sica.

Christina Aguilera.

Christopher Walken.

Chu Meng Shu.

Cinzia Leone.

Cirque du Soleil.

Clara Serina.

Claudia Cardinale.

Claudia Gerini.

Claudia Koll.

Claudia Pandolfi.

Claudio Amendola.

Claudio Baglioni.

Claudio Cecchetto.

Claudio Lippi.

Claudio Santamaria.

Clint Eastwood.

CJ Miles.

Colapesce e Dimartino.

Colin Farrell.

Coma_Cose.

Corrado Tedeschi.

Costantino della Gherardesca.

Costantino Vitagliano.

Cristiana Capotondi.

Cristiano De André.

Cristiano Malgioglio.

Cristina Comencini.

Cristina D’Avena.

Cristina Scuccia.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Dado.

Dalila Di Lazzaro.

Daniel Craig.

Daniele Luttazzi.

Daniele Silvestri.

Dargen D'Amico.

Dario Farina.

David Lee.

Den Harrow.

Dennis Fantina.

Diana Del Bufalo.

Diego Dalla Palma.

Diego Abatantuono.

Diletta Leotta.

Donatella Rettore.

Dredd.

Drusilla Foer.

Ed Sheeran.

Edoardo Bennato.

Edoardo Costa.

Edoardo Vianello.

Edwige Fenech.

Elena Di Cioccio.

Elena Santarelli.

Elenoire Casalegno.

Eleonora Abbagnato.

Eleonora Daniele.

Eleonora Giorgi.

Elettra Lamborghini.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Valentini.

Elodie.

Ema Stockolma.

Emanuela Fanelli.

Emanuela Folliero.

Emanuela Trane: Dolcenera.

Emma Marrone.

Enrica Bonaccorti.

Enrico Bertolino.

Enrico Beruschi.

Enrico Brignano.

Enrico Lo Verso.

Enrico Ruggeri.

Enrico Silvestrin.

Enrico Vanzina.

Enza Sampò.

Enzo Braschi.

Enzo Ghinazzi, in arte Pupo.

Enzo Iacchetti.

Ernia.

Eros Ramazzotti.

Eugenio Finardi.

Euridice Axen.

Eva Elfie.

Eva Henger.

Eva Menta e Alex Mucci.

Eva Riccobono.

Eva Robin’s.

Ezio Greggio.

Fabio Concato.

Fabio De Luigi.

Fabio Fazio.

Fabio Rovazzi.

Fabrizio Bentivoglio.

Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli.

Fabrizio Bracconeri.

Fabrizio Corona.

Fabrizio Moro.

Fanny Ardant.

Fedez e Chiara Ferragni.

Ferzan Ozpetek.

Ficarra e Picone.

Filippa Lagerbäck e Daniele Bossari.

Fiordaliso.

Fiorella Mannoia.

Fiorella Pierobon.

Fioretta Mari.

Francesca Alotta.

Francesca Michielin.

Francesca Neri.

Francesca Reggiani.

Francesco Baccini.

Francesco De Gregori.

Francesco Facchinetti.

Francesco Guccini.

Francesco Leone.

Francesco Nuti.

Francesco Pannofino.

Francesco Renga.

Francesco Salvi.

Francis Ford Coppola.

Franco Nero.

Francois Ozon.

Frank Matano.

Frankie Hi Nrg Mc.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gabriele Salvatores.

Gabriella Golia.

Gabry Ponte.

Gaiè.

Gene Gnocchi.

George Benson.

Geppi Cucciari.

Gerry Scotti.

Gianna Nannini.

Gigi e Andrea.

Giampiero Ingrassia.

Giancarlo Giannini.

Giancarlo Magalli.

Gianluca Colucci: Gianluca Fru.

Gianluca Grignani.

Gianmarco Tognazzi.

Gianni e Marco Morandi.

Gigi D'Alessio e Anna Tatangelo.

Gigi Folino e il Gruppo Italiano.

Gigliola Cinquetti.

Gino Paoli.

Gino & Michele.

Giorgia.

Giorgia Surina.

Giorgio Mastrota.

Giorgio Pasotti.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanni Caccamo.

Giovanni Muciaccia.

Giovanni Pietro Damian: Sangiovanni.

Giovanni Scialpi.

Giuliana De Sio.

Giulio Rapetti Mogol.

Giulio Scarpati.

Giuseppe Tornatore.

Gli AC/DC.

Gli Inti-Illimani.

Gloria Guida.

Guendalina Tavassi.

Guillermo Mariotto.

Guns N' Roses.

Gwyneth Paltrow.

Henry Winkler.

Harry Styles.

Helen Mirren.

Heather Parisi.

Eva Herzigova.

Eva Longoria.

Iaia Forte.

Gli Skiantos.

I Baustelle.

I Cccp Fedeli alla Linea. 

I Cugini di Campagna.

I Gialappa' s Band.

I Guzzanti.

I Jalisse.

Il Volo.

I Maneskin.

I Marlene Kuntz.

I Metallica.

I Modà.

I Negramaro.

I Pooh.

I Righeira.

I Ricchi e Poveri.

I Rolling Stones.

I Santi Francesi.

I Sex Pistols.

Ilary Blasi.

Elena Anna, Ilona Staller: Cicciolina.

Irene Maestrini.

Isabella Ferrari.

Isabella Rossellini.

Isotta.

Iva Zanicchi.

Ivan Cattaneo.

Ivana Spagna.

Ivano Fossati.

Jack Nicholson.

Jane Fonda.

Jennie Rose.

Jeremy Renner.

Jerry Calà.

Jo Squillo.

John Malkovich.

Johnny Depp.

Johnny Dorelli.

Joss Stone.

Jude Law.

Julia Roberts.

Justine Mattera.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Kanye West.

Kasia Smutniak.

Kate Winslet.

Ke Hui Quan.

Kevin Costner.

Kevin Spacey.

Kira Noir.

Lady Gaga.

Laetitia Casta.

La Gialappa’s Band.

Lalla Esposito.

Lars von Trier.

Laura Chiatti.

Laura Freddi.

Laura Morante.

Laura Pausini.

Lavinia Abate.

Lazza.

Lella Costa.

Lenny Kravitz.

Leo Gullotta.

Leonardo DiCaprio.

Leonardo Pieraccioni.

Levante.

Lewis Capaldi.

Lia Lin.

Licia Colò.

Liliana Cavani.

Lily Veroni.

Lina Sotis.

Linda Evangelista.

Lino Banfi.

Linus.

Lisa Galantini.

Little Dragon.

Lizzo.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Cherubini: Jovanotti.

Loretta Goggi.

Lory Del Santo.

Luc Besson.

Luc Merenda.

Luca Argentero.

Luca Barbareschi.

Luca e Paolo.

Luca Medici: Checco Zalone.

Luca Miniero.

Luca Ravenna.

Lucia Mascino.

Luciana Littizzetto.

Ludovica Martino.

Ludovico Peregrini.

Luigi Lo Cascio.

Luisa Corna.

Luisa Ranieri.

Luna Star.

Madame.

Maddalena Corvaglia.

Madonna.

Mago Forest, alias Michele Foresta.

Mahmood.

Malena, all’anagrafe Filomena Mastromarino.

Malika Ayane.

Manila Nazzaro.

Manuel Agnelli.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marco Bellocchio.

Marco Bocci.

Marco Columbro.

Marco Della Noce.

Marco Ferradini.

Marco Giallini.

Marco Masini.

Marco Mengoni.

Marco Predolin.

Marco Risi.

Margherita Buy.

Maria Giovanna Elmi.

Maria Grazia Buccella.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Sofia Federico.

Maria Teresa Ruta.

Marina Suma.

Mario Biondi.

Mariolina Cannuli.

Marisa Laurito.

Marisela Federici.

Martin Scorsese.

Mascia Ferri.

Massimo Boldi.

Massimo Ceccherini.

Massimo Ciavarro.

Massimo Ghini.

Massimo Ranieri.

Matilda De Angelis.

Matilde Gioli.

Mattia Zenzola.

Maurizio Battista.

Maurizio Ferrini.

Maurizio Milani.

Maurizio Potocnik, in arte Reeds.

Maurizio Vandelli.

Maurizio Zamboni .

Mauro Coruzzi alias Platinette.

Mauro Pagani.

Max Felicitas.

Max Laudadio.

Max Pezzali e gli 883.

Megan Daw.

Megan Gale.

Mel Brooks.

Melissa Stratton.

Memo Remigi.

Micaela Ramazzotti.

Michael Caine.

Michael J. Fox.

Michele Guardì.

Michele Placido.

Michele Riondino.

Michelle Hunziker.

Michelle Yeoh.

Mika.

Milena Vukotic.

Mina.

Minnie Minoprio.

Miranda Martino.

Mita Medici.

Monica Bellucci.

Morgan.

Myss Keta.

Mr. Rain.

Nada.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Natasha Stefanenko.

Naomi Campbell.

Neri Parenti.

Nicole Doshi.

Niccolò Fabi.

Nina Moric.

Nina Zilli.

Nino D'Angelo.

Nino Formicola: Gaspare di Zuzzurro e Gaspare.

Nino Frassica.

Noomi Rapace.


 


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Omar Pedrini.

Omar Sharif.

Orietta Berti.

Ornella Muti.

Ornella Vanoni.

Ozzy Osbourne.

Pamela Anderson.

Pamela Prati.

Pamela Villoresi.

Paola Barale e Raz Degan.

Paola&Chiara.

Paola Gassman e Ugo Pagliai.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Turci.

Paolo Belli.

Paolo Calabresi.

Paolo Conte.

Paolo Rossi.

Paris Hilton.

Pasquale Petrolo in arte Lillo; Claudio Gregori in arte Greg.

Patty Pravo.

Patti Smith.

Peppino di Capri.

Peter Gabriel.

Pico.

Pier Francesco Pingitore.

Pierfrancesco Favino.

Pier Luigi Pizzi.

Piero Chiambretti.

Piero Pelù.

Piero Pintucci. 

Pilar Fogliati.

Pino Insegno.

Pino Scotto.

Pio ed Amedeo.

Playtoy Orchestra.

Povia.

Pupi Avati.

Quentin Tarantino.

Quincy Jones.

Raf.

Renato Pozzetto.

Renato Zero.

Renzo Arbore.

Ricky Martin.

Rita Pavone.

Ringo.

Robbie Williams.

Robert De Niro.

Roberta Lena.

Roberto da Crema.

Roberto Vecchioni.

Rocco Hunt.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Rocío Muñoz Morales e Raoul Bova.

Roman Polanski.

Ron: Rosalino Cellamare.

Ronn Moss.

Rosa Chemical.

Rosalba Pippa: Arisa.

Rosanna Fratello.

Rosario e Giuseppe Fiorello.

Rupert James Hector Everett.

Sabina Ciuffini.

Sabrina Impacciatore.

Sabrina Salerno.

Samuel L. Jackson.

Sandy Marton.

Sandra Milo.

Sara Diamante.

Sara Tommasi.

Scarlett Johansson.

Sean Penn.

Selen.

Selva Lapiedra.

Serena Grandi.

Sergio Caputo.

Sergio Castellitto.

Sergio Rubini.

Sergio Vastano.

Sergio Volpini.

Sharon Stone e Michael Douglas.

Shakira.

Simona Izzo.

Simona Tabasco.

Simona Ventura.

Simone Cristicchi.

Syusy Blady e Patrizio Roversi.

Sofia Scalia e Luigi Calagna, Sofì e Luì: Me contro Te.

Sonia Bruganelli e Paolo Bonolis.

Sophia Loren.

Stanley Tucci.

Stefania Orlando.

Stefania e Silvia Rocca.

Stefania Sandrelli.

Stefano Accorsi.

Susan Sarandon.

Susanna Messaggio.

Sydne Rome.

Sylvester Stallone.

Sveva Sagramola.

SZA, vero nome Solána Imani Rowe.

Taylor Swift.

Tananai.

Terence Blanchard.

Teresa Mannino.

Teresa Saponangelo.

Teo Mammucari.

Teo Teocoli.

Tiberio Timperi.

Tim Burton.

Tinto Brass.

Tiziana Rivale.

Tiziano Ferro.

Tom Cruise.

Tom Hanks.

Tommaso Paradiso.

Toto Cutugno.

Tullio Solenghi.

U 2.

Uccio De Santis.

Ultimo.

Umberto Smaila.

Wanna Marchi.

Will Smith.

Woody Allen.

Valentina Lodovini.

Valeria Golino e Riccardo Scamarcio.

Valeria Marini.

Valeria Rossi.

Valeria Solarino.

Valerio Scanu.

Valerio Staffelli.

Vanessa Gravina.

Vasco Rossi.

Vera Gemma.

Veronica Maya.

Victoria Cabello.

Vincenzo Salemme.

Viola Valentino.

Vittoria Belvedere.

Vladimir Luxuria.

Zucchero Fornaciari.

Yuko Ogasawara.

Xxlayna Marie.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Sanremo 2024.

Sanremo. Sociologia di un festival.

La Selezione…truccata.

I Precedenti.

Il FantaSanremo.

Gli Inediti.

I Ti caccio o non ti caccio?

Gli Scandali.

La Politica.

Le Anticipazioni. Il Pre-Voto.

Quello che c’è da sapere.

I Co-conduttori.

I Super Ospiti.

Testi delle canzoni di Sanremo 2023.

La Prima Serata.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

La Quinta ed Ultima Serata.


 

INDICE SESTA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Certificato medico sportivo.

Giochi Sporchi del 2022.

Quelli che…il Coni.

Quelli che…il Calcio. La Fifa.

Quelli che…La Uefa.

Quelli che…il Calcio. La Superlega.

Quelli che…il Calcio. La FIGC.

Quelli che…una Compagnia di S-Ventura.

Quelli che…i tiri Mancini.

La Furbata.

Quelli che…il Calcio. Gli Arbitri.

Quelli che…il Calcio. La Finanza.

Quelli che…il Calcio. I Procuratori.

Quelli che…il Calcio. I Tifosi.

Quelli che…il Calcio. I Figli d’Arte.

Quelli che…il Calcio. La Politica.

Quelli che…il Calcio. Gli Altri.

Quelli che…il Calcio. Lionel Messi.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…il Calcio. Le Squadre.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…il Calcio. Le Squadre.

Il Calcioscommesse.

Quelli che…I Traditori.

Quelli che…Fine hanno fatto.


 

INDICE NONA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I 10 proprietari più ricchi nello sport.

Quelli che…I Superman.

Quelli che…è andato tutto storto.

Quelli che…la Palla Canestro.

Quelli che…la pallavolo.

Quelli che il Rugby.

Quelli che ti picchiano.

Quelli che…il Tennis.

Quelli che…il pattinaggio.

Quelli che…l’atletica.

Quelli che…i Motori.

Quelli che…la Bicicletta.

Quelli che…gli Sci.

Quelli che…il Nuoto.

Quelli che…la Barca.

Quelli che…l’Ippica.

Quelli che… il Curling.

Il Doping.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

QUARTA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Omar Pedrini: «Il dramma è iniziato a Sanremo, ora l'ultima tournée. Poi farò il contadino in Toscana». Redazione Brescia su Il Corriere della Sera sabato 18 novembre 2023.

In un lungo monologo alle Iene, il cantautore bresciano si è raccontato: dall'amore per il rock and roll alla paura di morire, poi le operazioni e infine la decisione di smettere e dedicarsi alla campagna

Come annunciato in un'intervista sul Corriere della Sera, Omar Pedrini ha annunciato il ritiro dal palco. Prima, però, si concederà l'ultima tournèe. Omar Pedrini lo ha detto in un lungo monologo alle Iene. «Nella mia vita c'è sempre stata la musica -esordisce Omar Pedrini - e in fondo alle mie mani una chitarra. Io e lei insieme in gita scolastica, la prima band al liceo, il palco di Sanremo a poco più di vent'anni e la conquista del primo disco d'oro del rock alternativo con i miei Timoria»  «La vita non mi ha fatto mancare niente: le soddisfazioni dei concerti - prosegue il cantante bresciano - la popolarità e le sue sfumature, eccessi compresi. Ma sono sopravvissuto a 35 anni di rock and roll e soprattutto a sette operazioni cardiovascolari per un cuore malandrino». 

«Il mio dramma - spiega Omar Pedrini - è iniziato ancora una volta a Sanremo, nel 2004. In un battibaleno sono passato dalla felicità per il premio del miglior testo alla paura di morire. Eppure, tra un ospedale e l'altro, ho sempre cercato di fare musica, di non concedermi una resa, mai. Sono stato capace di fare delle mie cicatrici, la mia forza e la mia bellezza. Ma so anche che in questi anni complessi, dopo quattro interventi al cuore e un suocero cardiochirurgo, succede solo a me (ride, ndr), devo prendere una pausa». 

E infine il cantautore bresciano ha annunciato l'ultima tournèe: «Non voglio andarmene senza salutare. Prima voglio fare un ultimo giro di rock and roll, un'ultima tournèe ancora insieme alla mia chitarra elettrica e al mio pubblico. Dopo tornerò a fare il contadino nella mia campagna in Toscana tra gli spiriti etruschi, gli ulivi e la vigna. Ma prima voglio bere e brindare insieme a voi, come si beve un grande vino, un ultimo sorso di felicità. Naturalmente, alla mia salute». 

Omar Pedrini e la malattia: «I miei sei interventi al cuore. Vivo con una spada di Damocle». Rosanna Scardi su il Corriere della Sera il 23 Febbraio 2023

Il rocker ex Timoria ricoverato all’Humanitas Gavazzeni di Bergamo. Gli esami per valutare un altro intervento. Convivere con una spada di Damocle: «Com’è? Ti godi il presente». A maggio l’uscita del nuovo disco: «Da inguaribile ottimista penso al tour»

Si è fermato ai box per un pit stop bergamasco al suo cuore «malandrino» che è durato una settimana. Omar Pedrini chiama così, sdrammatizzando, gli esami effettuati all’Humanitas Gavazzeni, ospedale all’avanguardia nazionale nella cardiochirurgia robotica e mininvasiva. Il responsabile dell’area, il dottor Alfonso Agnino, sta valutando con la sua équipe se per il rocker bresciano sia necessario un intervento. Lo stesso cantante ha postato sui social le foto che lo ritraggono sorridente davanti al reparto degenze B3 insieme ai ringraziamenti per il personale medico e sanitario. L’ex Timoria convive da anni con dei gravi problemi cardiaci.

Pedrini, perché ha scelto l’Humanitas Gavazzeni di Bergamo?

«Mi è stato scoperto un affaticamento cardiaco importante. E il mio cardiologo, Alberto Lanzone, che è diventato un amico, mi ha consigliato l’Humanitas Gavazzeni, dove ha lavorato per cinque anni, per compiere accertamenti ed esami di alto livello. Ho anche un cuore un po’ ipertrofico, più grande del normale».

Un cuore più grande, sembra molto poetico.

«In realtà, è anche una rottura di scatole. Ho subìto sei interventi con altrettante anestesie totali, quattro dei quali nell’ultimo anno e mezzo. Da plurioperato, il mio corpo quasi bionico ha mille coaguli, aderenze, protesi, non è terreno facile per un chirurgo. Usare la tecnica robotica e non dovermi aprire è un grande vantaggio. Sto aspettando con ansia il parere dei dottori Agnino, Paolo Panisi e Valentina Grazioli. Mi hanno accolto come se fossi il Papa, con competenza e umanità. Il vostro ospedale è un orgoglio lombardo».

Come e quando ha scoperto l’ultimo affaticamento al cuore?

«Casualmente. In agosto ero al mare a Badalucco, in Liguria, con la famiglia e sono stato "tamponato" mentre spingevo mio figlio Faustino sul passeggino. Sono finito al pronto soccorso di Sanremo: quando ho detto ai medici che avrei preferito essere all’Ariston a cantare piuttosto che con loro, ci siamo messi a ridere. Era sabato sera e mi hanno dimesso. Ma essendo stato operato all’aorta, mi erano venuti dei dubbi. E così sono stato all’ospedale di Bologna, dove avevo subìto l’intervento, per sottopormi a una tac, scoprendo che la botta dell’incidente mi aveva squarciato i punti. Dopo l’operazione per richiuderli, a settembre, mi è stato diagnosticato l’affaticamento alle valvole cardiache».

Nella sua battaglia contro i capricci del cuore è anche diventato testimonial della prevenzione cardiologica.

«Nel 2004 ho superato il primo intervento d’urgenza. Dieci anni dopo, ho avuto un malore al termine di un concerto a Roma. Ero alla fine del tour, ai bis. Un’altra corsa in ospedale. Nel primo avevo un picco di pressione a 250. Mi sono sentito un cretino a non averla mai controllata e a non aver mai fatto un ecocardiogramma. Magari mi avrebbero operato senza urgenza. Agli amici e ai lettori consiglio di provare la pressione e fare un tagliando a se stessi. E non solo alla macchina».

Come si convive con la spada di Damocle?

«Tutti ne abbiamo una: è sostenuta da un crine di cavallo, il mio è solo più sottile della media. E come me c’è chi ha una malattia oncologica o infettiva, come si è visto a Bergamo e Brescia, dove la pandemia ha spazzato via una generazione. Di sicuro la spada di Damocle ti porta a essere a posto con la tua coscienza ogni volta che chiudi gli occhi; a comportarti meglio nei rapporti umani: non hai voglia di litigare se domani hai una visita per cui preghi Dio che vada bene. E poi, ti godi il presente. Non immagina con che occhi guardo i miei bambini…».

Spesso ripete il messaggio dello scrittore americano Kurt Vonnegut: «Quando siete felici fateci caso».

«Deve essere così. Come dicono i saggi orientali: "Sarebbe bello vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo e imparare come se non dovessimo morire mai. Per questo adoro chi prende il diploma a 90 anni».

Quali progetti ha?

«Mi hanno invitato alla manifestazione per il Tibet il 10 marzo a Roma. Vorrei esserci, sempre che non sia ricoverato».

É buddista?

«Sono un uomo spirituale, non osservo nessun credo. Seguo il Dalai Lama, mi piace la figura di Gesù. E sono un anarchico pacifista».

In questa «finestra» fuori dall’ospedale a cosa si dedica?

«Sto dando gli ultimi ritocchi di vernice al mio nuovo disco che uscirà a maggio, anticipato dal singolo in aprile. La musica toglie l’ansia, mi distrae. E, da inguaribile ottimista, penso al tour e, quando sono in ospedale, dalla finestra, guardo la bellezza di Città Alta e penso a me con il mio maestro Gino Veronelli».

Estratto dell'articolo di S.A. per “il Messaggero” l'11 maggio 2023.

[…] Omar Sharif, egiziano purosangue, ha affascinato generazioni di donne ed era un autentico cittadino del mondo. Oltre che ad Alessandria d'Egitto e al Cairo, era di casa a Roma, a Parigi, a Londra e a Hollywood. Ha vinto tre Golden Globe, è stato coinvolto in risse e processi, è stato premiato dall'Unesco per il suo contributo al pluralismo culturale.

Chi atterra a Lanzarote scopre altre due grandi passioni di Omar Sharif. La prima è quella per i paesaggi e l'atmosfera dell'isola, della quale si è innamorato a prima vista. C'era arrivato nel 1972 per girare L'isola Misteriosa e il capitano Nemo, un film tratto da un romanzo di Jules Verne. La seconda è la passione per il bridge, il gioco di carte al quale l'attore egiziano dedicava interminabili serate e nottate, piene di tensione e di fumo.

LA STRUTTURA A mettere insieme le due passioni di Sharif è Lagomar (o meglio, LagOmar), la villa disegnata da César Manrique in una cava abbandonata di Nazaret, un minuscolo centro qualche chilometro a sud di Teguise. È una struttura bizzarra, adatta al clima torrido dell'estate sull'isola, con una bella piscina, varie cascatelle e alcuni edifici all'esterno, ma dove le camere più importanti sono state realizzate all'interno di alcune grotte.

Accanto agli edifici imbiancati a calce, ai piedi della parete di roccia scura, crescono palme, cactus, bougainvillee e aloe. La visita del complesso include delle gradinate ripide, dei minuscoli terrazzi circondati dal verde, una grande cucina e varie camere arredate con sculture in legno africane. […] I visitatori scoprono un mazzo di carte aperto e poggiato sul tavolo, e una grande fotografia in bianco e nero di Omar Sharif, seduto durante una pausa di una partita di bridge. Fanno bene, perché il cuore della storia è proprio lì.

Omar Sharif si è innamorato della villa di Lagomar a prima vista, l'ha immediatamente acquistata a caro prezzo. E qualche settimana più tardi l'ha persa durante l'ennesima partita di bridge. La passione per il gioco può avere un prezzo molto alto.

Estratto dell’articolo di Silvia Fumarola per “la Repubblica” domenica 19 novembre 2023.

«Sono appena tornata da una mini crociera e sono un po’ frastornata: dal sole e la piscina alla pianura Padana è un bel salto. Sono andata con mio figlio Otis, c’era anche Mara Maionchi per giudicare i talenti: oggi tutte le persone vogliono cantare, chissà perché...» . Orietta Berti ha la voce squillante; a 80 anni non si ferma un attimo. Da giovedì con Al Bano, Michelle Hunziker e Claudio Amendola, è nella giuria di Io canto generation su Canale 5, il talent show condotto da Gerry Scotti, direzione artistica di Roberto Cenci, di cui sono protagonisti i ragazzi. Le squadre sono capitanate da Iva Zanicchi, Fausto Leali, Anna Tatangelo, Mietta, Cristina Scuccia e Benedetta Caretta.

La diverte fare la giurata?

«Il programma secondo me è bello, i ragazzini sono molto sicuri di sé. Se mi paragono a loro, quando ho cominciato io avevo paura anche delle ombre. In tv c’erano pochi programmi, avevo il registratorino Gelosino e si rompeva sempre il nastro. Ora conoscono il repertorio di tutti e hanno la tendenza a imitare il personaggio. Mi aspetto che propongano i successi internazionali più belli, ma preferirei che cantassero in italiano. Il cast l’ha fatto Sonia Bruganelli, siamo diventate amiche al Grande fratello ».

 È una giurata severa?

«Per carità. Se dai un voto basso questi ragazzi se lo ricorderanno per tutta la vita. Mi dispiace anche dare 6, figuriamoci. Bisogna capire chi si emoziona di più, ci sono quelli più freddi e poi conta l’età. Quattro anni di differenza, dai 10 ai 14 anni, sono tanti, sono mondi diversi. Hanno un coraggio enorme, sono piccoli». 

[…] non pensa proprio a ritirarsi?

«Sono in pensione ma se mi tolgono questo lavoro mi cambierebbe il carattere, sarei depressa: lavorare con gente giovane ti mantiene giovane. Se penso alla sigla di Viva Rai 2! che ho fatto per Fiorello… Mi hanno mandato la canzone per telefono: “Te la puoi imparare?”. L’ho imparata in macchina e l’ho registrata. Quella sigla mi mette il buonumore».

[…]

Tante volte in giuria, si è sentita giudicata?

«Sempre. Chi fa questo lavoro sa che dopo un successo farà un disco nuovo e sarà giudicato. Si ricomincia».

[…] 

La collaborazione con Fedez e Achille Lauro, poi con Fabio Rovazzi. Perché piace ai giovani?

«Mah. Per il mio modo di fare: sono schietta, faccio anche gaffe. Mi piacciono gli animali. Tranne qualche scalmanato che fa cose da pazzi, i giovani amano la natura.

Apprezzano la mia voce, questa estate ai concerti veniva la generazione che mi ha lasciato Manuelito Hell Raton. Quando chiedevo: “Perché siete qui?”, rispondevano: “Hai una voce che ci fa stare bene e ci rilassa”. C’è da chiedersi: perché un ragazzino non deve essere rilassato?».

Ha partecipato al Milano Pride, cosa pensa delle discriminazioni?

«Ci sono genitori che si vergognano per quello che potrebbero dire i vicini, rispetto ai figli gay. È la cosa più brutta che possa esistere. […]». 

La premier Meloni crede solo nelle famiglie tradizionali: cosa si sentirebbe di dirle?

«Non credo che sia poco inclusiva, ha una bambina che adora. Credo che siano negativi quelli che la circondano, Meloni non può pensare davvero certe cose. […]».

A 80 anni si è tolta tutti gli sfizi?

«No. Ma ho vissuto bene, mi sono sempre accontentata. Ho le mie camicie da notte sexy, le  borsette, le scarpe, non è che spendessi cifre folli. […]» 

Rimpianti?

«Forse quando i miei figli erano piccoli sono stata assente. Otis mi dice: “Voglio veder crescere le mie bambine, se cade un dentino. Non voglio fare come hai fatto tu”. A volte viene con me l’altro figlio Omar. Forse hanno un po’ sofferto, le nonne me li hanno allevati bene, con i valori, sono educatissimi. Viaggiavo con Osvaldo, facevamo sacrifici per tornare a casa. Ma certo, non sono stata una mamma che metteva a letto i figli tutte le sere».

Estratto dell'articolo di Daniela Lanni per lastampa.it il 3 giugno 2023.

«Forse non mi rendo ancora conto di avere 80 anni. È importante stare bene in salute e avere la testa a posto. Poi ho talmente tanta energia che certi giorni mi sento una ragazzina. Un esempio? L’altro ieri ero in sala di registrazione e si è stancato il tecnico, mentre io continuavo a dirgli “no, ma facciamo ancora questo, dobbiamo finire quest’altro…”. 

Insomma, non mi fa nessun effetto, è un numero normale». Mentre parliamo al telefono Orietta Berti, tra le poche protagoniste femminili in campo musicale di un’intera epoca, è seduta nella sala della sua villa a Montecchio, in provincia di Reggio Emilia, e ha da poco finito di piantare dei fiori color fucsia nel giardino di casa. Una mattinata di «relax», come lei stessa l’ha definita, che raramente capitano. Perché l'Usignolo di Cavriago, nonostante i 58 anni di carriera alle spalle, resta un’artista curiosa, attenta ai dettagli e con un’agenda piena di impegni. «Pensa che dormo solo due ore la notte, sono sempre lì a riflettere su tutte le cose da fare» dice, e fortuna che siamo al telefono, altrimenti avrebbe visto il mio stupore. 

Orietta ma non festeggia?

«Farò un brindisi ma questo è un lavoro molto intenso e la vita scorre. A giugno ho tante sorprese in ballo tra registrazioni, montaggi dei video, comparsate in tv, poi i concerti. Dagli anni ’80 mi produco da sola e, insieme a mio marito, abbiamo una società, quindi il lavoro è doppio. Ora mi aiutano anche i miei figli. Il mio dono è quello di saper ascoltare tutti. Ai ragazzi giovani che oggi vendicchiano qualcosa e pensano di avere già tutto ai propri piedi dico che non è vero. Questo lavoro è come la frase del film Via col Vento pronunciata da Rossella O’Hara: “Domani è un altro giorno”, devi sempre cominciare da capo». 

(...) 

Con “Diverso” affronta un altro tema molto forte: l’omosessualità.

«Per il mio compleanno ho fatto questa canzone in cui c’è una madre che protegge il proprio figlio che si è dichiarato gay. Nel video la mamma gli dice che non sbaglia ad amare un’altra persona, che siamo nati per amare e non per odiare, è la cosa più semplice e naturale che c’è. Credo sia giusto che questo mondo abbia il coraggio di cambiare. Purtroppo ci sono delle famiglie che non accettano il figlio diverso, che poi diverso in cosa? Diversi sono loro, casomai. Un animale non abbandona i cuccioli. L’ho fatta in collaborazione con le case d’accoglienza “Arcobaleno” a Milano che aiutano questi ragazzi che purtroppo vengono emarginati dalla loro famiglia di origine». 

L’amore non dovrebbe essere etichettato, imprigionato. Eppure lo è ancora. Perché si fatica ancora ad accettare un sentimento che dovrebbe essere universale e privo di barriere?

«Non lo so. Forse per la paura dei giudizi o di un vicino che ti deride? Non capisco questa mentalità che c’era, c’è, e, forse, ci sarà in futuro, anche se mi auguro di no. Per me sono persone di un’intelligenza superiore agli altri perché hanno sia quella femminile che maschile. Poi sono sempre presenti. Ho tanti amici omosessuali e ci sono sempre nel momento del bisogno. Li adoro, sono come dei fratelli». 

A un Gay Pride andrebbe?

«Mi hanno invitata tantissime volte. Sono andata a fare gli spettacoli all’arrivo, cioè quando finiva la sfilata. Sono stata a Roma, Napoli, Milano. Andare sul carro, son sincera, ho paura perché mi gira la testa».

Abbiamo avuto tantissimi esempi di persone che hanno fatto successo e poi sono state dimenticate. Lei resta amata da un pubblico sempre più ampio. A cosa attribuisce il suo essere intramontabile?

«Sono nata discograficamente in un periodo molto buono per la musica. Da metà anni ’60 fino agli anni ’80 tutta la discografia italiana era d’oro e andava in tutto il mondo. Poi c’erano le manifestazioni che ti portavano nella casa degli italiani. Da ragazzina fino all’età matura sono cresciuta e invecchiata con loro. Mi vedono come una vicina di casa, una parente. Ed è bello». 

Nella sua carriera ha conosciuto e lavorato con tanti personaggi del mondo dello spettacolo, cinema e musica. Chi le è rimasto nel cuore?

«Tante persone. Mi sono trovata molto bene con Ugo Tognazzi, che è stato 24 giorni in casa mia, dove abbiamo girato “I nuovi mostri”, perché avevo troppi concerti; un mese che non dimenticherò mai, c’era Scola, è venuto Monicelli. A Roma ho registrato anche con Paolo Villaggio, “Quando c'era lui... caro lei!”. Ricordo con piacere anche Pippo Baudo: tutte persone belle e intelligenti».

Tornando all’attualità, Manuelito, Fedez e Achille l’hanno riavvicinata ai giovani. Continuate a sentirvi?

«Sono sempre presenti. Fedez di recente mi ha mandato un uovo di Pasqua, Achille Lauro, fragole e champagne. Siamo in perfetta armonia con tutti. Anche con Manuelito, in arte Hell Raton, con cui lo scorso anno, ho cantato “Luna Piena”, ed è stata la canzone più ascoltata nelle discoteche. Nelle mie serate la devo fare almeno tre volte perché sono i ragazzini a richiederla. Mi piace osare e ben vengano le collaborazioni con i giovani». 

Un pensiero va alla sua terra, l’Emilia Romagna, messa in ginocchio dall’alluvione.

«Sono testimonial di tutti i cibi dell’Emilia Romagna, partecipo al cento per cento, è la mia Regione. Come famiglia abbiamo già contribuito. Va bene organizzare gli spettacoli per poi devolvere gli incassi, ma chissà quando arrivano i soldi. Credo sia meglio aiutare subito, perché nell’immediato servono tante cose. L’alluvione è il meno. Ci sono più di mille frane, paesi isolati, fattorie che non riescono a dare da mangiare ai propri animali. È un disastro. I miei figli avevano organizzato una festa di compleanno per i miei 80 anni ma abbiamo disdetto. Ho tanti amici che hanno perso tutto e non si può fare una festa pensando a chi è rimasto sul lastrico». 

L’Orietta di oggi cosa direbbe alla ragazza che ha lasciato il proprio paese inseguendo un sogno?

«Che ha fatto bene a dar ascolto ai propri collaboratori e non fare sempre di testa sua. Di continuare così, ascoltare le proposte dei giovani, essere schietta e sincera. In caso di errori? Saper chiedere scusa».

Da “OGGI” il 28 maggio 2023.

Alla vigilia di un compleanno importante (80 anni il 1° giugno), e mentre sta vivendo una nuova giovinezza tra tv, fiction, spot, musica, Orietta Berti ripercorre con OGGI un po’ della sua vita e della sua carriera, a partire da un piccolo tesoro d’archivio, un servizio fotografico un po’ osè pubblicato dal settimanale nel 1973. 

«Quello è il periodo in cui collezionavo camicie da notte, belle come abiti da sera, e anche guêpière, se è per questo. Sono capricci che hai a una certa età… Mi avevano chiesto di posare per Playboy e Playmen. Il direttore per convincermi mi disse che con il compenso avrei potuto comprarmi due appartamenti in centro a Reggio Emilia. “Ma io me ne infischio”, ho risposto, “lei non conosce mia suocera!”».

Poi parla di altre “proposte indecenti”: «Una volta chiama a casa Tinto Brass. Risponde mia mamma: “Orietta, al telefono c’è quello che fa i film sporchi”. Lui sente e le spiega: “Ma io non la faccio spogliare, la chiamo per il ruolo di sorella maggiore”. Non se ne fece nulla». 

E del suo attuale successo dice: «Prima cantavo tanto all’estero, in Italia non se ne accorgeva nessuno. Ma non ho mai lavorato tanto come in questi ultimi due anni. Faccio tante pubblicità, alla mia età è una cosa rara. E a chiedermi i selfie sono i ragazzi».

Orietta Berti compie 80 anni: «Senza la fama, avrei fatto l’operaia. Sesso alla mia età con Osvaldo? Coccole». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 30 Maggio 2023

La cantante si racconta a tutto tondo in attesa del traguardo, giovedì: «Sarà una giornata normale, festeggerò lavorando» 

Giovedì compirà 80 anni, eppure Orietta Berti non è mai stata così giovane. «Per me sarà una giornata normale, come le altre», racconta lei con quell’allegria non di maniera che è la sua cifra oltre che la sua forza. «Festeggerò lavorando, come sempre: due anni fa sul set di “Mille” Fedez e Achille (Lauro, ndr.) mi hanno fatto trovare una bella torta, quest’anno farò un brindisi veloce. La vita scorre e io continuerò a rimboccarmi le maniche facendo cose nuove, mi sento piena di energia».

Si vede: non si contano i suoi impegni.

«Ascolto tutte le proposte che arrivano dai giovani: sono loro che mi spingono a fare cose diverse. La copertina del mio cofanetto, La vita è un film, me l’ha fatta un ragazzo di Bologna mettendo la mia faccia al posto di quella dell’imperatrice d’Austria del quadro di Rubens. Una giovane editor mi ha proposto di fare il libro di ricette, altre le realizzo con due blogger nel format Una ricetta con Orietta. E dei ragazzi di Reggio Calabria hanno chiesto di fare delle cover dei telefonini con le mie immagini».

È quella che aveva in tv anche Fiorello?

«Sì ma l’ha persa, mi ha detto di fargliene avere un’altra perché non riesce a stare senza la sua cover con me vestita da fatina del mare... però tutte queste cose non ti vengono in mente se non collabori con i più giovani».

Eppure lei non sognava di fare la cantante, vero?

«Non avrei mai intrapreso questo lavoro, no. Ero molto timida, poi, negli anni 60, non era percepito come un qualcosa di serio: fai la cantante? Ma dove vai... invece mio padre credeva molto in me e mi mandò a scuola di canto: mi aiutò nel trovare sicurezza».

E poi?

«Iniziai a fare concorsi di voci nuove. In uno c’era in giuria Giorgio Calabrese, un autore importante che mi consigliò di fare dei provini nelle case discografiche di Milano: mi procurò lui gli appuntamenti. Con mio padre andammo in giornata e ne girammo diverse. Ma, poco dopo, papà venne a mancare».

Dunque? Cosa successe?

«Mia mamma era una donna pratica, gestiva la pesa comunale. Lei non credeva in questa strada, così mi fece frequentare un corso per stilisti, visto che nelle nostre zone c’era il boom delle case di abbigliamento. Pensavo che quella sarebbe stata la mia vita, solo che dopo un anno Calabrese, non sentendo più mie notizie, si interessò e chiamò il bar del paese, perché noi non avevamo il telefono. “Perché non ti sei più fatta sentire? I provini sono andati bene”, mi disse. Gli spiegai che mamma non voleva più che facessi quel lavoro e lui il giorno dopo si fece trovare a Cavriago: la convinse a non mandarmi in fabbrica, dove nel frattempo aveva trovato un posto per me».

Quindi partì per Milano.

«Ma mia mamma in città da sola non voleva farmi stare, così mi misero in un pensionato di suore: ci ho vissuto tre mesi, tornando a casa sabato e domenica. Diventai amica di due ragazze dell’est che pure vivevano lì: erano molto belle, facevano le ragazze copertina. Potevamo rientrare al massimo alle 18.30. Nel frattempo, grazie alla caparbietà di Calabrese mi proposero di cantare in italiano i brani di Suor Sorriso».

Fatalità, vestita da suora.

«Davvero. Io non volevo fare la suorina ma accettai solo perché mi dissero che se lo avessi fatto mi avrebbero fatto cantare a Un disco per l’estate. Comunque le canzoni di Suor Sorriso ebbero un grande successo, soprattutto in Vaticano. Il mio rammarico resta aver iniziato a fare la cantante per fare un piacere a mio papà senza che lui vedesse che ci ero riuscita».

È sposata da 56 anni con Osvaldo: come vi siete conosciuti?

«Io e i miei amici eravamo andati con la corriera alla fiera del suo paese. L’ho visto tra le bancarelle, me l’hanno presentato e mi sembrava molto più grande di noi per i suoi modi di fare seri... aveva un soprabito alla Humphrey Bogart. Gli dissi che se voleva poteva venirmi a trovare, che gli avrei fatto un caffè. “A me non piace il caffè”, rispose. “Ma guardi che io lo faccio particolare, ci metto dentro il cioccolato”. “Ma a me non piace neanche il cioccolato”. Come è antipatico, avevo pensato. Solo che qualche giorno dopo venne a trovarmi e mi portò anche un pezzo di formaggio. A mia nonna questa cosa fece simpatia ma poco dopo mi chiamò in bagno e mi disse di non dargli troppa corda perché era molto magro: “Mi sa che non è sano”».

Come si costruisce un matrimonio così felice e duraturo?

«Un po’ è fortuna: andiamo d’accordo, abbiamo tante idee in comune. E poi siamo diventati presto soci, abbiamo sempre lavorato insieme. Lui mi faceva da produttore, manager, da autista: mi portava dappertutto, sempre lui, anche adesso. Negli anni sono subentrati anche i miei figli Otis e Omar, perché sono più pratici con i computer, ma sono stata tra i primi in Italia a mettermi in proprio».

Tentazioni? Ci sono state?

«Non è che sono una santa, ma non ho mai voluto approfondire nessun ammiccamento, non mi interessava. Se stai bene con una persona, perché farlo? Poi penso sempre che sia una gran fatica nascondere le scappatelle: tutti quelli che lo fanno mi sembrano degli 007, che impegno... Inoltre credo che la serenità che la gente mi attribuisce dipenda dal fatto di aver potuto lavorare stando sempre vicina alla mia famiglia».

La sua amica Iva Zanicchi ha rotto il tabù della passione a qualsiasi età. Cosa ne pensa?

«Nel mio caso non direi passione, ma amore, tenerezza, coccole... ognuno vive l’età alla sua maniera. Quando ho fatto la serie Quelle brave ragazze, Sandra Milo mi raccontava della sua vita molto piena di amori, meravigliandosi che io avessi avuto un solo uomo. “Che peccato, non sai cosa ti sei persa”, mi aveva detto, ma io sono stata felice così».

Si sa della sua passione per i nomi che iniziano con la lettera «O». Avesse avuto una figlia femmina come l’avrebbe chiamata?

«Ho due nipotine che si chiamano Ottavia e Olivia, mia nuora ha voluto continuare la tradizione. Tutto è nato per caso quando ci siamo resi conto che eravamo circondati: c’era nonno Oreste, nonna Olda, nonna Odilla, zio Oliviero... così quando aspettavamo il primo figlio abbiamo pensato al nome Omar, come Omar Sharif che avevamo conosciuto a un torneo di bridge a Venezia: ci aveva invitati al suo tavolo, diceva che gli portavamo fortuna. Otis invece viene da Otis Redding: ascoltavamo una sua cassetta in auto quando c’è stato un incidente proprio davanti a noi. Siamo rimasti illesi, quindi abbiamo pensato a questo omaggio».

Oggi lei è un’influencer, ma è vero che non ha un telefonino?

«Ne ho uno ma di servizio, nella borsetta, che serve solo a chiamare i miei ragazzi e Osvaldo. Non è un telefono che fa le fotografie o dove mi possono mandare le mail. E poi lo perdo sempre. Anche l’altro giorno sul treno, ma me l’hanno ritrovato. Del resto solo per il Grande Fratello (dove è stata opinionista) ho fatto negli ultimi mesi 90 viaggi».

Chi sono i suoi amici nello spettacolo?

«Con Ornella (Vanoni) ci telefoniamo sempre: quando non chiamo io in settimana mi telefona lei. E lo stesso con Iva. Con Al Bano ci facciamo gli auguri... ma con questo fatto che perdo le rubriche, se non mi chiamano loro io non lo posso fare. Senza contare che ho sempre paura di disturbare. Achille Lauro mi dice: “Non mi chiami mai”. È gentile, mi manda sempre i regali, da poco la sua linea di trucchi... ho usato anche qualcuno dei suoi ombretti fosforescenti e poi i brillantini che sugli occhi non guastano mai. Anche Fedez mi ha mandato i suoi smalti tutti colorati, bellissimi, io mi azzardo a metterli, tipo quello verde pistacchio, ma mio marito mi dice di toglierli perché non ho le mani lunghissme, da mettere in risalto».

Ma i colori sono parte di lei, con buona pace delle armocromiste.

«Ricordo delle prove di Canzonissima: sul palco c’era Modugno e io ero in platea a sentirlo, con delle scarpe fucsia molto moderne. Lui a un certo punto si è fermato e ha urlato: “A chi appartengono quelle scarpe viola? Per favore toglietele subito, io non voglio il viola sul palco”. A parte che erano fucsia e poi che non ero sul palco... ma per fargli piacere sono andata comunque a cambiarmele e sono tornata con delle ciabatte che mi aveva prestato una sarta».

Pensa mai a come sarebbe stata la sua vita oggi se suo papà non le avesse fatto fare quella scuola di canto?

«Volevo fare la maestra d’asilo ma sarei finita sicuramente in una di quelle fabbriche d’abbigliamento, vista la tenacia di mia mamma, arrivando alla pensione lì. Certo, Osvaldo ci sarebbe stato comunque. Non ho dubbi, lo avrei incontrato senz’altro».

"Canto amore e donne. Il ritiro? Mai pensato. I miei concerti sono pieni di bambini". Nel nuovo brano riferimenti alla violenza. "In gara a Sanremo? Se trovo il pezzo giusto..." Paolo Giordano il 3 Maggio 2023 su Il Giornale.

Orietta Berti, non ha mai pensato al ritiro?

«Mai».

Dopo quasi sessant'anni di carriera.

«Ma no, potrei anche non fare dischi o spot pubblicitari, ma senza pubblico non potrei stare. Fare concerti d'estate è bellissimo, senti il calore della gente».

Tutti coetanei magari.

«Ma figurarsi, sono pieni di bambini nelle prime file, vengono, chiedono foto e conoscono le mie canzoni a memoria».

Orietta Berti, nata Galimberti nel 1943 due mesi prima di Mick Jagger degli Stones, è più impegnata di un amministratore delegato. È uscito il video de Il coraggio di chiamarlo amore (da un cofanetto kolossal con 6 dischi di cui parlerà dopo), gira uno spot dopo l'altro, fa concerti e pubblica pure libri: «Quello sulla cucina è piaciuto molto, ci sono le mie ricette di famiglia, come le tagliatelle tricolori del 25 aprile che preparava mia nonna con gli spinaci e le rape rosse, ora le vendono già fatte». Insomma, a 79 anni vive la sua seconda gioventù, che poi è la prima per chi l'ha conosciuta con Mille di fianco a Fedez e mica c'era quando lei cantava E lui pescava a Canzonissima del 1972.

Oggi forse è più impegnata di allora.

«Ogni tanto il mio manager Pasquale mi chiede: ma come fai?».

Il brano Il coraggio di chiamarlo amore parla di violenza fisica, psicologica e sociale sulle donne. Le è mai accaduto?

«Mai, sono stata molto fortunata. Ho avuto molto rispetto e nessuna avance pericolosa. Negli anni Sessanta avevo discografici gay, mi mandarono a scuola di trucco e parrucco perché, dicevano, una star deve sapersi truccare da sola».

Quando?

«Direi intorno al 1963. Quando cantai Io ti darò di più nel 1966 mi mandarono a farmi la piega da Vergottini, quelli del caschetto della Carrà».

Le regine erano Mina, Vanoni, Zanicchi e Berti.

«Per Mina mi tolgo il cappello. Magari anche io prendo le sue stesse note, ma ho meno vigore».

Vanoni?

«Non voleva farsi fotografare con me perché diceva che ero troppo colorata. L'altro giorno mi ha telefonato: Ma quanti soldi guadagni con tutta questa pubblicità?».

Zanicchi.

«Mi ha chiamato pochi giorni fa, era caduta dalle scale. Anche io cado spesso. Quando hai i tacchi, stai attenta. Ma senza tacchi no, e allora cadi. Nel video di Mille con Fedez e Achille Lauro avevo la caviglia fasciata per una caduta. Lo sa che Fedez mi chiama spesso? A Pasqua mi ha mandato un uovo e tanti cuoricini».

E Lauro?

«Beh adesso è in giro per il mondo. Lui mi spedisce i suoi cosmetici, mi piace molto l'ombretto Maleducata».

È stata opinionista al Grande Fratello Vip e forse tornerà. Un ritorno anche a Quelle brave ragazze con Maionchi e Milo su Sky?

«Certo che tornerei, mi sono divertita, avrei ancora da raccontare tanti aneddoti».

È vero che alla sera si lava tutti i vestiti utilizzati nella giornata?

«Sì anche le scarpe e le valigie. Me lo ha insegnato la mia mamma. Durante Quelle brave ragazze la Maionchi mi urlava dall'altra stanza basta con tutta quest'acqua che scorre, sprecona!».

È nata a Cavriago in provincia di Reggio Emilia, paese così di sinistra che c'è pure uno dei pochi monumenti dedicati a Lenin. Cosa pensa di Elly Schlein?

«Il suo arrivo è molto positivo per la politica e per la figura della donna che ha ancora tanti pregiudizi intorno a sé».

Li canta nelle nuove canzoni del cofanetto La mia vita è un film.

«Il prossimo singolo sarà Diverso, dedicato ai ragazzi e alle ragazze abbandonate dai genitori perché gay. Ce ne sono tantissimi! Ma come si fa? Neanche le bestie abbandonano i loro cuccioli. Invece il singolo uscito adesso, Il coraggio di chiamarlo amore con il video dei Sugarkane, avrebbe dovuto essere in gara a Sanremo. Ma poi anche Amadeus mi disse: Torni dopo tanti anni, canta qualcosa di allegro».

Tornerebbe a Sanremo in gara?

«Certo che sì, ma con la canzone giusta. Ne ho parlato con Hell Raton, magari me lo compone lui con la sua squadra».

E tormentone estivo?

«Il mio manager ha tante idee, magari arriva qualcosa, ma adesso non so nulla».

Lei sbaglia spesso i nomi.

«Eh lo so, forse li storpio perché sono troppo veloce. Dopo aver chiamato naziskin i Maneskin, il mio manager mi ha chiamato in camera per dirmi: Ma cosa hai combinato?. Argentero lo chiamo sempre Formentero».

Pensi che problemi se avesse un amante.

«Per fortuna alla mia età non ho più questo problema...»

Estratto dell’articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” il 2 maggio 2023.

All’improvviso arrivano le nipotine. Di quattro anni Olivia e di un anno Ottavia. E l’intervista con Orietta Berti finisce così. Sono le bambine di Otis, il figlio più giovane di Orietta, classe 1980. Anche per le piccole hanno scelto nomi che iniziano con la O. «Noi siamo così legati alle tradizioni qui...» ci racconta Orietta. […] 

La tradizione italiana, ovvero il dna della musica e della bella storia professionale di Orietta Berti, giunta col vento in poppa alla viglia degli 80 anni che compirà il prossimo 1giugno. […]

Le piacerebbe rifare il GFVip?

«Per ora non ho avuto ancora notizie al riguardo ma se me lo riproponessero le dico: perché no? Ho viaggiato molto in treno, più di novanta viaggi sull’Alta Velocità, e mi sono confrontata con altri viaggiatori, madri di famiglia, nonne. Mi sono resa conto di quanto il programma fosse seguito. 

Mi hanno dato dei consigli che forse hanno aiutato anche Pier Silvio a dare un po’ più di disciplina ai concorrenti. A inizio trasmissione pensavamo di poter approfondire molti temi: dalla depressione, alla solitudine di chi ha perso un proprio caro, dalla prevenzione dell’Hiv al tema delle donne che non possono avere figli. Poi la convivenza nella Casa e i caratteri dei protagonisti hanno preso il sopravvento. È giusto che tutto torni a fondarsi sul rispetto reciproco».  […] 

Le cover dei cellulari?

«Dei ragazzi di Reggio Emilia mi hanno chiesto di utilizzare delle mie foto per produrre queste cover esclusive. Ho dato il permesso senza chiedere niente. È giusto che guadagnino loro». 

Come riesce a conquistare sempre il cuore dei giovani?

«Da loro prendo molti stimoli e molte idee alle quali magari da sola non avevo neppure pensato. Loro premiano la semplicità. Le nuove generazioni hanno voglia di rapportarsi con persone normali, positive, con i piedi per terra, vere.

Capiscono subito se una cosa è finta. I giovani mi vogliono bene perché ho sempre detto la verità e raccontato quello che succedeva a me e alla mia famiglia con ironia». 

Mille con Fedez e Achille Lauro è stata uno spartiacque in questo senso che l’ha avvicinata ulteriormente ai ragazzi.

«Ogni estate, anche adesso, siamo in cerca di tormentoni. Me ne mandano molti poi con i miei collaboratori e mio figlio valutiamo. Con Mille non avrei mai immaginato di fare più di 170 milioni di visualizzazioni. Ormai i dischi d’oro e i dischi di platino li danno così. 

Fenomeni così sono davvero rari. Me lo ha detto anche Fedez. Si figuri che di Mille non c’era nemmeno il disco. L’ho fatto io per inserirlo nel cofanetto...».  […]

Ci racconti dello scorso Sanremo.

«Avrei voluto portare proprio Il coraggio di chiamarlo amore, ci tenevo moltissimo. Ma poi Amadeus mi ha convinta, visto che tornavo dopo ventinove anni al Festival, a portare un brano d’amore positivo sulla mia storia d’amore nel quale tante coppie come la nostra potessero rispecchiarsi. Così è nata Quando ti sei innamorato». 

A inizio carriera cantò in abito da suora, ricorda?

«Erano gli esordi e quello fu un ricatto dei discografici internazionali. Avevano queste canzoni di Suor Sorriso che all’estero andavano forte e in Italia dovevano uscire per le Edizioni Paoline in Vaticano. Io accettai ma mi garantirono che poi avrei partecipato a Un disco per l’estate del 1965. Andò bene, vinsi e lì cominciò tutto».

Ora è impegnata anche come ambasciatrice della cucina emiliana, è vero?

«[…] Ci sono piatti emiliani ma anche di altre regioni, quelli che mi sono piaciute di più, a mio gusto. Abbiamo messo il tempo di preparazione oltre a quello di cottura così le persone si possono regolare se hanno tempo o meno per realizzarlo. Del resto la nostra società ormai è tutta a tempo. Sembra un rap. Se sbagli una parola vai fuori».

Orietta Berti: «Se sono a dieta mangio brioche. Le mie ricettine afrodisiache fanno venire il risolino scemo» ANGELA FRENDA su IO Donna il 25 dicembre 2022.

L’artista italiana racconta la sua ultima fatica, un libro di ricette: «Nella mia cucina. Le ricette di una vita». E svela i suoi segreti a tavola

La questione dello scorrere del tempo Orietta Galimberti, in arte Orietta Berti, classe 1943, l’ha risolta da tempo. Ovviamente a modo suo: «Nella vita il vero fascino che ci ritroviamo è proprio l’età. E comunque io evito sempre di guardare la mia carta d’identità». Dai primi successi del 1964 con le canzoni di Suor Sorriso fino alla popolarità raggiunta nel 2021 con Mille insieme a Fedez e Achille Lauro, Orietta cavalca da sempre l’onda del successo. Tra tour in Italia e all’estero (Usa, Russia, Giappone, Australia), 12 partecipazioni al Festival di Sanremo e 16 milioni di dischi venduti, continua a essere un’icona e a conquistare con la sua voce e la sua simpatia il pubblico di tutte le età. In queste settimane in piena promozione del cofanetto di sei cd ( La mia vita è un film- 55 anni in musica ), tra un concerto, un’ospitata al Grande Fratello Vip e il compleanno degli 80 anni che si avvicina (a giugno prossimo), la cantante italiana vive una terza giovinezza. Così carica di energia, entusiasmo e passione che viene da chiedersi, e da chiederle: come fa? E soprattutto: dove ha trovato l’energia per scrivere anche un libro di cucina?

Il libro

Esce infatti in questi giorni la sua ultima fatica «Nella mia cucina. Le ricette di una vita» (Gribaudo, con le foto di Rossella Venezia). E anche questa volta l’interprete di Fin che la barca va ha spiazzato un po’ tutti. «Ma si figuri! È che io sono così, non mi stanco mai. Mi sento una ragazzina dentro. Mentre fuori... Fuori non ci penso. Nemmeno per un istante. E poi erano anni che pensavo di metter giù le mie ricette. Quelle che faccio per gli amici e gli affetti più cari. Ma anche quelle che appartengono alle tradizioni della mia famiglia. Questo libro è nato proprio per recuperarle e per conservarle per sempre». Ma lei come cucina, dica la verità? «Ah, pur essendo un’emiliana doc non sono all’altezza, purtroppo. Non sono certo una rezdora. Mia madre e mia nonna erano più brave! Però, ecco, me la cavo. E poi certo ho sempre cucinato a casa per la mia famiglia. Usando proprio le nozioni che avevo ereditato. Poi, ad un certo punto, ho perso il ricettario di nonna Odilla ed è stato un grande dolore. E anche il libricino nero delle ricette di mia suocera. Questo libro nasce anche per colmare queste mancanze. Sono cresciuta vedendo la mamma e la nonna con le mani in pasta e i grembiuli sporchi di ripieno e farina. Raccogliersi con la famiglia per gustare le lasagne è sempre stato un rito. Devo solo ancora decidere se era più buono il ripieno dei tortelli di mia madre o quello di mia suocera. Bel dilemma».

La convivialità

Sfogliando il suo libro, però, si capisce che lei apprezza della cucina soprattutto l’elemento conviviale. La capacità di poter riunire intorno alla tavola le persone e metterle in relazione. «Certo, è l’aspetto che mi piace di più. Cosa c’è di più bello che invitare a pranzo o a cena degli amici? Ecco perché in questo capitolo ho deciso di realizzare la guida perfetta per tutte le persone che amano la buona cucina e non rinunciano a gustarsi i piaceri della vita. Qui raccolte troverete infatti ricette della tradizione italiana, coniugate a proposte originali e golose: il libro è diviso in quattro sezioni, ognuna adatta alla giusta occasione». Ecco, il mio occhio è caduto subito sulle ricettine afrodisiache. «Per chi come me ha poco tempo e deve spesso optare per uno spuntino, le ricette afrodisiache sono perfette. Sa, noi della tv siamo abituati a finire tardi. Io amo la buona cucina, e spesso chi fa una vita come la mia deve adattarsi a orari e ritmi particolari. Prima dei concerti, per esempio, non si può cenare, si mangia sempre dopo e per lo più piatti freddi. E così già da giovane mi ero specializzata in mettere a tavola subito qualcosa per me e gli altri colleghi. Roba semplice, eh. Cose improvvisate. Tipo: gambi di sedano col prosciutto. Prugne secche col gorgonzola. Oppure gli spicchi di grana con posa di caffè e miele. Più, ovviamente, sempre, il vino come accompagnamento. Io preferisco le bollicine». Ma perché afrodisiache? «Ah perché ti fanno venire quel risolino scemo... Sa quello di quando inizi a divertirti?». Sì, credo di intuire. «Eh, per questo afrodisiache. Mi ricordano la mia gioventù».

A tavola con il marito Osvaldo

Ha conquistato con quelle suo marito Osvaldo? «Ma nooo. A lui non piace nulla. Pensi che quando l’ho incontrato per la prima volta gli dissi: venga a casa mia a prendere un caffè. E lui: non mi piace. E io: e se gli metto accanto dei cioccolatini? E lui: non mangio cioccolato. Ma capisce che antipatico? Poi, dopo una settimana, lui suonò alla mia porta con una forma di formaggio in mano. E mi disse: è il più buono dell’Emilia Romagna. E io: ma figuriamoci, qui il più buono è quello delle vacche rosse. Insomma, le è evidente che a tavola è una relazione difficile la nostra. Far da mangiare per lui è molto difficile». Mi faccia qualche esempio, se vuole. «Beh, i tortelli verdi non li vuole con la ricotta. Non gli piacciono nemmeno quelli di zucca. Ama gli spaghetti aglio e olio. Le penne all’arrabbiata. Il pesce crudo. Doveva nascere nel Salento, non in Emilia Romagna!».

