Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2023

LO SPETTACOLO

E LO SPORT

QUARTA PARTE


DI ANTONIO GIANGRANDE


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

INDICE PRIMA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Artista.

Il rapper, il trapper oppure del sottogenere dei «gangsta».

L’hip-hop.

L'Autotune.

Si stava meglio quando si stava peggio.

Laureati.

Gli Stadi.

Imprenditori ed Agenti.

Gli Autori.

I Parolieri.

Il Plagio.

Le Colonne Sonore d’Italia.

Le Fake news.

Le Relazioni astratte.

Le Hollywood d’Italia.

Revenge songs.

Achille Lauro.

Ada Alberti.

Adele.

Adriano Celentano.

Adriano Pappalardo.

Ainett Stephens.

Alain Delon.

Alan Sorrenti.

Alba Parietti.

Alberto Fortis.

Alberto Marozzi. 

Al Bano Carrisi.

Al Pacino.

Aldo Savoldello: Mago Silvan.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Ale e Franz.

Alec Baldwin.

Alena Seredova.

Alessandra Martines.

Alessandra Mastronardi.

Alessandra e Valentina Giudicessa.

Aleandro Baldi.

Alessandro Baricco.

Alessandro Benvenuti.

Alessandro Bergonzoni.

Alessandro Borghi.

Alessandro Cattelan.

Alessandro Cecchi Paone.

Alessandro e Leo Gassmann.

Alessandro Haber.

Alessandro Preziosi e Vittoria Puccini.

Alessia Fabiani.

Alessia Marcuzzi.

Alessia Merz.

Alex Britti.

Alex Di Luca.

Alexia.

Alfonso Signorini.

Alvaro Vitali.

Amadeus.

Amanda Lear.

Amara Rakhi Gill.

Ambra Angiolini.

Amedeo Minghi.

Amleto Marco Belelli, il Divino Otelma.

Anastasia Bartoli.

Andrea Bocelli.

Andrea Delogu.

Andrea Pucci.

Andrea Roncato.

Angela Cavagna.

Angela White.

Angelina Jolie.

Angelo Branduardi.

Angelo Duro.

Annalisa.

Anna Chetta alias Linda Lorenzi.

Anna Falchi.

Anna Mazzamauro.

Anna Tatangelo.

Anna Valle.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonella Marino.

Antonino Cannavacciuolo.

Antonio Banderas.

Antonio Diodato.

Antonio Albanese.

Antonio Ricci.

Ariete si chiama Arianna Del Giaccio.

Arnold Schwarzenegger.

Articolo 31.

Arturo Brachetti.

Asia e Dario Argento.

Barbara Bouchet.

Barbara D’Urso.

Barbra Streisand.

Beatrice Fazi.

Beatrice Rana.

Beatrice Venezi.

Bebe Buell.

Belen Rodriguez e Stefano De Martino.

Beppe Convertini.

Beppe o Peppe Vessicchio.

Biagio Antonacci.

Bianca Balti.

Bob Dylan.

Bobby Solo.

Brad Pitt.

Brenda Lodigiani.

Brendan Fraser.

Brigitte Bardot.

Britney Spears.

Brooke Shields.

Bruce Willis.

Bruno Gambarotta.

Bugo.

Candy Love.

Carla Signoris.

Carlo Conti.

Carlo Freccero.

Carlo Verdone.

Carlotta Mantovan.

Carmen Russo.

Carol Alt.

Carole Andrè.

Carolina Crescentini.

Cate Blanchett.

Caterina Caselli.

Catherine Deneuve.

Catiuscia Maria Stella Ricciarelli: Katia Ricciarelli.

Cecilia Gasdìa.

Celine Dion.

Cesare Cremonini.

Capri Cavanni.

Charlize Theron.

Cher.

Chiara Claudi.

Chiara Francini.

Chiara Mastroianni.

Christian Clay.

Christian De Sica.

Christina Aguilera.

Christopher Walken.

Chu Meng Shu.

Cinzia Leone.

Cirque du Soleil.

Clara Serina.

Claudia Cardinale.

Claudia Gerini.

Claudia Koll.

Claudia Pandolfi.

Claudio Amendola.

Claudio Baglioni.

Claudio Cecchetto.

Claudio Lippi.

Claudio Santamaria.

Clint Eastwood.

CJ Miles.

Colapesce e Dimartino.

Colin Farrell.

Coma_Cose.

Corrado Tedeschi.

Costantino della Gherardesca.

Costantino Vitagliano.

Cristiana Capotondi.

Cristiano De André.

Cristiano Malgioglio.

Cristina Comencini.

Cristina D’Avena.

Cristina Scuccia.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Dado.

Dalila Di Lazzaro.

Daniel Craig.

Daniele Luttazzi.

Daniele Silvestri.

Dargen D'Amico.

Dario Farina.

David Lee.

Den Harrow.

Dennis Fantina.

Diana Del Bufalo.

Diego Dalla Palma.

Diego Abatantuono.

Diletta Leotta.

Donatella Rettore.

Dredd.

Drusilla Foer.

Ed Sheeran.

Edoardo Bennato.

Edoardo Costa.

Edoardo Vianello.

Edwige Fenech.

Elena Di Cioccio.

Elena Santarelli.

Elenoire Casalegno.

Eleonora Abbagnato.

Eleonora Daniele.

Eleonora Giorgi.

Elettra Lamborghini.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Valentini.

Elodie.

Ema Stockolma.

Emanuela Fanelli.

Emanuela Folliero.

Emanuela Trane: Dolcenera.

Emma Marrone.

Enrica Bonaccorti.

Enrico Bertolino.

Enrico Beruschi.

Enrico Brignano.

Enrico Lo Verso.

Enrico Ruggeri.

Enrico Silvestrin.

Enrico Vanzina.

Enza Sampò.

Enzo Braschi.

Enzo Ghinazzi, in arte Pupo.

Enzo Iacchetti.

Ernia.

Eros Ramazzotti.

Eugenio Finardi.

Euridice Axen.

Eva Elfie.

Eva Henger.

Eva Menta e Alex Mucci.

Eva Riccobono.

Eva Robin’s.

Ezio Greggio.

Fabio Concato.

Fabio De Luigi.

Fabio Fazio.

Fabio Rovazzi.

Fabrizio Bentivoglio.

Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli.

Fabrizio Bracconeri.

Fabrizio Corona.

Fabrizio Moro.

Fanny Ardant.

Fedez e Chiara Ferragni.

Ferzan Ozpetek.

Ficarra e Picone.

Filippa Lagerbäck e Daniele Bossari.

Fiordaliso.

Fiorella Mannoia.

Fiorella Pierobon.

Fioretta Mari.

Francesca Alotta.

Francesca Michielin.

Francesca Neri.

Francesca Reggiani.

Francesco Baccini.

Francesco De Gregori.

Francesco Facchinetti.

Francesco Guccini.

Francesco Leone.

Francesco Nuti.

Francesco Pannofino.

Francesco Renga.

Francesco Salvi.

Francis Ford Coppola.

Franco Nero.

Francois Ozon.

Frank Matano.

Frankie Hi Nrg Mc.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gabriele Salvatores.

Gabriella Golia.

Gabry Ponte.

Gaiè.

Gene Gnocchi.

George Benson.

Geppi Cucciari.

Gerry Scotti.

Gianna Nannini.

Gigi e Andrea.

Giampiero Ingrassia.

Giancarlo Giannini.

Giancarlo Magalli.

Gianluca Colucci: Gianluca Fru.

Gianluca Grignani.

Gianmarco Tognazzi.

Gianni e Marco Morandi.

Gigi D'Alessio e Anna Tatangelo.

Gigi Folino e il Gruppo Italiano.

Gigliola Cinquetti.

Gino Paoli.

Gino & Michele.

Giorgia.

Giorgia Surina.

Giorgio Mastrota.

Giorgio Pasotti.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanni Caccamo.

Giovanni Muciaccia.

Giovanni Pietro Damian: Sangiovanni.

Giovanni Scialpi.

Giuliana De Sio.

Giulio Rapetti Mogol.

Giulio Scarpati.

Giuseppe Tornatore.

Gli AC/DC.

Gli Inti-Illimani.

Gloria Guida.

Guendalina Tavassi.

Guillermo Mariotto.

Guns N' Roses.

Gwyneth Paltrow.

Henry Winkler.

Harry Styles.

Helen Mirren.

Heather Parisi.

Eva Herzigova.

Eva Longoria.

Iaia Forte.

Gli Skiantos.

I Baustelle.

I Cccp Fedeli alla Linea. 

I Cugini di Campagna.

I Gialappa' s Band.

I Guzzanti.

I Jalisse.

Il Volo.

I Maneskin.

I Marlene Kuntz.

I Metallica.

I Modà.

I Negramaro.

I Pooh.

I Righeira.

I Ricchi e Poveri.

I Rolling Stones.

I Santi Francesi.

I Sex Pistols.

Ilary Blasi.

Elena Anna, Ilona Staller: Cicciolina.

Irene Maestrini.

Isabella Ferrari.

Isabella Rossellini.

Isotta.

Iva Zanicchi.

Ivan Cattaneo.

Ivana Spagna.

Ivano Fossati.

Jack Nicholson.

Jane Fonda.

Jennie Rose.

Jeremy Renner.

Jerry Calà.

Jo Squillo.

John Malkovich.

Johnny Depp.

Johnny Dorelli.

Joss Stone.

Jude Law.

Julia Roberts.

Justine Mattera.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Kanye West.

Kasia Smutniak.

Kate Winslet.

Ke Hui Quan.

Kevin Costner.

Kevin Spacey.

Kira Noir.

Lady Gaga.

Laetitia Casta.

La Gialappa’s Band.

Lalla Esposito.

Lars von Trier.

Laura Chiatti.

Laura Freddi.

Laura Morante.

Laura Pausini.

Lavinia Abate.

Lazza.

Lella Costa.

Lenny Kravitz.

Leo Gullotta.

Leonardo DiCaprio.

Leonardo Pieraccioni.

Levante.

Lewis Capaldi.

Lia Lin.

Licia Colò.

Liliana Cavani.

Lily Veroni.

Lina Sotis.

Linda Evangelista.

Lino Banfi.

Linus.

Lisa Galantini.

Little Dragon.

Lizzo.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Cherubini: Jovanotti.

Loretta Goggi.

Lory Del Santo.

Luc Besson.

Luc Merenda.

Luca Argentero.

Luca Barbareschi.

Luca e Paolo.

Luca Medici: Checco Zalone.

Luca Miniero.

Luca Ravenna.

Lucia Mascino.

Luciana Littizzetto.

Ludovica Martino.

Ludovico Peregrini.

Luigi Lo Cascio.

Luisa Corna.

Luisa Ranieri.

Luna Star.

Madame.

Maddalena Corvaglia.

Madonna.

Mago Forest, alias Michele Foresta.

Mahmood.

Malena, all’anagrafe Filomena Mastromarino.

Malika Ayane.

Manila Nazzaro.

Manuel Agnelli.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marco Bellocchio.

Marco Bocci.

Marco Columbro.

Marco Della Noce.

Marco Ferradini.

Marco Giallini.

Marco Masini.

Marco Mengoni.

Marco Predolin.

Marco Risi.

Margherita Buy.

Maria Giovanna Elmi.

Maria Grazia Buccella.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Sofia Federico.

Maria Teresa Ruta.

Marina Suma.

Mario Biondi.

Mariolina Cannuli.

Marisa Laurito.

Marisela Federici.

Martin Scorsese.

Mascia Ferri.

Massimo Boldi.

Massimo Ceccherini.

Massimo Ciavarro.

Massimo Ghini.

Massimo Ranieri.

Matilda De Angelis.

Matilde Gioli.

Mattia Zenzola.

Maurizio Battista.

Maurizio Ferrini.

Maurizio Milani.

Maurizio Potocnik, in arte Reeds.

Maurizio Vandelli.

Maurizio Zamboni .

Mauro Coruzzi alias Platinette.

Mauro Pagani.

Max Felicitas.

Max Laudadio.

Max Pezzali e gli 883.

Megan Daw.

Megan Gale.

Mel Brooks.

Melissa Stratton.

Memo Remigi.

Micaela Ramazzotti.

Michael Caine.

Michael J. Fox.

Michele Guardì.

Michele Placido.

Michele Riondino.

Michelle Hunziker.

Michelle Yeoh.

Mika.

Milena Vukotic.

Mina.

Minnie Minoprio.

Miranda Martino.

Mita Medici.

Monica Bellucci.

Morgan.

Myss Keta.

Mr. Rain.

Nada.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Natasha Stefanenko.

Naomi Campbell.

Neri Parenti.

Nicole Doshi.

Niccolò Fabi.

Nina Moric.

Nina Zilli.

Nino D'Angelo.

Nino Formicola: Gaspare di Zuzzurro e Gaspare.

Nino Frassica.

Noomi Rapace.


 


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Omar Pedrini.

Omar Sharif.

Orietta Berti.

Ornella Muti.

Ornella Vanoni.

Ozzy Osbourne.

Pamela Anderson.

Pamela Prati.

Pamela Villoresi.

Paola Barale e Raz Degan.

Paola&Chiara.

Paola Gassman e Ugo Pagliai.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Turci.

Paolo Belli.

Paolo Calabresi.

Paolo Conte.

Paolo Rossi.

Paris Hilton.

Pasquale Petrolo in arte Lillo; Claudio Gregori in arte Greg.

Patty Pravo.

Patti Smith.

Peppino di Capri.

Peter Gabriel.

Pico.

Pier Francesco Pingitore.

Pierfrancesco Favino.

Pier Luigi Pizzi.

Piero Chiambretti.

Piero Pelù.

Piero Pintucci. 

Pilar Fogliati.

Pino Insegno.

Pino Scotto.

Pio ed Amedeo.

Playtoy Orchestra.

Povia.

Pupi Avati.

Quentin Tarantino.

Quincy Jones.

Raf.

Renato Pozzetto.

Renato Zero.

Renzo Arbore.

Ricky Martin.

Rita Pavone.

Ringo.

Robbie Williams.

Robert De Niro.

Roberta Lena.

Roberto da Crema.

Roberto Vecchioni.

Rocco Hunt.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Rocío Muñoz Morales e Raoul Bova.

Roman Polanski.

Ron: Rosalino Cellamare.

Ronn Moss.

Rosa Chemical.

Rosalba Pippa: Arisa.

Rosanna Fratello.

Rosario e Giuseppe Fiorello.

Rupert James Hector Everett.

Sabina Ciuffini.

Sabrina Impacciatore.

Sabrina Salerno.

Samuel L. Jackson.

Sandy Marton.

Sandra Milo.

Sara Diamante.

Sara Tommasi.

Scarlett Johansson.

Sean Penn.

Selen.

Selva Lapiedra.

Serena Grandi.

Sergio Caputo.

Sergio Castellitto.

Sergio Rubini.

Sergio Vastano.

Sergio Volpini.

Sharon Stone e Michael Douglas.

Shakira.

Simona Izzo.

Simona Tabasco.

Simona Ventura.

Simone Cristicchi.

Syusy Blady e Patrizio Roversi.

Sofia Scalia e Luigi Calagna, Sofì e Luì: Me contro Te.

Sonia Bruganelli e Paolo Bonolis.

Sophia Loren.

Stanley Tucci.

Stefania Orlando.

Stefania e Silvia Rocca.

Stefania Sandrelli.

Stefano Accorsi.

Susan Sarandon.

Susanna Messaggio.

Sydne Rome.

Sylvester Stallone.

Sveva Sagramola.

SZA, vero nome Solána Imani Rowe.

Taylor Swift.

Tananai.

Terence Blanchard.

Teresa Mannino.

Teresa Saponangelo.

Teo Mammucari.

Teo Teocoli.

Tiberio Timperi.

Tim Burton.

Tinto Brass.

Tiziana Rivale.

Tiziano Ferro.

Tom Cruise.

Tom Hanks.

Tommaso Paradiso.

Toto Cutugno.

Tullio Solenghi.

U 2.

Uccio De Santis.

Ultimo.

Umberto Smaila.

Wanna Marchi.

Will Smith.

Woody Allen.

Valentina Lodovini.

Valeria Golino e Riccardo Scamarcio.

Valeria Marini.

Valeria Rossi.

Valeria Solarino.

Valerio Scanu.

Valerio Staffelli.

Vanessa Gravina.

Vasco Rossi.

Vera Gemma.

Veronica Maya.

Victoria Cabello.

Vincenzo Salemme.

Viola Valentino.

Vittoria Belvedere.

Vladimir Luxuria.

Zucchero Fornaciari.

Yuko Ogasawara.

Xxlayna Marie.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Sanremo 2024.

Sanremo. Sociologia di un festival.

La Selezione…truccata.

I Precedenti.

Il FantaSanremo.

Gli Inediti.

I Ti caccio o non ti caccio?

Gli Scandali.

La Politica.

Le Anticipazioni. Il Pre-Voto.

Quello che c’è da sapere.

I Co-conduttori.

I Super Ospiti.

Testi delle canzoni di Sanremo 2023.

La Prima Serata.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

La Quinta ed Ultima Serata.


 

INDICE SESTA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Certificato medico sportivo.

Giochi Sporchi del 2022.

Quelli che…il Coni.

Quelli che…il Calcio. La Fifa.

Quelli che…La Uefa.

Quelli che…il Calcio. La Superlega.

Quelli che…il Calcio. La FIGC.

Quelli che…una Compagnia di S-Ventura.

Quelli che…i tiri Mancini.

La Furbata.

Quelli che…il Calcio. Gli Arbitri.

Quelli che…il Calcio. La Finanza.

Quelli che…il Calcio. I Procuratori.

Quelli che…il Calcio. I Tifosi.

Quelli che…il Calcio. I Figli d’Arte.

Quelli che…il Calcio. La Politica.

Quelli che…il Calcio. Gli Altri.

Quelli che…il Calcio. Lionel Messi.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…il Calcio. Le Squadre.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…il Calcio. Le Squadre.

Il Calcioscommesse.

Quelli che…I Traditori.

Quelli che…Fine hanno fatto.


 

INDICE NONA PARTE


 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

I 10 proprietari più ricchi nello sport.

Quelli che…I Superman.

Quelli che…è andato tutto storto.

Quelli che…la Palla Canestro.

Quelli che…la pallavolo.

Quelli che il Rugby.

Quelli che ti picchiano.

Quelli che…il Tennis.

Quelli che…il pattinaggio.

Quelli che…l’atletica.

Quelli che…i Motori.

Quelli che…la Bicicletta.

Quelli che…gli Sci.

Quelli che…il Nuoto.

Quelli che…la Barca.

Quelli che…l’Ippica.

Quelli che… il Curling.

Il Doping.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

QUARTA PARTE


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Omar Pedrini: «Il dramma è iniziato a Sanremo, ora l'ultima tournée. Poi farò il contadino in Toscana». Redazione Brescia su Il Corriere della Sera sabato 18 novembre 2023.

In un lungo monologo alle Iene, il cantautore bresciano si è raccontato: dall'amore per il rock and roll alla paura di morire, poi le operazioni e infine la decisione di smettere e dedicarsi alla campagna

Come annunciato in un'intervista sul Corriere della Sera, Omar Pedrini ha annunciato il ritiro dal palco. Prima, però, si concederà l'ultima tournèe. Omar Pedrini lo ha detto in un lungo monologo alle Iene. «Nella mia vita c'è sempre stata la musica -esordisce Omar Pedrini - e in fondo alle mie mani una chitarra. Io e lei insieme in gita scolastica, la prima band al liceo, il palco di Sanremo a poco più di vent'anni e la conquista del primo disco d'oro del rock alternativo con i miei Timoria»  «La vita non mi ha fatto mancare niente: le soddisfazioni dei concerti - prosegue il cantante bresciano - la popolarità e le sue sfumature, eccessi compresi. Ma sono sopravvissuto a 35 anni di rock and roll e soprattutto a sette operazioni cardiovascolari per un cuore malandrino». 

«Il mio dramma - spiega Omar Pedrini - è iniziato ancora una volta a Sanremo, nel 2004. In un battibaleno sono passato dalla felicità per il premio del miglior testo alla paura di morire. Eppure, tra un ospedale e l'altro, ho sempre cercato di fare musica, di non concedermi una resa, mai. Sono stato capace di fare delle mie cicatrici, la mia forza e la mia bellezza. Ma so anche che in questi anni complessi, dopo quattro interventi al cuore e un suocero cardiochirurgo, succede solo a me (ride, ndr), devo prendere una pausa». 

E infine il cantautore bresciano ha annunciato l'ultima tournèe: «Non voglio andarmene senza salutare. Prima voglio fare un ultimo giro di rock and roll, un'ultima tournèe ancora insieme alla mia chitarra elettrica e al mio pubblico. Dopo tornerò a fare il contadino nella mia campagna in Toscana tra gli spiriti etruschi, gli ulivi e la vigna. Ma prima voglio bere e brindare insieme a voi, come si beve un grande vino, un ultimo sorso di felicità. Naturalmente, alla mia salute». 

Omar Pedrini e la malattia: «I miei sei interventi al cuore. Vivo con una spada di Damocle». Rosanna Scardi su il Corriere della Sera il 23 Febbraio 2023

Il rocker ex Timoria ricoverato all’Humanitas Gavazzeni di Bergamo. Gli esami per valutare un altro intervento. Convivere con una spada di Damocle: «Com’è? Ti godi il presente». A maggio l’uscita del nuovo disco: «Da inguaribile ottimista penso al tour»

Si è fermato ai box per un pit stop bergamasco al suo cuore «malandrino» che è durato una settimana. Omar Pedrini chiama così, sdrammatizzando, gli esami effettuati all’Humanitas Gavazzeni, ospedale all’avanguardia nazionale nella cardiochirurgia robotica e mininvasiva. Il responsabile dell’area, il dottor Alfonso Agnino, sta valutando con la sua équipe se per il rocker bresciano sia necessario un intervento. Lo stesso cantante ha postato sui social le foto che lo ritraggono sorridente davanti al reparto degenze B3 insieme ai ringraziamenti per il personale medico e sanitario. L’ex Timoria convive da anni con dei gravi problemi cardiaci.

Pedrini, perché ha scelto l’Humanitas Gavazzeni di Bergamo?

«Mi è stato scoperto un affaticamento cardiaco importante. E il mio cardiologo, Alberto Lanzone, che è diventato un amico, mi ha consigliato l’Humanitas Gavazzeni, dove ha lavorato per cinque anni, per compiere accertamenti ed esami di alto livello. Ho anche un cuore un po’ ipertrofico, più grande del normale».

Un cuore più grande, sembra molto poetico.

«In realtà, è anche una rottura di scatole. Ho subìto sei interventi con altrettante anestesie totali, quattro dei quali nell’ultimo anno e mezzo. Da plurioperato, il mio corpo quasi bionico ha mille coaguli, aderenze, protesi, non è terreno facile per un chirurgo. Usare la tecnica robotica e non dovermi aprire è un grande vantaggio. Sto aspettando con ansia il parere dei dottori Agnino, Paolo Panisi e Valentina Grazioli. Mi hanno accolto come se fossi il Papa, con competenza e umanità. Il vostro ospedale è un orgoglio lombardo».

Come e quando ha scoperto l’ultimo affaticamento al cuore?

«Casualmente. In agosto ero al mare a Badalucco, in Liguria, con la famiglia e sono stato "tamponato" mentre spingevo mio figlio Faustino sul passeggino. Sono finito al pronto soccorso di Sanremo: quando ho detto ai medici che avrei preferito essere all’Ariston a cantare piuttosto che con loro, ci siamo messi a ridere. Era sabato sera e mi hanno dimesso. Ma essendo stato operato all’aorta, mi erano venuti dei dubbi. E così sono stato all’ospedale di Bologna, dove avevo subìto l’intervento, per sottopormi a una tac, scoprendo che la botta dell’incidente mi aveva squarciato i punti. Dopo l’operazione per richiuderli, a settembre, mi è stato diagnosticato l’affaticamento alle valvole cardiache».

Nella sua battaglia contro i capricci del cuore è anche diventato testimonial della prevenzione cardiologica.

«Nel 2004 ho superato il primo intervento d’urgenza. Dieci anni dopo, ho avuto un malore al termine di un concerto a Roma. Ero alla fine del tour, ai bis. Un’altra corsa in ospedale. Nel primo avevo un picco di pressione a 250. Mi sono sentito un cretino a non averla mai controllata e a non aver mai fatto un ecocardiogramma. Magari mi avrebbero operato senza urgenza. Agli amici e ai lettori consiglio di provare la pressione e fare un tagliando a se stessi. E non solo alla macchina».

Come si convive con la spada di Damocle?

«Tutti ne abbiamo una: è sostenuta da un crine di cavallo, il mio è solo più sottile della media. E come me c’è chi ha una malattia oncologica o infettiva, come si è visto a Bergamo e Brescia, dove la pandemia ha spazzato via una generazione. Di sicuro la spada di Damocle ti porta a essere a posto con la tua coscienza ogni volta che chiudi gli occhi; a comportarti meglio nei rapporti umani: non hai voglia di litigare se domani hai una visita per cui preghi Dio che vada bene. E poi, ti godi il presente. Non immagina con che occhi guardo i miei bambini…».

Spesso ripete il messaggio dello scrittore americano Kurt Vonnegut: «Quando siete felici fateci caso».

«Deve essere così. Come dicono i saggi orientali: "Sarebbe bello vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo e imparare come se non dovessimo morire mai. Per questo adoro chi prende il diploma a 90 anni».

Quali progetti ha?

«Mi hanno invitato alla manifestazione per il Tibet il 10 marzo a Roma. Vorrei esserci, sempre che non sia ricoverato».

É buddista?

«Sono un uomo spirituale, non osservo nessun credo. Seguo il Dalai Lama, mi piace la figura di Gesù. E sono un anarchico pacifista».

In questa «finestra» fuori dall’ospedale a cosa si dedica?

«Sto dando gli ultimi ritocchi di vernice al mio nuovo disco che uscirà a maggio, anticipato dal singolo in aprile. La musica toglie l’ansia, mi distrae. E, da inguaribile ottimista, penso al tour e, quando sono in ospedale, dalla finestra, guardo la bellezza di Città Alta e penso a me con il mio maestro Gino Veronelli».

Estratto dell'articolo di S.A. per “il Messaggero” l'11 maggio 2023.

[…] Omar Sharif, egiziano purosangue, ha affascinato generazioni di donne ed era un autentico cittadino del mondo. Oltre che ad Alessandria d'Egitto e al Cairo, era di casa a Roma, a Parigi, a Londra e a Hollywood. Ha vinto tre Golden Globe, è stato coinvolto in risse e processi, è stato premiato dall'Unesco per il suo contributo al pluralismo culturale.

Chi atterra a Lanzarote scopre altre due grandi passioni di Omar Sharif. La prima è quella per i paesaggi e l'atmosfera dell'isola, della quale si è innamorato a prima vista. C'era arrivato nel 1972 per girare L'isola Misteriosa e il capitano Nemo, un film tratto da un romanzo di Jules Verne. La seconda è la passione per il bridge, il gioco di carte al quale l'attore egiziano dedicava interminabili serate e nottate, piene di tensione e di fumo.

LA STRUTTURA A mettere insieme le due passioni di Sharif è Lagomar (o meglio, LagOmar), la villa disegnata da César Manrique in una cava abbandonata di Nazaret, un minuscolo centro qualche chilometro a sud di Teguise. È una struttura bizzarra, adatta al clima torrido dell'estate sull'isola, con una bella piscina, varie cascatelle e alcuni edifici all'esterno, ma dove le camere più importanti sono state realizzate all'interno di alcune grotte.

Accanto agli edifici imbiancati a calce, ai piedi della parete di roccia scura, crescono palme, cactus, bougainvillee e aloe. La visita del complesso include delle gradinate ripide, dei minuscoli terrazzi circondati dal verde, una grande cucina e varie camere arredate con sculture in legno africane. […] I visitatori scoprono un mazzo di carte aperto e poggiato sul tavolo, e una grande fotografia in bianco e nero di Omar Sharif, seduto durante una pausa di una partita di bridge. Fanno bene, perché il cuore della storia è proprio lì.

Omar Sharif si è innamorato della villa di Lagomar a prima vista, l'ha immediatamente acquistata a caro prezzo. E qualche settimana più tardi l'ha persa durante l'ennesima partita di bridge. La passione per il gioco può avere un prezzo molto alto.

Estratto dell’articolo di Silvia Fumarola per “la Repubblica” domenica 19 novembre 2023.

«Sono appena tornata da una mini crociera e sono un po’ frastornata: dal sole e la piscina alla pianura Padana è un bel salto. Sono andata con mio figlio Otis, c’era anche Mara Maionchi per giudicare i talenti: oggi tutte le persone vogliono cantare, chissà perché...» . Orietta Berti ha la voce squillante; a 80 anni non si ferma un attimo. Da giovedì con Al Bano, Michelle Hunziker e Claudio Amendola, è nella giuria di Io canto generation su Canale 5, il talent show condotto da Gerry Scotti, direzione artistica di Roberto Cenci, di cui sono protagonisti i ragazzi. Le squadre sono capitanate da Iva Zanicchi, Fausto Leali, Anna Tatangelo, Mietta, Cristina Scuccia e Benedetta Caretta.

La diverte fare la giurata?

«Il programma secondo me è bello, i ragazzini sono molto sicuri di sé. Se mi paragono a loro, quando ho cominciato io avevo paura anche delle ombre. In tv c’erano pochi programmi, avevo il registratorino Gelosino e si rompeva sempre il nastro. Ora conoscono il repertorio di tutti e hanno la tendenza a imitare il personaggio. Mi aspetto che propongano i successi internazionali più belli, ma preferirei che cantassero in italiano. Il cast l’ha fatto Sonia Bruganelli, siamo diventate amiche al Grande fratello ».

 È una giurata severa?

«Per carità. Se dai un voto basso questi ragazzi se lo ricorderanno per tutta la vita. Mi dispiace anche dare 6, figuriamoci. Bisogna capire chi si emoziona di più, ci sono quelli più freddi e poi conta l’età. Quattro anni di differenza, dai 10 ai 14 anni, sono tanti, sono mondi diversi. Hanno un coraggio enorme, sono piccoli». 

[…] non pensa proprio a ritirarsi?