Le ricette di famiglia

Poi c’è il capitolo delle ricette di famiglia. «Certo, perché i nostri ricordi sono spesso legati ai piatti che mangiamo, e che magari siamo anche soliti preparare insieme ai nostri cari. Alcuni dei ricordi più belli sono legati alla mia famiglia e alla mia terra, l’Emilia, e naturalmente a molti dei piatti che rendono unica la cucina di questo territorio, e che col tempo sono diventati parte integrante della tradizione italiana. Questa sezione è dedicata a loro, a tutte le ricette che la mia famiglia si tramanda da generazioni». Gli ultimi due capitoli invece sono Ricette da condividere e Peccati di gola. Belle premesse. «Non c’è cosa più bella del mangiare in compagnia delle persone che amiamo. A volte, però, trovare piatti che mettano tutti d’accordo può essere difficile... Ma non con quelli di questa sezione, spaziando tra primi e secondi, tra carne, pesce e molto altro, io sono sicura che accontenteranno chiunque. Ho messo il pollo arrosto, l’arrosto piemontese, il riso alla pilota, i gamberoni al forno. Ma anche la focaccia genovese, che io amo sia con la Nutella sia con il lardo macinato. Io però quando avevo ospiti a tavola sa cosa facevo? Chiedevo a mia mamma o mia suocera di cucinare. Erano insuperabili. Sennò compravo la pasta fresca fatta al momento». E i peccati invece? «Sono i dolci che amo. Dolci favolosi. Come la zuppa inglese. O il dolce mattone: si fa con i frollini, la crema al burro e le uova».

La dieta

Signora Berti, ma lei è mai stata a dieta? «Una volta. Da Chenot. Persi nove chili. Ma poi li ho ripresi subito. Adesso per me la dieta è saltare il pasto e magari mangio solo una brioche. O un erbazzone. Per concedermi magari invece a cena una bella polenta coi ciccioli o il salame, i fagioli... Che meraviglia!». Il suo piatto preferito? «Mi piace molto la zuppa imperiale, è una torta con le uova, il burro e il formaggio. Il tutto tagliato a dadini e messo nel brodo misto con il lesso. Sa, poi la verità è che comunque per me cucinare è una cosa bella. Lo trovo il miglior modo per rilassarsi e divertirsi. Quando sono stanca, preparo un bel ragù o dei biscotti, e poi magari regalo tutto». Senta, ma sa che il suo caro amico Fabio Fazio ora produce cioccolata? «E certo. Ma deve ancora mandarmela. La vorrei assaggiare. Però magari aspetta che vada da lui in trasmissione a presentare il mio cofanetto dei cd». Alla fine però questo libro di ricette è un po’ una sua autobiografia. Si può dire? «Sì, è la storia della mia vita. Condita da tanti sapori: i piatti che troverete raccontati». Ma lei come riesce a fare tutte queste cose? «Perché gliel’ho detto: io non mi fermo mai. Non so cosa sia la noia. Sono fatta così, sin da quando sono piccola. È la curiosità che mi spinge ogni giorno ad alzarmi dal letto. Anzi, posso darle un consiglio?». Certo. «Le faccia quelle ricettine afrodisiache lì... Non succede nulla di male. Al massimo si è un po’ più allegri». Va bene grazie, proverò.

Alisa Toaff per adnkronos.com lunedì 16 ottobre 2023.

Francesca Romana Rivelli in arte Ornella Muti, 'La moglie più bella' d'Italia ad appena 14 anni, icona di una bellezza e sensualità senza tempo, si racconta oggi in un'intervista con l'Adnkronos, a partire dall'esordio, quando il regista Damiano Damiani le assegnò il ruolo che si ispirava alla vicenda di Franca Viola, da Alcamo, che nella Sicilia del 1965, appena diciassettenne, fu la prima donna italiana a rifiutare il matrimonio riparatore. Un esordio non semplice, sottolinea la Muti: 

''Ero una bambina non ancora donna, in un mondo di uomini. Era un mondo al quale non ero abituata, anche abbastanza violento al punto che mia madre si ribellò. Damiani era molto duro con me, mi dissero delle cose terribili e se protestavo mi ripetevano: 'Dovresti essere contenta di fare un film'. Una volta le cose erano molto diverse da oggi''.

Questa prima esperienza sul set fu molto traumatica al punto che, rivela, ''non volevo più recitare: feci un provino ed ero talmente spaventata che non lo superai. Poi quando mi misi con Alessio Orano (il suo primo marito, ndr.) un nostro amico mi disse: 'Dai facciamo un film a Ponza e Palmarola ('Il sole sulla pelle', ndr.) e accettai perché era tra amici e mi rassicurò molto. Grazie a questo film mi riavvicinai al cinema''. Nel '74 l’incontro con Mario Monicelli e il successo in 'Romanzo popolare' al fianco di Ugo Tognazzi: ''Arrivai sul set e dissi a Mario che aspettavo un bambino e chiesi di sostituirmi - ricorda la Muti - ma lui mi disse: 'No, assolutamente no'". 

"Io ho grande ammirazione e un grande affetto per Ugo Tognazzi perché era una persona meravigliosa - continua l'attrice - all'epoca tutti mi dicevano che ero pazza, che se avessi tenuto il bambino mi sarei rovinata la carriera. Per fortuna scelsi di non interrompere la gravidanza, avevo una vita dentro di me e non poteva pagare per colpa dei miei errori''. Ma è vero che tutti gli attori ci hanno provato con lei? ''Molti sì - ammette - ci sono state persone che mi hanno corteggiata in maniera sgradevole senza capire che non era il caso, ero molto ingenua e forse essendo molto compagnona ho alimentato false speranze''.

E con Tognazzi come andò? ''Ugo non ci hai mai provato con me'', sottolinea la Muti. E Alain Delon? ''Mi ha coccolata e fatta sentire una mini regina, non credo che ci abbia provato. In realtà non mi sono mai sentita così bella - continua - mi trovavo sempre mille difetti, oggi guardandomi indietro mi dico: 'che stupida che ero'''. 

E Francesco Nuti ? ''Quando è morto ho provato un dolore immenso. Era un ragazzo talentuoso, sensibile, un poeta, aveva questa faccia ironica, triste e dolce, era una persona meravigliosa'', ricorda commossa. La Muti, che ha lavorato con tantissimi registi, parla con affetto di Virzi’: "E’ una persona meravigliosa, un uomo molto simpatico, con lui ho fatto un piccolo ruolo e mi sono trovata benissimo. Marco Ferreri, Ettore Scola, Dino Risi e Mario Monicelli mi hanno insegnato tutto, mi hanno regalato la carriera che ho'', ammette la Muti. 

Accetterebbe oggi di posare ancora nuda? ''No - risponde la Muti - Ho un rapporto molto difficile con i nudi. Non ho mai amato tanto stare nuda, nella mia vita normale non ho problemi a spogliarmi ma nel cinema non amavo molto mostrarmi nuda perciò all'epoca chiedevo che molte scene venissero controllate. Quello era il periodo in cui i nudi andavano tanto e io mi sentivo in imbarazzo nei film in cui apparivo nuda'', confessa.

Si è mai pentita delle scelte che ha fatto nella vita e soprattutto per amore? ''Non ho rimpianti - dice l'attrice - se sei inesperta o hai carenze affettive spesso ti fai dei film ma poi ti rendi conto che saresti dovuta scappare molto prima. Non rinnego niente, è stato il mio cammino, ero io nelle mie fragilità, la cosa importante è imparare dalle esperienze negative che devono servire da lezione, fa parte della nostra evoluzione. La vita ci dà delle lezioni per evolverci, sta solo a noi capirlo''. ''Sono single da tantissimi anni - aggiunge la Muti - ho avuto un momento in cui ho pensato che forse c'era qualcuno che mi piaceva in un altro Paese ma sarebbe stata una storia che mi avrebbe portato a star male. Oggi per me è difficile vedermi accanto a un uomo - ammette - dovrei trovare un uomo come me, che la pensa come me e più si va avanti con gli anni, più si diventa esigenti''.

Che ricordi ha invece della sua esperienza al Festival di Sanremo? ''Mi sono sentita persa - rivela - mi aspettavo di essere un po' più accompagnata soprattutto quando vedo che l'anno dopo invece per Chiara Ferragni sono state fatte milioni di prove. Io sono arrivata al Festival, ho fatto un check, mi hanno detto 'devi fare così' e fine. L'ho trovato ingiusto. Sono stata poco seguita poco guidata e poco accompagnata - ribadisce la Muti - ma pazienza, è andata bene, sono stata pulita come lo sono sempre e il pubblico lo ha apprezzato''. Come si è trovata con Amadeus ? ''Non lo so come mi sono trovata - dice ironica - l'ho visto un secondo, penso che lui avrebbe potuto darmi una mano in più, lui era il padrone di casa, io un'ospite. Credo che sia un bravissimo direttore artistico per il resto non lo so, non lo conosco''. 

L'attrice spiega di non aver mai amato la mondanità. Oggi vive in campagna assieme alla figlia primogenita Naike e ai suoi animali: ''Ho scelto di vivere in un posto tranquillo e sereno assieme a mia figlia che ho fortemente voluto, ho rispetto della vita, non potevo per nessun motivo perdere quella creatura che mi era stata donata. Ho tre figli che amo tantissimo e che sono molto uniti tra di loro, non cambierei mai la mia vita". ''Con Naike combattiamo per tanti ideali comuni - spiega ancora la Muti - io ad esempio combatto per le cure alternative, ho iniziato ad utilizzare farmaci omeopatici da quando ho 14 anni. Al primo allarme infatti chiamo il mio dottore omeopatico che è a Napoli e che è un mito, se poi c’è bisogno di usare un farmaco lo uso ma aspetto che me lo prescriva il mio medico''. 

Sulla battaglia che da anni con Naike sta facendo per legalizzare la Cannabis a scopo terapeutico spiega: ''Cura varie malattie ma in Italia si prediligono medicine che paghi quattro volte tanto. Probabilmente ci sono forti interessi farmaceutici perciò in Italia la cannabis viene demonizzata. Per essere curativa - precisa - la cannabis deve essere prescritta da un medico e per prenderla devi avere una ricetta e andare in farmacia. La cannabis a scopo ricreativo invece è un’altra cosa e in Italia si fa ancora molta confusione''.

La Muti è molto amata anche sui social, dove assieme a Naike porta avanti le sue battaglie: ''Io e mia figlia vogliamo fare delle borse vegane (artigianali e animal free, ndr.) ma dietro c'è una ideologia - sottolinea- io sono onesta con me stessa faccio le cose perché ci credo''. E cosa ne pensi degli influencer? 

''E' gente che vende roba, che mostra una cosa per guadagnarci sopra quindi solo a scopo di lucro''. Progetti futuri? ''Ho avuto un'offerta negli Stati Uniti ma a causa dello sciopero degli attori è tutto fermo - svela l'attrice - in Spagna mi hanno chiamata per un'altra proposta ma ancora non ho deciso, sicuramente ho un grande progetto di teatro in Italia''. E del suo amore, ricambiato, per la Russia (è di madre estone e nonna russa), racconta: ''Avevo diversi contratti anche lì, poi c’è stata la pandemia e ora la guerra e ormai sono tre anni che me li posticipano. 

Non credo che vada punito un popolo per una persona sola. Ho una mia casa di produzione - ricorda la Muti - ma non solo di film, ho iniziato a fare dei piccoli spot per aziende ecosostenibili e ora siamo entrati nella produzione del film 'Lo sposo indeciso' di Giorgio Amato che andrà su Netflix dove interpreto il ruolo della madre di Ilenia Pastorelli. Ma è solo l’inizio di tante altre cose. Ci sono delle belle storie che voglio raccontare''. 

Cosa ne pensi del cinema italiano oggi? ''In sala ormai non è più tanto forte - dice - vanno bene solo i grandi film americani sennò si va nelle piattaforme. I francesi su questo sono molto più capaci, si sono sempre protetti dall’America e hanno tenuto alto il cinema francese. La televisione ci bombarda di film e di serie tv, i giovani attori idoli non ci sono più, c’è troppa confusione - prosegue -. In america per fare l'attore si studia molto, loro si preparano davvero. Prima i registi comandavano e dovevi fare quello che dicevano loro, ora devi andare con un tuo bagaglio forte e quindi ogni attore ha il dovere di prepararsi visto che un film si fa in anche in quattro settimane'', conclude la Muti. (di Alisa Toaff)

Dagospia domenica 15 ottobre 2023. Da "La Zanzara" - Radio24 

Naike Rivelli a La Zanzara su Radio 24: “Al mio compagno piaccio pelosa, se tocco il pelo mi lascia”. “Ho la vulva pelosissima, spesso straborda fuori dalle mutande”. “Alle ragazze più giovani che si depilano per sempre dico: un giorno ve ne pentirete”. “Vivo con due maiali, che ho chiamato Chiara e Fede, sono due influencer intelligenti. Grazie a loro ho smesso di mangiare carne”. 

“Hanno ucciso i maiali senza pietà, gli esseri umani hanno distrutto il pianeta. Il periodo migliore è stato quello della pandemia”. “Se sulla Terra restassero Salvini, la Meloni e un maiale, salverei il maiale”. A La Zanzara su Radio 24 Naike Rivelli, figlia di Ornella Muti, parla delle sue parti intime: “Io sono tutta pelo, sono per la vulva pelosa e ho un pelo importantissimo che ogni tanto straborda fuori dalle mutande, non lo taglio mai, ma se lo facessi probabilmente il mio compagno mi lascerebbe.”

Continua: “Quando ho passato la prima notte insieme al mio compagno volevo farmi la ceretta ma non ci sono riuscita e ho pensato di non concludere, ma quando l’ha vista, ha detto “grazie a dio”, da lì sono rimasta pelosa. Le ascelle? No, quelle le depilo. Oggi le pelose non ci sono più e le più giovani si depilano per sempre, ma non sanno che un giorno potrebbero pentirsene”. Lei non aveva detto di essere bisessuale?: “Mi fanno senso tutti piselli tranne quello del mio compagno, sono rimasta un po’ bisessuale ma non mi interessa, ho 50 anni e ho fatto le mie esperienze; ora mi sono accasata, ho il mio compagno, i miei maiali, ho ancora fantasie erotiche ma sempre e solo col mio compagno. 

Ho avuto problemi con la mia menopausa, però mi è rimasta la voglia di trombare solo con il mio compagno con cui sto da cinque anni”. Su droga e prostituzione: “Sono a favore della legalizzazione della droga ma non della cocaina. La coca l’ho provata, ho avuto momenti di merda ma mai dipendenza; gli acidi li ho provati da ragazza una volta, mai provato l’eroina. Sono anche per legalizzare la prostituzione, la donna fa quello che vuole, il vero affronto è che una donna che voglia prostituirsi non possa farlo”.

La Rivelli è stata anche protagonista della “resistenza” contro l’abbattimento dei maiali al santuario ‘Cuori Liberi’: “Vivo con due maiali, la Chiara e la Fede, il riferimento ai Ferragnez lo vedete voi, per me sono i miei influencer intelligenti. Non dormono in camera da letto ma in salotto, ognuno ha la sua cuccia. I miei maiali quando mi vedono la mattina scodinzolano, li bacio sul naso, proprio come un cane; fanno colazione pranzo e cena con noi, mangiano cereali con frutta. Se i vostri figli vedessero i miei maiali li vorrebbero anche loro. Ho smesso di mangiare la carne grazie ai miei maiali. Per me sono come figli, uguali agli esseri umani”.

“Se avessero fatto a me quello che hanno fatto ai maiali nel santuario “Cuori Liberi” – dice ancora la Rivelli - io oggi non sarei qui, non mi avrebbero manganellato ma ucciso, non li avrei fatti entrare. Se cercano di ammazzarti il cane che fai? Quei maiali dormivano nel loro rifugio nelle cucce all’aperto. C’erano due maiali malati ma tutti gli altri erano sani e avevano scampato questa cazzo di peste”. 

E ancora: “Hanno sparato ai maiali senza pietà, avrebbero potuto farlo in maniera diversa seguendo il protocollo con una iniezione e poi due di questi sono sopravvissuti alla peste suina, bisognerebbe studiarli non ucciderli. L’essere umano si può difendere, il maiale è indifeso. Noi umani abbiamo distrutto la terra, la natura è distrutta, gli unici momenti belli per gli animali sono state le pandemie”. Se dovesse salvare un maiale e Salvini, rimasti gli unici sulla Terra chi salverebbe?:  “Salvini è un diversamente intelligente con un problema con l’alcol, lo vedo sempre in qualsiasi posto con un bicchiere in mano. Tra Salvini e un maiale salverei il maiale, tra la Meloni e un maiale, sempre il maiale. La Meloni è più pericolosa che fascista ma nell’essere pericolosa ci può essere anche essere fascista.”

Estratto dell’articolo di Alberto Dandolo per Oggi – oggi.it il 5 Luglio 2023.

«Ho perso mio padre che non avevo neanche 12 anni, mi sono affacciata alla vita da “zoppa”, senza sapere chi sono gli uomini». Ornella Muti racconta a OGGI, nel numero in edicola da giovedì 6 luglio, come la piccola e impaurita Francesca Rivelli (il suo vero nome) è diventata una delle attrici più desiderate del cinema italiano («Fu Damiano Damiani a cambiarmi nome ispirandosi a D’Annunzio»). 

Lo fa a cominciare dalla scelta di far nascere, contro la volontà di tutti, la figlia Naike con la quale posa per il servizio di copertina di OGGI: «Avevo 18 anni. In Italia l’aborto era illegale, all’estero si poteva fare tranquillamente e persino il mio agente cinematografico di quel periodo me lo consigliò, perché dovevo girare un film.

Avrei dovuto abortire per fare un film? Assolutamente no». Parla anche del rapporto simbiotico con Naike: «Ho sempre sentito la necessità di averla vicino. Lei si dedica molto a me: mi gestisce tante cose nel lavoro, ad esempio. Quando è nata, non solo ero piccola di età ma soprattutto piccola di testa. Forse per questo ho ancora dei tratti infantili».

TUTTI GLI UOMINI DELLA SUA VITA – Da Ugo Tognazzi ad Alain Delon, a Jeremy Irons, Muti passa in rassegna i grandi uomini incrociati nella sua vita, alcuni diventati amori: «Con me ci hanno provato quasi tutti, ho passato la vita a difendermi dagli assalti degli uomini. Celentano? Lui, una volta, fece dichiarazioni in merito con sua moglie presente, sono rimasta francamente un po’ sorpresa. Io, a suo tempo, ho avuto rispetto della sua famiglia».

Estratto dell'articolo di Fabrizio Accatino per “la Stampa” il 30 giugno 2023.

Uno dei suoi rammarichi è quello di non essere riuscita a portare a Torino Il pittore di cadaveri, lo spettacolo con cui negli ultimi anni ha girato l'Italia. Ecco allora che "Racconti di cinema", al Parco Dora Live, è stato per Ornella Muti una sorta di esame di riparazione del capoluogo piemontese. Dopo l'evento è di buon umore. «Ho recitato alcuni passaggi di quella pièce, che comunque non ho ancora perso la speranza di portare da queste parti. Poi Elena Galliano mi ha fatto un'intervista sulla mia carriera cinematografica. E in mezzo ci sono state le parentesi jazz del Pino Melfi Quartet. È stata una bella serata». 

(…)

Com'è stato essere diretta da mostri sacri come Monicelli, Ferreri, Risi, Steno, Magni, Scola?

«Erano tutti personaggi straordinari. Di Ferreri si diceva che fosse scorbutico, eppure con me si rivelò sensibile e dolce. In quanto a Monicelli era crudo ma sincero. Per tutte le riprese di "Romanzo popolare" mi ignorò, poi alla fine andò dal suo assistente e gli borbottò: "Dì a quella stronza che è stata proprio brava". E insieme girammo ancora "I nuovi mostri" e "Panni sporchi"».

Chi era Francesco Nuti?

«Una persona sensibile e un grande attore, capace di rileggere la comicità toscana in una chiave personale, malinconica. La sua morte è stata un dolore. Chissà, forse si portava dietro pezzi pesanti della sua storia personale, che alla fine l'hanno trascinato a fondo». 

Woody Allen è stato rinnegato dai suoi attori. Anche da lei?

«Ho avuto il piacere e l'onore di essere diretta da lui in To Rome with Love. Lui è un grande autore, che con i suoi dialoghi serrati ha cambiato il modo di fare cinema. E comunque non è mai stato condannato per nulla. Gli americani sono speciali nell'arte dello scagliare la prima pietra, come se fossero tutti senza peccato. Se facesse cinema solo chi è immacolato non lavorerebbe più nessuno». 

Il movimento MeToo ha compiuto cinque anni. Ha cambiato il mondo?

«Diciamo che ha messo sul chi va là molti personaggi del cinema. Io stessa sull'argomento ne avrei da raccontare. Mia madre mi ha sempre accompagnato ai provini fino alla maggiore età e dopo sono stata brava a non ritrovarmi in situazioni potenzialmente pericolose. Anche qui però si è andati oltre. Oggi gli uomini non sanno più come provarci, se ci fanno una carezza sul braccio hanno paura che li denunciamo. Il che è assurdo». 

Si è mai pentita di aver rifiutato il ruolo di Bond girl in Solo per i tuoi occhi ?

«Albert Broccoli mi voleva proprio, mi invitò a pranzo tre volte per discuterne. Io mi impuntai che volevo il mio costumista di allora, Wayne Finkelman. Il produttore non mollò, io non firmai e quella parte andò a Carole Bouquet. Mi è dispiaciuto? Sì. Ma che cosa devo fare, passare tutta la vita a rosicare? È andata». 

 I suoi nonni materni erano russi. Come vive questo tempo di guerra?

«Là non ho più parenti, il ramo della mia famiglia rimasto è stato deportato nei gulag in Siberia e non se n'è più saputo nulla. Ma è una terra che conosco e amo, vederla combattere contro quelli che fino a ieri erano i suoi fratelli è uno shock. Dietro la loro freddezza i russi sono buoni d'animo, se possono ti danno anche il cuore. Saperli coinvolti in un conflitto voluto da uno solo è un dolore incredibile». 

Putin l'ha conosciuto nel 2010, quando la invitò a un galà di beneficenza nella città dei suoi nonni, San Pietroburgo. Che impressione ne ha avuto?

«Di un uomo molto cordiale. Con me e gli altri ospiti fu gentilissimo, si vedeva che amava gli italiani, almeno all'epoca. Ci portò in giro per la città, facendoci da cicerone e chiacchierando molto. Certo, guardando i telegiornali si fatica a pensare che sia la stessa persona di quella sera».Ornella Muti: “Mi hanno offerto l’Isola dei Famosi, ma ho detto no”. By adnkronos su L'Identità il 23 Giugno 2023

(Adnkronos) – "Mi offrono cose orribili, come l'Isola dei Famosi. Quando me lo chiedono mi domando 'perché chiedermelo?' Ho appena finito di fare un piccola parte nel film di Giorgio Amato, dove interpreto la mamma di Ilenia Pastorelli ('Lo sposo indeciso', in uscita il prossimo 29 giugno, ndr). L'ho fatto, perché mi piace partecipare a film dove c'è ancora qualcuno che ci crede e che ci prova. Dove ti piace, dove ci speri. Oggi in Italia questo non c'è, mi dispiace dirlo ma siamo molto poco originali". Ornella Muti parla con i cronisti del Filming Italy Sardegna Festival di cui è ospite per ricevere un premio alla Carriera e fa un'analisi sul cinema italiano non proprio felice: "Io vedo molto i film in tv. E lo vedo anche nel paragone con i film stranieri: vedo storie meravigliose nei film francesi che vengono riproposte pari pari anche con le stesse inquadrature nei film italiani. Oggi è così, è molto difficile".  Sui ruoli che l'attrice vorrebbe interpretare, "c'è confusione anche per me -spiega- Non mi riconosco, vengo da un certo tipo di cinema, dove c'erano signori del set, Monicelli, Ferreri, Citto Maselli, Scola, Verdone, Nuti, devo dire che sono stata fortunata. Quindi oggi anche io sono un po' spiazzata, frastornata. Tanto che a volte preferisco fare teatro, se non c'è più un posto preferisco fare due chiacchiere ad un festival e non rovinare quello che di bello ho fatto". E rivela: "Mi offrono cose orribili, come l'Isola dei Famosi. Quando me lo chiedono mi domando 'perché chiedermelo?'. Perché se vai all'Isola alla fine vieni distrutto. Certo, offrono dei soldi, ma quelle sono trappole: io non faccio scelte che non sono nella mia linea di pensiero". Tra le offerte all'attrice anche 'Ballando con le stelle' ("con Milly ho un bellissimo rapporto, ma non sono fatta per queste cose"). Sanremo invece ha scelto di farlo. "Era diverso, lì ero io. Ma se devo essere giudicata da un signore che non sa nulla di me, e che alza le palette, preferisco stare a casa". (dall'inviata Ilaria Floris) 

Estratto dell'articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” il 22 giugno 2023.

Ornella Muti è cresciuta sul set, tra botte, lacrime e risate. Vestiti stretti da svenire, divi inquietanti, maestri dolcissimi. Quarant’anni d’autore, cassetta, kolossal. Dopo dozzine di messaggi vocali — la bella voce roca — l’attrice incastra l’incontro tra il lavoro e il caos gioioso della famiglia. 

È in partenza per il Sardinia Film Festival, in sala con Lo sposo indeciso. 

8...)

Il nome d’arte d’annunziano, Ornella Muti, lo scelse Damiani .

«Il cognome andava cambiato perché c’era Lisa Rivelli. Damiani però mi ha cambiato anche il nome. Peccato». 

Che ragazzina era?

«Timida, spaventata. Ho perso mio padre presto, ero riservata, ricordo che non mi piaceva parlarne a scuola. Quella mancanza ha segnato la mia vita. Eravamo tre donne, mia madre era straniera. Non era facile».

Sua sorella maggiore Claudia?

«Era il mio idolo. L’ho seguita nei fotoromanzi, ma ne ho fatti due, ero a disagio con le espressioni finte».

Franco Gasparri era una star.

«Era bello e gentile. Lo shock è stato l’incidente che l’ha immobilizzato. Mi ricorda Francesco Nuti, il colpo grande è quando la vita cambia in modo così drastico, ancor più della morte. Francesco, era un ragazzo semplice, dopo il lavoro e la cena suonava la chitarra e si cantava. Tutta colpa del paradiso e Stregati mi sono rimasti nel cuore». 

Con lui rideva sul set?

«Sì, ma era dolce, malinconico. Le grandi risate erano con Celentano». 

Si parla sempre della vostra storia, poco dei film.

«Siccome si finisce a parlare sempre di quello, uno non riesce a dire altro. Ma sul set Adriano faceva ridere chiunque, giocava, era bello lavorare con lui. È vero che ogni tanto bisognava interrompere e ripetere il ciak per le sue continue gag, ma i set con lui, Castellano e Pipolo, erano una festa. I suoi film sono quelli per cui mi conoscono di più, in Italia e Germania. Nel resto del mondo mi citano Greenaway». 

Ha lavorato con Troisi nel “Capitan Fracassa” di Scola, e poi con Verdone, “Io e mia sorella”, “Stasera a casa di Alice”.

«Massimo dopo il film mi chiamò: “Vado a Houston per un controllo, vediamoci quando torno, noi del segno dei Pesci”. Era sensibile, aveva fame di vita e un senso di precarietà legato alla sua condizione. Con Carlo i set sono bellissimi, lui è sereno, mai nervoso o irato». 

Con Renato Pozzetto ha girato “Nessuno è perfetto”, lui scopriva che l’amata era un ex paracadutista.

«È incredibile che con tutte le lotte Lgbtq+ questo mio ruolo di transessuale, affrontato in tempi in cui questi argomenti non si toccavano, sia passato in sordina. È un bellissimo film che diceva tante cose, la difficoltà di quest’uomo che ama rispetto al giudizio degli altri, le faceva mettere una pancia finta…». 

Il set d’esordio con Damiano Damiani, “La moglie più bella”.

«Ammiravo Franca Viola, che a 14 anni, all’epoca, aveva avuto il coraggio di mettersi contro la famiglia, il paese, le istituzioni. Il suo no al matrimonio riparatore ha cambiato il percorso delle donne». 

Non era facile neanche essere una ragazza madre, come lei.

«Ho seguito il mio cuore. Nelle cose che contano davvero sono sempre stata determinata: se hai un bambino nella pancia sei tu che decidi. Per me sarebbe stata una follia abortire perché c’era un bel film da fare». 

Damiani la colpiva per farla piangere sul set.

«Allora c’era questa brutalità, Damiani forse lo era più degli altri, non l’ha fatto solo con me. Sono arrivata sul set a 14 anni, papà morto da tre. Ero chiusa, non volevo scavare nel dolore, hanno pensato “diamole uno schiaffo e via”. Questo mi ha creato un blocco nel piangere in scena. A un certo punto mamma gli disse: “A bello, basta, eh!”». 

Monicelli diceva “siccome ha fatto miliardi di film di successo ed è bella liquidano la Muti come una bella presenza e basta. Non è vero”.

«Mario lo porto nel cuore. Era meraviglioso, senza fronzoli. Quanto alla bellezza, sono d’accordo con lui, la gente si fermava a volere quello. L’etica del set l’ho sempre avuta, il rispetto della troupe. Trovo poco etici gli attori con le bizze». 

Qualche set e collega difficile?

«Klaus Kinski era inquietante, non mi piaceva. Ma sono brava a stare per conto mio. Girai un film con Jean-Pierre Léaud difficile, aveva problemi psicologici. Con Marco Ferreri all’inizio fu dura, non ci capivamo, poi c’è stato un grande amore. Dino Risi era imponente, autoritario, ne avevo timore». 

Depardieu o Delon?

«Alain l’ho incontrato presto, ero tesa. Di persona ancor più bello, ma un divo. Arrivava con i suoi lupi alsaziani, cattivissimi, diceva “non ti muovere veloce”. Era il terrore del set. Depardieu una pila di energia».

Berlusconi la convinse a fare la tv.

«L’ho conosciuto prima che entrasse in politica. Venne in Svizzera per convincermi a fare Premiatissima . Gli dissi: ho Carolina appena nata, allatto. Lui fece abbattere una parete, creò una camerino dove potevo riposare, allattare. Ho fatto balletti e altre cose che non farò mai più».

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Ha detto no a “Solo per i tuoi occhi”, con Roger Moore

«Ho sbagliato. Broccoli mi voleva, ma io imponevo il mio costumista». 

L’avventura più clamorosa?

«Con Francesco Rosi, grande maestro e persona. Cronaca di una morte annunciata. film meraviglioso, fu trattato male. Per una scena in laguna in Colombia eravamo in battello. Il guidatore aveva solo un occhio e viaggiava veloce, s’incagliò su un lembo di terra nella giungla, tra iguane e insetti. Fuggimmo per paura che esplodesse il serbatoio. Scesi per ultima. Non perdo la testa, è successo solo quando mio figlio stava per strozzarsi». 

(…)

Ornella Muti e Citto Maselli: «Ero incinta di 7 mesi, mi volle per girare Codice privato». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 21 Marzo 2023

«Mi diede la patente di attrice vera? Ho lavorato con grandi registi, non nasco con Celentano e le poppe all’aria, sono stata la più pudica: mi sono stati attribuiti anche nudi che non ho fatto»

«Codice privato» (1988) e «Civico zero» (2007), i due film di Ornella Muti con Citto Maselli. Il primo incontro?

«Proprio per il film. Non ci conoscevamo e venne apposta con quel favoloso regalo. Ma io incinta, al settimo mese. Gli dissi di no, gli spiegai che una donna in quei momenti si prepara ad altro, ma cercò di convincermi lo stesso».

Come finì?

«Io gli dissi: Citto fammi fare questo bambino perché non posso prendere un impegno così importante in questo momento. Lui mi rispose di non preoccuparmi e di stare serena».

Quindi nacque suo figlio Andrea.

«E Citto fu il primo a venire. Subito. Mi ha coccolato tutto il tempo, mi mandava disegni, mi scriveva bigliettini e dediche».

Fu dolcemente insistente.

«Mi è stato tanto appresso. Io avevo paura, con un bambino piccolo hai la testa fagocitata da un’altra parte. Ma lui non indietreggiò e mi diede la possibilità di fare quel film in modo pazzesco, con il bambino sereno. Fu un’esperienza fantastica».

«Codice privato» è la storia di una vendetta: la figlia di un fruttivendolo che si trasforma in una donna di cultura e la vuole far pagare al compagno che l’ha lasciata.

«Mi ha regalato un film incredibile, perché raramente un attore può avere questa fortuna di fare un film dove è protagonista in tutto e per tutto, sempre lui. Con me Citto fu favoloso».

Poi «Civico zero», film-documentario in tre episodi in cui lei era una rumena emigrata in Italia senza permesso di soggiorno. Combatteva contro la solitudine e l’esclusione sociale.

«Lavorare con Citto era un arricchimento costante, era molto attento al sociale, alle esigenze delle donne, delle minoranze. Lì andò a indagare nell’anima segreta di una donna che scappa».

Che uomo era?

«Speciale. La sua casa rispecchiava le sue ricerche artistiche, era intessuta dei suoi film: era un pezzo d’arte».

Le diede la patente di attrice «vera» perché la critica la snobbava.

«Questo è stato il leitmotiv della mia vita. Eppure nel mio primo film L a moglie più bella interpretavo una siciliana che viene violentata. Ho lavorato con grandi registi. Non nasco con Celentano e le poppe all’aria, sono stata la più pudica: mi sono stati attribuiti anche nudi che non ho fatto».

Inarrestabile Vanoni. "Proviamo a dare la calma rivoluzionaria di cui abbiamo bisogno". Provateci voi a essere Ornella Vanoni. Ha debuttato nel 1956 e ora, a 89 anni, pubblica un altro disco che non è il solito disco. Paolo Giordano  l'1 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Provateci voi a essere Ornella Vanoni. Ha debuttato nel 1956 e ora, a 89 anni, pubblica un altro disco che non è il solito disco. Calma rivoluzionaria è stato registrato dal vivo con una band di sole donne, e già questo è un segnale: «Tutto è nato da una chiacchierata con Paolo Fresu, che mi ha rivelato che al festival jazz di Berchidda erano andate in scena tante bravissime pianiste, chitarriste... Allora mi sono detta: perché non fare un gruppo con qualcuna di queste talentuose musiciste?». Brava, così si fa.

Un esperimento. Ma anche la conferma che coraggiosi si nasce per caso ma solo il carattere ti consente di restarlo anche alla soglia dei 90 anni. Calma rivoluzionaria (che esce oggi in vinile e cd) è una raccolta dei classici più classici di Ornella Vanoni, da L'appuntamento a Una lunga storia d'amore passando per gli inevitabili omaggi ai suoi maestri ispiratori brasileiri come Vinicius De Moraes, Toquinho e Jobim e per alcune cover che sono sostanzialmente le linee decisive del suo identikit artistico. Intanto c'è Vita, di Mogol e Lavezzi, che è stata cantata per primo da Morandi. E c'è Anima, di Pino Daniele, davvero emozionante. E infine Ornella Vanoni canta Mi sono innamorato di te di Luigi Tenco, con il quale l'amicizia è nata a inizio anni Sessanta: «Lui ha scritto questa canzone per sua madre e io l'ho cantata al Festival internazionale della canzone di Venezia. Ho vinto la Gondola e la critica disse che avevo sovvertito le regole della canzone per donna».

In fondo Ornella Vanoni ha cambiato tante regole, volendolo oppure subendolo, grazie a una personalità che tuttora si può verificare tutte le domeniche a Che Tempo che Fa da Fabio Fazio dove improvvisa, divaga, polemizza, si perde. È dirompente e trasgressiva oggi, figurarsi sessant'anni fa quando la sua storia d'amore con Gino Paoli era su tutti i rotocalchi: «Gino è quello che abita a Nervi, non risponde al telefono ma scrive molto bene e non è criptico perché i suoi primi versi sono la sintesi della canzone». Loro due hanno fantasticato anche di un concerto insieme: «I grandi amori non finiscono mai, si trasformano in grandi amicizie».

E una amicizia grande è anche quella con Samuele Bersani che ha scritto il testo del primo inedito di questo disco, Calma rivoluzionaria: «Ho sentito il brano originario di Marisa Monte e ho pensato che era giusto far uscire un brano del genere proprio adesso. Poi è stato completamente riscritto da Samuele, che è l'ultimo dei cantautori». Riflessivo e taciturno lui, esplosiva e provocatoria lei, insieme sono davvero un ossimoro come Calma rivoluzionaria. Molto più dolce è l'altra canzone pubblicata qui per la prima volta, Camminando, in sostanza un melodioso riconoscimento che la vita, tutto sommato, è davvero bella. Di certo la vita di Ornella Vanoni è stata finora una delle più belle enciclopedie musicalculturali del secondo Novecento (e oltre). Ha collaborato con giganti come Gil Evans o Herbie Hancock o George Benson. Per lei hanno scritto autori come Fo, Conte, De André, Fossati, Dalla, Mogol, Califano, Lauzi, Cocciante.

E grazie a lei la canzone d'autore italiana ha rotto le barriere che imprigionavano la donna in un cliché dal quale si poteva uscire solo di nascosto. Ornella Vanoni lo ha fatto alla luce del sole, anzi dei riflettori, e ancora oggi rimane la più giovane pur avendo sessantasette anni di carriera. Sessantasette.

Estratto dell’articolo di Alessandro Ferrucci per “il Fatto Quotidiano” sabato 11 novembre 2023.

Ora è opinionista...

Mi fa piacere, perché davvero la domenica è una giornata triste. Non mi piace. 

Lo ha raccontato nell’ultima puntata di Che tempo che fa. Quindi è vero...

Uh, eccome. 

Da sempre.

Da quando sono piccola e non cambia neanche se intorno ho delle persone; quindi dover lavorare, proprio di domenica, è un piacere assoluto e poi Fazio è una persona carina; (pausa) lo era pure ai tempi della Rai.

(Ornella Vanoni, da quest’anno, è ospite fisso di Fabio Fazio e della sua storica trasmissione in onda la domenica sera sul Nove).

Fazio accogliente, la esalta.

Lì è tutto calmo e sereno. 

Siete un ossimoro: lei libera, lui timoroso.

Fa solo finta di avere paura. 

Lei è una guru.

No, un gufo. 

È portatrice di verità.

Quando mi dicono “sei un’icona”, mi viene subito in mente la Madonna; (pausa) non mi piace il termine “icona” associato a una persona, per carità! 

Non ama neppure “guru”?

Non lo sono, al massimo posso risultare un esempio di chi non cede, perché mi piace lavorare. 

[…] 

Finge mai un po’ di rincoglionimento?

No, ma quasi quasi posso cominciare.

Da Gabbani a Giorgia fino a Frassica, tutti le riconoscono di essere una donna libera. Ha imparato o è indole?

Con il tempo, dopo la maturità; (pausa) poi c’è l’età: superata una certa cifra nessuno ti può mettere in prigione, nessuno ti può rimbrottare e uno riesce pure a sentirsi meno fragile. 

Senza limiti?

Anche la libertà li ha. 

Quali?

Evito di entrare in questioni troppo personali o troppo delicate; in realtà nessuno di noi è completamente libero; (ci pensa) bisogna essere liberi nei sentimenti, senza essere schiavi dei sensi di colpa.

Gino Paoli l’ha ringraziata nel suo ultimo libro perché gli ha dato la libertà del sesso.

Oh, cavolo, ancora. Che palle; (silenzio) non che palle lei, ma Gino. 

Cosa è successo?

Non ne posso più. 

Però è un bel riconoscimento.

Lui credeva che il sesso fosse peccato per via di una mamma molto, molto cattolica. Poi sono arrivata io ed è cambiata la prospettiva.

Teme la diretta tv?

Non ho l’ansia, ma giusto una sfumatura di timore. 

Cosa teme?

Di cadere in qualche cazzata o di risultare poco interessante.

 Teme il politically correct?

Questo no, anzi tra un paio di puntate canterò una canzone molto complicata, molto dura, che non sono riuscita a presentare in Rai.

Che canzone?

Parla di una donna violentata che non torna a casa; (pausa) è un brano scritto da Enzo Gragnaniello poi presentata da Mia Martini; Mimì la cantava da Dio, io spero di andare altrettanto bene, anche se in maniera diversa. 

Cosa l’annoia?

Dopo una certa età ho capito che è più utile farmi piacere quello che ho e mi circonda. 

Tutto, tutto?

Mi annoiano gli scemi e gli ignoranti, quelli con cui è impossibile parlare; con il tempo si diventa più selettivi sui veri amici; (silenzio) il mio non è snobismo. 

Quante volte l’hanno accusata di snobismo?

Abbastanza all’inizio della carriera; i primi anni, quando mi esibivo, avevo un’impostazione teatrale, in realtà ero solo timida. Poi... È arrivata la canzone della mia vita, L’appuntamento, e ha cambiato tutto, mi ha permesso di entrare nel cuore degli italiani. Tra i suoi amici c’è Renato Zero. 

Ha dichiarato che lui l’ha salvata...

Quest’estate siamo stati anche qualche giorno insieme però non sono una sorcina; (ride) non sono mica come Travaglio. 

Lui lo è.

Oramai è notorio. (Cambia tono) Adoro Travaglio, lo seguo sempre.

Si sente sempre egocentrica?

Molto meno ed è questa la mia forza; non avere più l’ego, averlo sciolto; non contare più solo su se stessi, rende migliori. 

Frassica l’ha indicata come “bocca della verità perché se ne frega della diplomazia...”.

Lui è fantastico, è surreale, è uno che riesce a strapparmi delle gran risate. […]

Estratto dell'articolo di Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” giovedì 24 agosto 2023

Ornella Vanoni è sempre stata la mia cantante preferita, ero un ragazzino e lei già una cantante che cominciava ad affermarsi quando l’ho vista per la prima volta in tv e subito ne sono rimasto colpito. La sua voce era tanto particolare che poteva sembrare un po’ afona, in verità era molto melodica. Allora amavo la musica leggera, invece oggi la detesto perché le canzoni mi risultano tutte uguali, ripetitive e noiose. 

Poi sono cresciuto, mi sono trasferito a Milano per lavoro e finalmente ho conosciuto di persona Ornella, della quale mi hanno affascinato anche l’eleganza, il tatto, il modo cortese di rapportarsi agli altri. Erano i primi anni Novanta quando siamo capitati in uno stesso ristorante e ci siamo salutati, lei mi conosceva per via della mia professione, abbiamo fatto quattro chiacchiere. Un giorno mi invitò a casa sua, in largo Treves, un appartamento magnifico. Quella sera eravamo soltanto in tre, oltre alla padrona di casa eravamo Maria Luisa Trussardi ed io.

Ornella era sola e tesseva anche un po’ l’elogio della solitudine, sebbene poi avesse rammentato con malinconia e tenerezza alcuni dei suoi compagni, incluso il cantante Gino Paoli, di cui parlava con grande affetto. Mi sono fatto l’idea in quel momento che Ornella Vanoni fosse immortale. Insomma, beveva il suo vino, fumava i suoi spinelli, come ci aveva confessato, era una donna completamente disinibita, talmente libera da non essere in sintonia con la sua generazione, una che se ti deve mandare a quel paese lo fa in due secondi lordi. Mi appariva una dea. 

Si è creato tra noi un feeling, spesso la incontravo nei ristoranti, allora univamo le compagnie. Un giorno un club di Varese mi regalò un cavallo splendido, tra gli invitati alla cerimonia di consegna c’era anche Vanoni. A un certo punto, la dea, ancora nel bel mezzo della manifestazione, mi si avvicina e mi dice: «Vittorio, mi scappa la pipì, dove cazzo vado a farla?».

Eravamo in un giardino ed io, per scherzare, le ho risposto: «Ti posso dare un consiglio. Vedi, qui c’è un bel prato, lì una bella pianta, vai e sistema la pratica». E Ornella lo ha fatto. Nascosta dietro la pianta che le avevo indicato si è sollevata la gonna e si è liberata. Vada sé che chiunque avrebbe potuto vederla dato che l’arbusto la celava appena. E fece il tutto con una disinvoltura invidiabile. 

Da quel pomeriggio è lievitata enormemente la mia simpatia nei suoi confronti, pure perché quello di fare la pipì ovunque, senza scomporsi, è più un atteggiamento maschile che femminile, una donna che lo faccia con quella nonchalance, in mezzo a centinaia di persone ingessate, è del tutto inusuale e quindi perfino divertente. Adoro la sua brillantezza.

Una volta ho partecipato ad una trasmissione televisiva in cui lei avrebbe dovuto cantare, anche io ero sul palco ed ecco che arriva un’altra confessione: «Vittorio, sai che non mi ricordo cosa cazzo devo cantare?». Ed ecco che arriva un altro mio consiglio: «Intona una canzone qualsiasi che ti venga in mente». Come sempre fu un successo clamoroso. Mi è capitato più volte di ascoltarla dal vivo e devo ammettere che è una dominatrice della scena, non soltanto per le sue qualità canore ma altresì per l’ironia, ha sempre la risposta pronta, è più rapida di un comico nel tirare fuori la battuta, tutto le riesce naturale. La sua spontaneità disarma.

Osservandola mi sono persuaso che, se fossi nato donna, sarei stato Ornella Vanoni, mentre se Ornella Vanoni fosse nata uomo, sarebbe stata Vittorio Feltri. Entrambi ce ne infischiamo altamente di ciò che pensa la gente sul nostro conto. Una sera, ero a cena al Baretto, e sul tavolino avevo il mio tablet con il quale ascoltavo un po’ di musica per rilassarmi. Mi stavo deliziando con le note di una delle sue canzoni, L’appuntamento, la più struggente oltre che in assoluto la mia prediletta, quando è entrata nella sala proprio Ornella Vanoni. Allora io le faccio notare questa strana coincidenza e lei: «Vittorio, con tutte le canzoni belle che ho fatto mi rompi sempre i coglioni con questa!».

(...)

Dagonews il 22 marzo 2023.

Mi chiamavano culo d’oro, chiappe parlanti”. Ornella Vanoni show a "Belve": “Uscivo la sera senza mutande. Sono una scostumata ma, a differenza di come mi rappresenta Virginia Raffaele nella sua imitazione, non l’ho mai data via come una frisbee. La copertina di Playboy? Li’ non ero nuda”.  E poi racconta il no alle avances dell’Avvocato Agnelli (“Le faceva a tutte”), la notte d’amore con uno sceicco a Montecarlo (“la mattina gli mandai dei tulipani gialli”) e il tormentato rapporto con Strheler tra sesso estremo e droga con Strehler. La confessione: “All’inizio cantavo di merda, non sapevo usare il microfono”

"Uscivo senza mutande. E Gino Paoli...". Ornella Vanoni show a Belve. Ospite nell’ultima puntata della Fagnani, Ornella Vanoni si è raccontata senza filtri: dalla carriera all’amore per Gino Paoli e Strehler sino all'utilizzo delle canne come medicina. Cristina Balbo il 22 marzo 2023 su Il Giornale.

È andata in onda ieri sera, martedì 21 marzo, su Rai 2, la quinta ed ultima puntata di questa nuova edizione di Belve, il programma molto amato condotto da Francesca Fagnani, per la prima volta in prima serata. A sedersi su uno degli sgabelli più pungenti della tv italiana vi sono stati Ornella Vanoni, Claudio Amendola e Claudia Pandolfi. La prima a sottoporsi al faccia a faccia con la giornalista è la “madrina” del programma, per utilizzare le parole della conduttrice, Ornella Vanoni. Infatti, è proprio della Vanoni la sigla della trasmissione, con la canzone L’appuntamento a dare il via ad ogni singola puntata di Belve. La cantante si è lasciata andare ad una lunga intervista durante la quale non sono mancati di certo momenti ironici e privi di "sovrastrutture", proprio come si definisce lei, ma è anche stata ricca di momenti emozionanti in cui si è parlato dell’anima malinconica della Vanoni, dell’infanzia e del rapporto con la famiglia.

Le "belvate"

Alla domanda di rito della conduttrice “Che belva si sente?” la Vanoni ha prontamente risposto: “Un cane, un cavallo, ma amo molto la mucca, per quell’odore di erba, di cacca, di terra”. Ed effettivamente, sono tante le "belvate" che la Vanoni ha raccontato alla giornalista. Dopo aver svelato di avere il timore della perdita del denaro, la Vanoni si è definita "spudorata"; infatti, ha raccontato di andare in giro spesso senza mutande: “Dove abitavo, in Largo Treves, era tutto finestroni e io non giravo in mutande ma proprio nuda. Tutti mi dicevano che mi avevano visto dalle finestre. Sì, sono una scostumata! Pensa che c’era un periodo in cui avevo solo due paia di mutande, un paio nere e le altre bianche”. La Fagnani quindi chiede se le usasse con parsimonia: “Molta – risponde - Uscivo la sera con gonna e tacchi a spillo. Bisogna per forza avere le mutande? Non è detto!”.

Inoltre, Ornella ha anche parlato di alcuni episodi che l’hanno portata ad “aggredire” il pubblico: “Una volta stavo cantando in una piazza molto grande e ho sentito uno che mi sembrava dicesse ‘Mina’, ma stava dicendo ‘diva’, non capii e risposi ‘stronzo’.” Poi la cantante ha continuato: “Ero a Palermo, dove recitavo delle cose e cantavo, e c’erano questi due posti vuoti davanti a me. Arrivò una coppia, dissi che non ero un film e lui mi fece un gesto come per mandarmi...Mi ci sono buttata addosso, con i tacchi a spillo, è venuto fuori un casino”.

Il rapporto con Mina

La Vanoni nel corso dell’intervista ha anche parlato del legame con Mina, spiegando di non avere mai accettato la proposta di cantare “Grande Grande Grande” poiché pensava fosse volgare e che si riferisse ad una cosa in particolare; ad oggi, però, Ornella si dice pentita della scelta fatta dal momento che la canzone si è rivelata di enorme successo con la voce di Mina. Tuttavia, ha ribadito quanto loro due fossero molto unite, nonostante venissero sempre messe a paragone: “Rispetto a lei mi sentivo la numero due. Poi ho capito che eravamo tutte e due brave ma diverse.”

Gli amori della Vanoni

Ovviamente non si potevano tralasciare i grandi amori vissuti dalla cantante, ed è per questo che si è parlato di Gino Paoli, Giorgio Strehler e dell’amore per le donne. Così su Strehler ha detto: “Giorgio Strehler? È l’uomo che mi ha amata di più, ma non mi ha protetta da situazioni estreme perché non poteva farne a meno. Voleva tornare con me, ma ho detto no.” Circa la relazione con Gino Paoli, invece, la Vanoni ha spiegato quanto fosse l’uomo per cui ha sofferto maggiormente, anche se ha sottolineato come adesso i due siano molto legati da una forte amicizia tanto da ironizzare sull’uscita del cantante a Sanremo sugli ipotetici tradimenti di Little Tony che hanno fatto molto discutere.

Inoltre, Ornella ha anche ammesso di essere stata innamorata di alcune donne nel corso della sua vita: “Una è stata una grande amicizia che è durata tanti anni. Un’altra è durata meno. A me però il sesso femminile non interessa molto, infatti ho le ho fatte soffrire. Io mi innamoro della persona, in quell’altra cosa non sono molto brava”.

I vizi

Alla Fagnani poi, Ornella ha fatto delle “confessioni” di cui però si è già tanto parlato in diverse occasioni. Infatti, alla domanda della giornalista circa il suo vizio più grande la Vanoni ha prontamente risposto: “Le canne”. A tal proposito, la cantante, ha poi spiegato che il motivo che l’avrebbe spinta a farne uso è la mancanza di sonno: “A un certo punto non dormivo più. Finché un giorno non mi hanno fatto fare una canna e allora ho detto: ecco la mia medicina”. Quando la Fagnani le ha ricordato della notizia che si era diffusa circa la volontà della Vanoni di avere una badante che sapesse rollare, Ornella ha risposto ironicamente: “Quando cammino per strada i ragazzi mi urlano ‘Ornella! Io non ho lavoro ma rollo da Dio, vengo a fare da badante”. Questo, però, non sarebbe l’unico vizio della cantante che ha raccontato nel corso della puntata di quella volta che dopo una serata in compagnia di Renato Zero tornò talmente tanto ubriaca in hotel che svenne “di dritto come i veri ubriachi”.

Il ruolo di madre

Prima di abbandonare lo studio la conduttrice ha posto una domanda alla cantante circa il suo ruolo di madre, ma la Vanoni ha risposto di non volere parlare del figlio, salvo poi specificare: "Come madre mi piaccio. Come mamma, mio marito mi chiese di tornare immediatamente a lavorare altrimenti sarebbe fallito. Così ho perso la maternità e mi è dispiaciuto molto"

Ad oggi, Ornella Vanoni nonostante una vita passata con un senso di solitudine si definisce più serena di un tempo ed in grado di affrontare la fase della vecchiaia molto bene. L’incontro con la conduttrice non poteva che chiudersi come l’inizio di ogni puntata di Belve, con la Vanoni che ha intonato il ritornello de L’appuntamento, la meravigliosa sigla del programma.

Dagospia il 21 marzo 2023. Anticipazione da “Belve - Rai2”

Ultimo appuntamento con Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, in prima serata il martedì su Rai2. Un ciclo di puntate dedicate a donne (e uomini) indomabili, ambiziosi, forti, non necessariamente da amare, ma che non si potrà fare a meno di ascoltare.

 Ornella Vanoni, una delle voci più influenti del panorama musicale italiano, racconta a Belve vizi e virtù di una vita eclettica, a partire dalla spregiudicata giovinezza. A proposito di quegli anni, quando la Fagnani le chiede se è vero che avesse l’abitudine di girare per casa in mutande, la Vanoni ricorda: “Dove abitavo c’erano tutti finestroni, e io non giravo in mutande ma proprio nuda. Tutti mi dicevano che mi avevano visto dalle finestre. Sì, sono una scostumata! Pensa che c’era un periodo in cui avevo solo due paia di mutande, un paio nere e le altre bianche”.

E quando la Fagnani le chiede: “Quindi le usava con parsimonia?” la Vanoni risponde divertita: “Molta! Uscivo la sera con gonna e tacchi a spillo. Bisogna per forza avere le mutande? Non è detto!”.

 C’è spazio anche per dettagli più intimi e meno conosciuti come i suoi amori, mai negati, per le donne: “Una è stata una grande amicizia che è durata tanti anni. Un’altra è durata meno. Le donne sono attraenti, però a me purtroppo il sesso femminile non interessa molto, e infatti ho fatto soffrire queste persone. Io mi innamoro della persona, in quell’altra cosa non sono molto brava”.

A questo punto la Fagnani le fa notare che in “materia” ha la stessa posizione di Berlusconi quando dice “se fossi gay sarei lesbica”, e allora la Vanoni divertita replica: “Sarò…come si dice adesso... fluida, ma nel giudizio soltanto”.

 Alla domanda della Fagnani suo “vizio” più grande, la cantante non ha dubbi: “Le canne. A un certo punto non dormivo più. Mio padre mi fece fare perfino la cura del sonno: ero disperata. Finché un giorno non mi hanno fatto fare una canna e allora ho detto: ecco la mia medicina”. E a proposito della ricerca di badanti che sanno rollare, la Vanoni racconta: “Quando cammino per strada i ragazzi mi urlano Ornella! Io non ho lavoro ma rollo da Dio, vengo a fare da badante!”.

Ornella Vanoni a «Belve»: «Ho fatto soffrire le donne che ho amato, non mi piacevano sessualmente». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 21 Marzo 2023

La cantante stasera è ospite di Francesca Fagnani su Rai2 e ha parlato dei suoi amori e della sua gioventù: «Il mio vizio più grande? Le canne. Per strada dei ragazzi mi urlano: “Io rollo da Dio, vengo a farti da badante”»

Per l’ultima puntata di «Belve», tocca anche a Ornella Vanoni raccontarsi. Offrendo dettagli più o meno noti sulla sua vita, sulla sua gioventù e sui suoi amori, la cantante ha dialogato con Francesca Fagnani, nel suo programma in onda stasera su Rai2 in prima serata (gli altri ospiti sono Claudio Amendola e Claudia Pandolfi).

Tra le confessioni dedicate alla sua vita privata, ha parlato anche dei suoi amori per le donne: «Una è stata una grande amicizia che è durata tanti anni. Un’altra è durata meno. Le donne sono attraenti, però a me purtroppo il sesso femminile non interessa molto, e infatti ho fatto soffrire queste persone. Io mi innamoro della persona, in quell’altra cosa non sono molto brava» ha detto, aggiungendo poi, dopo le osservazioni della giornalista, «sarò…come si dice adesso... fluida, ma nel giudizio soltanto».

Alla domanda di Fagnani sul suo «vizio» più grande, Vanoni ha replicato «le canne»: «A un certo punto non dormivo più. Mio padre mi fece fare perfino la cura del sonno: ero disperata. Finché un giorno non mi hanno fatto fare una canna e allora ho detto: ecco la mia medicina».

E a proposito della ricerca di badanti che sappiano rollare, di cui ha parlato in passato, ha detto: «Quando cammino per strada i ragazzi mi urlano Ornella! Io non ho lavoro ma rollo da Dio, vengo a fare da badante!».

La cantante ha parlato anche della sua vita sfrenata, tra eccessi sessuali e droghe, con Giorgio Strehler: «È l’uomo che mi ha amata di più, ma non mi ha protetta da situazioni estreme perché non poteva farne a meno, voleva tornare con me, ho detto di no», ha detto.

Un altro amore è stato quello con Gino Paoli che ha punzecchiato sulla gaffe al Festival: «Guarda quello che ha cercato di raccontare a Sanremo, come se fosse a casa sua. Si è dimenticato che era a Sanremo, ha visto Morandi e gli è partita quella roba lì che non andava fatta. Amadeus era terrorizzato e l’ha portato via». Di Paoli, ha poi detto: «Io sono ironica, lui no. Questa ironia di me si sa, si vede e si sente. Di lui proprio no. Però se vuole essere ironico, poverino, non diamogli contro».

Ornella Vanoni: «Per Gino Paoli la mia sofferenza più grande. Sono nata ricca e annoiata, non ho trovato l’uomo giusto». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 2 Febbraio 2023.

L’artista: «La mia Milano non mi riconosce nulla. Marracash mi parlava tanto di Elodie». Amici e amori: «In ospedale solo in tre sono venuti a trovarmi. Per Gino Paoli la mia sofferenza più grande»

Ornella Vanoni, si sente una «capitana»?

«Per niente, ma ho delle intuizioni che mi portano a scegliere una direzione invece che un’altra. Non c’è strategia: è istinto».

Carta d’identità: nasce a Milano il 22 settembre 1934, figlia unica di Nino e Mariuccia Vanoni.

«Nasco ricca e annoiata: stavo spesso nella mia stanza. Pensavo a quei fratelli e sorelle che crescono insieme e si tirano le cuscinate: forse è nata allora la mia malinconia».

Il suo gioco preferito?

«Campana, sul marciapiede sotto casa. Ma i miei non volevano che giocassi con i figli della portinaia».

I suoi genitori.

«Due persone borghesi, con un padre che ho amato molto, perché mi faceva tenerezza: c’era in lui qualcosa che non andava, poi ho capito che era depresso».

Anche lei ha ammesso di aver sofferto di depressione.

«Strehler mi diceva che avevo i nervi fragili. Ma non ho mai pensato al suicidio: ero come quelle donne spettinate dei quadri antichi, sempre a un passo dalla follia».

Come si salvava?

«Mi sono ripresa da sola. Mi conosco bene perché ho sofferto tanto: è nel dolore che capisci, non nella felicità».

Il suo destino da ragazzina borghese cosa prevedeva?

«Non cercavo marito, ma non sapevo bene cosa fare. Avevo l’acne e la tisi. Poi è arrivato Giorgio».

Il primo incontro.

«A 15 anni, a Santa Margherita Ligure. Lui era seduto al bar, era bellissimo: era l’amante di un’amica di mia mamma».

Cosa le ha detto?

«Mia mamma non voleva comperarmi dei pantaloni gialli. Giorgio era accanto a lei: “Ma faccia questo regalo alla bambina”...».

Vi siete rivisti al Piccolo.

«Sì, agli esami di ammissione. Ero l’ultima della fila. Una voce di donna ha detto: “Qui c’è qualcosa di interessante”. Era Sarah Ferrati, mi ha vista per prima. Mi sono sfidata alla morte per vincere l’ansia».

Cosa la tranquillizzava?

«Speravo in una piaga d’Egitto, che potesse far decidere per un “stasera no”. La verità è che mi ha cambiata Giorgio: si è innamorato di me, mi ha dato dei libri e parlato della vita».

Sposato e lavorava in teatro.

«Una cosa che faceva disperare i miei: la borghesia ha sempre visto il teatro come qualcosa di peccaminoso. Il parrucchiere mi diceva: “Non fare questo ai tuoi genitori”».

Neanche Gino Paoli piaceva a sua madre. Le disse: «È un cesso».

«Mi dissero anche che era gay. E a lui che ero lesbica».

Ha mai avuto un’attrazione per le donne?

«Certo. Non ti piace la donna, ma la persona. Ci sono donne che hanno un’attrattiva».

Attrazione consumata?

«Semi-consumata: le donne sono sempre più tra di loro. Siamo libere, ma paghiamo un prezzo alto».

Quale è il più alto?

«La solitudine: io sono una donna sola, ma per scelta».

Gli amici?

«Passano gli anni e ti accorgi che sono conoscenti. Mi sono rotta il femore e solo Mario Lavezzi e Piero Salvatori sono venuti a trovarmi. E Stella Pende, la mia migliore amica. Sulla sorellanza ho delle riserve».

Cosa ci manca?