«Sono in pensione ma se mi tolgono questo lavoro mi cambierebbe il carattere, sarei depressa: lavorare con gente giovane ti mantiene giovane. Se penso alla sigla di Viva Rai 2! che ho fatto per Fiorello… Mi hanno mandato la canzone per telefono: “Te la puoi imparare?”. L’ho imparata in macchina e l’ho registrata. Quella sigla mi mette il buonumore».

[…]

Tante volte in giuria, si è sentita giudicata?

«Sempre. Chi fa questo lavoro sa che dopo un successo farà un disco nuovo e sarà giudicato. Si ricomincia».

[…] 

La collaborazione con Fedez e Achille Lauro, poi con Fabio Rovazzi. Perché piace ai giovani?

«Mah. Per il mio modo di fare: sono schietta, faccio anche gaffe. Mi piacciono gli animali. Tranne qualche scalmanato che fa cose da pazzi, i giovani amano la natura.

Apprezzano la mia voce, questa estate ai concerti veniva la generazione che mi ha lasciato Manuelito Hell Raton. Quando chiedevo: “Perché siete qui?”, rispondevano: “Hai una voce che ci fa stare bene e ci rilassa”. C’è da chiedersi: perché un ragazzino non deve essere rilassato?».

Ha partecipato al Milano Pride, cosa pensa delle discriminazioni?

«Ci sono genitori che si vergognano per quello che potrebbero dire i vicini, rispetto ai figli gay. È la cosa più brutta che possa esistere. […]». 

La premier Meloni crede solo nelle famiglie tradizionali: cosa si sentirebbe di dirle?

«Non credo che sia poco inclusiva, ha una bambina che adora. Credo che siano negativi quelli che la circondano, Meloni non può pensare davvero certe cose. […]».

A 80 anni si è tolta tutti gli sfizi?

«No. Ma ho vissuto bene, mi sono sempre accontentata. Ho le mie camicie da notte sexy, le  borsette, le scarpe, non è che spendessi cifre folli. […]» 

Rimpianti?

«Forse quando i miei figli erano piccoli sono stata assente. Otis mi dice: “Voglio veder crescere le mie bambine, se cade un dentino. Non voglio fare come hai fatto tu”. A volte viene con me l’altro figlio Omar. Forse hanno un po’ sofferto, le nonne me li hanno allevati bene, con i valori, sono educatissimi. Viaggiavo con Osvaldo, facevamo sacrifici per tornare a casa. Ma certo, non sono stata una mamma che metteva a letto i figli tutte le sere».

Estratto dell'articolo di Daniela Lanni per lastampa.it il 3 giugno 2023.

«Forse non mi rendo ancora conto di avere 80 anni. È importante stare bene in salute e avere la testa a posto. Poi ho talmente tanta energia che certi giorni mi sento una ragazzina. Un esempio? L’altro ieri ero in sala di registrazione e si è stancato il tecnico, mentre io continuavo a dirgli “no, ma facciamo ancora questo, dobbiamo finire quest’altro…”. 

Insomma, non mi fa nessun effetto, è un numero normale». Mentre parliamo al telefono Orietta Berti, tra le poche protagoniste femminili in campo musicale di un’intera epoca, è seduta nella sala della sua villa a Montecchio, in provincia di Reggio Emilia, e ha da poco finito di piantare dei fiori color fucsia nel giardino di casa. Una mattinata di «relax», come lei stessa l’ha definita, che raramente capitano. Perché l'Usignolo di Cavriago, nonostante i 58 anni di carriera alle spalle, resta un’artista curiosa, attenta ai dettagli e con un’agenda piena di impegni. «Pensa che dormo solo due ore la notte, sono sempre lì a riflettere su tutte le cose da fare» dice, e fortuna che siamo al telefono, altrimenti avrebbe visto il mio stupore. 

Orietta ma non festeggia?

«Farò un brindisi ma questo è un lavoro molto intenso e la vita scorre. A giugno ho tante sorprese in ballo tra registrazioni, montaggi dei video, comparsate in tv, poi i concerti. Dagli anni ’80 mi produco da sola e, insieme a mio marito, abbiamo una società, quindi il lavoro è doppio. Ora mi aiutano anche i miei figli. Il mio dono è quello di saper ascoltare tutti. Ai ragazzi giovani che oggi vendicchiano qualcosa e pensano di avere già tutto ai propri piedi dico che non è vero. Questo lavoro è come la frase del film Via col Vento pronunciata da Rossella O’Hara: “Domani è un altro giorno”, devi sempre cominciare da capo». 

(...) 

Con “Diverso” affronta un altro tema molto forte: l’omosessualità.

«Per il mio compleanno ho fatto questa canzone in cui c’è una madre che protegge il proprio figlio che si è dichiarato gay. Nel video la mamma gli dice che non sbaglia ad amare un’altra persona, che siamo nati per amare e non per odiare, è la cosa più semplice e naturale che c’è. Credo sia giusto che questo mondo abbia il coraggio di cambiare. Purtroppo ci sono delle famiglie che non accettano il figlio diverso, che poi diverso in cosa? Diversi sono loro, casomai. Un animale non abbandona i cuccioli. L’ho fatta in collaborazione con le case d’accoglienza “Arcobaleno” a Milano che aiutano questi ragazzi che purtroppo vengono emarginati dalla loro famiglia di origine». 

L’amore non dovrebbe essere etichettato, imprigionato. Eppure lo è ancora. Perché si fatica ancora ad accettare un sentimento che dovrebbe essere universale e privo di barriere?

«Non lo so. Forse per la paura dei giudizi o di un vicino che ti deride? Non capisco questa mentalità che c’era, c’è, e, forse, ci sarà in futuro, anche se mi auguro di no. Per me sono persone di un’intelligenza superiore agli altri perché hanno sia quella femminile che maschile. Poi sono sempre presenti. Ho tanti amici omosessuali e ci sono sempre nel momento del bisogno. Li adoro, sono come dei fratelli». 

A un Gay Pride andrebbe?

«Mi hanno invitata tantissime volte. Sono andata a fare gli spettacoli all’arrivo, cioè quando finiva la sfilata. Sono stata a Roma, Napoli, Milano. Andare sul carro, son sincera, ho paura perché mi gira la testa».

Abbiamo avuto tantissimi esempi di persone che hanno fatto successo e poi sono state dimenticate. Lei resta amata da un pubblico sempre più ampio. A cosa attribuisce il suo essere intramontabile?

«Sono nata discograficamente in un periodo molto buono per la musica. Da metà anni ’60 fino agli anni ’80 tutta la discografia italiana era d’oro e andava in tutto il mondo. Poi c’erano le manifestazioni che ti portavano nella casa degli italiani. Da ragazzina fino all’età matura sono cresciuta e invecchiata con loro. Mi vedono come una vicina di casa, una parente. Ed è bello». 

Nella sua carriera ha conosciuto e lavorato con tanti personaggi del mondo dello spettacolo, cinema e musica. Chi le è rimasto nel cuore?

«Tante persone. Mi sono trovata molto bene con Ugo Tognazzi, che è stato 24 giorni in casa mia, dove abbiamo girato “I nuovi mostri”, perché avevo troppi concerti; un mese che non dimenticherò mai, c’era Scola, è venuto Monicelli. A Roma ho registrato anche con Paolo Villaggio, “Quando c'era lui... caro lei!”. Ricordo con piacere anche Pippo Baudo: tutte persone belle e intelligenti».

Tornando all’attualità, Manuelito, Fedez e Achille l’hanno riavvicinata ai giovani. Continuate a sentirvi?

«Sono sempre presenti. Fedez di recente mi ha mandato un uovo di Pasqua, Achille Lauro, fragole e champagne. Siamo in perfetta armonia con tutti. Anche con Manuelito, in arte Hell Raton, con cui lo scorso anno, ho cantato “Luna Piena”, ed è stata la canzone più ascoltata nelle discoteche. Nelle mie serate la devo fare almeno tre volte perché sono i ragazzini a richiederla. Mi piace osare e ben vengano le collaborazioni con i giovani». 

Un pensiero va alla sua terra, l’Emilia Romagna, messa in ginocchio dall’alluvione.

«Sono testimonial di tutti i cibi dell’Emilia Romagna, partecipo al cento per cento, è la mia Regione. Come famiglia abbiamo già contribuito. Va bene organizzare gli spettacoli per poi devolvere gli incassi, ma chissà quando arrivano i soldi. Credo sia meglio aiutare subito, perché nell’immediato servono tante cose. L’alluvione è il meno. Ci sono più di mille frane, paesi isolati, fattorie che non riescono a dare da mangiare ai propri animali. È un disastro. I miei figli avevano organizzato una festa di compleanno per i miei 80 anni ma abbiamo disdetto. Ho tanti amici che hanno perso tutto e non si può fare una festa pensando a chi è rimasto sul lastrico». 

L’Orietta di oggi cosa direbbe alla ragazza che ha lasciato il proprio paese inseguendo un sogno?

«Che ha fatto bene a dar ascolto ai propri collaboratori e non fare sempre di testa sua. Di continuare così, ascoltare le proposte dei giovani, essere schietta e sincera. In caso di errori? Saper chiedere scusa».

Da “OGGI” il 28 maggio 2023.

Alla vigilia di un compleanno importante (80 anni il 1° giugno), e mentre sta vivendo una nuova giovinezza tra tv, fiction, spot, musica, Orietta Berti ripercorre con OGGI un po’ della sua vita e della sua carriera, a partire da un piccolo tesoro d’archivio, un servizio fotografico un po’ osè pubblicato dal settimanale nel 1973. 

«Quello è il periodo in cui collezionavo camicie da notte, belle come abiti da sera, e anche guêpière, se è per questo. Sono capricci che hai a una certa età… Mi avevano chiesto di posare per Playboy e Playmen. Il direttore per convincermi mi disse che con il compenso avrei potuto comprarmi due appartamenti in centro a Reggio Emilia. “Ma io me ne infischio”, ho risposto, “lei non conosce mia suocera!”».

Poi parla di altre “proposte indecenti”: «Una volta chiama a casa Tinto Brass. Risponde mia mamma: “Orietta, al telefono c’è quello che fa i film sporchi”. Lui sente e le spiega: “Ma io non la faccio spogliare, la chiamo per il ruolo di sorella maggiore”. Non se ne fece nulla». 

E del suo attuale successo dice: «Prima cantavo tanto all’estero, in Italia non se ne accorgeva nessuno. Ma non ho mai lavorato tanto come in questi ultimi due anni. Faccio tante pubblicità, alla mia età è una cosa rara. E a chiedermi i selfie sono i ragazzi».

Orietta Berti compie 80 anni: «Senza la fama, avrei fatto l’operaia. Sesso alla mia età con Osvaldo? Coccole». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 30 Maggio 2023

La cantante si racconta a tutto tondo in attesa del traguardo, giovedì: «Sarà una giornata normale, festeggerò lavorando» 

Giovedì compirà 80 anni, eppure Orietta Berti non è mai stata così giovane. «Per me sarà una giornata normale, come le altre», racconta lei con quell’allegria non di maniera che è la sua cifra oltre che la sua forza. «Festeggerò lavorando, come sempre: due anni fa sul set di “Mille” Fedez e Achille (Lauro, ndr.) mi hanno fatto trovare una bella torta, quest’anno farò un brindisi veloce. La vita scorre e io continuerò a rimboccarmi le maniche facendo cose nuove, mi sento piena di energia».

Si vede: non si contano i suoi impegni.

«Ascolto tutte le proposte che arrivano dai giovani: sono loro che mi spingono a fare cose diverse. La copertina del mio cofanetto, La vita è un film, me l’ha fatta un ragazzo di Bologna mettendo la mia faccia al posto di quella dell’imperatrice d’Austria del quadro di Rubens. Una giovane editor mi ha proposto di fare il libro di ricette, altre le realizzo con due blogger nel format Una ricetta con Orietta. E dei ragazzi di Reggio Calabria hanno chiesto di fare delle cover dei telefonini con le mie immagini».

È quella che aveva in tv anche Fiorello?

«Sì ma l’ha persa, mi ha detto di fargliene avere un’altra perché non riesce a stare senza la sua cover con me vestita da fatina del mare... però tutte queste cose non ti vengono in mente se non collabori con i più giovani».

Eppure lei non sognava di fare la cantante, vero?

«Non avrei mai intrapreso questo lavoro, no. Ero molto timida, poi, negli anni 60, non era percepito come un qualcosa di serio: fai la cantante? Ma dove vai... invece mio padre credeva molto in me e mi mandò a scuola di canto: mi aiutò nel trovare sicurezza».

E poi?

«Iniziai a fare concorsi di voci nuove. In uno c’era in giuria Giorgio Calabrese, un autore importante che mi consigliò di fare dei provini nelle case discografiche di Milano: mi procurò lui gli appuntamenti. Con mio padre andammo in giornata e ne girammo diverse. Ma, poco dopo, papà venne a mancare».

Dunque? Cosa successe?

«Mia mamma era una donna pratica, gestiva la pesa comunale. Lei non credeva in questa strada, così mi fece frequentare un corso per stilisti, visto che nelle nostre zone c’era il boom delle case di abbigliamento. Pensavo che quella sarebbe stata la mia vita, solo che dopo un anno Calabrese, non sentendo più mie notizie, si interessò e chiamò il bar del paese, perché noi non avevamo il telefono. “Perché non ti sei più fatta sentire? I provini sono andati bene”, mi disse. Gli spiegai che mamma non voleva più che facessi quel lavoro e lui il giorno dopo si fece trovare a Cavriago: la convinse a non mandarmi in fabbrica, dove nel frattempo aveva trovato un posto per me».

Quindi partì per Milano.

«Ma mia mamma in città da sola non voleva farmi stare, così mi misero in un pensionato di suore: ci ho vissuto tre mesi, tornando a casa sabato e domenica. Diventai amica di due ragazze dell’est che pure vivevano lì: erano molto belle, facevano le ragazze copertina. Potevamo rientrare al massimo alle 18.30. Nel frattempo, grazie alla caparbietà di Calabrese mi proposero di cantare in italiano i brani di Suor Sorriso».

Fatalità, vestita da suora.

«Davvero. Io non volevo fare la suorina ma accettai solo perché mi dissero che se lo avessi fatto mi avrebbero fatto cantare a Un disco per l’estate. Comunque le canzoni di Suor Sorriso ebbero un grande successo, soprattutto in Vaticano. Il mio rammarico resta aver iniziato a fare la cantante per fare un piacere a mio papà senza che lui vedesse che ci ero riuscita».

È sposata da 56 anni con Osvaldo: come vi siete conosciuti?

«Io e i miei amici eravamo andati con la corriera alla fiera del suo paese. L’ho visto tra le bancarelle, me l’hanno presentato e mi sembrava molto più grande di noi per i suoi modi di fare seri... aveva un soprabito alla Humphrey Bogart. Gli dissi che se voleva poteva venirmi a trovare, che gli avrei fatto un caffè. “A me non piace il caffè”, rispose. “Ma guardi che io lo faccio particolare, ci metto dentro il cioccolato”. “Ma a me non piace neanche il cioccolato”. Come è antipatico, avevo pensato. Solo che qualche giorno dopo venne a trovarmi e mi portò anche un pezzo di formaggio. A mia nonna questa cosa fece simpatia ma poco dopo mi chiamò in bagno e mi disse di non dargli troppa corda perché era molto magro: “Mi sa che non è sano”».

Come si costruisce un matrimonio così felice e duraturo?

«Un po’ è fortuna: andiamo d’accordo, abbiamo tante idee in comune. E poi siamo diventati presto soci, abbiamo sempre lavorato insieme. Lui mi faceva da produttore, manager, da autista: mi portava dappertutto, sempre lui, anche adesso. Negli anni sono subentrati anche i miei figli Otis e Omar, perché sono più pratici con i computer, ma sono stata tra i primi in Italia a mettermi in proprio».

Tentazioni? Ci sono state?

«Non è che sono una santa, ma non ho mai voluto approfondire nessun ammiccamento, non mi interessava. Se stai bene con una persona, perché farlo? Poi penso sempre che sia una gran fatica nascondere le scappatelle: tutti quelli che lo fanno mi sembrano degli 007, che impegno... Inoltre credo che la serenità che la gente mi attribuisce dipenda dal fatto di aver potuto lavorare stando sempre vicina alla mia famiglia».

La sua amica Iva Zanicchi ha rotto il tabù della passione a qualsiasi età. Cosa ne pensa?

«Nel mio caso non direi passione, ma amore, tenerezza, coccole... ognuno vive l’età alla sua maniera. Quando ho fatto la serie Quelle brave ragazze, Sandra Milo mi raccontava della sua vita molto piena di amori, meravigliandosi che io avessi avuto un solo uomo. “Che peccato, non sai cosa ti sei persa”, mi aveva detto, ma io sono stata felice così».

Si sa della sua passione per i nomi che iniziano con la lettera «O». Avesse avuto una figlia femmina come l’avrebbe chiamata?

«Ho due nipotine che si chiamano Ottavia e Olivia, mia nuora ha voluto continuare la tradizione. Tutto è nato per caso quando ci siamo resi conto che eravamo circondati: c’era nonno Oreste, nonna Olda, nonna Odilla, zio Oliviero... così quando aspettavamo il primo figlio abbiamo pensato al nome Omar, come Omar Sharif che avevamo conosciuto a un torneo di bridge a Venezia: ci aveva invitati al suo tavolo, diceva che gli portavamo fortuna. Otis invece viene da Otis Redding: ascoltavamo una sua cassetta in auto quando c’è stato un incidente proprio davanti a noi. Siamo rimasti illesi, quindi abbiamo pensato a questo omaggio».

Oggi lei è un’influencer, ma è vero che non ha un telefonino?

«Ne ho uno ma di servizio, nella borsetta, che serve solo a chiamare i miei ragazzi e Osvaldo. Non è un telefono che fa le fotografie o dove mi possono mandare le mail. E poi lo perdo sempre. Anche l’altro giorno sul treno, ma me l’hanno ritrovato. Del resto solo per il Grande Fratello (dove è stata opinionista) ho fatto negli ultimi mesi 90 viaggi».

Chi sono i suoi amici nello spettacolo?

«Con Ornella (Vanoni) ci telefoniamo sempre: quando non chiamo io in settimana mi telefona lei. E lo stesso con Iva. Con Al Bano ci facciamo gli auguri... ma con questo fatto che perdo le rubriche, se non mi chiamano loro io non lo posso fare. Senza contare che ho sempre paura di disturbare. Achille Lauro mi dice: “Non mi chiami mai”. È gentile, mi manda sempre i regali, da poco la sua linea di trucchi... ho usato anche qualcuno dei suoi ombretti fosforescenti e poi i brillantini che sugli occhi non guastano mai. Anche Fedez mi ha mandato i suoi smalti tutti colorati, bellissimi, io mi azzardo a metterli, tipo quello verde pistacchio, ma mio marito mi dice di toglierli perché non ho le mani lunghissme, da mettere in risalto».

Ma i colori sono parte di lei, con buona pace delle armocromiste.

«Ricordo delle prove di Canzonissima: sul palco c’era Modugno e io ero in platea a sentirlo, con delle scarpe fucsia molto moderne. Lui a un certo punto si è fermato e ha urlato: “A chi appartengono quelle scarpe viola? Per favore toglietele subito, io non voglio il viola sul palco”. A parte che erano fucsia e poi che non ero sul palco... ma per fargli piacere sono andata comunque a cambiarmele e sono tornata con delle ciabatte che mi aveva prestato una sarta».

Pensa mai a come sarebbe stata la sua vita oggi se suo papà non le avesse fatto fare quella scuola di canto?

«Volevo fare la maestra d’asilo ma sarei finita sicuramente in una di quelle fabbriche d’abbigliamento, vista la tenacia di mia mamma, arrivando alla pensione lì. Certo, Osvaldo ci sarebbe stato comunque. Non ho dubbi, lo avrei incontrato senz’altro».

"Canto amore e donne. Il ritiro? Mai pensato. I miei concerti sono pieni di bambini". Nel nuovo brano riferimenti alla violenza. "In gara a Sanremo? Se trovo il pezzo giusto..." Paolo Giordano il 3 Maggio 2023 su Il Giornale.

Orietta Berti, non ha mai pensato al ritiro?

«Mai».

Dopo quasi sessant'anni di carriera.

«Ma no, potrei anche non fare dischi o spot pubblicitari, ma senza pubblico non potrei stare. Fare concerti d'estate è bellissimo, senti il calore della gente».

Tutti coetanei magari.

«Ma figurarsi, sono pieni di bambini nelle prime file, vengono, chiedono foto e conoscono le mie canzoni a memoria».

Orietta Berti, nata Galimberti nel 1943 due mesi prima di Mick Jagger degli Stones, è più impegnata di un amministratore delegato. È uscito il video de Il coraggio di chiamarlo amore (da un cofanetto kolossal con 6 dischi di cui parlerà dopo), gira uno spot dopo l'altro, fa concerti e pubblica pure libri: «Quello sulla cucina è piaciuto molto, ci sono le mie ricette di famiglia, come le tagliatelle tricolori del 25 aprile che preparava mia nonna con gli spinaci e le rape rosse, ora le vendono già fatte». Insomma, a 79 anni vive la sua seconda gioventù, che poi è la prima per chi l'ha conosciuta con Mille di fianco a Fedez e mica c'era quando lei cantava E lui pescava a Canzonissima del 1972.

Oggi forse è più impegnata di allora.

«Ogni tanto il mio manager Pasquale mi chiede: ma come fai?».

Il brano Il coraggio di chiamarlo amore parla di violenza fisica, psicologica e sociale sulle donne. Le è mai accaduto?

«Mai, sono stata molto fortunata. Ho avuto molto rispetto e nessuna avance pericolosa. Negli anni Sessanta avevo discografici gay, mi mandarono a scuola di trucco e parrucco perché, dicevano, una star deve sapersi truccare da sola».

Quando?

«Direi intorno al 1963. Quando cantai Io ti darò di più nel 1966 mi mandarono a farmi la piega da Vergottini, quelli del caschetto della Carrà».

Le regine erano Mina, Vanoni, Zanicchi e Berti.

«Per Mina mi tolgo il cappello. Magari anche io prendo le sue stesse note, ma ho meno vigore».

Vanoni?

«Non voleva farsi fotografare con me perché diceva che ero troppo colorata. L'altro giorno mi ha telefonato: Ma quanti soldi guadagni con tutta questa pubblicità?».

Zanicchi.

«Mi ha chiamato pochi giorni fa, era caduta dalle scale. Anche io cado spesso. Quando hai i tacchi, stai attenta. Ma senza tacchi no, e allora cadi. Nel video di Mille con Fedez e Achille Lauro avevo la caviglia fasciata per una caduta. Lo sa che Fedez mi chiama spesso? A Pasqua mi ha mandato un uovo e tanti cuoricini».

E Lauro?

«Beh adesso è in giro per il mondo. Lui mi spedisce i suoi cosmetici, mi piace molto l'ombretto Maleducata».

È stata opinionista al Grande Fratello Vip e forse tornerà. Un ritorno anche a Quelle brave ragazze con Maionchi e Milo su Sky?

«Certo che tornerei, mi sono divertita, avrei ancora da raccontare tanti aneddoti».

È vero che alla sera si lava tutti i vestiti utilizzati nella giornata?

«Sì anche le scarpe e le valigie. Me lo ha insegnato la mia mamma. Durante Quelle brave ragazze la Maionchi mi urlava dall'altra stanza basta con tutta quest'acqua che scorre, sprecona!».

È nata a Cavriago in provincia di Reggio Emilia, paese così di sinistra che c'è pure uno dei pochi monumenti dedicati a Lenin. Cosa pensa di Elly Schlein?

«Il suo arrivo è molto positivo per la politica e per la figura della donna che ha ancora tanti pregiudizi intorno a sé».

Li canta nelle nuove canzoni del cofanetto La mia vita è un film.

«Il prossimo singolo sarà Diverso, dedicato ai ragazzi e alle ragazze abbandonate dai genitori perché gay. Ce ne sono tantissimi! Ma come si fa? Neanche le bestie abbandonano i loro cuccioli. Invece il singolo uscito adesso, Il coraggio di chiamarlo amore con il video dei Sugarkane, avrebbe dovuto essere in gara a Sanremo. Ma poi anche Amadeus mi disse: Torni dopo tanti anni, canta qualcosa di allegro».

Tornerebbe a Sanremo in gara?

«Certo che sì, ma con la canzone giusta. Ne ho parlato con Hell Raton, magari me lo compone lui con la sua squadra».

E tormentone estivo?

«Il mio manager ha tante idee, magari arriva qualcosa, ma adesso non so nulla».

Lei sbaglia spesso i nomi.

«Eh lo so, forse li storpio perché sono troppo veloce. Dopo aver chiamato naziskin i Maneskin, il mio manager mi ha chiamato in camera per dirmi: Ma cosa hai combinato?. Argentero lo chiamo sempre Formentero».

Pensi che problemi se avesse un amante.

«Per fortuna alla mia età non ho più questo problema...»

Estratto dell’articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” il 2 maggio 2023.

All’improvviso arrivano le nipotine. Di quattro anni Olivia e di un anno Ottavia. E l’intervista con Orietta Berti finisce così. Sono le bambine di Otis, il figlio più giovane di Orietta, classe 1980. Anche per le piccole hanno scelto nomi che iniziano con la O. «Noi siamo così legati alle tradizioni qui...» ci racconta Orietta. […] 

La tradizione italiana, ovvero il dna della musica e della bella storia professionale di Orietta Berti, giunta col vento in poppa alla viglia degli 80 anni che compirà il prossimo 1giugno. […]

Le piacerebbe rifare il GFVip?

«Per ora non ho avuto ancora notizie al riguardo ma se me lo riproponessero le dico: perché no? Ho viaggiato molto in treno, più di novanta viaggi sull’Alta Velocità, e mi sono confrontata con altri viaggiatori, madri di famiglia, nonne. Mi sono resa conto di quanto il programma fosse seguito. 

Mi hanno dato dei consigli che forse hanno aiutato anche Pier Silvio a dare un po’ più di disciplina ai concorrenti. A inizio trasmissione pensavamo di poter approfondire molti temi: dalla depressione, alla solitudine di chi ha perso un proprio caro, dalla prevenzione dell’Hiv al tema delle donne che non possono avere figli. Poi la convivenza nella Casa e i caratteri dei protagonisti hanno preso il sopravvento. È giusto che tutto torni a fondarsi sul rispetto reciproco».  […] 

Le cover dei cellulari?

«Dei ragazzi di Reggio Emilia mi hanno chiesto di utilizzare delle mie foto per produrre queste cover esclusive. Ho dato il permesso senza chiedere niente. È giusto che guadagnino loro». 

Come riesce a conquistare sempre il cuore dei giovani?

«Da loro prendo molti stimoli e molte idee alle quali magari da sola non avevo neppure pensato. Loro premiano la semplicità. Le nuove generazioni hanno voglia di rapportarsi con persone normali, positive, con i piedi per terra, vere.

Capiscono subito se una cosa è finta. I giovani mi vogliono bene perché ho sempre detto la verità e raccontato quello che succedeva a me e alla mia famiglia con ironia». 

Mille con Fedez e Achille Lauro è stata uno spartiacque in questo senso che l’ha avvicinata ulteriormente ai ragazzi.

«Ogni estate, anche adesso, siamo in cerca di tormentoni. Me ne mandano molti poi con i miei collaboratori e mio figlio valutiamo. Con Mille non avrei mai immaginato di fare più di 170 milioni di visualizzazioni. Ormai i dischi d’oro e i dischi di platino li danno così. 

Fenomeni così sono davvero rari. Me lo ha detto anche Fedez. Si figuri che di Mille non c’era nemmeno il disco. L’ho fatto io per inserirlo nel cofanetto...».  […]

Ci racconti dello scorso Sanremo.

«Avrei voluto portare proprio Il coraggio di chiamarlo amore, ci tenevo moltissimo. Ma poi Amadeus mi ha convinta, visto che tornavo dopo ventinove anni al Festival, a portare un brano d’amore positivo sulla mia storia d’amore nel quale tante coppie come la nostra potessero rispecchiarsi. Così è nata Quando ti sei innamorato». 

A inizio carriera cantò in abito da suora, ricorda?

«Erano gli esordi e quello fu un ricatto dei discografici internazionali. Avevano queste canzoni di Suor Sorriso che all’estero andavano forte e in Italia dovevano uscire per le Edizioni Paoline in Vaticano. Io accettai ma mi garantirono che poi avrei partecipato a Un disco per l’estate del 1965. Andò bene, vinsi e lì cominciò tutto».

Ora è impegnata anche come ambasciatrice della cucina emiliana, è vero?

«[…] Ci sono piatti emiliani ma anche di altre regioni, quelli che mi sono piaciute di più, a mio gusto. Abbiamo messo il tempo di preparazione oltre a quello di cottura così le persone si possono regolare se hanno tempo o meno per realizzarlo. Del resto la nostra società ormai è tutta a tempo. Sembra un rap. Se sbagli una parola vai fuori».

Orietta Berti: «Se sono a dieta mangio brioche. Le mie ricettine afrodisiache fanno venire il risolino scemo» ANGELA FRENDA su IO Donna il 25 dicembre 2022.

L’artista italiana racconta la sua ultima fatica, un libro di ricette: «Nella mia cucina. Le ricette di una vita». E svela i suoi segreti a tavola

La questione dello scorrere del tempo Orietta Galimberti, in arte Orietta Berti, classe 1943, l’ha risolta da tempo. Ovviamente a modo suo: «Nella vita il vero fascino che ci ritroviamo è proprio l’età. E comunque io evito sempre di guardare la mia carta d’identità». Dai primi successi del 1964 con le canzoni di Suor Sorriso fino alla popolarità raggiunta nel 2021 con Mille insieme a Fedez e Achille Lauro, Orietta cavalca da sempre l’onda del successo. Tra tour in Italia e all’estero (Usa, Russia, Giappone, Australia), 12 partecipazioni al Festival di Sanremo e 16 milioni di dischi venduti, continua a essere un’icona e a conquistare con la sua voce e la sua simpatia il pubblico di tutte le età. In queste settimane in piena promozione del cofanetto di sei cd ( La mia vita è un film- 55 anni in musica ), tra un concerto, un’ospitata al Grande Fratello Vip e il compleanno degli 80 anni che si avvicina (a giugno prossimo), la cantante italiana vive una terza giovinezza. Così carica di energia, entusiasmo e passione che viene da chiedersi, e da chiederle: come fa? E soprattutto: dove ha trovato l’energia per scrivere anche un libro di cucina?