«Lo sport, basta guardare i giocatori quando si abbracciano, condividono la gioia o l’insuccesso. Noi non abbiamo avuto il tempo di aggregarci, abbiamo passato gli ultimi 1000 anni a partorire».

La maternità.

«Avevo 26 anni quando è nato Cristiano: abbiamo ricostruito un rapporto critico. Oggi sono felice se mio figlio è felice».

Cosa le rimproverava?

«Come spieghi a un bambino che la mamma parte per lavoro e non va a divertirsi? Pensava che preferissi un mondo rutilante a lui».

Si è pentita di non aver costruito una famiglia?

«Non ho trovato l’uomo giusto. Tornando indietro lo cercherei con dei figli, così si fa un bel casino insieme».

Un sassolino da togliersi...

«Non trovo giusto che Milano non mi riconosca nulla. A Carnevale in città sfilano tre maschere: quella di Berlusconi, del cardinal Martini e la mia. Dovrò rappresentare o no qualcosa per la città?»

Cosa desidererebbe?

«Da morta daranno il mio nome a una via: non mi interessa. Vorrei occuparmi da viva di un teatro, come Renato Pozzetto, che è coinvolto nel Lirico. Oppure occuparmi delle carceri: a Bollate c’è un gruppo di detenuti che vorrebbe cantare».

Le piace ancora Milano?

«No, è isterica. Per viverci bisogna essere dei nababbi».

Cosa è la milanesità?

«A Milano non si aggiunge un posto a tavola se non è previsto. A Roma sono più rilassati, anche se cinici. E c’è differenza tra ironia e sarcasmo».

Gli animali.

«Ora ho Ondina, un barboncino che nuota per ore e si tira fuori dall’acqua sfinita».

La nuova Vanoni.

«Ce ne sono di brave: Elisa, Giorgia, Emma. Ma devono tirare fuori l’emozione».

Un collega?

«Marracash. Mi parlava di Elodie, ma aveva bisogno di una donna accudente. Tutti gli uomini ce l’hanno: sono lavati, stirati e coccolati dalle mogli».

I talent?

«Vorrei essere in giuria. Non mi chiamano e sbagliano».

Il periodo più malinconico?

«Quando sono andata via da Gino. E l’ultima storia».

Il sesso.

«Conta moltissimo ma deve essere fatto bene, sennò diventa triste».

La cosa più strana fatta?

«A Montecarlo sono stata a letto con uno sceicco e il giorno dopo gli ho mandato fiori».

E lui un diamante?

«Nulla, per questo trovo l’aneddoto spiritoso».

Oggi è una donna finanziariamente al sicuro?

«No. Ho aiutato molto e non me ne pento».

Una parte del suo corpo.

«Avevo un bel sedere e una bella schiena. Poi i piedi».

Sanremo.

«Una cosa orribile la gara. Bello andarci da ospite».

Gioca a burraco?

«Per carità: se tengo le carte in mano mi cascano dall’altra parte. Non sono capace».

Frequenta i salotti?

«Ho sempre lavorato tanto».

Domani si conclude a Lugano il suo tour teatrale «Le donne e la musica». «Un grande successo. Sono sul palco con 5 musiciste e una poltrona, che mi accoglie e brilla insieme ai miei capelli».

Lei è ancora sul palco, Mina lo ha lasciato a 40 anni.

«È un’amica, ma non capisco come un’artista come lei non abbia bisogno del pubblico».

Maria Volpe per “Sette – Corriere della Sera” il 31 Dicembre 2022.

Sono sconcertanti la classe, il fascino, l'eleganza di Ornella Vanoni a 88 anni. Sarà per quel vecchio consiglio che le dava sua madre: un filo di trucco, un filo di tacco. Seduta su una poltroncina, nel salotto della sua casa milanese, con un sobrio vestito-vestaglia di cachemire beige, i riccioli rossi in ordine casuale, la voce inconfondibile e un ritrovato sorriso. 

Accanto a lei, immancabile Ondina, la barboncina nera da cui non si separa mai. Una donna dalla vita intensa, emozionante, passionale, a tratti dolorosa. Ha da poco superato un intervento al femore, ed è già tornata a cantare, in tournée, incantando il Teatro degli Arcimboldi a Milano. 

Hanno detto che era molto sensuale

«Sarà per quello splendido vestito degli archivi di Dior. Tutto bianco. L'avevo già indossato nero»

In questa nuova tournée, è accompagnata da un'orchestra tutta di donne

«Me ne ha parlato Paolo Fresu e ho detto: perché no? È insolito per l'Italia. La pianista è fantastica; c'è una iraniana bravissima, la batterista napoletana bellissima. Ma per me se sono brave artiste, non fa differenza, uomini o donne». 

Crede nella solidarietà tra donne?

«Io non mi metto in competizione e non ho invidie, non so se questa è solidarietà. Sorellanza? No, non ci credo. Ci sono amiche che possono diventare sorelle, altre donne con le quali non c'è alcuno scambio emotivo».

 Le fa allegria il Natale. O malinconia?

«Quando sei piccolo è tutto meraviglioso. Poi quando diventi grande e hai i genitori, magari malati, c'è un'allegria forzata. Io per un bel po', per questioni familiari, ho passato natali tristi Quest'anno sono felice. Lo passo con mio figlio Cristiano e la sua compagna». 

E i suoi adorati nipoti. Ha un amore smisurato per Matteo, vero?

«Vero. Un amore smisurato, ricambiato. Forse perché è il primo nipote. Ha un carattere solare, un'esplosione di luce. Intendiamoci adoro anche mia nipote ma non la vedo mai: gira in barca a vela facendo la cuoca. È un essere libero, è coraggio sa». 

Lei Ornella sembra più dolce: è il tempo che passa?

«Se lo lasci passare senza riempirlo non serve a niente. Io ci ho messo tanta dolcezza». 

La sua immagine è di una donna forte

«Non sono così forte. Sono coraggiosa. Con la pandemia sono diventata forte. Ho avuto anche un intervento al cuore, poi al femore. Mi sono fortificata. E addolcita insieme». 

Lei non ha più voglia di parlare del suo passato. Troppe volte le hanno chiesto dei suoi amori. Permetta solo qualche parentesi. Quando ha conosciuto Giorgio Strehler?

«Ero ragazzina e andavo a teatro da lui che mi prestava i costumi per carnevale. Poi entrai alla Scuola del Piccolo Teatro, e ci innamorammo. Ho imparato tanto guardando Giorgio lavorare. È stata una esperienza forte, formativa. Ma la nostra storia d'amore creò scandalo: lui molto più grande e sposato. Io fui bistrattata per questo legame». 

Perché ha lasciato Giorgio?

«Ero al Festival di Spoleto. Luchino Visconti mi presentò Renato Salvatori (l'attore di Poveri ma belli), era un gran gnocco. Ci fecero foto insieme e scoppiò il putiferio. Giorgio era furioso, mi stalkerizzò sul telefono fisso. La verità è che ormai il nostro rapporto era già finito. Non ero stanca di lui, ma di una cosa che faceva lui e che a me non andava più..» 

La droga, la cocaina?

«Non mi va più di parlarne. Certo che Giorgio mi ha amato alla follia, come nessun altro». 

Anche Gino Paoli non scherzava. Le ha dedicato una canzone immensa come Senza fine. Da cosa è stato colpito?

«Dalle mie mani grandi». 

E lei da cosa rimase colpita?

«Era un ragazzo bruttino, vestito di nero, collo alto da rive gauche. E ho provato quello che provo quando sono vicina a un "talento vero"».

Poi ci fu il matrimonio nel 1960 con l'impresario Lucio Ardenzi (e nel '62 nacque vostro figlio Cristiano)

«Ero molto confusa.. Andai all'altare vestita di giallo - pensando a Gino Paoli che amavo. La sera prima volevo mandare tutto all'aria, e fuggire. Ma tutte le mie amiche a dirmi: "Non si fa, non puoi, domattina ti devi sposare". Insomma ho combinato un casino dietro l’altro».

Ne ha spezzati di cuori lei... Aveva una grande capacità di conquistare gli uomini grazie alla sua sensualità, al suo fascino. L'avvocato Agnelli non l'ha mai corteggiata?

«Ho cantato per l'Aga Khan e quella sera c'era anche l'Avvocato. Alla fine della sera mi appoggiò al muro. Gli dissi: "Tutte morirebbero per lei, io no". Lui si è fatto una risata». 

Il cinema?

«Il film più brutto che ho fatto è stato quello con Ugo Tognazzi I viaggiatori della sera, ma mi sono divertita da morire». 

Un film che avrebbe voluto fare?

«Senza dubbio l'ultimo di Emma Thompson, Il piacere è tutto mio, un film grandioso sulla sessualità e l'emancipazione femminile. Con la scena finale di autoerotismo. Sono quei ruoli che portano avanti il coraggio delle donne». 

Se le dico Milano, cosa le viene in mente?

«Voglio bene a Milano, ma non la amo più come prima. Questi grattacieli che poi secondo me sono mezzi vuoti. Troppe macchine, troppa isteria». 

Delle persone che non ci sono più chi le manca di più?

«Mia madre e mio padre. E Sergio Bardotti (grande autore e paroliere, scompar so nel 2007, ndr). Avevamo un legame pazzesco: curio so lui, curiosa io, insieme abbiamo realizzato cose splendide: ho cantato tutti i jazzisti americani. Beveva e fumava tantissimo. Ma che potevo fare?»

Il Festival di Sanremo le porta bei ricordi?

«Degli anni in cui ero in gara non ricordo nulla per ché ero troppo terrorizzata. Il ricordo più triste è quello legato a Tenco: l'ho visto strano quella sera, ho detto ai suoi amici "state vicini a Luigi". Il ricordo più bello è quello della super ospitata nel 2021. Mi sono divertita molto». 

Il 13 gennaio riprenderà il suo tour a Bologna.

«Una città che adoro, anche se da quando non c'è più Lucio Dalla la amo di meno. Un'altra città che amo alla follia è Napoli, adoro il carattere dei napoletani». 

Cosa vorrebbe fare nel 2023?

«Scrivere un libro e recitare, cinema e teatro». 

Non lavorare le fa paura? Teme il vuoto?

«Si temo molto il vuoto, specie qui a Milano. Se fossi con un'amica o un compagno, e tanti animali, sarei felice di vivere in campagna. Mi trasferirei al volo».

Estratto dell’articolo di Luca Valtorta per repubblica.it il 14 gennaio 2023.

[...] Ozzy Osbourne [...] "Una volta avevo rubato un televisore", racconta, "e mi sono trovato su un muro pieno di cocci di vetro. Quel televisore era enorme, sono scivolato e sono caduto giù gridando aiuto". […]

 In Inghilterra ha debuttato al secondo posto, il miglior piazzamento di sempre di Ozzy solista e ha avuto ben quattro nomination ai Grammy 2023. Al telefono la voce sembra venire da un altro mondo, ma non c'è dubbio: è lui!

[...]

  Come sta andando il nuovo album?

"Oh molto molto bene, sta vendendo un sacco". […]

 Ti senti ancora prigioniero nella tua mente?

"Sì, mi succede quando penso a quello che sta succedendo alle nostre vite. Veniamo tutti mantenuti in uno stato di morte imminente: con la guerra in Ucraina e la minaccia della guerra atomica ci si sente come se la fine del mondo fosse alle porte [...]”".

 Pensi davvero che Putin possa usare la bomba atomica?

"[...] Io spero che non arrivi ma so che potrebbe succedere".

 "[...] Ho da sempre un problema di dislessia e anche di deficit d’attenzione. A scuola non capivo niente ma a quei tempi i miei insegnanti che erano dei bastardi dicevano semplicemente che ero ottuso e i ragazzi mi prendevano in giro perché non sapevo leggere".

Nel video il numero 9 si moltiplica e gira su sé stesso fino a diventare 666. Davvero non ti sei mai interessato di magia nera?

"No, no, dovrebbe essere una cosa ormai nota, io non pratico la magia nera".

 Però vi chiamavate Black Sabbath e c’era un sacco di gente che vi considerava satanisti.

"Sì, c’era un sacco di questa gente pazza che veniva ai concerti. Vengono anche adesso a chiedere stro…te tipo se credo in dio o satana".

 E tu cosa fai?

"Io? Io non esco di casa. Quando abbiamo visto l’Esorcista per la prima volta ai tempi dei Black Sabbath eravamo terrorizzati".

 È per questo che indossi sempre un’enorme croce?

"Certo! Per protezione. Sai, non si sa mai…".

 Sempre nel video ti trasformi in un enorme pipistrello. È una presa in giro della famosa storia per cui gli avresti staccato la testa con un morso?

"Credo di sì".

 Ma quella storia era vera o falsa?

"Qualcuno ha buttato un pipistrello di plastica sul palco e l’ho messo in bocca per staccargli la testa: una cosa finta. Poi però ho pensato, ma c…o, batteva le ali!".

 Il pipistrello porta terribili malattie...

"Esatto per questo quando l'ho messo in bocca e l'ho morso e ho visto la gente che gridava 'Aaaaaah' mi sono spaventato anch'io e ho capito".

 Sei andato all'ospedale?

"Sì, certo ci ho passato tutta la fottuta notte a far delle punture e, te lo garantisco, non è stato divertente".

Luca Valtorta per “la Repubblica – Robinson” il 28 dicembre 2022.

La vita di Ozzy Osbourne, non è stata facile: era un giovane delinquente tanto seriale quanto impacciato: «Una volta avevo rubato un televisore» , racconta, «e mi sono trovato su un muro pieno di cocci di vetro. Sono scivolato e sono caduto giù gridando aiuto». Finisce in prigione «ma a quell'epoca vivevo in mezzo a una strada per cui non ci stavo male: cibo e sigarette gratis! In cella con me c'era un assassino che mi raccontava come faceva a uccidere la gente» . 

Però si annoiava «Ci sono rimasto solo sette settimane alla fine, ero solo un ragazzino. Non ricordo momenti brutti ma mi piace essere libero. Ho iniziato a farmi dei tatuaggi con del Polish grigio (uno smalto per i metalli, ndr): lo mescoli bene e poi basta un ago da cucito. Mi sono fatto un pugnale, il numero 3 e il mio nome sulle falangi (ottima idea per un ladro, ndr). La faccina che ride sul ginocchio? Mi piace vedere che mi sorride quando guardo in basso» .

L'esperienza porta infine Ozzy a concentrarsi sulla musica: «Non c'era nient' altro che volessi fare, non riuscivo a immaginarmi dietro la scrivania e non mi avevano voluto nemmeno nell'esercito. Ci ho provato ad arruolarmi: avevo 17 anni ed ero incazzato, volevo girare il mondo e sparare alla gente. Però mi hanno detto di andare a fare in c Forse perché mi ero presentato con un rubinetto legato al collo con una corda, al posto del maglione avevo mezzo pigiama e mi usciva il culo dai jeans». 

La sua band, i Black Sabbath, nel giro di pochi anni esplode: con loro nasce l'heavy metal. Presto però arrivano i problemi «le cose sono andate bene fino a Sabbath Bloody Sabbath (1973) ma eravamo alla fine devastati». Ozzy è fuori controllo e viene licenziato dal resto della band che al suo posto ingaggia Ronnie James Dio. Ci resta male: dopo un anno di depressione chiuso in stanza d'albergo a strafarsi si rimette a suonare diventando un'icona anche per le generazioni successive. 

E oggi è incredibilmente tornato con un nuovo album intitolato Patient Number 9, uscito lo scorso settembre e pieno di ospiti: Tony Iommi, Jeff Beck, Zakk Wylde, Mike McCready, Josh Homme, il compianto Taylor Hawkins dei Foo Fighters e perfino Eric Clapton. In Usa ha debuttato al primo posto e in Uk al secondo: il miglior piazzamento di sempre di Ozzy solista. E ha avuto ben quattro nomination ai Grammy 2023. Al telefono la voce sembra venire da un altro mondo, ma non c'è dubbio: è lui. 

Come va?

«Bene, sì. Però devi parlare più forte». 

Come sta andando il nuovo disco?

«Oh bene, sta vendendo un sacco».

Dentro c'è "No Escape From Now" in cui suona Tony Iommi, il tuo vecchio compagno dei Black Sabbath: come è stato rincontrarlo?

«Una cosa molto bella, ho davvero un'amicizia molto stretta con lui. È vero che per qualche anno non ci siamo parlati ma poi mi ha mostrato che poteva essere un buon amico» . 

"Patient Number 9" è un riferimento al tuo secondo album, il famoso, "Diary of a Madman", dal momento che entrambi trattano il tema della salute mentale?

«Oh no, non era questa la mia intenzione. Non ci ho mai pensato». 

Perché anche i due testi sembrano avere diversi punti di connessione

« Diary of a Madman parla di un tizio pazzo che diventa pazzo ed è qualcosa che io penso davvero di me stesso. Ma oggi dovrei essere pazzo per pensare ancora a certe cose (le ripetizioni e una modalità di pensiero "visionario" sono parte di Ozzy, ndr) ». 

Però si parla dello stesso tipo di imprigionamento nella tua mente.

«Ovvio, sto sempre cercando di scappare da qualche parte. Sai, non ci avevo pensato fino a quando tu non me l'hai fatto notare. Mi sa che hai ragione. In quel momento credevo veramente di stare impazzendo» .

E oggi ti senti ancora prigioniero?

«Sì, mi succede quando penso a quello che sta succedendo alle nostre vite. Veniamo tutti mantenuti in uno stato di morte imminente: con la guerra in Ucraina e la minaccia della guerra atomica ci si sente come se la fine del mondo fosse alle porte. 

Non dovremmo vivere sotto questo stress: prima abbiamo avuto la pandemia che ci ha costretto a vivere chiusi nelle nostre case. Non avevamo mai vissuto situazioni simili e questo porta le persone che hanno malattie mentali a un aggravamento delle loro condizioni: stiamo diventando tutti "Patient Number 9"». 

E poi ci sono pure i problemi fisici..

«Esatto: mi sono sottoposto a un'operazione alla schiena molto brutta. Non riesco a camminare bene ma lentamente sto recuperando». 

Di "Patient Number 9" è stato fatto anche un fumetto da Todd Mc Farlane, uno dei massimi disegnatori di supereroi. Tu leggi fumetti?

«No, no mai letti. Neanche i libri. Ho da sempre un problema di dislessia e anche di deficit d'attenzione. A scuola non capivo niente ma a quei tempi i miei insegnanti, che erano dei bastardi, dicevano semplicemente che ero un idiota e anche gli altri ragazzi mi prendevano in giro perché non sapevo leggere» . 

Nel video il numero 9 si moltiplica e gira su sé stesso fino a diventare 666. Davvero non ti sei mai interessato di magia nera?

«No, dovrebbe essere una cosa ormai nota, io non pratico la magia nera» . 

 Però vi chiamavate Black Sabbath e c'era un sacco di gente che vi considerava satanisti.

«Sì c'era un sacco di questa gente pazza che veniva ai concerti. Vengono anche adesso a chiedere strote tipo se credo in dio o satana» . 

E tu cosa fai in questi casi?

«Io? Io non esco di casa oggi. E pensa che quando abbiamo visto l'Esorcista per la prima volta ai tempi dei Black Sabbath eravamo terrorizzati». 

È per questo che indossi sempre un'enorme croce?

«Certo! Per protezione. Sai, non si sa mai. Per ogni eventualità». 

Sempre nel video ti trasformi in un enorme pipistrello. È una presa in giro della famosa storia per cui gli avresti staccato la testa con un morso durante un concerto?

 «Mmmm, credo di sì». 

Ma quella storia era vera o falsa?

«Qualcuno ha buttato un pipistrello di plastica sul palco e l'ho messo in bocca per staccargli la testa: per me era una cosa finta. Poi però ho pensato, ma c…o, batteva le ali!».

Pamela Anderson è la sex symbol più incompresa del mondo: «Solo Hefner mi ha rispettata. Scrivere la mia storia mi ha resa libera». Decca Aitkenhead su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023.

Ha sempre avuto relazioni difficili, a cominciare dai primi due mariti, entrambi rockstar. «Credo sia anche una questione di possesso. Quando sei in grado di badare a te stessa, con gli uomini entri in un territorio pericoloso»

Pamela Anderson con Hugh Hefner, a West Hollywood in California, nel 2007 (Michael Bezjian/WireImage)

A inizio mese, Pamela Anderson era in cucina con la madre, che la criticava pensando tra sé: avrei dovuto abortire. Non lo diceva a voce alta, «ma nella mia testa. Perché è da quando sono nata che è sempre colpa mia. Sono io il motivo per cui lei ha sposato mio padre. Ho sempre portato questo peso sulle spalle e mi sento responsabile per tutto quello che è andato male».

Pamela sospetta che la madre provi le stesse emozioni nei suoi confronti. «Lo penso davvero. Non credo sia intenzionale. Ma penso che, inconsciamente, nella sua mente persista l’idea della vita diversa che avrebbe potuto avere se non fosse rimasta incinta a quell’età. È stato un matrimonio riparatore. E mi sentivo responsabile, anche da piccola. È per questo che sono contenta di aver scritto questo libro, perché ho la sensazione che talvolta dimentichiamo che ogni persona ha la propria storia. Non sappiamo da dove vengano gli altri o cosa abbiano passato, e facciamo presto a giudicare».

Da una copertina al mondo intero

Per la maggior parte della vita, Anderson è stata oggetto dei giudizi del mondo. Appena ventiduenne, quando apparve per la prima volta sulla copertina di Playboy , e poi nel 1992, quando divenne famosa a livello mondiale correndo al rallentatore sulla sabbia californiana in un costume rosso. E ancora tre anni dopo, quando il vorticoso matrimonio della star di Baywatch con la rockstar Tommy Lee dei Mötley Crüe su una spiaggia messicana, solo quattro giorni dopo l’inizio della loro frequentazione, assicurò la notorietà all’iconica bionda esplosiva, ragazza ribelle dell’epoca. La sposa indossava un bikini bianco, la sua damigella d’onore era una sconosciuta incontrata in un nightclub la notte prima e non sapeva neppure quale fosse il cognome del marito.

Quando la cassaforte dei novelli sposi venne rubata dalla loro casa meno di un anno dopo, e un sextape ricavato accorpando diverse loro videocassette private fu dapprima venduto a Penthouse e poi diffuso a livello planetario tramite Internet, molti pensarono che si trattasse di una squallida trovata pubblicitaria escogitata dalla coppia. E quando provarono a sporre denuncia, l’avvocato spiegò ad Anderson che non aveva alcun diritto alla privacy dopo aver posato per Playboy .

Maltrattamenti pubblici e privati

Oltre a essere trattata come una poco di buono dai tabloid e braccata dai paparazzi, anche il suo matrimonio iniziò a vacillare e quando Lee l’aggredì nel 1998, mentre teneva in braccio il loro secondo figlio neonato, lei lo lasciò. Lui venne condannato a sei mesi di prigione, i due divorziarono, si riconciliarono e si lasciarono di nuovo. Venticinque anni, cinque matrimoni, molteplici copertine di Playboy e reality show dopo, ho aperto la sua biografia aspettandomi di trovarvi la straordinaria vacuità che si addice a una pin-up.

E non ero l’unico. «La gente diceva: “È impossibile che tu sappia scrivere un libro”. Persino i miei figli dicevano: “Mamma, devi essere in grado di scrivere in modo comprensibile per le persone”». E lei rispondeva: «Ragazzi, abbiate un po’ di fiducia nella vostra mamma, penso proprio di potercela fare». La sua agente letteraria le disse: «Tesoro, avrai bisogno di un po’ di aiuto», ma lei pensava tra sé: «Io so scrivere, stupida idiota, dammi un po’ di fiducia. E così l’ho scritto».

Love, Pamela comincia con un ritratto struggente ed elegiaco di una ragazza maschiaccio a piedi nudi, che cresce tra i maestosi pini e le voci di paese delle coste dell’isola di Vancouver, un affioramento della natura canadese nel Pacifico orientale. Adolescenti al momento della sua nascita, i genitori erano di una bellezza ammaliante, poverissimi, imprevedibili e selvaggi: «Belli e dannati, i Bonnie e Clyde del posto».

Infanzia di paura e orrore

Suo padre era un poeta e uno spazzacamino, un casinista, gran bevitore, giocatore di poker, pilota di corse illegali e cacciatore di selvaggina. Sua madre era una cameriera, casalinga, «portatrice di atmosfere magiche», un’affascinante bionda addetta alle grigliate di pesce, ai falò sulla spiaggia e ai bagni nudi al chiaro di luna. Suo padre era un ubriacone, violento e crudele, che, con la cintura in mano, terrorizzava la moglie e affogava i gattini della figlia davanti ai suoi stessi occhi. Sua madre era eternamente in bagno, a piangere lacrime macchiate di mascara, sempre in procinto di lasciarlo, caricando in macchina Pamela e il fratello minore, Gerry, per fuggire di nascosto in un esilio di buoni pasto, latte in polvere e solitudine. Follemente innamorata di lui, tornava sempre indietro.

Anderson subì molestie dalla sua babysitter dai sei ai dieci anni. Per i genitori era una babysitter fantastica, quindi non osò dire nulla. Perse la verginità a 12 anni, quando venne violentata da un uomo venticinquenne. Due anni dopo, il fidanzato adolescente la stuprò insieme a un gruppo di amici.

La sex symbol involontaria

Lei si rifugiò nella propria immaginazione - «è un meccanismo di sopravvivenza» - e trovò conforto in un mondo fatto di fiabe e amici immaginari. È diventata la sex symbol più involontaria di sempre. Mentre il mondo sbavava sul suo corpo, Anderson leggeva libri di filosofia e psicologia, si dedicava alla poesia, all’arte e all’attivismo. Le sue amicizie più importanti sono state con spiriti creativi - Werner Herzog, Vivienne Westwood, David LaChapelle - e i traguardi più importanti li ha raggiunti con l’attivismo, partecipando a campagne per i diritti degli animali, per l’ambiente e a sostegno dei rifugiati. È consapevole da sempre che la gente la sottovaluta: non è assolutamente come pensate. Anderson non ha voluto che il suo editore coinvolgesse un ghost writer: «Mio Dio, è stato così drammatico. Perché non stavo solo aprendo un vaso di Pandora, stavo sprigionando una rabbia che mi portavo dentro fin da piccola. Ho buttato fuori tutte quelle emozioni che avevo represso. E mi ha fatto davvero bene, perché ha fatto capire anche a me stessa perché sono diventata quella che sono».

Incontro in cucina

Siamo nella sua cucina, nella casa di famiglia dove è tornata ad abitare circa quattro anni fa: una manciata di casette di legno che sua nonna affittava ai motociclisti Hell’s Angels nella cittadina operaia di Ladysmith. La cinquantacinquenne è senza trucco, indossa una t-shirt di lino bianca, jeans larghi sbiaditi e zoccoli di pelle bianca e fluttua con l’agile precisione di una ballerina adolescente. Tanto consapevole di sé quanto ingenua, c’è una delicatezza nel suo portamento. Ride tanto, spesso di sé stessa, e quando parla tende a perdersi in lunghe digressioni. A quanto pare non c’è nulla che non voglia mostrarmi o dirmi. Le chiedo cosa si provi a raccontare tutto di sé. «Libertà». Quando Anderson guarda le vecchie foto di quando era ragazza, è palese ai suoi occhi che già all’epoca venisse “sessualizzata” e non si capacita che nessuno se ne fosse accorto. «O forse se ne accorgevano», riflette, pensando agli stupratori che l’hanno aggredita in adolescenza, «e forse è anche questo il motivo per cui venivo bersagliata». È convinta che quasi ogni donna che lavori nell’industria dello spettacolo sia stata abusata da bambina. «Lo penso davvero. Credo sia quasi un’iniziazione. È una forma di vulnerabilità che ti porti dietro tutta la vita se sei stata abusata in qualche maniera. Hai una sorta di tatuaggio sulla fronte che dice che sei diversa. Ti mancano i confini, quelli sani». Se non fosse stata abusata, la sua carriera sarebbe stata diversa? «Volevo fare la bibliotecaria. Ma ho preso un’altra strada».

«Ho ripreso in mano il mio potere»

Come primo lavoro, Anderson fece la cameriera in una tavola calda del posto, finché non dovette scappare da un ex fidanzato violento rifugiandosi a Vancouver, dove lavorò in un centro abbronzature e si fidanzò ufficialmente all’età di 21 anni. Quando un cameraman la riprese tra la folla durante una partita di football nel 1989, con indosso una t-shirt della Labatt, il marchio di birra l’ingaggiò subito come modella. Anderson era esterrefatta: da quando la sua babysitter aveva cominciato a molestarla odiava il suo viso, odiava il suo corpo. «Pensavo di essere brutta». Un giorno, non molto tempo dopo, suonò il telefono. « Playboy ?» ripeté, quando la voce al telefono si presentò come l’editor della fotografia della rivista. Hugh Hefner aveva visto i suoi poster per la Labatt e la voleva nella sede di Playboy a Los Angeles per posare per la copertina del numero di ottobre.

«Ero terribilmente timida e odiavo quella sensazione. Ecco perché l’ho fatto, perché non volevo più sentirmi così». Anderson non era mai stata in aereo, figuriamoci in una limousine, e la Playboy Mansion la lasciò esterrefatta: «Fare il primo shooting mi ha fatto capire come ci si sente a essere una donna sensuale. Ho preso possesso della mia sessualità e ripreso in mano il mio potere».

Pamela Anderson non ha mai avuto il minimo interesse a ordire inganni femminili, mentre, per contro, il mantra preferito della madre era: «Non esiste la bellezza naturale: bastano due ore davanti allo specchio». Oppure: «Non ci sono scuse per apparire brutte» e viveva seguendo queste massime. «Mia madre era molto curata. Mi diceva sempre: “Hai più potere se sei carina. Prenditi cura di te e sarai una moglie e una madre migliore, sarai migliore in tutto. Le persone ti ascoltano di più se hai un bell’aspetto”». E poi a Los Angeles si è rivelato tutto vero. Gli stilisti di Playboy la trasformarono in una bionda luccicante e Hefner l’adorava. Un produttore di Hollywood, Jon Peters, l’accolse in una delle sue ville di Bel Air, la ricoprì di regali e organizzò cene esclusive in suo onore con i personaggi più celebri del cinema. Per la prima volta nella vita, Anderson si sentì desiderata e consapevole di ciò che lei stessa voleva. «A quei tempi sognavo la cavalleria e persone che mi aprissero la porta. Avevo questa visione romantica del mondo e pensavo di volere un uomo che facesse l’uomo». Il femminismo andava bene fin quando è servito per ottenere il diritto al voto, pensava Anderson, «ma mi dicevo: non esageriamo adesso». «Crescendo, mi sono resa conto di quanto fossi stupida e ingenua. Adesso mi sento molto diversa». Mi guarda con un sorriso autoironico: «Ci evolviamo tutti».

«Ok, questa è la mia carriera»

È sconcertante riguardare le sue vecchie interviste e vedere come la trattavano i presentatori, parlando del suo seno come se lei fosse letteralmente un oggetto. Anderson sembrava accondiscendente e ridacchiava in modo ammiccante, ma chissà a cosa stesse pensando realmente. «In realtà non ho mai pensato che fosse un atteggiamento sessista, ma mi dicevo: ok, questa è la mia carriera, mi sono preparata per questo. A essere sinceri non ci badavo molto, vivevo alla giornata». Nessuna sorpresa che si sia sposata con Tommy Lee. L’archetipo del bad boy- bello, libertino, sregolato, violentemente geloso (proprio come suo padre) - era sempre stato il suo tipo ideale. E d’altronde era improbabile che un corteggiamento meno smaccatamente passionale rispetto al colpo di fulmine dei suoi genitori le sembrasse vero amore. La notte prima delle nozze, Lee le versò dell’ecstasy nel drink, una droga che non aveva mai assunto prima, capace di provocare uno stato di euforia e disinibizione. «Hai mai provato niente di simile?», le chiese. In tutta onestà, lei gli rispose di no. «Beh, allora sposiamoci», la incalzò. «Sì, fantastico», assentì lei, in uno stato soporifero di beatitudine.

L’amore e il nastro rubato

Quello con Lee fu un amore travolgente - d’altronde la stessa Anderson racconta che il loro primo anno insieme fu immensamente felice - ma l’umiliazione per la vicenda del nastro rubato (non lo chiamerà mai “video porno”), oltre al senso di impotenza e alla vergogna, fu insuperabile. Dopo giorni e giorni di interrogatori da parte degli avvocati, che oltretutto avevano appeso alle pareti le sue copertine di Playboy e la assillavano con domande sulle sue preferenze sessuali e posizioni preferite («Voglio dire, come se tutto questo c’entrasse con il furto e la vendita della nostra proprietà privata!»), rinunciò alle azioni legali per paura che lo stress potesse danneggiare il bambino che portava in grembo. Mentre lei temeva che non sarebbe mai più tornata a lavorare, Lee continuava a cacciarsi nei guai per le sue scazzottate coi paparazzi. Praticamente incapaci di uscire di casa e oppressi dalla vergogna e dalle telecamere, i due cercarono di farsi forza a vicenda evocando le loro parole in codice, “G & D” (Grazia e Dignità), ma non ne furono mai all’altezza. Anderson ha dovuto fare nuovamente appello al proprio contegno l’anno scorso, quando Disney+ ha distribuito Pam& Tommy , una serie di otto puntate incentrata sulla vicenda del nastro.

Pamela Anderson con il musicista Tommy Lee, batterista della band metal Mötley Crüe. Si sono sposati nel 1995 (si erano conosciuti solo cinque giorni prima) e durante il matrimonio lui è stato arrestato per violenza domestica e condannato a sei mesi. Hanno divorziato nel 1998

Calvari in serie

Profondamente turbata dal fatto che il suo calvario sia stato rispolverato per un semplice intrattenimento, sostiene che non lo guarderà mai. I produttori affermano che la serie offra un ritratto “positivo” di Anderson, mostrando al mondo la crudele violazione della sua privacy. Non appena gliene parlo, però, si lascia andare a una rapida smorfia di sarcasmo. «Tutta questa positività io non l’ho percepita», commenta. E nel suo libro scrive: «È imperdonabile che ancora oggi la gente pensi di poter trarre profitto da un’esperienza - per non dire crimine - tanto orribile». Chissà se il suo matrimonio sarebbe sopravvissuto se quel nastro non fosse stato rubato. «Impossibile a dirsi». Credo si possa affermare che non abbia avuto alternative. Lee insisteva per essere sempre presente sul set insieme a lei; la aspettava nudo nella roulotte e le scompigliava intenzionalmente i capelli e il trucco: «Una strategia per trascorrere più tempo insieme», scrive Anderson. «Diceva che ero sua. Reclamava il suo “momento moglie”». Benché fosse stato bandito dal set dopo aver dato un pugno in faccia al produttore, Lee continuava a parcheggiare nelle vicinanze e a scavalcare la recinzione. Un giorno tamponò la roulotte del trucco con l’auto, distruggendo lo studio di make-up, poi caricò la moglie in macchina, la riportò a casa e se ne andò via. Quella sera, intenzionata a perdere conoscenza e a lasciarsi annegare nella vasca da bagno, Anderson tentò di ingoiare un flacone di pillole con la vodka, ma l’alcol la fece vomitare e svenire sul pavimento.

Pamela Anderson con i due figli Brandon e Dylan, avuti con Tommy Lee. Oggi Brandon ha 26 anni, ha lavorato come modello e attore, ha partecipato ad un reality show e ha lanciato una linea di abbigliamento; Dylan ha 25 anni ha lavorato come modello, si occupa di musica e di commercio delle criptovalute

Dal set all’ospedale

Il mattino seguente, non vedendola arrivare sul set, il suo autista la raggiunse e la trovò riversa in una pozza di vomito. La portò di corsa in ospedale, mentre il fratello Gerry, che allora lavorava come comparsa per Baywatch , rintracciò Lee e, assieme a lui, si precipitò al capezzale di Anderson. Lee scoppiò in lacrime, mentre Gerry iniziò a urlargli che aveva quasi ucciso sua sorella, e a quel punto si scatenò una violenta scazzottata. I due si stavano ancora prendendo a pugni, lottando a terra, quando un medico entrò nella stanza e annunciò che Anderson era incinta. «Fu come se non fosse mai successo nulla, e ci abbracciammo tutti» scrive lei. Poco tempo dopo abortì. Tutto ciò accadde durante il loro primo anno d’amore, precedentemente allo scandalo del nastro. Nell’estate del 1996 nacque il loro primo figlio, Brandon, seguito da Dylan alla fine del 1997. Nella sua autobiografia del 2001, Lee ha fornito una versione differente delle loro liti, scrivendo: «Con Pamela ero in testa alla classifica. Alla nascita di Brandon, sono sceso al secondo posto... Poi, quando è nato Dylan, sono precipitato al terzo... E non riuscivo ad accettarlo». Quello che sembra un caso da manuale di narcisismo e controllo coercitivo, ad Anderson appariva come vero amore. «Mi dicevo: Dio, quest’uomo mi ama davvero». Nessuno che abbia provato a dissuaderla? «Ero innamorata di lui, sarebbe stato inutile». E, in un certo senso, lo è ancora. I ripetuti tentativi di riconciliazione della coppia non hanno mai retto, ma poco tempo fa Anderson ha rivisto una vecchia videocassetta di una festa di compleanno che aveva organizzato per il marito ed è scoppiata a piangere. «Ho pensato: Oddio, allora lo amo davvero! In quel momento ho avuto come un’illuminazione, dopo tutto quel tempo in cui avevo cercato di reprimere i miei sentimenti. Ora è sposato, e gli auguro il meglio: non sto certo qui a struggermi per Tommy e cazzate varie. Ci mancherebbe. Ma mi piace pensare che i nostri figli siano il frutto di un amore vero».

Senso di famiglia

Quando i due parlano al telefono, rimane sempre l’impressione di «essere una famiglia. È una sensazione normalissima, che non ho mai più provato da allora. Probabilmente capita una volta sola nella vita». Anderson sperava di provare di nuovo questa sensazione quando, nel 2006, sposò Kid Rock, un altro musicista. I due, però, si separarono solo pochi mesi dopo. «Inizialmente erano Kid e Tommy le vere star, e invece a un certo punto arriva questa bambola bionda che attira l’attenzione su di sé, rubando loro la scena. Credo che sia sempre stato un problema nelle mie relazioni: è strano stare insieme a qualcuno che tutti desiderano. È come se i miei partner dovessero, ma non volessero, condividermi con un mucchio di altre persone». Poi si interrompe. «Credo sia anche una questione di possesso. Quando hai tutta questa attenzione, sei in grado di badare a te stessa e puoi andartene in qualsiasi momento, perciò gli uomini non hanno più nessun tipo di controllo su di te. Si sentono privati della loro virilità. È in quel momento che entri in un territorio pericoloso». Nel 2007 convolò a nozze con Rick Salomon, un giocatore di poker professionista noto per aver realizzato un film porno con Paris Hilton. A distanza di quasi tre mesi, lei lo lasciò dopo che la sua assistente aveva trovato una pipa da crack nell’albero di Natale.

Ritorno alla normalità. Apparente

«Sono consapevole dei miei frequenti matrimoni; volevo soltanto ricreare una famiglia per i miei figli. Ma non permetterò più a nessuno di abusare di me; non voglio che i miei figli pensino che sia una cosa normale». Dopo tutti quei fidanzati e mariti famosi, Dan Hayhurst, un costruttore locale, costituiva un’eccezione all’insegna della normalità. «Ma è andata peggio che con tutti gli altri. Mi sono detta: oddio, cosa sto facendo? Come ho fatto a cacciarmi in questa situazione? Ho aperto gli occhi e ho capito che era l’ennesimo fallimento». All’inizio di gennaio dello scorso anno, Anderson disse a Hayhurst che sua madre era appena risultata positiva al Covid e che di conseguenza doveva sottoporsi al test a sua volta; in questo modo, il marito avrebbe dovuto trascorrere la notte in uno degli altri cottage. A quel punto telefonò al suo assistente, un arredatore d’interni del posto («probabilmente l’unico ragazzo gay di Ladysmith», scherza lei) e gli chiese di andarla a prendere assieme al suo golden retriever alle 5 del mattino. «Ce ne andiamo da qui». Si diressero a Los Angeles, dove intendeva restare appena un mese, ma Hayhurst «non se ne voleva andare». Nonostante l’accordo prematrimoniale, alla fine dovette pagarlo perché lasciasse la casa. Non ho mai incontrato una celebrità così poco interessata al denaro.

«Non ne ho mai messo da parte. Venivo sempre citata in giudizio per tutto ciò che avevo. È tutta la vita che mi chiamano in causa». L’autobiografia è stata un’idea dei suoi figli. Brandon, che oggi ha 26 anni, ha lavorato come modello e attore, ha partecipato a un reality show e ha lanciato una linea di abbigliamento; anche Dylan, che di anni ne ha 25, ha lavorato come modello, si occupa di musica e di commercio di criptovalute. L’indifferenza della madre verso il denaro li manda su tutte le furie. «Non riescono a capire quella sorta di fiducia nell’universo che ho io. Ha sempre fatto incazzare tutti quelli che mi stavano attorno. Eppure a me piace questo alone di mistero, per il semplice gusto di stare a vedere che succede. Sono sempre fiduciosa al cento per cento che qualcosa di bello stia per accadere».

Il fascino del teatro

Gli ultimi 12 mesi sembrano aver confermato questa sua filosofia. All’inizio dell’anno scorso, di punto in bianco, le fu offerto il ruolo di Roxie nel musical Chicago a Broadway. Priva di esperienze teatrali, e con solo sei settimane di prove prima di lanciarsi in questa serie di otto spettacoli settimanali per otto settimane, per lei si è trattato di un’impresa estremamente ardua, ma anche di un grande trionfo. «Volevo proprio mettermi alla prova. Desideravo anche mostrare ai miei figli di essere brava in qualcosa». Durante la standing ovation nella serata di apertura, è riuscita a percepire lo sguardo di Dylan su di sé. «Ho pensato che era probabilmente la prima volta che mi guardava con orgoglio». Brandon ha partecipato alla produzione di Pamela, a Love Story , un documentario Netflix sulla vita della madre. Anderson gli è grata per aver risanato le sue finanze. «È un angelo, ha rivoluzionato ogni cosa, ora sono a posto per il resto dei miei giorni». Dopo la separazione da Hayhurst, non è mai rimasta single così a lungo, ed «è stato il più bel periodo della mia vita. Non penso di essere più tagliata per le relazioni, ormai».

Compagnia ad Assange

L’unico uomo sul quale mantiene un certo riserbo è Julian Assange. Anderson faceva regolarmente visita al fondatore di WikiLeaks mentre era rintanato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, e scrive di «una notte insieme piuttosto vivace, divertente, sotto i fumi dell’alcol». Non ha mai confermato la vera natura della loro relazione e, quando le chiedo se fosse una storia romantica, ridacchia: «No. Beh, niente di serio». Oggi il rapporto più impegnativo cui Anderson deve far fronte è quello con la madre. Ha convinto i genitori, tuttora insieme, a vendere la loro casa e a trasferirsi nella sua proprietà, immaginandosi che «avremmo vissuto lì tutti insieme, felici. Ma, com’è che si dice... parenti serpenti, giusto? Tra me e mia madre era un continuo botta e risposta di dispetti». La madre ha letto la sua autobiografia e non ne è rimasta contenta. Dopo tre ore trascorse insieme, le chiedo se esista qualcuno che l’abbia mai trattata con assoluto rispetto. Ci pensa su. «Hugh Hefner», risponde.

Federica Bandirali per corriere.it il 12 febbraio 2023.

Nel corso degli anni è diventata un’icona. Sotto tanti punti di vista: Pamela Anderson è una modella, una star dello schermo e un'attivista che è stata un nome familiare per decenni. Ora è il momento di vedere Pamela sotto una luce completamente nuova mentre torna nella proprietà della sua famiglia sull'isola di Vancouver per restaurare, progettare e stabilirsi nella casa (che era di sua nonna). Il tutto in una docu-serie dal titolo “Pamela's Garden of Eden”.

 Ritorno alle origini

Pamela viene dalla pittoresca cittadina della costa occidentale, Ladysmith. Ladysmith è una piccola città (con una popolazione inferiore a 9.000 abitanti) che dispone di un incantevole lungomare. Loyal Homes lo descrive come un luogo ideale per gli investitori immobiliari grazie agli splendidi paesaggi e alle affascinanti fette del lungomare. In“Pamela's Garden of Eden”, la star fa il suo trionfante ritorno a Ladysmith, per rinnovare la proprietà che ha acquistato 25 anni fa.

Vegetariana sin da quando era un'adolescente (anni prima che le diete a base vegetale diventassero popolari), Pamela vive da decenni uno stile di vita vegano.

Pamela è una schietta sostenitrice dei diritti animali e ambientali. Ha collaborato con PETA a numerose campagne, inclusa la campagna "Tutti gli animali hanno le stesse parti" per fermare il traffico di animali. Ha fondato la Pamela Anderson Foundation che serve a proteggere il pianeta sostenendo “organizzazioni e individui che sono in prima linea nella protezione dei diritti umani, animali e ambientali”.

L'impero di Pamela non si limita solo ai suoi crediti cinematografici e televisivi. Ha anche pubblicato diversi romanzi ispirati alla sua vita e alle sue esperienze, tra cui la sua autobiografia “Love”, “Pamela” e una serie di libri per bambini.

Pamela è ancora una volta un'icona di stile anche per la Generazione Z che ha trovato ispirazione dal suo look biondo platino, sopracciglia sottili e labbra scure. Posa spesso per servizi fotografici internazionali

 Il 20 gennaio 2020 con una cerimonia privata a Malibù, Pamela Anderson ha sposato il produttore cinematografico Jon Peters, 74. Si tratta del quinto matrimonio per entrambi. Ma il sogno è durato poco: i due si separano dopo 12 giorni. «Ci prendiamo del tempo a parte per rivalutare ciò che vogliamo dalla vita e l’uno dall’altra» aveva dichiarato all’Hollywood Reporter la bagnina più famosa del mondo.

Pamela Anderson ha ammesso in diretta tv, nel 2009, di aver sniffato cocaina in passato. Una rivelazione shock che ha colpito tutti anche il presentatore dello show, il britannico Jeremy Kyle. L'ex playmate aveva raccontato davanti all'occhio indiscreto delle telecamere il suo periodo di vita più difficile alle prese con la droga e l'alcool.

Pam e Tommy” è la serie TV che sta andando in onda su Disney+ e racconta l’amore di Anderson e Tommy Lee, primo marito. Pamela Anderson e Tommy Lee si conobbero il 31 dicembre del ’94, in un locale di Los Angeles dov’erano andati a festeggiare con gli amici l’arrivo del nuovo anno. Si racconta che Lee rimase estasiato dalla bellezza di Pamela. All’epoca lui aveva 32 anni e la sua carriera era in stallo, mentre la Anderson, 21, stava sbocciando come attrice e personaggio televisivo.Il matrimonio di Pam e Tommy si celebrò il 19 febbraio 1995 sulla spiaggia di Cancun, alla presenza di sole otto persone. Anche il look degli sposi è passato alla storia: lei indossava un bikini bianco e nient’altro, mentre lui un paio di bermuda dello stesso colore.

Da movieplayer.it il 13 Gennaio 2023.

L'ex star di Baywatch nonché icona di sensualità degli anni '90 Pamela Anderson ha deciso di parlare in maniera molto aperta dell'ormai celebre sex tape con Tommy Lee, diventato anche oggetto di una serie TV per Hulu dal titolo Pam & Tommy. Pamela Anderson ha voluto raccontare la sua versione della storia ai microfoni di CBS.

 "Si trattava di proprietà privata e poi rubata. Era un video con due persone nude che si amavano. Voglio dire, eravamo sempre nudi, facevamo cose stupide e ci riprendevamo per tutto il tempo, ma quel filmato era inteso soltanto per noi e non sarebbe dovuto finire in rete. E ad oggi non ho avuto il coraggio di guardarlo perché mi ha fatto molto male".

L'attrice ha poi spiegato che a salvarla dal suo periodo buio sono stati i figli: "Ero una madre e questo mi ha salvato. Se non lo fossi stata non penso sarei sopravvissuta".

 Il 31 gennaio arriverà su Netflix Pamela, a love story, documentario che racconterà gran parte della vita della star, partendo dalla sua infanzia nella piccola cittadina di Ladysmith, nella British Columbia, passando per le prime esperienze come modella e attrice, arrivando alla maternità, all'attivismo e alla sua sempre turbolenta ricerca dell'amore.

Le informazioni arrivano direttamente dalla protagonista del documentario, in quello che sarà indubbiamente un evento senza precedenti. La serie è prodotta da Jessica Hargrave, Julian Nottingham e Brandon Thomas Lee, il figlio maggiore di Anderson e Tommy Lee. La regia è invece affidata a un nome già noto nel settore del documentario, Ryan White, già creatore della docuserie Netflix The Keepers.

Pamela Anderson confessa: «Tommy Lee è il solo uomo che abbia mai amato davvero». Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 27 Gennaio 2023.

L’ex bagnina di Baywatch e il batterista dei Motley Crue sono stati sposati dal 1995 al 1998, quando lui è stato arrestato e condannato a 6 mesi per violenza domestica. La rivelazione arriva nella serie Netflix «Pamela, A Love Story», in uscita dal prossimo 31 gennaio

Si è sposata sei volte, ha divorziato quattro e ha avuto due annullamenti, ma Pamela Anderson ha amato davvero un solo uomo nella sua vita: il batterista dei Motley Crue, Tommy Lee, padre dei due figli Brandon e Dylan (rispettivamente 26 e 25 anni). La rivelazione arriva nella docu-serie «Pamela, A Love Story», in uscita su Netflix dal 31 gennaio (in contemporanea al suo libro di memorie «Love, Pamela»), dove l’ex star di Baywatch si è raccontata senza reticenze, offrendo alle telecamere l’accesso completo ai suoi video privati e ai suoi diari personali.

«Ho amato realmente tuo padre per tutte le giuste ragioni e non credo di aver davvero amato qualcun altro», confessa la Anderson al figlio Brandon in un’anticipazione della serie, pubblicata dal Daily Mail. Dopo il matrimonio-lampo su una spiaggia di Cancun, in Messico, alla fine di quattro giorni di corteggiamento (la prima notte insieme fu anche quella in cui lei provò l’ecstasy per la prima volta), Pam e il batterista sono rimasti legati dal 1995 al 1998, quando lui è stato arrestato e condannato a sei mesi di carcere per violenza domestica.

«Quello che era diverso con Tommy era che non c’erano segreti, inganni o giochetti - continua Pamela - . Il nostro era solo un amore esplosivo. Non sapevamo nulla l’uno dell’altra e finì per essere uno degli amori più selvaggi e belli di sempre». Alla nascita del primogenito cominciarono però i primi segnali d’allarme nel comportamento di Lee che una volta le distrusse la roulotte solo per averla vista baciare un attore per esigenze di copione sul set di «Baywatch». Le liti diventarono sempre più numerose e furibonde, fino all’ultima del 1998, che segnò la fine del matrimonio.

«Continuava a ripetere “rivoglio mia moglie, rivoglio mia moglie” e io non sapevo cosa fare - ricorda oggi la Anderson - . Gli urlai di crescere e che non si trattava più solo di lui. Non gli avevo mai parlato così in vita mia, non lo riconoscevo. Mi ha strappato di dosso Brandon e ha sbattuto me e Dylan contro un muro, così ho chiamato il 911». Dal carcere il batterista le ha inviato tonnellate di lettere, supplicandola di perdonarlo e di tornare insieme. Ma la Anderson, seppur con il cuore a pezzi, non ha ceduto.

«Non ho mai amato nessuno tanto profondamente e sento che una parte di me è morta. Penso che tutto si riduca al fatto che non ho mai superato di non essere stata in grado di far funzionare la storia con il padre dei miei figli. Pensavo di poter ricreare una famiglia o innamorarmi di qualcun altro, ma non è andata così e credo che probabilmente sia per questo che continuo a fallire in tutte le mie relazioni», conclude l’attrice, il cui ultimo matrimonio con il costruttore canadese Dan Hayhurst non è durato nemmeno il tempo di far asciugare l’inchiostro sui documenti.

Giulia Zonca per lastampa.it il 2 Febbraio 2023.

C’è una Pamela Anderson dentro ognuno di noi, […] quel filo di pamelitudine diventa evidente, pulsante, davanti a «Pamela, a love story», l’ultima biopic di Netflix. È l’ennesima volta in cui la donna diventata famosa grazie al seno rifatto (calmi, lo dice lei), si racconta. […]Sentro queste due ore spiazzanti, c’è quel che non ti aspetti.

 E pure quello che spiega perché un’attrice che non ha mai recitato, una show girl che non ha avuto uno spettacolo, una moglie seriale che non ha avuto amori di cui andare fiera, si è tenuta addosso ogni etichetta che le hanno appiccicato sopra. Che si è messa addosso da sola, per semplificarsi l’esistenza. Invece di strappare le definizioni stonate, le ha stratificate. Fino ad averne così tante da non essere più tracciabile.

In teoria è un personaggio ovvio: la dea del sesso, la bomba bionda, la superstar della corsa al rallentatore, il sogno californiano. Le descrizioni scorrono sulle copertine patinate e nelle presentazioni dei talk show, montate in serie nei primi minuti del racconto. […] Qualsiasi eccesso è sorpassato e nessuno viene rinnegato: «Le mie tette hanno fatto carriera, io le ho solo accompagnate», una battuta meravigliosa e la chiave che libera la pamelitudine. 

Ha posato nuda per Playboy e ha lasciato che il suo corpo parlasse per lei, ha puntato tutto su un bene che difficilmente perde valore, le tette appunto […]: ciò che sappiamo di Pamela Anderson è in realtà ciò che non ci riguarda. Il video porno rubato dalla casa che condivideva con l’ex marito rocker Tommy Lee l’ha segnata eppure non dice molto di lei, parla più di noi. 

[…] Anderson si sposa plurime volte, si accoppia di continuo con uomini che a turno diventano o violenti o insofferenti e sa persino il perché: «Se ti aspetti una donna e te ne trovi vicina un’altra si fa difficile». Nonostante ciò si lascia essere: nozze con Tommy Lee dopo quattro giorni di conoscenza, sulla spiaggia di Cancún. […] Mezza ubriaca, mezza strafatta, confessa di ecstasy e bagordi come se fosse il resoconto di un sogno bislacco di cui si stufa senza riuscire a svegliarsi. […]

La bomba bionda sorride davanti alle disavventure ineluttabili: è un fumetto, sexy quanto volete, ma di un’autoironia che andrebbe insegnata a qualsiasi adolescente per la sopravvivenza quotidiana in un mondo social. […]

 Ripete quello che la maggioranza della gente pensa e nulla ha più peso: gli strati di etichette proteggono dall’imbarazzo, dal fastidio, foderano, rimbalzano gli sguardi indigesti. Il documentario è un invito a non toglierle. […] Bisogna solo avere stima di se stessi e non leggerle. Basta coltivare almeno un filo di pamelitudine. Anche in assenza di tette

Estratto dell’articolo di Andrea Ossino per “la Repubblica – ed. Roma” il 2 febbraio 2023.

«Il bambino spacciato per Sebastian era mio figlio» . Tra il surreale e l’illegale va in scena la prima udienza che riguarda il finto matrimonio e l’inesistente promesso sposo di Pamela Prati, corredato da altrettanto simulato figlio [...] il marito immaginario e il suo fantomatico figlio hanno portato a processo le due agenti della Prati, Eliana Michelazzo e Pamela Perricciolo. Il pm Mario Pesci le accusa di sostituzione di persona. Perché il piccolo e l’uomo da un giorno all’altro hanno scoperto di essere stati spacciati per figlio o promesso sposo.

«Il tutto è avvenuto per dare un volto al presunto promesso marito della signora Prati per confermare una storia poco credibile » , ha denunciato l’imprenditore che, suo malgrado, si è trovato a interpretare il ruolo di tale Mark Caltagirone. A lui è stata rubata una foto dal profilo social: «Era un selfie con mia figlia che avevo fatto e postato per la festa del papà».

È andata peggio al piccolo Sebastian, come è stato ribattezzato il figlio della parrucchiera di una delle due agenti, che dopo aver prestato il suo volto a una fiction televisiva è stato bollato come il figlio dell’inesistente Mark Caltagirone. « Quello che credevamo fosse il copione di una fiction in realtà era il materiale utilizzato per creare il finto bambino in affido nel caso della signora Pamela Prati e del suo fidanzato Mark Caltagirone » , denuncia la mamma

[…]

Arriva in aula il processo Mark Caltagirone: imputate le due agenti della showgirl Pamela Prati. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Febbraio 2023

Nel capo di imputazione a carico della Perricciolo e la Michelazzo firmato dal pm Mario Pesci si legge: "In concorso tra loro, al fine di avvalorare la falsa notizia di un matrimonio imminente tra la nota soubrette Pamela Prati e un fantomatico Mark Caltagirone e, di conseguenza, di promuovere, quali agenti della Prati la sua partecipazione a spettacoli e trasmissioni televisive e la sua presenza su giornali e rotocalchi"

La pagliacciata sull’esistenza di Mark Caltagirone, il fantomatico inesistente promesso sposo di Pamela Prati, è finalmente arrivata nelle aule di giustizia per sfociare in un vero processo. Ieri all’interno dell’aula 21  del Tribunale penale monocratico di Roma , si è tenuta la prima udienza che vede imputate per sostituzione di persona Pamela Perricciolo ed Eliana Michelazzo, entrambe ex socie della Aicos Management ed ex manager della showgirl del “Bagaglino”, accusate entrambe di essere le responsabili di una invenzione creata esclusivamente per scopi pubblicitari e come si suol dire in quegli ambienti “fare cassa”.

Nel capo di imputazione a carico della Perricciolo e la Michelazzo firmato dal pm Stefano Pesci si legge: “In concorso tra loro, al fine di avvalorare la falsa notizia di un matrimonio imminente tra la nota soubrette Pamela Prati e un fantomatico Mark Caltagirone e, di conseguenza, di promuovere, quali agenti della Prati la sua partecipazione a spettacoli e trasmissioni televisive e la sua presenza su giornali e rotocalchi, sostituivano a più riprese la persona di Marco Di Carlo a quella di Mark Caltagirone, personaggio di fantasia appositamente creato, utilizzando ripetutamente per rappresentare le sembianze di Caltagirone, immagini di Di Carlo“.

Ma non solo. Infatti per rendere ancora più credibile ed avvalorare questa farsa, le due agenti hanno utilizzato anche l’immagine di un bambino, a insaputa dei suoi veri genitori. Secondo l’accusa della Procura capitolina che si basa sulle indagini della Polizia di Stato, la Perricciolo e la Michelazzo, “sostituivano a più riprese la persona del minore Simone N. a quella di un ipotetico figlio del fantomatico Mark Caltagirone a nome Sebastian, utilizzando ripetutamente, per rappresentare le sembianze di Sebastian, immagini e video del piccolo Simone“. 

L’avvocatessa Anna Beatrice Indiveri difensore di Pamela Perricciolo ( che non si è presentata in aula) ha chiesto per la sue assistitala la disponibilità a prestare servizio presso la Croce Verde di Fermo, ma il pm si è opposto e il giudice si è riservato sulla decisione, che non arriverà prima di settembre, quando si terrà la prossima udienza. Presente, invece, Eliana Michelazzo che, fuori dal tribunale di piazzale Clodio, ha parlato con le telecamere di “Pomeriggio Cinque“: “Sono contenta di essere venuta perché voglio metterci la faccia – ha detto -, sono una vittima di questa storia. Anche Pamela Perricciolo vittima? Direi di no, per quello che so io è stato tutto fatto da lei”. La Michelazzo non si è sbilanciata su Pamela Prati: “Lei è vittima al 50% – ha aggiunto -. Vorrei che fosse fatta giustizia perché c’è di mezzo un minore e, anche oggi, ho visto i genitori del ragazzo molto tesi“. 

Mario Di Carlo, 49enne di Milano, è l’uomo a cui è stato attribuito il volto dell’inesistente Mark. Nella vita reale Di Carlo è titolare di una società di media marketing e management la “M Group srl”, attiva nel mondo dello spettacolo. Il 30 maggio 2019 Di Carlo ha presentato una querela: cinque giorni prima era stato contattato dal giornalista Umberto Brindani, direttore del settimanale “Oggi”, e da Cristina Nutrizio, autrice del programma “Live” condotto da Barbara D’Urso che sulla vicenda ci ha costruito ul palinsesto televisivo . “Mi comunicavano di avere in mano la fotografia mostrata nella trasmissione “Verissimo” (andata in onda l’11 maggio 2019) dalla signora Pamela Prati alla conduttrice del programma. Silvia Toffanin, dove il soggetto spacciato per tale Mark Caltagirone, ero io, ritratto in auto con mia figlia più piccola in un selfie che avevo fatto e postato per la festa del papà“. 

Preciso che avevo conosciuto anni addietro la signora Prati, ma non l’avevo mai frequentata”, continua nella querela il Di Carlo l’altra vittima di questa messa in scena. “Il tutto è avvenuto scientemente per dare un volto al presunto promesso marito della signora Prati. A fronte del guadagno e della visibilità mediatica ricevuta dalle due agenti, vi è il danno che ho subito: leso nella mia privacy ed esposto ai media al culmine finale della triste vicenda, come il fantomatico Mark Caltagirone“.

Una seconda querela è stata presentata nei primi giorni di giugno del 2019 dai genitori di Simone, il bambino “spacciato” dalla Perricciolo e la Michelazzo, per Sebastian, figlio dell’inesistente promesso sposo della soubrette. “Abbiamo scoperto che quello che credevamo fosse il copione di una fiction in realtà altro non fosse se non il materiale utilizzato per creare il finto bambino in affido nel caso della signora Pamela Prati e del suo fidanzato Mark Caltagirone”. La mamma del piccolo Simone aveva conosciuto nel 2012 la Perricciolo e la Michelazzo , quali clienti del parrucchiere dove lei lavorava. “Mentre guardavo una puntata di un programma condotto dalla signora D’Urso, sentivo della vicenda della signora Prati e di questi due bambini affidati al suo fidanzato. Sorpresa per le correlazioni tra il copione dato da una delle agenti a mio figlio, chiedevo alla Perricciolo, tramite un messaggio Whatsapp, se mio figlio c’entrasse qualcosa con la vicenda Prati. Lei diceva di no”. Ed invece avevano coinvolto questo povero bambino ignaro in questa volgare sceneggiatura da teatrino mediatico. 

Il processo riprenderà l’11 settembre. Redazione CdG 1947

Da open.online l’11 gennaio 2023.

Pamela Villoresi, 66 anni, attrice, è attualmente la direttrice del Teatro Stabile Biondo di Palermo. Oggi in un’intervista a la Repubblica parla delle molestie subite sul lavoro dopo le denunce dell’Associazione Amleta.

 «A 15 anni ero una ragazza molto carina. I produttori mi ascoltavano per due minuti e poi facevano: si spogli. Una volta uscii dall’incontro e ne denunciai uno alla polizia. A 16 anni un produttore di film pornografici mi aveva abbordata al festival di Spoleto per recitare nelle sue pellicole. Gli detti appuntamento al giorno dopo e ci tornai con una poliziotta in borghese. Però ho trovato più fastidioso e umiliante altro».

 Il mee too e Amleta

Ovvero, spiega Villoresi, «in Rai per anni i funzionari erano costretti a imporre le favorite dei politici di turno e venivamo fatte fuori noi attrici scelte dai registi. E accade ancora. Solo qualche anno fa ho perso la parte così con un regista molto bravo ma molto giovane. Non si capisce perché tutte queste favorite non vogliano aprire una macelleria ma preferiscano tutte fare le attrici».

 E l’attrice rivela: «Non sono stata creduta a lungo nemmeno da vittima di un maniaco per anni, intorno al ‘75. La polizia mi chiedeva di andare col registratore a portare le prove, ma avevo paura di incontrarlo da sola». La storia è finita così: «Dopo sette-otto anni un prefetto finalmente diede ascolto a un’attrice e il maniaco fu preso. A casa sua c’erano le foto mie e di altre attrici. Poteva ammazzarci».

Il momento più difficile è stato quando «tra mezzanotte e le due squillava il telefono, e le frasi erano: “Una di queste notti ti accoltello puttana”. Vivevo in una casetta di campagna dove con un calcio si tirava giù la porta. La lasciai per andare in città, dove alla polizia mi dicevano picche. Forse il Me Too in America ha avuto più eco perché c’era più ascolto, ora però Amleta sta facendo un lavoro eccezionale».

Daniele Priori per “Libero quotidiano” - Estratti mercoledì 22 novembre 2023. 

Non è poi la fine del mondo. È questo il titolo del libro, edito da Sperling&Kupfer, nel quale la showgirl Paola Barale affronta il tema della menopausa, fase della vita nella quale la donna ha raccontato di essere entrata precocemente, a 42 anni. Un tabù alimentato secondo Barale «soprattutto da quelle donne che oggi mi chiedono di smettere di parlarne». 

(...) Libro e non solo per la Barale che dal 2024 tornerà in tv con Tilt e La pupa e il secchione e, a primavera, partirà con una tournée teatrale. 

(...) Lei Paola, parla in maniera libera. Questo fa star bene le sue lettrici ma credo anche i suoi lettori.

«Il mio obiettivo con questo libro, anche se non sono un’autrice, è proprio quello di sfatare tabù, abbattere pregiudizi, iniziare un dialogo. E ci sto riuscendo. Grazie a questo libro ho avuto una telefonata con mio padre di 86 anni. All’inizio lui che resta sempre il mio primo grande critico, mi ha sottolineato come mi fossi spinta un po’ in là ma poi mi ha raccontato anche cose intime di quando la mamma è andata in menopausa. Gli ho fatto notare che era la prima volta che ne parlavamo».

Oggi davvero una donna è così libera di andare a passeggio al sexy shop in pieno centro a Milano senza essere giudicata?

«Io mi sento libera di farlo e lo faccio. Quella di cui parlo nel libro è una boutique fetish dove si possono comprare oggetti sextoys, biancheria, lubrificanti vari. È come entrare in una boutique normale. Ogni volta che vado c’è sempre moltissima gente. L’ultima volta c’era un ragazzo che sceglieva un completino per la sua donna. Dipende sempre dal significato che si dà alle cose. Certi oggetti, poi, se fatti bene, con belle forme, laccati possono diventare anche oggetti d’arredamento. Se questo aiuta a vivere una sessualità più libera e consapevole che ben venga». 

Lo stigma sulle donne in menopausa, secondo lei, viene più dal mondo maschile o più da quello femminile?

«Ci sto riflettendo anche alla luce degli ultimi fatti di violenza. Si stanno demonizzando gli uomini che, è vero sono i principali autori dei femminicidi. Non bisogna però cadere nella trappola di demonizzarli tutti. Ma indagare sulle cause. Perché, ad esempio, in quest’epoca di politically correct, non si possono più fare battute su nulla tranne che sull’età delle donne. 

Penso poi al bullismo degli adolescenti che hanno pubblicato foto sexy delle loro coetanee, arrivate a volte anche a togliersi la vita. Ma anche ai settimanali e ai siti che pubblicano le foto di donne nude rubate dai paparazzi. Che esempi si danno? Quello che manca in tutti i casi è il rispetto minimo della persona». 

Lei nel libro ha parlato anche di una sua esperienza legata all’aborto...

«E sono stata attaccata proprio dalle donne. Ma ognuna, credo, debba essere libera di decidere. Ho semplicemente detto questo. Si può non essere favorevoli all’aborto ma attaccarmi come una che uccide i bambini, no. Io al massimo uccido le zanzare e già mi dispiace. Questo mi ha fatto capire come i social stiano facendo un lavoro opposto a quello che servirebbe».

Ci racconti dei suoi inizi come valletta di Mike Bongiorno.

«In realtà ho iniziato ancor prima come Littorina in Odiens di Antonio Ricci con Ezio Greggio e Lorella Cuccarini. Eravamo ballerine con reggiseni a balconcino che mettevano tutto in evidenza e costumi fascisti. Pensi un po’... Oggi avrebbero problemi ad andare in onda anche le ragazze cin cin di Umberto Smaila». 

Lo sa che tornerà La Ruota della Fortuna con Gerry Scotti?

«Sono molto felice. Mike è inimitabile e non ha eredi ma credo che Gerry abbia la capacità e anche la popolarità giusta per raccogliere quello che era il pubblico di Mike».

Estratto dell’articolo di Simona Griggio per ilfattoquotidiano.it mercoledì 15 novembre 2023.

“Non e la taranta, e la menopausa, la seconda fioritura, la bellezza senza giovinezza”, Paola Barale sorride quando invita tutte le donne a vivere questa fase fisiologica della vita con serenità. Ma anche con la consapevolezza che oggi esistono esami e cure che possono davvero accompagnare questa tappa femminile su cui ancora incombono pregiudizi e tabù. 

Lo fa dalla sala stampa della Camera dei Deputati. Dove oggi 15 novembre, con Martina Semenzato presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza genere, presenta il suo libro “Non è poi la fine del mondo” (Sperling & Kupfer). Un racconto in prima persona sulla sua esperienza di menopausa precoce che accompagna la mozione di legge presentata alla Camera dei Deputati il 13 ottobre.

[…] L’attrice e conduttrice, che ora ha 56 anni, è in menopausa precoce da quando ne aveva 42. Con ironia e leggerezza nel suo libro ripercorre una vicenda personale complessa, comune a molte donne. Per abbattere i tabù e i pregiudizi che ancora circondano l’ingresso in questo nuovo ciclo dell’esistenza femminile: “No. Non si esce dal club – ironizza – non si è meno attraenti, meno desiderate e desiderabili. Questo è solo ciò che accede dentro la nostra testa”. 

Paola Barale, cosa ha significato per lei la menopausa?

“Per me è stata uno choc. Avevo 42 anni quando il ginecologo mi ha mandato il messaggino sui risultati delle analisi. Ricordo che ero in fila alla biglietteria di Machu Picchu e ho letto in quell’esatto momento la frase: ‘sei entrata in menopausa’. Da allora, ogni volta che vedo passare in televisione un documentario su Machu Picchu penso a una cosa soltanto, il mio ingresso in menopausa. Peraltro davvero precoce.

Lei non ha figli: cosa ha comportato sapere che non ne avrebbe più potuti avere?

Uno dei temi più importanti della menopausa […] è quello della gravidanza. Io non ho mai voluto figli, e stata una scelta ben precisa. Ma quando vieni a sapere che non potrai più averli, ebbene, ti destabilizza. Almeno inizialmente. Poi una donna ci riflette e razionalizza. Alla fine ho pensato: ma se non li volevo prima che faccio, li voglio adesso solo perché non posso? 

Perchè ha sentito l’esigenza di scrivere un libro sul tema della menopausa?

E’ nato come progetto collettivo a più voci. Nel libro parlano anche amici ed esperti, infatti. Quando mi sono accorta che parlando di menopausa in un programma televisivo le donne mi scrivevano del loro disagio come se avessi dato una notizia bomba ho capito che dovevo mettere a disposizione la mia esperienza personale. […] 

Conosce il motivo della sua menopausa precoce?

Ho avuto un fortissimo stress. Ho perso la mia migliore amica di infanzia e quando è mancata mi si è bloccato il ciclo. Non è mai più tornato. Ma ho deciso […] di aderire alla terapia ormonale sostitutiva che seguo ancora oggi. Penso a tutte quelle donne, persino trentenni, che vanno in menopausa precoce per malattia tumorale o per altri motivi e mi convinco sempre di più che ci sia tanto da fare per loro. Per farle sentire ancora donne a tutti gli effetti. Anche alle 50enni consiglio di approcciarsi a questa fase con l’idea di entrare in una nuova femminilità. Più consapevole. 

Si parla spesso di calo del desiderio sessuale connesso alla menopausa…

Ci sono tanti pregiudizi. A livello ormonale è ovvio che quando sei fertile è diverso. Ma oggi ci sono cure sostitutive e alternative. Nel libro spiego come, per esempio, far diventare un lubrificante contro la secchezza vaginale un gioco erotico per la coppia. Insomma, dalla foresta pluviale alla Savana arida si può trovare un equilibrio. E bisogna spiegare ai maschi che il desiderio in una donna non perché deve fare ii conti con qualcosa di tangibile, la mancanza del ciclo. 

La sua vita sessuale è felice a 56 anni?

E’ molto vitale. Lo è sempre stata. Alla mia età però si arriva a una consapevolezza diversa che permette di vivere la sessualità con maggiore selezione. Non è certo la ‘tartaruga’ a farmi eccitare. Ma questo è un percorso naturale di crescita. Con il passare degli anni quel tipo di approccio solo fisico diventa sempre più impegnativo, Finché cominci ad abbassare le luci di tutte le stanze di casa. Ormai siamo all’anticamera del buio pesto (ride, ndr). 

Quali tabù ancora da combattere?

Il primo tabù da sfatare è proprio questo: menopausa uguale a vecchiaia. La menopausa è solo una fase di cambiamento e di nuova consapevolezza. Una rinnovata bellezza che deve essere sostenuta con azioni concrete: esercizio fisico, alimentazione, autostima. Per chi lo desidera esiste il ricorso alla terapia ormonale. 

Come si è preparata alla stesura del suo libro?

Per prima cosa sono andata in libreria alla ricerca di qualche ispirazione. Ma il tema era sempre lo stesso: vivere la menopausa con serenità in tanti manuali dalle copertine smunte, verdine, gialline, rosine, bruttine. Per donne rassegnate. […] Ho pensato che non né così. Che non è la fine del mondo. Non è un lutto. […]Ripeto: non siamo fuori dal club! 

Secondo lei gli uomini capiscono?

Gli uomini non devono fare i conti con una data precisa. Ma il loro percorso è uguale. Anche loro hanno squilibri. Non avranno le caldane ma condividono altre problematiche. Non vorrei citare il Viagra!

La cena, i viaggi, il tradimento: la storia d’amore tra Raz Degan e Paola Barale. La storia d'amore tra Raz Degan e Paola Barale è durata 13 anni, dall'incontro a una cena nel 2002 all'addio con un annuncio su Facebook nel 2015. Novella Toloni il 30 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L'incontro a una cena

 La fuga a Bali lontano dai gossip

 La cocaina e le accuse

 Il giro del mondo lontano dalla tv

 Il ritorno in tv a Buona domenica

 L'ennesima fuga dall'Italia

 Il tradimento con Kasia Smutniak

 La crisi e il ritorno in televisione

 L'annuncio su Facebook: "E' finita"

 L'Isola dei famosi e il ritorno di fiamma

La storia d'amore tra Paola Barale e Raz Degan è stata una delle più chiacchierate degli anni Duemila. Lei showgirl di successo, lui modello israeliano dal cuore gitano si incontrano ed è subito passione. Insieme gireranno il mondo rifuggendo la curiosità del pubblico e i paparazzi fino alla crisi dovuta a un tradimento, che ha incrinato per sempre il rapporto conclusosi definitivamente nel 2015.

L'incontro a una cena

È il 2002 e Paola Barale e Raz Degan si conoscono già. Non sono due sconosciuti e la loro fama li precede. Ma il vero incontro, quello che li legherà per oltre un decennio, avviene nella primavera del 2002. Paola è fresca di separazione da Gianni Sperti (con il quale è stata sposata tre anni) ma dal punto di vista professionale la Barale vive un momento d'oro. Affianca Baudo nello show "Numero Uno", conduce "Un disco per l'estate" e è nel cast di "Quelli che il calcio". Una sera viene invitata a cena da alcuni amici e al tavolo si trova accanto a Raz Degan. Il modello israeliano le parla per tutta la sera di una dj inglese della quale si è perdutamente innamorato e Paola lo ascolta. Raz rimane comunque affascinato dalla showgirl e a fine serata si scambiano i numeri. È l'inizio di una frequentazione che i due, però, non vogliono chiamare relazione.

La fuga a Bali lontano dai gossip

Raz odia i cliché e definirsi "fidanzato" non lo entusiasma. Lui e Paola si dichiarano sono amici e viaggiano molto. La coppia decide di volare a Bali per concedersi un viaggio avventuroso tra giungla, cultura e mare lontano dalle attenzioni indiscrete della stampa, che però li insegue. Nell'estate del 2002 escono le prime foto di Paola e Raz che amoreggiano sotto le palme della Thailandia e in Italia scoppia il caso. Ospite di Mara Venier a "Domenica in" subito dopo l'estate, Paola rivela: "Mi ero già separata da mio marito, ma non volevo rendere pubblico queste cose. Mi è dispiaciuto per lui anche se ci eravamo lasciati di comune accordo".

La cocaina e le accuse

Durante la loro prima estate insieme, però, succede anche uno spiacevole episodio che li fa finire al centro della cronaca. La coppia si trova all'isola d'Elba nella casa presa in affitto dalla showgirl insieme ad alcuni amici e nell'abitazione, durante un sopralluogo della polizia, vengono trovati alcuni grammi di cocaina. La droga appartiene a una persona della comitiva. "Sono abituata a fidarmi delle persone come potevo sapere che uno di loro ce l'aveva. La cosa è stata ingigantita", racconterà mesi dopo Paola a "Domenica in". Ma intanto la coppia finisce a processo e verrà prosciolta dalle accuse solo anni dopo.

Il giro del mondo lontano dalla tv

Paola Barale decide di seguire Raz in giro per il mondo mettendo da parte la sua professione. Nel 2003 conduce solo "Un disco per l'estate" poi lascia l'Italia per mesi per viaggiare con Degan in Oriente e Sudamerica. Durante i lunghi mesi lontani dall'Italia Paola e Raz raccolgono materiale video per realizzare il loro primo docu-reality - "Film privato" che nel 2004 viene trasmesso da Italia Uno - che vuole raccontare la loro vita lontano dai riflettori tra viaggi esotici e passione.

Il ritorno in tv a Buona domenica

La vita da gitana non si addice a Paola Barale che, dopo due anni di lontananza dalla televisione, decide di tornare sul piccolo schermo come presenza fissa di "Buona Domenica" su Canale 5. Tra il 2005 e il 2006, Paola torna ad allietare il pubblico con la sua verve e la sua professionalità e recita anche nel cortometraggio "Broadcast" di Laura Chiossone. Alla prima della pellicola a Roma, la showgirl calca il red carpet con al fianco il fidanzato Raz Degan in una rara apparizione pubblica.

L'ennesima fuga dall'Italia

Dal 2007 al 2008 Paola e Raz lasciano di nuovo l'Italia per scoprire altri posti misteriosi in giro per il mondo. Il modello israeliano sente l'esigenza di viaggiare e rimanere lontano da tutto e tutti e Paola, nonostante le proposte di lavoro non manchino, decide di mollare tutto ancora una volta per seguire il compagno nelle sue avventure. Ma l'idillio dura poco.

Il tradimento con Kasia Smutniak

È il 2008 e Raz Degan viene contattato per interpretare Alberto da Giussano in "Barbarossa", film di Renzo Martinelli. L'israeliano accetta e recita accanto alla collega Kasia Smutniak, che nella pellicola è Eleonora l'amata di Alberto. La passione recitata sul set diventa concreta e lontano dalle telecamere i due hanno un flirt. Ma lei è sposata con Pietro Taricone e Paola Barale è ancora la fidanzata di Raz. Entrambi scoprono di essere stati traditi dalla stampa rosa, che pubblica le foto dei balli bollenti che i due attori scambiano nella piscina di una villa affittata dalla produzione del film. "Mi sono legato le mani, evitando di andare a cercare quello là, che prima o poi incontrerò per strada e gli spaccherò il naso", racconterà anni dopo Taricone parlando del tradimento di Kasia con Raz. Paola Barale invece non rilascia dichiarazioni ma prende le distanze da Degan e torna in tv per superare il dolore.

La crisi e il ritorno in televisione

Alla fine del 2008 la showgirl torna su Italia1 come inviata in Sudafrica della terza edizione del reality "La Talpa" condotto da Paola Prego e poi gira il film "Colpo d'occhio" di Sergio Rubini. L'anno successivo nel 2009 è giurata del reality "Vuoi ballare con me?" su Sky. Sebbene non si vedano spesso insieme, Raz e Paola continuano a vedersi anche se i giornali parlano di crisi e di tradimento mai superato da parte della Barale. Nel 2010 sembra essere tornato il sereno nella coppia, perché Paola smentisce la fine della sua storia con Degan, che è a "Ballando con le stelle" come concorrente: "Non è vero, la mia storia con Raz non è finita".

L'annuncio su Facebook: "E' finita"

Dal 2010 al 2014 Raz Degan e Paola Barale vivono una relazione particolare fatta di alti e bassi. Per tutti non stanno insieme e i paparazzi faticano a fotografarli assieme. I due continuano a condurre due vite separate, ma in alcune occasioni mondane si mostrano mano nella mano. Nel 2015, però, arriva il comunicato stampa ufficiale della fine della loro relazione. A pubblicarlo su Facebook è Paola: "Io e Raz per ora abbiamo deciso di prendere percorsi differenti. Capita, nella vita, a un certo punto. Non è giusto accontentarsi di un sentimento che ha perso di vivacità e colore. Ora posso scostarmi i capelli davanti agli occhi. Tutto può sempre accadere".

L'Isola dei famosi e il ritorno di fiamma

Nel 2017 Raz Degan accetta di partecipare alla dodicesima edizione de "L'Isola dei famosi" e durante la partecipazione la produzione invita Paola Barale. La showgirl non solo va in puntata, ma vola anche oltreoceano per fare una sorpresa all'ex fidanzato. Sull'isola Paola rimane alcuni giorni e tra baci e tenerezze sembra che tra i due ex compagni possa esserci un ritorno di fiamma. Anche la Barale sembra crederci, ma una volta tornato in Italia da vincitore del reality, Raz non si farà più vivo con lei. "Mai più visto né sentito" confessa la showgirl ospite di "Domenica In" nel 2019. E la delusione è tante. Anni dopo, nel 2020, Paola Barale rivela: "La decisione l’ho presa io, ma ci sono stata portata per i capelli". La showgirl fa intendere che avrebbe voluto sposare Raz ma il "sì" non è mai arrivato. Oggi lei si dichiara single ma felice, Degan invece vive una relazione con la modella Stuart da circa tre anni. Novella Toloni

Estratto da fanpage.it il 5 febbraio 2023.

Paola Barale si è raccontata nel salottino di Verissimo. È stata tra gli ospiti della puntata trasmessa domenica 29 gennaio. La showgirl ha raccontato che il suo obiettivo era diventare "insegnante di ginnastica", ma alcuni fotografi di Fossano, notarono la sua somiglianza con Madonna e da lì, quasi per caso, è iniziata la sua carriera nel mondo dello spettacolo: "Io ho quasi 56 anni. Ma se alcune cose, la salute mi permette ancora di farle, perché non le dovrei fare? Perché mi devo limitare?" 

 Il rapporto con il tempo che passa

 Paola Barale ha parlato del tempo che passa: "Non mi rende così felice. Avrei preferito fermarmi tra i 35 e i 40 anni. Il tempo passa, si sente, è un dato di fatto, qualcosa con cui dobbiamo convivere. Poi io non ho figli, forse ho meno responsabilità rispetto a una donna che li ha. Io forse ho una vita più leggera". Ha trovato, tuttavia, il giusto approccio per continuare a godersi la vita:

 Quello che non deve mai mancare è l'entusiasmo, essere grati alla vita per quello che si ha. Io mi ritengo molto fortunata. Ho imparato a godermi a pieno la vita e ogni momento di quello che mi capita, nel bene e nel male.

 Silvia Toffanin, allora, ha rimarcato: "Tu non hai paura di parlare della menopausa". E Paola Barale ha confermato:

 È una tappa naturale nella vita di una donna. Ci sono andata abbastanza presto, ma me la vivo bene. Uno pensa che una donna in menopausa sia decrepita o non abbia una vita sessuale. Certo, ci sono dei cambiamenti. Ma è una cosa normale, da vivere in un modo normale. Magari con l'aiuto di specialisti. Non è una malattia, è un cambiamento.

Paola Barale, l'amore e la scelta di non avere figli

La showgirl ha raccontato anche il suo rapporto con l'amore. Dato che ha avuto l'esempio di una relazione solida come quella dei suoi genitori, anche lei sperava di vivere un rapporto simile: "Ho sempre creduto nell'amore, ma le mie storie personali non sono andate come avrei voluto". Ritiene che in passato fosse più semplice tenere in piedi una relazione, perché c'erano "meno opportunità, meno tentazioni" e la tendenza a volere aggiustare ciò che non funzionava anziché buttarlo via. Paola Barale ha parlato anche della sua scelta di non avere figli:

Non ho figli. Non li ho cercati,  ma li avrei voluti partendo da una buona base, con una situazione stabile. Dato che le mie relazioni erano più o meno stabili, non me la sono sentita. 

 (...)

Estratto dell'articolo da ilmessaggero.it l'1 maggio 2023.

È uno dei volti più amati di Uomini e Donne Gianni Sperti che arriva  a Verissimo. […]

La storia con Paola Barale

Un matrimonio alle spalle con Paola Barale che ha fatto molto chiacchierare, con una separazione davvero turbolenta. […] 

«Quando mi sono sposato con Paola avevo 25 anni e pensavo che sarebbe stato per sempre, lei me lo chiese che avevo 23 anni e non ero pronto ma a 25 glielo ho chiesto io. Io ero innamorato e mi sono sentito molto amato. Poi è finita per tanti motivi». Gianni Sperti affronta per la prima volta i motivi della separazione dalla sua ex moglie: «Forse si è innamorata di un'altra persona. Se ti innamori di un'altra persona è perché qualcosa non funziona». 

Mai più visti

Da quel 2002 non si mai più visti: «Mai più rivisti mai più parlati e neanche mai più incontrati. Non c'è rancore da parte mia, io ricordo la parte positiva di quel rapporto […] Certo questo non vuol dire che non ci siano stati momenti difficili o comportamenti inadeguati e parole forti, ma in generale penso solo alle cose belle». 

Le parole della showgirl

Lei invece la pensa diversamente. «[...]Ti senti presa in giro e ti trovi di fronte una cosa che non è quella che pensavi fosse. Io non riuscirei a stare con una persona se quello non è il posto dove voglio stare ». Aveva detto questo la Barale dalla Toffanin. 

La replica di Gianni

Oggi Gianni replica: «Si la pensa diversamente, io ho superato il fallimento del matrimonio e pensavo lo avesse superato anche lei, quindi non capisco perché questo rancore. Quindi forse non è serena e mi spiace». E continua:  «Non essere se stessi so a che si riferisce ma 7 anni insieme a non capirlo non le fa molto onore. Mi pare un parodosso. Un fake si capisce prima di 7 anni». Ma l'opinionista di Maria De Filippi entra nel dettaglio: «Io so l'illazione che vuole fare. Vuole far credere che io sono omosessuale. 

Ti dico che la cosa che mi da fastidio è che ancora oggi ci sia voglia di sapere, pensare e chiedere la persona che tendenza sessuale abbia. Che io lo sia forse si forse no non lo dirò mai, perchè dirlo vuol dire mettersi un'etichetta e non lo dirò mai. Siamo esseri umani e vanno catalogati se buoni o cattivi il resto chi se ne frega. Dirlo non dirlo la gente lo pensa e lancia le frecciatine. Quindi lo dico io magari si riferisce a quello».

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Estratto dell'articolo di Mattia Marzi per “il Messaggero” il 12 maggio 2023.

«Abbiamo sofferto il fatto di essere snobbate da un certo tipo di intellighenzia, musicale e no. Ci trattavano come ragazzine che facevano roba di Serie B. A distanza di tempo, abbiamo fatto pace anche con quella parte della critica: ti stimolava. Oggi che è così accomodante nei confronti degli artisti di successo, la rimpiangiamo», dicono Paola & Chiara, togliendosi subito un sassolino dalle scarpe. 

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Paola in questi anni ha fatto la dj. Chiara ha scritto un romanzo (In un solo grammo di cielo, nel 2019), studiato recitazione a Los Angeles, partecipato a film indipendenti (ha fatto anche un cameo in Mare Fuori, interpretando la madre di una delle protagoniste, Crazy J) e si è convertita all'ebraismo a Gerusalemme sposando nel 2014 l'israeliano Meir Cohen (l'unione è durata pochi anni: «Ogni tanto vado in sinagoga, ma non osservo lo shabbat in modo rigido», ha confessato a Vanity Fair). «È strano festeggiare un disco all'indomani della scomparsa del discografico che ci scoprì, Roberto Rossi (morto ieri a 62 anni, ndr)», dicono.

Avete fatto in tempo a fargli ascoltare l'album?

«Sì. Era venuto in studio con noi a mixare Furore, prima di Sanremo. All'Ariston avrebbe dovuto dirigere l'orchestra. La malattia non gliel'ha consentito. Senza di lui oggi non staremmo qui. Fu lui a mandarci a Sanremo con Amici come prima». 

Era il 1997 e avevate vent'anni: eravate coscienti di quello che stava succedendo?

«No. Fu come entrare in un turbine: il tour da coriste degli 883, il primo disco Ci chiamano bambine, l'apertura del concerto di Michael Jackson a San Siro, i Festival di Sanremo. Ad un certo punto ci ribellammo». 

Come?

«Nel '98 ce ne andammo in Irlanda. Lì scrivemmo l'album Giornata storica». 

Cosa vi eravate messe in testa?

«Rivendicare di essere sempre state avanti per i tempi, facendo un pop internazionale in un paese tradizionalista. Un flop: le canzoni erano troppo sofisticate. Ma poi ci prendemmo le nostre soddisfazioni». 

Cioè?

«Nel 2012 il Guardian mise Non puoi dire di no tra le dieci canzoni più belle del pop italiano. In Festival suonava il basso Guy Pratt, che rimpiazzò Roger Waters nei Pink Floyd. La versione inglese fu tradotta da Billy Steinberg, autore di Like a Virgin di Madonna. Quella di Vamos a bailar da Gary Kemp, ex Spandau Ballet. Con questo disco prendiamo quello che c'era di buono nel passato e lo mixiamo con il talento degli artisti di oggi, facendoci produrre da Merk&Kremont, Cosmo e Fudasca». 

Cosa vi lega a Elodie, Emma, Levante, Noemi e Ana Mena?

«Sono delle "sorelline". Elodie ci diceva: "Se rifarete i vostri pezzi io canto Festival". Emma ha voluto fare una versione elettronica di Fino alla fine prodotta da Andro dei Negramaro. Noemi ha portato una sfumatura di rock in A modo mio». 

Sono state più fortunate rispetto a voi?

«Sì. Oggi c'è più magnanimità nel giudicare il pop rispetto ad allora. Per convincere gli snob dovevi fare l'alternativo. Però a distanza di 20 anni abbiamo fan anche tra gli intellettuali». 

 Il più insospettabile?

«Lo scrittore Aldo Nove». 

Com'è stato ricantare con Pezzali "Amici come prima"?

«Come chiudere un cerchio. Max c'è sempre stato, come Jovanotti (con lui hanno reinciso Hey, ndr). È stato fondamentale anche nella reunion, quando l'estate scorsa ci ha invitate ai suoi live a San Siro».

Dai vostri, di concerti (domani e domenica saranno al Fabrique di Milano, il 19 e 20 maggio all'Auditorium Conciliazione di Roma, dove torneranno ad esibirsi il 10 giugno come madrine del Roma Pride, ndr), cosa bisogna aspettarsi?

«Una celebrazione anche della nostra diversità 

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Paola & Chiara: «Siamo più adulte ma continuiamo a essere ribelli». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2023

Le due sorelle Iezzi festeggiano la reunion con il disco «Per sempre»: le loro hit rivisitate con ospiti e due inediti 

Il loro ritorno, dicono più volte, «non era nei programmi e poteva tranquillamente non accadere». Per il futuro, anche se di brani nel cassetto ne hanno tanti, «non ci sono progetti definiti». Ma oggi Paola & Chiara si godono l’entusiasmo nato intorno alla loro reunion con l’uscita di «Per sempre» , disco in cui rivisitano le loro hit insieme a tanti ospiti, da Max Pezzali a Elodie, da Jovanotti ad Emma, con l’aggiunta di due inediti (il sanremese «Furore» e il nuovo singolo «Mare caos»): «L’idea era quella di portare i nostri brani al 2023 mantenendo intatta la loro essenza. Abbiamo lavorato con tanti produttori e poi chiesto ad artisti amici di partecipare», spiegano le sorelle Iezzi.

Raccontano di sentirsi «cresciute, più adulte e consapevoli» rispetto agli esordi: «Abbiamo iniziato da piccolissime, oggi siamo persone diverse, pur con lo stesso amore per la creatività». Anche il loro rapporto è maturato: «Una volta eravamo talmente simbiotiche che era difficile accettare che l’altra facesse qualcosa di diverso, poi la distanza ci ha permesso di vedere anche al di là del duo e ritrovare armonia. Le pause sono necessarie».

Chiara, lo scorso anno, ha raccontato di aver passato un periodo difficile, ora alle spalle: «Ho attraversato un momento di grande fragilità che ho affrontato con la terapia. Sono riuscita a ridimensionare attacchi di panico, ansia e tutto quel che ne era derivato. Continuo con la terapia, ma adesso sto molto meglio».

A fine anni 90, con il loro pop-dance, hanno precorso i tempi visto quanto quei ritmi sono tornati di moda: «All’epoca abbiamo molto sofferto l’essere un po’ snobbate da una certa intellighenzia musicale e l’essere liquidate come ragazzine, ma abbiamo fatto pace con chi ci criticava. La critica serve anche per fortificare. A nostro modo siamo delle ribelli, cantanti pop in un Paese un po’ tradizionale».

Ora le aspetta il tour, «un pop show a tutti gli effetti», e il Roma Pride, dove saranno madrine: «Vorremmo uguali diritti per tutti, la società del futuro è inclusiva ed è ovvio che sia così — sottolineano —. Dobbiamo difendere i diritti conquistati oltre a guadagnarne di nuovi, ma abbiamo fiducia nelle persone. Crediamo che nessuno, Governo compreso, voglia peggiorare il mondo».

Estratto dell’articolo di Francesco Fredella rtl.it il 14 marzo 2023.

"Dietro Furore ci sono io": Luca Vismara svela i segreti della canzone di Paola & Chiara

La notizia è rimasta segreta per molto tempo fino a quando Dagospia ha spifferato qualcosa. Ora Luca Vismara, cantautore e personaggio televisivo, vuota il sacco. "Furore nasce da una mia intuizione. Una mia idea: ho voluto a tutti i costi la reunion di Paola & Chiara", dice a RTL 102.5 News. "Poi per caso, quest'estate, si sono convinte ed eccole a Sanremo": così Luca Vismara racconta la genesi della canzone di Paola & Chiara in una lunga intervista a RTL 102.5 News. "Ero in vacanza con due produttori molto forti, Merk & Kremont, ho pensato: perché non tornano Paola & Chiara?", mi sono chiesto. "Ho parlato con Chiara e non si sentiva molto pronta. Poi anche grazie ai social si sono convinte. Ci conosciamo da almeno 10 anni", continua Luca Vismara in radiovisione. "Le ho detto tante volte di tornare a fare musica".

Vismara voleva a tutti i costi rivedere sul palco Paola & Chiara. "Avevo suggerito a Mark & Kremont un loro ritorno con le sonorità anni Duemila", chiarisce Vismara. Lui, 31 anni, è un cantautore che lavora molto anche dietro le quinte. "Non ho firmato io Furore", racconta ancora. La prima volta che Vismara ha ascoltato il pezzo è stato in studio. "Mi sono emozionato quando ho ascoltato la versione definitiva di Furore. Avevo suggerito a Mark & Kremont di tornare alla musica dei loro esordi", dice Vismara. "L'ultima parola è stata di Amadeus, che ha avuto una grande intuizione musicale".

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Paola e Chiara: “Ora andiamo d’accordo, sempre con Furore”. Nicola Santini su L’Identità il 16 Febbraio 2023

Il loro nuovo brano è in testa alle classifiche di vendita e di streaming e i biglietti del loro tour primaverile stanno già andando a ruba.

Non sta passando sicuramente inosservato, il ritorno sulla scena musicale di Paola e Chiara Iezzi, in arte Paola & Chiara, che nel corso dell’appena conclusa edizione del Festival di Sanremo hanno proposto “Furore”, ennesimo tormentone prodotto dal duo Merk & Kremont. Orgogliose del riscontro finora ottenuto, le due cantautrici di origini milanesi, nate artisticamente come coriste degli 883, si raccontano a L’Identità.

Alla vigilia del vostro ritorno al Festival di Saremo siete state tra le più attese: che effetto vi ha fatto?

Paola: Del fatto che fossimo particolarmente attese, ce ne siamo rese conto grazie ai numerosi messaggi che abbiamo ricevuto in rete e attraverso tutte le notizie che avevamo avuto modo di leggere, specialmente sul web. Questa enorme ondata d’amore che ci ha travolte è partita principalmente dai social e così abbiamo deciso di lasciarci avvolgere.

Chiara: Devo ammettere, però, che in un primo momento non sapevamo cosa fare, anche se, dopo tutta quell’insistenza, nel corso dell’ultimo anno che si è dimostrato davvero speciale, abbiamo deciso di abbandonarci all’amore che abbiamo percepito intorno a noi.

Dieci anni fa, la scelta di dividervi artisticamente aveva mandato in tilt la vostra solida fan-base…

P. Anche per noi sono stati dieci anni difficili, anche se in fin dei conti questa distanza ci ha permesso di apprezzare molte cose e di capirne altrettante. Abbiamo avuto un po’ di tempo in più per capire meglio noi stesse, riuscendo ancora di più ad apprezzare il nostro dialogo con la famiglia ma anche con il nostro pubblico.

C: E’ come se questo ritorno fosse arrivato in modo del tutto naturale, con la complicità del ritorno in auge delle sonorità di anni novanta. Non a caso, quando Amadeus abbiamo avuto la possibilità di tentare un ritorno in gara al Festival, abbiamo scelto di farlo con una canzone che avesse delle nuove sonorità, coinvolgendo anche il nostro vecchio team di lavoro. Insomma, questo nostro ritorno è stato contraddistinto da una reinterpretazione di noi stesse in chiave moderna.

Inizialmente circolavano voci sul fatto che il vostro brano in gara al Festival lo avrebbe scritto Max Pezzali. Cosa vi ha spinto, invece a puntare su Merk & Kremont?

P. Questo rinomato duo di produttori ci corteggiavano artisticamente già da qualche anno, di conseguenza, quando si è profilata l’idea di tornare a Sanremo, abbiamo deciso di ascoltare attentamente questo brano, che ci ha spinto a puntare per la prima volta su una canzone non scritta dalle sottoscritte.

C. E’ stato stimolante misurarci con le nuove leve della produzione, che continuano a raccogliere enormi consensi all’interno del panorama musicale. E poi anche il titolo del brano, Furore, ci ha subito convinto. Furore è una parola matura che racchiude entusiasmo e eccitazione. Ovviamente, rispetto al primo ascolto, ci sono state alcune modifiche per far sì che il pezzo fosse nostro al 100%.

Dopo la vostra lunga assenza dalle scene, i riflettori di pubblico e addetti ai lavori sono puntati sul vostro futuro artistico: cosa vi aspetta?

P. Quello di Paola & Chiara, al momento, è un progetto aperto. La nostra partecipazione a Sanremo non è sicuramente un caso isolato. Tra i primi progetti confermati c’è un tour con Vivo Concerti con tre date che, in quanto a vendita di biglietti stanno andando molto bene visto che una è addirittura già sold-out. Dopodiché, faremo concerti anche per tutta l’estate. E poi possiamo permetterci di navigare a vista: ci piace l’idea di poter essere elastiche, dopotutto in questi anni abbiamo capito che è ancora più stimolante collaborare quando ci va.

C. Riprendendo il titolo di uno dei nostri primi brani (“Amici come prima”, ndr) noi siamo sempre amiche come prime, anzi, ultimamente anche di più. In questa pausa decennale abbiamo imparato a conoscerci meglio. Oggi, rispetto al passato, ci guardiamo con occhi diversi, siamo anche più indulgenti l’una verso l’altra. All’inizio impostavamo tutto in maniera più rigida, tendendo a vivere letteralmente in simbiosi. Oggi, invece, siamo più clementi…

Estratto dell'articolo di Pasquale Quaranta per lastampa.it il 10 febbraio 2023

Paola & Chiara sono un’icona lgbtq+? […]

Una congiunzione astrale negli anni del World Pride

Ma cosa rende un personaggio pubblico un’icona lgbtq+? «L’icona è a volte il prodotto di una sorta di congiunzione astrale – risponde Vincenzo Branà, giornalista ed ex presidente del Cassero di Bologna –. Il personaggio giusto con il messaggio giusto nel momento giusto. Nell’icona Paola & Chiara credo conti molto l’essere stato un fenomeno dance negli anni del World Pride in Italia, oltre ovviamente alla vicinanza alla causa o alla partecipazione ad eventi della comunità […]».

Produrre una trasformazione nell’immaginario

«Credo che ciò che definisce una icona lgbtq+ sia la capacità che ha di incarnare il cambiamento e produrre una trasformazione nell’immaginario attraverso una immagine dissacrante e dei messaggi in grado di rompere gli schemi», ci spiega Natascia Maesi, presidente di Arcigay. «In fondo non è mai importato a nessuno che Paola o Chiara fossero lesbiche o meno – aggiunge Maesi –. Il loro modo di performare ci faceva immaginare un mondo in cui le donne lesbiche potevano esistere. Hanno attraversato i nostri spazi in un momento storico in cui era difficile farlo, e questo le ha rese nostre alleate».

Donne lesbiche e uomini gay scelgono diversamente i propri idoli

Secondo Alessia Crocini, presidente dell’associazione Famiglie Arcobaleno, donne lesbiche e uomini gay sceglierebbero diversamente i propri idoli. Un argomento scivolosissimo. «Paola & Chiara sono prima di tutto icone gay piuttosto che lgbtq+ per vari motivi – racconta l’attivista –: un certo tipo di femminilità, i lustrini, canzoni leggere e dance, tutto quello che rientra nell’estetica camp. La loro intelligenza è stata quella di saper cavalcare questo amore. Le donne lesbiche per anni hanno seguito artiste non dichiarate ma che hanno percepito come lesbiche o bisessuali».

Ma adesso, continua Crocini, c’è un cambio di passo.

«Mentre prima la comunità andava dietro alle donne etero che i maschi gay assurgevano a icone, oggi ci sono cantanti di nuova generazione dichiarati e apertamente queer che non temono di presentarsi per ciò che sono. […]».

 Un processo impalpabile, quasi misterioso

Come si fa a diventare un’icona gay?

«In realtà lo si diventa quasi per caso – risponde Franco Grillini, presidente onorario di Arcigay – A volte senza neanche saperlo e qualche volta senza neanche volerlo. Si tratta di un processo impalpabile, quasi misterioso, che perlopiù – soprattutto se artisti – fa piacere. […]»

 Un modello femminile di indipendenza, libertà, successo

Ma torniamo a Paola & Chiara.

«Nel loro caso – continua Grillini – c’è un processo di identificazione con due ragazze che hanno avuto successo ed esprimono contenuti condivisibili. Il modello femminile di indipendenza, di libertà e anche di successo, non necessariamente economico, è molto condiviso da una nuova generazione che non sopporta più una separazione artificiosa tra donne e uomini, soprattutto lo strapotere maschile. […]».

La formula alchemica di un’icona queeer

«Capire qual è la formula alchemica che definisce un’icona queer è forse l’arcano più grande della nostra comunità – ci dice Paolo Armelli, giornalista e co-fondatore di Quid media – Ce ne sono moltissime e delle più disparate. Io credo che sia quel mix di esagerazione ed esasperazione, di luminosità e ombra, di metamorfoso continua e fedeltà a sé stesse. E anche di sfida, più o meno sottile o sotterranea, alle convenzioni, che siano sociali o culturali».

Cosa rende Paola & Chiara così speciali?

«Sono divenute famose da ragazzine, si sono trasformate all’improvviso in icone sexy e patinate, dive disco solitarie e incomprese nel panorama discografico italiano: ovvio che la comunità lgbtq+ le abbia subito abbracciate. Sono un po’ gli stessi motivi per cui io amo Kylie Minogue – continua Armelli –, star assoluta, sopravvissuta a decenni di continui mutamenti, eppure amata a corrente alternata, e nonostante ciò sempre desiderosa di dare il massimo ai suoi fan. Ecco, nelle icone queer c’è anche questo elemento di base: un sacrificio inesausto, contro ogni aspettativa, e sempre ricamato di paillettes».

Da vanityfair.it il 5 febbraio 2023.

Prima di Sanremo 2023, che le vede protagoniste assolute sul palco dell’Ariston con il brano pop dance Furore, Paola&Chiara si confessano con grande generosità nell'intervista sul nuovo numero di Vanity Fair, in uscita l’1 febbraio 2023.

Le sorelle Iezzi si raccontano prima da sole e poi insieme, rivelando dettagli inediti del loro passato: perché nel 2013 avevano preso strade diverse, i matrimoni, i divorzi, i legami che hanno resistito al tempo. Il desiderio di maternità e la passione per l’arte, le paure e le fobie che le hanno assillate per anni, la gioia del tornare insieme, perché «il legame di sangue è fortissimo», e la saggezza accumulata mentre si avvicinano ai 50 anni.

 E poi la voglia di tornare a fare progetti insieme, con una folle fanbase che le ha aspettate per dieci anni: «Eravamo le eroine dei nostri fan, ora siamo le loro survivor».

 A Sanremo 2023 Paola&Chiara canteranno Furore, che, spiegano «è una parola energetica, colorata, che ha a che fare con la pazzia, qualcosa di fiero, forte, infuocato, anche liberatorio, dopo tutto quello che abbiamo vissuto».

Da aprile Paola&Chiara saranno protagoniste del Paola & Chiara Per Sempre, tre eventi speciali a Roma e a Milano prodotti da Vivo Concerti con cui il duo è pronto a conquistare due dei club più famosi d’Italia: l’Atlantico di Roma il 27 aprile e il Fabrique di Milano il 13 maggio (sold out) e il 14 maggio.

 Paola

Che cosa l’ha aiutata a crescere?

«La terapia. Ne ho fatta tantissima negli ultimi dieci anni, mi è servita molto, e la consiglio a tutti, perché ti chiarisce molte cose, ti aiuta a superare dei momenti difficili».

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 Avete mai pensato di avere dei figli?

«No. Siamo una coppia di artisti, e gli artisti fanno fatica con i figli. L’arte necessita di una devozione spesso totalizzante. Lo avrei fatto se avessi smesso di fare questo mestiere, che però è stato più forte di qualunque altra cosa».

 Chiara

Lo scorso giugno, su Instagram, ha scritto di essere vittima di «violenze». Che cos’era successo?

«Non è semplice da raccontare: da dopo la pandemia ho iniziato a ricevere sui social dei messaggi privati aggressivi, da persone che non conoscevo. Da bambina sono sempre stata vittima di bullismo per cui non era la prima volta per me… Erano dei messaggi molto violenti, macabri, arrivavano di continuo. Mi sono talmente spaventata, mi sono chiusa in casa e avevo paura di uscire. Sono finita al Pronto Soccorso e ho chiesto aiuto».

Aveva attacchi di panico?

«Sì, peggiorati. Li ho sempre avuti, e l’ansia la conosco bene. Io sono una fobica, lo sono sempre stata e non ne faccio mistero».

 Un episodio di bullismo?

«No, violenza vera. Era ora di pranzo e volevo andare a comprare delle caramelle, ma c’era poca gente in giro perché erano tutti a mangiare. Mi sono fermata al bar, ero alla cassa, e un ragazzino sui sedici anni mi si è avvicinato, perché voleva passarmi davanti, e mi ha strattonata. Io ho un po’ risposto, dicendogli di farmi finire, ma non ho fatto in tempo che mi ha preso per il braccio e trascinata in un angolo del campeggio lontano da dove stavamo noi. Mi ha picchiata e poi ha tentato di tirarmi giù gli shorts. Solo che si è fermato perché ha sentito delle voci di qualcuno che lavava i piatti e se ne è andato. Io sono rimasta sotto shock per dieci minuti non sapendo dove fossi e chi fossi, e poi ho ritrovato la strada per tornare dai miei».

Paola Gassman e Ugo Pagliai, insieme da 54 anni: «La nostra relazione iniziò tra un teatro e l’altro». Storia di Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 17 gennaio 2022.

Lui l’aveva notata per una gonna a scacchi e una camicetta primaverile. Lei non si era neanche accorta di lui: così nasce una storia d’amore che dura da 54 anni. Paola Gassman e Ugo Pagliai, una coppia collaudata nella sfera privata e in quella professionale.

Pagliai: «Abbiamo iniziato a stare insieme per un caffè, poi ci siamo frequentati per una settimana, poi per un anno, poi trent’anni e poi... Credo di aver battuto tutti i record». Gassman: «Anche io ho battuto tutti i record».

Come vi siete conosciuti? Pagliai: «Le avevo messo gli occhi addosso quando ero all’Accademia Silvio d’Amico. Era venuta a vedere uno spettacolo e ricordo esattamente com’era vestita: bellissima allora, così come lo è ancora oggi, con qualche anno in più. Dissi tra me e me: che bellezza questa ragazza! Anche io ero carino, all’epoca, e avevo delle corteggiatrici». Gassman: «Ero andata ad assistere al saggio dell’attore Luciano Virgilio, che sarebbe diventato poi il mio primo marito. Ugo era seduto in sala e, al termine della rappresentazione, non ci siamo nemmeno presentati. Ci rincontrammo dopo tre anni e io, nel frattempo, mi sono sposata e anche divisa da Luciano». Pagliai: «Il nuovo incontro avvenne una sera. Avevo assistito a una finale di calcio europea con gli amici con cui decidemmo di festeggiare a piazza Navona. Mentre assaporavo un ottimo gelato al tartufo, Paola, non so con che coraggio, mi si para davanti e mi strappa metà del gelato dalla mano». Gassman: «Sono stata piuttosto intraprendente, non so se attratta più dal tartufo o dai suoi occhi azzurri».

E da quello strappo nasce la storia? Gassman: «Assolutamente no! Alla fine dell’estate, iniziano le prove di Un debito pagato di Osborne. Ne erano protagonisti Ugo e Mariangela Melato, io ero in un ruolo secondario, alla mia prima scrittura». Pagliai: «Durante la tournée, prende il via la nostra relazione, in maniera molto cameratesca». Gassman: «Quando arrivammo al Teatro della Cometa a Roma, venne ad assistere allo spettacolo mio padre Vittorio. Quella sera si avvertiva il gelo in sala: non solo per il testo, che lasciava perplesso il pubblico, ma per la presenza di papà, che metteva soggezione». Pagliai: «Era un gigante, monopolizzava la platea».

Come è andata a finire? Gassman: «Andammo a cena tutti insieme e papà ci fece i complimenti... soprattutto a Ugo». Pagliai: «Vittorio aveva intuito che, tra me e sua figlia, c’era del tenero e, forse, mi fece capire che non ne era dispiaciuto».

Recitare davanti a un grande attore non le incuteva timore? Pagliai: «Non mi sono mai confrontato con il “monumento Gassman”, sono entrato nella normalità della loro famiglia. Molti anni dopo, durante una cena silenziosa, tra me e lui, non dico che mi abbia provocato timore, ma fu imbarazzante. Eravamo a Milano per rispettivi impegni e decidemmo di mangiare insieme: non disse una parola».

Era accaduto qualcosa fra voi? «No, ma Vittorio era fatto così: capace di una vitalità travolgente, di una sfrenata allegria e poi, all’improvviso, si chiudeva in sé stesso, come se si mettesse addosso un mantello nero per non vivere».

Poi scrisse per lei un testo... Pagliai: « Bugie sincere, che firmò come drammaturgo e regista».

Una sorta di passaggio del testimone? Pagliai: «Quando mi propose il progetto, ne ero onorato, ma gli dissi: Vittorio, non posso avere il fascino che hai tu nell’interpretare Edmund Kean. Lui volle darmi fiducia e, in qualche modo, è stato un simbolico passaggio del testimone». Gassman: «Papà era consapevole dei problemi che avevo, quando iniziò la mia convivenza con Ugo. All’epoca non esisteva il divorzio, io ero già madre di Simona, nata dall’unione con Luciano e, quando nacque nostro figlio Tommaso, ci furono problemi anche per il suo riconoscimento da parte di Ugo, poi risolti».

Cinquantaquattro anni insieme e non vi siete mai sposati. Perché? Gassman: «Ero scioccata dal primo matrimonio, durato solo sei mesi, e restia a celebrarne un altro. Ugo più restio di me. Ci siamo detti più volte: poi lo facciamo... Ormai è una questione scaramantica: perché dobbiamo cambiare lo stato delle cose, dato che finora è andata così bene?». Pagliai: «Vittorio ogni tanto mi diceva: sposala... perché non la sposi?».

E pensare che proprio lui, tra matrimoni e convivenze, batteva tutti i record. Pagliai: «Infatti... Quando era in attesa del suo quarto figlio Jacopo, mi venne spontaneo di commentare con Paola, esclamando: va bene che tu aspetti un fratello, ma è il colmo che io aspetti un cognato!».

Qual è il segreto per convivere in casa e sulla scena per oltre mezzo secolo? Gassman: «Non abbiamo la bacchetta magica per andare d’accordo, occorre adattarsi alla quotidianità, la nemica numero uno della coppia». Pagliai: «Paola non è solo una compagna, è sorella, figlia, madre. Tra noi, tanti diversi rapporti, mai la routine».

Mai un litigio? Gassman: «Ci sopportiamo a vicenda e comunque Ugo litiga mal volentieri...». Pagliai: «Paola mi dice che sono il suo punching ball...».

Mai un tradimento? Gassman: «Ci sono state figure femminili intorno a lui. Gelosa? Posso esserlo stata». Pagliai: «Bè, non ti ricordi quella sera che, a una cena, c’era una tipa che mi faceva gli occhi dolci? Hai preso un grappolo d’uva e...». Gassman: «Certo che me lo ricordo. Faceva la scemetta. Ho acchiappato quel grappolo e l’ho buttato con forza nella bacinella d’acqua che stava davanti a lei, schizzandole il viso e la scemetta è rinsavita». Pagliai: «Anche io qualche punta di gelosia l’ho nutrita. Paola è stata più volte corteggiata platealmente. Però non tiravo acqua addosso ai rivali... sono troppo orgoglioso».

Un grande amore, che avete di recente recitato, interpretando «Romeo e Giulietta». Gassman: «Non abbiamo certo l’età per impersonare due adolescenti».

Da dove sono spuntati questi tardivi Romeo e Giulietta? Gassman: «Il regista Enrico Castellani, ci raccontò che stava lavorando all’idea scespiriana dove i protagonisti non erano due giovani, bensì due personaggi con qualche capello bianco. Un’idea originale e gli chiedemmo a quali interpreti stava pensando». Pagliai: «Ci rispose: sto pensando a voi. Noi? Restammo di stucco. Però la proposta ci divertiva».

Non potevate resistere a rappresentare la più bella storia d’amore... Gassman: «Non abbiamo avuto pudori». Pagliai: «Siamo stati Romeo e Giulietta credendoci».

Un’ultima domanda. Voi abitate a Roma, in un palazzo dove c’è la sede di Fratelli d’Italia. Difficile convivere con l’ufficio della Meloni? Rispondono, ridendo: «All’inizio, un grande caos, ma oltre al portone principale abbiamo altre vie d’uscita».

Paola Perego: «Ho subito molte molestie, ma mi sono sempre difesa. A un dirigente importante diedi una ginocchiata». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 28 ottobre 2023.

La conduttrice, in gara a Ballando, si racconta: «L'esordio fu ad Antenna 3 Lombardia con Ric e Gian, ero lì come valletta muta. Ma all’improvviso Ric mi disse: parla tu. E anziché leggere “l’eruzione di vapore”, mi scappò “l’erezione”. La mia prima gaffe»

A casa di Paola Perego non ci si abbracciava tanto. «Papà faceva il falegname, mamma era casalinga. Non erano persone abituate a manifestare i sentimenti attraverso gesti fisici». Sembra un dettaglio, ma è di quelli capaci di spiegare molte cose.

Festeggia 40 anni di carriera: la critica che più l’accompagnata è di essere un po’ fredda.

«All’inizio ero veramente un blocco di ghiaccio. Per anni mi hanno detto che ero algida, distaccata, che in tv facevo bene il mio compitino. In realtà ero sotto psicofarmaci. E, all’epoca, non è che potessi dire: scusate, siccome ho preso il Tavor non riesco a manifestare le mie emozioni».

Ha dichiarato di aver sofferto di attacchi di panico da quando era adolescente e ora di esserne, finalmente, uscita.

«È stato come tornare a respirare, una liberazione. Ci sono arrivata grazie a tanti anni di cure farmacologiche e psicoterapia. Ma, di certo, se fossi una persona fredda non ne avrei sofferto. Dentro avevo un mondo di emozioni che non ero in grado di tirare fuori. Gli attacchi di panico all’epoca erano semplicemente “l’esaurimento nervoso”. Andavi dai medici e ti dicevano che non avevi niente, abbattendoti ancora di più: la mia autostima era annientata».

Anni?

«Ne avevo 16. Finivo al pronto soccorso convinta che stessi morendo perché non respiravo. I farmaci mi hanno consentito di avere una vita, ma era ovattata: ricordo le situazioni del mio passato ma non le emozioni che provavo. Senza contare tutte le giustificazioni che mi sono dovuta inventare nel tempo. Per esempio, ho avuto un attacco di panico in macchina, una volta, e non ho più guidato per quattro anni. Ma non potevo dirlo, così mi inventavo motivazioni fantasiose. Ero la regina delle scuse».

Nel mentre, iniziava anche la sua carriera da modella.

«Solo perché avevo bisogno di lavorare. Da bambina non c’erano giochi, facevo le formine con la segatura avanzata da papà. Una volta fece delle racchette da tennis a me e mia sorella... ma pesavano troppo. Crescendo, ho iniziato a studiare e lavorare: facevo la barista, poi la babysitter finché mi proposero di fare la modella. Per me era assurdo».

Non lo dica: si vedeva brutta.

«Ah sì, assolutamente. In casa quella bella era mia sorella, di due anni più grande di me. Inoltre, io non ho mai avuto la velleità di fare spettacolo, anche perché non pensavo che avrei mai potuto farlo. Non mi passava per la testa».

Non era di quelle bambine che guardavano la tv sognando di entrarci?

«No, no. Il mio pensiero era trovare il posto fisso, avere uno stipendio, aiutare a casa. Mai nella vita avrei pensato di fare questo lavoro ed è andata anche un po’ a fortuna, ammetto. L’esordio fu ad Antenna 3 Lombardia con Ric e Gian, in diretta. Io ero lì come valletta muta. Ma all’improvviso Ric mi disse durante una telepromozione di un ferro da stiro: parla tu. E anziché leggere “l’eruzione di vapore”, mi scappò “l’erezione”. La mia prima gaffe».

Ha portato bene, si direbbe.

«La verità è che non so come ci sono arrivata a 40 anni di carriera. Ovviamente mi sono preparata, mi sono applicata, ho passato ore a guardare quelli bravi per imparare, rubare il mestiere. Però, onestamente, non avendo avuto mai il sacro fuoco dell’arte, trovarmi ancora qui è un miracolo».

A chi deve dire grazie?

«Il primo a credere in me è stato Marco Columbro. Mi chiamarono per fare la sigla di un suo programma, Autostop e alla fine di quella giornata mi chiese di condurre con lui. Aveva una pazienza infinita, leggeva tutti i miei copioni, mi faceva sentire come pronunciare le cose. È stato il mio primo grande maestro e gli sarò grata per tutta la vita. Forse non ha avuto la carriera che meritava, perché Marco è veramente un professionista straordinario. È un mondo che può essere cinico».

Lei ha avuto la carriera che si meritava?

«Per quello che ho saputo dare ho ricevuto il giusto. Vero è che, con la consapevolezza di oggi, forse avrei potuto dare di più, ma ho fatto quello che potevo. Sono stata la prima a fare l’infotainment da non giornalista, prima donna a condurre un quiz, ho condotto progetti innovativi. Oggi, senza più l’ansia di piacere a tutti, sono finalmente convinta di essere molto brava a presentare. È la cosa che so fare meglio rispetto a tutte quelle che ho provato».

Tipo?

«La schiuma del cappuccino: quando lavoravo come barista non sono mai riuscita a farla. Seriamente, oggi mi ritengo molto brava soprattutto nelle interviste, perché mi appassiono alla vita degli altri».

Sa che una, in particolare, è fissa nell’immaginario collettivo, vero?

«Andreotti — sorride —. Che spavento, io ero convinta che fosse morto. Non avevo mai visto un morto in vita mia. In più, visto il mio imprinting, non lo toccavo, non riuscivo. Gli dicevo solo: “presidente, presidente”, terrorizzata. Poi guardavo gli autori ed erano tutti nel panico, così ho lanciato la pubblicità. Lui dietro le quinte si è ripreso, ha chiamato il suo medico: era stato un ictus transitorio, una paralisi di cui non si era accorto. Decidemmo di farlo rientrare in studio per far vedere, appunto, che stava bene, solo che lui decise di sedersi sul mio sgabello, pronto per il blocco successivo. Ma io sono alta un metro e 76 senza tacchi, quindi lui aveva dovuto arrampicarsi: io lo tenevo da dietro per paura che cadesse, non arrivava a terra con i piedi. Quindi il retroscena è che ho avuto altri cinque minuti di panico. Il giorno dopo c’era un articolo anche su Le Monde».

Un programma che l’ha sorpresa?

«La Talpa. Abbiamo fatto il 60% di share su Italia 1, un record assoluto. La gente mi chiede in continuazione di rifarlo, ma non dipende da me. Però credo sarebbe bello. Certo, vederlo presentato da un’altra persona sarebbe uno shock, ma capisco che potrebbe succedere, specie se non andasse sulla Rai».

Dove lei ora conduce «Citofonare Rai2» ed è impegnata come ballerina a «Ballando con le stelle».

«Ballando è un regalo che mi faccio, per celebrare quel “qui e ora” che mi sono anche tatuata sul braccio. Oggi vivo nel presente. E mi posso permettere di giocare con questa trasmissione: ci metto tutto il mio impegno, ma non devo dimostrare di essere una ballerina. So di essere un pezzo di legno... Posso solo migliorare».

Suo marito Lucio Presta, grande agente televisivo, un tempo era ballerino, non le può dare qualche ripetizione?