Il libro

Esce infatti in questi giorni la sua ultima fatica «Nella mia cucina. Le ricette di una vita» (Gribaudo, con le foto di Rossella Venezia). E anche questa volta l’interprete di Fin che la barca va ha spiazzato un po’ tutti. «Ma si figuri! È che io sono così, non mi stanco mai. Mi sento una ragazzina dentro. Mentre fuori... Fuori non ci penso. Nemmeno per un istante. E poi erano anni che pensavo di metter giù le mie ricette. Quelle che faccio per gli amici e gli affetti più cari. Ma anche quelle che appartengono alle tradizioni della mia famiglia. Questo libro è nato proprio per recuperarle e per conservarle per sempre». Ma lei come cucina, dica la verità? «Ah, pur essendo un’emiliana doc non sono all’altezza, purtroppo. Non sono certo una rezdora. Mia madre e mia nonna erano più brave! Però, ecco, me la cavo. E poi certo ho sempre cucinato a casa per la mia famiglia. Usando proprio le nozioni che avevo ereditato. Poi, ad un certo punto, ho perso il ricettario di nonna Odilla ed è stato un grande dolore. E anche il libricino nero delle ricette di mia suocera. Questo libro nasce anche per colmare queste mancanze. Sono cresciuta vedendo la mamma e la nonna con le mani in pasta e i grembiuli sporchi di ripieno e farina. Raccogliersi con la famiglia per gustare le lasagne è sempre stato un rito. Devo solo ancora decidere se era più buono il ripieno dei tortelli di mia madre o quello di mia suocera. Bel dilemma».

La convivialità

Sfogliando il suo libro, però, si capisce che lei apprezza della cucina soprattutto l’elemento conviviale. La capacità di poter riunire intorno alla tavola le persone e metterle in relazione. «Certo, è l’aspetto che mi piace di più. Cosa c’è di più bello che invitare a pranzo o a cena degli amici? Ecco perché in questo capitolo ho deciso di realizzare la guida perfetta per tutte le persone che amano la buona cucina e non rinunciano a gustarsi i piaceri della vita. Qui raccolte troverete infatti ricette della tradizione italiana, coniugate a proposte originali e golose: il libro è diviso in quattro sezioni, ognuna adatta alla giusta occasione». Ecco, il mio occhio è caduto subito sulle ricettine afrodisiache. «Per chi come me ha poco tempo e deve spesso optare per uno spuntino, le ricette afrodisiache sono perfette. Sa, noi della tv siamo abituati a finire tardi. Io amo la buona cucina, e spesso chi fa una vita come la mia deve adattarsi a orari e ritmi particolari. Prima dei concerti, per esempio, non si può cenare, si mangia sempre dopo e per lo più piatti freddi. E così già da giovane mi ero specializzata in mettere a tavola subito qualcosa per me e gli altri colleghi. Roba semplice, eh. Cose improvvisate. Tipo: gambi di sedano col prosciutto. Prugne secche col gorgonzola. Oppure gli spicchi di grana con posa di caffè e miele. Più, ovviamente, sempre, il vino come accompagnamento. Io preferisco le bollicine». Ma perché afrodisiache? «Ah perché ti fanno venire quel risolino scemo... Sa quello di quando inizi a divertirti?». Sì, credo di intuire. «Eh, per questo afrodisiache. Mi ricordano la mia gioventù».

A tavola con il marito Osvaldo

Ha conquistato con quelle suo marito Osvaldo? «Ma nooo. A lui non piace nulla. Pensi che quando l’ho incontrato per la prima volta gli dissi: venga a casa mia a prendere un caffè. E lui: non mi piace. E io: e se gli metto accanto dei cioccolatini? E lui: non mangio cioccolato. Ma capisce che antipatico? Poi, dopo una settimana, lui suonò alla mia porta con una forma di formaggio in mano. E mi disse: è il più buono dell’Emilia Romagna. E io: ma figuriamoci, qui il più buono è quello delle vacche rosse. Insomma, le è evidente che a tavola è una relazione difficile la nostra. Far da mangiare per lui è molto difficile». Mi faccia qualche esempio, se vuole. «Beh, i tortelli verdi non li vuole con la ricotta. Non gli piacciono nemmeno quelli di zucca. Ama gli spaghetti aglio e olio. Le penne all’arrabbiata. Il pesce crudo. Doveva nascere nel Salento, non in Emilia Romagna!».

Le ricette di famiglia

Poi c’è il capitolo delle ricette di famiglia. «Certo, perché i nostri ricordi sono spesso legati ai piatti che mangiamo, e che magari siamo anche soliti preparare insieme ai nostri cari. Alcuni dei ricordi più belli sono legati alla mia famiglia e alla mia terra, l’Emilia, e naturalmente a molti dei piatti che rendono unica la cucina di questo territorio, e che col tempo sono diventati parte integrante della tradizione italiana. Questa sezione è dedicata a loro, a tutte le ricette che la mia famiglia si tramanda da generazioni». Gli ultimi due capitoli invece sono Ricette da condividere e Peccati di gola. Belle premesse. «Non c’è cosa più bella del mangiare in compagnia delle persone che amiamo. A volte, però, trovare piatti che mettano tutti d’accordo può essere difficile... Ma non con quelli di questa sezione, spaziando tra primi e secondi, tra carne, pesce e molto altro, io sono sicura che accontenteranno chiunque. Ho messo il pollo arrosto, l’arrosto piemontese, il riso alla pilota, i gamberoni al forno. Ma anche la focaccia genovese, che io amo sia con la Nutella sia con il lardo macinato. Io però quando avevo ospiti a tavola sa cosa facevo? Chiedevo a mia mamma o mia suocera di cucinare. Erano insuperabili. Sennò compravo la pasta fresca fatta al momento». E i peccati invece? «Sono i dolci che amo. Dolci favolosi. Come la zuppa inglese. O il dolce mattone: si fa con i frollini, la crema al burro e le uova».

La dieta

Signora Berti, ma lei è mai stata a dieta? «Una volta. Da Chenot. Persi nove chili. Ma poi li ho ripresi subito. Adesso per me la dieta è saltare il pasto e magari mangio solo una brioche. O un erbazzone. Per concedermi magari invece a cena una bella polenta coi ciccioli o il salame, i fagioli... Che meraviglia!». Il suo piatto preferito? «Mi piace molto la zuppa imperiale, è una torta con le uova, il burro e il formaggio. Il tutto tagliato a dadini e messo nel brodo misto con il lesso. Sa, poi la verità è che comunque per me cucinare è una cosa bella. Lo trovo il miglior modo per rilassarsi e divertirsi. Quando sono stanca, preparo un bel ragù o dei biscotti, e poi magari regalo tutto». Senta, ma sa che il suo caro amico Fabio Fazio ora produce cioccolata? «E certo. Ma deve ancora mandarmela. La vorrei assaggiare. Però magari aspetta che vada da lui in trasmissione a presentare il mio cofanetto dei cd». Alla fine però questo libro di ricette è un po’ una sua autobiografia. Si può dire? «Sì, è la storia della mia vita. Condita da tanti sapori: i piatti che troverete raccontati». Ma lei come riesce a fare tutte queste cose? «Perché gliel’ho detto: io non mi fermo mai. Non so cosa sia la noia. Sono fatta così, sin da quando sono piccola. È la curiosità che mi spinge ogni giorno ad alzarmi dal letto. Anzi, posso darle un consiglio?». Certo. «Le faccia quelle ricettine afrodisiache lì... Non succede nulla di male. Al massimo si è un po’ più allegri». Va bene grazie, proverò.

Alisa Toaff per adnkronos.com lunedì 16 ottobre 2023.

Francesca Romana Rivelli in arte Ornella Muti, 'La moglie più bella' d'Italia ad appena 14 anni, icona di una bellezza e sensualità senza tempo, si racconta oggi in un'intervista con l'Adnkronos, a partire dall'esordio, quando il regista Damiano Damiani le assegnò il ruolo che si ispirava alla vicenda di Franca Viola, da Alcamo, che nella Sicilia del 1965, appena diciassettenne, fu la prima donna italiana a rifiutare il matrimonio riparatore. Un esordio non semplice, sottolinea la Muti: 

''Ero una bambina non ancora donna, in un mondo di uomini. Era un mondo al quale non ero abituata, anche abbastanza violento al punto che mia madre si ribellò. Damiani era molto duro con me, mi dissero delle cose terribili e se protestavo mi ripetevano: 'Dovresti essere contenta di fare un film'. Una volta le cose erano molto diverse da oggi''.

Questa prima esperienza sul set fu molto traumatica al punto che, rivela, ''non volevo più recitare: feci un provino ed ero talmente spaventata che non lo superai. Poi quando mi misi con Alessio Orano (il suo primo marito, ndr.) un nostro amico mi disse: 'Dai facciamo un film a Ponza e Palmarola ('Il sole sulla pelle', ndr.) e accettai perché era tra amici e mi rassicurò molto. Grazie a questo film mi riavvicinai al cinema''. Nel '74 l’incontro con Mario Monicelli e il successo in 'Romanzo popolare' al fianco di Ugo Tognazzi: ''Arrivai sul set e dissi a Mario che aspettavo un bambino e chiesi di sostituirmi - ricorda la Muti - ma lui mi disse: 'No, assolutamente no'". 

"Io ho grande ammirazione e un grande affetto per Ugo Tognazzi perché era una persona meravigliosa - continua l'attrice - all'epoca tutti mi dicevano che ero pazza, che se avessi tenuto il bambino mi sarei rovinata la carriera. Per fortuna scelsi di non interrompere la gravidanza, avevo una vita dentro di me e non poteva pagare per colpa dei miei errori''. Ma è vero che tutti gli attori ci hanno provato con lei? ''Molti sì - ammette - ci sono state persone che mi hanno corteggiata in maniera sgradevole senza capire che non era il caso, ero molto ingenua e forse essendo molto compagnona ho alimentato false speranze''.

E con Tognazzi come andò? ''Ugo non ci hai mai provato con me'', sottolinea la Muti. E Alain Delon? ''Mi ha coccolata e fatta sentire una mini regina, non credo che ci abbia provato. In realtà non mi sono mai sentita così bella - continua - mi trovavo sempre mille difetti, oggi guardandomi indietro mi dico: 'che stupida che ero'''. 

E Francesco Nuti ? ''Quando è morto ho provato un dolore immenso. Era un ragazzo talentuoso, sensibile, un poeta, aveva questa faccia ironica, triste e dolce, era una persona meravigliosa'', ricorda commossa. La Muti, che ha lavorato con tantissimi registi, parla con affetto di Virzi’: "E’ una persona meravigliosa, un uomo molto simpatico, con lui ho fatto un piccolo ruolo e mi sono trovata benissimo. Marco Ferreri, Ettore Scola, Dino Risi e Mario Monicelli mi hanno insegnato tutto, mi hanno regalato la carriera che ho'', ammette la Muti. 

Accetterebbe oggi di posare ancora nuda? ''No - risponde la Muti - Ho un rapporto molto difficile con i nudi. Non ho mai amato tanto stare nuda, nella mia vita normale non ho problemi a spogliarmi ma nel cinema non amavo molto mostrarmi nuda perciò all'epoca chiedevo che molte scene venissero controllate. Quello era il periodo in cui i nudi andavano tanto e io mi sentivo in imbarazzo nei film in cui apparivo nuda'', confessa.

Si è mai pentita delle scelte che ha fatto nella vita e soprattutto per amore? ''Non ho rimpianti - dice l'attrice - se sei inesperta o hai carenze affettive spesso ti fai dei film ma poi ti rendi conto che saresti dovuta scappare molto prima. Non rinnego niente, è stato il mio cammino, ero io nelle mie fragilità, la cosa importante è imparare dalle esperienze negative che devono servire da lezione, fa parte della nostra evoluzione. La vita ci dà delle lezioni per evolverci, sta solo a noi capirlo''. ''Sono single da tantissimi anni - aggiunge la Muti - ho avuto un momento in cui ho pensato che forse c'era qualcuno che mi piaceva in un altro Paese ma sarebbe stata una storia che mi avrebbe portato a star male. Oggi per me è difficile vedermi accanto a un uomo - ammette - dovrei trovare un uomo come me, che la pensa come me e più si va avanti con gli anni, più si diventa esigenti''.

Che ricordi ha invece della sua esperienza al Festival di Sanremo? ''Mi sono sentita persa - rivela - mi aspettavo di essere un po' più accompagnata soprattutto quando vedo che l'anno dopo invece per Chiara Ferragni sono state fatte milioni di prove. Io sono arrivata al Festival, ho fatto un check, mi hanno detto 'devi fare così' e fine. L'ho trovato ingiusto. Sono stata poco seguita poco guidata e poco accompagnata - ribadisce la Muti - ma pazienza, è andata bene, sono stata pulita come lo sono sempre e il pubblico lo ha apprezzato''. Come si è trovata con Amadeus ? ''Non lo so come mi sono trovata - dice ironica - l'ho visto un secondo, penso che lui avrebbe potuto darmi una mano in più, lui era il padrone di casa, io un'ospite. Credo che sia un bravissimo direttore artistico per il resto non lo so, non lo conosco''. 

L'attrice spiega di non aver mai amato la mondanità. Oggi vive in campagna assieme alla figlia primogenita Naike e ai suoi animali: ''Ho scelto di vivere in un posto tranquillo e sereno assieme a mia figlia che ho fortemente voluto, ho rispetto della vita, non potevo per nessun motivo perdere quella creatura che mi era stata donata. Ho tre figli che amo tantissimo e che sono molto uniti tra di loro, non cambierei mai la mia vita". ''Con Naike combattiamo per tanti ideali comuni - spiega ancora la Muti - io ad esempio combatto per le cure alternative, ho iniziato ad utilizzare farmaci omeopatici da quando ho 14 anni. Al primo allarme infatti chiamo il mio dottore omeopatico che è a Napoli e che è un mito, se poi c’è bisogno di usare un farmaco lo uso ma aspetto che me lo prescriva il mio medico''. 

Sulla battaglia che da anni con Naike sta facendo per legalizzare la Cannabis a scopo terapeutico spiega: ''Cura varie malattie ma in Italia si prediligono medicine che paghi quattro volte tanto. Probabilmente ci sono forti interessi farmaceutici perciò in Italia la cannabis viene demonizzata. Per essere curativa - precisa - la cannabis deve essere prescritta da un medico e per prenderla devi avere una ricetta e andare in farmacia. La cannabis a scopo ricreativo invece è un’altra cosa e in Italia si fa ancora molta confusione''.

La Muti è molto amata anche sui social, dove assieme a Naike porta avanti le sue battaglie: ''Io e mia figlia vogliamo fare delle borse vegane (artigianali e animal free, ndr.) ma dietro c'è una ideologia - sottolinea- io sono onesta con me stessa faccio le cose perché ci credo''. E cosa ne pensi degli influencer? 

''E' gente che vende roba, che mostra una cosa per guadagnarci sopra quindi solo a scopo di lucro''. Progetti futuri? ''Ho avuto un'offerta negli Stati Uniti ma a causa dello sciopero degli attori è tutto fermo - svela l'attrice - in Spagna mi hanno chiamata per un'altra proposta ma ancora non ho deciso, sicuramente ho un grande progetto di teatro in Italia''. E del suo amore, ricambiato, per la Russia (è di madre estone e nonna russa), racconta: ''Avevo diversi contratti anche lì, poi c’è stata la pandemia e ora la guerra e ormai sono tre anni che me li posticipano. 

Non credo che vada punito un popolo per una persona sola. Ho una mia casa di produzione - ricorda la Muti - ma non solo di film, ho iniziato a fare dei piccoli spot per aziende ecosostenibili e ora siamo entrati nella produzione del film 'Lo sposo indeciso' di Giorgio Amato che andrà su Netflix dove interpreto il ruolo della madre di Ilenia Pastorelli. Ma è solo l’inizio di tante altre cose. Ci sono delle belle storie che voglio raccontare''. 

Cosa ne pensi del cinema italiano oggi? ''In sala ormai non è più tanto forte - dice - vanno bene solo i grandi film americani sennò si va nelle piattaforme. I francesi su questo sono molto più capaci, si sono sempre protetti dall’America e hanno tenuto alto il cinema francese. La televisione ci bombarda di film e di serie tv, i giovani attori idoli non ci sono più, c’è troppa confusione - prosegue -. In america per fare l'attore si studia molto, loro si preparano davvero. Prima i registi comandavano e dovevi fare quello che dicevano loro, ora devi andare con un tuo bagaglio forte e quindi ogni attore ha il dovere di prepararsi visto che un film si fa in anche in quattro settimane'', conclude la Muti. (di Alisa Toaff)

Dagospia domenica 15 ottobre 2023. Da "La Zanzara" - Radio24 

Naike Rivelli a La Zanzara su Radio 24: “Al mio compagno piaccio pelosa, se tocco il pelo mi lascia”. “Ho la vulva pelosissima, spesso straborda fuori dalle mutande”. “Alle ragazze più giovani che si depilano per sempre dico: un giorno ve ne pentirete”. “Vivo con due maiali, che ho chiamato Chiara e Fede, sono due influencer intelligenti. Grazie a loro ho smesso di mangiare carne”. 

“Hanno ucciso i maiali senza pietà, gli esseri umani hanno distrutto il pianeta. Il periodo migliore è stato quello della pandemia”. “Se sulla Terra restassero Salvini, la Meloni e un maiale, salverei il maiale”. A La Zanzara su Radio 24 Naike Rivelli, figlia di Ornella Muti, parla delle sue parti intime: “Io sono tutta pelo, sono per la vulva pelosa e ho un pelo importantissimo che ogni tanto straborda fuori dalle mutande, non lo taglio mai, ma se lo facessi probabilmente il mio compagno mi lascerebbe.”

Continua: “Quando ho passato la prima notte insieme al mio compagno volevo farmi la ceretta ma non ci sono riuscita e ho pensato di non concludere, ma quando l’ha vista, ha detto “grazie a dio”, da lì sono rimasta pelosa. Le ascelle? No, quelle le depilo. Oggi le pelose non ci sono più e le più giovani si depilano per sempre, ma non sanno che un giorno potrebbero pentirsene”. Lei non aveva detto di essere bisessuale?: “Mi fanno senso tutti piselli tranne quello del mio compagno, sono rimasta un po’ bisessuale ma non mi interessa, ho 50 anni e ho fatto le mie esperienze; ora mi sono accasata, ho il mio compagno, i miei maiali, ho ancora fantasie erotiche ma sempre e solo col mio compagno. 

Ho avuto problemi con la mia menopausa, però mi è rimasta la voglia di trombare solo con il mio compagno con cui sto da cinque anni”. Su droga e prostituzione: “Sono a favore della legalizzazione della droga ma non della cocaina. La coca l’ho provata, ho avuto momenti di merda ma mai dipendenza; gli acidi li ho provati da ragazza una volta, mai provato l’eroina. Sono anche per legalizzare la prostituzione, la donna fa quello che vuole, il vero affronto è che una donna che voglia prostituirsi non possa farlo”.

La Rivelli è stata anche protagonista della “resistenza” contro l’abbattimento dei maiali al santuario ‘Cuori Liberi’: “Vivo con due maiali, la Chiara e la Fede, il riferimento ai Ferragnez lo vedete voi, per me sono i miei influencer intelligenti. Non dormono in camera da letto ma in salotto, ognuno ha la sua cuccia. I miei maiali quando mi vedono la mattina scodinzolano, li bacio sul naso, proprio come un cane; fanno colazione pranzo e cena con noi, mangiano cereali con frutta. Se i vostri figli vedessero i miei maiali li vorrebbero anche loro. Ho smesso di mangiare la carne grazie ai miei maiali. Per me sono come figli, uguali agli esseri umani”.

“Se avessero fatto a me quello che hanno fatto ai maiali nel santuario “Cuori Liberi” – dice ancora la Rivelli - io oggi non sarei qui, non mi avrebbero manganellato ma ucciso, non li avrei fatti entrare. Se cercano di ammazzarti il cane che fai? Quei maiali dormivano nel loro rifugio nelle cucce all’aperto. C’erano due maiali malati ma tutti gli altri erano sani e avevano scampato questa cazzo di peste”. 

E ancora: “Hanno sparato ai maiali senza pietà, avrebbero potuto farlo in maniera diversa seguendo il protocollo con una iniezione e poi due di questi sono sopravvissuti alla peste suina, bisognerebbe studiarli non ucciderli. L’essere umano si può difendere, il maiale è indifeso. Noi umani abbiamo distrutto la terra, la natura è distrutta, gli unici momenti belli per gli animali sono state le pandemie”. Se dovesse salvare un maiale e Salvini, rimasti gli unici sulla Terra chi salverebbe?:  “Salvini è un diversamente intelligente con un problema con l’alcol, lo vedo sempre in qualsiasi posto con un bicchiere in mano. Tra Salvini e un maiale salverei il maiale, tra la Meloni e un maiale, sempre il maiale. La Meloni è più pericolosa che fascista ma nell’essere pericolosa ci può essere anche essere fascista.”

Estratto dell’articolo di Alberto Dandolo per Oggi – oggi.it il 5 Luglio 2023.

«Ho perso mio padre che non avevo neanche 12 anni, mi sono affacciata alla vita da “zoppa”, senza sapere chi sono gli uomini». Ornella Muti racconta a OGGI, nel numero in edicola da giovedì 6 luglio, come la piccola e impaurita Francesca Rivelli (il suo vero nome) è diventata una delle attrici più desiderate del cinema italiano («Fu Damiano Damiani a cambiarmi nome ispirandosi a D’Annunzio»). 

Lo fa a cominciare dalla scelta di far nascere, contro la volontà di tutti, la figlia Naike con la quale posa per il servizio di copertina di OGGI: «Avevo 18 anni. In Italia l’aborto era illegale, all’estero si poteva fare tranquillamente e persino il mio agente cinematografico di quel periodo me lo consigliò, perché dovevo girare un film.

Avrei dovuto abortire per fare un film? Assolutamente no». Parla anche del rapporto simbiotico con Naike: «Ho sempre sentito la necessità di averla vicino. Lei si dedica molto a me: mi gestisce tante cose nel lavoro, ad esempio. Quando è nata, non solo ero piccola di età ma soprattutto piccola di testa. Forse per questo ho ancora dei tratti infantili».

TUTTI GLI UOMINI DELLA SUA VITA – Da Ugo Tognazzi ad Alain Delon, a Jeremy Irons, Muti passa in rassegna i grandi uomini incrociati nella sua vita, alcuni diventati amori: «Con me ci hanno provato quasi tutti, ho passato la vita a difendermi dagli assalti degli uomini. Celentano? Lui, una volta, fece dichiarazioni in merito con sua moglie presente, sono rimasta francamente un po’ sorpresa. Io, a suo tempo, ho avuto rispetto della sua famiglia».

Estratto dell'articolo di Fabrizio Accatino per “la Stampa” il 30 giugno 2023.

Uno dei suoi rammarichi è quello di non essere riuscita a portare a Torino Il pittore di cadaveri, lo spettacolo con cui negli ultimi anni ha girato l'Italia. Ecco allora che "Racconti di cinema", al Parco Dora Live, è stato per Ornella Muti una sorta di esame di riparazione del capoluogo piemontese. Dopo l'evento è di buon umore. «Ho recitato alcuni passaggi di quella pièce, che comunque non ho ancora perso la speranza di portare da queste parti. Poi Elena Galliano mi ha fatto un'intervista sulla mia carriera cinematografica. E in mezzo ci sono state le parentesi jazz del Pino Melfi Quartet. È stata una bella serata». 

(…)

Com'è stato essere diretta da mostri sacri come Monicelli, Ferreri, Risi, Steno, Magni, Scola?

«Erano tutti personaggi straordinari. Di Ferreri si diceva che fosse scorbutico, eppure con me si rivelò sensibile e dolce. In quanto a Monicelli era crudo ma sincero. Per tutte le riprese di "Romanzo popolare" mi ignorò, poi alla fine andò dal suo assistente e gli borbottò: "Dì a quella stronza che è stata proprio brava". E insieme girammo ancora "I nuovi mostri" e "Panni sporchi"».

Chi era Francesco Nuti?

«Una persona sensibile e un grande attore, capace di rileggere la comicità toscana in una chiave personale, malinconica. La sua morte è stata un dolore. Chissà, forse si portava dietro pezzi pesanti della sua storia personale, che alla fine l'hanno trascinato a fondo». 

Woody Allen è stato rinnegato dai suoi attori. Anche da lei?

«Ho avuto il piacere e l'onore di essere diretta da lui in To Rome with Love. Lui è un grande autore, che con i suoi dialoghi serrati ha cambiato il modo di fare cinema. E comunque non è mai stato condannato per nulla. Gli americani sono speciali nell'arte dello scagliare la prima pietra, come se fossero tutti senza peccato. Se facesse cinema solo chi è immacolato non lavorerebbe più nessuno». 

Il movimento MeToo ha compiuto cinque anni. Ha cambiato il mondo?

«Diciamo che ha messo sul chi va là molti personaggi del cinema. Io stessa sull'argomento ne avrei da raccontare. Mia madre mi ha sempre accompagnato ai provini fino alla maggiore età e dopo sono stata brava a non ritrovarmi in situazioni potenzialmente pericolose. Anche qui però si è andati oltre. Oggi gli uomini non sanno più come provarci, se ci fanno una carezza sul braccio hanno paura che li denunciamo. Il che è assurdo». 

Si è mai pentita di aver rifiutato il ruolo di Bond girl in Solo per i tuoi occhi ?

«Albert Broccoli mi voleva proprio, mi invitò a pranzo tre volte per discuterne. Io mi impuntai che volevo il mio costumista di allora, Wayne Finkelman. Il produttore non mollò, io non firmai e quella parte andò a Carole Bouquet. Mi è dispiaciuto? Sì. Ma che cosa devo fare, passare tutta la vita a rosicare? È andata». 

 I suoi nonni materni erano russi. Come vive questo tempo di guerra?

«Là non ho più parenti, il ramo della mia famiglia rimasto è stato deportato nei gulag in Siberia e non se n'è più saputo nulla. Ma è una terra che conosco e amo, vederla combattere contro quelli che fino a ieri erano i suoi fratelli è uno shock. Dietro la loro freddezza i russi sono buoni d'animo, se possono ti danno anche il cuore. Saperli coinvolti in un conflitto voluto da uno solo è un dolore incredibile». 

Putin l'ha conosciuto nel 2010, quando la invitò a un galà di beneficenza nella città dei suoi nonni, San Pietroburgo. Che impressione ne ha avuto?

«Di un uomo molto cordiale. Con me e gli altri ospiti fu gentilissimo, si vedeva che amava gli italiani, almeno all'epoca. Ci portò in giro per la città, facendoci da cicerone e chiacchierando molto. Certo, guardando i telegiornali si fatica a pensare che sia la stessa persona di quella sera».Ornella Muti: “Mi hanno offerto l’Isola dei Famosi, ma ho detto no”. By adnkronos su L'Identità il 23 Giugno 2023

(Adnkronos) – "Mi offrono cose orribili, come l'Isola dei Famosi. Quando me lo chiedono mi domando 'perché chiedermelo?' Ho appena finito di fare un piccola parte nel film di Giorgio Amato, dove interpreto la mamma di Ilenia Pastorelli ('Lo sposo indeciso', in uscita il prossimo 29 giugno, ndr). L'ho fatto, perché mi piace partecipare a film dove c'è ancora qualcuno che ci crede e che ci prova. Dove ti piace, dove ci speri. Oggi in Italia questo non c'è, mi dispiace dirlo ma siamo molto poco originali". Ornella Muti parla con i cronisti del Filming Italy Sardegna Festival di cui è ospite per ricevere un premio alla Carriera e fa un'analisi sul cinema italiano non proprio felice: "Io vedo molto i film in tv. E lo vedo anche nel paragone con i film stranieri: vedo storie meravigliose nei film francesi che vengono riproposte pari pari anche con le stesse inquadrature nei film italiani. Oggi è così, è molto difficile".  Sui ruoli che l'attrice vorrebbe interpretare, "c'è confusione anche per me -spiega- Non mi riconosco, vengo da un certo tipo di cinema, dove c'erano signori del set, Monicelli, Ferreri, Citto Maselli, Scola, Verdone, Nuti, devo dire che sono stata fortunata. Quindi oggi anche io sono un po' spiazzata, frastornata. Tanto che a volte preferisco fare teatro, se non c'è più un posto preferisco fare due chiacchiere ad un festival e non rovinare quello che di bello ho fatto". E rivela: "Mi offrono cose orribili, come l'Isola dei Famosi. Quando me lo chiedono mi domando 'perché chiedermelo?'. Perché se vai all'Isola alla fine vieni distrutto. Certo, offrono dei soldi, ma quelle sono trappole: io non faccio scelte che non sono nella mia linea di pensiero". Tra le offerte all'attrice anche 'Ballando con le stelle' ("con Milly ho un bellissimo rapporto, ma non sono fatta per queste cose"). Sanremo invece ha scelto di farlo. "Era diverso, lì ero io. Ma se devo essere giudicata da un signore che non sa nulla di me, e che alza le palette, preferisco stare a casa". (dall'inviata Ilaria Floris) 

Estratto dell'articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” il 22 giugno 2023.

Ornella Muti è cresciuta sul set, tra botte, lacrime e risate. Vestiti stretti da svenire, divi inquietanti, maestri dolcissimi. Quarant’anni d’autore, cassetta, kolossal. Dopo dozzine di messaggi vocali — la bella voce roca — l’attrice incastra l’incontro tra il lavoro e il caos gioioso della famiglia. 

È in partenza per il Sardinia Film Festival, in sala con Lo sposo indeciso. 

8...)

Il nome d’arte d’annunziano, Ornella Muti, lo scelse Damiani .

«Il cognome andava cambiato perché c’era Lisa Rivelli. Damiani però mi ha cambiato anche il nome. Peccato». 

Che ragazzina era?

«Timida, spaventata. Ho perso mio padre presto, ero riservata, ricordo che non mi piaceva parlarne a scuola. Quella mancanza ha segnato la mia vita. Eravamo tre donne, mia madre era straniera. Non era facile».

Sua sorella maggiore Claudia?

«Era il mio idolo. L’ho seguita nei fotoromanzi, ma ne ho fatti due, ero a disagio con le espressioni finte».

Franco Gasparri era una star.