«Niente, non c’è possibilità. Quando ha smesso di ballare ha appeso le scarpe al chiodo: non ha voluto farlo nemmeno al nostro matrimonio».

Un matrimonio ingombrante per chi fa un lavoro come il suo, no?

«Ormai sono passati 26 anni, ma all’inizio questa cosa faceva male. Dopo tutta la gavetta che avevo fatto, sentirmi dire: lavori perché c’è lui, ferisce. Oltretutto non ha mai fatto nulla per favorirmi, quindi fa doppiamente rabbia».

Avrebbe mai scommesso che dopo 26 anni sareste stati ancora assieme?

«No, ma io sostanzialmente non ho mai creduto tanto al per tutta la vita. Avevo fallito il mio primo matrimonio, a vent’anni, quando ci credevo . E quindi no, non avrei mai pensato che fosse per tutta la vita... ma poi eravamo così diversi all’inizio. Nel tempo è accaduto un meccanismo veramente strano: ci siamo rinnovati, siamo cresciuti assieme. Poi non è sempre facile, si litiga, ci sono le crisi, è normale. Ma oggi abbiamo raggiunto veramente un bell’equilibrio, che mi rende felice. E se gli altri parlano, ormai me ne frego».

Come è stato diventare mamma quando ancora soffriva di attacchi di panico?

«È stata dura. Intanto, è stata difficile la gravidanza senza farmaci, specie la prima perché ero ancora nel pieno. E ho avuto un attacco durante il parto che mi ha terrorizzata. Ma poi ti scatta il senso di protezione e in qualche maniera te la cavi. Con i miei figli ho imparato il contatto fisico, che non conoscevo. Mi sono separata che erano piccolissimi e anche se è stato un periodo tosto, oggi mi dico brava: i miei ragazzi sono due persone davvero per bene».

Ha raccontato di aver subito delle molestie, in questi 40 anni di lavoro.

«Al mio primo ingaggio da modella, a 16 anni, accompagnata da mia mamma, entro per provare i vestiti e il responsabile mi dice: andiamo a letto? È stata la prima di una serie piuttosto lunga di molestie da cui ho imparato a difendermi in fretta. Anni dopo un dirigente televisivo importante mi ha attaccata al muro: gli ho dato una ginocchiata e sbattuto la porta in faccia. Ho anche perso dei contratti per questo, ma ne vado fiera».

Mai pensato di denunciare?

«A volte mi frulla l’idea di fare un libro con nomi e cognomi. Se si fosse concretizzato qualcosa di ancora più grave avrei denunciato: alla fine me la sono sempre cavata al massimo con uno spintone o una ginocchiata. Per cui non l’ho fatto».

Sogni per il futuro?

«Vorrei tornare a occuparmi di violenza contro le donne con un programma. È un argomento che sento molto vicino. Per il resto mi immagino autrice. Ho scritto Citofonare e la cosa mi diverte tantissimo, tanto che lo vedo come il mio futuro».

Vuole vincere «Ballando»?

«No, no, non mi interessa vincere, non sono per niente competitiva. Anche se gioco a burraco con mio marito a me interessa fare una bella partita. Lui se perde non gioca più con me per due mesi».

Non è che è lui quello rigido della coppia?

«Sii, rigidissimo, abitudinario, fa sempre le stesse cose, negli stessi posti, con le stesse persone. Io invece no. Sono l’esatto opposto». Ancora una volta.

Estratto dell'articolo di Gloria Satta per “il Messaggero” l’11 aprile 2023.

 (...)

 A luglio approderà ai Giardini della Filarmonica con il monologo "Ho amato tutto" in cui è diretta da sua figlia Evita Ciri. Tra voi volano scintille?

«Ora va liscia anche se all'inizio c'è stata un po' di tensione. Pure il produttore era preoccupato, ma alla fine non è corso il sangue. Evita ha un carattere tosto».

 L'ha preso da lei?

«No, io sono mite e duttile, mi piace farmi governare».

 Ma come, non viene definita immancabilmente ribelle?

«Si tratta di un cliché che mi è stato appioppato ai tempi dei Promessi sposi perché, pur interpretando Lucia, non mi facevo fotografare in chiesa con il rosario in mano. Il regista Sandro Bolchi e i capi Rai non volevano una piagnona sottomessa ma una ragazza dignitosa, lavoratrice, incapace di sottostare ai capricci del padrone. Moderna».

 Ha finito per odiare quel personaggio che tutti associano a lei?

«Scherziamo? Ho un bellissimo ricordo di Lucia e tra l'altro Bolchi era un regista che amava gli attori, non tutti sono così. I Promessi sposi mi ha dato semmai una popolarità enorme a cui non ero preparata».

Al punto che mandò in crisi il suo rapporto con Mambor?

«Quando feci Lucia stavamo insieme da 10 anni e lui era abituato a considerarmi una ragazza da proteggere. Il mio successo lo destabilizzò e se ne andò in America».

 È vero che, dopo averlo sorpreso a letto con un'altra, lei gettò dalla finestra il materasso?

«Sì, ero tornata all'improvviso... Ho imparato che non bisogna mai fare sorprese (ride, ndr)».

 Come ricorda la Roma dei '60?

«Sono stati anni esaltanti, squattrinati, liberi. Mentre facevo il mio percorso di attrice frequentavo con Mambor personaggi come Kounellis, Pascali, Tacchi, Boetti, Schifano, Angeli. Tutti artisti assoluti, rigorosi».

 Quale considera il suo successo più grande?

«La vittoria allo Zecchino d'oro 1962 di La giacca rotta, una canzone che avevo scritto tenendo in braccio il mio fratellino Marco».

 Un treno che ha perso?

«Mollai il set di Jean-Luc Godard che voleva solo farmi stare nuda dentro un armadio. Ogni volta che sono stata considerata perché ero una bella ragazza ho provato disagio. Ma non mi pento di quel rifiuto».

 E di aver posato per "Playboy" si è pentita?

 «Macché. Avevo 40 anni, un'età in cui all'epoca le attrici finivano al museo delle cere. Quel servizio fu una mossa promozionale per dire che ero ancora viva. In più non avevo un soldo e c'era l'affitto da pagare».

 Ha dei rimpianti?

«Non aver approfondito lo studio della musica. Ho dedicato troppo tempo alla mia vita sentimentale non sempre gioiosa. Sono stata a lungo dipendente dall'approvazione di un uomo. Una grande cazzata».

 E ora?

«Da anni sono single. Mi è costato 7 anni di analisi, ma ne valeva la pena. Sto vivendo la stagione più serena della mia vita».

Paola Pitagora: «Io, sempre ribelle in scena. Non mi piaceva la mite Lucia». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2023.

L’attrice è protagonista dello spettacolo «Ho amato tutto», dedicato alla nobildonna anticonformista Paola Menesini Brunelli, con la regia di Evita Ciri,

«Prenditi un diploma e trovati un lavoro!», si raccomandava il padre ragioniere. Ma Paola Gargaloni, diventata famosa come Paola Pitagora, appena sedicenne comincia a frequentare un workshop per attori, danzatori, mimi. Una ribelle? «Sì, ed è stata la mia fortuna», risponde decisa l’attrice che, proprio in questo periodo, sta portando in scena la storia di un’altra donna ribelle: Paola Menesini Brunelli, una nobile anticonformista che, agli agi e ai privilegi, ha preferito l’amore e la libertà. Lo spettacolo, «Ho amato tutto», ha debuttato nei mesi scorsi a Roma, poi in tournée estiva da San Quirico D’Orcia al Salento. «Proprio nel Salento nacque per caso l’amicizia con Paola Menesini, scomparsa due anni fa - racconta Pitagora - Una donna, nata negli anni ‘30, che mi ha subito affascinato perché, pur appartenendo all’aristocrazia, se ne frega di tutto, si innamora di un giovane e lo sposa. Dal nobile castello dove abitava, va a vivere in un appartamento di 30 mq e scorrazza col marito in lambretta. Pur essendo laureata in chimica farmaceutica, preferisce dedicarsi alla famiglia e mette al mondo cinque figli. Sì, davvero una ribelle».

E lei, ora, si confronta in palcoscenico con sua figlia Evita Ciri, che firma il testo e la regia dello spettacolo: una convivenza pacifica?

Ride: «Evita è esigente e molto severa. Durante le prove, quando mi interrompeva categorica dicendo fai così, fai colà, non gliele ho mandate a dire, ma alla fine... lei è la regista, io l’attrice».

Un’attrice che nasce nei primi anni ‘60, frequentando gli artisti della scuola romana di Piazza del Popolo...

«Insieme a Schifano, Kounellis, Fioroni... passavamo il tempo seduti sugli scalini della Chiesa degli Artisti, davanti al bar Rosati, dove non potevamo permetterci nemmeno di consumare un caffè, troppo caro per le nostre tasche».

E lei si innamorò di Renato Mambor, pittore e attore che faceva parte del gruppo.

«Un grande amore. Fu lui che mi fece cambiare il cognome. In realtà sin da ragazzina, alle elementari, venivo presa in giro. Quando la maestra faceva l’appello e pronunciava Gargaloni, i compagni esclamavano: Gargarozzo!».

Perché Pitagora?

«All’inizio Renato mi aveva ribattezzato Pitagorica, perché diceva: sei senza tette, piatta come la tavola pitagorica. Poi, mentre facevo un provino per il produttore Cristaldi nel suo studio a piazza Pitagora, decisi di accorciare».

Dalla pop art ai «Promessi sposi» in tv...

«Feci il provino per il personaggio di Lucia Mondella, mentre ero in Ciao Ruy al Sistina, vicino al mitico Mastroianni e alla mitica Paola Borboni. Non ero convinta di impersonare la Mondella, mi sentivo un’anticonformista, non adatta a quel ruolo. Una sera chiedo consiglio a Paola che mi ordina: bacia la Madonna, hai una palla di fuoco tra le mani, giocatela bene».

E Marcello?

«Era riservato, niente a che vedere con il latin lover. Quando una sera venne a vedere il musical Sophia Loren, era talmente nervoso per quella presenza importante, che durante un monologo ruppe col pugno uno specchio».

Lei, un’anticonformista, che si addormenta al concerto di Bob Dylan nell’Isola di Wight. Com’è stato possibile?

«Eravamo un gruppo di italiani, riusciti a entrare senza pagare il biglietto e piazzati in prima fila. Vicino a me, Jane Fonda e Yoko Ono, ma giravano ovunque le canne! Faccio un tiro e mi addormento: mi sono svegliata agli applausi»

Una proposta che si pente di aver rifiutato?

«Godard mi voleva in un suo film: dovevo recitare nuda in un armadio. Sono scappata, ma non me ne pento.

Estratto dell'articolo di Teresa Ciabatti per corriere.it/sette/ venerdì 7 luglio 2023.

«Sul bisogno di cambiare che c’è in me» dice un verso di Stato di calma apparente , successo del 1993. «In quel testo c’era già quello che sarebbe avvenuto dopo» afferma Paola Turci. E si riferisce all’incidente che le ha distrutto parte del viso («connotati cambiati, quattordici interventi di ricostruzione»), e ai rovesci - felici e infelici - della sua vita. Prima cantautrice a sovvertire quelli che in Italia erano i canoni della donna che canta su un palco, amatissima da critica e pubblico (11 Sanremo - 3 come ospite), Paola Turci è stata capace di tradurre in parole e musica un femminile potente, consapevole, anomalo, libero. 

(...)

La bellezza è stata un ingombro?

«Non mi sono mai sentita bella, né lo era considerata. Mi nascondevo, mi vestivo molto, strati su strati».

Corteggiatori?

«Piacevo solo d’estate. Abbronzata, con gli occhi che diventavano verdi».

Riferendosi al tempo prima dell’incidente lei dice di aver vissuto con “un senso di onnipotenza incredibile”.

«Il pensiero che a me, proprio a me, non poteva succedere niente».

Già da adolescente?

«Per esempio d’estate: ogni sera prendevo la Vespa e andavo nel locale dall’altra parte del promontorio. Arrivavo all’apertura, ballavo fino alle cinque del mattino. E via, di nuovo a casa. Sa quante volte ho rischiato su quella strada?».

Incosciente?

«Correvo, nuotavo, odiavo stendermi al sole. Non riuscivo a stare ferma. Ero scalmanata, e, sì, incosciente».

(...)

Agosto 1993.

«Sicilia, tour. Sono nervosa perché la sera prima lo spettacolo non è andato come avrei voluto, in più si rompe la macchina del tour. Una mia amica siciliana mi presta la sua macchina. Intanto sento l’inquietudine montare. Sul traghetto ricordo di aver chiamato tutta la mia rubrica».

Per dire?

«Niente».

E?

«Quando chiamo mia madre dico solo “mamma”, basta “mamma” perché lei capisca che qualcosa non va. Si raccomanda di dormire, anche oggi mi ripete che devo dormire, ha paura che non dorma abbastanza». 

La notte del 15 agosto.

«Ho un vestito corto nero, e i capelli liscissimi, appena fatti. Guido la macchina della mia amica. Aspetto la telefonata di mio padre: guardo e riguardo il telefono, finché non mi accorgo che è spento. Da lì smetto di guardare la strada».

A quel punto?

«La macchina sbanda, io riesco a riportarla in strada, sbatte contro il guardrail, si cappotta due volte. In quegli istanti penso: “sono atletica, basta che accompagno le botte”». 

Il dopo?

«Appena la macchina si ferma sento i capelli tranciati di netto. La prima cosa di cui mi accorgo. I miei capelli lunghi non ci sono più».

Altro?

«Le voci della gente. Qualcuno dice: “Paola Turci, è Paola Turci”. Io non riesco a aprire gli occhi. In ospedale sento gli infermieri avvisare i medici: “c’è una ragazza nera”. Mi avevano scambiato per una ragazza nera, credo perché non si vedeva niente. Il viso era aperto, c’era tanto sangue». 

Lei cosa dice?

«Toglietemi questo vestito, sono piena di vetri dentro».

Risveglio dall’anestesia?

«Chiedo di non avvisare i miei per non farli preoccupare. In seguito saprò che mia madre quella notte ha sognato di riprendermi per un capello dalla lavatrice. Sogna che io sono dentro la lavatrice, e lei riesce a tirarmi fuori». 

Il tempo successivo all’incidente?

«A distanza di un mese riprendo il tour. Dico di stare benissimo, trovo mille giustificazioni ai capelli davanti agli occhi: il vento. “C’è il vento” ripeto. Mi copro in ogni modo, occhiali da sole, trucco. Al ristorante mi metto di profilo, con il lato del viso distrutto dalla parte del muro. Anni a nascondermi, fingendo di stare bene. Fingendo di non avere paura».

Quanta paura invece?

«Di essere vista, giudicata, di non essere all’altezza. Addirittura per strada, se qualcuno, riconoscendomi, mi fissava troppo, io m’innervosivo. Pensavo: sta guardando la cicatrice».

La cicatrice?

«La sentivo: qualcosa di appiccicoso che stringeva. Una maschera sulla faccia che non potevo togliere. Alzare una mano e gettare via».

La prima volta che si è riguardata allo specchio?

«Avevo fatto levare gli specchi da casa. Più avanti, con uno specchio piccolo ho iniziato a guardarmi, non tutta insieme. Dal collo in su, salivo: la bocca, il naso, un pezzo al giorno». 

Quanti giorni per vedere il viso intero?

«Non pochi».

A ottobre dello stesso anno fa il video di una canzone ( Io e Maria ), dove si mostra senza timore.

«Non proprio senza timore: capelli davanti alla faccia, occhialoni scuri, trucco pesantissimo. Ripresa di profilo, dalla parte intatta».

Con un’esistenza stravolta, in quel periodo lei deve cantare canzoni scritte in precedenza. Quanta distanza da quei testi?

«Non dalle canzoni che parlavano della voglia di cambiare. Lì continuavo a trovarmi, anzi: sembrava che quei testi raccontassero in anticipo quel che mi sarebbe successo, una specie di preveggenza. Piuttosto sentivo tantissima distanza dalle canzoni allegre. Le cantavo, e mi pentivo».

Esempio?

«Ce ne era una veramente scema, Pedalò : “Ciao bagnino su quel pedalò, come vedi nuotare non so».

Quanti anni per dire la verità?

«Ventiquattro. Ventiquattro anni per sconfessarmi. Per rivelare che non era vero niente: no, non stavo bene, non ero felice. Ho trascorso ventiquattro anni a nascondermi. Come i bulimici che mangiano e giurano di non aver mangiato niente».

Allora scrive Fatti bella per te . È il 2017.

«La mia liberazione. “Qualcosa dentro ti si è rotto e sei più bella”. Ci vuole tempo per capire che la bellezza è lì, nel punto di rottura». 

(...)

Paola Turci icona che si rivolge a un vasto pubblico, incluso quello Lgbt+.

«La prima volta che ho visto due ragazze baciarsi è stato a un mio concerto. Da bambina non sapevo nemmeno cosa significasse omosessuale, non era un argomento affrontato nella mia famiglia borghese Anni 70».

Nonostante ciò.

«Notavo la differenza di trattamento tra maschi e femmine. Una differenza che ho combattuto nella musica e nella vita».

La differenza nell’infanzia?

«Da piccole io e mia sorella cucinavamo e ci rifacevamo i letti. Mio fratello no, ha imparato molto dopo».

Come conosce Paola Turci l’ambiente Lgbt+?

«Da ragazza, grazie a un amico di Milano. Con lui ho la possibilità di vedere più mondo rispetto a quello visto fin lì. Incontrare persone nuove. Accorgermi delle ingiustizie, desiderare la parità». 

In quel periodo chi è Paola Turci?

«Mai definita attraverso la sessualità. Ho avuto molti uomini, eppure nessuno mi ha mai detto con accezione negativa: sei etero».

Al contrario?

«Mi dicevano che sembravo lesbica per via dei muscoli e della voce bassa».

E?

«In quel momento stavo con uomini: fidanzata, sposata».

Perciò?

«La gente continua a dire lesbica come un’offesa». 

Cos’è invece?

«Un aggettivo».

Sua moglie.

«Non m’incuriosiva, poi un giorno leggo una sua intervista su Il Fatto Quotidiano , di Francesca Fagnani, e rimango colpita. Quello che dice sui diritti, sulle ingiustizie. Al che la cerco su Instagram dove lei era arrivata da poco per cercare me».

Per cercare lei?

«Così mi ha detto. Mi seguiva come cantante».

Che musica ascolta Francesca Pascale?

«De André, Fossati, e Pelù».

Pelù?

«Le piaceva fisicamente».

Tornando a Instagram.

«Io metto un like a una sua immagine in sostegno di Radio Radicale. Dal like iniziamo a scriverci».

Primo incontro?

«A un mio concerto. Ero emozionata a sapere che nel pubblico ci fosse lei». 

Qualcosa che rappresenta voi due insieme?

«Il camper. Ci piace viaggiare in camper. Siamo andate a Amsterdam, e a Parigi».

Il giorno in cui l’avete comprato?

«Francesca individua il modello su internet, lei in questo è brava, ricerca. Quindi andiamo dal rivenditore. Ricordo la strada per tornare a casa: lei davanti col camper, io dietro in macchina».

Il vostro camper, descrizione?

«Non grandissimo: un living con due panche e un tavolo. Chiuso il tavolo, dal soffitto viene giù il letto».

I viaggi?

«Guida Francesca. Ogni tanto ci fermiamo in autogrill, ma non scendiamo. Rimaniamo dentro, andiamo in bagno».

Poi?

«Ripartiamo».

Cos’è la famiglia?

«Dove c’è amore».

Dove c’è amore per Paola Turci oggi?

«Qui».

(LaPresse il 9 marzo 2023) Ospite di Alessandro Cattelan nel programma ‘Stasera C’è Cattelan’ su Rai Due, Paola Turci ha raccontato come ha conosciuto Francesca Pascale con cui si è unita civilmente lo scorso luglio.

 «Ci siamo conosciute ad un mio concerto», ha raccontato la cantautrice che ha ammesso di aver avuto un gancio involontario da Francesca Fagnani che aveva intervistato Pascale: «Lessi questa intervista e rimasi colpita […] poi ho visto la foto e ho pensato ‘però dai guarda’», ha ammesso la Turci.

Parlando poi del loro primo incontro la cantante ha raccontato: «Vengo a sapere che sarebbe venuta al mio concerto a Torino. Ero un po’ agitata, l’ho vista mentre entravo in scena. Io la vedo e salta la luce! Ho fatto qualche pantomima e poi ho fatto un concertino chitarra e voce e poi dopo cinque minuti hanno ripristinato l’elettricità». Un fuoriprogramma che ha colpito…

Galeotta fu un’intervista di Francesca Fagnani. Paola Turci si racconta, dal primo incontro con Francesca Pascale al matrimonio: “La vidi e saltò la luce”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 9 Marzo 2023

Un colpo di fulmine o meglio di tensione che fece saltare la corrente. La prima volta che Paola Turci vide Francesca Pascale era a un suo concerto. Pascale era nel pubblico e Turci trepidante di scorgerla dal palco. “Io la vedo e.. salta la luce letteralmente! Così ho fatto un concertino senza audio, ma dopo cinque minuti hanno ripristinato l’elettricità. Francesca è rimasta colpita di questa cosa che ho cantato senza luce”. È questo uno degli aneddoti che la cantante ha raccontato ospite a Stasera C’è Cattelan.

Da luglio 2022 è sposata con Francesca Pascale. Dopo due anni di vita insieme cercando di sfuggire ai paparazzi e alla morbosa curiosità sulla loro coppia, le due sono convolate a nozze civili con una cerimonia da favola. Turci ha raccontato come ha conosciuto la moglie: “Tutto è nato ad un concerto, ma ‘Francesca era già una mia fan’” ha raccontato Turci. Ha confessato di dover ringraziare anche “la belva” Francesca Fagnani che ha contribuito a far scoccare la scintilla. Fagnani intervistò Pascale per il fatto Quotidiano e turci rimase ammirata dalle sue parole.

La lessi questa intervista e rimasi colpita – ha detto – Francesca non era nei miei radar e pensavo che Francesca Pascale fosse un’altra. Lei non si faceva tanto vedere. Comunque ho letto l’intervista, mi è piaciuta, poi ho visto la foto e ho pensato ‘però dai guarda, pure carina e intelligente’. Diceva cose che condividevo”. Turci venne a sapere della presenza di Pascale a un suo concerto a Torino: “Ero un po’ agitata, l’ho vista mentre entravo in scena, alla prima canzone – ha detto – Io la vedo e… salta la luce letteralmente! Così ho fatto un concertino senza audio, ma dopo cinque minuti hanno ripristinato l’elettricità. Francesca è rimasta colpita di questa cosa che ho cantato senza luce”.

La cosa di cui ho sofferto di più in questi anni di attenzione non richiesta, è stato leggere: ‘Perché vi volete far vedere così tanto?’. Era proprio il contrario, erano gli altri che volevano morbosamente cercare, capire, vedere, conoscere, inquadrare, fotografare. Per noi non c’era questa volontà. Io faccio fatica a parlare delle mie storie, dell’amore che mi riguarda”. Secondo quanto rivelato da Oggi qualche tempo fa Turci e Pascale starebbero ora pensando a un figlio, pensando a un’adozione o all’affido.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Paolo Belli: «Quando Vasco mi mostrò come si scrive una canzone. Baccini? Mai più sentito». Storia di Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 10 gennaio 2023.

M a poi al Liga gliel’ha fatto lo sconto sulla chitarra elettrica?

«Uno sconticino, perché il negozio di strumenti in cui lavoravo come commesso non era mica il mio e il titolare da quell’orecchio non ci sentiva tanto».

Quasi vicini di casa, voi due.

«Io di Carpi, lui di Correggio, tra le nostre case ci sono sì e no nove chilometri. Da ragazzi stavamo spesso insieme, stessi sogni, stessa passione, la musica. Una volta, tornando in auto, si rifletteva sulla vita e sul destino. Per due come noi, gente semplice di pianura, non era né facile né scontato avere successo. Ci siamo guardati negli occhi e quasi commossi. Poi siamo scoppiati a ridere: “Caspita che gran c... che abbiamo avuto!”», racconta Paolo Belli, 60 anni, esuberante, schietto ed emiliano come uno gnocco fritto («Non me lo nomini, per pietà, che oggi è il giorno che mi tocca solo frutta e verdura»). Così era da capobanda dei Ladri di Biciclette (quelli di «Siamo là -là-drì di biciclette siamo là-là-là e siamo qua») e così è rimasto (con quella appena finita sono 17 edizioni) da scatenato maestro d’orchestra, sgargiante co-presentatore e soprattutto gran consolatore/motivatore dei concorrenti di Ballando con le Stelle, prima di ripartire il 25 gennaio con il tour tea trale del suo show Pur di far commedia.

Un bambino di Formigine o Furmézen, come dite voi nati vicino Modena.

«Infanzia meravigliosa. La mia famiglia era molto umile, non avevamo niente, però eravamo sempre allegri. In paese saremo stati tremila, ogni scusa era buona per fare baldoria. Ed era pieno di bimbi, la tv non c’era e il passatempo preferito — cosa vuole — era sempre quello».

Mamma Piera faceva la cuoca alle Feste dell’Unità.

«Cucinava per un esercito: cofane di tortellini, lasagne, tagliatelle. In paese eravamo davvero come nel film Peppone e don Camillo: tutti i maschi erano comunisti, tutte le signore donne di chiesa sempre in parrocchia. Politica e religione erano un pretesto per stare in compagnia. Mai rimasto da solo nemmeno per un giorno. D’estate al campo sportivo ogni sera alle 18 c’era la grande sfida a pallone, trenta contro trenta, grandi e piccini».

Papà Guido, benzinaio.

«Un giorno, avrò avuto dieci anni, gli chiesi: “Vorrei tanto un pianoforte”. “Compralo”, rispose, punto. Fu così che chiesi a un contadino lì vicino se potevo dargli una mano con qualche lavoretto. Mi mise a raccogliere le barbabietole. Una fatica terribile, sempre piegato in due con le mani nella terra. Un giorno mi ribellai: “O mi fa guidare il trattore oppure non vengo più”».

Piccolo sindacalista.

«In tre mesi racimolai cinquantamila lire. Mi comprai una pianola usata, che mi pareva la più bella del mondo. Aveva sette tasti rotti. “E tu usa gli altri”, mi suggerì papà».

Al conservatorio studiò fagotto.

«L’unico corso a cui c’era rimasto posto. Pianoforte no, chitarra no, violino no, tromba nemmeno. La sera tornai a casa con la mia bella valigetta, con dentro i tre cilindri di legno da avvitare. “Cos’hai rubato?”, mi chiese mamma, sospettosa. “Niente, guarda, è il mio fagotto”. “Ecco, lo hai già rotto”».

Sulla carta sarebbe pure perito elettronico.

«Non so avvitare nemmeno una lampadina, appena sfioro un filo salta in aria la centralina di tutta Carpi. Mia moglie mi supplica di non toccare niente. Due anni fa comprai un macchinario per fare ginnastica in casa, non sono mai riuscito a montarlo».

I primi tempi suonava in sette band, una diversa al giorno.

«Passavo dal blues al rock alla mazurka, più tardi poi mi è servito».

Ne ha mangiato di pane e cipolla, parole sue.

«Eccome. C’era sempre una festa a cui suonare, fermi non stavamo mai, si partiva con un pulmino scassato blu, la paga a fine serata però era un panino e una birra».

Poi sono arrivati i Ladri.

«Mi sono sposato e trasferito a Carpi. Lavoravo nel negozio di strumenti del mio ex insegnante di piano, ci venivano un sacco di ragazzi del conservatorio. Conosci questo, conosci quello, mettemmo insieme la band. Al terzo giorno avevo già scritto . Subito dopo Dr Jazz & mr Funk. Un’esplosione di energia creativa. Partimmo con i concerti. Al primo vennero in 10, quindi in 30, 500, mille. Col passaparola dopo un anno eravamo richiestissimi. E la paga diventò due panini e due birre».

Nel 1988 partì per Milano bardato come Totò e Peppino.

«Con in mano una cassettina da portare alla Emi. Un anno dopo eravamo a Sanremo».

Eliminati alla prima serata, ma portò bene.

«Vasco Rossi ci prese come gruppo spalla ai suoi concerti. Grande Blasco, generoso. Una volta al ristorante gli confidai: “Sai, ti invidio per come scrivi i testi, io a comporre la musica ci metto tre minuti, ma poi con le parole mi pianto lì”. E lui: “Quando hai una canzone, dalla a me che te la sistemo io”. Ho preso la palla al balzo e gli ho portato una melodia. È diventata Bella città. Pazzesco, è sua, ma sembra che abbia usato la mia testa e la mia anima».

Sotto questo sole («è bello pedalare sì, ma c’è da sudare»), in coppia con Francesco Baccini, vinse il Festivalbar 1990.

«Gli dissi: “Dai, cantala con me”. È stato bello, ma poi non ci siamo più sentiti. Non avevamo niente da condividere e l’ho chiusa lì».

Dopo il picco, il tonfo. Addio Ladri. Anni che passano. Il telefono che non squilla più.

«Un periodo difficile, che ho superato grazie a mia moglie Deanna che mi ripeteva di non mollare. Un giorno stavo per lanciare il cellulare contro al muro, quando all’improvviso suonò. Era Piero Chiambretti. “Hai da fare? Perché non passi da me?”. Ho preso l’auto e sono andato. Preparava Il laureato bis per Raitre».

Con lui d’amore e d’accordo.

«È una macchietta, irresistibile. Professionista pazzesco. Una sera ero nella stanza d’albergo accanto alla sua, muri sottili, lo sentivo preparare le interviste facendosi domande e risposte, andò avanti per ore. Ho capito come si fa la tv».

Con Panariello, due amiconi.

«A Torno sabato eravamo un’armata Brancaleone, ma mi divertivo così tanto che quasi non volevo tornare a casa, dopo. Anzi, approfitto di voi: “Giorgio, se vuoi io sono qua”».

La saggezza di Gianni Morandi.

«Mi disse: “Io ho avuto due fortune, caro Paolo: fare successo e ritrovarlo”. Per me è stato uguale. Perché il treno passa tutti i giorni, ma tu devi essere pronto a salirci».

Milly Carlucci le mette ancora soggezione?

«Sempre, come il primo giorno. Perché lei è bravissima, perfetta, io un terribile pasticcione. Sbaglio tutto, dalla grammatica alla posizione in scena alle parole da leggere sul gobbo, ma poi alla fine risulta tutto giusto perché spontaneo».

Angelo custode dei concorrenti di Ballando.

«Prima o poi devo consolare tutti. Inconvenienti? Eccome se capitano. Una coppia doveva scendere in pista ma il ballerino non si trovava. Era in bagno. Crisi di panico? Uuh... tante. Ricordo con affetto Fabrizio Frizzi, che per me era un fratello maggiore. Contava i passi di continuo: “Cinque, sei, sette, otto”, era fissato. Quest’anno Iva Zanicchi fremeva, non vedeva l’ora che toccasse a lei. Dietro le quinte ci parlavamo in dialetto».

Ha vegliato pure su Diego Maradona.

«Ho palleggiato con lui in diretta, cantando e ballando, un onore. Come faceva al Napoli con i compagni di squadra, a Ballando prendeva le difese di tutti i concorrenti, anche se in teoria erano suoi rivali. Un professionista. Arrivava il giovedì da Buenos Aires, studiava la coreografia, affrontava la gara e la domenica ripartiva per l’Argentina»

Con chi ha un caratteraccio, come ve la cavate?

«Ne abbiamo avuti diversi, difficili o permalosi, ma con Milly accade il miracolo, si sentono protetti e rispettati e di colpo diventano tutti dolci come zuccherini».

Uno che vi ha fatto penare.

«Il mio amico Bobo Vieri. Ci ho messo anni a convincerlo a partecipare, si vergognava. Invece è uscito fuori per quello che è, divertente e simpatico. Adesso mi ringrazia. “Avevi ragione tu”».

Va sempre in bicicletta ogni giorno?

«La carico in auto e me la porto ovunque. Quando mancano 70 km alla destinazione, scendo e continuo in bici. A Roma ogni giorno ne faccio almeno 50, evitando i sampietrini...».

La dieta.

«La mia croce. Vorrei essere magro e non lo sono, vorrei non essere un mangione ma lo sono, le diete le ho provate tutte. Funzionano. Purtroppo funzionano pure i tortellini, ne mangio finché ce n’è, per quello poi devo correre a pedalare».

Ha dovuto rinunciare ai ciccioli?

«Ah... i ciccioli! Perché me li ha nominati? Mmm... Noi emiliani li inzupperemmo pure nel caffellatte».

I suoi vestiti sono... beh, catarifrangenti.

«Prima mi sbizzarrivo solo con le scarpe, bicolori, rosa fucsia, dorate. Poi sono passato al resto. Gli outfit li sceglie mia moglie con la costumista, tenendo conto che non sono uno stangone da un metro e 90. Ma sa che mi scrivono tante signore per sapere cosa mi metterò in puntata?»

Perde sempre tutto ciò che tocca?

«Sono campione mondiale. Semino cose lungo il tragitto. All’ufficio oggetti smarriti di Fiumicino mi fanno le feste. “Che si è perso oggi?” Ombrello, cappotto, telefono, chiavi, portafoglio, lascio in giro qualunque cosa. Una volta sono andato in aeroporto senza passaporto, sono tornato indietro, l’ho preso, ma quando sono arrivato non c’era più, l’avevo perso di nuovo, sono senza speranza».

Rodolfo di Giammarco per “la Repubblica – Edizione Roma” il 9 aprile 2023.

Paolo Calabresi ha assunto tanti ruoli in scena, cinema e tv, e anche nella vita […]

 Calabresi, lei ha più volte assunto identità non sue senza fare l’attore..

«Non volevo essere riconosciuto, mi attribuivo nomi altrui di persone reali, una cosa durata anni, cominciata quando ero a Milano […] Volevo concedermi Milan-Roma a San Siro e non c’erano biglietti. Escogitai una soluzione da Vip, annunciandomi come Nicolas Cage, che figurava nel film in uscita “Al di là della vita” di Scorsese.

 Scattò una macchina mediatica. Mi volevano venire a prendere, e per evitare d’essere smascherato chiesi all’autista del Piccolo di accompagnarmi, coi colleghi a farmi da guardie del corpo. Parlavo inglese, ebbi un posto accanto a Galliani, mi portarono negli spogliatoi, la tv sottolineò la mia presenza».

E le recite camaleontiche continuarono...

«Otto anni dopo mi finsi ancora Cage a Madrid per la Champions League con Real Madrid-Roma, e ricevetti onori dal presidente e dai giocatori spagnoli. Totti, cui erano giunte le voci del bluff a Milano, mi sussurrò ‘Ma lo voi paga’ il biglietto, ‘na volta?’.

Io avevo l’adrenalina a 1000.

 Mi sono mimetizzato anche da John Turturro ai David di Donatello, da capo africano in visita al sindaco Veltroni (mi ci vollero dieci ore di trucco), da Marilyn Manson al gala della pubblicità di Mediaset, da cardinale honduregno Maradiaga a un concerto di Gigi D’Alessio, da presidente del Cio in un’intervista concessa a Mediaset Sport con accanto Moratti sul tema di doping e Olimpiadi. […]».

[…]Le Iene?

«Sei strani anni, con me che cercavo un supporto ai miei trasformismi. Quando feci il regista d’un prossimo James Bond in un provino ho preso a schiaffi Corona: era prevista una scena di tortura, lui si è tolto la maglietta per far vedere i bicipiti, e io ho punito la sua vanità. […]». […]

DAGOREPORT il 9 febbraio 2023.

Il 19 febbraio il cantautore Paolo Conte si esibirà alla Scala. Mentre montano le richieste di biglietti (ci saranno i bagarini?) da parte di coloro che, sentito Conte, non metteranno più piede alla Scala nemmeno per un recital, montano pure le polemiche di quelli che alla Scala e all’opera ci vanno sempre e stigmatizzano la “ospitata” di Conte (che ospitata non è, poiché la serata figura prodotta dalla Scala). 

Qualcuno dichiara di non voler nemmeno “discutere la presenza di Paolo Conte alla Scala”; altri parlano dei “prezzi dei biglietti come scandalo mondiale”; qualcuno ricorda che alla Scala cantò anche Milva. Ma questa fu cosa diversa poiché Milva non cantò canzoni pop, ma alla Piccola Scala nel 1975 nello spettacolo ‘’Io Bertolt Brecht’’, tre anni dopo nella prima del “Diario dell'assassinata” con la direzione di Donato Renzetti e la regia di Filippo Crivelli; Luciano Berio la chiama nel 1982 e nel 1988 partecipò al dramma coreografico “L'angelo azzurro” di Roland Petit, quindi ultima apparizione nel 1989 protagonista in “Sette peccati capitali” di Kurt Weill con l’orchestra scaligera diretta da Zoltan Peskó.

Alla Scala non ha mai cantato il Nobel Bob Dylan, che pure sarebbe stato più legittimato, nemmeno Paul McCartney: perché ci arriva Paolo Conte? Di certo non l’ha cercato il sovrintendente Dominique Meyer: a lui, mi sa, arriva il pacco postale. E anche a tutti i lavoratori Scala, che per lo più stropicciano gli occhi all’iniziativa (si fa sciopero per la Cultura perché 90 lavoratori non sono troppi per montare due leggii e nemmeno un documentino critico sul concerto di Conte? Perché?). 

Quel che possiamo dire è che Conte appartiene alla casa discografica fondata dal compianto Piero Sugar, il grande produttore ungherese figlio di Salomon Sugar e Vilma Goldstein, gestita dalla vedova ex Casco d’oro Caterina Caselli. L’ex ministro della cultura, il ferrarese Dario Franceschini, sarebbe stato a conoscenza dell’iniziativa (quindi l’ha approvata? L’ha sostenuta? Spinta?) e, di certo, lo è stato il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, presidente del Teatro. 

Non è una affittanza: la Scala emette i carissimi biglietti (300 euro) tutti esauriti, probabilmente guadagna nella produzione e paga un feea Conte; pare che si produrrà un dvd dell’evento. Evento nel quale si dovrebbero usano chitarra elettrica e amplificazione. Alla Scala! 

 Non è una questione di classe, di élite… ma di cancellazione della storia della Cultura, mancata difesa dei generi, volontà di assecondare la disintermediazione dove tutto è uguale a tutto, la Ferragni è maîtrea Sanremo più di un professore ordinario di Filosofia e Conte alla Scala vale Mozart. Finora la Scala era resistita.

Poi ci lamentiamo dei like a questo e a quello e facciamo i distinguo se Uto Ughi sbotta e dice “basta” ai Maneskin. A proposito, loro, così fluidi e mainstream, visto che non sono a Sanremo quando li vedremo alla Scala?

Lettera di Piero Maranghi al ilfoglio.it l’11febbraio 2023.

Caro Paolo Conte, Lei è il mio cantautore preferito, l’ho ascoltata innumerevoli volte dal vivo, da Bari a Parigi, da Torino ad Amsterdam. Le Sue stanzette umide, i Suoi piedi un po’ prensili, i Suoi sguardi dei francesi popolano il mio cuore e la mia mente da sempre e ora animano le fantasie dei miei quattro figli, dai venti ai nove anni, cui ho trasmesso l’amore per l’universo contiano, per l’eleganza delle zebre e le frittelle con il vino.

 Vivo a Milano, la mia vita professionale è nella musica, io sono nella musica. Sono l’editore del canale Classica HD su Sky e Lei mi ha onorato più volte dicendo pubblicamente di sbirciarla ogni tanto; faccio, con Paolo Gavazzeni, il regista di opere liriche; produco documentari e libri sul teatro musicale e cartoon per i ragazzi, la serie più importante, 52 episodi con l’avatar di Daniel Barenboim, è distribuita in tutto il mondo.

Il Teatro alla Scala è la mia casa, un luogo dove, nella mia vita, ho fatto tutto, davvero tutto. Ma il 19 febbraio non verrò a sentirLa. Mi rivolgo a Paolo Conte e non alla dirigenza del Teatro per una ragione molto semplice, loro non hanno gli strumenti per comprendere, Lei certamente sì.

 Spiego il mio pensiero. Il Suo concerto è uno schiaffo alla storia della Scala; costituisce un precedente assai pericoloso; non dà nulla al Teatro da cui invece riceve moltissimo; è culturalmente un concerto ‘antipatico ed elitario’, come dire non vedo traccia di alberghi tristi e di intelligenza degli elettricisti.

Durante la direzione di Antonio Ghiringhelli, storico sovrintendente del dopoguerra, nel 1971 il cda ricevette dal Comune la richiesta, in occasione di un premio che Milano conferiva a Charlie Chaplin, di proiettare Tempi moderni nella sala del Piermarini; rispose di no, rispose che il teatro ha una funzione diversa; alla fine Carla Fracci fu protagonista di una Giselle dedicata a Charlot, che poté applaudire dal vivo, ricambiato calorosamente dal pubblico e il film fu proiettato in altra sala.

 Poi ci fu la sovrintendenza di quel Titano della politica culturale che era Paolo Grassi, lui ammise per primo Milva e lei tornò più volte negli anni ma lo fece per Brecht, Berio, Petit e se fosse ancora tra noi Grassi (avèghen!), oggi prenderebbe letteralmente a calci tutte le serate dei palloni d’oro, dei red carpet della moda, delle lavatrici nel foyer, prenderebbe a calci i neo-calciatori dell’Inter che arrivano a Milano ed entrano in Palco Reale, a teatro chiuso, per un selfie su Instagram. Prenderebbe a calci i responsabili di tutte queste amenità che popolano da oltre un decennio il Teatro alla Scala.

Carlo Maria Badini e Carlo Fontana, i due successivi sovrintendenti, rispettarono questo indirizzo. Per Fontana, il più autentico erede del magistero culturale e politico di Grassi, fu una scelta ponderatissima e assai meditata quella di permettere il concerto di Keith Jarrett, scelta che si formò su tre pilastri: le numerose incursioni interpretative dell’artista nel repertorio classico, la contemporaneità della sua ideazione musicale, l’assenza di amplificazioni.

Poi ci furono Stephan Lissner e Alexander Pereira; il primo dei due, tra le tantissime pressioni cui resistette nei dieci anni di sovrintendenza, dalla politica e dallo stesso cda, si oppose strenuamente alle continue richieste di un sindaco perché lasciasse esibire in Scala il Suo, di Lei Paolo Conte, co-genetliaco Adriano Celentano; nel periodo Pereira sono personalmente testimone di un episodio assai significativo. Un giorno mi chiama il console armeno pregandomi di chiedere se Charles Aznavour si possa esibire in Scala per la causa del suo popolo d’origine; rispondo che, pur adorando l’artista e condividendo la causa, sono contrario, ma che non mi sottraggo dal formulare la richiesta, forse anche per evitare arrivi da altri; chiamo Pereira con una certa apprensione, anche conoscendo la sua disinvoltura.

Dopo due squilli il sovrintendente risponde e secco mi dice “non possibile, se iniziamo non finiremo più, pochi giorni fa ho detto di no a un grande cantante americano, ora non mi ricordo il nome”. Saluti e fine? No, pochi minuti dopo mi manda, via sms, il nome: Bob Dylan! Durante Expo 2015 il direttore generale della Scala, Maria di Freda, si è battuta come un leone per impedire che Andrea Bocelli si esibisse nella sala del Piermarini e questa coerenza è probabilmente all’origine, anni dopo, della sua brutale defenestrazione dal Teatro. Amo Paolo Conte più di tutti i musicisti di cui sopra – con l’esclusione di Barenboim – ma non può bastare. Chi stabilisce il valore artistico Suo rispetto a quello di altri colleghi?

Il sovrintendente-direttore artistico Dominique Meyer. Qui la cosa si fa dolorosa poiché questo signore è manifestamente sprovvisto di cultura scaligera. A proposito, caro Conte, questa doppia carica in capo a un sol uomo – sovrintendente-direttore artistico – di stampo franco-germanico, inaugurata proprio alla Scala nel 2005 e poi scimmiottata da molti altri, in Italia si è rivelata una aberrazione inaudita che ha finito per deformare e distruggere tradizioni secolari, con buona pace di sindaci e amministratori, al meglio inconsapevoli, al peggio interessati ad abbandonare l’Opera a un destino di secondarietà rispetto a selfie e sfilate.

Sovrintendenti-direttori artistici, quasi sempre stranieri, che ci raccontano la storiella dell’internazionalizzazione (si legge omologazione) della Scala, non capendo che il nostro Teatro è stato per oltre due secoli il più internazionale dell’universo proprio per la Sua cifra unica e inimitabile. Oggi si è trasformato in un supermarket che fa cucina internazionale, si vedono e si ascoltano spettacoli identici a quelli di Amsterdam, Bordeaux, Dresda e non è più il teatro dei milanesi, come lo chiamava Stendhal.

Veda caro Paolo, per me queste considerazioni sono ancora più amare, i teatri italiani che hanno preso questa china sono quasi tutti amministrati dal centrosinistra; come liberale ho sempre scelto quella parte e ora devo constatare che anche in cultura abbiamo messo una pistola carica e senza sicura nelle mani di questa destra arrogante e sguaiata, così è, pagheremo carissimo temo.

 Ora ci dicono che l’attuale sovrintendente abbia permesso il concerto perché richiesto dai piani superiori? Peggio mi sento! La Scala è stato il simbolo assoluto di indipendenza e coerenza di un’istituzione culturale in Italia, da sempre! I NO degli uomini scaligeri alle pressioni esterne e interne sono innumerevoli nel corso della storia, non solo i sovrintendenti ma penso ai Maestri della Scala, penso ad Arturo Toscanini a Riccardo Muti; i loro NO sono un patrimonio della nostra cultura nazionale e del nostro orgoglio cittadino.

Già Toscanini e Muti, scrivendo i loro nomi nasce un’altra domanda: questi due direttori musicali avrebbero accettato in silenzio le scelte dei loro rispettivi sovrintendenti di concedere dei concerti, che so io, ad Alberto Rabagliati o Lucio Dalla? Il fatto ancor più grave è che ora abbiamo il precedente: è un’autorizzazione a procedere. Discografici, sindaci, consiglieri, ministri, sponsor fatevi sotto! Dal 19 febbraio si può e ognuno di voi ha un cantante, un cantautore, un urlatore del cuore, da far suonare alla Scala!

 Ancora, adorato e splendido Paolo Conte, Lei alla Scala, la mia è solo una constatazione, non dà nulla. Porta pubblico giovane? NO. Porta un pubblico che resterà attaccato alla Scala? NO. La Scala ha bisogno di Paolo Conte o di Mina o Dylan per essere quello che è (ormai sarebbe il caso di dire che era)? NO! E Lei cosa riceve? Tantissimo. Lei può esibirsi, primo “non classico” nella storia, sul palcoscenico che fu di Rossini e Verdi, di De Sabata e Callas, di Gavazzeni e Visconti, di Pavarotti e Abbado, di Strehler e Zeffirelli. Non mi interessa sapere se Lei percepisca anche un cachet, immagino però che facilmente ci sarà un cd o dvd “Paolo Conte alla Scala” e mi chiedo se serva al Teatro, ben conoscendo la risposta.

E poi l’antipatia dell’operazione, quella sera ci saranno tutti quelli che di solito vengono al 7 dicembre a farsi i selfie, per poi inabissarsi per tutto il resto della stagione fino al successivo 7 dicembre e da ora, dopo il 19 febbraio, fino al prossimo Paolo Conte che il prepotente di turno imporrà all’ennesimo sovrintendente-direttore artistico. I biglietti della serata poi sono carissimi, costano quasi il triplo del concerto che Lei terrà a Roma e che mi vedrà finalmente in prima fila a spellarmi le mani.

Caro Paolo Conte, dispiace profondamente, a un suo così profondo commendatore, dover passare ad altre danze come si passa in altre stanze, in altre parole dover estendere un messaggio così amaro a un artista così amato. Però Le offro una soluzione bellissima, ne tenga conto, io Le voglio molto bene: lasci stare la sala del Piermarini e chieda Piazza della Scala al Comune, per primavera.

 Montiamo un palco sotto Palazzo Marino e facciamo un concerto all’aperto “Paolo Conte per il Teatro alla Scala”, rivolto, anche fisicamente verso la Scala, Lei canterà per la Scala, come fosse con una splendida donna, un concerto dedicato alle gambe, alle tenerezze, alle dolcezze della Scala. Sarà una festa, noi milanesi e scaligeri saremo tutti con Lei.

Ci sarà anche una persona specialissima, Leonardo da Vinci, sì proprio lui, con la sua statua al centro della piazza e guardi che non è un caso che in quella scultura il genio di Vinci dia le spalle al Comune e sia rivolto al Teatro. Solo Lei può fermare questa banda di inconsapevoli dissipatori della tradizione meneghina e del Suo simbolo più luminoso, La Scala.

Con infinita gratitudine per l’attenzione, per le vampate africane, le caramelle alascane e i gregari in fuga!

Mi creda, Suo Piero Maranghi

Estratto dell’articolo di Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 12 febbraio 2023.

Lo splendido 86enne Paolo Conte si esibirà il 19 febbraio al Teatro alla Scala, e stiamo parlando di una delle nostre maggiori glorie internazionali […] cantautore, autore, polistrumentista jazz, pittore ed ex avvocato apprezzato in tutto Occidente […] un mostro sacro di statura incomparabile, e che, dopo la sua sessantennale carriera, forse, ecco: non meriterebbe la polemica che si sta tentando di imbandire per via di una sua presunta «estraneità» al mondo della Scala […] una tipica diatriba tardiva, un filo pretestuosa e perciò fuori luogo, improvvisata quando la stalla è già stata aperta da una vita, e i buoi sono già scappati da un pezzo.

La polemica, peraltro, l’ha tentata lo stimato amico Piero Maranghi perlomeno amico dello scrivente […] Maranghi, produttore, regista, scrittore, insomma competente benché fanatico verdiano (non si può avere tutto) ma che è anche gestore dei bookshop della Scala (le librerie) e eccoci, è proprio questo il piccolo conflitto d’interesse che inficia le sue frecciate all’attuale sovrintendenza scaligera: ossia le profonde incomprensioni (diciamo così) tra lui e il franco-tedesco e un po’ provinciale Dominique Meyer - il sovrintendente - che nei fatti hanno portato i bookshop a una provvisoria chiusura.

Questa è la premessa che Maranghi doveva fare: prima ancora di precisare d’essere un amante sperticato di Paolo Conte […] quasi un fatto personale tra Maranghi e la sovrintendenza, com’è comprensibile - data la mediocrità di Meyer - senza che tuttavia ci fosse bisogno, forse, dell’infinita quantità di argomenti anche contraddittori che Maranghi ha addotto alla sua polemica, come si dice: excusatio non petita.

 Alla Scala in passato si esibì Keith Jarrett, che nel mondo resta noto come jazzista sin dai tempi di Miles Davis, negli anni Settnta […] Alla Scala ha suonato il più che eclettico jazzista Stefano Bollani […] Ha pure suonato (cantato) il mitico Bobby McFerrin […] Parliamo di tre mostri. Mentre La Scala, in passato, ha detto no a Charles Aznavour (che voleva fare del suo concerto uno strumento politico) e persino a Bob Dylan […] Ha pure detto no a Bocelli perché, con tutto il rispetto, resta un interprete votato più al profano che al sacro, tanto che esordì praticamente a Sanremo. Ha detto tanti no, La Scala: ma anche tanti sì, e da tanto tempo […]

[…] La Scala […] è divenuta simile ad altri importanti teatri (che è anche un bene) ma ha perso un senso di appartenenza meneghina che però non è stato perso solo dalla Scala, ma da un’intera epoca, spersa in un tutto che sembra uguale a tutto. Alla Scala non c’è più Carlo Fontana. Non c’è più Paolo Grassi. […] Quindi Maranghi sa quanto possiamo condividere le sue parole quando scrive […] Lo scrivente prenderebbe volentieri a calci anche certi registi (ignoranti veri) che hanno scambiato il repertorio musicale per una colonna sonora delle loro cazzate, non studiando, non rispettando.

Maranghi dice che La Scala è un supermarket che fa cucina internazionale e dove si assiste a spettacoli identici a quelli di Amsterdam, Bordeaux, Dresda […] si poteva dire anche così: i teatri che hanno preso questa china sono i teatri di oggi. E oggi, appunto, menarla con Toscanini e Grassi e con Muti, e con «una volta era diverso», ci relega d’ufficio in una condizione di ritardo culturale: dove, beninteso, stiamo benissimo. Ma dove dimora, senz’altro, su un piano diverso, anche […] Paolo Conte […]

Dagospia il 13 febbraio 2023. Riceviamo e pubblichiamo:

 Dite all'amico Filippo Facci, stamattina gli ho già detto io in un cortesissimo colloquio telefonico, che il bookshop non è stato chiuso dalla Scala e/o dal Sovrintendente unilateralmente ma la licenza è scaduta 5 mesi fa ed io ho ridato le chiavi al concedente, tornando finalmente ad esser un uomo libero di esprimere, anche pubblicamente, il suo pensiero sul Teatro.

 Pensiero che, durante gli anni della concessione, ho dovuto trasmettere solo agli aventi causa in modo diretto e riservato, prerogativa che non ho mai smesso di esercitare.

 Piero Maranghi

Da “Posta e risposta – la Repubblica” il 14 febbraio 2023.

Caro Merlo, Piero Maranghi ha scritto un’accorata lettera a Paolo Conte, pubblicata sul “Foglio”, perché rinunci a cantare alla Scala il 19 febbraio. Mi accodo a questa perorazione, non tanto perché da loggionista e melomane (frequento il Teatro dal 1955, quando avevo 5 anni) io pensi che sia un oltraggio, ma perché semplicemente non mi sembra il luogo adatto, come dimostra banalmente anche la modalità di vendita dei biglietti, a prezzi molto più alti, introvabili solo dopo pochi secondi dall’inizio della vendita online.

 Il che dimostra che sono stati per la maggior parte distribuiti in altro modo, e per raggiungere un pubblico diverso da quello che normalmente frequenta la Scala (come avvenuto per il concerto di John Williams nel dicembre scorso).

 E, cosa ancora peggiore, non saranno venduti i biglietti di loggione la sera dello spettacolo, che si conquistano con una coda alla biglietteria qualche ora prima dell’inizio a un prezzo molto basso. Il vero scandalo è la non accessibilità al pubblico che normalmente frequenta il teatro. Sarebbe stato più onesto dire che era un evento privato per inviti. Attilia Giuliani

 Risposta di Francesco Merlo

È da mitomani reazionari pensare che il concerto di Conte alla Scala sia una profanazione e lei non è mitomane né reazionaria. La musica non si divide in musica alta e musica bassa, ma in buona e cattiva. E Paolo Conte è un classico della migliore musica italiana, degno della Scala come Verdi e Rossini e come i direttori Abbado e Muti, i registi Visconti e Strehler, i cantanti Tebaldi e Pavarotti…

Il concerto sarà una magnificenza come nel 2019 lo fu al San Carlo, che è il più antico teatro d’Opera del mondo. Della vendita dei biglietti non so nulla, ma spero che la solita furbizia non abbia superato la modica quantica. Lei mi dice che i loggionisti dell’ultimo momento meritavano il loro consueto spazio e ha ragione. Tuttavia, al di là della nota strafottenza “scaligera” verso il pubblico, la corsa ai biglietti lascia sempre una lunga coda di delusi in tutti i teatri del mondo.

 Soprattutto quando Conte canta Dal loggione : “Viva la musica che ti va sin dentro all’anima…”. E chiude con “parapunzipunzipù” che vale quanto i “miao” di Rossini.

Lettera di Milena Gabanelli a “la Repubblica” il 17 febbraio 2023.

Caro Direttore, sabato scorso leggendo il Foglio mi ha attratto un titolo: “Paolo Conte non profani la Scala”, firmato da Piero Maranghi, direttore del canale Sky Classica. “Oddio i fanatici della Scala - ho pensato che appena gliela tocchi ti fulminano!”. Ma poi leggendo la lettera, e a seguire le risposte e i commenti che ha suscitato (Sgarbi sul Foglio e Merlo su Repubblica ) vorrei fare alcune considerazioni.

Scrive Sgarbi che in passato sono già stati ospiti della Scala artisti del pop e del jazz, e quindi perché non andrebbe bene il grande Paolo Conte? Per essere precisi: Bobby McFerrin alla Scala ha diretto la Filarmonica, Stefano Bollani ha suonato Ravel, diretto da Riccardo Chailly; Milva ha cantato Berio. Ci sono stati anche due balletti: l’Altra metà del cielo (musica di Vasco Rossi che non era neppure presente), e il Pink Floyd Ballet, con la coreografia del maestro Roland Petit.

Dunque il tema posto da Maranghi non è chi porti alla Scala, ma il cosa . E dire “vogliamo Paolo Conte perché è bravo” significa ben altro, ovvero: non vogliamo più che alla Scala si ascoltino solo opere, sinfonie, balletti, quartetti, ma anche cantautori, rapper, musical, cabaret ecc. Porre questo tema non credo sia da reazionari (come scrive Merlo su Repubblica ), e tantomeno di distinzione fra musica alta e musica bassa.

È il caso di ricordare che la Scala rappresenta un simbolo di unicità universalmente riconosciuto. Non un tempio inviolabile, ma un simbolo che ha saputo adeguarsi ai costumi del pubblico ed è stato capace anche di dettarli, con coerenza e caparbietà, anche in periodi bui della nostra storia. E allora qual è l’utilità di smontare le fondamenta di questa istituzione? Forse perché non riesce più a stare in piedi con le proprie gambe, nonostante i corposi finanziamenti e sponsorizzazioni?

 Se è così il problema sta nella gestione, non all’altezza del suo compito. Infatti occorre guardare alla classe dirigente del Paese e alla politica culturale: siamo certi che, una volta avviato il “liberi tutti”, esistano freni alle pressioni e richieste di coloro che aspirano a quel palcoscenico e dei loro padrini? Il progresso consiste anche nel saper preservare “l’antico”. Almeno finché non ostacola necessità più generali (e non è questo il caso). Quindi mi sorprende un po’ la presa di posizione di Sgarbi quando sostiene che aprire la Scala a tutti va bene, ma si batte come un leone contro i parchi eolici o fotovoltaici, cruciali per la riduzione di Co2, perché disturbano il paesaggio.

Dagospia il 15 febbraio 2023. Dal profilo Facebook di Pierluigi Panza.

 E tu con chi stai? Chiedono nella Milano ztl: con Paolo Conte che va alla Scala grazie a Caterina Caselli che ha ottenuto di farlo esibire (da chi? Da Sala?) o con gli oppositori? È un problema grasso, di minoranza culturale trasversale che poco interessa alla politica. Non è un problema di genere, ma di qualità, sostiene chi difende la scelta della Scala. Per altri (come il direttore di Sky classica, Piero Marangh) il problema è il precedente: se va Conte alla Scala, perché non Branduardi?

 E Bob Dylan? E così via cantando, con gli altri che replicano che ci sono stati balletti su musiche dei Pink Floyd e anche - nessuno lo ha detto – di Vasco Rossi (spettacolo pessimo). Il Postmoderno ha soppiantato i generi come vecchi arnesi e siamo tutti fluidi? La fruizione è libera, inclusiva, liquida? Uno vale uno e questo è il bello?

La Scala non è un tempio, anche il melodramma è pop ecc. si sa; ma affermare che bisogna scegliere gli spettacoli sulla base della qualità (come scrivono Merlo e Mattioli) e non del genere ha una facile risposta: la qualità è un non-parametro oggettivo. Tre secoli di storia dell’Estetica (non solo musicale) hanno cercato di stabilire cosa sia il bello e no, la qualità e no. L’ha fatto mettendo a punto metodi critici e teorici. Ogni opera nata da Kunstwollen ha pretesa di qualità: ma sono poi spettatori, critici e una valutazione che, come scriveva Gadamer, si “distende lungo i tempi” a decretarne qualità e la sopravvivenza. Un direttore artistico non ha uno strumento di misurazione a priori, specie se estensivo a generi diversi. Conte è di qualità e Branduardi no? Non esistono forse ballate popolari di qualità: si possono portare alla Scala? E Jungle bells è priva di qualità? La storia dell’arte è piena di opere ritenute di qualità poi scomparse e di opere non rappresentate poi ritenute di qualità.

 Umberto Eco, che come gran parte della postmodernità colta era fautore della compresenza di Cultura alta, Midcult e Masscult, in “Alto, medio, basso” del 2010 scriveva che “la distinzione dei livelli si è spostata dai loro contenuti o dalla loro forma artistica al modo di fruirli” e mi sembra che questa affermazione sia ancora valida. Io posso usare Beethoven come sveglia del telefonino, ma se la uso in questo modo la parifico a qualsiasi motivetto, mentre se la ascolto alla Scala diretta da un maestro mi “dispongo” in un’altra fruizione e non perché cambi la qualità della composizione (le note sono le stesse) ma perché cambia il contesto.

 La scelta delle modalità di fruizione è uno dei pochi atti critici selettivi ancora esperibili. Eccoci al punto: la Scala che fruizione intende proporre alle future generazioni? Pensa di difendere una storia che, dall’Umanesimo in poi, ha distinto progressivamente per generi (aperti), categorie, qualità (discutibili), modalità fruitive ecc. o pensa di entrare nel mainstream fluido?

 Per rispondere a questa domanda bisogna fare molta attenzione a chi ci si rivolge. Umberto Eco, e direi tutti quelli che partecipano a questo dibattito, sono stati formati da una cultura strutturata. Quando la Postmodernità anni Novanta ci invitò a liberare i generi, la gaia scienza dell’alto e basso insieme fu per noi una giocosa liberazione: ma non eravamo e non siamo degli individui disintermediati, sappiamo che uno è Topolino e l’altro Kant. Oggi noi invecchiati dobbiamo mostrare responsabilità nei confronti di giovani generazioni nate e vissute nella più completa disintermediazione, spinta alla massima potenza dal mainstream: se non esistono più i generi sessuali, chi può pensare che, per un giovane, possano esistere i generi artistici? Se uno vale uno tra gli individui, può non esserlo per le opere d’arte? Con tanti saluti alla critica, è bello ciò mi piace e faccio quel che voglio e ascolto un medley dove mi capita e lo voto con un like.

Il risultato è che la poetessa più celebrata dell’anno è Amanda Gorman perché è nera, veste Prada e Biden la usa alla sua investitura o che Fedez è il maître à penser del Paese. Ma mentre noi postmodern invecchiati ridiamo degli esiti di questo divertissement disintermediato o pensiamo a come costruire consenso intorno ad altri personaggi che vengono del niente, come quelli del “Grande Fratello”, per i giovani non è un divertissement, non è consenso costruito: loro pensano che si la “verità”. Chi ha più like è più importante di Mattarella, Amanda Gorman è davvero una poetessa e Sanremo è più importante della Scala perché lo vedono 16 milioni a sera e non duemila.

 Ecco, Conte alla Scala è un tardo adeguarsi Postmodern a questo fluido mainstream. Ma se anche la Scala entra in Sanremo (pure con la sua violinista influcencer) chi può mantenere viva una “opposizione” culturale? Chi può, pur in minoranza, ancora dire: sono l’erede di quella storia che, dall’Umanesimo a oggi, ha cercato di stabilire criteri, suddividere per generi le opere d’arte, distinguerle e presentarne gli esiti in sedi modificabili ma ritenute consone alla loro fruizione? Che per Beethoven non è la sveglia e per Paolo Conte non è la Scala.

Marco Molendini per Dagospia il 15 febbraio 2023.

E' vecchia storia, fuori i miscredenti dal tempio. E' vero: Paolo Conte è un'anomalia nella programmazione della Scala. E' un'anomalia perché non c'è mai stato, perché nessun altro cantautore si è mai esibito sul sacro palcoscenico meneghino, perché il pop è altra cosa dal melodramma e appartiene a epoche diverse, perché il pubblico della lirica è ad alto tasso di conservazione.

 Ricordo tanti anni fa le stesse argomentazioni usate quando alla Scala si esibì Keith Jarrett, ma il grande jazzista aveva nel suo curriculum anche frequentazioni classiche e quindi, alla fine, la discussione si ammosciò (a parte che fece un gran concerto). Tanto per la cronaca, anche Paolo Conte ama ascoltare musica classica e ama la lirica, ma non c'è dubbio che sia diventato Paolo Conte per le canzoni che ha scritto. Canzoni di qualità, è il pensiero praticamente unanime e non solo in Italia. E, dunque, se il pop entra alla Scala, lo fa con dignità.

Leggo che Pierluigi Panza, scrittore, critico d'arte, sostiene che il precedente sarebbe rischioso, visto che aprirebbe le porte a chissà quali artisti e che il metro della qualità non rappresenterebbe un parametro. E qui viene fuori il problema, perché nell'ambito di un linguaggio che è quello della musica popolare si nega che ci possa essere un metro qualitativo?

E' come dire che è tutto uguale, insomma la posizione esprime un atteggiamento culturalmente aristocratico che nega addirittura al direttore artistico della Scala la capacità di poter distinguere in quella melma che è la musica pop. La storia della canzone, invece, ha avuto momenti altissimi, altri bassissimi e dimenticabili (ne abbiamo avuto una testimonianza nella settimana appena passata) esattamente come tutte le altre espressioni artistiche.

E' vero, come sostiene Panza, «la storia dell'arte è piena di opere ritenute di qualità e poi scomparse» ma perché la lirica dovrebbe essere esente da questo rischio? E poi, se vogliamo dirla tutta, perché la Scala ha invitato Paolo Conte? Perché ha avuto un'improvvisa folgorazione?

 O perché, forse sono stati fatti due conti, e qualcuno ha capito che invitare un grande autore di musica popolare può essere di richiamo almeno quanto molte rappresentazioni liriche che cercano la risonanza (e i titoli dei giornali) attualizzando il racconto.

 PS. Si, fra Paolo Conte e Angelo Branduardi c'è una differenza qualitativa. Come c'è fra Jingle bells e Bob Dylan.

LETTERA DI ALBERTO MATTIOLI A DAGOSPIA il 18 febbraio 2023.

Caro Dago,

no, il dibattito nooo!, strillava Nanni Moretti. E invece, questa volta sì, il dibattito sììì!, perché la rissa intellettuale su Paolo Conte alla Scala è assai stimolante e oserei dire divertente, certo più che dei soliti moralismi prêt-à-penser che alluvionano le pagine culturali dei giornali e che rendono così appagante non leggerle.

 Infatti Dagospia, che invece leggiamo tutti, specie chi nega di farlo, al Conte scaligero ha dedicato molto spazio. Ho l’impressione, però, che la discussione stia prendendo una piega molto italiana, quella di una battaglia di principio slegata dai fatti e condotta da persone che dei fatti non sono benissimo informate.

Nel mio piccolissimo, quel che dovevo dire l’ho detto sul “Foglio” rispondendo a Piero Maranghi che aveva aperto le danze sullo stesso giornale: la retorica del teatro come Tempio è ridicola dal punto di vista storico, perché quella del Tempio è una delle modalità della fruizione teatrale, non “la” modalità, e soprattutto pericolosa, perché giustifica quel conservatorismo arteriosclerotico che ha distrutto l’opera in Italia.

 E del resto basta andarci davvero, alla Scala, per rendersi conto che il Tempio assomiglia sempre più a una necropoli. Poi gli interventi si sono succeduti. Vittorio Sgarbi sul “Foglio” ha spiegato che Conte dev’essere ospitato alla Scala perché piace al pubblico e Filippo Facci su “Libero” perché piace a lui. Passata la fase del ciao, come sto?, Pierluigi Panza ha argomentato brillantemente il suo “no” chez Dago e Marco Molendini gli ha risposto per il “sì” esattamente con gli stessi argomenti che avrei usato io.

Poi ci sono tre firme che mi piacciono moltissimo ma che mi sono piaciute meno in questa circostanza perché, dagli argomenti che hanno usato, si capisce che non conoscono bene ciò di cui scrivono.

 Una è Francesco Merlo (fronte del sì), la cui rubrica su “Repubblica” è come Dago: la leggono tutti. Però se parli del “miao” di Rossini non sai quel che san tutti, cioè che il “Duetto buffo di due gatti” non è affatto di Rossini. La cosa è nota da decenni e fu definitivamente acclarata da Edward J. Crafts nel 1975, Merlo può consultare il numero 3 del “Bollettino del Centro rossiniano di studi”.

La seconda è Milena Gabanelli (fronte del no), grande giornalista e donna simpaticissima che ho conosciuto proprio a casa di Maranghi. Al suo intervento su “Repubblica” hanno messo un titolo curioso, “Competenza, altro che jazz”, come se il jazz la competenza non la richiedesse e nella gerarchia dei “generi” cara a Panza non fosse già stato elevato all’empireo della “classica” o quasi.

Ma magari il titolo non è farina del sacco di Gabanelli: curioso però che attacchi senza nominarlo il sovrintendente Dominique Meyer dove attaccabile lo è meno, sugli aspetti amministrativi e finanziari, insomma i conti, mentre invece il problema della sua gestione, come spiegava Maranghi, è che non ha alcuna linea artistica o culturale (anche se poi, su quale sia quella giusta, Maranghi e io saremmo sicuramente in disaccordo).

 La terza è Giacomo Papi (fronte del nì), autore del “Censimento dei radical chic”, un libro che ho adorato, che però oggi sul “Foglio” fra molte cose sensate dice che “niente è leggero come un’aria di Verdi”, già, e i monologhi di Amleto sono cabaret.

E qui mi fermo perché ho già sproloquiato abbastanza. Resta solo da chiedersi, ma questo l’ha già scritto Dagospia, perché di questa faccenda parlino tutti i giornali, oggi anche il “QN”, tranne il “Corriere della Sera” che pure è quello di Milano.

 E la Scala, “il primo teatro del mondo”, “il Tempio della musica” e altre baggianate (“Tante e tante volte ho sentito a Milano dirmi […] La Scala è il primo Teatro del Mondo. A Napoli Il S. Carlo primo Teatro del Mondo. In passato a Venezia si diceva La Fenice il primo Teatro del Mondo. A Pietroburgo Primo Teatro del Mondo. A Vienna Primo Teatro del Mondo e per questo starei anch’io. A Parigi, poi, l’Opéra è il Primo Teatro di Due o Tre Mondi!

Cosi (sic) io resto con la testa intronata cogli occhi spalancati, la bocca aperta dicendo… “e io testone non capisco nulla”… e finisco col dire che fra tanti primi sarà meglio un secondo”, firmato Giuseppe Verdi, 21 gennaio 1879), la Scala, dicevo, la Scala è Milano, anzi un’icona della milanesità più autoreferenziale e di successo, come il panettone, il risotto giallo, la moda, il Salone, l’apericena e i danée. Quindi forse hanno ragione i no: che c’entra, uno chansonnier di Asti, pheeega?

Estratto dell'articolo di Giacomo Papi per "il Foglio" il 18 febbraio 2023.

Quando ho letto il titolo della lettera aperta di Piero Maranghi contro il concerto di Paolo Conte alla Scala, ho pensato che fosse una battaglia di retroguardia. Dopo averla letta sono pieno di dubbi che non sono stati dissipati, anzi, dal dibattito in corso (che comunque è uno dei più interessanti degli ultimi anni).

[...] Mi pare necessario [...] parlare di due temi cruciali che la lettera pone: il rapporto tra contenuto e contenitore e quello tra bellezza e mercato. Il contenitore influisce sempre sul contenuto, e viceversa. Beethoven usato come sveglia telefonica, ha scritto Pierluigi Panza, o nello spot di Vecchia Romagna, aggiungo io, è diverso da quello ascoltato in concerto. [...] Allo stesso modo un romanzo di Georges Simenon cambia se è pubblicato negli Oscar Mondadori o da Adelphi. 

Il problema si acuisce se l’opera d’arte pretende una fruizione collettiva perché in quel caso la tensione tra contenitore e contenuto si carica di un elemento liturgico, per non dire sacrale, che rende il pubblico protagonista. Quando Maranghi scrive che la Scala offre a Paolo Conte più di quanto Conte possa restituire alla Scala, credo stia parlando di questo: eseguita in quel teatro quella musica diventerà ancora più grande, ma il teatro diventerà più normale. E così siamo arrivati al secondo problema, quello del rapporto tra bellezza e mercato, che banalmente si esplica nel numero di pezzi o biglietti venduti.

 [...] è indubbio che oggi al Louvre non ci si possa più andare a vedere la Gioconda, ma a farsi vedere con la Gioconda. [...] Quando vado alla Scala, spesso, mi annoio, non capisco quello che dicono, a volte dormo e russo, perfino. Insomma, faccio fatica. E come me fanno fatica, basta guardarli, quelli che alla Scala sono venuti per il teatro, ma sono disabituati all’opera.

E però alla fine, ogni volta, esco sapendo che è solo grazie a quella fatica se ho avuto accesso a una bellezza a cui la mia epoca, per questioni di velocità e consumo, non mi permetterebbe mai di arrivare. E’ per questo, credo, che nello statuto del Teatro alla Scala c’è la difesa della musica lirico-sinfonica, non quello della musica in generale.

 Forse dovremmo abbandonare l’opposizione tra musica classica e leggera, perché niente è leggero come un’ouverture di Rossini, un’aria di Mozart o di Verdi. Ma la leggerezza che si prova guardando la luce e le nuvole in basso, dopo avere fatto la fatica della scalata.

Mi pare che la domanda di Piero Maranghi sia sul confine, quindi sui limiti del mercato e della massificazione, perché quello che è facile si vende sempre più facilmente, ma dopo il facile, viene il semplice e dopo l’ovvio e dopo niente.

 Ha ragione Alberto Mattioli a scrivere che alla Scala, fino alla fine dell’Ottocento, ci si ritrovava a mangiare, bere e fare casino, ma questo non riguarda la musica. Se per ragioni economiche il programma si allargherà [...], il contenuto renderà sempre meno speciale il contenitore fino a svalutarlo anche economicamente, e saranno sempre più rari quelli che avranno voglia di sobbarcarsi la fatica di Mahler, Wagner o Berio, ma neppure, temo, del maestro Paolo Conte (che comunque è nell’anima e dentro l’anima per sempre resterà).

Dagospia il 18 febbraio 2023. Estratto da “Misteri per orchestra”, di Filippo Facci (ed. Marsilio-Feltrinelli)

«La musica era poco più che un’occupazione da girovaghi o da servi, un mestiere come un altro, un artigianato, al limite una ricreazione pomeridiana per nobili rampolli.

 Di rado, nel Settecento, era ritenuta un’arte come lo sarà da Beethoven in poi: i musicisti, anche a corte, erano considerati dei domestici e mangiavano con la servitù. 

 Poi nell’Ottocento le cose cambiano, ma per comprenderle appieno bisognerebbe ambientarle come si deve.

 Prendiamo i teatri, per esempio: erano molto diversi da come li immaginiamo oggi.

 La Scala, per citare il più noto, al primo piano aveva una bottega del caffe in cui la gente s’intratteneva a leggere e oziare mentre venivano preparate bevande calde da servire nei palchi; al secondo piano c’era una cucina e una pasticceria e dei camerini per le cene, con gli aromi delle pietanze a spandersi per tutto il teatro; al terzo piano c’era una stanza per i commerci, come la Borsa di oggi, e una galleria dei giochi dove la gente litigava e non di rado si accoltellava.

 In ogni palco non mancavano i liquori e un braciere per cucinare o per scaldarsi, e le tende, rivolte verso il palcoscenico, si potevano chiudere cosi da farsi gli affari propri.

La musica, intanto, andava. Nel complesso, un baccano d’inferno: tra sguardi e ventagli, l’arte si mischiava all’intrattenimento, e nei teatri, illuminati con splendidi lampadari ad argands, i borghesi e gli aristocratici si ritrovavano anche per fare un po’ di caciara. E poi, senz’altro, per confabulare dell’ultimo e inspiegabile mistero».

Lettera di Piero Maranghi a Dagospia il 19 febbraio 2023.

Caro Dago,

c’è un diritto di primogenitura, in questo dibattito, che mi spinge a voler esser io ad offrire l’ultimo intervento, perlomeno nella fase pre-concertuale.

 Non l’avrei fatto dopo la splendida lettera di Giacomo Papi! Avevamo costruito una Torre di Babele, tutti insieme che, con la seconda uscita di Alberto Mattioli, è diventata un condominio, con i suoi centesimi e millesimi, la chiave per usare l’ascensore e gli schiamazzi del secondo piano.

 Proviamo a risollevare, da bravi meneghini, il valore dell’edificio.

La ‘rissa intellettuale’ di cui parla Mattioli la fa solo lui, direi principalmente con se medesimo.

Sui mali dell’opera, mi sembra che l’isteria melodrammatica con cui espone sia nociva almeno tanto quanto il conservatorismo arteriosclerotico che stigmatizza; io comunque non sono ascrivibile a nessuna delle due categorie, giusto per parlare un po’ dell’io che alberga in me.

 Ancora rilevo che gli ‘issimi’, riservati a Merlo, Gabanelli e Papi, lasciano un sapore fortemente  cerchiobottista, non aggiungono nulla, direi che abbassano e certo distraggono. Lo conforto confermando che, certamente, sulle linee artistiche, lui ed io, avremo sempre opinioni discordanti, ma anche qui direi chissenefrega, tutto attaccato.

Infine, siccome ha il buon gusto di spoilerare pubblicamente chi si incontra a casa mia, gli ricordo che tra i frequentatori assidui ci sono anche Pierluigi Panza (fronte del NO) e Giacomo Papi (secondo me anche quello di Papi è un NO e non un ni). Chissenefrega II di chi frequenta casa mia, mi viene da dire.

 In mezzo a tutta questa melassa, con immancabile riferimento al provincialismo italico e alla retorica del Tempio, vorrei riportare in primo piano i temi più rilevanti:

il tema è Cosa, non Chi

quando Papi dice che la musica di Paolo Conte in Scala diventa più grande ed insieme il teatro più normale, Papi dice il vero?

dopo il ‘precedente Conte’ chi decide saprà porre argini o è già un liberi tutti?

davvero opera, balletto, musica sinfonica sono così in crisi?  Mi spiego, tra 236 anni - Mozart/Da Ponte per Don Giovanni 1787- Conte o Paoli si ascolteranno ancora? Tra 215 – 5a Sinfonia di Beethoven 1808 - i pronipoti faranno le code per Mina o Dylan alla Scala? Tra 110 – Stravinsky e la Sagra della Primavera 1913 – si discuterà della musica rap e di Blanco che calpesta i fiori?

Un’ultima riflessione: ieri un dirigente del Teatro mi ha scritto che ‘con Conte incassiamo quanto con un opera lirica’. Appunto! gli ho risposto. Incassate quanto con un’opera lirica e spendete meno, guadagnate quindi, soddisfate quell’abominio della ‘cultura che fa mangiare’.

 Allora davvero vi aspettate che, per politici e amministratori, non sia questa la via più semplice per mandare in soffitta musica e teatro, che stanno lì da secoli, per dare, nella storia, un quarto d’ora di gloria a qualcosa che, per manifesta insufficienza strutturale, un secolo di vita, a parte rarissime eccezioni, proprio non lo può festeggiare?

Per un sano e schietto dibattito post-concertuale, parliamo di questo, il resto è rumore.

Tuo Piero Maranghi

 P.S. Per favore si smetta di dire che la musica pop è già entrata in Scala con i balletti su musiche dei Pink Floyd o Vasco Rossi, in quei casi citati il centro dello spettacolo è la danza, non la musica, musica su base registrata (Vasco o Pink Floyd non erano lì in teatro a suonare e non era il loro concerto).

Estratto dell’articolo di Luigi Bolognini per repubblica.it il 19 febbraio 2023.

Che il mondo della musica riesca a dividersi su Paolo Conte è un segno dei (brutti) tempi che viviamo. A 86 anni il cantautore […] stasera debutta alla Scala. E nasce la polemica, lanciata dal musicologo ed editore di Sky Classica Piero Maranghi, che premette che Conte è il suo cantautore preferito, poi affonda: "È uno schiaffo alla storia della Scala, costituisce un precedente assai pericoloso, non dà nulla al Teatro". […] Segue, appunto, dibattito. […] Ora proviamo a fare il punto con Francesco Micheli, finanziere e da una ventina d'anni nel Consiglio di Amministrazione della Scala.

Anzitutto, stasera andrà?

"No, ma per impegni personali presi da tempo. Tuttavia non so se sarei andato, per una serie di motivi".

 Parliamone.

"Anzitutto nei decenni passati i sovrintendenti italiani, penso a Ghiringhelli e Fontana, dissero no ad artisti come Charles Aznavour, Adriano Celentano, Bob Dylan, Ornella Vanoni, giganti della musica contemporanea. Paolo Conte è perfettamente sul loro livello: che gli sia stato detto di sì non è scandaloso, ma perché si disse di no agli altri?".

Può essere che sia stato fatto un torto agli altri, ma che male c'è se è stato evitato un torto a Conte?

"Nessuno, in sé. Ma sa, noi non sappiamo perché Conte è stato invitato e come […] Con Meyer prosegue una linea che già fu iniziata da Pereira e Lissner, i suoi predecessori, entrambi stranieri: noi veniamo informati sulle decisioni prese per la programmazione solo a cose fatte, non possiamo dire né sì né no, ci troviamo il calendario di fronte o lo leggiamo sul giornale".

 E lei cosa avrebbe votato su Paolo Conte?

"Mi sarei dichiarato agnostico. […] Io amo la musica d'arte, che può essere classica, strumentale, lirica, jazz, pop, rock, quella amo e quella vorrei sentir suonare. Come diceva Bernstein, la musica si divide in solo due generi, bella e brutta […] Però c'è la questione del trascendente. In molte chiese si è deciso di non suonare più Bach, ma di affidare la musica a ragazzi con chitarre che la suonano pure male. Risultato, si è allontanato chi nella messa, nelle chiese, cercava anche la trascendenza”

 […] “Io dico che la Scala dovrebbe avere spazi e tempi per mettere in programma classici del pop e del rock, magari in concerti pomeridiani, e la sera eseguire - che ne so ?- il Fidelio. Sa qual è il rischio? Quello del teatro di repertorio".

Estratto dell’articolo di Andrea Laffranchi per il “Corriere della Sera” il 20 febbraio 2023.

[…] L’Italia della musica si è spaccata sul concerto di Paolo Conte alla Scala. La polemica è rimasta fuori dal foyer ieri sera. Chi era qui — circa 2mila spettatori per un sold out arrivato in 24 ore — non aveva dubbi sulla titolarità dello chansonnier astigiano.

 Per un’ora e mezza, spettacolo diviso in due tempi, il teatro milanese si è lasciato avvolgere da atmosfere inusuali per quei velluti e quegli stucchi. La classe, nel foyer e sul palco, però era quella cui il teatro è abituato.

Conte, 86 anni, ha messo lì la sua voce graffiata, quel suo modo di cantare dolente e allo stesso tempo ironico di uno che ne ha viste tante nella sua lunga vita. […] E non solo perché ha fatto anche l’avvocato nello studio di famiglia. Ci sono poi le sue canzoni che hanno spesso un appeal più sottile di quanto ne avesse l’opera quando nacque come divertimento popolare: ritmi vintage, tocchi jazzati, serate fumose.

Abito scuro e t-shirt, il cantautore entra in scena e si protegge gli occhi dalle luci. Applausi. Si siede al piano e via, con un ensemble di undici elementi e tre coriste, a ricamare racconti, a far viaggiare la mente nel tempo e sul mappamondo, a portare storie di una volta ma universali e sentimenti privati ma che toccano tutti, a regalare «quintali di poesia» come dice «Recitando», uno dei brani del primo atto. Che si era aperto con il viaggio di «Aguaplano» e la prima ovazione a «Sotto le stelle del jazz».

Non c’è scenografia. solo il pianoforte di Conte al centro e le pedane per i musicisti. […] Le protagoniste sono le canzoni, ancora più di quanto non lo sia Conte. Si alza per un paio di brani, inforca gli occhiali da sole. E prima dell’intervallo piazza «Dal loggione», storia di sguardi e gelosie dall’interno di un teatro.

 Nel secondo atto «Via con me» è il colpo che non può mancare, la canzone italiana ai suoi massimi livelli espressivi. «Diavolo rosso» è una cavalcata senza confini con i musicisti liberi di andare. Bis vero con «Via con me», cori e battimani del pubblico a tenere il tempo.

Nei giorni scorsi era stato Piero Maranghi [dopo un articolo di Dagospia, ndR], editore del canale Classica HD (Sky), a parlare di «profanazione» e «schiaffo» alla tradizione della Scala con una lettera al Foglio . Fra chi gli aveva risposto Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla Cultura, che anche ieri sera sottolineava l’idea di una musica «universale».

 Dominique Meyer […] accoglie gli ospiti nel foyer e si toglie qualche sassolino dalle scarpe. È stato lui, su sollecitazione di Caterina Caselli, a trovare un buco nel cartellone e ad accettare la sfida. «Una polemica di piccola gente che vuole tenere tutto per sé. La Scala non è un piccolo club, è un teatro aperto. Preferisco chi costruisce ponti a chi innalza muri».

 Per il premio Oscar Paolo Sorrentino, «Conte non ha scritto solo canzoni ma ha creato un immaginario». […] Anche Vinicio Capossela gioca con l’ironia: «In fondo le opere sono canzoni eseguite con una maggiore estensione vocale». […] Madame, reduce da Sanremo, rappresenta un mondo lontano anche da quello dello chansonnier: «È una sfida aprire al cantautorato e speriamo che questo spettacolo sia soltanto l’inizio di una lunga serie».

Estratto dell'articolo di Paolo Giordano per ilgiornale.it il 14 gennaio 2023.

Asti. «E dire che alla Scala non ci sono mai entrato come spettatore». Ci entrerà da protagonista, Paolo Conte, […] per la prima volta alla Scala, signore e signori. E la stella in scena ha appena compiuto 86 anni. 

 «Nella mia vita ho fatto grandissimi teatri come il Barbican di Londra o il Philarmonic di Chicago ma la Scala è il teatro della nostra lirica, di Verdi e di Puccini, a proposito Verdi è il mio preferito sin da quando ho ascoltato una sua aria e sono caduto folgorato dal cavallo a dondolo[…] Eh certo che in passato alla Scala avrei sognato di vederci Louis Armstrong o Art Tatum».

Ora Paolo Conte ci suona prima di Bob Dylan, che è in attesa di avere il permesso da anni.

«Bob Dylan ha fatto cose importanti ma, se penso all'Accademia di Svezia e tiro il bilancio della scuola italiana della canzone d'autore, da un punto di vista letterario abbiamo dato molto di più noi, anche dei francesi. E forse non ci è stato riconosciuto».

 […] 

Suonerà anche Azzurro? Di solito non è in scaletta.

«Vedremo. Di certo quando l'ho sentita cantare sui balconi durante il lockdown ho capito che è diventato quasi l'altro inno italiano. Non so ancora quale sarà la scaletta ma tre pezzi sono praticamente fissi: Via con me, Sotto le stelle, Gli impermeabili».

[…]

 Lei ha vinto tante targhe Tenco. Quest'anno l'ha vinta anche Marracash, un eroe del rap. Più rivoluzionaria la sua vittoria oppure Paolo Conte alla Scala?

«Forse è più dirompente che io vada alla Scala».

 […]

 A proposito, San Siro?

«A me piace. Lo lascerei dov'è».

 Tifoso milanista.

«Ma tiepido».

[…]

 Le hanno mai chiesto di fare il super ospite a Sanremo?

«A me no, alla mia manager sì. Ci andrei? No».

Paolo Rossi: «Quell’incidente con Berlusconi al Maurizio Costanzo Show. Da allora faccio satira politica». Giovanna Maria Fagnani su Il Corriere della Sera domenica 27 agosto 2023.

La colpa è di Jannacci e del Cavaliere: il comico e cantautore lo racconta in un podcast a Daniele Tinti e Stefano Rapone . Tanti gli aneddoti: dall’incontro con Renato Vallanzasca alla battuta rubata a Ignazio La Russa

«Giurate che non fate facce quando Berlusconi parla». È il 1994 e Paolo Rossi e Enzo Jannacci sono ospiti al Maurizio Costanzo Show per promuovere la loro tournée. Solo che è una puntata storica: sul palco c’è Silvio Berlusconi che parla della sua discesa in campo e per l’occasione non c’è il solito semicerchio. «Il Cavaliere è seduto davanti, Costanzo a sinistra e voi siete dietro, però venite nella stessa inquadratura» spiega lo staff Mediaset a Rossi e Jannacci. Da lì la raccomandazione e la pronta risposta: «Guardi, noi siamo comici, non possiamo promettere niente».

Paolo Rossi cominciò a fare satira politica per colpa di un «incidente» con Berlusconi che avvenne proprio dietro le quinte di quella puntata. L’attore e cantautore lo ha raccontato a «Tintoria», il podcast di Daniele Tinti e Stefano Rapone co-prodotto da The Comedy Club. Registrato live al Castello Sforzesco di Milano nei giorni scorsi (una serata sold out con 2 mila spettatori), si potrà ascoltare su tutte le piattaforme da martedì 29 agosto alle 12.30. Posto che i due non erano in grado di assicurare di «non fare facce», si accordarono per entrare in scena dopo l’intervento di Berlusconi.

Lo staff li avvisò di stare pronti a entrare in scena. «Io ero davanti, Enzo era dietro con la chitarrina, scende il Cavaliere dalla scala, mi passa vicino e si mette là— racconta Rossi nel podcast— a un certo punto Enzo, preso da uno dei suoi momenti di bizzarra follia, grida “ladro”!. Ma, furbo, urla “ladro” e si abbassa. Il Cavaliere si gira. E chi ha visto? E allora ho cominciato a fare satira politica ma solo per quell’incidente in pratica. A quel punto dovevo continuare, non c’era verso».

Un aneddoto esilarante, ma non l’unico. Prima di fare satira, infatti, nel camerino che condivise quella sera con il Cavaliere, Rossi spiega di aver fatto «l’unica cosa concreta contro Berlusconi. Gli ho fatto fuori tutto il catering. Anche i cannoli, li ciucciavo e glieli mettevo di culo». Ma durante la chiacchierata con Rapone e Tinti, l’attore ha ricordato anche l’incontro con Renato Vallanzasca. Il direttore di Opera lo aveva chiamato, spiegandogli che c’era un carcerato, in libera uscita dopo 38 anni, che era suo fan, aveva tutte le sue videocassette e voleva conoscerlo.

Era proprio il «bel Renè», il re dei banditi di Milano. Lui lo invitò alla serata per i 20 anni di Zelig, facendo segnare l’invito solo per «Renato» e indicandolo come il suo nuovo agente. «Lui arriva in camerino e tutti lo riconoscono. E tutti questi qui, “per bene”, gli dicono “onorato”. Ma come onorato? È un criminale. Sarà simpatico ma è un criminale. E lì ho capito che metteva male» ha spiegato il comico. Ma il meglio doveva ancora venire.

Rossi si raccomanda al direttore, nonché presentatore, Giancarlo Bozzo, di non dire al pubblico che tra loro c’è Vallanzasca. «Vuoi mai che la gente è così ignorante che gli chiede selfie, autografo». Bozzo lo rassicura ma poi non resiste e lancia la serata così: «È 20 anni che Zelig è aperto! Vorrei sapere chi in 20 anni non ha trovato una sera per venire allo Zelig». Il mattino dopo Vallanzasca si fa vivo al telefono: «È un tuo amico il presentatore?». E Rossi: «No è uno alle prime armi». Perché, gli dice il bel Renè «Sai ,a volte a volte uscire così, senza ferro (la pistola, nello slang della malavita)».

Ma nella puntata si parla anche di Pino Insegno, di Ignazio La Russa, vero autore della battuta «Moriremo tutti democristiani». Domenica 10 settembre, Paolo Rossi sarà ospite a «Il Tempo delle Donne», la festa-festival del Corriere della Sera alla Triennale di Milano, in occasione dell’uscita del film di Giorgio Verdelli «Enzo Jannacci - Vengo anch’io» che verrà presentato fuori concorso a Venezia e che vede testimonianze di Rossi, Verdelli e Paolo Jannacci.

Paolo Rossi e la figlia Georgia: «Ho tre famiglie», «da bambina mi terrorizzava con l’imitazione di Shining». Roberta Scorranese, inviata a Trieste, su Il Correre della Sera il 23 maggio 2023.

L’attore e la secondogenita Georgia si raccontano. «In comune abbiamo il fatto che piangiamo per qualunque cosa»

Paolo Rossi è un uomo diviso: tra la casa di Milano e quella di Trieste, tra tre famiglie, tra l’istinto casalingo e le tournée teatrali. «E adesso anche tra due cognomi», annuncia seduto sul divano del suo appartamento triestino, «mi faccio chiamare Paolo Rossi Kobau». Sua figlia Georgia, 29 anni, alza gli occhi al cielo: «L’ho scoperto oggi, per caso, su Wikipedia».

Il cognome di sua nonna.

PAOLO: «Me l’hanno cambiato di là (indica la vicina Slovenia, ndr), l’ho lasciato».

GEORGIA: «Peraltro, forse nemmeno ci chiamiamo davvero Rossi». 

Già, in «Chissà se è vero», il libro che avete scritto a quattro mani, c’è il racconto della vostra famiglia: pare che il nonno di Paolo non sia stato il suo vero nonno.

P: «Jannacci diceva: “Una storia è bella? Allora è vera”».

G: «Una sera a Napoli Paolo mi rivelò che in famiglia c’era questo segreto-non segreto, perché pare che tutti sapessero ma nessuno ne parlava. Chissà chi era il mio vero bisnonno, forse un pescatore di passaggio. O un marinaio».

Che famiglia incasinata.

P: «Quale delle mie tre famiglie?».

In effetti, lei ha tre figli da tre donne diverse. Georgia è la seconda, il primo è Davide e l’ultimo è Shoan.

P: «E Georgia è riuscita anche a farmi saltare la tournée di Capodanno perché è andata a nascere il 31 dicembre».

G: «Ma se eri sempre in giro a fare spettacoli!».

P: «Ma quando mai! Oddio, è vero che qualche volta, per sfuggire alle feste comandate, con altri attori cercavamo di inventarci delle tournée natalizie. Però quelli come me non hanno un mercato natalizio comico, ahimè».

Ma almeno, Georgia, quando era a casa la faceva ridere con qualche battuta?

G: «No, anzi. Mi terrorizzava facendo l’imitazione di Jack Nicholson in Shining».

P: «Eravamo in Lucania, un albergo sperduto nel nulla, noi i soli clienti, fuori i lupi. Lei si spaventò, ma pure io venni umiliato, perché la sera, in tv, diedero quel film e insomma, di fronte a Jack Nicholson originale io sparivo. Sfortuna. Un po’ come quando feci l’imitazione di un imprenditore edile e questo diventò premier. Oops!».

Georgia, in privato, mi ha detto che lei, in fondo, è un papà affettuoso.

P: «Vorrei vedere: ho assistito in sala operatoria a tutti e tre i parti».

Anche se nel libro la chiama «L’impostore».

G: «Perché con lui non sai mai quando sta dicendo la verità o quando sta recitando».

Il primo spettacolo di papà al quale ha assistito?

G: «Non ricordo, ma rammento che a ogni spettacolo, a un certo punto lui si metteva a parlare di Berlusconi. Ecco, io ho imparato chi era B. dagli spettacoli di mio padre».

P: «Silvio mi deve molto».

Davvero? E che cosa?

P: «La parola Bunga-Bunga, per esempio. Era una storiella che io e altri colleghi raccontavamo in Comedians, spettacolo in scena all’Elfo negli anni Ottanta. Poi, in qualche modo, qualcuno l’ha portata negli ambienti Mediaset».

Ma no.

P: «E secondo lei di chi è la battuta “Si muore tutti democristiani”, da cui mio figlio Davide ha tratto il titolo di un suo film? Di Ignazio La Russa. Ci incontrammo a San Siro, vollero farci una foto insieme e io chiesi che almeno ci fosse lo striscione dell’Inter. Quando ci salutammo, mi disse proprio quella frase».

Per chi avete votato alle ultime elezioni?

G: «Io Pd. Ma Elly Schlein non mi piace, almeno per quello che ho visto finora».

P: «Io non voto da tredici anni, da quando mi candidai (in Lombardia al Consiglio Regionale per la Federazione della Sinistra, ndr). Ma non votai nemmeno quel giorno: mi guardai allo specchio, non mi fidai di me stesso e rimasi a casa. Forse sono stato l’unico candidato nella storia a non aver votato per sé stesso».

G: «Paolo ha idee molto radicali in fatto di politica».

P: «Coerenti. Io sono per le ronde culturali: girano per strada e chiedono, a campione, di recitare il V canto della Commedia. Non lo sai? Via, in campo di concentrazione».

G: «E se uno nella vita vuole solo fare, poniamo, pasticcini e non interessarsi a altro?».

P: «Parafrasando il più grande di tutti, Mourinho, “uno che sa tutto di dolci non sa niente di dolci”».

Ma c’è qualcosa che vi mette d’accordo?

G: «Tutti e due ci commuoviamo facilmente. Io piango per tutto: quando qualcuno vince un premio a un quiz, davanti alle pubblicità».

P: «Io piango con Quella casa nella prateria. Assurdo».

Forse anche il lavoro. Georgia è autrice teatrale. Avete mai lavorato insieme?

G: «Lasciamo stare».

P: «Uh, ti ricordi quella volta in Sardegna? Dunque, andò così: misi su un laboratorio teatrale assieme a lei. Tutto filava liscio, peccato che la squadra di attori che avevamo assoldato — e che in paese doveva fingere di essere una rock band —, prese troppo alla lettera il “mescolarsi” con gli abitanti del posto e uno di loro cominciò a corteggiare una tipa. Finì in rissa».

G: «D’altra parte, tu come testo di base non avevi adottato, come tutti, lo Stanislavskij o Brecht, ma il manuale di addestramento del Kgb».

P: «Il migliore, ragazza».

Paolo a Trieste, Georgia a Milano. Vi vedete spesso?

G: «Per fortuna no» (ridendo).

P: «Ma sentila!».

G: «A proposito, so che stai girando un film».

P: «Faccio la parte di un prete. Tranquilla, a modo mio».

Però Paolo conosce molti personaggi dello spettacolo, forse per lei, Georgia, questo può essere divertente.

G: «Racconta di quella volta che ti chiamò Morgan».

P: «Mi telefonò nel cuore della notte, depresso fin nel midollo. Cioè, capite: Morgan che, a terra, chiama me. Comunque, io per distoglierlo dai pensieri neri, gli dissi: “Dai andiamo a fare una rapina a casa di Fabio Fazio”. E passammo la notte a fare una piantina della casa di Fazio. A proposito, Fabio, se stai leggendo ti mando un bacio».

Georgia, a un papà così divertente si perdona tutto.

G: «Quasi».

P: «Ma è colpa mia se io i bambini fino a cinque anni non li capisco?» (ride).

G: «Già, sono l’unica femmina tra due maschi. Loro tre giocavano a pallone e a me toccava stare in porta».

Ma il fatto che Paolo viva da solo a Trieste un poco la preoccupa?

G: «Tempo fa si è sentito male, abbiamo attivato i soccorsi per telefono, peccato che quando sono arrivati lui ha fatto finta di stare bene, ha sminuito il malessere, che non era una sciocchezza».

Paolo, perché?

P: «Perché se lavori in teatro non ti puoi permettere di stare male, mento a me stesso per curarmi e per ristabilire una realtà storica diversa».

G: «Una parte di me considera queste frasi inconcepibili, però dentro di me c’è una Georgia che lo capisce».

E poi, Paolo, lei ha tanti amici e colleghi che le telefonano tutti i giorni.

P: «Dopo le polemiche per la sua annunciata partecipazione a un festival in Russia, mi ha chiamato Pupo, lamentandosi: “Guarda come mi trattano, Paolo”. E io: “Pupo, ti stanno trattando come Dostoevskij”. E lui, senza battere ciglio: “Hai ragione, è proprio così”».

Estratto dell’articolo di Matteo Persivale per il “Corriere della Sera” il 17 marzo 2023.

«Senti, ho fatto e detto cose di cui non vado fiera. Giravo con quegli orridi cappellini da camionista firmati Von Dutch. Una volta sono andata a una festa di Halloween alla Playboy Mansion vestita da Sexy Pocahontas. A diciott’anni mi sono ubriacata a una festa e ho cantato un versione volgarissima di Gin and Juice di Snoop Dogg — conoscevo tutti i testi delle sue canzoni. Rifarei le stesse scelte, se avessi saputo allora tutte le cose che so adesso? Ovviamente no! Niente di tutto ciò riflette la persona che sono ora».

[…] «Paris: The Memoir» […] resta […] una testimonianza interessante per capire come l’inventrice, di fatto, dell’idea stessa di «influencer» trasformata poi in oro da imprenditrici più abili di lei a utilizzare i social media, sia rimasta clamorosamente spiazzata dalla sua invenzione.

 […] Nei primissimi anni 2000 l’erede dell’impero alberghiero (oggi ha 42 anni) formulò il modello di business dell’influencer, o almeno ne espose le premesse: creare un «personal brand» basato sulla propria bellezza, lo stile di vita da miliardaria, Los Angeles e gli aerei privati, utilizzando Internet per diffonderlo esponenzialmente nel mondo. Però allora Facebook non c’era (nacque nel 2004 per far socializzare gli studenti di Harvard), Twitter non c’era (2006) e soprattutto non c’era Instagram (2010). […]

È interessante leggere oggi Hilton, mamma 42enne, baby-pensionata del selfie, perché davvero creò il suo brand con spaventoso istinto per ciò che funziona online ma anche con altrettanto spaventosa incapacità di distinguere tra il trash e tutto il resto. […] E così di «trashata» in «trashata» Paris si racconta. Scrive del rapporto nato male con Playboy : «Vivevo con due playmate, conoscevo Hugh Hefner, mi chiese di posare per la rivista: continuava a offrirmi sempre più soldi, diceva che potevo non essere completamente nuda ma solo in topless, oppure con lingerie». Alla fine Hefner mise una foto trovata in un vecchio servizio di provini, e il numero vendette benissimo grazie al nome di Paris «perché la gente si aspettava di vedermi nuda all’interno della rivista. Risultato: i miei genitori incazzati, io in lacrime».

E ci inquieta con il racconto del rapporto, in terza media, con l’insegnante carino: «Tutte le ragazze della mia classe erano innamorate di questo bel giovane insegnante che pareva un modello di Abercrombie: tutte lo adoravano, comprese le suore».

Valentina Ariete per “la Stampa” - Estratti lunedì 13 novembre 2023.

Grazie alla sua versatilità, e alle grandi doti da ballerino - come ci tiene a sottolineare -, Lillo ormai è una dose di energia assicurata. Anche per gli amici. 

Cos'è l'amicizia per Lillo?

«Per me è fondamentale: ho investito più di altri nell'amicizia e nell'affetto, perché, a parte mia moglie e i familiari più stretti, non ho avuto figli. Quindi ho sempre avuto molto spazio per gli amici». 

Con un amico ha anche creato una coppia di successo: Lillo e Greg.

«Sì, noi abbiamo cominciato come amici: ci siamo frequentati per sei anni prima di lavorare insieme. La band Latte e i suoi derivati è arrivata molto dopo. Quindi possiamo dire che tutto è nato dall'amicizia». 

È più facile o più difficile lavorare con gli amici?

«Cerco sempre, finché posso, di crearmi un gruppo di persone a cui voglio bene. O con cui comunque sto bene. Sono uno di quelli che ha bisogno di un clima rilassato sul set. Poi c'è anche chi lavora bene sotto stress. Ma io no». 

A Lucca Comics & Games 2023 ha presentato Elf Me, film ambientato durante le feste, che arriva su Prime Video il 24 novembre: che cosa fa Lillo a Natale con gli amici?

«Mi piace giocare: giochi da tavolo, giochi di carte. Evito solamente la tombola: ho sofferto troppo da piccolo con mia nonna che ci faceva fare sei ore di tombola partendo dalle tre del pomeriggio! Quindi ho un problema solo con quel gioco. Per il resto mi piace tutto». 

Nel film c'è anche Caterina Guzzanti, con cui vi frequentate davvero, e che ritrova dopo la partecipazione a LOL - Chi ride è fuori. È sempre bello lavorare con lei sul set?

«Caterina è fantastica. In questo film un po' meno però: è l'assistente di Babbo Natale, particolarmente pignola, che proprio non sopporta il mio personaggio, un elfo casinista». 

A Lucca c'è stata anche una mostra dedicata alla sua passione per le miniature: come è nata?

«È partito tutto dal fatto che non rimorchiavo. Mi sono detto: a questo punto se resto a casa dipingo. 

Perché le piace così tanto? Tra l'altro questa passione la avvicina a Trip, l'elfo che ama costruire giocattoli che interpreta in Elf Me.

«Dipingo una mezz'oretta, prima di andare a letto, tutti i giorni. In quel momento va via tutto e l'unica cosa a cui penso è fare un'ombreggiatura particolare sulla faccia di quell'orco. È una cosa quasi zen per me. Mi insegna a essere presente in quel momento». 

Regala miniature a Natale?

«No, me le regalo io! Sono ancora uno di quelli che ama ricevere giocattoli a Natale. Preferisco una miniatura da dipingere a un orologio». 

(...)

Quando era piccolo aveva tanti amici?

«Ero un bambino timidissimo. Giocavo ai soldatini da solo, col fortino. Ho sofferto il fatto che mia madre mi costringesse a giocare con i figli delle sue amiche, che puntualmente mi distruggevano tutto». 

(...)

L'idea di Elf Me è di Gabriele Mainetti, che le ha fatto girare una scena alla E.T.l'extra terrestre. Com'è stato volare con le biciclette? Si è sentito di nuovo bambino?

«In realtà mi sento più la risposta italiana a E.T.! Devo ringraziare Gabriele, Goon Films e Lucky Red, che hanno prodotto il film: finalmente anche noi ci possiamo permettere di raccontare storie come questa, che fanno sognare, con tanti effetti speciali. Amo moltissimo i film di fantasia».

Ha amici tra i nuovi comici italiani?

«Amo la nuova generazione di comici. Credo, da comico maturo, che sia importante esaltare i giovani che ti piacciono. Perché il futuro della comicità è nelle loro mani. Ultimamente ci sono molti giovani talenti che mi piacciono: sicuramente Fanelli e Lundini, con cui ho lavorato nella serie Sono Lillo. Ma ce ne sono anche tanti altri. Per me che faccio questo lavoro da ormai 30 anni è piacevole vedere nuovi talenti che fanno cose che mi divertono molto».

"Il titolo perfetto era con il punto interrogativo". Sono Lillo, il lato oscuro dello show business: “Con Posaman racconto l’uomo dietro la maschera”. Chiara Nicoletti su Il Riformista il 5 Gennaio 2023

«Il titolo perfetto per questa serie, per raccontare cos’è veramente, doveva essere Sono Lillo?, con il punto interrogativo, perfetto per spiegare quella forsennata ricerca di quello che siamo veramente e che sfocia per forza di cose, spesso e volentieri, in situazioni tragicomiche, che fanno ridere». Pasquale Petrolo in arte Lillo, riassume in poche righe l’obiettivo degli 8 episodi di cui si compone la serie original Sono Lillo, da lui creata e scritta assieme a Matteo Menduni e Tommaso Renzoni in esclusiva su Prime Video dal 5 gennaio.

Presentata in anteprima lo scorso ottobre alla Festa del Cinema di Roma, Sono Lillo vede il protagonista, un comico molto meno arrivato e navigato del suo interprete, in conflitto con il suo personaggio più famoso, Posaman. Chi non avesse seguito Lol, il programma comico di Prime Video che metteva in una stanza 10 comici sfidandoli a non ridere per ben 6 ore consecutive, sappia che, in quell’occasione, Lillo, aveva dato vita appunto al tormentone di Posaman, il cui superpotere è fare pose a comando, con un limite di 6. In bilico tra realtà e finzione, Sono Lillo riflette sul significato di comicità e soprattutto sull’odio e amore verso il proprio successo.

«Secondo me rappresenta un po’ la paura che ti fa qualcosa di tuo che poi appartiene a tanti», spiega Lillo accanto al regista Eros Puglielli, lo stesso dell’ultimo film dell’attore, Gli Idoli delle donne del 2022, in coppia con il suo compagno d’arte storico, Greg. Prosegue: «Credo che sia una una fobia che abbiamo naturalmente quindi anche noi attori comici, che siamo sempre alla ricerca dell’approvazione degli altri nel nostro lavoro. C’è questa incongruenza, qualcosa che piace troppo al pubblico e che ti fa fermare e chiederti: ‘ma che è successo? perché questo sì e quell’altra cosa che ho fatto no?».

È da questa paura che nasce Sono Lillo e l’interrogarsi su Posaman, collocandolo come unico successo di un Lillo di un altro universo, uno in cui non è stato così fortunato professionalmente. «Interpreto un comico che arranca nella sua carriera e che funziona solo come Posaman, un supereroe che alla fine odia. Una cosa che poteva capitare anche a me se la mia carriera fosse andata in maniera diversa», confessa. E ancora: «Posaman è interessante per me anche a livello psicologico, nella serie io sono effettivamente me stesso, con tutte le mie insicurezze e con tutte le mie paure, ma sono trasportato in un altro multiverso. Mi interessava la chiave di racconto autoironica, umoristica, l’idea di divertire perché per me è la cosa più importante».

A differenza di quello che può sembrare fin dal titolo, Sono Lillo è serie corale e come tale si avvale di un folto gruppo di fuoriclasse della risata e della recitazione, a cominciare da due attori che sono pure star della serialità italiana, in vetta alle preferenze nell’epocale Boris 4, su Disney+: Paolo Calabresi e Pietro Sermonti. Quest’ultimo interpreta il migliore amico del malcapitato Lillo e suo agente, una doppia veste che causa un bel po’ di problemi e situazioni comico-demenziali, prima fra tutte l’ingaggio che gli procura al matrimonio organizzato da una famiglia appartenente a un clan camorristico. Ne svela i retroscena Sermonti: «Quello è un innesco efficace di inizio serie secondo me, l’essere catturati violentissimamente dalla camorra. Fa parte del deragliamento della popolarità. Io ho passato l’estate in montagna con Lillo dopo Lol e sembrava di stare con Papa Francesco, per fortuna i camorristi non si sono fatti vedere ma il rischio ogni tanto è quella violenza affettuosa. Con Lillo sul set si gioca come dei bambini, senza pudore alcuno».

E a proposito di popolarità stile Papa, nella realtà Lillo rivela di essere molto legato a Posaman perché gli ha permesso di raggiungere un pubblico più vasto: «Posaman ho avuto la fortuna di viverlo dopo una carriera lunghissima, quindi un successo stra popolare. Per me è stata una cosa bellissima crearlo, colpire un pubblico così vasto compresi i bambini che sono un pubblico meraviglioso perché senza sovrastrutture. Un bambino non dice: ‘forse lo devo rivedere!’, o gli piace o non gli piace una cosa». Non tutti sanno che Lillo è sempre stato un fan dei supereroi e dei fumetti. Posaman è solo l’ultimo di una serie di maschere supereroistiche da lui create negli anni: «La metafora del supereroe è importante», ha rimarcato in conferenza. «Sono un gran appassionato di fumetti, vengo da quel mondo lì e volevo anche diventare fumettista. Ho inventato anche altri supereroi come ad esempio Normalman, un uomo che diventa improvvisamente cento volte più intelligente, più agile, più forte ma che parte svantaggiato dall’essere cento volte più stupido. Insomma i supereroi che creo sono sempre improbabili».

Non solo uomini attorno a Lillo nella serie ma molte icone della commedia e della stand up comedy come Caterina Guzzanti (altra star di Boris), Michela Giraud, Emanuela Fanelli e un’attrice, Sara Lazzaro, che nonostante successi come Doc – Nelle tue mani con Luca Argentero, dimostra ora tutti i suoi tempi comici nel ruolo della moglie del protagonista. Si dice che per conquistare una donna bisogna farla ridere ma per Marzia, moglie di Lillo, questa vita sconclusionata del marito è diventata un po’ troppo e lo lascia. Questo è il motore del cambio vita del comico nella serie. Lillo elogia la sua co-protagonista femminile: «Io ne ho una vera di moglie a casa che conosco da ventotto anni e così mi ha fatto un po’ strano dovermi confrontare con un’altra sul set. Ma la Lazzaro è talmente autentica che mentre giravamo mi sembrava poi strano tornare a casa da mia moglie nella vita reale. Sara ha dei tempi comici pazzeschi, perfetti per la comedy».

Risponde Lazzaro: «La cosa che ho percepito è che dovevo portare un personaggio dalla solidità drammatica, all’interno di un universo comico. Lei lo lascia quindi in lui scatta questa necessità di ritrovare se stesso, di staccarsi da Posaman. È stato interessante insinuarmi all’interno di questa dinamica e al contempo portare una comicità che arriverà dal quarto episodio in poi». Dalla conferenza stampa alle interviste per la serie, Lillo ci tiene a sottolineare che Sono Lillo «parla di tante cose e nonostante il titolo egoriferito, è una serie in cui possono ritrovarsi tutti».

Lo conferma anche Eros Puglielli che la definisce anche come un percorso di ricerca: «Fianco a fianco con Lillo e gli sceneggiatori, il mio compito è stato costruire questo mondo molto matto, spostato e questa dimensione un po’ parallela a quella nostra in cui accadono degli eventi particolari. In un certo senso rappresenta l’esplorazione della ricerca di sé, il rifiuto o l’accettazione di se stessi, discorsi abbastanza comuni e universali. In questa esplorazione, il nostro protagonista è circondato da matti, che non lo aiutano, gli danno sempre consigli sbagliati e la maturazione è una conquista che questo personaggio deve fare da solo». Si può ipotizzare una seconda stagione? Puglielli conferma: «Certo che sì, noi proponiamo un universo che si può espandere all’infinito». Rimane da aspettare l’ultima fatica di Posaman, la settima posa. «Essendo la definitiva che chiude tutto l’arco – si giustifica Lillo – ci vorrà un annetto». Chiara Nicoletti

Dagospia il 3 ottobre 2023. Anticipazione da Belve

Patty Pravo racconta a Francesca Fagnani nella seconda puntata di “Belve” la sua vita piena di eccessi e sregolatezze. Quando si parla di droghe la conduttrice chiede se le ha provate proprio tutte, e la risposta della cantante è chiara: “Certo, ma chi è che fa questo mestiere senza anfetamina?” Sono più timidi a dirlo? “Non perché sono timidi, non lo dicono proprio”. La Fagnani a quel punto incalza: parla degli anni ’70 o anche di oggi? E la cantante conferma: “In generale”. E quando la conduttrice chiede degli effetti, la cantante spiega: “Stai sveglio: lavori talmente tanto che alle volte non dormi assolutamente, hai molta vitalità”. 

Patty Pravo racconta anche i suoi amori, così tanti che quando la Fagnani chiede scherzosamente l’elenco dei suoi mariti fa fatica anche lei a metterlo insieme. Dopo cinque matrimoni di cui, in un momento della sua vita, tre contemporanei, la Fagnani chiede se è rimasta in buoni rapporti con tutto lo staff. La cantante risponde divertita: “Beh, quasi con tutti”. 

La Fagnani ricorda anche i molti viaggi della cantante e delle dichiarazioni di Ornella Vanoni, che sull’argomento ha dichiarato che la Pravo racconta delle balle stupende. La cantante reagisce divertita: “Ma sai, Ornellì dice queste cose perché si diverte…” la Fagnani ribatte: ma la Vanoni dice che non è vero che ha fatto la transoceanica. E a quel punto Patty Pravo: “Ma certo che è vero, perché dovrei raccontare una cazzata del genere?”.

Patty Pravo racconta anche gli albori del suo successo, arrivato da giovanissima. Quando la Fagnani chiede se l’ha saputo gestire o ne è stata travolta, la cantante rivela: “Travolta no, ma papà mi diede la maggiore età a 16 anni, non sapevo assolutamente nulla di tutto questo; mi dedicavo e lasciavo che gli altri facessero”. Fagnani chiede: che gestissero i soldi? E la Pravo conferma: “Esatto”. La conduttrice continua: l’hanno anche un po’ fregata? La risposta della cantante è chiara: “Certo, e non solo loro”.

Estratto dell'articolo di Marinella Venegoni per “la Stampa” il 14 aprile 2023.

Tutto, in Patty Pravo, parte sempre da Venezia. La città dov'è nata, la città che par di capire le andava stretta fin da adolescente. Allevata dai nonni paterni, affezionatissima al nonno Domenico direttore dei Tabacchi, alla sua morte decise che lì non ci voleva più stare: «Ho annunciato alla nonna che dopo otto anni ero stufa del Conservatorio e, con la scusa di un corso d'inglese, sono saltata in auto con alcuni amici e siamo andati a Londra», ricorda. Era il 1965.

L'inglese s'imparava anche per strada, la curiosità della bellissima fanciulla andava altrove, alle zone più appetibili della Swinging London: «Ci si infilava a ballare, si cantava.

E mi sono scatenata nelle strade della moda, sono andata da Biba e sì, non mi sono persa neanche Mary Quant, mi ricordo anche di averla vista. Ho fatto il pieno di vestiti, poi sono andata a Roma e sono approdata al Piper».

 Chiedere particolari alla memoria di Nicoletta Strambelli è un po' complicato, quel che è certo è che era una ragazza molto sveglia, e sostiene anzi che lei nell'epoca della minigonna ci entrò da prima, danzando: «Mi piaceva, come a tutte le ragazze, e la mettevo. Era nell'aria, e anzi la mettevo già prima: mi ricordo che prendevo un sacchetto di stoffa (allora era beige), tagliavo il fondo, me lo infilavo e stringevo in vita il laccetto della parte superiore, come cintura».

«[…] In quel periodo a Londra c'erano minigonne da tutte le parti: Mary Quant fu geniale, perché riuscì a pubblicizzare questa novità della minigonna che però era già nell'aria, e se ne impadronì, la ufficializzò, fece una pubblicità moderna, le diede un'impronta fino a farla diventare una cosa sua. Dalla sua parte aveva Twiggy. Nel suo negozio poi non si trovavano solo le minigonne, c'erano i prodotti di bellezza, il trucco che cambiava e le ragazze che insegnavano come truccarsi a noi clienti, inglesi e straniere, che pendevamo dalle loro labbra. Carnaby Street era così affollata che non si riusciva a camminare».

[…]

Estratto dell’articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” l’8 aprile 2023.

Nove giorni prima che l’Italia scegliesse di stare dalla parte della libertà, il 9 aprile del 1948, a Venezia nasceva Nicoletta Strambelli. Colei che, citando sfrontatamente persino Dante, scese all’Inferno e al Sommo Poeta rubò un aggettivo: pravo, per metterselo addosso e indossarlo tutta la vita. Così nacque Patty Pravo e il suo percorso coronato da oltre mezzo secolo di successi con più di 110 milioni di dischi venduti nel mondo. […]

 La trasgressione come forma mentis sarà quella che la porterà a innovare sempre. E a scoprire, dopo i ritmi britannici che inseguì giovanissima fuggendo a Londra, anche il cantautorato francese. Nella capitale inglese rimase però solo per pochi giorni […] Fu così che quella ragazzina minuta, irrequieta ma al tempo stesso rispettosa, […] che a 17 anni, nella Città Eterna, si trasformò nel mito della “Ragazza del Piper”.

Un anno più tardi, nel 1966, un altro record. Il suo brano Ragazzo triste, fu il primo pezzo di musica leggera ad essere trasmesso dalla Radio Vaticana. […] uno dei momenti più belli della sua carriera: lo speciale che la Rai le dedicò nella prima serata del canale nazionale il 10 maggio del 1969. Era un sabato: dal titolo Stasera Patty Pravo. La cantante, eterea e dirompente al contempo, si vede volteggiare sul palco su passi di danza curati da un coreografo d’eccezione, Don Lurio.

Ad affiancarla tra sketch, aneddoti e canzoni troviamo Wanda Osiris, Luciano Salce, Donyale Luna, Franca Valeri, Paolo Villaggio e Aldo Fabrizi. Nel repertorio della giovanissima Patty c’erano già i grandi successi che sarebbero passati poi alla storia: da La bambola che la Strambelli negli anni ha riarrangiato e interpretato in tutti i modi possibili, […]

Il 1973, ormai mezzo secolo fa, sarà l’anno di un altro capolavoro, Pazza Idea che la porterà ancora una volta in vetta alle hit parade. Nello stesso album la bellissima Poesia, scritta per lei da un esordiente Riccardo Cocciante. Dolorosi gli anni 80 che la videro costretta a viaggiare oltreoceano, tormentata da pettegolezzi e anche accuse sull’uso di droga che l’artista non ha mai smentito. Ad eccezione della cocaina che dice di non aver mai usato. 

Al punto che nel 1992, anno in cui fu arrestata e reclusa per tre giorni nel carcere romano di Rebibbia, fu rimandata a casa con tante scuse, proprio perché cercavano la coca che mai avrebbero potuto trovare. In America posò anche per le copertine di Playboy e Playmen. Ma la trasgressione più bella resta per lei la musica che la riportò in auge, tra le numerose volte che la videro (e magari la vedranno ancora) al Festival di Sanremo, grazie a un mirabile connubio con Vasco Rossi che nel 1997 le regalò una perla come E dimmi che non vuoi morire.

 Per arrivare ad oggi di anni ne trascorreranno altri 25 anni, un quarto di secolo nel quale Nicoletta non ha smesso di cantare e produrre musica, spesso anche assieme ad autori giovanissimi. Perché a lei, che oggi è felicemente single dopo cinque matrimoni e cinque divorzi, piacciono i giovani. Non a caso l’unico regalo che vorrebbe per i suoi 75 anni sarebbe un pezzo scritto da Ultimo. […]

Patty Pravo: «La prima volta a 14 anni. Ho avuto 5 mariti e sono stata trigama». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2023.

La cantante: «Ho provato tutte le droghe, tranne la cocaina»

Patty Pravo, qual è il suo primo ricordo?

«Ho tre anni, sono piccolina e tento di suonare i tasti neri del pianoforte. Andavo a scuola da una nobile veneziana decaduta, la Mazzincrovato, che aveva una casa piena di gatti. Prendevo anche lezioni di danza dalla maestra Turiddu, che insegnava alla Fenice».

Cosa facevano i suoi genitori?

«Papà Aldo portava i motoscafi, mia mamma stava a casa. Si chiamava Bruna, ma era biondissima. Ebbe un parto difficile, era sempre in cura. Non ho ricordi della prima infanzia. Stavo dai nonni paterni».

Severi?