«Era bello e gentile. Lo shock è stato l’incidente che l’ha immobilizzato. Mi ricorda Francesco Nuti, il colpo grande è quando la vita cambia in modo così drastico, ancor più della morte. Francesco, era un ragazzo semplice, dopo il lavoro e la cena suonava la chitarra e si cantava. Tutta colpa del paradiso e Stregati mi sono rimasti nel cuore». 

Con lui rideva sul set?

«Sì, ma era dolce, malinconico. Le grandi risate erano con Celentano». 

Si parla sempre della vostra storia, poco dei film.

«Siccome si finisce a parlare sempre di quello, uno non riesce a dire altro. Ma sul set Adriano faceva ridere chiunque, giocava, era bello lavorare con lui. È vero che ogni tanto bisognava interrompere e ripetere il ciak per le sue continue gag, ma i set con lui, Castellano e Pipolo, erano una festa. I suoi film sono quelli per cui mi conoscono di più, in Italia e Germania. Nel resto del mondo mi citano Greenaway». 

Ha lavorato con Troisi nel “Capitan Fracassa” di Scola, e poi con Verdone, “Io e mia sorella”, “Stasera a casa di Alice”.

«Massimo dopo il film mi chiamò: “Vado a Houston per un controllo, vediamoci quando torno, noi del segno dei Pesci”. Era sensibile, aveva fame di vita e un senso di precarietà legato alla sua condizione. Con Carlo i set sono bellissimi, lui è sereno, mai nervoso o irato». 

Con Renato Pozzetto ha girato “Nessuno è perfetto”, lui scopriva che l’amata era un ex paracadutista.

«È incredibile che con tutte le lotte Lgbtq+ questo mio ruolo di transessuale, affrontato in tempi in cui questi argomenti non si toccavano, sia passato in sordina. È un bellissimo film che diceva tante cose, la difficoltà di quest’uomo che ama rispetto al giudizio degli altri, le faceva mettere una pancia finta…». 

Il set d’esordio con Damiano Damiani, “La moglie più bella”.

«Ammiravo Franca Viola, che a 14 anni, all’epoca, aveva avuto il coraggio di mettersi contro la famiglia, il paese, le istituzioni. Il suo no al matrimonio riparatore ha cambiato il percorso delle donne». 

Non era facile neanche essere una ragazza madre, come lei.

«Ho seguito il mio cuore. Nelle cose che contano davvero sono sempre stata determinata: se hai un bambino nella pancia sei tu che decidi. Per me sarebbe stata una follia abortire perché c’era un bel film da fare». 

Damiani la colpiva per farla piangere sul set.

«Allora c’era questa brutalità, Damiani forse lo era più degli altri, non l’ha fatto solo con me. Sono arrivata sul set a 14 anni, papà morto da tre. Ero chiusa, non volevo scavare nel dolore, hanno pensato “diamole uno schiaffo e via”. Questo mi ha creato un blocco nel piangere in scena. A un certo punto mamma gli disse: “A bello, basta, eh!”». 

Monicelli diceva “siccome ha fatto miliardi di film di successo ed è bella liquidano la Muti come una bella presenza e basta. Non è vero”.

«Mario lo porto nel cuore. Era meraviglioso, senza fronzoli. Quanto alla bellezza, sono d’accordo con lui, la gente si fermava a volere quello. L’etica del set l’ho sempre avuta, il rispetto della troupe. Trovo poco etici gli attori con le bizze». 

Qualche set e collega difficile?

«Klaus Kinski era inquietante, non mi piaceva. Ma sono brava a stare per conto mio. Girai un film con Jean-Pierre Léaud difficile, aveva problemi psicologici. Con Marco Ferreri all’inizio fu dura, non ci capivamo, poi c’è stato un grande amore. Dino Risi era imponente, autoritario, ne avevo timore». 

Depardieu o Delon?

«Alain l’ho incontrato presto, ero tesa. Di persona ancor più bello, ma un divo. Arrivava con i suoi lupi alsaziani, cattivissimi, diceva “non ti muovere veloce”. Era il terrore del set. Depardieu una pila di energia».

Berlusconi la convinse a fare la tv.

«L’ho conosciuto prima che entrasse in politica. Venne in Svizzera per convincermi a fare Premiatissima . Gli dissi: ho Carolina appena nata, allatto. Lui fece abbattere una parete, creò una camerino dove potevo riposare, allattare. Ho fatto balletti e altre cose che non farò mai più».

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Ha detto no a “Solo per i tuoi occhi”, con Roger Moore

«Ho sbagliato. Broccoli mi voleva, ma io imponevo il mio costumista». 

L’avventura più clamorosa?

«Con Francesco Rosi, grande maestro e persona. Cronaca di una morte annunciata. film meraviglioso, fu trattato male. Per una scena in laguna in Colombia eravamo in battello. Il guidatore aveva solo un occhio e viaggiava veloce, s’incagliò su un lembo di terra nella giungla, tra iguane e insetti. Fuggimmo per paura che esplodesse il serbatoio. Scesi per ultima. Non perdo la testa, è successo solo quando mio figlio stava per strozzarsi». 

(…)

Ornella Muti e Citto Maselli: «Ero incinta di 7 mesi, mi volle per girare Codice privato». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 21 Marzo 2023

«Mi diede la patente di attrice vera? Ho lavorato con grandi registi, non nasco con Celentano e le poppe all’aria, sono stata la più pudica: mi sono stati attribuiti anche nudi che non ho fatto»

«Codice privato» (1988) e «Civico zero» (2007), i due film di Ornella Muti con Citto Maselli. Il primo incontro?

«Proprio per il film. Non ci conoscevamo e venne apposta con quel favoloso regalo. Ma io incinta, al settimo mese. Gli dissi di no, gli spiegai che una donna in quei momenti si prepara ad altro, ma cercò di convincermi lo stesso».

Come finì?

«Io gli dissi: Citto fammi fare questo bambino perché non posso prendere un impegno così importante in questo momento. Lui mi rispose di non preoccuparmi e di stare serena».

Quindi nacque suo figlio Andrea.

«E Citto fu il primo a venire. Subito. Mi ha coccolato tutto il tempo, mi mandava disegni, mi scriveva bigliettini e dediche».

Fu dolcemente insistente.

«Mi è stato tanto appresso. Io avevo paura, con un bambino piccolo hai la testa fagocitata da un’altra parte. Ma lui non indietreggiò e mi diede la possibilità di fare quel film in modo pazzesco, con il bambino sereno. Fu un’esperienza fantastica».

«Codice privato» è la storia di una vendetta: la figlia di un fruttivendolo che si trasforma in una donna di cultura e la vuole far pagare al compagno che l’ha lasciata.

«Mi ha regalato un film incredibile, perché raramente un attore può avere questa fortuna di fare un film dove è protagonista in tutto e per tutto, sempre lui. Con me Citto fu favoloso».

Poi «Civico zero», film-documentario in tre episodi in cui lei era una rumena emigrata in Italia senza permesso di soggiorno. Combatteva contro la solitudine e l’esclusione sociale.

«Lavorare con Citto era un arricchimento costante, era molto attento al sociale, alle esigenze delle donne, delle minoranze. Lì andò a indagare nell’anima segreta di una donna che scappa».

Che uomo era?

«Speciale. La sua casa rispecchiava le sue ricerche artistiche, era intessuta dei suoi film: era un pezzo d’arte».

Le diede la patente di attrice «vera» perché la critica la snobbava.

«Questo è stato il leitmotiv della mia vita. Eppure nel mio primo film L a moglie più bella interpretavo una siciliana che viene violentata. Ho lavorato con grandi registi. Non nasco con Celentano e le poppe all’aria, sono stata la più pudica: mi sono stati attribuiti anche nudi che non ho fatto».

Inarrestabile Vanoni. "Proviamo a dare la calma rivoluzionaria di cui abbiamo bisogno". Provateci voi a essere Ornella Vanoni. Ha debuttato nel 1956 e ora, a 89 anni, pubblica un altro disco che non è il solito disco. Paolo Giordano  l'1 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Provateci voi a essere Ornella Vanoni. Ha debuttato nel 1956 e ora, a 89 anni, pubblica un altro disco che non è il solito disco. Calma rivoluzionaria è stato registrato dal vivo con una band di sole donne, e già questo è un segnale: «Tutto è nato da una chiacchierata con Paolo Fresu, che mi ha rivelato che al festival jazz di Berchidda erano andate in scena tante bravissime pianiste, chitarriste... Allora mi sono detta: perché non fare un gruppo con qualcuna di queste talentuose musiciste?». Brava, così si fa.

Un esperimento. Ma anche la conferma che coraggiosi si nasce per caso ma solo il carattere ti consente di restarlo anche alla soglia dei 90 anni. Calma rivoluzionaria (che esce oggi in vinile e cd) è una raccolta dei classici più classici di Ornella Vanoni, da L'appuntamento a Una lunga storia d'amore passando per gli inevitabili omaggi ai suoi maestri ispiratori brasileiri come Vinicius De Moraes, Toquinho e Jobim e per alcune cover che sono sostanzialmente le linee decisive del suo identikit artistico. Intanto c'è Vita, di Mogol e Lavezzi, che è stata cantata per primo da Morandi. E c'è Anima, di Pino Daniele, davvero emozionante. E infine Ornella Vanoni canta Mi sono innamorato di te di Luigi Tenco, con il quale l'amicizia è nata a inizio anni Sessanta: «Lui ha scritto questa canzone per sua madre e io l'ho cantata al Festival internazionale della canzone di Venezia. Ho vinto la Gondola e la critica disse che avevo sovvertito le regole della canzone per donna».

In fondo Ornella Vanoni ha cambiato tante regole, volendolo oppure subendolo, grazie a una personalità che tuttora si può verificare tutte le domeniche a Che Tempo che Fa da Fabio Fazio dove improvvisa, divaga, polemizza, si perde. È dirompente e trasgressiva oggi, figurarsi sessant'anni fa quando la sua storia d'amore con Gino Paoli era su tutti i rotocalchi: «Gino è quello che abita a Nervi, non risponde al telefono ma scrive molto bene e non è criptico perché i suoi primi versi sono la sintesi della canzone». Loro due hanno fantasticato anche di un concerto insieme: «I grandi amori non finiscono mai, si trasformano in grandi amicizie».

E una amicizia grande è anche quella con Samuele Bersani che ha scritto il testo del primo inedito di questo disco, Calma rivoluzionaria: «Ho sentito il brano originario di Marisa Monte e ho pensato che era giusto far uscire un brano del genere proprio adesso. Poi è stato completamente riscritto da Samuele, che è l'ultimo dei cantautori». Riflessivo e taciturno lui, esplosiva e provocatoria lei, insieme sono davvero un ossimoro come Calma rivoluzionaria. Molto più dolce è l'altra canzone pubblicata qui per la prima volta, Camminando, in sostanza un melodioso riconoscimento che la vita, tutto sommato, è davvero bella. Di certo la vita di Ornella Vanoni è stata finora una delle più belle enciclopedie musicalculturali del secondo Novecento (e oltre). Ha collaborato con giganti come Gil Evans o Herbie Hancock o George Benson. Per lei hanno scritto autori come Fo, Conte, De André, Fossati, Dalla, Mogol, Califano, Lauzi, Cocciante.

E grazie a lei la canzone d'autore italiana ha rotto le barriere che imprigionavano la donna in un cliché dal quale si poteva uscire solo di nascosto. Ornella Vanoni lo ha fatto alla luce del sole, anzi dei riflettori, e ancora oggi rimane la più giovane pur avendo sessantasette anni di carriera. Sessantasette.

Estratto dell’articolo di Alessandro Ferrucci per “il Fatto Quotidiano” sabato 11 novembre 2023.

Ora è opinionista...

Mi fa piacere, perché davvero la domenica è una giornata triste. Non mi piace. 

Lo ha raccontato nell’ultima puntata di Che tempo che fa. Quindi è vero...

Uh, eccome. 

Da sempre.

Da quando sono piccola e non cambia neanche se intorno ho delle persone; quindi dover lavorare, proprio di domenica, è un piacere assoluto e poi Fazio è una persona carina; (pausa) lo era pure ai tempi della Rai.

(Ornella Vanoni, da quest’anno, è ospite fisso di Fabio Fazio e della sua storica trasmissione in onda la domenica sera sul Nove).

Fazio accogliente, la esalta.

Lì è tutto calmo e sereno. 

Siete un ossimoro: lei libera, lui timoroso.

Fa solo finta di avere paura. 

Lei è una guru.

No, un gufo. 

È portatrice di verità.

Quando mi dicono “sei un’icona”, mi viene subito in mente la Madonna; (pausa) non mi piace il termine “icona” associato a una persona, per carità! 

Non ama neppure “guru”?

Non lo sono, al massimo posso risultare un esempio di chi non cede, perché mi piace lavorare. 

[…] 

Finge mai un po’ di rincoglionimento?

No, ma quasi quasi posso cominciare.

Da Gabbani a Giorgia fino a Frassica, tutti le riconoscono di essere una donna libera. Ha imparato o è indole?

Con il tempo, dopo la maturità; (pausa) poi c’è l’età: superata una certa cifra nessuno ti può mettere in prigione, nessuno ti può rimbrottare e uno riesce pure a sentirsi meno fragile. 

Senza limiti?

Anche la libertà li ha. 

Quali?

Evito di entrare in questioni troppo personali o troppo delicate; in realtà nessuno di noi è completamente libero; (ci pensa) bisogna essere liberi nei sentimenti, senza essere schiavi dei sensi di colpa.

Gino Paoli l’ha ringraziata nel suo ultimo libro perché gli ha dato la libertà del sesso.

Oh, cavolo, ancora. Che palle; (silenzio) non che palle lei, ma Gino. 

Cosa è successo?

Non ne posso più. 

Però è un bel riconoscimento.

Lui credeva che il sesso fosse peccato per via di una mamma molto, molto cattolica. Poi sono arrivata io ed è cambiata la prospettiva.

Teme la diretta tv?

Non ho l’ansia, ma giusto una sfumatura di timore. 

Cosa teme?

Di cadere in qualche cazzata o di risultare poco interessante.

 Teme il politically correct?

Questo no, anzi tra un paio di puntate canterò una canzone molto complicata, molto dura, che non sono riuscita a presentare in Rai.

Che canzone?

Parla di una donna violentata che non torna a casa; (pausa) è un brano scritto da Enzo Gragnaniello poi presentata da Mia Martini; Mimì la cantava da Dio, io spero di andare altrettanto bene, anche se in maniera diversa. 

Cosa l’annoia?

Dopo una certa età ho capito che è più utile farmi piacere quello che ho e mi circonda. 

Tutto, tutto?

Mi annoiano gli scemi e gli ignoranti, quelli con cui è impossibile parlare; con il tempo si diventa più selettivi sui veri amici; (silenzio) il mio non è snobismo. 

Quante volte l’hanno accusata di snobismo?

Abbastanza all’inizio della carriera; i primi anni, quando mi esibivo, avevo un’impostazione teatrale, in realtà ero solo timida. Poi... È arrivata la canzone della mia vita, L’appuntamento, e ha cambiato tutto, mi ha permesso di entrare nel cuore degli italiani. Tra i suoi amici c’è Renato Zero. 

Ha dichiarato che lui l’ha salvata...

Quest’estate siamo stati anche qualche giorno insieme però non sono una sorcina; (ride) non sono mica come Travaglio. 

Lui lo è.

Oramai è notorio. (Cambia tono) Adoro Travaglio, lo seguo sempre.

Si sente sempre egocentrica?

Molto meno ed è questa la mia forza; non avere più l’ego, averlo sciolto; non contare più solo su se stessi, rende migliori. 

Frassica l’ha indicata come “bocca della verità perché se ne frega della diplomazia...”.

Lui è fantastico, è surreale, è uno che riesce a strapparmi delle gran risate. […]

Estratto dell'articolo di Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” giovedì 24 agosto 2023

Ornella Vanoni è sempre stata la mia cantante preferita, ero un ragazzino e lei già una cantante che cominciava ad affermarsi quando l’ho vista per la prima volta in tv e subito ne sono rimasto colpito. La sua voce era tanto particolare che poteva sembrare un po’ afona, in verità era molto melodica. Allora amavo la musica leggera, invece oggi la detesto perché le canzoni mi risultano tutte uguali, ripetitive e noiose. 

Poi sono cresciuto, mi sono trasferito a Milano per lavoro e finalmente ho conosciuto di persona Ornella, della quale mi hanno affascinato anche l’eleganza, il tatto, il modo cortese di rapportarsi agli altri. Erano i primi anni Novanta quando siamo capitati in uno stesso ristorante e ci siamo salutati, lei mi conosceva per via della mia professione, abbiamo fatto quattro chiacchiere. Un giorno mi invitò a casa sua, in largo Treves, un appartamento magnifico. Quella sera eravamo soltanto in tre, oltre alla padrona di casa eravamo Maria Luisa Trussardi ed io.

Ornella era sola e tesseva anche un po’ l’elogio della solitudine, sebbene poi avesse rammentato con malinconia e tenerezza alcuni dei suoi compagni, incluso il cantante Gino Paoli, di cui parlava con grande affetto. Mi sono fatto l’idea in quel momento che Ornella Vanoni fosse immortale. Insomma, beveva il suo vino, fumava i suoi spinelli, come ci aveva confessato, era una donna completamente disinibita, talmente libera da non essere in sintonia con la sua generazione, una che se ti deve mandare a quel paese lo fa in due secondi lordi. Mi appariva una dea. 

Si è creato tra noi un feeling, spesso la incontravo nei ristoranti, allora univamo le compagnie. Un giorno un club di Varese mi regalò un cavallo splendido, tra gli invitati alla cerimonia di consegna c’era anche Vanoni. A un certo punto, la dea, ancora nel bel mezzo della manifestazione, mi si avvicina e mi dice: «Vittorio, mi scappa la pipì, dove cazzo vado a farla?».

Eravamo in un giardino ed io, per scherzare, le ho risposto: «Ti posso dare un consiglio. Vedi, qui c’è un bel prato, lì una bella pianta, vai e sistema la pratica». E Ornella lo ha fatto. Nascosta dietro la pianta che le avevo indicato si è sollevata la gonna e si è liberata. Vada sé che chiunque avrebbe potuto vederla dato che l’arbusto la celava appena. E fece il tutto con una disinvoltura invidiabile. 

Da quel pomeriggio è lievitata enormemente la mia simpatia nei suoi confronti, pure perché quello di fare la pipì ovunque, senza scomporsi, è più un atteggiamento maschile che femminile, una donna che lo faccia con quella nonchalance, in mezzo a centinaia di persone ingessate, è del tutto inusuale e quindi perfino divertente. Adoro la sua brillantezza.

Una volta ho partecipato ad una trasmissione televisiva in cui lei avrebbe dovuto cantare, anche io ero sul palco ed ecco che arriva un’altra confessione: «Vittorio, sai che non mi ricordo cosa cazzo devo cantare?». Ed ecco che arriva un altro mio consiglio: «Intona una canzone qualsiasi che ti venga in mente». Come sempre fu un successo clamoroso. Mi è capitato più volte di ascoltarla dal vivo e devo ammettere che è una dominatrice della scena, non soltanto per le sue qualità canore ma altresì per l’ironia, ha sempre la risposta pronta, è più rapida di un comico nel tirare fuori la battuta, tutto le riesce naturale. La sua spontaneità disarma.

Osservandola mi sono persuaso che, se fossi nato donna, sarei stato Ornella Vanoni, mentre se Ornella Vanoni fosse nata uomo, sarebbe stata Vittorio Feltri. Entrambi ce ne infischiamo altamente di ciò che pensa la gente sul nostro conto. Una sera, ero a cena al Baretto, e sul tavolino avevo il mio tablet con il quale ascoltavo un po’ di musica per rilassarmi. Mi stavo deliziando con le note di una delle sue canzoni, L’appuntamento, la più struggente oltre che in assoluto la mia prediletta, quando è entrata nella sala proprio Ornella Vanoni. Allora io le faccio notare questa strana coincidenza e lei: «Vittorio, con tutte le canzoni belle che ho fatto mi rompi sempre i coglioni con questa!».

(...)

Dagonews il 22 marzo 2023.

Mi chiamavano culo d’oro, chiappe parlanti”. Ornella Vanoni show a "Belve": “Uscivo la sera senza mutande. Sono una scostumata ma, a differenza di come mi rappresenta Virginia Raffaele nella sua imitazione, non l’ho mai data via come una frisbee. La copertina di Playboy? Li’ non ero nuda”.  E poi racconta il no alle avances dell’Avvocato Agnelli (“Le faceva a tutte”), la notte d’amore con uno sceicco a Montecarlo (“la mattina gli mandai dei tulipani gialli”) e il tormentato rapporto con Strheler tra sesso estremo e droga con Strehler. La confessione: “All’inizio cantavo di merda, non sapevo usare il microfono”

"Uscivo senza mutande. E Gino Paoli...". Ornella Vanoni show a Belve. Ospite nell’ultima puntata della Fagnani, Ornella Vanoni si è raccontata senza filtri: dalla carriera all’amore per Gino Paoli e Strehler sino all'utilizzo delle canne come medicina. Cristina Balbo il 22 marzo 2023 su Il Giornale.

È andata in onda ieri sera, martedì 21 marzo, su Rai 2, la quinta ed ultima puntata di questa nuova edizione di Belve, il programma molto amato condotto da Francesca Fagnani, per la prima volta in prima serata. A sedersi su uno degli sgabelli più pungenti della tv italiana vi sono stati Ornella Vanoni, Claudio Amendola e Claudia Pandolfi. La prima a sottoporsi al faccia a faccia con la giornalista è la “madrina” del programma, per utilizzare le parole della conduttrice, Ornella Vanoni. Infatti, è proprio della Vanoni la sigla della trasmissione, con la canzone L’appuntamento a dare il via ad ogni singola puntata di Belve. La cantante si è lasciata andare ad una lunga intervista durante la quale non sono mancati di certo momenti ironici e privi di "sovrastrutture", proprio come si definisce lei, ma è anche stata ricca di momenti emozionanti in cui si è parlato dell’anima malinconica della Vanoni, dell’infanzia e del rapporto con la famiglia.

Le "belvate"

Alla domanda di rito della conduttrice “Che belva si sente?” la Vanoni ha prontamente risposto: “Un cane, un cavallo, ma amo molto la mucca, per quell’odore di erba, di cacca, di terra”. Ed effettivamente, sono tante le "belvate" che la Vanoni ha raccontato alla giornalista. Dopo aver svelato di avere il timore della perdita del denaro, la Vanoni si è definita "spudorata"; infatti, ha raccontato di andare in giro spesso senza mutande: “Dove abitavo, in Largo Treves, era tutto finestroni e io non giravo in mutande ma proprio nuda. Tutti mi dicevano che mi avevano visto dalle finestre. Sì, sono una scostumata! Pensa che c’era un periodo in cui avevo solo due paia di mutande, un paio nere e le altre bianche”. La Fagnani quindi chiede se le usasse con parsimonia: “Molta – risponde - Uscivo la sera con gonna e tacchi a spillo. Bisogna per forza avere le mutande? Non è detto!”.

Inoltre, Ornella ha anche parlato di alcuni episodi che l’hanno portata ad “aggredire” il pubblico: “Una volta stavo cantando in una piazza molto grande e ho sentito uno che mi sembrava dicesse ‘Mina’, ma stava dicendo ‘diva’, non capii e risposi ‘stronzo’.” Poi la cantante ha continuato: “Ero a Palermo, dove recitavo delle cose e cantavo, e c’erano questi due posti vuoti davanti a me. Arrivò una coppia, dissi che non ero un film e lui mi fece un gesto come per mandarmi...Mi ci sono buttata addosso, con i tacchi a spillo, è venuto fuori un casino”.

Il rapporto con Mina

La Vanoni nel corso dell’intervista ha anche parlato del legame con Mina, spiegando di non avere mai accettato la proposta di cantare “Grande Grande Grande” poiché pensava fosse volgare e che si riferisse ad una cosa in particolare; ad oggi, però, Ornella si dice pentita della scelta fatta dal momento che la canzone si è rivelata di enorme successo con la voce di Mina. Tuttavia, ha ribadito quanto loro due fossero molto unite, nonostante venissero sempre messe a paragone: “Rispetto a lei mi sentivo la numero due. Poi ho capito che eravamo tutte e due brave ma diverse.”

Gli amori della Vanoni

Ovviamente non si potevano tralasciare i grandi amori vissuti dalla cantante, ed è per questo che si è parlato di Gino Paoli, Giorgio Strehler e dell’amore per le donne. Così su Strehler ha detto: “Giorgio Strehler? È l’uomo che mi ha amata di più, ma non mi ha protetta da situazioni estreme perché non poteva farne a meno. Voleva tornare con me, ma ho detto no.” Circa la relazione con Gino Paoli, invece, la Vanoni ha spiegato quanto fosse l’uomo per cui ha sofferto maggiormente, anche se ha sottolineato come adesso i due siano molto legati da una forte amicizia tanto da ironizzare sull’uscita del cantante a Sanremo sugli ipotetici tradimenti di Little Tony che hanno fatto molto discutere.

Inoltre, Ornella ha anche ammesso di essere stata innamorata di alcune donne nel corso della sua vita: “Una è stata una grande amicizia che è durata tanti anni. Un’altra è durata meno. A me però il sesso femminile non interessa molto, infatti ho le ho fatte soffrire. Io mi innamoro della persona, in quell’altra cosa non sono molto brava”.

I vizi

Alla Fagnani poi, Ornella ha fatto delle “confessioni” di cui però si è già tanto parlato in diverse occasioni. Infatti, alla domanda della giornalista circa il suo vizio più grande la Vanoni ha prontamente risposto: “Le canne”. A tal proposito, la cantante, ha poi spiegato che il motivo che l’avrebbe spinta a farne uso è la mancanza di sonno: “A un certo punto non dormivo più. Finché un giorno non mi hanno fatto fare una canna e allora ho detto: ecco la mia medicina”. Quando la Fagnani le ha ricordato della notizia che si era diffusa circa la volontà della Vanoni di avere una badante che sapesse rollare, Ornella ha risposto ironicamente: “Quando cammino per strada i ragazzi mi urlano ‘Ornella! Io non ho lavoro ma rollo da Dio, vengo a fare da badante”. Questo, però, non sarebbe l’unico vizio della cantante che ha raccontato nel corso della puntata di quella volta che dopo una serata in compagnia di Renato Zero tornò talmente tanto ubriaca in hotel che svenne “di dritto come i veri ubriachi”.

Il ruolo di madre

Prima di abbandonare lo studio la conduttrice ha posto una domanda alla cantante circa il suo ruolo di madre, ma la Vanoni ha risposto di non volere parlare del figlio, salvo poi specificare: "Come madre mi piaccio. Come mamma, mio marito mi chiese di tornare immediatamente a lavorare altrimenti sarebbe fallito. Così ho perso la maternità e mi è dispiaciuto molto"

Ad oggi, Ornella Vanoni nonostante una vita passata con un senso di solitudine si definisce più serena di un tempo ed in grado di affrontare la fase della vecchiaia molto bene. L’incontro con la conduttrice non poteva che chiudersi come l’inizio di ogni puntata di Belve, con la Vanoni che ha intonato il ritornello de L’appuntamento, la meravigliosa sigla del programma.

Dagospia il 21 marzo 2023. Anticipazione da “Belve - Rai2”

Ultimo appuntamento con Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, in prima serata il martedì su Rai2. Un ciclo di puntate dedicate a donne (e uomini) indomabili, ambiziosi, forti, non necessariamente da amare, ma che non si potrà fare a meno di ascoltare.

 Ornella Vanoni, una delle voci più influenti del panorama musicale italiano, racconta a Belve vizi e virtù di una vita eclettica, a partire dalla spregiudicata giovinezza. A proposito di quegli anni, quando la Fagnani le chiede se è vero che avesse l’abitudine di girare per casa in mutande, la Vanoni ricorda: “Dove abitavo c’erano tutti finestroni, e io non giravo in mutande ma proprio nuda. Tutti mi dicevano che mi avevano visto dalle finestre. Sì, sono una scostumata! Pensa che c’era un periodo in cui avevo solo due paia di mutande, un paio nere e le altre bianche”.

E quando la Fagnani le chiede: “Quindi le usava con parsimonia?” la Vanoni risponde divertita: “Molta! Uscivo la sera con gonna e tacchi a spillo. Bisogna per forza avere le mutande? Non è detto!”.

 C’è spazio anche per dettagli più intimi e meno conosciuti come i suoi amori, mai negati, per le donne: “Una è stata una grande amicizia che è durata tanti anni. Un’altra è durata meno. Le donne sono attraenti, però a me purtroppo il sesso femminile non interessa molto, e infatti ho fatto soffrire queste persone. Io mi innamoro della persona, in quell’altra cosa non sono molto brava”.

A questo punto la Fagnani le fa notare che in “materia” ha la stessa posizione di Berlusconi quando dice “se fossi gay sarei lesbica”, e allora la Vanoni divertita replica: “Sarò…come si dice adesso... fluida, ma nel giudizio soltanto”.

 Alla domanda della Fagnani suo “vizio” più grande, la cantante non ha dubbi: “Le canne. A un certo punto non dormivo più. Mio padre mi fece fare perfino la cura del sonno: ero disperata. Finché un giorno non mi hanno fatto fare una canna e allora ho detto: ecco la mia medicina”. E a proposito della ricerca di badanti che sanno rollare, la Vanoni racconta: “Quando cammino per strada i ragazzi mi urlano Ornella! Io non ho lavoro ma rollo da Dio, vengo a fare da badante!”.

Ornella Vanoni a «Belve»: «Ho fatto soffrire le donne che ho amato, non mi piacevano sessualmente». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 21 Marzo 2023

La cantante stasera è ospite di Francesca Fagnani su Rai2 e ha parlato dei suoi amori e della sua gioventù: «Il mio vizio più grande? Le canne. Per strada dei ragazzi mi urlano: “Io rollo da Dio, vengo a farti da badante”»

Per l’ultima puntata di «Belve», tocca anche a Ornella Vanoni raccontarsi. Offrendo dettagli più o meno noti sulla sua vita, sulla sua gioventù e sui suoi amori, la cantante ha dialogato con Francesca Fagnani, nel suo programma in onda stasera su Rai2 in prima serata (gli altri ospiti sono Claudio Amendola e Claudia Pandolfi).