«Al contrario. Nonno Domenico era il direttore dei Tabacchi, nonna Maria una tabagista convinta; io a 10 anni fumai la prima sigaretta, e non ho mai smesso. Mi davano 50 lire per la gondola, io andavo a scuola a piedi e le spendevo per le Nazionali super; poi sono passata alle Marlboro rosse. A 14 anni anziché a scuola sono stata a fare l’amore».

Con chi?

«Non glielo dico. Ai nonni ho raccontato: “Sono stata a fare l’amore e mi è piaciuto molto, posso tornare a farlo oggi pomeriggio?”».

L’avranno rinchiusa in casa.

«Invece mi hanno lasciata andare. Erano persone libere e mi hanno sempre fatto vivere libera. La nonna usciva di notte per comprare la prima copia del giornale e tornava all’alba».

E suo padre?

«Ogni tanto mi veniva a prendere e mi portava allo stadio. Ricordo un Venezia-Juventus: impazzii per Charles e Sivori, con quei numeri pazzeschi. Così mi accompagnava in giro a vedere la Juve».

È ancora bianconera?

«Per forza! Un pochino».

Com’era la Venezia degli anni Cinquanta?

«Meravigliosa. Si camminava e si ascoltavano i passi, immaginando chi stesse per arrivare».

Chi arrivava?

«Ad esempio il patriarca Angelo Roncalli, il futuro Papa Giovanni: frequentava mia nonna e Cesco Baseggio, l’attore, perché voleva imparare il veneziano, per parlare in dialetto con i fedeli. Oppure Ezra Pound. Io abitavo a Dorsoduro, a san Barnaba, lui alla Giudecca. Un giorno lo incontrai con sua moglie e mi comprarono un gelato. Divenne una consuetudine passeggiare con il poeta».

E cosa le diceva Pound?

«Niente. Ezra Pound non parlava mai. Ma era una persona che emanava energia, e io queste cose le ho sempre sentite. La sera del 3 novembre 1966 suonai a Firenze. Alla fine dissi: c’è qualcosa di strano nell’aria, non restiamo a dormire, partiamo subito. Il mattino dopo l’Arno straripò».

Fino a quando restò a Venezia?

«Il nonno morì, rimasi sconvolta, e dissi alla nonna che dopo otto anni lasciavo il conservatorio e andavo a Londra a imparare l’inglese. La Londra del 1965 era pazzesca: succedeva di tutto e ci divertivamo moltissimo. Poi una sera sentii parlare di questo nuovo locale romano, il Piper».

E partì.

«Su un maggiolino. Con gli amici facemmo tutta una tirata da Londra a Roma. Il patron, Alberigo Crocetta, mi vide ballare e mi chiese: sai anche cantare? Io risposi di sì, alzai le spalle e me ne andai. C’è il filmato, sa? Nel nuovo spettacolo lo facciamo pure vedere».

Poi tornò.

«C’erano Arbore, Boncompagni, Tenco. Con Luigi vivevamo nello stesso residence».

Che idea si è fatto della sua morte?

«Non c’è nessun giallo. Si è suicidato. Non era una persona felice».

Boncompagni scrisse per lei «Ragazzo triste».

«Non mi riconoscevo in quella canzone. Dicevo: Gianni, noi non siamo tristi, siamo allegri, giovani, belli... E lui: vedrai che funziona. Funzionò».

La bambola è del 1968: «Tu non mi metterai tra le dieci bambole che non ti piacciono più...».

«A suo modo era un testo femminista. Lo incisero in tutto il mondo».

Renato Zero mi ha raccontato che, dopo mesi di assenza, lei tornò al Piper su una Rolls Royce bianca con autista nero, occhiali scuri e un levriero al guinzaglio, cominciò a cantare e nessuno la riconobbe, tranne il tecnico delle luci: «A Nicole’, te sei ammattita?».

«Ma no... Ero al massimo del successo, sarebbe stato difficile non riconoscermi (Patty sorride). Venivano a sentirmi Visconti, Bolognini, De Sica. In effetti avevo un autista nero, Pietro, e Crocetta mi metteva a disposizione una Rolls, che usavo per andare al mare. Renato all’inizio non c’era, arrivò dopo, come Loredana Bertè. Diventammo amici. Anche con Roberto D’Agostino: ci vogliamo ancora bene. Una volta mi divertii ad aiutare Renato Zero a montare lo spettacolo, portai un leone gigantesco, è un ricordo molto tenero... Da ragazzina avevo aiutato anche Lucio Dalla».

A far cosa?

«A scaricare gli strumenti musicali. Ero andata in un paesino veneto del Terraglio a sentire i Flippers, dove Lucio suonava sax e clarinetto. Io volevo restare, i miei amici però dovevano tornare a casa. Così dissi a Lucio: io vi aiuto con gli strumenti, e voi mi riaccompagnate».

Lei si chiama in realtà Nicoletta Strambelli. Come divenne Patty Pravo?

«Una sera, chiuso il Piper, ci facemmo un piatto di spaghetti con Crocetta e un gruppo di ragazze inglesi che si chiamavano quasi tutte Patty. Il discorso cadde su Dante. Io al conservatorio avevo studiato con Chiarini, che era un grande dantista. Ovviamente preferivo l’Inferno: “Guai a voi, anime prave...”. Patty Pravo nacque quella notte. Non che mi facesse impazzire come nome. Ma non me n’è mai fregato niente».

A Roma lei frequentava anche Mario Schifano, l’artista.

«Una delle persone che mi manca di più: eravamo fratelli. Una sera del 1965 a casa sua incontrai i Rolling Stones. Avevamo comprato una moto insieme, ma non andavamo da nessuna parte, giravamo in tondo attorno a piazza del Popolo, c’erano anche Tano Festa e Franco Angeli...».

Lei dove abitava?

«Vicino a piazza del Pantheon. Con Sergio Bardotti tiravamo mattina seduti sui gradini della fontana, con la chitarra. All’alba passava Andreotti, che andava a messa e poi in ufficio. Ogni volta si fermava a parlare con noi: “Com’è andata la notte, cos’avete fatto di bello?”».

Con Schifano avrà provato la droga.

«Mica solo con Schifano. Le droghe le ho provate tutte, tranne la cocaina che mi fa schifo. Canne, anfetamine, acidi: non era robaccia come adesso, che ti ammazza. Fu il mio periodo rockettaro. Poi sono andata in America e ho smesso».

Cosa votava nella Prima Repubblica?

«La prima volta che ne avevo diritto, alle politiche del 1972, andai al consolato di New York, ma mi dissero che non si poteva. Così non ho mai votato».

Cosa pensa della Meloni?

«Non mi sono mai schierata, e non mi schiero. A prescindere dal suo orientamento politico, è la prima donna ad arrivare dov’è arrivata: segno che deve avere molto carattere».

E di Berlusconi?

«È un uomo che si è fatto da solo e che rispetto».

Quindi a differenza di molti colleghi lei non ha mai provato interesse per la sinistra?

«Non è così. Ho sempre provato interesse per le persone vere. Craxi non mi dispiaceva affatto. Ho un ottimo rapporto con Bertinotti».

Ogni tanto lei spariva e si metteva in viaggio.

«Ero in Egitto, seduta sotto la Sfinge, quando feci amicizia con un cammelliere, che mi portò a fare il giro delle oasi. Fu l’iniziazione al deserto. In Marocco incontrai una carovana di tuareg che trasportava sale e rimasi con loro due mesi, unica donna, rispettatissima».

È vero che ha pure attraversato l’Atlantico a vela?

«In solitaria, partendo dalla Spagna. Speravo succedesse qualcosa di strano, invece presi gli alisei e fu una passeggiata. L’ho raccontato a Soldini: lui era incredulo, ma è andata davvero così».

E la via della Seta?

«Mi presi un anno sabbatico. Partii da Venezia sentendomi come Marco Polo, piena di visti e documenti però. Conservo ancora una sella che mi regalarono in Mongolia: non avevano mai visto una bionda».

Lei era amica anche di Jimi Hendrix.

«Lo vidi a Londra poco prima che morisse. Una persona stupenda. Scriveva cose classiche, non ne poteva più della parte del maledetto che spaccava le chitarre e suonava con i denti. Ma i produttori lo vollero così, sino alla fine».

Quante volte si è sposata?

«Di matrimoni ne ho celebrati cinque; ma veri solo tre».

Il primo?

«Con Gordon Fagetter, batterista a Londra».

Il secondo?

«Con Franco Baldieri, antiquario a Roma. Ci incontrammo e ci riconoscemmo. Passammo la notte insieme, e il mattino andammo in Campidoglio a chiedere i documenti per sposarci. Cavallina, la spia dei paparazzi, avvisò tutti: “C’è Patty Pravo che si sposa!”. Ero senza trucco, per fortuna sopra il pigiama avevo messo la pelliccia».

Per lei Riccardo Fogli lasciò i Pooh.

«Come dargli torto? (Patty sorride). In realtà ho saputo solo dopo che il suo manager l’aveva costretto a scegliere: non avrei mai voluto che si separasse dagli altri. Ci sposammo in Scozia, con il rito celtico».

Come finì?

«Ero a Londra per incidere un disco di Vangelis, quando incontrai Paul Martinez, che suonava il basso, e Paul Jeffrey, alla chitarra. Erano bellissimi, e ci amammo in tre».

Sembra il testo di «Pensiero stupendo». Non c’era gelosia?

«Gelosa non lo sono mai stata. C’era semmai una certa confusione. Aspettavo Martinez a Roma per partire insieme per un viaggio, quando mi dissero: “Qui sotto c’è un signore per lei con delle valigie bianche”. Una cosa cheap, che Martinez non avrebbe mai fatto. Infatti era Jeffrey: avevo sbagliato Paul. Il viaggio però riuscì lo stesso».

Chi ha sposato dei due?

«Martinez. Erano sempre loro a volersi sposare, e mi pareva brutto dire di no. Però in America andai con Jeffrey: scendemmo allo Chateau Marmont, a Los Angeles, e ci restammo un anno. Il problema sorse quando a San Francisco incontrai un altro musicista, Jack Johnson. Stracciai contratti miliardari con Jeffrey e lo lasciai lì. Ma venne fuori che le nozze con Baldieri non erano state annullate. L’avvocato mi tranquillizzò: la bigamia era punita; ma io sarei stata trigama. E la trigamia nel codice penale non è contemplata».

E ora?

«Ora sono felicemente sola».

Riccardo Fogli e Patty Pravo

Non le manca un figlio?

«Non ne ho mai sentito la necessità. E non ci ho mai pensato davvero, tranne che con Gordon, il mio primo marito. Eravamo in Giappone. Ci chiedemmo: ma mentre suoniamo chi lo guarda? Pensammo che avremmo potuto dondolarlo collegando la culla al pedale della batteria. Ma mentre lo dicevamo capimmo che non era il caso».

Lei era amica anche di Califano.

«Molto, pensi che nel testamento mi ha lasciato una canzone, Io so amare così. Avevo una segretaria francese, Monique, che parlava tutte le lingue: ma lui la sedusse e me la portò via».

Sedusse anche lei?

«Gli bastò la segretaria».

Altre amicizie tra le colleghe?

«Gabriella Ferri, che mi presentò Anita Pallenberg. Ripenso ad Anita mentre usciamo dalla farmacia notturna di fronte al Senato con l’ossigeno, c’era anche Donyale Luna, la modella, noi piccoline, lei altissima... Con la Vanoni ci siamo date un nomignolo: io la chiamo Ornellik, lei Nicopat. Con Giorgia scoprimmo che fumiamo le stesse sigarette e ci trovammo subito simpatiche. De Gregori e Venditti li conosco da quando erano bambini. E poi Elisa, Emma e Giuliano Sangiorgi».

Anche «Pazza idea» nasce da una storia vera?

«La scrissi con Giovanni Ullu e la firmarono in cinque, doveva intitolarsi Crazy Idea, e non mi è mai piaciuta. Mi identifico di più in un altro verso: “La cambio io la vita che non ce la fa a cambiare me...”».

«Dimmi che non vuoi morire», la canzone di Sanremo. La scrisse Vasco, vero?

«Mi mandò una cassetta registrata, in cui la cantava imitando la mia voce. Non mi raccapezzavo. Questa canzone mi piace ma non la conosco, pensavo: quando mai l’ho cantata? Vasco dice che io sono la sua parte femminile, lui la mia parte maschile».

Come ha trovato il Sanremo di quest’anno? Gli scandali?

«Quali scandali? Sanremo è sempre Sanremo, gli ascolti sono stati ottimi. A me interessa solo la musica. Noi avevamo una storia dietro, io ho cominciato a 14 anni scaricando gli strumenti di Lucio Dalla e sono arrivata a incidere in otto lingue e a vendere 120 milioni di dischi; questi ragazzi fanno numeri pazzeschi tra visualizzazioni e streaming, il successo è così immediato che li mandano subito nei palasport e negli stadi. Auguro loro di resistere per molto tempo».

Anche lei si presentò in tv praticamente nuda.

«Ma non avevo seno e potevo permettermelo».

Quali sono le otto lingue in cui lei ha inciso, oltre all’italiano?

«Francese, inglese, spagnolo, portoghese, tedesco, arabo, cinese».

Cinese?

«Andai per il lancio di un satellite. Mi seguirono un miliardo e 380 milioni di persone: uno share mostruoso. Se è per questo, nel 1969 mi invitarono alla Nasa dopo lo sbarco sulla Luna; lo stesso anno cantai per l’Armata Rossa. Una tragedia, tornai dalla Russia intossicata dall’acqua che ci facevano bere».

E a Venezia torna ancora?

«Sì. Ma ormai la si può girare solo di notte».

Il futuro dell’Italia come lo vede?

«La situazione è tragica, non solo in Italia; nel mondo. Rischiamo davvero la terza guerra mondiale. Anche se sono convinta che la Cina la guerra non la voglia. Vuole ancora crescere, espandersi in Africa. È abituata a tempi lunghi».

Cosa c’è nell’Aldilà?

«Niente. Non credo in Dio. Con tutte queste galassie, non si può pensare che esista una sola mente che abbia deciso tutto».

Non teme la morte eterna?

«No, anzi mi consola. Così eviterò l’Inferno, con tutta quella gente. Anche se la vera tragedia sarebbe il Paradiso: una noia... Andateci voi».

1979, quando il ciclone Patti Smith si è abbattuto sull’Italia del riflusso. PAOLO MORANDO su Il Domani il 31 ottobre 2023

Un concerto rock è diventato il simbolo di una stagione politica e sociale italiana, con tutte le sue contraddizioni. Lo racconta il musicologo Goffredo Plastino, nel libro Rumore rosso, uscito oggi per il Saggiatore

Venne in Italia a suonarvi per la prima volta nel settembre del 1979, domenica 9 a Bologna e lunedì 10 a Firenze. E avvenne l’impensabile, con stadi riempiti all’inverosimile: i conti esatti non fu mai possibile farli, perché a un certo punto gli ingressi vennero aperti anche a chi il biglietto non lo aveva per scongiurare disordini, allora all’ordine del giorno nei casi – rari – di concerti rock di artisti internazionali.

Ma stime attendibili fissarono in 140mila gli spettatori. Una cifra che nessuno si aspettava: basti dire che la data bolognese era prevista inizialmente non al Dall’Ara ma nell’angusta area dell’antistadio.

Fu un autentico ciclone, quello che Patti Smith portò in Italia - senza volerlo e suo malgrado - al tramonto del decennio più lungo del secolo breve: un ciclone che oggi rivive in Rumore rosso, volume appena pubblicato dal Saggiatore a firma Goffredo Plastino, musicologo calabrese della Newcastle University.

E il sottotitolo, “Patti Smith in Italia: rock e politica negli anni settanta”, ne riassume il contenuto solo per difetto, tanto monumentale è la documentazione che l’autore ha accumulato per anni e su cui ha costruito questo saggio, per il quale parlare di “opera-mondo” non è esagerato. Un mondo se vogliamo limitato nel tempo e nello spazio (poche settimane di fine estate di un solo anno, un paese come l’Italia allora ai margini dei circuiti del grande rock) ma frutto di un fenomenale carotaggio che, come vedremo, nulla tralascia.

IL CASO 7 APRILE

Prima di affrontarlo, occorre tratteggiare almeno sommariamente il contesto in cui saettò in Italia “Patti la Santa”, fresca reduce da un quarto album, “Wave”, in cui si presentava in copertina colombe sulle mani (oltre che con una sorprendente infatuazione per papa Luciani).

Un’Italia in cui lo shock per la tragedia di Aldo Moro ancora non era stato riassorbito, ma i cui strascichi continuavano a riverberarsi politicamente: ad esempio, con il rifluire dell’ondata elettorale che da anni alimentava la crescita del Partito comunista (e con l’uscita dei comunisti dalla maggioranza di governo figlia del compromesso storico).

E questo rifluire aveva anche a che fare con un’altra questione politicamente enorme: il caso 7 aprile, cioè la “decapitazione” per via giudiziaria di quell’area dell’autonomia che proprio nel Pci (oltre che in Cossiga, ma scritto con la K) vedeva il principale nemico, come si era visto in maniera palmare e drammatica due anni prima proprio a Bologna, teatro prima della morte dello studente Lorusso per mano della polizia e poi di un tesissimo convegno sulla repressione in Italia.

ROCK E POLITICA

E poi la musica, con scontri da anni tra giovani e polizia in occasione di concerti, in una iper politicizzazione di cui il fenomeno dell’autoriduzione era solo la punta dell’iceberg.

Led Zeppelin, Traffic, Santana, Lou Reed: l’elenco dei grandi nomi del rock le cui esibizioni italiane erano finite a botte e lacrimogeni non finirebbe più.

Un black out pressoché completo dal quale restarono fuori solo pochi eccentrici, come il giro canterburyano di Robert Wyatt e degli Henry Cow, in occasione nel 1975 di un memorabile concerto romano in piazza Navona, targato però in qualche modo politicamente (“Stampa alternativa” di Marcello Baraghini e la rivista “Muzak”, entrambi di area culturale vicina alla sinistra extraparlamentare).

Perché il connubio che in Italia si registrò tra rock e politica fu qualcosa di totalmente pervasivo, tanto da figliare per tutti gli anni Settanta un circuito distributivo ristretto ma capillare, tra feste dell’Unità, festival di Re Nudo e le mille iniziative di realtà come Lotta Continua, Avanguardia operaia e i Circoli ottobre.

LA POETESSA URBANA

Fu dunque nelle città più rosse d’Italia, Bologna e Firenze, che planò Patti Smith, strana “rockeuse” partorita dall’America, né punk né figlia dei fiori fuori tempo (o almeno non associabile per esteso ad alcuno dei due poli), bensì poetessa urbana compenetrata da una cultura, quella della sua New York, in cui allora passava un po’ di tutto.

L’Italia allora se ne innamorò come nessun altro paese, equivocando in larga parte il suo profilo. E d’altra parte l’industria discografica ci mise ampiamente del suo.

Rumore rosso lo certifica in maniera precisa, offrendo infatti una potente carrellata iconografica in cui, oltre a fantastiche immagini dei due concerti (e soprattutto del pubblico che in quei giorni aveva fatto delle due città un immenso camping), spuntano immagini promozionali della artista e dei suoi dischi prodotte per la stampa italiana, in cui si giocava su più registri.

A CHI APPARTENEVA?

A lasciare senza parole, sono però le dimensioni e l’intensità del dibattito che quei due concerti scatenarono. Nessuno ne rimase fuori: dalla stampa musicale specializzata ai quotidiani mainstream, dalle radio allora “libere” ai telegiornali del servizio pubblico.

E soprattutto i giornali politici. Si rimane stupefatti dalla quantità di articoli esaminati dall’autore, da un lato per via dell’acribia enciclopedica, dall’altro per la constatazione del livello degli interventi.

Che in gran parte non erano musicali in senso stretto, bensì mossi da una domanda che rivelava la natura del meccanismo (e soprattutto dell’equivoco) in cui la cantante rischiò di venire stritolata. E la domanda era in sostanza questa: a chi apparteneva Patti Smith?

IL TERRORE DEI MUSICISTI

Gli aneddoti in questo senso si sprecano: ad esempio, il tentativo di quegli intellettuali (Gianni Sassi della Cramps, “Bifo” Berardi, l’area della rivista “Alfabeta”) di strapparle un intervento a favore di Nanni Balestrini, latitante in seguito agli arresti del 7 aprile.

Oppure, le reazioni stupefatte di chi a Bologna, arrivando allo stadio circondato da giovani accampati come nei giorni del convegno sulla repressione, la sentì dire: «Oggi è domenica: dite a questi ragazzi che farebbero bene ad andare a messa».

E ancora, le reazioni del pubblico quando sul palco a un certo punto, assieme a lei e alla band, spuntò anche la bandiera americana: fischi, pugni chiusi, il lancio di decine di lattine e mani con le tre dita a pistola, uno dei simboli classici durante le manifestazioni dell’area più dura dell’autonomia.

Per non parlare del terrore degli stessi musicisti quando, all’ingresso degli stadi e al rientro nei camerini, dovettero passare tra file di poliziotti e carabinieri armati fino ai denti.

E tutto questo dopo mesi in cui l’editoria giovanile si era nutrita di una Patti Smith presunta ribelle irriducibile, per giunta dal profilo artistico altissimo, producendo più pubblicazioni di testi delle sue canzoni e delle sue poesie.

RICONQUISTARE I GIOVANI

L’appartenenza di Patti Smith a questo o a quel campo (il punk, il rock, la poesia, l’America a stelle e strisce o il sovversivismo internazionale) non poteva costituire un fattore indifferente. E alimentò una polemica fittissima, soprattutto perché entrambi i concerti vennero organizzati dall’Arci, dunque da un’organizzazione del Pci (la scelta delle location non fu casuale).

Fu quindi inevitabile che il mini tour della artista, preceduto da una straniante apparizione veneziana in veste appunto di poetessa, per un happening ristretto nell’ambito della Biennale, venisse letto come il tentativo del partito di Berlinguer di riportare dalla propria parte quei giovani che politicamente gli erano sempre più distanti.

IL CARTEGGIO

Lo sintetizzò Stefano Benni su Panorama in un esilarante finto carteggio tra il segretario comunista e la cantante, di cui qui c’è spazio solo per un minimo stralcio: «Dear Patti, ho telefonato a D’Alema, il nostro esperto giovanile, e gli ho detto: senti, questa Patti Smith che piace tanto ai ragazzi, prendiamola. Lui ha detto di no, queste son robe da Nicolini (l’allora assessore romano alla cultura, ndA), costa troppo, è sballata. Ma io ho insistito: senti, piuttosto che doverci confrontare con questi giovani rompiscatole o ascoltarli davvero, quando ci criticano preferisco dargli un bel po’ di musica. Perché per noi 30mila in uno stadio sono spettatori, 30mila in una manifestazione sono autonomi».

E la risposta, folgorante: «Avevo dei dubbi: ma poi ho letto il tuo saggio e ho capito. È vero Enrico, sei più sballato di tutti gli sballati di San Francisco e della Bowery messi insieme. Vengo: e mi farai provare quell’erba che, da un po’ di tempo in qua, tu fumi quando fai politica. Non dirmi che non ci dai anche tu, vecchio Junkie. A presto. Yours Patti».

TUTTA L’ITALIA

Che cosa furono quei due pazzeschi concerti e tutto ciò che ci girò attorno? Un mare di cose, che Goffredo Plastino elenca minuziosamente, in un esempio di microstoria la cui profondità ha davvero pochi eguali.

E oggi che cosa ne resta? Le parole con cui si conclude il libro, dopo una cavalcata appassionante, lo dicono come meglio non si potrebbe. Si cita infatti la stessa Patti Smith: «Se mi capita di camminare per strada, in Italia, c’è sempre qualcuno che mi si avvicina, e può essere un cuoco o un rappresentante del governo, e mi dice: Patti, io ero a Bologna. Sembra che tutta Italia, quella sera, fosse a Bologna...».

E l’autore: «In un certo senso è proprio così: c’eravamo tutti e ci siamo ancora, continuiamo ad ascoltare il rumore rosso di quei giorni, di quegli anni». Chapeau.

PAOLO MORANDO. Giornalista, ha lavorato in quotidiani di Trento, Bolzano e Verona. Ora scrive per Domani, Huffington Post, Internazionale, L'Essenziale e sul blog minima&moralia. Per Editori Laterza è autore di Dancing Days. 1978-1979: i due anni che hanno cambiato l’Italia (2009, ristampato nel 2020), ’80. L’inizio della barbarie (2016, finalista al Premio Estense), Prima di Piazza Fontana. La prova generale (2019, vincitore del Premio Fiuggi Storia, sezione Anniversari), Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri (2021, finalista al premio Acqui Storia) e L'ergastolano. La strage di Peteano e l'enigma Vinciguerra (2022), per Feltrinelli di La strage di Bologna. Bellini, i Nar, I mandanti e un perdono tradito (2023).

Patti Smith: «Femminista? Bisessuale? Io sono un’artista, una madre, una punk». Luca Mastrantonio su Il Corriere della Sera il 2 ottobre 2023.

La first lady del rock si racconta in un libro fotografico che mette a nudo i suoi lati più intimi E torna il suo sguardo poetico sulla vita e la morte 

Love is a ring, the telephone... È una notte di fine estate, e in attesa di una telefonata di Patti Smith è difficile non canticchiare Because the night . La musica è di Bruce Springsteen, di una dolcezza senza tregua, la canzone rotolò fuori dall’album cui stava lavoravando e la diede a Patti Smith, che trovò le parole per raccontare la complice tenerezza della notte, parole di chi ama la poesia francese dell’800 e vive a New York negli Anni 70 del Novecento: «L’amore è uno squillo, il telefono / l’amore è un angelo, travestito da lussuria». Il telefono! Finalmente. «Hi, it’s Patti». L’artista è a Washington, nel mezzo di un tour di musica e parole dove un pubblico di ogni età accoglie la sua energia, sul palco con vecchi e nuovi amici, da Michael Stipe dei REM ai The National. La voce è tersa, aria azzurra dopo un acquazzone. Serena, di chi è in pace con il mondo e con sé stessa, con i vivi e i con i morti.

L’occasione della telefonata è la pubblicazione presso Bompiani del volume A Book of Days , che raccoglie foto d’autore e polaroid personali, mescolando la vita privata, intima e familiare, alla galleria di grandi del rock che ha conosciuto, da Bob Dylan («il re delle maschere, mi aveva influenzato anche nel modo di camminare») a Lou Reed («era il wilde side di New York, non sempre capivo l’intensità dei suoi stati d’animo»). Un album di famiglia con molti fantasmi, anche di epoche passate, come Rimbaud di cui era una fanatica lettrice, varie forme di vita, come l’amato gatto, e oggetti-feticcio (dei suoi idoli, dei suoi cari) e luoghi del cuore (caffè, letti, cimiteri). Le didascalie sono testi che fanno da lieve contrappunto, Questo A Book of Days è prezioso per ciò che mostra e per come lo mostra, perché mette in scena lo sguardo di un’artista curiosa, sensibile ed empatica. Una lente d’ingrandimento sul cuore, una vivisezione del suo sguardo: non vediamo solo cosa ha visto, vediamo il suo sguardo. Di figlia, madre, artista, lettrice, amica, sorella... Molte foto hanno già fatto capolino sul suo profilo Instagram, dove (andateci, è @thisispattismith) salta agli occhi ciò che al mio orecchio è chiaro: lei è come appare, come canta, scrive, scatta. Una persona vera, non un personaggio.

Nel libro cita Baudelaire: “Il genio è colui che sa tornare all’infanzia a suo piacimento”. Quali sono i ricordi d’infanzia a cui torna con piacere?

«Ne ho molti legati ai libri, la mia era una famiglia umile, ma si leggeva tanto. Mi dava gioia leggere sotto le coperte con una torcia elettrica, fino ad addormentarmi. Poi ho un ricordo chiaro di quando avevo 10 anni, ero infelice perché avevamo lasciato la città per la campagna, finché non ho esplorato i campi con il mio cane, e siamo arrivati a un campo in mezzo ai peschi, vicino a un vecchio fienile. Mi sono addormentata e poi, al risveglio, la prima cosa che ho visto sono state le nuvole. Mi sentivo in Paradiso».

Altra citazione dal libro. Gérard de Nerval: “I sogni sono una seconda vita”. Come sono i suoi sogni?

«Stimolanti. Molte cose che scrivo sono ispirate a dei sogni. Tornando all’infanzia, su cui sto scrivendo un libro, da piccola feci un incubo mai dimenticata. Sognai che mia madre era con il mio fratello minore, stava guarendo da una polmonite. “Non disturbarlo, stagli lontano”, mi fa. Io invece vado a vedere come sta, gli sfioro il braccino e accidentalmente glielo stacca. Mi sono svegliata terrorizzata, temevo fosse reale, cercai una bambola per staccare un braccio e darlo a mio fratello. Poi ho capito che era un sogno. Avrò avuto 4 o 5 anni ma lo ricordo come fosse ieri».

Un bel sogno recente?

«Ah, in continuazione. Sogno le persone che amo, anche se non ci sono più. L’altra notte io e mio marito, Fred, eravamo in cucina, parlavamo e bevevamo caffè. Altre volte sogno Robert o mia madre... E quando mi sveglio mi pare di aver passato del tempo con loro».

Suo padre era appassionato di alieni, sua madre testimone di Geova. Questi mondi extraterrestri e ultra-cristiani hanno influito su di lei?

«Papà leggeva anche storia e filosofia, oltre a testi sugli alieni, sui segreti delle piramidi... era carburante per l’immaginazione. Come la Bibbia, con gli angeli, la Creazione, il misticismo dei sogni, la sensualità del Cantico dei Cantici, la poesia dei Salmi di David... Ciò che nutre l’immaginazione ci spinge a pensare le cose da soli, in modo indipendente. Così si diventa artisti, poeti, storici: vogliamo saperne di più». 

Accompagnava sua madre porta a porta, per fare proselitismo?

«I testimoni di Geova lo fanno perché Gesù ha detto ai discepoli di dare da mangiare alle pecore, e quindi diffondere la parola sacra, vanno di porta in porta per aprire la coscienza delle persone alle Scritture. Io ero adolescente, erano gli Anni 50... ricordo che certe persone ci tiravano le secchiate d’acqua addosso!».

In una sua riscrittura punk di ‘Gloria’ di Van Morrison lei recupera dei versi che aveva scritto per il suo primo reading a New York, negli Anni 70, nella chiesa di Saint Mark: “Gesù è morto per i peccati di qualcuno / non i miei”.

«Era un riferimento critico non a Gesù ma alla Chiesa che ci faceva percepire Gesù come la persona responsabile di ciò che facciamo e faremo, colui che ci perdonerà, che è morto per i peccati futuri! Quei versi furono la mia Dichiarazione di Indipendenza. Se commetto errori, sono errori miei. L’essenza dell’arte, della poesia, del punk è questo, la libertà».

Citando una canzone del suo amico Michael Stipe, dei REM, lei ha mai perso la sua religione?

«Michael è una persona spirituale, buona e generosa. Come mia sorella Linda, che era caritatevole prima di diventare testimone di Geova. Il mio rapporto con Dio non l’ho mai perso, magari è cambiato, si è evoluto, ma prego sempre, anche se non vado in chiesa».

Al concerto a Firenze del 1979 lei si mise a pregare con i poliziotti. Un gesto catto-punk.

«A Firenze, ma anche a Bologna, c’erano tanti poliziotti, con fucili e mitragliatrici, erano in fila, abbiamo dovuto passare in mezzo a loro, era spaventoso, erano anni di grandi tensioni in Italia, i poliziotti erano nervosi, temevano succedesse qualcosa. Mi sono messa a recitare la preghiera del Signore per infondere nell’atmosfera amore, per eliminare lo stress e la tensione; pensavo che molti poliziotti fossero cattolici, era come dire siamo tutti persone, esseri umani, non siamo nemici, ma fratelli e sorelle».

Per diventare l’artista che è diventata l’incontro con Robert Mapplethorpe è stato cruciale.

«Quando l’ho incontrato non avevamo un posto dove vivere, nessuno che credesse in noi... C’è una cosa che molti non sanno di Robert: suo padre era nell’esercito e sperava in una carriera militare per Robert, che alla scuola d’arte commerciale aveva una borsa di studio militare. Finché Robert a fine 1967 decide di non voler fare l’artista pubblicitario o il militare, per dedicarsi all’arte, rinuncia alla borsa di studio, il padre quasi lo rinnega e smette di dargli i soldi per l’appartamento. Così Robert è passato dall’avere una borsa di studio, un appartamento e l’approvazione del padre all’essere quasi per strada. Ed è stato allora che l’ho incontrato. Eravamo due che non avevano nulla, tranne il sogno comune di diventare artisti, per cui eravamo disposti a tutto, anche a grandi sacrifici».

Se dovesse scegliere una vostra foto-talismano, una foto che racconta il vostro rapporto?

«La gita a Coney Island, nel 1969. Avevamo pochi soldi, abbiamo mangiato un hot dog in due, ci siamo seduti, guardavamo l’oceano ed eravamo felici. Tornavamo sempre lì ogni anno quando potevamo. Anche quando avevamo molti più soldi e potevamo comprare cinque hot dog cercavamo di non perdere la felicità semplice di quell’hot dog condiviso. Anche quando abbiamo smesso di essere fidanzati è restato questo legame molto profondo».

Come la prese quando lui le disse che era gay?

«Non mi sembrava reale. Era il mio ragazzo, niente in lui mi aveva fatto pensare a qualcosa del genere, il suo modo di essere, la nostra intimità... è stato difficile da elaborare. Abbiamo attraversato tristezza, rabbia, accettazione e poi abbiamo cercato di tornare ad essere fidanzati, ma niente. Dopo un anno, mi ha detto che era sicuro, e io l’ho capito, processato. Siamo restati amici, l’arte ci ha aiutato. Lui è stato la prima persona a credere in me come artista. E io in lui. Non volevamo perderci. Siamo rimasti molto vicini, fino alla sua morte. E mi sento ancora vicino a lui».

Di Mapplethorpe è la foto in copertina di Horses del 1975 dove lei è in abiti maschili. Quando capì che le piace danzare tra il maschile e il femminile?

«Da subito. Da piccola non giravo attorno agli abiti da festa, il mio abito da sogno era di un pattinatore sul ghiaccio che avevo visto in un piatto di mia madre... il punto è che come artista devi saper andare oltre il genere, passare dal maschile al femminile, essere completo. Io ho i miei lati maschili e quelli femminili, che per esempio mi hanno permesso di essere madre, moglie. Posso cantare una canzone d’amore molto tenera, oppure recitare una canzone rock molto maschile, come Gloria ».

La maternità per lei è stata una scelta sofferta. A 19 anni ha avuto una figlia, data in affido, poi rientrata nella sua famiglia, composta da anche dai due figli che ha avuto da Fred, sposato nel 1980. Cos’è per lei la maternità?

«Io volevo essere una poetessa, un’ artista. Non ho mai aspirato a essere una cantante rock and roll, un personaggio pubblico... è successo e mi prendeva troppe energie, non stavo più crescendo come persona. Così ho lasciato la vita pubblica e ho finito per sposarmi e avere figli. La gente pensa che se sei madre è difficile essere un’artista, non è vero. Ci sono sacrifici da fare, hai delle responsabilità, ma se il tuo desiderio è fare l’artista, puoi farlo, devi impegnarti a usare il tempo in modo diverso, crearti i tuoi momenti. Per me è una vocazione religiosa. Mi svegliavo ogni mattina alle 5. Tutti dormivano. E fino alle 8, 8.30 scrivevo, era il mio momento. L’ho fatto per 16 anni, fino alla morte di mio marito. Desideravo essere una grande scrittrice e una buona madre e moglie».

Ha vissuto gli anni della liberazione sessuale. Oggi si parla di genere più che di sesso.

«Non ho molto da dire su chi oggi chiede “che pronome usi?” “Sei questo o quello?” “Sei bisessuale?”. Sono eterosessuale, ho avuto compagni maschi, sono la stessa di allora, degli Anni 70, ma non mi sono mai piaciute le etichette. “Sei femminista?” “Sei una cantante donna?” “Sei un’artista donna?” No, sono un’artista. Non voglio essere definita un’artista donna non più di quanto Marcel Duchamp sia etichettato come maschile o Raffaello un artista uomo. Nella nota di copertina di Horses c’era scritto “oltre il genere”. Io sono così. Poesia o punk? Maschile o femminile? Quello che conta è la libertà. Non è l’orientamento o il genere a definirci, ma le azioni, come ti comporti con la Natura e gli altri. Prendiamo Robert. La sua sessualità, che mi ha coinvolto, non era la cosa più importante. Le cose più importanti erano la sua gentilezza verso di me e il suo amore per l’arte e... aspetti che ho una chiamata».

Pronto? Tutto bene?

«Sì, scusi, mi stanno chiamando al telefono per il soundcheck del concerto. Domani la richiamo».

CHI È PATTY SMITH

LA VITA - Patti Smith (Chicago, 1946) è scrittrice, performer e visual artist (accanto in una foto recente). Ha pubblicato dodici album, tra cui Horses (più a sinistra). Il memoir Just Kids ha vinto nel 2010 il National Book Award non fiction. Nel 1980 ha sposato Fred Smith con cui ha avuto due figli, Jackson e Jesse

IL LIBRO - A Book of Days (esce il 27 settembre per Bompiani, trad. Tiziana Lo Porto) raccoglie parole e più di 365 scatti, che vanno dall’archivio personale di polaroid alle foto con lo smartphone, con cui ha animato il profilo Instagram durante il Covid

IL TOUR - Patti Smith sarà in Italia il 4 ottobre a Parma e il 5 a Gorizia per i primi concerti acustici di A tour of italian days, una serie di concerti acustici in luoghi sacri e suggestivi delle principali città italiane (tra novembre e dicembre) cui il libro è legato

Patti Smith, quella notte davanti al telefono e la genesi di "Because the night". Un incontro casuale tra Bruce Springsteen e Patti Smith: il rifiuto iniziale, poi quella telefonata che muta il destino discografico della cantante. Paolo Lazzari il 26 Aprile 2023 su Il Giornale. 

Tabella dei contenuti

 Record Plant, quell’incontro "galeotto" con il Boss

 L’assist del Boss e i tentennamenti di Patti

 L’attesa per quella telefonata nella notte

 La notte appartiene agli amanti: un successo mondiale

 Patti, dalla fabbrica alle classifiche mondiali

Se ne sta appesa alla cornetta, fremente, il telefono che bolle. Dall’altro lato del cavo agganciato nel sottosuolo americano nessun sussulto. Quella caterva di squilli a vuoto le passa il tempo per pensare ad altro. Ad esempio a quel pezzo lì. No, non fa decisamente per lei. Riattacca, sperando che il tizio la richiami. Scivola con la schiena lungo la parete della cucina, proprio sotto al cavo. E poi si sorprende a pensare che sta in ansia, ma si sente pure bene. Si sente viva, Patti Smith, e non è poco. Sì, pensa rialzandosi per comporre di nuovo il numero, a volte l’amore è uno squillo, una telefonata.

Record Plant, quell’incontro "galeotto" con il Boss

Nel 1978 si alternano tre pontefici, Jimmy Carter siede saldamente in sella agli Stati Uniti e i Van Halen pubblicano il loro primo album. Nel frattempo, la cantautrice originaria di Chicago ha trentadue anni. Coltiva giù un robusto circuito di fan, ma nulla di trascendentale. Cerca una svolta, Patti, però nel senso più profondo di una sua crescita artistica. Dei successi fast food non gliene frega niente. Non sa, come potrebbe, che il destino sta per recapitargliela proprio lì la sua grande occasione, nella pancia dei Record Plant Studios di New York, dove sta registrando Easter, il suo nuovo album. Tambureggiano alla porta. Deve togliere le cuffie. Quando apre si trova di fronte un tizio dalla faccia nota e sorridente. Stringe tra le mani il testo di una canzone. “Vorrei parlartene un attimo”, le sussurra Bruce Springsteen.

L’assist del Boss e i tentennamenti di Patti

Il Boss, reduce dall’euforico trionfo di Born to run, è già la risposta giusta alle speranze del rock a stelle e strisce. In quei giorni, i primi dell’anno, si trova lì anche lui perché sta registrando Darkness on the edge of town. Tra i nuovi pezzi composti ce n’è anche uno che potrebbe avere un ottimo potenziale, se solo capisse come sbloccarlo. Springsteen canticchia la melodia, ma pare perplesso. Dapprima pensa che potrebbe arrangiarlo con uno stile latino, poi getta la spugna. Anche il testo non lo convince. Infatti lo sibila appena, accennando qualche frase all’orecchio di Patti. Poi l’epifania: “Senti, l’ho scritta io, ma mi pare molto più adatta a te. Saprai di certo cosa farne”. Ora quella perplessa è Smith. Il motivo fila, anche troppo. Sembra eccessivamente mainstream per i suoi elaborati gusti. Afferra il foglio sgualcito e zeppo di note, dicendo che ci penserà.

L’attesa per quella telefonata nella notte

Si contorce Patti, chiedendosi cosa fare. Da un lato è onorata per il regalo di Bruce. Dall’altro teme di allontanarsi troppo dalla sua orbita interiore maneggiando una creatura non sua, potenzialmente incandescente. Tentenna la Smith, indugiando sulle possibili parole, interrogandosi sull’arrangiamento. La lambisce spesso l’idea di appallottolare quel foglio e non farne di nulla. Poi una sera che aspetta una telefonata da Franky “Sonic” Smith, chitarrista degli MC5 e suo futuro marito, resta impigliata in una rivelazione. Lui non la sta chiamando, né risponde ai suoi squilli. Lei si accascia vicino al telefono in trepidante attesa. Quel sentimento la strazia, ma le fa anche pulsare il cuore in petto. Riesce a sentirsi. Riscopre la forza motrice dell’amore. "Love is a ring, the telephone", mormora. Poi afferra una matita e inizia a scrivere sul testo di Springsteen. Sta per nascere "Because the night". 

La notte appartiene agli amanti: un successo mondiale

Patti procede come un treno. Vira l’arrangiamento del brano in chiave rock. Scrive trasferendo su carta quello che sta provando. Pilota finalmente il destino del brano. "Because the night belongs to lovers": quella strofa incisa nel ritornello è il manifesto di un’anima anticonformista che lei incarna perfettamente. Il pezzo viene diffuso il 2 marzo, esattamente un giorno prima dell’uscita di Easter. Diventa in fretta un successo mondiale e il faro di una generazione ribelle. Lei inizialmente fa spallucce. Anzi pare disgustata, al punto di autodefinirla “una commercialata di basso gusto”. Poi però deve ricredersi. La gente lo ama, ci si identifica. La storia di quella telefonata attesa appartiene a milioni di altre cornette. E non c’è davvero nulla di male se le aiuti a riconoscersi in una canzone. Il successo è deflagrante. Una cantautrice nota diventa star globale. A volte una chiamata senza risposta ti lascia tutte le risposte.

Patti, dalla fabbrica alle classifiche mondiali

Patti Smith nasce a Chicago il 30 dicembre 1946. Mamma Beverly fa la cameriera, anche se in precedenza c'aveva provato come cantante Jazz. Il papà, Grant, è un macchinista. Ha due sorelle, Linda e Kimberly, e un fratello, Todd. La fatica fa parte del suo corredo genetico: dopo il diploma va a lavorare in fabbrica, mentre attende di scoprire cosa le riserva la vita. Nel 1967 darà alla luce la sua prima figlia, ma decide di farla adottare. Le prime contaminazioni artistiche arrivano con il suo trasferimento a New York: qui frequenta Bob Dylan, Harry Belafonte, gruppi musicali, registi, poeti. Inizia a comporre i suoi primi versi e li declama accompagnata da una timida base musicale. L'approdo è nitido. A ventotto anni fonda il The Patti Smith Group e inizia a produrre album che si alimentano di un rock senza fronzoli, venato da una tambureggiante tensione anticonformista. Con la band pubblica Horses, Radio Ethiopia, Easter e il meno impattante Wave. Sale alla ribalta in modo irresistibile, raggiungendo un pubblico globale.

Ma nel '79, dopo una serie di concerti sold out in Italia, annuncia il ritiro a sorpresa. Intende sposarsi e dedicarsi alla famiglia, sostengono i media. Tornerà, sospinta anche dai consigli degli amici Michael Stipe e Allen Ginsberg, che la aiutano ad elaborare il lutto per la scomparsa del primo compagno, il fotografo Robert Mapplethorpe. Patti si prenderà delle pause e rientrerà sulla scena più volte negli anni seguenti. Sempre a sopresa. Sempre con quel rock impegnato e malinconico, che allude ai dolori e alle follie del mondo, ma anche ad una maniglia aperta sulla libertà per chi rifiuta di aderire ai dogmi.

Peppino di Capri. Estratto dell'articolo di Paolo Graldi per “il Messaggero” l'11 maggio 2023. 

Per lei, che ci vive, Napoli che cos'è?

«Napoli è energia pura. I napoletani sono gente che sa mettercela tutta per raggiungere uno scopo. Noi napoletani abbiamo voglia di farcela, a tutti i costi, una voglia infinita. E poi, lo ammetto, abbiamo anche due grandi alleati, il sole e il mare». 

E il Napoli, lo scudetto

«Ha vinto perché ce l'ha messa tutta, ha vinto con merito, con orgoglio, con passione autentica. Questo scudetto torna a Napoli e al Napoli per effetto di una costanza, una determinazione tutta napoletana. Una soddisfazione immensa.

Champagne!» 

Parliamo di lei. Possiede una voce assolutamente particolare. Che parte ha avuto nel suo successo?

«All'inizio, devo confessare, la mia timbrica nasale era particolare, mi prendevano in giro anche gli imitatori. Poi, col tempo, la gente ci ha creduto, è piaciuta.

Ed eccomi qua». 

Si sente un po' un poeta?

«Io mi sento un interprete: questa enorme parola così bella e così dolce. A volte, poi, si sta attraversando un periodo negativo: bene, è il momento più bello per scrivere. Cogliere quel momento, quella tremarella nell'aria, è il segreto. Dopo quel lavoro, diventa un successo, e arriva quando magari non ci speravi più». 

Come nascono le belle canzoni?

«Le canzoni nascono tutte belle e poi è il pubblico a decretarne il successo». 

Il sentimento che utilizza maggiormente nei suoi testi?

«La parola "amore" fa gola, è una poesia, è lo scatto che ti sussurra, ti apre e ti sprona. Poi, come si dice a Roma, se riesci ad "azzeccare" il successo è ancora meglio. A me è successo parecchie volte, non mi posso lamentare».

La canzone napoletana classica. Un lavoro culturale che le ha dato tante soddisfazioni.

Vero?

«Devo peccare di presunzione. Penso di essere stato fra i primi a scoprire la potenza della canzone napoletana. Ho capito che racchiudeva il pregio di essere tramandata ai posteri. Mia mamma Giovanna cantava in casa canzoni stupende, della sua epoca. E un bel giorno, quando ebbi l'occasione di essere un protagonista musicale, me ne uscii con canzoni tipo Voce e notte o I' te vurria vasà e altre di quella fascia generazionale e fu un grande successo. Spesso i ragazzi mi venivano vicino a chiedermi: "Che bella, ma è tua?" "Sì, va beh, magari", rispondevo». 

Le tre canzoni del suo repertorio che le piacciono di più?

«Partirei con Il sognatore, poi Champagne e Roberta.»

Qual è il segreto di una carriera tanto lunga?

«Al primo posto metterei l'umiltà. È il pubblico che decreta il tuo successo nel tempo. Per me sono 64 anni di canzoni, e non mi sono mai stancato di nulla.Ci sarà, spero, ancora un po' di spazio per me». 

(...)

Si capisce subito se una canzone avrà successo o bisogna sempre aspettare il verdetto del pubblico?

«È il verdetto del pubblico a decidere del successo di una canzone. Champagne, al finale di Canzonissima arrivò al 5º posto. Sconsolato pensai: "Allora di musica non capisco più niente". Tanto che mi detti un obiettivo: "Se entro tre mesi non arriva prima in classifica allora non ho capito niente e cambio mestiere"».

"Champagne" è un successo mondiale.

«Quando vado in qualsiasi teatro cominciano a gridare "Champagne, Champagne" e dovrei rispondere: "Non posso cominciare con Champagne perché altrimenti non saprei come finire". Champagne è per il saluto». 

Ha mai pensato "non ne posso più di cantarla"?

«Diciamo che potrebbe anche succedere. Ma non è così. Nel sentirla, nel cantarla, nell'interpretarla tante volte non è mai quella del giorno prima, c'è sempre qualche nota in più che la può abbellire, che la rende speciale». 

(...) 

Capri, la sua isola. Che cosa rappresenta per lei?

«Innanzitutto, chiariamo che non è la mia isola. Capri è il rifugio più dolce». 

Che cos'è che le piace di Capri?

«L'aria, la bellezza, l'atmosfera. L'Italia ha isole una più bella dell'altra. Però, forse, la gente a Capri respira di sicuro un'aria più dolce, più affascinante, più invitante, che ti guida nella via giusta. Ne sono innamorato».

Ultima domanda: in cinque parole, chi è davvero Peppino di Capri?

«Un uomo onesto, che si è dedicato al prossimo cercando di essere sé stesso. Non ho cercato vie di compromesso. Un uomo a cui è capitato molte volte durante la notte, a fine concerto, di non sentire più la stanchezza ed è rimasto ad aspettare il ragazzino che vuole l'autografo prima di andare a dormire».

Non sono solo canzonette. La sconfinata curiosità intellettuale di Peter Gabriel. Christian Rocca su L'Inkiesta l'8 Dicembre 2023

i/o è un disco atteso da ventuno anni che conferma come l’ex leader dei Genesis sia un genio, la cui lungimiranza è paragonabile solo alla common law inglese, perché è un musicista che si evolve nella tradizione e anticipa il progresso di una società che matura

Un disco che ho aspettato ventuno anni, anzi trentuno visto che il precedente, Up, non è paragonabile alla grandezza dei precedenti album del mio cantante preferito, Peter Gabriel, già voce e leader del mio gruppo preferito, i Genesis. Ma finalmente i/o è arrivato, a dicembre 2023 e in tre mixaggi differenti non molto diversi l’uno dall’altro, dopo che il sadico Peter ha centellinato un pezzo nuovo al mese a partire dall’inizio dell’anno, costringendoci ad aspettare il maledetto plenilunio per sentirne un altro e poi ad assistere al concerto dal vivo, a maggio a Milano, avendone già ascoltati soltanto quattro o cinque. 

L’album completo è composto da 12 canzoni, lunghe in media sei minuti, ciascuna delle quali è un’opera a sé stante, tanto ogni singola traccia di i/o si presenta come un mondo complesso raccontato con versi toccanti, denso di suoni, di diavolerie ingegneristiche, ma anche di archi e di cori, di musica contemporanea e di soul, di rock e di world music, di spruzzatine di genio di Brian Eno, e di maestria musicale del fedele terzetto di musicisti e compagni di una vita Tony Levin, David Rhodes, Manu Katchè (c’è anche la tromba di Paolo Fresu nell’ultimo brano Live and let live). Gabriel non si fa mancare niente, a ogni canzone ha abbinato anche un’opera visiva di un artista concettuale contemporaneo. 

In i/o c’è tutta la sconfinata curiosità intellettuale di Peter Gabriel, tutte le preoccupazioni civili, tutte le riflessioni evolute, tutte le speranze e tutti i timori sul progresso, sulla vita, sulla morte.

Gabriel è un artista incapace di fare due volte la stessa canzone o lo stesso disco, è un inguaribile traghettatore della contemporaneità verso nuove frontiere ancora da decifrare, «io sono solo parte di tutto», è un’intelligenza fin troppo cerebrale e per questo difficile da contenere, in particolare in questi tempi impazziti.

Peter Gabriel è semplicemente un genio, un genio musicale vero, uno che costringe ad ascoltare con reverenza le sue canzoni, le sue elaborate costruzioni musicali, la sua produzione rigogliosa e infinita, apparentemente eccessiva e artificiale, ma poi andatela a sentire dal vivo per rendersi conto che in realtà è solo cura meticolosa dei dettagli. 

Peter Gabriel è stato la bandiera del rock progressive e anche il suo straordinario rottamatore, avendogli fatto incontrare, attraverso gli incubi metropolitani dell’enigmatico Rael di The Lamb lies down on Broadway, il punk rock, ma in una versione ripulita dall’analfabetismo musicale dei suoi rivoluzionari alfieri. 

Peter Gabriel ha inventato la world music in tempi in cui non eravamo così stupidi da poterlo accusare di appropriazione culturale, ha inaugurato la stagione  del rock in difesa dei diritti universali, ha reso di nuovo contemporanea, e soprattutto rock and roll, la soul music americana di cui è un estimatore fin da quando, a diciassette anni, andò a un concerto di Otis Redding. Peter Gabriel ha trasformato le canzonette pop in trattati di introspezione personale e di impegno civile. 

i/o è il disco che fotografa lo stato dell’arte di un signore di settantatré anni, senza più il fisico e la presenza scenica della rockstar, ma ancora dotato di una voce commovente e di una testa che non rinuncia a guardare avanti, senza cestinare il passato. Peter Gabriel è come la common law inglese, la sua musica si evolve nella tradizione e anticipa il progresso di una società che matura. 

In i/o ci sono echi dei primi quattro album di Gabriel, e poi anche di So e Us: dal post progressive di Four kinds of horses, Love can heal, Playing for time, So Much, This is home, And still, le canzoni più belle dell’album, ma anche echi del rock di Shock the monkey o Solsbury hill in Panopticom e nella title-track i/o. C’è anche l’impegno sociale di Biko, Games without frontiers e Don’t give up in The court. E, ancora, il soul di Sledgehammer, Digging in the dirt e Big Time in Olive Tree e Road to Joy.

i/o è un disco favoloso, da ascoltare da soli, senza distrazioni, perché siamo solo parte di tutto.

Peter Gabriel: «L'ultimo show dei Genesis? Mi sentivo triste. La Sardegna? È la mia seconda casa». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera lunedì 4 dicembre 2023.

Il cantautore racconta «I/O», il nuovo album uscito a oltre 20 anni dal precedente: «Siamo tutti interconnessi e dovremmo ricordarcelo. Non temo la vecchiaia, credo nella longevità»

«Sono solo una parte del tutto», canta Peter Gabriel con la sua voce di velluto nel ritornello di «I/O», brano che dà il titolo al nuovo album, arrivato a oltre 20 anni dal precedente. L’interconnessione fra gli esseri viventi è uno dei temi centrali di un lavoro in cui il cantautore britannico, 73 anni, riflette sul tempo che passa, sull’amore, sulla tolleranza, sulla vita intera.

Oggi siamo più interconnessi o più concentrati su noi stessi?

«Internet e i social ci permettono di stare connessi, ma chiedono anche la nostra attenzione per guadagnare soldi. Però quella sensazione che alcune persone provano subito prima di morire o quando prendono delle droghe o meditano ci dà l’idea che ci sia qualcosa di molto più grande di quel che vediamo nella vita di tutti i giorni. Siamo piccoli atomi in un sistema unico, dovremmo ricordarlo».

Sarebbe utile tenerlo in mente anche per la crisi climatica. La supereremo?

«Non ha senso essere pessimisti perché allora tanto vale arrendersi. Vedere persone che vogliono cambiare le cose per il meglio ha un’influenza positiva e io voglio circondarmi di questo tipo di persone».

Guardando ai conflitti in corso, vede persone che lottano per un cambiamento?

«Ce ne sono in molti ambiti. Se guardiamo però a Israele e Palestina, si dovrà per forza arrivare a un accordo, altrimenti il massacro continuerà. Sostengo la Palestina da tanto perché ha subito un’oppressione enorme, ma quel che è successo agli israeliani è stato brutale e scioccante. Finirà solo quando le persone si siederanno a un tavolo a parlare».

Il tempo che passa è ben presente nel disco. Cosa ha imparato invecchiando?

«Che corri meno veloce e impari a dire più no alla gente. Forse impari anche a essere di più te stesso. Poi se guardiamo ai progressi della biomedicina, la longevità è una delle aree più interessanti. Forse stiamo entrando in un mondo diverso e se sopravviveremo alla crisi climatica dovremo cercare di costruire una società generosa ed equa per tutti».

Pensa anche all’Intelligenza Artificiale?

«Quando diventerà più intelligente degli uomini ci saranno possibilità straordinarie per cambiare il mondo, spero in meglio, ma starà a noi capire come usarla: può renderci liberi o schiavi».

«And Still» è dedicata a sua madre, morta 6 anni fa. È stata difficile da scrivere?

«Sì, ci ho messo un po’ perche avevo tanti sentimenti mescolati. Mi amava profondamente, così come io amavo lei, quindi mi è servita un po’ di distanza per poter scrivere qualcosa di vero».

Che ricordi ha della sua infanzia?

«Il Natale, la spiaggia, i pomeriggi pigri d’estate, andare sul trattore con mio padre e lavorare nella nostra fattoria... Tanti bei ricordi».

Paolo Fresu ha suonato in uno dei brani. Come l’ha conosciuto?

«Qualcuno mi ha mandato una sua bellissima versione jazz di un mio brano, «What Lies Ahead». Quando l’ho sentita ho pensato che sarebbe stato un gran musicista con cui lavorare. Non sapevo ancora che avessimo il comune legame con la Sardegna».

Continua ad andarci?

«Adoro andarci, è la mia seconda casa e mi rende felice, specie quando non ci sono troppi turisti».

Ricorda quando fu ospite a Sanremo nel 1983?

« Penso di essere famoso per la scena in cui mi sono lanciato sul pubblico con una corda, ma poi ho rischiato di farmi molto male, schiantandomi sul palco: so di aver fatto ridere due terzi dell’Italia».

L’anno scorso è andato, da spettatore, all’ultimo concerto dei Genesis.

«Ci sono andato perché i Genesis sono nati quando eravamo studenti e abbiamo lavorato sodo per far partire le cose, quindi volevo essere lì alla fine, per gli amici di tanti anni fa. È stato un misto di tristezza, calore, amicizia, anche se non era più la mia band, ma una creatura diversa. Abbiamo tanta storia insieme ed è stato bello essere lì».

Com’erano i primi tempi?

«Io ero quello che rompeva le scatole al gruppo: non erano tutti così consapevoli che dovevamo pagare le bollette e trovare date. Ci sono state due o tre occasioni in cui non sembrava che saremmo riusciti ad andare avanti, quindi il primo successo è stato bellissimo. Abbiamo tanti bei ricordi anche dell’Italia: ci andavamo in estate quando in Inghilterra non c’era lavoro. Suonavamo in discoteche, campi da calcio, teatri, ovunque ci pagassero».

Il ritorno di Peter Gabriel: «Sono un vecchio ragazzo alla ricerca di quello che conta davvero». Roberto De Ponti su Il Corriere della Sera il 18 Maggio 2023

Il cantante stasera debutterà alla Tauron Arena di Cracovia, in Polonia, poi subito due date in Italia, sabato 20 maggio all’Arena di Verona e domenica 21 al Mediolanum Forum di Assago. 

L’eterno indeciso si è finalmente deciso. E l’eterno insoddisfatto a quanto pare è finalmente contento del proprio lavoro, tanto da decidere di esibirlo ai suoi fan che da anni lo attendevano (anche un po’ al varco, a dire il vero). Peter Gabriel da Chobam è di nuovo in circolazione, stasera debutterà alla Tauron Arena di Cracovia, in Polonia, poi subito due date in Italia, sabato 20 maggio all’Arena di Verona e domenica 21 al Mediolanum Forum di Assago, eventi praticamente sold out (ma una risicatissima manciata di biglietti è ancora disponibile) che riportano nel nostro Paese l’ex cantante dei Genesis – si dice ancora così, anche se mollò la band ormai nella preistoria, il 16 agosto 1975 – dopo un’assenza di nove anni. «C’è sempre un misto di terrore ed eccitazione quando decidi di rimetterti in viaggio». Nulla di più vero, quando si parla (e a parlare è lui) di Gabriel, l’uomo più lento del mondo nel produrre nuovi album. Lui soppesa, centellina, rifinisce le canzoni, sempre insoddisfatto del prodotto finale. Lo aveva raccontato anni fa, nel 2002, dopo la pubblicazione del suo ultimo album in studio, «Up» (che peraltro seguiva di dieci anni il precedente, «Us»): «Le canzoni non sono come farfalle che appunti al muro con gli spilloni. Le canzoni nascono, crescono, si evolvono, assumono una vita propria e continuano a cambiare. Poi capisco bisogna mettere un punto fermo e dire: ok, è arrivato il momento di fotografarla e di pubblicarla così com’è. Ma anche una volta pubblicate, mi rendo conto che avrei potuto migliorarle ancora».