Tra le confessioni dedicate alla sua vita privata, ha parlato anche dei suoi amori per le donne: «Una è stata una grande amicizia che è durata tanti anni. Un’altra è durata meno. Le donne sono attraenti, però a me purtroppo il sesso femminile non interessa molto, e infatti ho fatto soffrire queste persone. Io mi innamoro della persona, in quell’altra cosa non sono molto brava» ha detto, aggiungendo poi, dopo le osservazioni della giornalista, «sarò…come si dice adesso... fluida, ma nel giudizio soltanto».

Alla domanda di Fagnani sul suo «vizio» più grande, Vanoni ha replicato «le canne»: «A un certo punto non dormivo più. Mio padre mi fece fare perfino la cura del sonno: ero disperata. Finché un giorno non mi hanno fatto fare una canna e allora ho detto: ecco la mia medicina».

E a proposito della ricerca di badanti che sappiano rollare, di cui ha parlato in passato, ha detto: «Quando cammino per strada i ragazzi mi urlano Ornella! Io non ho lavoro ma rollo da Dio, vengo a fare da badante!».

La cantante ha parlato anche della sua vita sfrenata, tra eccessi sessuali e droghe, con Giorgio Strehler: «È l’uomo che mi ha amata di più, ma non mi ha protetta da situazioni estreme perché non poteva farne a meno, voleva tornare con me, ho detto di no», ha detto.

Un altro amore è stato quello con Gino Paoli che ha punzecchiato sulla gaffe al Festival: «Guarda quello che ha cercato di raccontare a Sanremo, come se fosse a casa sua. Si è dimenticato che era a Sanremo, ha visto Morandi e gli è partita quella roba lì che non andava fatta. Amadeus era terrorizzato e l’ha portato via». Di Paoli, ha poi detto: «Io sono ironica, lui no. Questa ironia di me si sa, si vede e si sente. Di lui proprio no. Però se vuole essere ironico, poverino, non diamogli contro».

Ornella Vanoni: «Per Gino Paoli la mia sofferenza più grande. Sono nata ricca e annoiata, non ho trovato l’uomo giusto». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 2 Febbraio 2023.

L’artista: «La mia Milano non mi riconosce nulla. Marracash mi parlava tanto di Elodie». Amici e amori: «In ospedale solo in tre sono venuti a trovarmi. Per Gino Paoli la mia sofferenza più grande»

Ornella Vanoni, si sente una «capitana»?

«Per niente, ma ho delle intuizioni che mi portano a scegliere una direzione invece che un’altra. Non c’è strategia: è istinto».

Carta d’identità: nasce a Milano il 22 settembre 1934, figlia unica di Nino e Mariuccia Vanoni.

«Nasco ricca e annoiata: stavo spesso nella mia stanza. Pensavo a quei fratelli e sorelle che crescono insieme e si tirano le cuscinate: forse è nata allora la mia malinconia».

Il suo gioco preferito?

«Campana, sul marciapiede sotto casa. Ma i miei non volevano che giocassi con i figli della portinaia».

I suoi genitori.

«Due persone borghesi, con un padre che ho amato molto, perché mi faceva tenerezza: c’era in lui qualcosa che non andava, poi ho capito che era depresso».

Anche lei ha ammesso di aver sofferto di depressione.

«Strehler mi diceva che avevo i nervi fragili. Ma non ho mai pensato al suicidio: ero come quelle donne spettinate dei quadri antichi, sempre a un passo dalla follia».

Come si salvava?

«Mi sono ripresa da sola. Mi conosco bene perché ho sofferto tanto: è nel dolore che capisci, non nella felicità».

Il suo destino da ragazzina borghese cosa prevedeva?

«Non cercavo marito, ma non sapevo bene cosa fare. Avevo l’acne e la tisi. Poi è arrivato Giorgio».

Il primo incontro.

«A 15 anni, a Santa Margherita Ligure. Lui era seduto al bar, era bellissimo: era l’amante di un’amica di mia mamma».

Cosa le ha detto?

«Mia mamma non voleva comperarmi dei pantaloni gialli. Giorgio era accanto a lei: “Ma faccia questo regalo alla bambina”...».

Vi siete rivisti al Piccolo.

«Sì, agli esami di ammissione. Ero l’ultima della fila. Una voce di donna ha detto: “Qui c’è qualcosa di interessante”. Era Sarah Ferrati, mi ha vista per prima. Mi sono sfidata alla morte per vincere l’ansia».

Cosa la tranquillizzava?

«Speravo in una piaga d’Egitto, che potesse far decidere per un “stasera no”. La verità è che mi ha cambiata Giorgio: si è innamorato di me, mi ha dato dei libri e parlato della vita».

Sposato e lavorava in teatro.

«Una cosa che faceva disperare i miei: la borghesia ha sempre visto il teatro come qualcosa di peccaminoso. Il parrucchiere mi diceva: “Non fare questo ai tuoi genitori”».

Neanche Gino Paoli piaceva a sua madre. Le disse: «È un cesso».

«Mi dissero anche che era gay. E a lui che ero lesbica».

Ha mai avuto un’attrazione per le donne?

«Certo. Non ti piace la donna, ma la persona. Ci sono donne che hanno un’attrattiva».

Attrazione consumata?

«Semi-consumata: le donne sono sempre più tra di loro. Siamo libere, ma paghiamo un prezzo alto».

Quale è il più alto?

«La solitudine: io sono una donna sola, ma per scelta».

Gli amici?

«Passano gli anni e ti accorgi che sono conoscenti. Mi sono rotta il femore e solo Mario Lavezzi e Piero Salvatori sono venuti a trovarmi. E Stella Pende, la mia migliore amica. Sulla sorellanza ho delle riserve».

Cosa ci manca?

«Lo sport, basta guardare i giocatori quando si abbracciano, condividono la gioia o l’insuccesso. Noi non abbiamo avuto il tempo di aggregarci, abbiamo passato gli ultimi 1000 anni a partorire».

La maternità.

«Avevo 26 anni quando è nato Cristiano: abbiamo ricostruito un rapporto critico. Oggi sono felice se mio figlio è felice».

Cosa le rimproverava?

«Come spieghi a un bambino che la mamma parte per lavoro e non va a divertirsi? Pensava che preferissi un mondo rutilante a lui».

Si è pentita di non aver costruito una famiglia?

«Non ho trovato l’uomo giusto. Tornando indietro lo cercherei con dei figli, così si fa un bel casino insieme».

Un sassolino da togliersi...

«Non trovo giusto che Milano non mi riconosca nulla. A Carnevale in città sfilano tre maschere: quella di Berlusconi, del cardinal Martini e la mia. Dovrò rappresentare o no qualcosa per la città?»

Cosa desidererebbe?

«Da morta daranno il mio nome a una via: non mi interessa. Vorrei occuparmi da viva di un teatro, come Renato Pozzetto, che è coinvolto nel Lirico. Oppure occuparmi delle carceri: a Bollate c’è un gruppo di detenuti che vorrebbe cantare».

Le piace ancora Milano?

«No, è isterica. Per viverci bisogna essere dei nababbi».

Cosa è la milanesità?

«A Milano non si aggiunge un posto a tavola se non è previsto. A Roma sono più rilassati, anche se cinici. E c’è differenza tra ironia e sarcasmo».

Gli animali.

«Ora ho Ondina, un barboncino che nuota per ore e si tira fuori dall’acqua sfinita».

La nuova Vanoni.

«Ce ne sono di brave: Elisa, Giorgia, Emma. Ma devono tirare fuori l’emozione».

Un collega?

«Marracash. Mi parlava di Elodie, ma aveva bisogno di una donna accudente. Tutti gli uomini ce l’hanno: sono lavati, stirati e coccolati dalle mogli».

I talent?

«Vorrei essere in giuria. Non mi chiamano e sbagliano».

Il periodo più malinconico?

«Quando sono andata via da Gino. E l’ultima storia».

Il sesso.

«Conta moltissimo ma deve essere fatto bene, sennò diventa triste».

La cosa più strana fatta?

«A Montecarlo sono stata a letto con uno sceicco e il giorno dopo gli ho mandato fiori».

E lui un diamante?

«Nulla, per questo trovo l’aneddoto spiritoso».

Oggi è una donna finanziariamente al sicuro?

«No. Ho aiutato molto e non me ne pento».

Una parte del suo corpo.

«Avevo un bel sedere e una bella schiena. Poi i piedi».

Sanremo.

«Una cosa orribile la gara. Bello andarci da ospite».

Gioca a burraco?

«Per carità: se tengo le carte in mano mi cascano dall’altra parte. Non sono capace».

Frequenta i salotti?

«Ho sempre lavorato tanto».

Domani si conclude a Lugano il suo tour teatrale «Le donne e la musica». «Un grande successo. Sono sul palco con 5 musiciste e una poltrona, che mi accoglie e brilla insieme ai miei capelli».

Lei è ancora sul palco, Mina lo ha lasciato a 40 anni.

«È un’amica, ma non capisco come un’artista come lei non abbia bisogno del pubblico».

Maria Volpe per “Sette – Corriere della Sera” il 31 Dicembre 2022.

Sono sconcertanti la classe, il fascino, l'eleganza di Ornella Vanoni a 88 anni. Sarà per quel vecchio consiglio che le dava sua madre: un filo di trucco, un filo di tacco. Seduta su una poltroncina, nel salotto della sua casa milanese, con un sobrio vestito-vestaglia di cachemire beige, i riccioli rossi in ordine casuale, la voce inconfondibile e un ritrovato sorriso. 

Accanto a lei, immancabile Ondina, la barboncina nera da cui non si separa mai. Una donna dalla vita intensa, emozionante, passionale, a tratti dolorosa. Ha da poco superato un intervento al femore, ed è già tornata a cantare, in tournée, incantando il Teatro degli Arcimboldi a Milano. 

Hanno detto che era molto sensuale

«Sarà per quello splendido vestito degli archivi di Dior. Tutto bianco. L'avevo già indossato nero»

In questa nuova tournée, è accompagnata da un'orchestra tutta di donne

«Me ne ha parlato Paolo Fresu e ho detto: perché no? È insolito per l'Italia. La pianista è fantastica; c'è una iraniana bravissima, la batterista napoletana bellissima. Ma per me se sono brave artiste, non fa differenza, uomini o donne». 

Crede nella solidarietà tra donne?

«Io non mi metto in competizione e non ho invidie, non so se questa è solidarietà. Sorellanza? No, non ci credo. Ci sono amiche che possono diventare sorelle, altre donne con le quali non c'è alcuno scambio emotivo».

 Le fa allegria il Natale. O malinconia?

«Quando sei piccolo è tutto meraviglioso. Poi quando diventi grande e hai i genitori, magari malati, c'è un'allegria forzata. Io per un bel po', per questioni familiari, ho passato natali tristi Quest'anno sono felice. Lo passo con mio figlio Cristiano e la sua compagna». 

E i suoi adorati nipoti. Ha un amore smisurato per Matteo, vero?

«Vero. Un amore smisurato, ricambiato. Forse perché è il primo nipote. Ha un carattere solare, un'esplosione di luce. Intendiamoci adoro anche mia nipote ma non la vedo mai: gira in barca a vela facendo la cuoca. È un essere libero, è coraggio sa». 

Lei Ornella sembra più dolce: è il tempo che passa?

«Se lo lasci passare senza riempirlo non serve a niente. Io ci ho messo tanta dolcezza». 

La sua immagine è di una donna forte

«Non sono così forte. Sono coraggiosa. Con la pandemia sono diventata forte. Ho avuto anche un intervento al cuore, poi al femore. Mi sono fortificata. E addolcita insieme». 

Lei non ha più voglia di parlare del suo passato. Troppe volte le hanno chiesto dei suoi amori. Permetta solo qualche parentesi. Quando ha conosciuto Giorgio Strehler?

«Ero ragazzina e andavo a teatro da lui che mi prestava i costumi per carnevale. Poi entrai alla Scuola del Piccolo Teatro, e ci innamorammo. Ho imparato tanto guardando Giorgio lavorare. È stata una esperienza forte, formativa. Ma la nostra storia d'amore creò scandalo: lui molto più grande e sposato. Io fui bistrattata per questo legame». 

Perché ha lasciato Giorgio?

«Ero al Festival di Spoleto. Luchino Visconti mi presentò Renato Salvatori (l'attore di Poveri ma belli), era un gran gnocco. Ci fecero foto insieme e scoppiò il putiferio. Giorgio era furioso, mi stalkerizzò sul telefono fisso. La verità è che ormai il nostro rapporto era già finito. Non ero stanca di lui, ma di una cosa che faceva lui e che a me non andava più..» 

La droga, la cocaina?

«Non mi va più di parlarne. Certo che Giorgio mi ha amato alla follia, come nessun altro». 

Anche Gino Paoli non scherzava. Le ha dedicato una canzone immensa come Senza fine. Da cosa è stato colpito?

«Dalle mie mani grandi». 

E lei da cosa rimase colpita?

«Era un ragazzo bruttino, vestito di nero, collo alto da rive gauche. E ho provato quello che provo quando sono vicina a un "talento vero"».

Poi ci fu il matrimonio nel 1960 con l'impresario Lucio Ardenzi (e nel '62 nacque vostro figlio Cristiano)

«Ero molto confusa.. Andai all'altare vestita di giallo - pensando a Gino Paoli che amavo. La sera prima volevo mandare tutto all'aria, e fuggire. Ma tutte le mie amiche a dirmi: "Non si fa, non puoi, domattina ti devi sposare". Insomma ho combinato un casino dietro l’altro».

Ne ha spezzati di cuori lei... Aveva una grande capacità di conquistare gli uomini grazie alla sua sensualità, al suo fascino. L'avvocato Agnelli non l'ha mai corteggiata?

«Ho cantato per l'Aga Khan e quella sera c'era anche l'Avvocato. Alla fine della sera mi appoggiò al muro. Gli dissi: "Tutte morirebbero per lei, io no". Lui si è fatto una risata». 

Il cinema?

«Il film più brutto che ho fatto è stato quello con Ugo Tognazzi I viaggiatori della sera, ma mi sono divertita da morire». 

Un film che avrebbe voluto fare?

«Senza dubbio l'ultimo di Emma Thompson, Il piacere è tutto mio, un film grandioso sulla sessualità e l'emancipazione femminile. Con la scena finale di autoerotismo. Sono quei ruoli che portano avanti il coraggio delle donne». 

Se le dico Milano, cosa le viene in mente?

«Voglio bene a Milano, ma non la amo più come prima. Questi grattacieli che poi secondo me sono mezzi vuoti. Troppe macchine, troppa isteria». 

Delle persone che non ci sono più chi le manca di più?

«Mia madre e mio padre. E Sergio Bardotti (grande autore e paroliere, scompar so nel 2007, ndr). Avevamo un legame pazzesco: curio so lui, curiosa io, insieme abbiamo realizzato cose splendide: ho cantato tutti i jazzisti americani. Beveva e fumava tantissimo. Ma che potevo fare?»

Il Festival di Sanremo le porta bei ricordi?

«Degli anni in cui ero in gara non ricordo nulla per ché ero troppo terrorizzata. Il ricordo più triste è quello legato a Tenco: l'ho visto strano quella sera, ho detto ai suoi amici "state vicini a Luigi". Il ricordo più bello è quello della super ospitata nel 2021. Mi sono divertita molto». 

Il 13 gennaio riprenderà il suo tour a Bologna.

«Una città che adoro, anche se da quando non c'è più Lucio Dalla la amo di meno. Un'altra città che amo alla follia è Napoli, adoro il carattere dei napoletani». 

Cosa vorrebbe fare nel 2023?

«Scrivere un libro e recitare, cinema e teatro». 

Non lavorare le fa paura? Teme il vuoto?

«Si temo molto il vuoto, specie qui a Milano. Se fossi con un'amica o un compagno, e tanti animali, sarei felice di vivere in campagna. Mi trasferirei al volo».

Estratto dell’articolo di Luca Valtorta per repubblica.it il 14 gennaio 2023.

[...] Ozzy Osbourne [...] "Una volta avevo rubato un televisore", racconta, "e mi sono trovato su un muro pieno di cocci di vetro. Quel televisore era enorme, sono scivolato e sono caduto giù gridando aiuto". […]

 In Inghilterra ha debuttato al secondo posto, il miglior piazzamento di sempre di Ozzy solista e ha avuto ben quattro nomination ai Grammy 2023. Al telefono la voce sembra venire da un altro mondo, ma non c'è dubbio: è lui!

[...]

  Come sta andando il nuovo album?

"Oh molto molto bene, sta vendendo un sacco". […]

 Ti senti ancora prigioniero nella tua mente?

"Sì, mi succede quando penso a quello che sta succedendo alle nostre vite. Veniamo tutti mantenuti in uno stato di morte imminente: con la guerra in Ucraina e la minaccia della guerra atomica ci si sente come se la fine del mondo fosse alle porte [...]”".

 Pensi davvero che Putin possa usare la bomba atomica?

"[...] Io spero che non arrivi ma so che potrebbe succedere".

 "[...] Ho da sempre un problema di dislessia e anche di deficit d’attenzione. A scuola non capivo niente ma a quei tempi i miei insegnanti che erano dei bastardi dicevano semplicemente che ero ottuso e i ragazzi mi prendevano in giro perché non sapevo leggere".

Nel video il numero 9 si moltiplica e gira su sé stesso fino a diventare 666. Davvero non ti sei mai interessato di magia nera?

"No, no, dovrebbe essere una cosa ormai nota, io non pratico la magia nera".

 Però vi chiamavate Black Sabbath e c’era un sacco di gente che vi considerava satanisti.

"Sì, c’era un sacco di questa gente pazza che veniva ai concerti. Vengono anche adesso a chiedere stro…te tipo se credo in dio o satana".

 E tu cosa fai?

"Io? Io non esco di casa. Quando abbiamo visto l’Esorcista per la prima volta ai tempi dei Black Sabbath eravamo terrorizzati".

 È per questo che indossi sempre un’enorme croce?

"Certo! Per protezione. Sai, non si sa mai…".

 Sempre nel video ti trasformi in un enorme pipistrello. È una presa in giro della famosa storia per cui gli avresti staccato la testa con un morso?

"Credo di sì".

 Ma quella storia era vera o falsa?

"Qualcuno ha buttato un pipistrello di plastica sul palco e l’ho messo in bocca per staccargli la testa: una cosa finta. Poi però ho pensato, ma c…o, batteva le ali!".

 Il pipistrello porta terribili malattie...

"Esatto per questo quando l'ho messo in bocca e l'ho morso e ho visto la gente che gridava 'Aaaaaah' mi sono spaventato anch'io e ho capito".

 Sei andato all'ospedale?

"Sì, certo ci ho passato tutta la fottuta notte a far delle punture e, te lo garantisco, non è stato divertente".

Luca Valtorta per “la Repubblica – Robinson” il 28 dicembre 2022.

La vita di Ozzy Osbourne, non è stata facile: era un giovane delinquente tanto seriale quanto impacciato: «Una volta avevo rubato un televisore» , racconta, «e mi sono trovato su un muro pieno di cocci di vetro. Sono scivolato e sono caduto giù gridando aiuto». Finisce in prigione «ma a quell'epoca vivevo in mezzo a una strada per cui non ci stavo male: cibo e sigarette gratis! In cella con me c'era un assassino che mi raccontava come faceva a uccidere la gente» . 

Però si annoiava «Ci sono rimasto solo sette settimane alla fine, ero solo un ragazzino. Non ricordo momenti brutti ma mi piace essere libero. Ho iniziato a farmi dei tatuaggi con del Polish grigio (uno smalto per i metalli, ndr): lo mescoli bene e poi basta un ago da cucito. Mi sono fatto un pugnale, il numero 3 e il mio nome sulle falangi (ottima idea per un ladro, ndr). La faccina che ride sul ginocchio? Mi piace vedere che mi sorride quando guardo in basso» .

L'esperienza porta infine Ozzy a concentrarsi sulla musica: «Non c'era nient' altro che volessi fare, non riuscivo a immaginarmi dietro la scrivania e non mi avevano voluto nemmeno nell'esercito. Ci ho provato ad arruolarmi: avevo 17 anni ed ero incazzato, volevo girare il mondo e sparare alla gente. Però mi hanno detto di andare a fare in c Forse perché mi ero presentato con un rubinetto legato al collo con una corda, al posto del maglione avevo mezzo pigiama e mi usciva il culo dai jeans». 

La sua band, i Black Sabbath, nel giro di pochi anni esplode: con loro nasce l'heavy metal. Presto però arrivano i problemi «le cose sono andate bene fino a Sabbath Bloody Sabbath (1973) ma eravamo alla fine devastati». Ozzy è fuori controllo e viene licenziato dal resto della band che al suo posto ingaggia Ronnie James Dio. Ci resta male: dopo un anno di depressione chiuso in stanza d'albergo a strafarsi si rimette a suonare diventando un'icona anche per le generazioni successive. 

E oggi è incredibilmente tornato con un nuovo album intitolato Patient Number 9, uscito lo scorso settembre e pieno di ospiti: Tony Iommi, Jeff Beck, Zakk Wylde, Mike McCready, Josh Homme, il compianto Taylor Hawkins dei Foo Fighters e perfino Eric Clapton. In Usa ha debuttato al primo posto e in Uk al secondo: il miglior piazzamento di sempre di Ozzy solista. E ha avuto ben quattro nomination ai Grammy 2023. Al telefono la voce sembra venire da un altro mondo, ma non c'è dubbio: è lui. 

Come va?

«Bene, sì. Però devi parlare più forte». 

Come sta andando il nuovo disco?

«Oh bene, sta vendendo un sacco».

Dentro c'è "No Escape From Now" in cui suona Tony Iommi, il tuo vecchio compagno dei Black Sabbath: come è stato rincontrarlo?

«Una cosa molto bella, ho davvero un'amicizia molto stretta con lui. È vero che per qualche anno non ci siamo parlati ma poi mi ha mostrato che poteva essere un buon amico» . 

"Patient Number 9" è un riferimento al tuo secondo album, il famoso, "Diary of a Madman", dal momento che entrambi trattano il tema della salute mentale?

«Oh no, non era questa la mia intenzione. Non ci ho mai pensato». 

Perché anche i due testi sembrano avere diversi punti di connessione

« Diary of a Madman parla di un tizio pazzo che diventa pazzo ed è qualcosa che io penso davvero di me stesso. Ma oggi dovrei essere pazzo per pensare ancora a certe cose (le ripetizioni e una modalità di pensiero "visionario" sono parte di Ozzy, ndr) ». 

Però si parla dello stesso tipo di imprigionamento nella tua mente.

«Ovvio, sto sempre cercando di scappare da qualche parte. Sai, non ci avevo pensato fino a quando tu non me l'hai fatto notare. Mi sa che hai ragione. In quel momento credevo veramente di stare impazzendo» .

E oggi ti senti ancora prigioniero?

«Sì, mi succede quando penso a quello che sta succedendo alle nostre vite. Veniamo tutti mantenuti in uno stato di morte imminente: con la guerra in Ucraina e la minaccia della guerra atomica ci si sente come se la fine del mondo fosse alle porte. 

Non dovremmo vivere sotto questo stress: prima abbiamo avuto la pandemia che ci ha costretto a vivere chiusi nelle nostre case. Non avevamo mai vissuto situazioni simili e questo porta le persone che hanno malattie mentali a un aggravamento delle loro condizioni: stiamo diventando tutti "Patient Number 9"». 

E poi ci sono pure i problemi fisici..

«Esatto: mi sono sottoposto a un'operazione alla schiena molto brutta. Non riesco a camminare bene ma lentamente sto recuperando». 

Di "Patient Number 9" è stato fatto anche un fumetto da Todd Mc Farlane, uno dei massimi disegnatori di supereroi. Tu leggi fumetti?

«No, no mai letti. Neanche i libri. Ho da sempre un problema di dislessia e anche di deficit d'attenzione. A scuola non capivo niente ma a quei tempi i miei insegnanti, che erano dei bastardi, dicevano semplicemente che ero un idiota e anche gli altri ragazzi mi prendevano in giro perché non sapevo leggere» . 

Nel video il numero 9 si moltiplica e gira su sé stesso fino a diventare 666. Davvero non ti sei mai interessato di magia nera?

«No, dovrebbe essere una cosa ormai nota, io non pratico la magia nera» . 

 Però vi chiamavate Black Sabbath e c'era un sacco di gente che vi considerava satanisti.

«Sì c'era un sacco di questa gente pazza che veniva ai concerti. Vengono anche adesso a chiedere strote tipo se credo in dio o satana» . 

E tu cosa fai in questi casi?

«Io? Io non esco di casa oggi. E pensa che quando abbiamo visto l'Esorcista per la prima volta ai tempi dei Black Sabbath eravamo terrorizzati». 

È per questo che indossi sempre un'enorme croce?

«Certo! Per protezione. Sai, non si sa mai. Per ogni eventualità». 

Sempre nel video ti trasformi in un enorme pipistrello. È una presa in giro della famosa storia per cui gli avresti staccato la testa con un morso durante un concerto?

 «Mmmm, credo di sì». 

Ma quella storia era vera o falsa?

«Qualcuno ha buttato un pipistrello di plastica sul palco e l'ho messo in bocca per staccargli la testa: per me era una cosa finta. Poi però ho pensato, ma c…o, batteva le ali!».

Pamela Anderson è la sex symbol più incompresa del mondo: «Solo Hefner mi ha rispettata. Scrivere la mia storia mi ha resa libera». Decca Aitkenhead su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023.

Ha sempre avuto relazioni difficili, a cominciare dai primi due mariti, entrambi rockstar. «Credo sia anche una questione di possesso. Quando sei in grado di badare a te stessa, con gli uomini entri in un territorio pericoloso»

Pamela Anderson con Hugh Hefner, a West Hollywood in California, nel 2007 (Michael Bezjian/WireImage)

A inizio mese, Pamela Anderson era in cucina con la madre, che la criticava pensando tra sé: avrei dovuto abortire. Non lo diceva a voce alta, «ma nella mia testa. Perché è da quando sono nata che è sempre colpa mia. Sono io il motivo per cui lei ha sposato mio padre. Ho sempre portato questo peso sulle spalle e mi sento responsabile per tutto quello che è andato male».

Pamela sospetta che la madre provi le stesse emozioni nei suoi confronti. «Lo penso davvero. Non credo sia intenzionale. Ma penso che, inconsciamente, nella sua mente persista l’idea della vita diversa che avrebbe potuto avere se non fosse rimasta incinta a quell’età. È stato un matrimonio riparatore. E mi sentivo responsabile, anche da piccola. È per questo che sono contenta di aver scritto questo libro, perché ho la sensazione che talvolta dimentichiamo che ogni persona ha la propria storia. Non sappiamo da dove vengano gli altri o cosa abbiano passato, e facciamo presto a giudicare».

Da una copertina al mondo intero

Per la maggior parte della vita, Anderson è stata oggetto dei giudizi del mondo. Appena ventiduenne, quando apparve per la prima volta sulla copertina di Playboy , e poi nel 1992, quando divenne famosa a livello mondiale correndo al rallentatore sulla sabbia californiana in un costume rosso. E ancora tre anni dopo, quando il vorticoso matrimonio della star di Baywatch con la rockstar Tommy Lee dei Mötley Crüe su una spiaggia messicana, solo quattro giorni dopo l’inizio della loro frequentazione, assicurò la notorietà all’iconica bionda esplosiva, ragazza ribelle dell’epoca. La sposa indossava un bikini bianco, la sua damigella d’onore era una sconosciuta incontrata in un nightclub la notte prima e non sapeva neppure quale fosse il cognome del marito.

Quando la cassaforte dei novelli sposi venne rubata dalla loro casa meno di un anno dopo, e un sextape ricavato accorpando diverse loro videocassette private fu dapprima venduto a Penthouse e poi diffuso a livello planetario tramite Internet, molti pensarono che si trattasse di una squallida trovata pubblicitaria escogitata dalla coppia. E quando provarono a sporre denuncia, l’avvocato spiegò ad Anderson che non aveva alcun diritto alla privacy dopo aver posato per Playboy .

Maltrattamenti pubblici e privati

Oltre a essere trattata come una poco di buono dai tabloid e braccata dai paparazzi, anche il suo matrimonio iniziò a vacillare e quando Lee l’aggredì nel 1998, mentre teneva in braccio il loro secondo figlio neonato, lei lo lasciò. Lui venne condannato a sei mesi di prigione, i due divorziarono, si riconciliarono e si lasciarono di nuovo. Venticinque anni, cinque matrimoni, molteplici copertine di Playboy e reality show dopo, ho aperto la sua biografia aspettandomi di trovarvi la straordinaria vacuità che si addice a una pin-up.

E non ero l’unico. «La gente diceva: “È impossibile che tu sappia scrivere un libro”. Persino i miei figli dicevano: “Mamma, devi essere in grado di scrivere in modo comprensibile per le persone”». E lei rispondeva: «Ragazzi, abbiate un po’ di fiducia nella vostra mamma, penso proprio di potercela fare». La sua agente letteraria le disse: «Tesoro, avrai bisogno di un po’ di aiuto», ma lei pensava tra sé: «Io so scrivere, stupida idiota, dammi un po’ di fiducia. E così l’ho scritto».

Love, Pamela comincia con un ritratto struggente ed elegiaco di una ragazza maschiaccio a piedi nudi, che cresce tra i maestosi pini e le voci di paese delle coste dell’isola di Vancouver, un affioramento della natura canadese nel Pacifico orientale. Adolescenti al momento della sua nascita, i genitori erano di una bellezza ammaliante, poverissimi, imprevedibili e selvaggi: «Belli e dannati, i Bonnie e Clyde del posto».

Infanzia di paura e orrore

Suo padre era un poeta e uno spazzacamino, un casinista, gran bevitore, giocatore di poker, pilota di corse illegali e cacciatore di selvaggina. Sua madre era una cameriera, casalinga, «portatrice di atmosfere magiche», un’affascinante bionda addetta alle grigliate di pesce, ai falò sulla spiaggia e ai bagni nudi al chiaro di luna. Suo padre era un ubriacone, violento e crudele, che, con la cintura in mano, terrorizzava la moglie e affogava i gattini della figlia davanti ai suoi stessi occhi. Sua madre era eternamente in bagno, a piangere lacrime macchiate di mascara, sempre in procinto di lasciarlo, caricando in macchina Pamela e il fratello minore, Gerry, per fuggire di nascosto in un esilio di buoni pasto, latte in polvere e solitudine. Follemente innamorata di lui, tornava sempre indietro.

Anderson subì molestie dalla sua babysitter dai sei ai dieci anni. Per i genitori era una babysitter fantastica, quindi non osò dire nulla. Perse la verginità a 12 anni, quando venne violentata da un uomo venticinquenne. Due anni dopo, il fidanzato adolescente la stuprò insieme a un gruppo di amici.

La sex symbol involontaria

Lei si rifugiò nella propria immaginazione - «è un meccanismo di sopravvivenza» - e trovò conforto in un mondo fatto di fiabe e amici immaginari. È diventata la sex symbol più involontaria di sempre. Mentre il mondo sbavava sul suo corpo, Anderson leggeva libri di filosofia e psicologia, si dedicava alla poesia, all’arte e all’attivismo. Le sue amicizie più importanti sono state con spiriti creativi - Werner Herzog, Vivienne Westwood, David LaChapelle - e i traguardi più importanti li ha raggiunti con l’attivismo, partecipando a campagne per i diritti degli animali, per l’ambiente e a sostegno dei rifugiati. È consapevole da sempre che la gente la sottovaluta: non è assolutamente come pensate. Anderson non ha voluto che il suo editore coinvolgesse un ghost writer: «Mio Dio, è stato così drammatico. Perché non stavo solo aprendo un vaso di Pandora, stavo sprigionando una rabbia che mi portavo dentro fin da piccola. Ho buttato fuori tutte quelle emozioni che avevo represso. E mi ha fatto davvero bene, perché ha fatto capire anche a me stessa perché sono diventata quella che sono».

Incontro in cucina

Siamo nella sua cucina, nella casa di famiglia dove è tornata ad abitare circa quattro anni fa: una manciata di casette di legno che sua nonna affittava ai motociclisti Hell’s Angels nella cittadina operaia di Ladysmith. La cinquantacinquenne è senza trucco, indossa una t-shirt di lino bianca, jeans larghi sbiaditi e zoccoli di pelle bianca e fluttua con l’agile precisione di una ballerina adolescente. Tanto consapevole di sé quanto ingenua, c’è una delicatezza nel suo portamento. Ride tanto, spesso di sé stessa, e quando parla tende a perdersi in lunghe digressioni. A quanto pare non c’è nulla che non voglia mostrarmi o dirmi. Le chiedo cosa si provi a raccontare tutto di sé. «Libertà». Quando Anderson guarda le vecchie foto di quando era ragazza, è palese ai suoi occhi che già all’epoca venisse “sessualizzata” e non si capacita che nessuno se ne fosse accorto. «O forse se ne accorgevano», riflette, pensando agli stupratori che l’hanno aggredita in adolescenza, «e forse è anche questo il motivo per cui venivo bersagliata». È convinta che quasi ogni donna che lavori nell’industria dello spettacolo sia stata abusata da bambina. «Lo penso davvero. Credo sia quasi un’iniziazione. È una forma di vulnerabilità che ti porti dietro tutta la vita se sei stata abusata in qualche maniera. Hai una sorta di tatuaggio sulla fronte che dice che sei diversa. Ti mancano i confini, quelli sani». Se non fosse stata abusata, la sua carriera sarebbe stata diversa? «Volevo fare la bibliotecaria. Ma ho preso un’altra strada».

«Ho ripreso in mano il mio potere»

Come primo lavoro, Anderson fece la cameriera in una tavola calda del posto, finché non dovette scappare da un ex fidanzato violento rifugiandosi a Vancouver, dove lavorò in un centro abbronzature e si fidanzò ufficialmente all’età di 21 anni. Quando un cameraman la riprese tra la folla durante una partita di football nel 1989, con indosso una t-shirt della Labatt, il marchio di birra l’ingaggiò subito come modella. Anderson era esterrefatta: da quando la sua babysitter aveva cominciato a molestarla odiava il suo viso, odiava il suo corpo. «Pensavo di essere brutta». Un giorno, non molto tempo dopo, suonò il telefono. « Playboy ?» ripeté, quando la voce al telefono si presentò come l’editor della fotografia della rivista. Hugh Hefner aveva visto i suoi poster per la Labatt e la voleva nella sede di Playboy a Los Angeles per posare per la copertina del numero di ottobre.

«Ero terribilmente timida e odiavo quella sensazione. Ecco perché l’ho fatto, perché non volevo più sentirmi così». Anderson non era mai stata in aereo, figuriamoci in una limousine, e la Playboy Mansion la lasciò esterrefatta: «Fare il primo shooting mi ha fatto capire come ci si sente a essere una donna sensuale. Ho preso possesso della mia sessualità e ripreso in mano il mio potere».

Pamela Anderson non ha mai avuto il minimo interesse a ordire inganni femminili, mentre, per contro, il mantra preferito della madre era: «Non esiste la bellezza naturale: bastano due ore davanti allo specchio». Oppure: «Non ci sono scuse per apparire brutte» e viveva seguendo queste massime. «Mia madre era molto curata. Mi diceva sempre: “Hai più potere se sei carina. Prenditi cura di te e sarai una moglie e una madre migliore, sarai migliore in tutto. Le persone ti ascoltano di più se hai un bell’aspetto”». E poi a Los Angeles si è rivelato tutto vero. Gli stilisti di Playboy la trasformarono in una bionda luccicante e Hefner l’adorava. Un produttore di Hollywood, Jon Peters, l’accolse in una delle sue ville di Bel Air, la ricoprì di regali e organizzò cene esclusive in suo onore con i personaggi più celebri del cinema. Per la prima volta nella vita, Anderson si sentì desiderata e consapevole di ciò che lei stessa voleva. «A quei tempi sognavo la cavalleria e persone che mi aprissero la porta. Avevo questa visione romantica del mondo e pensavo di volere un uomo che facesse l’uomo». Il femminismo andava bene fin quando è servito per ottenere il diritto al voto, pensava Anderson, «ma mi dicevo: non esageriamo adesso». «Crescendo, mi sono resa conto di quanto fossi stupida e ingenua. Adesso mi sento molto diversa». Mi guarda con un sorriso autoironico: «Ci evolviamo tutti».

«Ok, questa è la mia carriera»

È sconcertante riguardare le sue vecchie interviste e vedere come la trattavano i presentatori, parlando del suo seno come se lei fosse letteralmente un oggetto. Anderson sembrava accondiscendente e ridacchiava in modo ammiccante, ma chissà a cosa stesse pensando realmente. «In realtà non ho mai pensato che fosse un atteggiamento sessista, ma mi dicevo: ok, questa è la mia carriera, mi sono preparata per questo. A essere sinceri non ci badavo molto, vivevo alla giornata». Nessuna sorpresa che si sia sposata con Tommy Lee. L’archetipo del bad boy- bello, libertino, sregolato, violentemente geloso (proprio come suo padre) - era sempre stato il suo tipo ideale. E d’altronde era improbabile che un corteggiamento meno smaccatamente passionale rispetto al colpo di fulmine dei suoi genitori le sembrasse vero amore. La notte prima delle nozze, Lee le versò dell’ecstasy nel drink, una droga che non aveva mai assunto prima, capace di provocare uno stato di euforia e disinibizione. «Hai mai provato niente di simile?», le chiese. In tutta onestà, lei gli rispose di no. «Beh, allora sposiamoci», la incalzò. «Sì, fantastico», assentì lei, in uno stato soporifero di beatitudine.

L’amore e il nastro rubato

Quello con Lee fu un amore travolgente - d’altronde la stessa Anderson racconta che il loro primo anno insieme fu immensamente felice - ma l’umiliazione per la vicenda del nastro rubato (non lo chiamerà mai “video porno”), oltre al senso di impotenza e alla vergogna, fu insuperabile. Dopo giorni e giorni di interrogatori da parte degli avvocati, che oltretutto avevano appeso alle pareti le sue copertine di Playboy e la assillavano con domande sulle sue preferenze sessuali e posizioni preferite («Voglio dire, come se tutto questo c’entrasse con il furto e la vendita della nostra proprietà privata!»), rinunciò alle azioni legali per paura che lo stress potesse danneggiare il bambino che portava in grembo. Mentre lei temeva che non sarebbe mai più tornata a lavorare, Lee continuava a cacciarsi nei guai per le sue scazzottate coi paparazzi. Praticamente incapaci di uscire di casa e oppressi dalla vergogna e dalle telecamere, i due cercarono di farsi forza a vicenda evocando le loro parole in codice, “G & D” (Grazia e Dignità), ma non ne furono mai all’altezza. Anderson ha dovuto fare nuovamente appello al proprio contegno l’anno scorso, quando Disney+ ha distribuito Pam& Tommy , una serie di otto puntate incentrata sulla vicenda del nastro.

Pamela Anderson con il musicista Tommy Lee, batterista della band metal Mötley Crüe. Si sono sposati nel 1995 (si erano conosciuti solo cinque giorni prima) e durante il matrimonio lui è stato arrestato per violenza domestica e condannato a sei mesi. Hanno divorziato nel 1998

Calvari in serie

Profondamente turbata dal fatto che il suo calvario sia stato rispolverato per un semplice intrattenimento, sostiene che non lo guarderà mai. I produttori affermano che la serie offra un ritratto “positivo” di Anderson, mostrando al mondo la crudele violazione della sua privacy. Non appena gliene parlo, però, si lascia andare a una rapida smorfia di sarcasmo. «Tutta questa positività io non l’ho percepita», commenta. E nel suo libro scrive: «È imperdonabile che ancora oggi la gente pensi di poter trarre profitto da un’esperienza - per non dire crimine - tanto orribile». Chissà se il suo matrimonio sarebbe sopravvissuto se quel nastro non fosse stato rubato. «Impossibile a dirsi». Credo si possa affermare che non abbia avuto alternative. Lee insisteva per essere sempre presente sul set insieme a lei; la aspettava nudo nella roulotte e le scompigliava intenzionalmente i capelli e il trucco: «Una strategia per trascorrere più tempo insieme», scrive Anderson. «Diceva che ero sua. Reclamava il suo “momento moglie”». Benché fosse stato bandito dal set dopo aver dato un pugno in faccia al produttore, Lee continuava a parcheggiare nelle vicinanze e a scavalcare la recinzione. Un giorno tamponò la roulotte del trucco con l’auto, distruggendo lo studio di make-up, poi caricò la moglie in macchina, la riportò a casa e se ne andò via. Quella sera, intenzionata a perdere conoscenza e a lasciarsi annegare nella vasca da bagno, Anderson tentò di ingoiare un flacone di pillole con la vodka, ma l’alcol la fece vomitare e svenire sul pavimento.

Pamela Anderson con i due figli Brandon e Dylan, avuti con Tommy Lee. Oggi Brandon ha 26 anni, ha lavorato come modello e attore, ha partecipato ad un reality show e ha lanciato una linea di abbigliamento; Dylan ha 25 anni ha lavorato come modello, si occupa di musica e di commercio delle criptovalute

Dal set all’ospedale

Il mattino seguente, non vedendola arrivare sul set, il suo autista la raggiunse e la trovò riversa in una pozza di vomito. La portò di corsa in ospedale, mentre il fratello Gerry, che allora lavorava come comparsa per Baywatch , rintracciò Lee e, assieme a lui, si precipitò al capezzale di Anderson. Lee scoppiò in lacrime, mentre Gerry iniziò a urlargli che aveva quasi ucciso sua sorella, e a quel punto si scatenò una violenta scazzottata. I due si stavano ancora prendendo a pugni, lottando a terra, quando un medico entrò nella stanza e annunciò che Anderson era incinta. «Fu come se non fosse mai successo nulla, e ci abbracciammo tutti» scrive lei. Poco tempo dopo abortì. Tutto ciò accadde durante il loro primo anno d’amore, precedentemente allo scandalo del nastro. Nell’estate del 1996 nacque il loro primo figlio, Brandon, seguito da Dylan alla fine del 1997. Nella sua autobiografia del 2001, Lee ha fornito una versione differente delle loro liti, scrivendo: «Con Pamela ero in testa alla classifica. Alla nascita di Brandon, sono sceso al secondo posto... Poi, quando è nato Dylan, sono precipitato al terzo... E non riuscivo ad accettarlo». Quello che sembra un caso da manuale di narcisismo e controllo coercitivo, ad Anderson appariva come vero amore. «Mi dicevo: Dio, quest’uomo mi ama davvero». Nessuno che abbia provato a dissuaderla? «Ero innamorata di lui, sarebbe stato inutile». E, in un certo senso, lo è ancora. I ripetuti tentativi di riconciliazione della coppia non hanno mai retto, ma poco tempo fa Anderson ha rivisto una vecchia videocassetta di una festa di compleanno che aveva organizzato per il marito ed è scoppiata a piangere. «Ho pensato: Oddio, allora lo amo davvero! In quel momento ho avuto come un’illuminazione, dopo tutto quel tempo in cui avevo cercato di reprimere i miei sentimenti. Ora è sposato, e gli auguro il meglio: non sto certo qui a struggermi per Tommy e cazzate varie. Ci mancherebbe. Ma mi piace pensare che i nostri figli siano il frutto di un amore vero».

Senso di famiglia

Quando i due parlano al telefono, rimane sempre l’impressione di «essere una famiglia. È una sensazione normalissima, che non ho mai più provato da allora. Probabilmente capita una volta sola nella vita». Anderson sperava di provare di nuovo questa sensazione quando, nel 2006, sposò Kid Rock, un altro musicista. I due, però, si separarono solo pochi mesi dopo. «Inizialmente erano Kid e Tommy le vere star, e invece a un certo punto arriva questa bambola bionda che attira l’attenzione su di sé, rubando loro la scena. Credo che sia sempre stato un problema nelle mie relazioni: è strano stare insieme a qualcuno che tutti desiderano. È come se i miei partner dovessero, ma non volessero, condividermi con un mucchio di altre persone». Poi si interrompe. «Credo sia anche una questione di possesso. Quando hai tutta questa attenzione, sei in grado di badare a te stessa e puoi andartene in qualsiasi momento, perciò gli uomini non hanno più nessun tipo di controllo su di te. Si sentono privati della loro virilità. È in quel momento che entri in un territorio pericoloso». Nel 2007 convolò a nozze con Rick Salomon, un giocatore di poker professionista noto per aver realizzato un film porno con Paris Hilton. A distanza di quasi tre mesi, lei lo lasciò dopo che la sua assistente aveva trovato una pipa da crack nell’albero di Natale.

Ritorno alla normalità. Apparente

«Sono consapevole dei miei frequenti matrimoni; volevo soltanto ricreare una famiglia per i miei figli. Ma non permetterò più a nessuno di abusare di me; non voglio che i miei figli pensino che sia una cosa normale». Dopo tutti quei fidanzati e mariti famosi, Dan Hayhurst, un costruttore locale, costituiva un’eccezione all’insegna della normalità. «Ma è andata peggio che con tutti gli altri. Mi sono detta: oddio, cosa sto facendo? Come ho fatto a cacciarmi in questa situazione? Ho aperto gli occhi e ho capito che era l’ennesimo fallimento». All’inizio di gennaio dello scorso anno, Anderson disse a Hayhurst che sua madre era appena risultata positiva al Covid e che di conseguenza doveva sottoporsi al test a sua volta; in questo modo, il marito avrebbe dovuto trascorrere la notte in uno degli altri cottage. A quel punto telefonò al suo assistente, un arredatore d’interni del posto («probabilmente l’unico ragazzo gay di Ladysmith», scherza lei) e gli chiese di andarla a prendere assieme al suo golden retriever alle 5 del mattino. «Ce ne andiamo da qui». Si diressero a Los Angeles, dove intendeva restare appena un mese, ma Hayhurst «non se ne voleva andare». Nonostante l’accordo prematrimoniale, alla fine dovette pagarlo perché lasciasse la casa. Non ho mai incontrato una celebrità così poco interessata al denaro.

«Non ne ho mai messo da parte. Venivo sempre citata in giudizio per tutto ciò che avevo. È tutta la vita che mi chiamano in causa». L’autobiografia è stata un’idea dei suoi figli. Brandon, che oggi ha 26 anni, ha lavorato come modello e attore, ha partecipato a un reality show e ha lanciato una linea di abbigliamento; anche Dylan, che di anni ne ha 25, ha lavorato come modello, si occupa di musica e di commercio di criptovalute. L’indifferenza della madre verso il denaro li manda su tutte le furie. «Non riescono a capire quella sorta di fiducia nell’universo che ho io. Ha sempre fatto incazzare tutti quelli che mi stavano attorno. Eppure a me piace questo alone di mistero, per il semplice gusto di stare a vedere che succede. Sono sempre fiduciosa al cento per cento che qualcosa di bello stia per accadere».

Il fascino del teatro

Gli ultimi 12 mesi sembrano aver confermato questa sua filosofia. All’inizio dell’anno scorso, di punto in bianco, le fu offerto il ruolo di Roxie nel musical Chicago a Broadway. Priva di esperienze teatrali, e con solo sei settimane di prove prima di lanciarsi in questa serie di otto spettacoli settimanali per otto settimane, per lei si è trattato di un’impresa estremamente ardua, ma anche di un grande trionfo. «Volevo proprio mettermi alla prova. Desideravo anche mostrare ai miei figli di essere brava in qualcosa». Durante la standing ovation nella serata di apertura, è riuscita a percepire lo sguardo di Dylan su di sé. «Ho pensato che era probabilmente la prima volta che mi guardava con orgoglio». Brandon ha partecipato alla produzione di Pamela, a Love Story , un documentario Netflix sulla vita della madre. Anderson gli è grata per aver risanato le sue finanze. «È un angelo, ha rivoluzionato ogni cosa, ora sono a posto per il resto dei miei giorni». Dopo la separazione da Hayhurst, non è mai rimasta single così a lungo, ed «è stato il più bel periodo della mia vita. Non penso di essere più tagliata per le relazioni, ormai».

Compagnia ad Assange

L’unico uomo sul quale mantiene un certo riserbo è Julian Assange. Anderson faceva regolarmente visita al fondatore di WikiLeaks mentre era rintanato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, e scrive di «una notte insieme piuttosto vivace, divertente, sotto i fumi dell’alcol». Non ha mai confermato la vera natura della loro relazione e, quando le chiedo se fosse una storia romantica, ridacchia: «No. Beh, niente di serio». Oggi il rapporto più impegnativo cui Anderson deve far fronte è quello con la madre. Ha convinto i genitori, tuttora insieme, a vendere la loro casa e a trasferirsi nella sua proprietà, immaginandosi che «avremmo vissuto lì tutti insieme, felici. Ma, com’è che si dice... parenti serpenti, giusto? Tra me e mia madre era un continuo botta e risposta di dispetti». La madre ha letto la sua autobiografia e non ne è rimasta contenta. Dopo tre ore trascorse insieme, le chiedo se esista qualcuno che l’abbia mai trattata con assoluto rispetto. Ci pensa su. «Hugh Hefner», risponde.

Federica Bandirali per corriere.it il 12 febbraio 2023.

Nel corso degli anni è diventata un’icona. Sotto tanti punti di vista: Pamela Anderson è una modella, una star dello schermo e un'attivista che è stata un nome familiare per decenni. Ora è il momento di vedere Pamela sotto una luce completamente nuova mentre torna nella proprietà della sua famiglia sull'isola di Vancouver per restaurare, progettare e stabilirsi nella casa (che era di sua nonna). Il tutto in una docu-serie dal titolo “Pamela's Garden of Eden”.

 Ritorno alle origini

Pamela viene dalla pittoresca cittadina della costa occidentale, Ladysmith. Ladysmith è una piccola città (con una popolazione inferiore a 9.000 abitanti) che dispone di un incantevole lungomare. Loyal Homes lo descrive come un luogo ideale per gli investitori immobiliari grazie agli splendidi paesaggi e alle affascinanti fette del lungomare. In“Pamela's Garden of Eden”, la star fa il suo trionfante ritorno a Ladysmith, per rinnovare la proprietà che ha acquistato 25 anni fa.

Vegetariana sin da quando era un'adolescente (anni prima che le diete a base vegetale diventassero popolari), Pamela vive da decenni uno stile di vita vegano.

Pamela è una schietta sostenitrice dei diritti animali e ambientali. Ha collaborato con PETA a numerose campagne, inclusa la campagna "Tutti gli animali hanno le stesse parti" per fermare il traffico di animali. Ha fondato la Pamela Anderson Foundation che serve a proteggere il pianeta sostenendo “organizzazioni e individui che sono in prima linea nella protezione dei diritti umani, animali e ambientali”.

L'impero di Pamela non si limita solo ai suoi crediti cinematografici e televisivi. Ha anche pubblicato diversi romanzi ispirati alla sua vita e alle sue esperienze, tra cui la sua autobiografia “Love”, “Pamela” e una serie di libri per bambini.

Pamela è ancora una volta un'icona di stile anche per la Generazione Z che ha trovato ispirazione dal suo look biondo platino, sopracciglia sottili e labbra scure. Posa spesso per servizi fotografici internazionali

 Il 20 gennaio 2020 con una cerimonia privata a Malibù, Pamela Anderson ha sposato il produttore cinematografico Jon Peters, 74. Si tratta del quinto matrimonio per entrambi. Ma il sogno è durato poco: i due si separano dopo 12 giorni. «Ci prendiamo del tempo a parte per rivalutare ciò che vogliamo dalla vita e l’uno dall’altra» aveva dichiarato all’Hollywood Reporter la bagnina più famosa del mondo.

Pamela Anderson ha ammesso in diretta tv, nel 2009, di aver sniffato cocaina in passato. Una rivelazione shock che ha colpito tutti anche il presentatore dello show, il britannico Jeremy Kyle. L'ex playmate aveva raccontato davanti all'occhio indiscreto delle telecamere il suo periodo di vita più difficile alle prese con la droga e l'alcool.

Pam e Tommy” è la serie TV che sta andando in onda su Disney+ e racconta l’amore di Anderson e Tommy Lee, primo marito. Pamela Anderson e Tommy Lee si conobbero il 31 dicembre del ’94, in un locale di Los Angeles dov’erano andati a festeggiare con gli amici l’arrivo del nuovo anno. Si racconta che Lee rimase estasiato dalla bellezza di Pamela. All’epoca lui aveva 32 anni e la sua carriera era in stallo, mentre la Anderson, 21, stava sbocciando come attrice e personaggio televisivo.Il matrimonio di Pam e Tommy si celebrò il 19 febbraio 1995 sulla spiaggia di Cancun, alla presenza di sole otto persone. Anche il look degli sposi è passato alla storia: lei indossava un bikini bianco e nient’altro, mentre lui un paio di bermuda dello stesso colore.

Da movieplayer.it il 13 Gennaio 2023.

L'ex star di Baywatch nonché icona di sensualità degli anni '90 Pamela Anderson ha deciso di parlare in maniera molto aperta dell'ormai celebre sex tape con Tommy Lee, diventato anche oggetto di una serie TV per Hulu dal titolo Pam & Tommy. Pamela Anderson ha voluto raccontare la sua versione della storia ai microfoni di CBS.

 "Si trattava di proprietà privata e poi rubata. Era un video con due persone nude che si amavano. Voglio dire, eravamo sempre nudi, facevamo cose stupide e ci riprendevamo per tutto il tempo, ma quel filmato era inteso soltanto per noi e non sarebbe dovuto finire in rete. E ad oggi non ho avuto il coraggio di guardarlo perché mi ha fatto molto male".

L'attrice ha poi spiegato che a salvarla dal suo periodo buio sono stati i figli: "Ero una madre e questo mi ha salvato. Se non lo fossi stata non penso sarei sopravvissuta".

 Il 31 gennaio arriverà su Netflix Pamela, a love story, documentario che racconterà gran parte della vita della star, partendo dalla sua infanzia nella piccola cittadina di Ladysmith, nella British Columbia, passando per le prime esperienze come modella e attrice, arrivando alla maternità, all'attivismo e alla sua sempre turbolenta ricerca dell'amore.

Le informazioni arrivano direttamente dalla protagonista del documentario, in quello che sarà indubbiamente un evento senza precedenti. La serie è prodotta da Jessica Hargrave, Julian Nottingham e Brandon Thomas Lee, il figlio maggiore di Anderson e Tommy Lee. La regia è invece affidata a un nome già noto nel settore del documentario, Ryan White, già creatore della docuserie Netflix The Keepers.

Pamela Anderson confessa: «Tommy Lee è il solo uomo che abbia mai amato davvero». Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 27 Gennaio 2023.

L’ex bagnina di Baywatch e il batterista dei Motley Crue sono stati sposati dal 1995 al 1998, quando lui è stato arrestato e condannato a 6 mesi per violenza domestica. La rivelazione arriva nella serie Netflix «Pamela, A Love Story», in uscita dal prossimo 31 gennaio

Si è sposata sei volte, ha divorziato quattro e ha avuto due annullamenti, ma Pamela Anderson ha amato davvero un solo uomo nella sua vita: il batterista dei Motley Crue, Tommy Lee, padre dei due figli Brandon e Dylan (rispettivamente 26 e 25 anni). La rivelazione arriva nella docu-serie «Pamela, A Love Story», in uscita su Netflix dal 31 gennaio (in contemporanea al suo libro di memorie «Love, Pamela»), dove l’ex star di Baywatch si è raccontata senza reticenze, offrendo alle telecamere l’accesso completo ai suoi video privati e ai suoi diari personali.

«Ho amato realmente tuo padre per tutte le giuste ragioni e non credo di aver davvero amato qualcun altro», confessa la Anderson al figlio Brandon in un’anticipazione della serie, pubblicata dal Daily Mail. Dopo il matrimonio-lampo su una spiaggia di Cancun, in Messico, alla fine di quattro giorni di corteggiamento (la prima notte insieme fu anche quella in cui lei provò l’ecstasy per la prima volta), Pam e il batterista sono rimasti legati dal 1995 al 1998, quando lui è stato arrestato e condannato a sei mesi di carcere per violenza domestica.

«Quello che era diverso con Tommy era che non c’erano segreti, inganni o giochetti - continua Pamela - . Il nostro era solo un amore esplosivo. Non sapevamo nulla l’uno dell’altra e finì per essere uno degli amori più selvaggi e belli di sempre». Alla nascita del primogenito cominciarono però i primi segnali d’allarme nel comportamento di Lee che una volta le distrusse la roulotte solo per averla vista baciare un attore per esigenze di copione sul set di «Baywatch». Le liti diventarono sempre più numerose e furibonde, fino all’ultima del 1998, che segnò la fine del matrimonio.

«Continuava a ripetere “rivoglio mia moglie, rivoglio mia moglie” e io non sapevo cosa fare - ricorda oggi la Anderson - . Gli urlai di crescere e che non si trattava più solo di lui. Non gli avevo mai parlato così in vita mia, non lo riconoscevo. Mi ha strappato di dosso Brandon e ha sbattuto me e Dylan contro un muro, così ho chiamato il 911». Dal carcere il batterista le ha inviato tonnellate di lettere, supplicandola di perdonarlo e di tornare insieme. Ma la Anderson, seppur con il cuore a pezzi, non ha ceduto.

«Non ho mai amato nessuno tanto profondamente e sento che una parte di me è morta. Penso che tutto si riduca al fatto che non ho mai superato di non essere stata in grado di far funzionare la storia con il padre dei miei figli. Pensavo di poter ricreare una famiglia o innamorarmi di qualcun altro, ma non è andata così e credo che probabilmente sia per questo che continuo a fallire in tutte le mie relazioni», conclude l’attrice, il cui ultimo matrimonio con il costruttore canadese Dan Hayhurst non è durato nemmeno il tempo di far asciugare l’inchiostro sui documenti.

Giulia Zonca per lastampa.it il 2 Febbraio 2023.

C’è una Pamela Anderson dentro ognuno di noi, […] quel filo di pamelitudine diventa evidente, pulsante, davanti a «Pamela, a love story», l’ultima biopic di Netflix. È l’ennesima volta in cui la donna diventata famosa grazie al seno rifatto (calmi, lo dice lei), si racconta. […]Sentro queste due ore spiazzanti, c’è quel che non ti aspetti.

 E pure quello che spiega perché un’attrice che non ha mai recitato, una show girl che non ha avuto uno spettacolo, una moglie seriale che non ha avuto amori di cui andare fiera, si è tenuta addosso ogni etichetta che le hanno appiccicato sopra. Che si è messa addosso da sola, per semplificarsi l’esistenza. Invece di strappare le definizioni stonate, le ha stratificate. Fino ad averne così tante da non essere più tracciabile.

In teoria è un personaggio ovvio: la dea del sesso, la bomba bionda, la superstar della corsa al rallentatore, il sogno californiano. Le descrizioni scorrono sulle copertine patinate e nelle presentazioni dei talk show, montate in serie nei primi minuti del racconto. […] Qualsiasi eccesso è sorpassato e nessuno viene rinnegato: «Le mie tette hanno fatto carriera, io le ho solo accompagnate», una battuta meravigliosa e la chiave che libera la pamelitudine. 

Ha posato nuda per Playboy e ha lasciato che il suo corpo parlasse per lei, ha puntato tutto su un bene che difficilmente perde valore, le tette appunto […]: ciò che sappiamo di Pamela Anderson è in realtà ciò che non ci riguarda. Il video porno rubato dalla casa che condivideva con l’ex marito rocker Tommy Lee l’ha segnata eppure non dice molto di lei, parla più di noi. 

[…] Anderson si sposa plurime volte, si accoppia di continuo con uomini che a turno diventano o violenti o insofferenti e sa persino il perché: «Se ti aspetti una donna e te ne trovi vicina un’altra si fa difficile». Nonostante ciò si lascia essere: nozze con Tommy Lee dopo quattro giorni di conoscenza, sulla spiaggia di Cancún. […] Mezza ubriaca, mezza strafatta, confessa di ecstasy e bagordi come se fosse il resoconto di un sogno bislacco di cui si stufa senza riuscire a svegliarsi. […]

La bomba bionda sorride davanti alle disavventure ineluttabili: è un fumetto, sexy quanto volete, ma di un’autoironia che andrebbe insegnata a qualsiasi adolescente per la sopravvivenza quotidiana in un mondo social. […]

 Ripete quello che la maggioranza della gente pensa e nulla ha più peso: gli strati di etichette proteggono dall’imbarazzo, dal fastidio, foderano, rimbalzano gli sguardi indigesti. Il documentario è un invito a non toglierle. […] Bisogna solo avere stima di se stessi e non leggerle. Basta coltivare almeno un filo di pamelitudine. Anche in assenza di tette

Estratto dell’articolo di Andrea Ossino per “la Repubblica – ed. Roma” il 2 febbraio 2023.