Un perfezionismo al limite del maniacale, che l’ha portato a far trascorrere altri ventun’anni prima di incidere un nuovo album di inediti. Lo ascolteremo presumibilmente a settembre ma intanto Gabriel, sovvertendo la classica regola disco-promozione-tour, porterà da stasera in concerto alcuni di questi brani prima dell’uscita del disco. Anche se, c’è da scommetterci, non si tratterà ancora delle versioni definitive-definitive. Ma Gabriel è fatto così, prendere o lasciare. E se le nuove canzoni, che hanno sonorità moderne ma ripescate dai tempi passati, dalla ricerca ritmica, da inesorabilità alla «Digging in the Dirt», sono lo specchio del nuovo album, allora vale la pena tutta la vita di prendere. Anche perché la band «storica» si è evoluta in maniera del tutto inaspettata. «Sono ormai un vecchio ragazzo, ma mi fa bene avere molta di questa giovane energia intorno. Penso che le cromie che ora possiamo usare, con i corni e gli archi, abbiano un significato che dal punto sonoro mi rendono davvero felice». Ed è paradossale che l’uomo che ha introdotto la tecnologia nella musica – do you remember Fairlight CMI, il primo campionatore piegato alle esigenze della canzone? – oggi sia tornato a strumenti analogici, anzi ancora di più, all’acustico, a una miniorchestra sul palco: «Abbiamo l’incredibile violoncellista Ayanna Witter-Johnson, che suona anche le tastiere e canta magnificamente, poi Marina Moore al violino e alla viola. E Josh Shpak, che è un brillante trombettista. Me l’ha segnalato Oli Jacobs, un produttore, che l’ha sentito suonare nell’appartamento accanto mentre stava a visitare un amico. Alle tastiere cercavo un musicista funky e Brian Eno mi ha detto: Peter, l’uomo che fa per te si chiama Don E. E ho scoperto che oltre a essere bravissimo sa suonare praticamente tutti gli strumenti».

A questi, si aggiungono i compagni d’avventura di una vita: Tony Levin, naturalmente al basso e agli stick, e David Rhodes alla chitarra, Manu Katché alla batteria e il ripescato Richard Evans, altro polistrumentista che aveva già suonato con Gabriel ai tempi del «Growing Up Tour». Quello che si può definire un mix tra una rimpatriata di vecchi amici e l’innesto di linfa nuova. E l’album? Ah sì, si chiamerà “i/o”, che altro non è che la definizione di un canale componente del sistema di input/output di un dispositivo, così almeno dicono quelli che ne sanno di informatica. Titolo di due lettere, come abitudine di Gabriel, come per gli altri album «So» (1986), «Us» (1992) e appunto «Up» (2002). E tralasciamo i primi quattro, per convenzione chiamati «I», «II», «III» e «IV» ma che in realtà non avevano titolo. E titolo ipertecnologico, perché va bene l’analogico, ma Gabriel guarda sempre avanti, come all’intelligenza artificiale che già aveva cantato nel 2016 con i suoi discepoli OneRepublic. E con molto sospetto. «Penso che siamo al punto di una crisi esistenziale, che riguarda l’AI. Sono un grande fan e sostenitore della tecnologia, ma come per ognuno di questi potenti strumenti di trasformazione devi avere un’idea di che cosa vuoi da loro e soprattutto di dove potrebbero portarti».

L’intelligenza artificiale è uno dei temi delle nuove canzoni, ma non solo: «Ci sono alcune idee che ricorrono in alcune delle canzoni come riconnettersi alla natura. Sento che abbiamo perso il senso da dove veniamo; penso che ci siamo allontanati dal pianeta, dal mondo naturale. Ci piace fingere di vivere in questo ambiente artificiale creato dall’uomo e di essere indipendenti e isolati, ma in realtà dipendiamo molto dal pianeta su cui siamo nati. Inoltre, ora ho 73 anni, sto invecchiando. E questo è un altro tema. Cercare di semplificare le cose che apprezzi, capire chi e che cosa è importante nella tua vita, ora che gli anni passati cominciano a essere tanti. Quindi sì, in qualche modo il disco è più riflessivo di altri. Però non preoccupatevi troppo, penso di essere ancora abbastanza vivo e con la band mi sono davvero divertito». Ed è verosimile che Gabriel si divertirà anche sul palco. Magari non ci si possono aspettare più tuffi sul pubblico, uscite di scena con i musicisti chiusi in una valigia, passaggi sul palco rimbalzando all’interno di una sfera o camminando a testa in giù appeso al soffitto, per non parlare del suo atterraggio (maldestro) da alieno sul palco di Sanremo nel 1983: oggi Peter Gabriel è uno ieratico 73enne dall’aspetto di un vecchio saggio ma la voce, per quanto possa sembrare impossibile, è persino migliorata grazie ai toni rochi che l’hanno resa inimitabile. E lo spettacolo è assicurato.

Intanto, da una colonna sonora ineguagliabile: «Sarà un compromesso: le persone generalmente vogliono sentire le canzoni che conoscono e l’artista generalmente vuole suonare le nuove cose. Quindi è una sorta di baratto in cui lo spettatore deve subire qualche nuovo brano per ascoltare anche quelli vecchi. È sempre stato un po’ così con me, ma penso che questo sia un bel gruppo di canzoni. Non tutte ritmate, ma sicuramente suonate con molto cuore». Quindi prepariamoci ad ascoltare brani nuovi come «The Court», «Panopticon» e «i/o» (a proposito: è la prima volta che Gabriel ha una title track di un album) ma anche evergreen come «Sledgehammer» o «Red Rain». E poi dal ritorno alla collaborazione con Robert Lepage, responsabile visivo e visionario dei tour di «Secret World» e «Growing Up»: «Sì, Robert Lepage è un regista teatrale e cinematografico straordinario e visionario, ma è la sua mente che amo. È anche molto divertente, a volte molto ruvido, quindi è divertente lavorare con lui. La sua forza è saper raccontare storie, collegare le cose insieme in modo da dare un senso compiuto al tutto. Non riesco a pensare a nessuno migliore per aiutare a realizzare le cose in termini di performance dal vivo perché ha questo meraviglioso senso visivo». È proprio vero: l’eterno insoddisfatto questa volta pare davvero soddisfatto. Buon per i suoi fan.

Il nuovo singolo dell’artista. Pico, da Procida il rap per raccontare i giovani al Sud: “I nostri sogni oltre la violenza”. Rossella Grasso su Il Riformista il 23 Dicembre 2022

Vengo dal paese dove i sogni li chiaman ca**ate”. Recita così il primo verso del pezzo che aprirà il suo disco e che è un po’ la cifra del suo lavoro: cantare, rappare e nel farlo raccontare quello che prova una intera generazione di giovani che vivono al Sud. È questo l’obiettivo di Pico, nome d’arte di Ludovico Izzo, 25 anni, nato, cresciuto e ispirato a Procida, piccola isola nel golfo di Napoli che nel 2022 è stata la capitale della cultura. Il 23 dicembre è uscito su tutte le piattaforme digitali il suo ultimo singolo dal titolo “Young Louis”. Una voce controcorrente che grida a tutti: “Il rap al Sud troppo spesso racconta solo di violenza. Ma essere giovani al Sud è molto altro: è cercare di seguire i sogni troppo spesso negati. Il mio primo album è un tributo ai lasciati fuori, a chi aveva un sogno ma non è riuscito a realizzarlo”.

Per Pico, la passione per la musica è iniziata per gioco quando aveva 20 anni. “Ero scritto all’Università, Informatica – racconta al Riformista – Con dei miei amici avevamo un gruppo su Whatsapp su cui per gioco scrivevamo delle rime. Ci accorgemmo che non erano male e così mi consigliarono di farne un mixtape. Le mettemmo su soundcloud, solo per noi. Ma la passione per quella musica e quel tipo di espressione cresceva ogni giorno di più. I ragazzi di Ars Nova poi mi misero in contatto con quelli che sarebbero presto diventati i miei produttori, Simone Capurro, Starchild, e Alex Silvestri”. Tutti 25enne napoletani che guardano lontano e pensano in grande.

Nella sua prima esplorazione Pico si era avvicinato a uno stile più lirico, pieno di parole, con un rap “old school” molto concentrato sulle rime. “Era un misto di rap e soul fatto per sperimentare, ma tutto quello che ho prodotto è rimasto nel cassetto, è per il futuro”, spiega il cantante. E racconta di quella passione che aveva sin da bambino per la scrittura. “Mai avrei pensato che quello che scrivevo potessero diventare canzoni – dice – la musica mi piaceva ma non mi identificavo e non mi rispecchiavo nel rap italiano e così ho deciso di mettermi anche io in gioco: ho iniziato con la sperimentazione alternative Hip Hop italiana sulla scia di Kendrick Lamar. È lui l’artista che ha risvegliato in me qualcosa, come un interruttore”.

E così è nato il primo singolo dal titolo “Democrazia dei singoli”. Pico racconta che dopo averlo pubblicato sulle piattaforme andò malissimo. “Poche visualizzazioni – racconta – ma nel momento in cui è andato male ho capito che non mi dovevo fermare proprio per l’amore che ho per la musica: non potevo tradirla e ho continuato a sperimentare e pubblicare. Ci sono state altre pizze in faccia che però mi sono servite a insistere e andare avanti. Fu allora che ho capito che stavo facendo musica per piacere agli altri e questo era sbagliato. Io sono una persona molto mite caratterialmente. Ho conosciuto una parte di me più aggressiva e competitiva, che non conoscevo. Young Louis, appunto, che ha preso il posto di Pico. E le cose sono andate meglio”. È come se Pico, piccolo e innocente, fosse entrato in un mondo enorme come quello della musica, senza tradire la sua natura “giovane” e “pura”. “Young Louis è l’alterego di Pico – spiega il rapper – è proprio l’ego che come un’armatura protegge l’io”.

I primi successi arrivano con il singolo “Red Light”, uscito con Machete e Sony Columbia dopo aver vinto il contest “Cantera Machete” su Twitch. “Grazie a quella competizione per me si sono aperte le porte dell’ Rca Studio di Milano. Per me è stata un’esperienza indescrivibile: ero già stato lì, ma ero rimasto fuori. Avevo portato una demo come fanno tanti ragazzi che sognano la musica. E invece in quel momento ero lì, dentro, invitato ad esserci e a registrare. Un sogno che era diventato realtà. Quell’esperienza ha rinnovato la mia determinazione: mi sono reso conto che non avevo nulla in meno rispetto agli altri rapper. Anche se faticoso, anzi, proprio perché è faticoso. Era la fatica a indicarmi la giusta direzione. Se fosse stato facile arrivare fin lì forse non sarebbe stato così”.

Quello che Young Louis, da ragazzo nato e cresciuto al Sud, proprio non tollera è la retorica che anche i rapper meridionali spesso appoggiano, che vuole il rap per raccontare solo di rapine, pistole e violenza. “Nel rap non si parla mai dei normali, dei ragazzi lasciati fuori perché non hanno la forza o le possibilità di inseguire i loro sogni – racconta Pico – Eppure i sogni sono fondamentali: senza sogni l’uomo resta uomo ma vale solo la metà, è l’ombra di se stesso. Con le mie canzoni voglio raccontare drammi quotidiani di ragazzi della mia età e il nostro mondo interiore”.

A 25 anni Pico ha già toccato con mano i drammi della sua generazione e quella fatica per provare a realizzarsi comune anche ai suoi coetanei. “Io, per esempio, sono un giovane di Procida, una piccola isola dove non ci sono stimoli. Dopo la scuola ogni ragazzo deve decidere se inseguire i propi sogni lontano oppure restare e fare quello che fanno tutti, anche se non ti piace”. Pico è rimasto a Procida ma ai sogni non rinuncia e ce la sta mettendo tutta per realizzare i suoi inseguendo la musica. “Io devo molto alla mia isola – spiega – ma ammetto che è come una relazione tossica con una donna che c’è ma non ti ama più e non ti dà più niente”.

Pico parla delle difficoltà che riscontra quotidianamente. “Forse fare musica al Sud è ancora più difficile – dice – C’è bisogno di talento, certo, se non ce l’hai non puoi andare avanti. Ma a volte ho l’impressione che al Sud non riesci proprio a far arrivare la tua voce da nessuna parte. Per esempio in Campania non ci sono proprio realtà che promuovono musica. Eppure di artisti bravi ce ne sono e come. Anche il rap napoletano è al top. Penso ad artisti come Geolier ad esempio. È come se fossimo isolati”.

Ma dell’essere meridionale il musicista ha preso anche tutto il meglio. Essendo cresciuto senza il papà, presto ha imparato da quelli che vedeva intorno a lui l’arte di arrangiarsi e a ritrovare in loro tutto quello che gli mancava e di cui aveva bisogno. “Ho imparato dalla gente a prendere le cose con filosofia – dice – e a riuscire ad affrontare ogni situazione. La mia musica non viene solo da me ma da tutti quelli che hanno versato acqua nella mia ‘brocca’. È come scritto in Siddharta. La mia brocca non è ancora piena ma penso che quello che c’è dentro non è da buttare”.

Nonostante le difficoltà Pico, con impegno e perseveranza, continua per la sua strada: “Spero che questa faticata che sto facendo e che non ho voglia di mollare mi porti sui palchi di tutta Italia – continua – voglio stare in contatto con le persone e fare la musica perché amo la musica. Ancora di strada ne ho da fare ma sono certo che troverò il mio posto nel mondo grazie alla musica”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Anticipazione da Oggi il 7 giugno 2023.

Pier Francesco Pingitore, fondatore del Bagaglino, sta preparando per la Rai una riedizione del suo spettacolo televisivo di successo degli anni Ottanta. Mancano data e dettagli ma c’è il nome: Bagaglione. Lo anticipa il settimanale OGGI nel numero in edicola da domani. 

Pingitore, 88 anni, da giovane dirigente del Fuan (il Fronte universitario legato al Movimento Sociale) e poi caporedattore del settimanale di destra Lo Specchio, sentito da OGGI conferma: «La cosa è ancora molto acerba, la proporrò a Viale Mazzini, ma chissà se quagliamo». E aggiunge: ««Ci sarà bisogno di irrobustire il ceppo originario di sangue nuovo, ma torneranno in servizio anche i veterani… Il mio problema è che i ribaltoni e le gaffe sono ormai così frequenti che in Italia gli stessi che fanno politica fanno pure la satira».

E sull’uscita dalla Rai di Fabio Fazio e Lucia Annunziata Pingitore dice: «Non so se ci saranno dei rimpiazzi altrettanto validi… Rilevo, senza acrimonia, che noi del Bagaglino, nel 1994, all’epoca della Rai dei Professori, fummo vittime dell’unica epurazione della tv di Stato, e avevamo da 10 a 12 milioni di spettatori ogni settimana. Quella volta però, caso strano, gli intellettuali non si strapparono le vesti».

Da ilnapolista.it l'11 giugno 2023.

Libero ha conversato con Pierfrancesco Pingitore, giornalista, regista, sceneggiatore e il padre del Bagaglino. Lo spettacolo è andato in scena e in onda per anni al Salone Margherita di Roma, finché, dopo il covid, la Banca D’Italia ha deciso di non riaprire più il teatro. 

Voi siete approdati li perche altri artisti non volevano lavorarci, e vero?

«Guardi, il Bagaglino ha fatto i suoi spettacoli dal 1965 in una cantina di vicolo della Campa- nella. Siamo arrivati al Salone Margherita nel 1972 in cerca di un posto che potesse evitarci i reumatismi. Quando arrivammo li quel teatro era completamente decaduto. 

Noi lo portammo a un fulgore che forse non aveva mai conosciuto prima con spettacoli di cabaret e poi per la televisione che raggiunsero picchi di 14 milioni di ascoltatori quando venne ospite Andreotti. L’ultimo spettacolo e stato La presidente nel quale immaginavamo che Valeria Marini potesse diventare presidente della Repubblica. Una sorta di vaticinio per quello che che e accaduto poco dopo con l’arrivo della Meloni a Palazzo Chigi». 

«Noi siamo stati cacciati dalla Rai dei Professori, ma nessuno si straccio le vesti…» 

Quindi dalla Rai vi mandarono via dopo la fine del mandato di Cossiga.

«Si con la Rai dei Professori. L’unico che ci diede la solidarieta fu Michele Santoro, dalle cui idee eravamo lontanissimi, ci invito in trasmissione. Fu Angelo Guglielmi, anche lui lontanissimo dalle nostre idee, a spiegare ai nuovi dirigenti che avrebbero perso una bella fetta di inserzionisti. Cosi ci richiamarono e facemmo una stagione trionfale con Bucce di banana. Ma poi ci volle Berlusconi e, ammaestrati dall’esperienza, passammo a Mediaset».

E li conobbe anche il Cavaliere…

«Si, lui e un fuoriclasse. Un uomo di una levatura diversa che ha lasciato il segno sulla storia d’Italia. Ma le racconto un aneddoto sul suo sosia…» 

Dica…

«Era un venditore di scarpe che gli somigliava moltissimo. Solo che non potevamo farlo parlare in scena perche aveva un fortissimo accento romano. Cosi gli dicemmo di sorridere soltanto. Gli facemmo rifare anche i denti ma non si trovo bene. Ricordo che si lamentava e mi diceva: “Ah dotto, cosi nun posso piu ne magna ne ride»

Pier Francesco Pingitore: "La Rai ci ha cacciato. Ma tutti zitti...". Daniele Priori su Libero Quotidiano il 06 giugno 2023

«Noi siamo stati cacciati dalla Rai dei Professori (primi anni 90, ndr), ma nessuno si stracciò le vesti...» Pier Francesco Pingitore, giornalista, regista, sceneggiatore è il padre del Bagaglino, compagnia rimasta legata per sempre al Salone Margherita di Roma che dopo la pandemia non ha più riaperto. Ha 88 anni e un piacere nel conversare con un’arguzia che davvero si starebbe ad ascoltarlo per ore senza annoiarsi. Amante della bella parola e del verbo messo al punto giusto, in questo frangente della sua vita ha ritrovato in Pasquino e nelle pasquinate la formula migliore per raccontare l’oggi. Tanto da ricavarci un libro: Le ballate di Pasquino in cui propone al lettore una serie di Cronache satiriche in rima romana, dal fottuto Covid alla fottutissima Guerra.

Pier Francesco Pingitore, una firma famosa. Riconosciuta e riconoscibile in molti ambiti. Ci spieghi anzitutto perché tutti la chiamano Ninni.

«È una storia tenera e banale. Mio fratello più grande di qualche anno, non sapendo dire il mio nome, prese a chiamarmi Ninni. È rimasta così da tempo immemore». 

Ci racconti il rapporto lungo mezzo secolo con il Salone Margherita, adesso chiuso.

«È stato chiuso dalla Banca d’Italia che ne è proprietaria e vani sono stati tutti i nostri tentativi di tornare a fare spettacolo lì. È ulteriormente grave che la Banca d’Italia che è un ente pubblico privi Roma di uno dei suoi più bei teatri. Esemplare unico in stile liberty». 

Voi siete approdati lì perché altri artisti non volevano lavorarci, è vero?

«Guardi, il Bagaglino ha fatto i suoi spettacoli dal 1965 in una cantina di vicolo della Campanella. Siamo arrivati al Salone Margherita nel 1972 in cerca di un posto che potesse evitarci i reumatismi. Quando arrivammo lì quel teatro era completamente decaduto. Noi lo portammo a un fulgore che forse non aveva mai conosciuto prima con spettacoli di cabaret e poi per la televisione che raggiunsero picchi di 14 milioni di ascoltatori quando venne ospite Andreotti.

L’ultimo spettacolo è stato La presidente nel quale immaginavamo che Valeria Marini potesse diventare presidente della Repubblica. Una sorta di vaticinio per quello che che è accaduto poco dopo con l’arrivo della Meloni a Palazzo Chigi». 

Lei è l’autore di un brano che ha fatto epoca: I ragazzi di Buda. Lo sente ancora suo quel pezzo o l’ha lasciato andare?

«Lo sento mio. Scrissi quel pezzo nel 1966, a dieci anni dai fatti di Ungheria, quando la rivolta degli ungheresi contro i sovietici era stata un po’ digerita dall’opinione pubblica italiana. Questa canzone fu cantata nel nostro cabaret in cantina, ma ebbe ripercussioni enormi arrivando nelle università e negli stadi. Fu cantata addirittura a Budapest. Mi mandarono un video in cui gli alunni delle scuole medie la cantavano metà in italiano, metà in ungherese. Ebbi anche un’onorificenza come cavaliere d’Ungheria». 

Tornando al Bagaglino. Le donne voi le avete omaggiate. «Meglio se belle» ha detto lei in una intervista. E le donne brutte?

«Ma scusi chi è che preferisce una donna brutta a una bella? Si può trovare più simpatica, più intelligente, è ovvio. Ma anche la bellezza costituisce valore. Oppure dobbiamo essere ipocriti? C’è questa condanna all’uso di un linguaggio politicamente corretto che è la morte del linguaggio, dello spirito, del divertimento. Il linguaggio è bello proprio perché è vario. Si avvale di espressioni che sono anche dure, pesanti o ideali e super leggiadre. La presunzione attuale di rovesciare tutti i canoni oltre che ipocrita mi pare grottesca». 

Tra tutte le vedette del Bagaglino. Ce n’è stata una alla quale si è sentito più legato?

«Se rispondessi non potrei più uscire di casa. Tengo a tutte le vedette, ma anche alle ballerine e le cantanti che abbiamo avuto. A partire da Gabriella Ferri. L’incontro con lei fu molto importante per me e per il Bagaglino stesso. Da lì partì un filone importante. Le stesse canzoni romane che Gabriella cantava nella nostra cantina, magari divenute desuete all’epoca, grazie alla sua rilettura acquisirono un tono di drammaticità e romanticismo che le fece arrivare a toccare l’anima di tantissima gente». 

Sulla vicenda che negli ultimi anni ha visto protagonista Pamela Prati si è fatto un’idea?

«Io sono convinto che sia stata carpita la sua buona fede. Che lei sia stata “intortata” in una storia difficile da credere, ma che somiglia a tante altre storie. Alcune le ho anche conosciute. Persone indotte a innamorarsi e mandare quattrini a uomini e donne inesistenti.. Non credo che lei fingesse, Anche perché non ne aveva nessuna utilità. Pensi che quando iniziò questa sua disavventura, aveva con me un contratto. Una settimana prima mi disse confidenzialmente che doveva sposarsi. Non credo di sbagliarmi». 

Nel suo libro c’è una satira intitolata Il catalogo dei Dodici Presidenti. Ne ha conosciuto personalmente qualcuno degli inquilini del Quirinale?

«Conobbi Leone. Me lo presentarono degli amici prima che diventasse presidente e poi Cossiga col quale ci fu episodio divertentissimo. Lui ammirava moltissimo Manlio Dovì che lo imitava. Non potendo venire al Salone Margherita invitò Manlio al Quirinale con tanto di truccatore al seguito per farlo esibire di fronte a lui. Si divertì molto e gli regalò delle cravatte».

Quindi dalla Rai vi mandarono via dopo la fine del mandato di Cossiga.

«Sì con la Rai dei Professori. L’unico che ci diede la solidarietà fu Michele Santoro, dalle cui idee eravamo lontanissimi, ci invitò in trasmissione. Fu Angelo Guglielmi, anche lui lontanissimo dalle nostre idee, a spiegare ai nuovi dirigenti che avrebbero perso una bella fetta di inserzionisti. Così ci richiamarono e facemmo una stagione trionfale con Bucce di banana. Ma poi ci volle Berlusconi e, ammaestrati dall’esperienza, passammo a Mediaset».

E lì conobbe anche il Cavaliere...

«Sì, lui è un fuoriclasse. Un uomo di una levatura diversa che ha lasciato il segno sulla storia d’Italia. Ma le racconto un aneddoto sul suo sosia...» Dica... «Era un venditore di scarpe che gli somigliava moltissimo. Solo che non potevamo farlo parlare in scena perché aveva un fortissimo accento romano. Così gli dicemmo di sorridere soltanto. Gli facemmo rifare anche i denti ma non si trovò bene. Ricordo che si lamentava e mi diceva: “Ah dottò, così nun posso più né magnà né ride».

Cosa le manca di più del Bagaglino?

«Il più grosso dispiacere per tutti è stata la morte di Oreste Lionello, un fratello per me. Come diceva Giorgio Albertazzi, Oreste è stato uno dei migliori attori italiani per capacità interpretativa e autoriale, un genio del doppiaggio. Poteva fare ogni personaggio. Lui non somigliava a nessuno, ma era come se somigliasse a tutti. Questo senza nulla togliere al talento e alla grande professionalità di artisti come Leo Gullotta, Pippo Franco e quella maschera latina, tipo maccus della commedia plautina che era Martufello. E poi avemmo anche Bombolo. Quando lo vidi entrare per la prima volta capii che ci trovavamo di fronte alla scoperta di un comico vero. Bastava che si mettesse seduto e già faceva ridere».

Estratto dell'articolo di Paolo Graldi per “il Messaggero” il 23 marzo 2023.

(...)

Nella sua lunga vita di artista ha goduto di più la gioia di vivere o patito la fatica di vivere?

«La gioia di vivere».

 C'è una frase ascoltata nella sua infanzia che l'ha accompagnata per tutta la vita?

«"Scendiamo al rifugio", durante la guerra tornata di terribile attualità»

 Che cosa ama di più vedere o sentire il pubblico?

«Sfottere chi comanda».

 C'è qualcosa che rimpiange del passato?

«Il passato».

Le qualità di un grande attore?

«Non credersi un grande attore».

 Il peggior difetto di un attore?

«Credersi un grande attore».

 Qual è il vizio che detesta di più e perché?

«L'invidia. Perché sono troppo presuntuoso per abbassarmi a invidiare qualcuno».

 Come nasce l'idea di uno show tipo Bagaglino?

«Dalla voglia di ridere, scherzare, sfottere, giocare, rendere omaggio alle donne. Se belle, meglio. Molto meglio».

Il regista ha un segreto, una firma: la sua qual è?

«Mettercela tutta. Sempre. Si tratti di uno sketch o di un film per Hollywood, io ci metto sempre lo stesso impegno. (Almeno credo, non avendo mai girato film per Hollywood. Finora)».

 Le piace la satira di oggi: la differenza con quella del passato qual è?

«Quella del passato era satira».

 Che cosa la fa ridere al di là del palcoscenico, nella vita?

«I discorsi alla tv dei cosiddetti "opinionisti". Che una volta si chiamavano cazzari».

 La politica messa alla berlina perché piace tanto?

«Perché è l'unica vendetta che il popolo si può concedere».

I politici, generalmente, si offendono e protestano o accettano la satira che li colpisce e li rappresenta?

«Purché si parli di loro i politici si farebbero tirare anche le torte in faccia. Lo dico per esperienza».

 Chi si offendeva e chi ne sorrideva?

«Sorridere sempre. Offendersi mai. Crepare di rabbia, qualche volta»

 La satira aiuta a capire le crepe della politica?

«La politica crepa per conto suo, senza bisogno della satira».

Come è cambiata la satira negli anni?

«La satira è sempre quella che Orazio duemila anni fa definiva: "Dire la verità ridendo". Ma trovarne in giro oggi è difficile».

 Le piace la comicità rappresentata oggi in televisione?

«Spiacente, ma non la frequento».

 C'è una battuta nei suoi innumerevoli spettacoli che è diventata virale e che magari si ricorda ancora?

«Avrei tanto voluto essere di sinistra. Ma purtroppo non c'era più posto».

 (...)

 La donna sempre al centro dei talk show, perché? È un mistero che si presta a tante sfumature e allusioni?

«La donna a poco a poco sta diventando il centro di tutto. Meglio così. È tempo che gli uomini si riposino».

 Ci sono nella sua storia di inesauribile autore teatrale e di regista dei miti ispiratori?

«Roma, la libertà, le donne, Dumas, la cioccolata».

 (...)

 Il brano che rappresenta per lei qualcosa di irripetibile?

«Il canto di Paolo e Francesca della Divina Commedia. Per i morti alle Termopili di Simonide tradotto da Quasimodo. Je ne regrette rien, cantata da Edith Piaf».

 A quali valori si ispira?

«Ai valori bollati. Gli unici che non cambino nel giro delle generazioni. E delle degenerazioni».

Pierfrancesco Favino: «Ebbi un’esperienza omosessuale, ma nulla di carnale. Il mio Comandante? Salvava naufraghi perché italiano». Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 27 ottobre 2023.

P «Ognuno è libero di trarre le proprie considerazioni. Il peggior nemico dell’attore è l’aggettivo. Anche il Papa l’ha detto: è una restrizione chiudere un uomo in una definizione. Quando nel film al comandante Todaro danno del fascista, lui risponde: io sono un uomo di mare. Un uomo contraddittorio: molto cattolico, ma attratto dall’esoterismo, dallo spiritismo».

In effetti il comandante Salvatore Todaro rifiuta senza motivo apparente l’imbarco sul suo sommergibile a un marinaio, che pochi giorni dopo si ammala di peritonite: se fosse partito, sarebbe morto. «Todaro previde anche la propria, di morte: colpito dal nemico nel sonno. La sua vita fu segnata dal dolore: ebbe un grave incidente, il suo corpo era ingabbiato nel busto. Quando gli annunciano che la moglie aspetta un altro figlio, dice: “Sarà una femmina, si chiamerà Marina, ma io non la vedrò”».

Di Todaro sappiamo che per tre volte salvò i naufraghi della nave che aveva affondato in guerra. Lei però ha dovuto costruire un personaggio che non aveva mai visto, di cui non aveva mai sentito la voce. «Ma ho potuto leggere le sue lettere. Era un uomo dignitoso e un po’ ritroso. Sua figlia mi ha scritto: “Non ho mai sentito la voce di mio padre; d’ora in poi sarà la tua”. Fosse solo questa l’utilità del nostro lavoro, ne valeva la pena».

Una voce dall’accento veneto. «Todaro era nato a Messina, ma a sei anni aveva seguito a Chioggia il padre, anche lui marinaio. Ho vissuto con i sommergibilisti all’arsenale di Taranto. È una comunità unita dalla fratellanza, al di là delle bandiere».

Lei è stato poliziotto nel film Acab: la scena dello sfogo del celerino in tribunale è di culto. «Sono due cose diverse però. I poliziotti hanno la rabbia di non essere compresi. I sommergibilisti hanno l’orgoglio di non essere compresi. Ed è come se fossi entrato nel loro mondo».

È stato nei sottomarini? «Sì. Sono macchine dalla tecnologia avanzatissima, ma restano quelle pensate da Leonardo: la cosa più difficile è tenerle a galla. Ho provato la camera dei fumi, dove si impara ad affrontare le emergenze, con le maschere anti-gas e le bocchette cui attaccarsi per respirare».

L’accento veneto gliel’avevamo sentito ventun anni fa, in El Alamein, dov’era il sergente Rizzo. La scena di culto è lei che spara con la mitragliatrice contro i carri inglesi gridando disperato. «Avevo ricevuto la notizia della morte di mio padre. Ero andato al suo capezzale per l’operazione di angioplastica, poi ero tornato sul set. Qualcosa non funzionò. Sono i momenti in cui ti senti inutile, in cui ti chiedi: cosa ci faccio qui? Eppure il mio maestro, Mario Ferrero, me l’aveva detto: questo è un mestiere in cui non ci sono feste comandate, e non ci sono lutti. Mi sono imposto di passare sempre il compleanno con le mie figlie, Greta e Lea. Con mia moglie Anna è più facile: compie gli anni il 24 dicembre».

Chi era suo padre? «Aldo Favino era nato a Foggia, rimase orfano a undici anni e andò a studiare in seminario a Torino. Insegnava latino e greco, poi un fratellastro lo inserì nell’azienda di famiglia: legname. Mia mamma Stella ha 93 anni, anche lei pugliese, di Candela. Io però sono nato a Roma, unico maschio, con tre sorelle più grandi».

Qual è il suo primo ricordo pubblico? «Il rapimento di Moro. La strage alla stazione di Bologna. E la morte di Alfredino Rampi. Era un ragazzino poco più piccolo di me. Rimasi tutta la notte davanti al televisore in bianco e nero, ricordo l’arrivo di Pertini».

Lei cosa vota? «L’ultima volta, Emma Bonino. Fatico a riconoscermi in un partito».

Ha interpretato Craxi nel film di Amelio . Stefania e Bobo come l’hanno presa? «Li ho conosciuti, in Tunisia ho girato a casa loro. Sono stati molto corretti, non si sono lamentati di nulla, neppure delle asperità: la scena in cui al congresso del Psi maltratta il compagno idealista, i litigi appunto con la figlia...».

Craxi era un omone che metteva quasi paura, la fisicità era un tratto importante della sua politica. Come è diventato Craxi? «Mi sono fatto crescere le unghie, per pensare di avere mani più grandi. Portavo pantaloni leggeri e larghi, per dare l’idea di avere gambe più grosse, meno tornite. E poi sono ingrassato».

Di quanto? «Tra i 7 e gli 11 chili. A fisarmonica: per le scene di Craxi giovane dovevo essere più magro che per quelle di Craxi in Tunisia. Non è solo questione di aspetto, ma di respiro, di movimenti, di battito cardiaco. Devi calarti nei panni di un altro, gli americani dicono nelle scarpe: una scarpa che non è la tua, ma lo diventa a forza di consumarla, logorarla, sformarla. Ho preso 11 chili anche per diventare Buscetta. Il record però è di 22, per recitare la parte di Mimmo, il malavitoso dal cuore buono di Senza nessuna pietà».

Per Comandante invece è dimagrito. «Ho perso progressivamente nove chili: a bordo del sommergibile, come si vede nel film, non c’era da mangiare, e Todaro sopperisce facendo recitare al cuoco napoletano la lista delle ricette...».

Com’è la dieta Favino? «Non c’è. Per prendere e perdere peso mi faccio seguire da una biologa nutrizionista. Mi sottopongo a una serie di esami, anche ormonali, per capire come reagisce il mio fisico, quali alimenti mangiare e a quale ora del giorno».

Ci saranno regole che vanno bene anche per noi. «Certo, dissociare carboidrati e proteine aiuta a smaltire i chili presi associandoli; sempre meglio cominciare il pasto con verdure crude, insalata, frutta; ma ognuno di noi deve scoprire cosa fa bene al suo organismo».

Lei è stato Gino Bartali, che era piccolo e forte, ma pure Giorgio Ambrosoli, che era lungo e sottile. Come ha fatto? «Ho allungato la falcata e mi sono un po’ ingobbito, per simulare un’altezza che non ho. Ho cercato di riprodurre il gesto di Ambrosoli, grande fumatore, che si chinava in avanti con la sigaretta tra le mani, mentre Bartali si ingobbiva sulla bicicletta, così...» (Favino in pochi secondi diventa Ambrosoli e diventa Bartali).

Senta Favino, lei è un attore di impressionante bravura, come ormai tutti riconoscono. Cosa le è venuto in mente di infilarsi in una polemica con Adam Driver e le produzioni americane che usano attori americani per raccontare storie italiane, come quella di Ferrari? «Si è voluto ridurre a una contesa tra attori un discorso di sistema. Io non ho ovviamente nulla contro Adam Driver, che è molto più bravo di me...».

Questo non è vero. Ma un film con Adam Driver si può vendere pure in Groenlandia e in Antartide, a differenza di un film con qualsiasi attore italiano. «Mi ascolti. In America esiste da anni una cultura che viene chiamata woke. Nasce come forma di rispetto per le minoranze. Ma ora vale anche per il cinema. L’ultimo Oscar l’ha vinto un film asiatico, il penultimo un film con un protagonista sordomuto. Se si racconta una storia tedesca, si fa con attori tedeschi. Prenda “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, prodotto da Netflix: romanzo tedesco, attori tedeschi, girato in tedesco, vince il Bafta, il più importante premio cinematografico inglese. Intanto noi italiani stiamo gettando un’occasione».

Anche Visconti per il scelse Burt Lancaster. «Ma non c’era la cultura woke. Il mio non è un discorso personale — tra l’altro sto girando due film all’estero, uno è “Il conte di Montecristo” —, né sindacale; è un discorso industriale. Lei sa che tra i primi dieci film più visti in Italia quest’anno non c’è un solo film italiano? Perché dobbiamo rinunciare a essere ambiziosi, a raccontare noi le nostre grandi storie? Ho una scuola di recitazione a Firenze, si chiama Oltrarno, come il quartiere dov’è nata. Ho visto molti talenti, ma non vorrei essere al loro posto. Vogliamo dare loro una prospettiva?».

È vero che lei ha avuto un’esperienza omosessuale? «Non fu nulla di carnale. Un uomo più grande di me mi corteggiava, e io ho voluto togliermi un dubbio sulla mia sessualità, per non portarmelo dentro tutta la vita. L’ho sciolto, ho capito che omosessuale non lo ero. Era un tempo in cui se sentivi un’emozione per un uomo ti chiedevi cosa avevi di sbagliato; adesso per le nuove generazioni è tutto più semplice. Nello spettacolo l’omosessualità è sempre stata presente, io stesso ho lavorato con Ronconi e Ferrero, e anche la fluidità è sempre esistita».

Quali sono i suoi rivali e i suoi amici nel cinema? «Sono amico da decenni di Giallini, Mastandrea, Accorsi e tanti altri, e nemico di nessuno».

Perché non fa più fiction tv? «Perché mi sono reso conto che si stava prendendo in giro il pubblico; e il pubblico per noi è sacro. Le cose vanno fatte bene, non tirate via».

Per recitare Pinelli in «Romanzo di una strage» lei incontrò la vedova e le figlie. «Andai a casa loro con Michela Cescon, la bravissima attrice che impersonava Licia Pinelli. Fu molto emozionante. Ora però preferisco non farlo più. Ogni interpretazione è comunque un tradimento. E non voglio entrare in qualcosa di troppo privato».

Chi è il suo modello di attore? «Irraggiungibile: Gian Maria Volontè».

Alla fine del film, al comandante nemico che chiede perché l’ha salvato — aggiungendo che lui non l’avrebbe fatto —, Todaro risponde: «Perché siamo italiani». Cosa vuol dire? «Todaro disse proprio così. Può voler dire molte cose. Io la interpreto nel senso che siamo un popolo aperto e accogliente, che mette la vita umana prima di tutto. Mentre i politici parlavano di blocco navale, i ristoratori di Lampedusa cucinavano per sfamare i profughi. Anche loro sono lo Stato italiano».

Pierfrancesco Favino: «Ho fatto mille mestieri per pagare l’affitto. Non mi realizzo spendendo in ville e lusso». Il successo, il cinema italiano all’estero, il ruolo dell’attore. Dialogo a tutto campo con l’artista che torna in sala con un nuovo film, in cui interpreta un poliziotto nella sua ultima notte di lavoro. Claudia Catalli su La Repubblica/L’Espresso il 23 marzo 2023.

Cinquemila euro per un passaggio in macchina: è la proposta irresistibile che fanno a Franco Amore, assistente capo della polizia per 35 anni, in procinto di andare in pensione. È il nuovo personaggio che interpreta Pierfrancesco Favino nel thriller “L’ultima notte di Amore”, in anteprima al 73mo Festival internazionale del Cinema di Berlino e appena arrivato al cinema. Lavoratore instancabile e poliziotto integerrimo che non ha mai sparato a nessuno, deve decidere se lasciarsi tentare dalla malavita cinese a Milano. Perché basta una serata sbagliata a mettere in discussione una vita intera.

Il film è tutto giocato sul crinale tra legalità e illegalità, su un raggio di luce che può illuminare come bruciare una carriera. Come si è avvicinato al tema?

«A ognuno di noi piace pensarsi onesto, ci raccontiamo come persone che seguono le regole, oppure diciamo quanto siamo fighi se non le seguiamo. Franco è di quelli che fa della sua onestà un vessillo ed è interessante quanto sia labile nella nostra cultura il confine fra essere una persona onesta e essere considerato un fesso. Franco viene trattato da fesso da tanti, prova frustrazione per questo, però poi viene messo in una situazione che può cambiare le cose. Uno come lui, che segue le regole, dovrebbe essere la normalità. Ma noi italiani abbiamo la mentalità del farci togliere la multa dall’amico vigile, il film parla anche di ciò».

E di cosa significhi avere ricchezza e successo in una società sempre più cinica.

«Oggi accendi il cellulare e vedi che stanno tutti benissimo, sono in forma smagliante, hanno successo. Anche quando è evidentemente un insuccesso, te lo fanno passare come successo. Questo percepire che c’è sempre qualcosa di meglio di te ti schiaccia e ti mette in un angolo. Specie se sei uno come Franco, senza uno scatto di carriera in 35 anni, impossibilitato a fare un doppio lavoro. Ci sono tante persone che faticano ad arrivare a fine mese e sono subissate dal paragone di ciò che dovrebbero essere».

Com’è stato rivestire la divisa dopo “Acab”?

«È sempre interessante scoprire la vita di queste persone, da dove vengono, perché hanno fatto questa scelta. Ma si tratta di corpi d’appartenenza diversi, la celere non è la mobile e anche i personaggi sono diversi. Resta uno dei mestieri peggio pagati che esistano, soprattutto rispetto a quello che viene loro chiesto. Le loro condizioni andrebbero migliorate».

Per interpretare una persona che fatica ad arrivare a fine mese, a cosa si rifà?

«Io ho campato con poco per molto tempo. Ho fatto mille mestieri per pagarmi l’affitto, e non parliamo di un’era fa. Faccio questo mestiere dal 1992, fino al 2015 non sono stato pagato grandi cifre. Conosco il valore del denaro, sono uno che va a fare la spesa, alla posta, porta le figlie a scuola. Non disperdo il denaro, non ho bisogno della villa, del cuoco, del lusso sfrenato, non mi realizzo in quella dimensione. Detto questo, alla base del mio mestiere ci sono comprensione ed empatia indispensabili per abbracciare le potenzialità di chi interpreto. Senza giudizi e con tutta l’apertura mentale che posso. Se domani voglio interpretare un elefante e credere di essere un elefante lo divento: mostrare al pubblico ciò che non riesce a vedere, e a volte immaginare, è la funzione di un attore».

È uno dei pochi attori in grado di prendersi molto in giro, penso all’episodio su Che Guevara nella serie Sky “Chiami il mio agente – Italia”: quanto si è divertito?

«Tantissimo, la possibilità di ironizzare su noi stessi è fondamentale, non potevo non cogliere al volo l’occasione di prendermi in giro rispetto ai vizi personali, come l’idea del mio trasformismo per cui sono diventato un meme. Per “Chiami il mio agente” pensavamo a un volto che tutti conoscessero, alla fine ho proposto io Che Guevara. Mentre giravamo non riuscivo a guardare in faccia Anna (Ferzetti, ndr.) e le mie figlie per quanto ridevano».

È mai rimasto intrappolato in un personaggio?

«Non credo, ma non lo misuro. Quando Anna ha interpretato la serie delle “Fate ignoranti” ho notato che il suo modo di camminare era diverso, immagino accada pure a me. Non ho mai avuto la sensazione di farlo per paura di essere meno concentrato, mi immergo in ciò che faccio, non al punto di cancellarmi rispetto alla mia vita».

Però tra tutti quelli che ha interpretato avrà qualcuno che gli è rimasto addosso...

«Buscetta, Di Vittorio e Pinelli ho faticato ad abbandonarli: avrei voluto investigarli di più, perché mi interessano certe vicende della storia d’Italia».

In “Boris 4” Fabrizio Gifuni si spaccia per lei, dicendo di essere Favino dopo 15 ore di trucco. Come l’ha presa?

«Con il sorriso, anche se mi fa un po’ impressione che ogni tanto spunti fuori il mio nome, non faccio caso al fatto che sono una persona conosciuta. Noto, certo, che l’ironia sul “Non ci sono più ruoli, li fa tutti Favino” continua, forse perché se un mio film esce al cinema e dopo va su piattaforma pare che io stia sempre sullo schermo. Ma se pensiamo ai vari Mastroianni e Gassman, loro sì che stavano sempre sul set e sempre al cinema».

A che punto della carriera sente di essere?

«Non so, ragiono sempre rispetto a quello che so fare, non a quello che mi viene riconosciuto: vedo bene il margine di crescita rispetto alla mia idea di questo mestiere».

Non è ancora arrivato dove voleva?

«Non so se ci arriverò mai, ho un’idea molto alta di questo lavoro. Cate Blanchett in “Tàr” è una grande ispirazione, come anche attori meno noti ma ugualmente sbalorditivi, come Jesse Plemons. Poter scegliere le cose che faccio è un lusso che ho da qualche anno, e mi piace interpretare film come “L’ultima notte di Amore” per farmi vedere dal pubblico in modo diverso».

Come si rapporta con i più giovani?

«Mi dedico ai ragazzi con la scuola che dirigo a Firenze (Oltrarno, ndr.): bisogna avere fiducia in chi fa un percorso serio, è scivolosa la tentazione del successo sui social».

Il talento oggi paga ancora?

«Se si lavora seriamente, dove c’è talento quel talento vince. Come attore mi lascio ispirare dai nuovi talenti come i ragazzi con cui ho lavorato nel film Netflix “Il comandante” o quelli visti in “Mare Fuori”».

Siamo appena stati alla Berlinale: all’estero il cinema italiano è molto apprezzato.

«I nostri film piacciono, circolano, siamo noi che frustriamo le ambizioni, pur avendo armi e specificità storica per raccontare come nessuno. Dovremmo smettere di avere sudditanza psicologica per il cinema americano, che peraltro non funziona più come un tempo. Persino maestri come Spielberg raccontato se stessi e vengono sorpassati da cinematografie più stimolanti e originali. Un grande autore? Penso a Thomas Vinterberg, austriaco. A Charlotte Welse, scozzese. O a certi italiani che non hanno da invidiare a nessuno».

Alberto Mattioli per “Il Foglio” - Estratto il 30 giugno 2023.

C’è Valentina Cortese che arriva al funerale di Palma Ojetti direttamente da Salisburgo “senza nemmeno cambiarsi: indossava il tipico completo in lana cotta con i bottoni di corno, la coda di tasso sul feltro verde e il classico grembiule di seta ricamata. Insomma, era in costume tirolese” e “ovviamente non poté rinunciare al suo show” mettendosi a parlare con la defunta.

C’è Montserrat Caballé che arriva alla prima prova della mitica “Semiramide” di Aix non sapendo la parte, e vabbè, quando mai ne ha imparata una, ma soprattutto dopo essersi ingozzata di meloni la sera prima. Risultato: fuga precipitosa in cerca di una toilette, e “in sala fummo investiti dalla colonna sonora di uno spettacolo pirotecnico. Era l’effetto apocalittico dei meloni” (altre fonti degne di fede raccontano però che la descrizione dell’incidente fu questa: “Uno tsunami di m…”). 

C’è Angela Gheorghiu che come al solito pianta grane e viene cacciata da una “Traviata” a Madrid con questa sentenza: “Le note scritte non le fai perché non le sai, quelle non scritte non le fai perché non le hai”. C’è Paola Borboni che risponde così a Renato Rascel che le aveva dato della “brutta vecchia”: “Vecchia sì, ma sono stata giovane; brutta forse, ma sono stata molto bella. Lei, alto mai!”. 

C’è naturalmente, e tanto, la Compagnia dei giovani, Falk-Guarnieri-De Lullo-Valli, tutta genio, bravura, trionfi, grandi tragedie e, talvolta, piccole meschinità. 

C’è Alberto Arbasino giovane che si taglia le vene per un amore infelice ma poi replica “con tagli più superficiali” per un altro lui, e “noi amici cercammo ironicamente di dissuaderlo dal ripetere lo stesso gesto ogni volta, altrimenti tanto valeva farsi installare una cerniera lampo direttamente sui polsi”. 

C’è Teresa Berganza, celebre Carmen che racconta della sua cameriera che ascolta in tivù la Caballé, ancora lei, cantare l’Habanera e strilla indignata: “Señora, la gorda canta lo suyo!”. Ci sono tutti, insomma.

Che delizia, questo Non si può mai stare tranquilli, gli “Incontri di vita e di teatro” di Pier Luigi Pizzi, scritti per la Edt insieme al giovine Mattia Palma, che si avvia a diventare un Pizzi del giornalismo musicale. Pizzi ha 93 anni portati in modo da fare invidia a un sessantenne, ed è in carriera come scenografo, costumista, regista, direttore artistico, da 72: non sono solo le memorie sue, ma quelle del teatro italiano, e tutto, cantato, parlato e danzato. 

Una delizia dall’inizio alla fine, ovvio, un turbine di persone, personalità, vizi, virtù, glorie, miserie raccontato con una grazia talvolta affettuosa e talaltra perfida, da Saint-Simon (ma più ironico) o da cardinale di Retz (ma meno presuntuoso). Tutto Pizzi minuto per minuto e spettacolo per spettacolo, incontri, scontri, passioni intellettuali e amorose (anche etero), viaggi, mostre, mostri. 

Non parla male di tutti, no. Ma di molti, sì. E naturalmente noi malvagi godiamo di più quando il Nostro demolisce qualcuno en passant, con quella nonchalance distratta che distrugge. 

E allora Visconti “si prendeva terribilmente sul serio, con l’aggravante di una totale mancanza di ironia”, Fellini era “cinico e bugiardo”, Zeffirelli aveva il problema “di mettersi in competizione con Visconti” (diagnosi giustissima, alla fine: da qui l’accumulazione seriale), mentre Wanda Osiris, lanciando rose cosparse di Arpège in platea, “cantava (si fa per dire)”. Rossella Falk sposa un ricchissimo industriale, Rino Giori e si trasferisce con lui in Svizzera.

Qui “cominciò a fare le pulci ai conti della servitù, inimicandosi tutti fin dal primo giorno, ma dato che era piuttosto incauta nel ricevere visite in villa in assenza del marito, la vendetta non ci mise molto ad arrivare: fu subito denunciata a Giori che la buttò fuori di casa”. 

Naturalmente non manca la celebre guerra delle pellicce fra lei e la Cortese, alle prove di una “Maria Stuarda” di Zeffirelli, quando le dive arrivarono ogni giorno con dei capi più preziosi e più lunghi, finché “Valentina, con grande senso dell’umorismo, pose fine alla competizione presentandosi con due pellicce una sopra l’altra, con colbacco e manicotto”. E’ una vita raccontata in modo tale da farci invidiare chi l’ha vissuta. Anche perché, in questo cocktail di sentimenti, l’unico che Pizzi non ha shakerato è la nostalgia. [...]

Estratto dell'articolo di Andrea Malaguti per “La Stampa” il 31 maggio 2023.

«Alla mia età mi sento come la Vanoni». Una donna? «No, una persona serena e in pace col mondo, che riesce a guardare le cose con distacco e può dire liberamente quello che gli passa per la testa». 

Anche quando si parla di Rai, Mediaset, pensiero unico e lottizzazione? «Soprattutto». Chissà se Ornella Vanoni è davvero pacificata, ma Piero Chiambretti, il bambino più adulto della tv italiana, sembra a due passi dal Nirvana. Invidiabile. 

«Oggi mi sento proprio a posto. Ho ricevuto un sacco di messaggi pieni di affetto. Vuole dire che ho seminato bene». Ha firmato un nuovo contratto? «No, è il mio compleanno. Sono 67. Il WhatsApp di mia figlia Margherita mi ha spappolato il cuore». 

[…] 

Piero Chiambretti, con una tessera in tasca si lavora meglio in tv?

«Bella domanda. Soprattutto perché ha tante risposte».

La prima che le viene in mente?

«La prima che mi viene in mente sono due. Se ce l'hai fatichi meno a lavorare, direi. Ma direi anche che se non ce l'hai, se sei un cane sciolto, hai il vantaggio che magari lavori anche quando cambiano i governi». 

Diciamo che nella tv pubblica è meglio essere amici degli amici?

«Diciamo che la tv e la politica vanno a braccetto da sempre e che non c'è nulla di nuovo sul fronte occidentale, anche se oggi molti scappano dando l'impressione di farne una questione di principio». 

E invece?

«Non vanno sulle montagne in Sardegna, si spostano più semplicemente dove hanno mercato per continuare a fare il proprio lavoro». 

È un pizzino per Fazio?

«Ma figuriamoci. La tv è da sempre una specie di Grand Hotel pieno di gente che va e gente che viene». 

Salvini ha salutato quelli che sono andati via da Rai3 con un velenoso Belli Ciao.

«Bah, un tempo la televisione spostava i voti. Nel 1994 successe con Berlusconi, che passò rapidamente da imprenditore a primo ministro. Poi questa forza di persuasione si è affievolita. D'altra parte se la tv fosse tutta di sinistra la destra non avrebbe vinto le elezioni».

Vero, ma Salvini e Belli Ciao?

«È di cattivo gusto usare Bella Ciao in questo modo. Rende omaggio a quei partigiani che morivano davvero per la nostra libertà. Mi pare una mancanza di rispetto nei loro confronti usarla così superficialmente».

Lo sente il venticello autoritario di cui tanto si discute?

«No. Io faccio tv da decenni e anche negli anni d'oro di Rai3, di cui sono stato fondatore (e me ne vanto), la lottizzazione era codificata. Rai1 alla Dc, Rai2 ai socialisti, Rai3 alla sinistra. Sono giusto cambiati i colori».

La Rai si sta impoverendo?

«Tutto può essere. Ma, da quello che leggo, chi se n'è andato lo ha fatto per scelta. Non è stato cacciato nessuno. E nessuno è rimasto disoccupato. Mi sembra difficile parlare di censure». 

Di che cosa parlerebbe?

«Vedo che in giro ci sono agenti molto efficienti che riescono a garantire spazi confortevoli ai propri assistiti. Io, quando fui fatto fuori dalla Rai, rimasi fermo due anni. Nessuno si indignò o scese in piazza, ma non è che mi sentissi un martire. Piuttosto noto con dispiacere che in Italia gli ideali sono meno importanti degli interessi». 

Chi fu a cacciare lei?

«Non ricordo l'esecutore». 

Il mandante?

«Si disse Berlusconi. Che poi però mi ha chiamato a Mediaset, dove sono in piena sintonia con Piersilvio. Lavoro lì da dodici anni, dopo averne fatti quindici in Rai». 

Ci resta a Mediaset?

«Spero di sì. Abbiamo dei progetti». 

Ha mai votato per il Cavaliere?

«Mai. E neanche fatto una festa dell'Unità». 

È vero che il suo primo provino in Rai, nel 1982, lo fece in mutande?

«Sì, avevo capito come sarebbe finita». 

Mi pare che sia andata di lusso.

«Oggi sono una persona serena, senza conti in sospeso. A 67 anni sono un uomo libero, un privilegio a cui tanti si sottraggono. Ma la libertà di pensiero esiste. Poi, certo, bisogna trovare il pensiero». 

Bello. Ma tornerei brevemente alle mutande. Che cosa le saltò in testa?

«Volevo rompere gli schemi e suscitare una reazione. Mi trovai in una stanza con sette funzionari di altissimo profilo e dissi: scusate, non ho sentito la sveglia e sono dovuto uscire di casa in fretta, avevo anche il pianoforte ma è rimasto incastrato nell'ascensore». 

Reazione?

«Nessuna. Un silenzio tombale. Ma nella loro testa evidentemente restò qualcosa. Tipo: ma tu guarda questo demente». 

Come andò la storia del bavaglio a Cossiga?

«Era il 1992. Facevo il Portalettere. Era tutto improvvisato. Il Quirinale mi disse: se vuole incontrare il presidente si trovi alla Casina Valadier alle 15. Andai convinto che fosse uno scherzo e mi portai il bavaglio da dargli. Capii che era tutto vero solo quando vidi muoversi i cespugli». 

Scoiattoli di Villa Borghese?

«Agenti dei servizi. Poi arrivarono anche gli elicotteri». 

Oggi lo porterebbe un bavaglio a Mattarella?

«Mattarella è un santo, è l'unto del Signore. Dunque va trattato di conseguenza». 

Ovvero?

«Si è sacrificato per la collettività accettando un altro settennato. Forse meriterebbe in regalo due biglietti per Miami». 

E un bavaglino a Ignazio La Russa?

«Ma no. La Russa fa parte di un mondo nostalgico che ancora accompagna la politica e, nel bene e nel male, accende dibattiti. Per la tv è utilissimo». 

Fuori dalla tv è altrettanto utile?

«Bisognerebbe fare questa domanda a Meloni: La Russa è un uomo di Stato o è meglio sapere in che stato è? Personalmente mi fa molto ridere». 

[…] 

De Filippi o Fiorello?

«Due superprofessionisti che fanno cose molto diverse. Impossibile scegliere». 

Crozza o Frassica?

«Scelgo Frassica, perché con lui ho un rapporto quasi fraterno. Ma anche qui siamo di fronte a due stili molto diversi. Uno politico ed estremo, l'altro più surreale». 

Schlein o Meloni?

«Schlein devo ancora capirla. Ma il suo arrivo a sorpresa non mi pare abbia dato la scossa attesa. Avrebbe dovuto affidarsi al fattore attak». 

Qualunque cosa voglia dire.

«Vuole dire che doveva sì attaccare la destra, ma anche tenere unite le due ali del suo partito. In questo momento mi pare invece che sia la miglior compagna di lotta di Meloni». 

La quale?

«Ha le carte in regola per tenere a bada la sua cordata». 

Occhio, per avere difeso la premier Arisa è stata riempita di contumelie.

«Altro segno della confusione che regna sotto il cielo. Come si fanno ad attaccare i fascisti se poi ci si comporta come loro?». 

A Discovery andrebbe?

«Sono un professionista. Sono stato in tutte le reti. Non vedo perché no». 

In 45 anni di televisione chi è il più bravo che ha visto?

«Risposta difficile. A istinto dico gli artisti ospiti del teatro cabaret di Torino. Da Troisi a Teocoli. Allora non c'erano follower, per avere successo dovevi portare qualcuno in sala. Erano pazzeschi. E sono rimasti inarrivabili». 

La sua battuta più bella?

«Il mio sogno nel cassetto? Stare nel cassetto». 

Chiambretti, le manca la Rai?

«L'ho sempre detto che vorrei finire la mia carriera in Rai. Da bastian contrario, nel momento in cui tutti scappano io potrei tornare». 

Ci sta dando una notizia?

«Era solo una battuta». 

Sa imitare Pino Insegno?

«Perché?». 

Magari aiuta.

«In effetti no».

Estratto dell’articolo di Massimiliano Nerozzi per corriere.it l’8 aprile 2023.

Riformando il decreto del tribunale di Torino, dell’ottobre scorso, la corte d’Appello […] ha dato ragione a Piero Chiambretti, dimezzando il contributo al mantenimento della figlia, da 3 mila a 1.500 euro mensili (lui chiedeva di darne 800). Oltre al pagamento della retta scolastica e del canone dell’appartamento dove la piccola vive con la mamma, Federica Laviosa. Che è rimasta di sasso.

 Come si sente?

«Male, malissimo. E chi ci rimette in questa vicenda è la bambina».

 Più delusa o più arrabbiata?

«Non lo so. Ma so che tutta questa storia nasce dal rancore che lui ha per me: me la vuole fare pagare, si vuole vendicare».

Perché?

«Da quando ci lasciammo, sono stata sette anni single, pensando solo a mia figlia. Qualche anno fa, avevo trovato un fidanzato: e lui ha perso la testa. Una volta, discutemmo al telefono, a me scappò una parola poco carina: mi fece scrivere dagli avvocati».

 Chiambretti, nel reclamo, sostiene che lei spendeva i soldi del mantenimento per sé stessa: cosa risponde?

«Che non è assolutamente vero. Secondo lei mi potrei intascare i soldi destinati a mia figlia? Abbiamo anche prodotto i documenti. Ho sempre fatto tutto per lei, tutto il possibile per farla stare bene. La priorità è mia figlia».

È anche la priorità del suo ex, ha ribadito lui.

«Ah sì? E mi ha portato due volte in tribunale. Vede la bambina due volte al mese, quando non annulla l’impegno per problemi di lavoro. E quando io e mia figlia stavamo ancora a La Spezia, mandava a prenderla l’autista con la baby sitter. Non mi faccia parlare».

 I giudici scrivono che l’assegno va «rideterminato in considerazione delle attuali esigenze della minore»: che ne pensa?

«Strano. Perché è lo stesso assegno su cui ci fu l’accordo al tribunale di La Spezia, nel 2016, quando la bambina aveva 5 anni».

 I legali di Chiambretti scrivono che 3 mila non sono giustificati per una bambina di 11 anni e che il suo reddito è ora di 2.900 euro al mese.

 «Ma per favore, parliamo di una persona con un patrimonio sui 15 milioni di euro. E parliamo di sua figlia. A meno che non ci debba essere differenza tra come sta con un genitore e con l’altro».

La Corte, e i legali del suo ex, sostengono pure che anche lei dovrebbe contribuire al mantenimento.

«Lavoro, in un centro di yoga e pilates, faccio tutto il possibile. E mi dedico a mia figlia, per tutto il tempo possibile. Sennò, chi sta con lei?».

[…]

Estratto dell'articolo di Maurizio Caverzan per La Verità il 2 aprile 2023.

Piero Chiambretti, siamo sulla Verità quindi giuri di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Dica: lo giuro.

«Lo giuro, sulla testa di Pier Silvio...Fatico a vedere Pier Silvio come un editore, lo vedo più come figlio, anche perché è più giovane di me. Ci siamo conosciuti molti anni fa al Vecchio porco, un ristorante vicino a Corso Sempione dove ci si incontrava per caso la sera tardi. Scattò una simpatia che poi si è trasformata in lavoro».

 È il suo sponsor in Mediaset?

«Si dice che io sia il suo cocco e per questo lavori, ma mi sembrerebbe limitativo per lui. Credo non abbia interesse ad assoldare chi non lo merita. Io mi sforzo di dare il meglio e penso che lui sia sempre rimasto soddisfatto. Più semplicemente mi pare che stimi il mio lavoro e in questi 12 anni me l’ha dimostrato».

 È soddisfatto di com’è andata La tv dei 100 e uno? Si ricordi che ha giurato…

«Molto soddisfatto, ho raggiunto i tre obiettivi che mi ero prefissato. Il prim