«Il bambino spacciato per Sebastian era mio figlio» . Tra il surreale e l’illegale va in scena la prima udienza che riguarda il finto matrimonio e l’inesistente promesso sposo di Pamela Prati, corredato da altrettanto simulato figlio [...] il marito immaginario e il suo fantomatico figlio hanno portato a processo le due agenti della Prati, Eliana Michelazzo e Pamela Perricciolo. Il pm Mario Pesci le accusa di sostituzione di persona. Perché il piccolo e l’uomo da un giorno all’altro hanno scoperto di essere stati spacciati per figlio o promesso sposo.

«Il tutto è avvenuto per dare un volto al presunto promesso marito della signora Prati per confermare una storia poco credibile » , ha denunciato l’imprenditore che, suo malgrado, si è trovato a interpretare il ruolo di tale Mark Caltagirone. A lui è stata rubata una foto dal profilo social: «Era un selfie con mia figlia che avevo fatto e postato per la festa del papà».

È andata peggio al piccolo Sebastian, come è stato ribattezzato il figlio della parrucchiera di una delle due agenti, che dopo aver prestato il suo volto a una fiction televisiva è stato bollato come il figlio dell’inesistente Mark Caltagirone. « Quello che credevamo fosse il copione di una fiction in realtà era il materiale utilizzato per creare il finto bambino in affido nel caso della signora Pamela Prati e del suo fidanzato Mark Caltagirone » , denuncia la mamma

[…]

Arriva in aula il processo Mark Caltagirone: imputate le due agenti della showgirl Pamela Prati. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Febbraio 2023

Nel capo di imputazione a carico della Perricciolo e la Michelazzo firmato dal pm Mario Pesci si legge: "In concorso tra loro, al fine di avvalorare la falsa notizia di un matrimonio imminente tra la nota soubrette Pamela Prati e un fantomatico Mark Caltagirone e, di conseguenza, di promuovere, quali agenti della Prati la sua partecipazione a spettacoli e trasmissioni televisive e la sua presenza su giornali e rotocalchi"

La pagliacciata sull’esistenza di Mark Caltagirone, il fantomatico inesistente promesso sposo di Pamela Prati, è finalmente arrivata nelle aule di giustizia per sfociare in un vero processo. Ieri all’interno dell’aula 21  del Tribunale penale monocratico di Roma , si è tenuta la prima udienza che vede imputate per sostituzione di persona Pamela Perricciolo ed Eliana Michelazzo, entrambe ex socie della Aicos Management ed ex manager della showgirl del “Bagaglino”, accusate entrambe di essere le responsabili di una invenzione creata esclusivamente per scopi pubblicitari e come si suol dire in quegli ambienti “fare cassa”.

Nel capo di imputazione a carico della Perricciolo e la Michelazzo firmato dal pm Stefano Pesci si legge: “In concorso tra loro, al fine di avvalorare la falsa notizia di un matrimonio imminente tra la nota soubrette Pamela Prati e un fantomatico Mark Caltagirone e, di conseguenza, di promuovere, quali agenti della Prati la sua partecipazione a spettacoli e trasmissioni televisive e la sua presenza su giornali e rotocalchi, sostituivano a più riprese la persona di Marco Di Carlo a quella di Mark Caltagirone, personaggio di fantasia appositamente creato, utilizzando ripetutamente per rappresentare le sembianze di Caltagirone, immagini di Di Carlo“.

Ma non solo. Infatti per rendere ancora più credibile ed avvalorare questa farsa, le due agenti hanno utilizzato anche l’immagine di un bambino, a insaputa dei suoi veri genitori. Secondo l’accusa della Procura capitolina che si basa sulle indagini della Polizia di Stato, la Perricciolo e la Michelazzo, “sostituivano a più riprese la persona del minore Simone N. a quella di un ipotetico figlio del fantomatico Mark Caltagirone a nome Sebastian, utilizzando ripetutamente, per rappresentare le sembianze di Sebastian, immagini e video del piccolo Simone“. 

L’avvocatessa Anna Beatrice Indiveri difensore di Pamela Perricciolo ( che non si è presentata in aula) ha chiesto per la sue assistitala la disponibilità a prestare servizio presso la Croce Verde di Fermo, ma il pm si è opposto e il giudice si è riservato sulla decisione, che non arriverà prima di settembre, quando si terrà la prossima udienza. Presente, invece, Eliana Michelazzo che, fuori dal tribunale di piazzale Clodio, ha parlato con le telecamere di “Pomeriggio Cinque“: “Sono contenta di essere venuta perché voglio metterci la faccia – ha detto -, sono una vittima di questa storia. Anche Pamela Perricciolo vittima? Direi di no, per quello che so io è stato tutto fatto da lei”. La Michelazzo non si è sbilanciata su Pamela Prati: “Lei è vittima al 50% – ha aggiunto -. Vorrei che fosse fatta giustizia perché c’è di mezzo un minore e, anche oggi, ho visto i genitori del ragazzo molto tesi“. 

Mario Di Carlo, 49enne di Milano, è l’uomo a cui è stato attribuito il volto dell’inesistente Mark. Nella vita reale Di Carlo è titolare di una società di media marketing e management la “M Group srl”, attiva nel mondo dello spettacolo. Il 30 maggio 2019 Di Carlo ha presentato una querela: cinque giorni prima era stato contattato dal giornalista Umberto Brindani, direttore del settimanale “Oggi”, e da Cristina Nutrizio, autrice del programma “Live” condotto da Barbara D’Urso che sulla vicenda ci ha costruito ul palinsesto televisivo . “Mi comunicavano di avere in mano la fotografia mostrata nella trasmissione “Verissimo” (andata in onda l’11 maggio 2019) dalla signora Pamela Prati alla conduttrice del programma. Silvia Toffanin, dove il soggetto spacciato per tale Mark Caltagirone, ero io, ritratto in auto con mia figlia più piccola in un selfie che avevo fatto e postato per la festa del papà“. 

Preciso che avevo conosciuto anni addietro la signora Prati, ma non l’avevo mai frequentata”, continua nella querela il Di Carlo l’altra vittima di questa messa in scena. “Il tutto è avvenuto scientemente per dare un volto al presunto promesso marito della signora Prati. A fronte del guadagno e della visibilità mediatica ricevuta dalle due agenti, vi è il danno che ho subito: leso nella mia privacy ed esposto ai media al culmine finale della triste vicenda, come il fantomatico Mark Caltagirone“.

Una seconda querela è stata presentata nei primi giorni di giugno del 2019 dai genitori di Simone, il bambino “spacciato” dalla Perricciolo e la Michelazzo, per Sebastian, figlio dell’inesistente promesso sposo della soubrette. “Abbiamo scoperto che quello che credevamo fosse il copione di una fiction in realtà altro non fosse se non il materiale utilizzato per creare il finto bambino in affido nel caso della signora Pamela Prati e del suo fidanzato Mark Caltagirone”. La mamma del piccolo Simone aveva conosciuto nel 2012 la Perricciolo e la Michelazzo , quali clienti del parrucchiere dove lei lavorava. “Mentre guardavo una puntata di un programma condotto dalla signora D’Urso, sentivo della vicenda della signora Prati e di questi due bambini affidati al suo fidanzato. Sorpresa per le correlazioni tra il copione dato da una delle agenti a mio figlio, chiedevo alla Perricciolo, tramite un messaggio Whatsapp, se mio figlio c’entrasse qualcosa con la vicenda Prati. Lei diceva di no”. Ed invece avevano coinvolto questo povero bambino ignaro in questa volgare sceneggiatura da teatrino mediatico. 

Il processo riprenderà l’11 settembre. Redazione CdG 1947

Da open.online l’11 gennaio 2023.

Pamela Villoresi, 66 anni, attrice, è attualmente la direttrice del Teatro Stabile Biondo di Palermo. Oggi in un’intervista a la Repubblica parla delle molestie subite sul lavoro dopo le denunce dell’Associazione Amleta.

 «A 15 anni ero una ragazza molto carina. I produttori mi ascoltavano per due minuti e poi facevano: si spogli. Una volta uscii dall’incontro e ne denunciai uno alla polizia. A 16 anni un produttore di film pornografici mi aveva abbordata al festival di Spoleto per recitare nelle sue pellicole. Gli detti appuntamento al giorno dopo e ci tornai con una poliziotta in borghese. Però ho trovato più fastidioso e umiliante altro».

 Il mee too e Amleta

Ovvero, spiega Villoresi, «in Rai per anni i funzionari erano costretti a imporre le favorite dei politici di turno e venivamo fatte fuori noi attrici scelte dai registi. E accade ancora. Solo qualche anno fa ho perso la parte così con un regista molto bravo ma molto giovane. Non si capisce perché tutte queste favorite non vogliano aprire una macelleria ma preferiscano tutte fare le attrici».

 E l’attrice rivela: «Non sono stata creduta a lungo nemmeno da vittima di un maniaco per anni, intorno al ‘75. La polizia mi chiedeva di andare col registratore a portare le prove, ma avevo paura di incontrarlo da sola». La storia è finita così: «Dopo sette-otto anni un prefetto finalmente diede ascolto a un’attrice e il maniaco fu preso. A casa sua c’erano le foto mie e di altre attrici. Poteva ammazzarci».

Il momento più difficile è stato quando «tra mezzanotte e le due squillava il telefono, e le frasi erano: “Una di queste notti ti accoltello puttana”. Vivevo in una casetta di campagna dove con un calcio si tirava giù la porta. La lasciai per andare in città, dove alla polizia mi dicevano picche. Forse il Me Too in America ha avuto più eco perché c’era più ascolto, ora però Amleta sta facendo un lavoro eccezionale».

Daniele Priori per “Libero quotidiano” - Estratti mercoledì 22 novembre 2023. 

Non è poi la fine del mondo. È questo il titolo del libro, edito da Sperling&Kupfer, nel quale la showgirl Paola Barale affronta il tema della menopausa, fase della vita nella quale la donna ha raccontato di essere entrata precocemente, a 42 anni. Un tabù alimentato secondo Barale «soprattutto da quelle donne che oggi mi chiedono di smettere di parlarne». 

(...) Libro e non solo per la Barale che dal 2024 tornerà in tv con Tilt e La pupa e il secchione e, a primavera, partirà con una tournée teatrale. 

(...) Lei Paola, parla in maniera libera. Questo fa star bene le sue lettrici ma credo anche i suoi lettori.

«Il mio obiettivo con questo libro, anche se non sono un’autrice, è proprio quello di sfatare tabù, abbattere pregiudizi, iniziare un dialogo. E ci sto riuscendo. Grazie a questo libro ho avuto una telefonata con mio padre di 86 anni. All’inizio lui che resta sempre il mio primo grande critico, mi ha sottolineato come mi fossi spinta un po’ in là ma poi mi ha raccontato anche cose intime di quando la mamma è andata in menopausa. Gli ho fatto notare che era la prima volta che ne parlavamo».

Oggi davvero una donna è così libera di andare a passeggio al sexy shop in pieno centro a Milano senza essere giudicata?

«Io mi sento libera di farlo e lo faccio. Quella di cui parlo nel libro è una boutique fetish dove si possono comprare oggetti sextoys, biancheria, lubrificanti vari. È come entrare in una boutique normale. Ogni volta che vado c’è sempre moltissima gente. L’ultima volta c’era un ragazzo che sceglieva un completino per la sua donna. Dipende sempre dal significato che si dà alle cose. Certi oggetti, poi, se fatti bene, con belle forme, laccati possono diventare anche oggetti d’arredamento. Se questo aiuta a vivere una sessualità più libera e consapevole che ben venga». 

Lo stigma sulle donne in menopausa, secondo lei, viene più dal mondo maschile o più da quello femminile?

«Ci sto riflettendo anche alla luce degli ultimi fatti di violenza. Si stanno demonizzando gli uomini che, è vero sono i principali autori dei femminicidi. Non bisogna però cadere nella trappola di demonizzarli tutti. Ma indagare sulle cause. Perché, ad esempio, in quest’epoca di politically correct, non si possono più fare battute su nulla tranne che sull’età delle donne. 

Penso poi al bullismo degli adolescenti che hanno pubblicato foto sexy delle loro coetanee, arrivate a volte anche a togliersi la vita. Ma anche ai settimanali e ai siti che pubblicano le foto di donne nude rubate dai paparazzi. Che esempi si danno? Quello che manca in tutti i casi è il rispetto minimo della persona». 

Lei nel libro ha parlato anche di una sua esperienza legata all’aborto...

«E sono stata attaccata proprio dalle donne. Ma ognuna, credo, debba essere libera di decidere. Ho semplicemente detto questo. Si può non essere favorevoli all’aborto ma attaccarmi come una che uccide i bambini, no. Io al massimo uccido le zanzare e già mi dispiace. Questo mi ha fatto capire come i social stiano facendo un lavoro opposto a quello che servirebbe».

Ci racconti dei suoi inizi come valletta di Mike Bongiorno.

«In realtà ho iniziato ancor prima come Littorina in Odiens di Antonio Ricci con Ezio Greggio e Lorella Cuccarini. Eravamo ballerine con reggiseni a balconcino che mettevano tutto in evidenza e costumi fascisti. Pensi un po’... Oggi avrebbero problemi ad andare in onda anche le ragazze cin cin di Umberto Smaila». 

Lo sa che tornerà La Ruota della Fortuna con Gerry Scotti?

«Sono molto felice. Mike è inimitabile e non ha eredi ma credo che Gerry abbia la capacità e anche la popolarità giusta per raccogliere quello che era il pubblico di Mike».

Estratto dell’articolo di Simona Griggio per ilfattoquotidiano.it mercoledì 15 novembre 2023.

“Non e la taranta, e la menopausa, la seconda fioritura, la bellezza senza giovinezza”, Paola Barale sorride quando invita tutte le donne a vivere questa fase fisiologica della vita con serenità. Ma anche con la consapevolezza che oggi esistono esami e cure che possono davvero accompagnare questa tappa femminile su cui ancora incombono pregiudizi e tabù. 

Lo fa dalla sala stampa della Camera dei Deputati. Dove oggi 15 novembre, con Martina Semenzato presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza genere, presenta il suo libro “Non è poi la fine del mondo” (Sperling & Kupfer). Un racconto in prima persona sulla sua esperienza di menopausa precoce che accompagna la mozione di legge presentata alla Camera dei Deputati il 13 ottobre.

[…] L’attrice e conduttrice, che ora ha 56 anni, è in menopausa precoce da quando ne aveva 42. Con ironia e leggerezza nel suo libro ripercorre una vicenda personale complessa, comune a molte donne. Per abbattere i tabù e i pregiudizi che ancora circondano l’ingresso in questo nuovo ciclo dell’esistenza femminile: “No. Non si esce dal club – ironizza – non si è meno attraenti, meno desiderate e desiderabili. Questo è solo ciò che accede dentro la nostra testa”. 

Paola Barale, cosa ha significato per lei la menopausa?

“Per me è stata uno choc. Avevo 42 anni quando il ginecologo mi ha mandato il messaggino sui risultati delle analisi. Ricordo che ero in fila alla biglietteria di Machu Picchu e ho letto in quell’esatto momento la frase: ‘sei entrata in menopausa’. Da allora, ogni volta che vedo passare in televisione un documentario su Machu Picchu penso a una cosa soltanto, il mio ingresso in menopausa. Peraltro davvero precoce.

Lei non ha figli: cosa ha comportato sapere che non ne avrebbe più potuti avere?

Uno dei temi più importanti della menopausa […] è quello della gravidanza. Io non ho mai voluto figli, e stata una scelta ben precisa. Ma quando vieni a sapere che non potrai più averli, ebbene, ti destabilizza. Almeno inizialmente. Poi una donna ci riflette e razionalizza. Alla fine ho pensato: ma se non li volevo prima che faccio, li voglio adesso solo perché non posso? 

Perchè ha sentito l’esigenza di scrivere un libro sul tema della menopausa?

E’ nato come progetto collettivo a più voci. Nel libro parlano anche amici ed esperti, infatti. Quando mi sono accorta che parlando di menopausa in un programma televisivo le donne mi scrivevano del loro disagio come se avessi dato una notizia bomba ho capito che dovevo mettere a disposizione la mia esperienza personale. […] 

Conosce il motivo della sua menopausa precoce?

Ho avuto un fortissimo stress. Ho perso la mia migliore amica di infanzia e quando è mancata mi si è bloccato il ciclo. Non è mai più tornato. Ma ho deciso […] di aderire alla terapia ormonale sostitutiva che seguo ancora oggi. Penso a tutte quelle donne, persino trentenni, che vanno in menopausa precoce per malattia tumorale o per altri motivi e mi convinco sempre di più che ci sia tanto da fare per loro. Per farle sentire ancora donne a tutti gli effetti. Anche alle 50enni consiglio di approcciarsi a questa fase con l’idea di entrare in una nuova femminilità. Più consapevole. 

Si parla spesso di calo del desiderio sessuale connesso alla menopausa…

Ci sono tanti pregiudizi. A livello ormonale è ovvio che quando sei fertile è diverso. Ma oggi ci sono cure sostitutive e alternative. Nel libro spiego come, per esempio, far diventare un lubrificante contro la secchezza vaginale un gioco erotico per la coppia. Insomma, dalla foresta pluviale alla Savana arida si può trovare un equilibrio. E bisogna spiegare ai maschi che il desiderio in una donna non perché deve fare ii conti con qualcosa di tangibile, la mancanza del ciclo. 

La sua vita sessuale è felice a 56 anni?

E’ molto vitale. Lo è sempre stata. Alla mia età però si arriva a una consapevolezza diversa che permette di vivere la sessualità con maggiore selezione. Non è certo la ‘tartaruga’ a farmi eccitare. Ma questo è un percorso naturale di crescita. Con il passare degli anni quel tipo di approccio solo fisico diventa sempre più impegnativo, Finché cominci ad abbassare le luci di tutte le stanze di casa. Ormai siamo all’anticamera del buio pesto (ride, ndr). 

Quali tabù ancora da combattere?

Il primo tabù da sfatare è proprio questo: menopausa uguale a vecchiaia. La menopausa è solo una fase di cambiamento e di nuova consapevolezza. Una rinnovata bellezza che deve essere sostenuta con azioni concrete: esercizio fisico, alimentazione, autostima. Per chi lo desidera esiste il ricorso alla terapia ormonale. 

Come si è preparata alla stesura del suo libro?

Per prima cosa sono andata in libreria alla ricerca di qualche ispirazione. Ma il tema era sempre lo stesso: vivere la menopausa con serenità in tanti manuali dalle copertine smunte, verdine, gialline, rosine, bruttine. Per donne rassegnate. […] Ho pensato che non né così. Che non è la fine del mondo. Non è un lutto. […]Ripeto: non siamo fuori dal club! 

Secondo lei gli uomini capiscono?

Gli uomini non devono fare i conti con una data precisa. Ma il loro percorso è uguale. Anche loro hanno squilibri. Non avranno le caldane ma condividono altre problematiche. Non vorrei citare il Viagra!

La cena, i viaggi, il tradimento: la storia d’amore tra Raz Degan e Paola Barale. La storia d'amore tra Raz Degan e Paola Barale è durata 13 anni, dall'incontro a una cena nel 2002 all'addio con un annuncio su Facebook nel 2015. Novella Toloni il 30 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L'incontro a una cena

 La fuga a Bali lontano dai gossip

 La cocaina e le accuse

 Il giro del mondo lontano dalla tv

 Il ritorno in tv a Buona domenica

 L'ennesima fuga dall'Italia

 Il tradimento con Kasia Smutniak

 La crisi e il ritorno in televisione

 L'annuncio su Facebook: "E' finita"

 L'Isola dei famosi e il ritorno di fiamma

La storia d'amore tra Paola Barale e Raz Degan è stata una delle più chiacchierate degli anni Duemila. Lei showgirl di successo, lui modello israeliano dal cuore gitano si incontrano ed è subito passione. Insieme gireranno il mondo rifuggendo la curiosità del pubblico e i paparazzi fino alla crisi dovuta a un tradimento, che ha incrinato per sempre il rapporto conclusosi definitivamente nel 2015.

L'incontro a una cena

È il 2002 e Paola Barale e Raz Degan si conoscono già. Non sono due sconosciuti e la loro fama li precede. Ma il vero incontro, quello che li legherà per oltre un decennio, avviene nella primavera del 2002. Paola è fresca di separazione da Gianni Sperti (con il quale è stata sposata tre anni) ma dal punto di vista professionale la Barale vive un momento d'oro. Affianca Baudo nello show "Numero Uno", conduce "Un disco per l'estate" e è nel cast di "Quelli che il calcio". Una sera viene invitata a cena da alcuni amici e al tavolo si trova accanto a Raz Degan. Il modello israeliano le parla per tutta la sera di una dj inglese della quale si è perdutamente innamorato e Paola lo ascolta. Raz rimane comunque affascinato dalla showgirl e a fine serata si scambiano i numeri. È l'inizio di una frequentazione che i due, però, non vogliono chiamare relazione.

La fuga a Bali lontano dai gossip

Raz odia i cliché e definirsi "fidanzato" non lo entusiasma. Lui e Paola si dichiarano sono amici e viaggiano molto. La coppia decide di volare a Bali per concedersi un viaggio avventuroso tra giungla, cultura e mare lontano dalle attenzioni indiscrete della stampa, che però li insegue. Nell'estate del 2002 escono le prime foto di Paola e Raz che amoreggiano sotto le palme della Thailandia e in Italia scoppia il caso. Ospite di Mara Venier a "Domenica in" subito dopo l'estate, Paola rivela: "Mi ero già separata da mio marito, ma non volevo rendere pubblico queste cose. Mi è dispiaciuto per lui anche se ci eravamo lasciati di comune accordo".

La cocaina e le accuse

Durante la loro prima estate insieme, però, succede anche uno spiacevole episodio che li fa finire al centro della cronaca. La coppia si trova all'isola d'Elba nella casa presa in affitto dalla showgirl insieme ad alcuni amici e nell'abitazione, durante un sopralluogo della polizia, vengono trovati alcuni grammi di cocaina. La droga appartiene a una persona della comitiva. "Sono abituata a fidarmi delle persone come potevo sapere che uno di loro ce l'aveva. La cosa è stata ingigantita", racconterà mesi dopo Paola a "Domenica in". Ma intanto la coppia finisce a processo e verrà prosciolta dalle accuse solo anni dopo.

Il giro del mondo lontano dalla tv

Paola Barale decide di seguire Raz in giro per il mondo mettendo da parte la sua professione. Nel 2003 conduce solo "Un disco per l'estate" poi lascia l'Italia per mesi per viaggiare con Degan in Oriente e Sudamerica. Durante i lunghi mesi lontani dall'Italia Paola e Raz raccolgono materiale video per realizzare il loro primo docu-reality - "Film privato" che nel 2004 viene trasmesso da Italia Uno - che vuole raccontare la loro vita lontano dai riflettori tra viaggi esotici e passione.

Il ritorno in tv a Buona domenica

La vita da gitana non si addice a Paola Barale che, dopo due anni di lontananza dalla televisione, decide di tornare sul piccolo schermo come presenza fissa di "Buona Domenica" su Canale 5. Tra il 2005 e il 2006, Paola torna ad allietare il pubblico con la sua verve e la sua professionalità e recita anche nel cortometraggio "Broadcast" di Laura Chiossone. Alla prima della pellicola a Roma, la showgirl calca il red carpet con al fianco il fidanzato Raz Degan in una rara apparizione pubblica.

L'ennesima fuga dall'Italia

Dal 2007 al 2008 Paola e Raz lasciano di nuovo l'Italia per scoprire altri posti misteriosi in giro per il mondo. Il modello israeliano sente l'esigenza di viaggiare e rimanere lontano da tutto e tutti e Paola, nonostante le proposte di lavoro non manchino, decide di mollare tutto ancora una volta per seguire il compagno nelle sue avventure. Ma l'idillio dura poco.

Il tradimento con Kasia Smutniak

È il 2008 e Raz Degan viene contattato per interpretare Alberto da Giussano in "Barbarossa", film di Renzo Martinelli. L'israeliano accetta e recita accanto alla collega Kasia Smutniak, che nella pellicola è Eleonora l'amata di Alberto. La passione recitata sul set diventa concreta e lontano dalle telecamere i due hanno un flirt. Ma lei è sposata con Pietro Taricone e Paola Barale è ancora la fidanzata di Raz. Entrambi scoprono di essere stati traditi dalla stampa rosa, che pubblica le foto dei balli bollenti che i due attori scambiano nella piscina di una villa affittata dalla produzione del film. "Mi sono legato le mani, evitando di andare a cercare quello là, che prima o poi incontrerò per strada e gli spaccherò il naso", racconterà anni dopo Taricone parlando del tradimento di Kasia con Raz. Paola Barale invece non rilascia dichiarazioni ma prende le distanze da Degan e torna in tv per superare il dolore.

La crisi e il ritorno in televisione

Alla fine del 2008 la showgirl torna su Italia1 come inviata in Sudafrica della terza edizione del reality "La Talpa" condotto da Paola Prego e poi gira il film "Colpo d'occhio" di Sergio Rubini. L'anno successivo nel 2009 è giurata del reality "Vuoi ballare con me?" su Sky. Sebbene non si vedano spesso insieme, Raz e Paola continuano a vedersi anche se i giornali parlano di crisi e di tradimento mai superato da parte della Barale. Nel 2010 sembra essere tornato il sereno nella coppia, perché Paola smentisce la fine della sua storia con Degan, che è a "Ballando con le stelle" come concorrente: "Non è vero, la mia storia con Raz non è finita".

L'annuncio su Facebook: "E' finita"

Dal 2010 al 2014 Raz Degan e Paola Barale vivono una relazione particolare fatta di alti e bassi. Per tutti non stanno insieme e i paparazzi faticano a fotografarli assieme. I due continuano a condurre due vite separate, ma in alcune occasioni mondane si mostrano mano nella mano. Nel 2015, però, arriva il comunicato stampa ufficiale della fine della loro relazione. A pubblicarlo su Facebook è Paola: "Io e Raz per ora abbiamo deciso di prendere percorsi differenti. Capita, nella vita, a un certo punto. Non è giusto accontentarsi di un sentimento che ha perso di vivacità e colore. Ora posso scostarmi i capelli davanti agli occhi. Tutto può sempre accadere".

L'Isola dei famosi e il ritorno di fiamma

Nel 2017 Raz Degan accetta di partecipare alla dodicesima edizione de "L'Isola dei famosi" e durante la partecipazione la produzione invita Paola Barale. La showgirl non solo va in puntata, ma vola anche oltreoceano per fare una sorpresa all'ex fidanzato. Sull'isola Paola rimane alcuni giorni e tra baci e tenerezze sembra che tra i due ex compagni possa esserci un ritorno di fiamma. Anche la Barale sembra crederci, ma una volta tornato in Italia da vincitore del reality, Raz non si farà più vivo con lei. "Mai più visto né sentito" confessa la showgirl ospite di "Domenica In" nel 2019. E la delusione è tante. Anni dopo, nel 2020, Paola Barale rivela: "La decisione l’ho presa io, ma ci sono stata portata per i capelli". La showgirl fa intendere che avrebbe voluto sposare Raz ma il "sì" non è mai arrivato. Oggi lei si dichiara single ma felice, Degan invece vive una relazione con la modella Stuart da circa tre anni. Novella Toloni

Estratto da fanpage.it il 5 febbraio 2023.

Paola Barale si è raccontata nel salottino di Verissimo. È stata tra gli ospiti della puntata trasmessa domenica 29 gennaio. La showgirl ha raccontato che il suo obiettivo era diventare "insegnante di ginnastica", ma alcuni fotografi di Fossano, notarono la sua somiglianza con Madonna e da lì, quasi per caso, è iniziata la sua carriera nel mondo dello spettacolo: "Io ho quasi 56 anni. Ma se alcune cose, la salute mi permette ancora di farle, perché non le dovrei fare? Perché mi devo limitare?" 

 Il rapporto con il tempo che passa

 Paola Barale ha parlato del tempo che passa: "Non mi rende così felice. Avrei preferito fermarmi tra i 35 e i 40 anni. Il tempo passa, si sente, è un dato di fatto, qualcosa con cui dobbiamo convivere. Poi io non ho figli, forse ho meno responsabilità rispetto a una donna che li ha. Io forse ho una vita più leggera". Ha trovato, tuttavia, il giusto approccio per continuare a godersi la vita:

 Quello che non deve mai mancare è l'entusiasmo, essere grati alla vita per quello che si ha. Io mi ritengo molto fortunata. Ho imparato a godermi a pieno la vita e ogni momento di quello che mi capita, nel bene e nel male.

 Silvia Toffanin, allora, ha rimarcato: "Tu non hai paura di parlare della menopausa". E Paola Barale ha confermato:

 È una tappa naturale nella vita di una donna. Ci sono andata abbastanza presto, ma me la vivo bene. Uno pensa che una donna in menopausa sia decrepita o non abbia una vita sessuale. Certo, ci sono dei cambiamenti. Ma è una cosa normale, da vivere in un modo normale. Magari con l'aiuto di specialisti. Non è una malattia, è un cambiamento.

Paola Barale, l'amore e la scelta di non avere figli

La showgirl ha raccontato anche il suo rapporto con l'amore. Dato che ha avuto l'esempio di una relazione solida come quella dei suoi genitori, anche lei sperava di vivere un rapporto simile: "Ho sempre creduto nell'amore, ma le mie storie personali non sono andate come avrei voluto". Ritiene che in passato fosse più semplice tenere in piedi una relazione, perché c'erano "meno opportunità, meno tentazioni" e la tendenza a volere aggiustare ciò che non funzionava anziché buttarlo via. Paola Barale ha parlato anche della sua scelta di non avere figli:

Non ho figli. Non li ho cercati,  ma li avrei voluti partendo da una buona base, con una situazione stabile. Dato che le mie relazioni erano più o meno stabili, non me la sono sentita. 

 (...)

Estratto dell'articolo da ilmessaggero.it l'1 maggio 2023.

È uno dei volti più amati di Uomini e Donne Gianni Sperti che arriva  a Verissimo. […]

La storia con Paola Barale

Un matrimonio alle spalle con Paola Barale che ha fatto molto chiacchierare, con una separazione davvero turbolenta. […] 

«Quando mi sono sposato con Paola avevo 25 anni e pensavo che sarebbe stato per sempre, lei me lo chiese che avevo 23 anni e non ero pronto ma a 25 glielo ho chiesto io. Io ero innamorato e mi sono sentito molto amato. Poi è finita per tanti motivi». Gianni Sperti affronta per la prima volta i motivi della separazione dalla sua ex moglie: «Forse si è innamorata di un'altra persona. Se ti innamori di un'altra persona è perché qualcosa non funziona». 

Mai più visti

Da quel 2002 non si mai più visti: «Mai più rivisti mai più parlati e neanche mai più incontrati. Non c'è rancore da parte mia, io ricordo la parte positiva di quel rapporto […] Certo questo non vuol dire che non ci siano stati momenti difficili o comportamenti inadeguati e parole forti, ma in generale penso solo alle cose belle». 

Le parole della showgirl

Lei invece la pensa diversamente. «[...]Ti senti presa in giro e ti trovi di fronte una cosa che non è quella che pensavi fosse. Io non riuscirei a stare con una persona se quello non è il posto dove voglio stare ». Aveva detto questo la Barale dalla Toffanin. 

La replica di Gianni

Oggi Gianni replica: «Si la pensa diversamente, io ho superato il fallimento del matrimonio e pensavo lo avesse superato anche lei, quindi non capisco perché questo rancore. Quindi forse non è serena e mi spiace». E continua:  «Non essere se stessi so a che si riferisce ma 7 anni insieme a non capirlo non le fa molto onore. Mi pare un parodosso. Un fake si capisce prima di 7 anni». Ma l'opinionista di Maria De Filippi entra nel dettaglio: «Io so l'illazione che vuole fare. Vuole far credere che io sono omosessuale. 

Ti dico che la cosa che mi da fastidio è che ancora oggi ci sia voglia di sapere, pensare e chiedere la persona che tendenza sessuale abbia. Che io lo sia forse si forse no non lo dirò mai, perchè dirlo vuol dire mettersi un'etichetta e non lo dirò mai. Siamo esseri umani e vanno catalogati se buoni o cattivi il resto chi se ne frega. Dirlo non dirlo la gente lo pensa e lancia le frecciatine. Quindi lo dico io magari si riferisce a quello».

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Estratto dell'articolo di Mattia Marzi per “il Messaggero” il 12 maggio 2023.

«Abbiamo sofferto il fatto di essere snobbate da un certo tipo di intellighenzia, musicale e no. Ci trattavano come ragazzine che facevano roba di Serie B. A distanza di tempo, abbiamo fatto pace anche con quella parte della critica: ti stimolava. Oggi che è così accomodante nei confronti degli artisti di successo, la rimpiangiamo», dicono Paola & Chiara, togliendosi subito un sassolino dalle scarpe. 

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Paola in questi anni ha fatto la dj. Chiara ha scritto un romanzo (In un solo grammo di cielo, nel 2019), studiato recitazione a Los Angeles, partecipato a film indipendenti (ha fatto anche un cameo in Mare Fuori, interpretando la madre di una delle protagoniste, Crazy J) e si è convertita all'ebraismo a Gerusalemme sposando nel 2014 l'israeliano Meir Cohen (l'unione è durata pochi anni: «Ogni tanto vado in sinagoga, ma non osservo lo shabbat in modo rigido», ha confessato a Vanity Fair). «È strano festeggiare un disco all'indomani della scomparsa del discografico che ci scoprì, Roberto Rossi (morto ieri a 62 anni, ndr)», dicono.

Avete fatto in tempo a fargli ascoltare l'album?

«Sì. Era venuto in studio con noi a mixare Furore, prima di Sanremo. All'Ariston avrebbe dovuto dirigere l'orchestra. La malattia non gliel'ha consentito. Senza di lui oggi non staremmo qui. Fu lui a mandarci a Sanremo con Amici come prima». 

Era il 1997 e avevate vent'anni: eravate coscienti di quello che stava succedendo?

«No. Fu come entrare in un turbine: il tour da coriste degli 883, il primo disco Ci chiamano bambine, l'apertura del concerto di Michael Jackson a San Siro, i Festival di Sanremo. Ad un certo punto ci ribellammo». 

Come?

«Nel '98 ce ne andammo in Irlanda. Lì scrivemmo l'album Giornata storica». 

Cosa vi eravate messe in testa?

«Rivendicare di essere sempre state avanti per i tempi, facendo un pop internazionale in un paese tradizionalista. Un flop: le canzoni erano troppo sofisticate. Ma poi ci prendemmo le nostre soddisfazioni». 

Cioè?

«Nel 2012 il Guardian mise Non puoi dire di no tra le dieci canzoni più belle del pop italiano. In Festival suonava il basso Guy Pratt, che rimpiazzò Roger Waters nei Pink Floyd. La versione inglese fu tradotta da Billy Steinberg, autore di Like a Virgin di Madonna. Quella di Vamos a bailar da Gary Kemp, ex Spandau Ballet. Con questo disco prendiamo quello che c'era di buono nel passato e lo mixiamo con il talento degli artisti di oggi, facendoci produrre da Merk&Kremont, Cosmo e Fudasca». 

Cosa vi lega a Elodie, Emma, Levante, Noemi e Ana Mena?

«Sono delle "sorelline". Elodie ci diceva: "Se rifarete i vostri pezzi io canto Festival". Emma ha voluto fare una versione elettronica di Fino alla fine prodotta da Andro dei Negramaro. Noemi ha portato una sfumatura di rock in A modo mio». 

Sono state più fortunate rispetto a voi?

«Sì. Oggi c'è più magnanimità nel giudicare il pop rispetto ad allora. Per convincere gli snob dovevi fare l'alternativo. Però a distanza di 20 anni abbiamo fan anche tra gli intellettuali». 

 Il più insospettabile?

«Lo scrittore Aldo Nove». 

Com'è stato ricantare con Pezzali "Amici come prima"?

«Come chiudere un cerchio. Max c'è sempre stato, come Jovanotti (con lui hanno reinciso Hey, ndr). È stato fondamentale anche nella reunion, quando l'estate scorsa ci ha invitate ai suoi live a San Siro».

Dai vostri, di concerti (domani e domenica saranno al Fabrique di Milano, il 19 e 20 maggio all'Auditorium Conciliazione di Roma, dove torneranno ad esibirsi il 10 giugno come madrine del Roma Pride, ndr), cosa bisogna aspettarsi?

«Una celebrazione anche della nostra diversità 

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Paola & Chiara: «Siamo più adulte ma continuiamo a essere ribelli». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2023

Le due sorelle Iezzi festeggiano la reunion con il disco «Per sempre»: le loro hit rivisitate con ospiti e due inediti 

Il loro ritorno, dicono più volte, «non era nei programmi e poteva tranquillamente non accadere». Per il futuro, anche se di brani nel cassetto ne hanno tanti, «non ci sono progetti definiti». Ma oggi Paola & Chiara si godono l’entusiasmo nato intorno alla loro reunion con l’uscita di «Per sempre» , disco in cui rivisitano le loro hit insieme a tanti ospiti, da Max Pezzali a Elodie, da Jovanotti ad Emma, con l’aggiunta di due inediti (il sanremese «Furore» e il nuovo singolo «Mare caos»): «L’idea era quella di portare i nostri brani al 2023 mantenendo intatta la loro essenza. Abbiamo lavorato con tanti produttori e poi chiesto ad artisti amici di partecipare», spiegano le sorelle Iezzi.

Raccontano di sentirsi «cresciute, più adulte e consapevoli» rispetto agli esordi: «Abbiamo iniziato da piccolissime, oggi siamo persone diverse, pur con lo stesso amore per la creatività». Anche il loro rapporto è maturato: «Una volta eravamo talmente simbiotiche che era difficile accettare che l’altra facesse qualcosa di diverso, poi la distanza ci ha permesso di vedere anche al di là del duo e ritrovare armonia. Le pause sono necessarie».

Chiara, lo scorso anno, ha raccontato di aver passato un periodo difficile, ora alle spalle: «Ho attraversato un momento di grande fragilità che ho affrontato con la terapia. Sono riuscita a ridimensionare attacchi di panico, ansia e tutto quel che ne era derivato. Continuo con la terapia, ma adesso sto molto meglio».

A fine anni 90, con il loro pop-dance, hanno precorso i tempi visto quanto quei ritmi sono tornati di moda: «All’epoca abbiamo molto sofferto l’essere un po’ snobbate da una certa intellighenzia musicale e l’essere liquidate come ragazzine, ma abbiamo fatto pace con chi ci criticava. La critica serve anche per fortificare. A nostro modo siamo delle ribelli, cantanti pop in un Paese un po’ tradizionale».

Ora le aspetta il tour, «un pop show a tutti gli effetti», e il Roma Pride, dove saranno madrine: «Vorremmo uguali diritti per tutti, la società del futuro è inclusiva ed è ovvio che sia così — sottolineano —. Dobbiamo difendere i diritti conquistati oltre a guadagnarne di nuovi, ma abbiamo fiducia nelle persone. Crediamo che nessuno, Governo compreso, voglia peggiorare il mondo».

Estratto dell’articolo di Francesco Fredella rtl.it il 14 marzo 2023.

"Dietro Furore ci sono io": Luca Vismara svela i segreti della canzone di Paola & Chiara

La notizia è rimasta segreta per molto tempo fino a quando Dagospia ha spifferato qualcosa. Ora Luca Vismara, cantautore e personaggio televisivo, vuota il sacco. "Furore nasce da una mia intuizione. Una mia idea: ho voluto a tutti i costi la reunion di Paola & Chiara", dice a RTL 102.5 News. "Poi per caso, quest'estate, si sono convinte ed eccole a Sanremo": così Luca Vismara racconta la genesi della canzone di Paola & Chiara in una lunga intervista a RTL 102.5 News. "Ero in vacanza con due produttori molto forti, Merk & Kremont, ho pensato: perché non tornano Paola & Chiara?", mi sono chiesto. "Ho parlato con Chiara e non si sentiva molto pronta. Poi anche grazie ai social si sono convinte. Ci conosciamo da almeno 10 anni", continua Luca Vismara in radiovisione. "Le ho detto tante volte di tornare a fare musica".

Vismara voleva a tutti i costi rivedere sul palco Paola & Chiara. "Avevo suggerito a Mark & Kremont un loro ritorno con le sonorità anni Duemila", chiarisce Vismara. Lui, 31 anni, è un cantautore che lavora molto anche dietro le quinte. "Non ho firmato io Furore", racconta ancora. La prima volta che Vismara ha ascoltato il pezzo è stato in studio. "Mi sono emozionato quando ho ascoltato la versione definitiva di Furore. Avevo suggerito a Mark & Kremont di tornare alla musica dei loro esordi", dice Vismara. "L'ultima parola è stata di Amadeus, che ha avuto una grande intuizione musicale".

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Paola e Chiara: “Ora andiamo d’accordo, sempre con Furore”. Nicola Santini su L’Identità il 16 Febbraio 2023

Il loro nuovo brano è in testa alle classifiche di vendita e di streaming e i biglietti del loro tour primaverile stanno già andando a ruba.

Non sta passando sicuramente inosservato, il ritorno sulla scena musicale di Paola e Chiara Iezzi, in arte Paola & Chiara, che nel corso dell’appena conclusa edizione del Festival di Sanremo hanno proposto “Furore”, ennesimo tormentone prodotto dal duo Merk & Kremont. Orgogliose del riscontro finora ottenuto, le due cantautrici di origini milanesi, nate artisticamente come coriste degli 883, si raccontano a L’Identità.

Alla vigilia del vostro ritorno al Festival di Saremo siete state tra le più attese: che effetto vi ha fatto?

Paola: Del fatto che fossimo particolarmente attese, ce ne siamo rese conto grazie ai numerosi messaggi che abbiamo ricevuto in rete e attraverso tutte le notizie che avevamo avuto modo di leggere, specialmente sul web. Questa enorme ondata d’amore che ci ha travolte è partita principalmente dai social e così abbiamo deciso di lasciarci avvolgere.

Chiara: Devo ammettere, però, che in un primo momento non sapevamo cosa fare, anche se, dopo tutta quell’insistenza, nel corso dell’ultimo anno che si è dimostrato davvero speciale, abbiamo deciso di abbandonarci all’amore che abbiamo percepito intorno a noi.

Dieci anni fa, la scelta di dividervi artisticamente aveva mandato in tilt la vostra solida fan-base…

P. Anche per noi sono stati dieci anni difficili, anche se in fin dei conti questa distanza ci ha permesso di apprezzare molte cose e di capirne altrettante. Abbiamo avuto un po’ di tempo in più per capire meglio noi stesse, riuscendo ancora di più ad apprezzare il nostro dialogo con la famiglia ma anche con il nostro pubblico.

C: E’ come se questo ritorno fosse arrivato in modo del tutto naturale, con la complicità del ritorno in auge delle sonorità di anni novanta. Non a caso, quando Amadeus abbiamo avuto la possibilità di tentare un ritorno in gara al Festival, abbiamo scelto di farlo con una canzone che avesse delle nuove sonorità, coinvolgendo anche il nostro vecchio team di lavoro. Insomma, questo nostro ritorno è stato contraddistinto da una reinterpretazione di noi stesse in chiave moderna.

Inizialmente circolavano voci sul fatto che il vostro brano in gara al Festival lo avrebbe scritto Max Pezzali. Cosa vi ha spinto, invece a puntare su Merk & Kremont?

P. Questo rinomato duo di produttori ci corteggiavano artisticamente già da qualche anno, di conseguenza, quando si è profilata l’idea di tornare a Sanremo, abbiamo deciso di ascoltare attentamente questo brano, che ci ha spinto a puntare per la prima volta su una canzone non scritta dalle sottoscritte.

C. E’ stato stimolante misurarci con le nuove leve della produzione, che continuano a raccogliere enormi consensi all’interno del panorama musicale. E poi anche il titolo del brano, Furore, ci ha subito convinto. Furore è una parola matura che racchiude entusiasmo e eccitazione. Ovviamente, rispetto al primo ascolto, ci sono state alcune modifiche per far sì che il pezzo fosse nostro al 100%.

Dopo la vostra lunga assenza dalle scene, i riflettori di pubblico e addetti ai lavori sono puntati sul vostro futuro artistico: cosa vi aspetta?

P. Quello di Paola & Chiara, al momento, è un progetto aperto. La nostra partecipazione a Sanremo non è sicuramente un caso isolato. Tra i primi progetti confermati c’è un tour con Vivo Concerti con tre date che, in quanto a vendita di biglietti stanno andando molto bene visto che una è addirittura già sold-out. Dopodiché, faremo concerti anche per tutta l’estate. E poi possiamo permetterci di navigare a vista: ci piace l’idea di poter essere elastiche, dopotutto in questi anni abbiamo capito che è ancora più stimolante collaborare quando ci va.

C. Riprendendo il titolo di uno dei nostri primi brani (“Amici come prima”, ndr) noi siamo sempre amiche come prime, anzi, ultimamente anche di più. In questa pausa decennale abbiamo imparato a conoscerci meglio. Oggi, rispetto al passato, ci guardiamo con occhi diversi, siamo anche più indulgenti l’una verso l’altra. All’inizio impostavamo tutto in maniera più rigida, tendendo a vivere letteralmente in simbiosi. Oggi, invece, siamo più clementi…

Estratto dell'articolo di Pasquale Quaranta per lastampa.it il 10 febbraio 2023

Paola & Chiara sono un’icona lgbtq+? […]

Una congiunzione astrale negli anni del World Pride

Ma cosa rende un personaggio pubblico un’icona lgbtq+? «L’icona è a volte il prodotto di una sorta di congiunzione astrale – risponde Vincenzo Branà, giornalista ed ex presidente del Cassero di Bologna –. Il personaggio giusto con il messaggio giusto nel momento giusto. Nell’icona Paola & Chiara credo conti molto l’essere stato un fenomeno dance negli anni del World Pride in Italia, oltre ovviamente alla vicinanza alla causa o alla partecipazione ad eventi della comunità […]».

Produrre una trasformazione nell’immaginario

«Credo che ciò che definisce una icona lgbtq+ sia la capacità che ha di incarnare il cambiamento e produrre una trasformazione nell’immaginario attraverso una immagine dissacrante e dei messaggi in grado di rompere gli schemi», ci spiega Natascia Maesi, presidente di Arcigay. «In fondo non è mai importato a nessuno che Paola o Chiara fossero lesbiche o meno – aggiunge Maesi –. Il loro modo di performare ci faceva immaginare un mondo in cui le donne lesbiche potevano esistere. Hanno attraversato i nostri spazi in un momento storico in cui era difficile farlo, e questo le ha rese nostre alleate».

Donne lesbiche e uomini gay scelgono diversamente i propri idoli

Secondo Alessia Crocini, presidente dell’associazione Famiglie Arcobaleno, donne lesbiche e uomini gay sceglierebbero diversamente i propri idoli. Un argomento scivolosissimo. «Paola & Chiara sono prima di tutto icone gay piuttosto che lgbtq+ per vari motivi – racconta l’attivista –: un certo tipo di femminilità, i lustrini, canzoni leggere e dance, tutto quello che rientra nell’estetica camp. La loro intelligenza è stata quella di saper cavalcare questo amore. Le donne lesbiche per anni hanno seguito artiste non dichiarate ma che hanno percepito come lesbiche o bisessuali».

Ma adesso, continua Crocini, c’è un cambio di passo.

«Mentre prima la comunità andava dietro alle donne etero che i maschi gay assurgevano a icone, oggi ci sono cantanti di nuova generazione dichiarati e apertamente queer che non temono di presentarsi per ciò che sono. […]».

 Un processo impalpabile, quasi misterioso

Come si fa a diventare un’icona gay?

«In realtà lo si diventa quasi per caso – risponde Franco Grillini, presidente onorario di Arcigay – A volte senza neanche saperlo e qualche volta senza neanche volerlo. Si tratta di un processo impalpabile, quasi misterioso, che perlopiù – soprattutto se artisti – fa piacere. […]»

 Un modello femminile di indipendenza, libertà, successo

Ma torniamo a Paola & Chiara.

«Nel loro caso – continua Grillini – c’è un processo di identificazione con due ragazze che hanno avuto successo ed esprimono contenuti condivisibili. Il modello femminile di indipendenza, di libertà e anche di successo, non necessariamente economico, è molto condiviso da una nuova generazione che non sopporta più una separazione artificiosa tra donne e uomini, soprattutto lo strapotere maschile. […]».

La formula alchemica di un’icona queeer

«Capire qual è la formula alchemica che definisce un’icona queer è forse l’arcano più grande della nostra comunità – ci dice Paolo Armelli, giornalista e co-fondatore di Quid media – Ce ne sono moltissime e delle più disparate. Io credo che sia quel mix di esagerazione ed esasperazione, di luminosità e ombra, di metamorfoso continua e fedeltà a sé stesse. E anche di sfida, più o meno sottile o sotterranea, alle convenzioni, che siano sociali o culturali».

Cosa rende Paola & Chiara così speciali?

«Sono divenute famose da ragazzine, si sono trasformate all’improvviso in icone sexy e patinate, dive disco solitarie e incomprese nel panorama discografico italiano: ovvio che la comunità lgbtq+ le abbia subito abbracciate. Sono un po’ gli stessi motivi per cui io amo Kylie Minogue – continua Armelli –, star assoluta, sopravvissuta a decenni di continui mutamenti, eppure amata a corrente alternata, e nonostante ciò sempre desiderosa di dare il massimo ai suoi fan. Ecco, nelle icone queer c’è anche questo elemento di base: un sacrificio inesausto, contro ogni aspettativa, e sempre ricamato di paillettes».

Da vanityfair.it il 5 febbraio 2023.

Prima di Sanremo 2023, che le vede protagoniste assolute sul palco dell’Ariston con il brano pop dance Furore, Paola&Chiara si confessano con grande generosità nell'intervista sul nuovo numero di Vanity Fair, in uscita l’1 febbraio 2023.

Le sorelle Iezzi si raccontano prima da sole e poi insieme, rivelando dettagli inediti del loro passato: perché nel 2013 avevano preso strade diverse, i matrimoni, i divorzi, i legami che hanno resistito al tempo. Il desiderio di maternità e la passione per l’arte, le paure e le fobie che le hanno assillate per anni, la gioia del tornare insieme, perché «il legame di sangue è fortissimo», e la saggezza accumulata mentre si avvicinano ai 50 anni.

 E poi la voglia di tornare a fare progetti insieme, con una folle fanbase che le ha aspettate per dieci anni: «Eravamo le eroine dei nostri fan, ora siamo le loro survivor».

 A Sanremo 2023 Paola&Chiara canteranno Furore, che, spiegano «è una parola energetica, colorata, che ha a che fare con la pazzia, qualcosa di fiero, forte, infuocato, anche liberatorio, dopo tutto quello che abbiamo vissuto».

Da aprile Paola&Chiara saranno protagoniste del Paola & Chiara Per Sempre, tre eventi speciali a Roma e a Milano prodotti da Vivo Concerti con cui il duo è pronto a conquistare due dei club più famosi d’Italia: l’Atlantico di Roma il 27 aprile e il Fabrique di Milano il 13 maggio (sold out) e il 14 maggio.

 Paola

Che cosa l’ha aiutata a crescere?

«La terapia. Ne ho fatta tantissima negli ultimi dieci anni, mi è servita molto, e la consiglio a tutti, perché ti chiarisce molte cose, ti aiuta a superare dei momenti difficili».

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 Avete mai pensato di avere dei figli?

«No. Siamo una coppia di artisti, e gli artisti fanno fatica con i figli. L’arte necessita di una devozione spesso totalizzante. Lo avrei fatto se avessi smesso di fare questo mestiere, che però è stato più forte di qualunque altra cosa».

 Chiara

Lo scorso giugno, su Instagram, ha scritto di essere vittima di «violenze». Che cos’era successo?

«Non è semplice da raccontare: da dopo la pandemia ho iniziato a ricevere sui social dei messaggi privati aggressivi, da persone che non conoscevo. Da bambina sono sempre stata vittima di bullismo per cui non era la prima volta per me… Erano dei messaggi molto violenti, macabri, arrivavano di continuo. Mi sono talmente spaventata, mi sono chiusa in casa e avevo paura di uscire. Sono finita al Pronto Soccorso e ho chiesto aiuto».

Aveva attacchi di panico?

«Sì, peggiorati. Li ho sempre avuti, e l’ansia la conosco bene. Io sono una fobica, lo sono sempre stata e non ne faccio mistero».

 Un episodio di bullismo?

«No, violenza vera. Era ora di pranzo e volevo andare a comprare delle caramelle, ma c’era poca gente in giro perché erano tutti a mangiare. Mi sono fermata al bar, ero alla cassa, e un ragazzino sui sedici anni mi si è avvicinato, perché voleva passarmi davanti, e mi ha strattonata. Io ho un po’ risposto, dicendogli di farmi finire, ma non ho fatto in tempo che mi ha preso per il braccio e trascinata in un angolo del campeggio lontano da dove stavamo noi. Mi ha picchiata e poi ha tentato di tirarmi giù gli shorts. Solo che si è fermato perché ha sentito delle voci di qualcuno che lavava i piatti e se ne è andato. Io sono rimasta sotto shock per dieci minuti non sapendo dove fossi e chi fossi, e poi ho ritrovato la strada per tornare dai miei».

Paola Gassman e Ugo Pagliai, insieme da 54 anni: «La nostra relazione iniziò tra un teatro e l’altro». Storia di Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 17 gennaio 2022.

Lui l’aveva notata per una gonna a scacchi e una camicetta primaverile. Lei non si era neanche accorta di lui: così nasce una storia d’amore che dura da 54 anni. Paola Gassman e Ugo Pagliai, una coppia collaudata nella sfera privata e in quella professionale.

Pagliai: «Abbiamo iniziato a stare insieme per un caffè, poi ci siamo frequentati per una settimana, poi per un anno, poi trent’anni e poi... Credo di aver battuto tutti i record». Gassman: «Anche io ho battuto tutti i record».

Come vi siete conosciuti? Pagliai: «Le avevo messo gli occhi addosso quando ero all’Accademia Silvio d’Amico. Era venuta a vedere uno spettacolo e ricordo esattamente com’era vestita: bellissima allora, così come lo è ancora oggi, con qualche anno in più. Dissi tra me e me: che bellezza questa ragazza! Anche io ero carino, all’epoca, e avevo delle corteggiatrici». Gassman: «Ero andata ad assistere al saggio dell’attore Luciano Virgilio, che sarebbe diventato poi il mio primo marito. Ugo era seduto in sala e, al termine della rappresentazione, non ci siamo nemmeno presentati. Ci rincontrammo dopo tre anni e io, nel frattempo, mi sono sposata e anche divisa da Luciano». Pagliai: «Il nuovo incontro avvenne una sera. Avevo assistito a una finale di calcio europea con gli amici con cui decidemmo di festeggiare a piazza Navona. Mentre assaporavo un ottimo gelato al tartufo, Paola, non so con che coraggio, mi si para davanti e mi strappa metà del gelato dalla mano». Gassman: «Sono stata piuttosto intraprendente, non so se attratta più dal tartufo o dai suoi occhi azzurri».

E da quello strappo nasce la storia? Gassman: «Assolutamente no! Alla fine dell’estate, iniziano le prove di Un debito pagato di Osborne. Ne erano protagonisti Ugo e Mariangela Melato, io ero in un ruolo secondario, alla mia prima scrittura». Pagliai: «Durante la tournée, prende il via la nostra relazione, in maniera molto cameratesca». Gassman: «Quando arrivammo al Teatro della Cometa a Roma, venne ad assistere allo spettacolo mio padre Vittorio. Quella sera si avvertiva il gelo in sala: non solo per il testo, che lasciava perplesso il pubblico, ma per la presenza di papà, che metteva soggezione». Pagliai: «Era un gigante, monopolizzava la platea».

Come è andata a finire? Gassman: «Andammo a cena tutti insieme e papà ci fece i complimenti... soprattutto a Ugo». Pagliai: «Vittorio aveva intuito che, tra me e sua figlia, c’era del tenero e, forse, mi fece capire che non ne era dispiaciuto».

Recitare davanti a un grande attore non le incuteva timore? Pagliai: «Non mi sono mai confrontato con il “monumento Gassman”, sono entrato nella normalità della loro famiglia. Molti anni dopo, durante una cena silenziosa, tra me e lui, non dico che mi abbia provocato timore, ma fu imbarazzante. Eravamo a Milano per rispettivi impegni e decidemmo di mangiare insieme: non disse una parola».

Era accaduto qualcosa fra voi? «No, ma Vittorio era fatto così: capace di una vitalità travolgente, di una sfrenata allegria e poi, all’improvviso, si chiudeva in sé stesso, come se si mettesse addosso un mantello nero per non vivere».

Poi scrisse per lei un testo... Pagliai: « Bugie sincere, che firmò come drammaturgo e regista».

Una sorta di passaggio del testimone? Pagliai: «Quando mi propose il progetto, ne ero onorato, ma gli dissi: Vittorio, non posso avere il fascino che hai tu nell’interpretare Edmund Kean. Lui volle darmi fiducia e, in qualche modo, è stato un simbolico passaggio del testimone». Gassman: «Papà era consapevole dei problemi che avevo, quando iniziò la mia convivenza con Ugo. All’epoca non esisteva il divorzio, io ero già madre di Simona, nata dall’unione con Luciano e, quando nacque nostro figlio Tommaso, ci furono problemi anche per il suo riconoscimento da parte di Ugo, poi risolti».

Cinquantaquattro anni insieme e non vi siete mai sposati. Perché? Gassman: «Ero scioccata dal primo matrimonio, durato solo sei mesi, e restia a celebrarne un altro. Ugo più restio di me. Ci siamo detti più volte: poi lo facciamo... Ormai è una questione scaramantica: perché dobbiamo cambiare lo stato delle cose, dato che finora è andata così bene?». Pagliai: «Vittorio ogni tanto mi diceva: sposala... perché non la sposi?».

E pensare che proprio lui, tra matrimoni e convivenze, batteva tutti i record. Pagliai: «Infatti... Quando era in attesa del suo quarto figlio Jacopo, mi venne spontaneo di commentare con Paola, esclamando: va bene che tu aspetti un fratello, ma è il colmo che io aspetti un cognato!».

Qual è il segreto per convivere in casa e sulla scena per oltre mezzo secolo? Gassman: «Non abbiamo la bacchetta magica per andare d’accordo, occorre adattarsi alla quotidianità, la nemica numero uno della coppia». Pagliai: «Paola non è solo una compagna, è sorella, figlia, madre. Tra noi, tanti diversi rapporti, mai la routine».

Mai un litigio? Gassman: «Ci sopportiamo a vicenda e comunque Ugo litiga mal volentieri...». Pagliai: «Paola mi dice che sono il suo punching ball...».

Mai un tradimento? Gassman: «Ci sono state figure femminili intorno a lui. Gelosa? Posso esserlo stata». Pagliai: «Bè, non ti ricordi quella sera che, a una cena, c’era una tipa che mi faceva gli occhi dolci? Hai preso un grappolo d’uva e...». Gassman: «Certo che me lo ricordo. Faceva la scemetta. Ho acchiappato quel grappolo e l’ho buttato con forza nella bacinella d’acqua che stava davanti a lei, schizzandole il viso e la scemetta è rinsavita». Pagliai: «Anche io qualche punta di gelosia l’ho nutrita. Paola è stata più volte corteggiata platealmente. Però non tiravo acqua addosso ai rivali... sono troppo orgoglioso».

Un grande amore, che avete di recente recitato, interpretando «Romeo e Giulietta». Gassman: «Non abbiamo certo l’età per impersonare due adolescenti».

Da dove sono spuntati questi tardivi Romeo e Giulietta? Gassman: «Il regista Enrico Castellani, ci raccontò che stava lavorando all’idea scespiriana dove i protagonisti non erano due giovani, bensì due personaggi con qualche capello bianco. Un’idea originale e gli chiedemmo a quali interpreti stava pensando». Pagliai: «Ci rispose: sto pensando a voi. Noi? Restammo di stucco. Però la proposta ci divertiva».

Non potevate resistere a rappresentare la più bella storia d’amore... Gassman: «Non abbiamo avuto pudori». Pagliai: «Siamo stati Romeo e Giulietta credendoci».

Un’ultima domanda. Voi abitate a Roma, in un palazzo dove c’è la sede di Fratelli d’Italia. Difficile convivere con l’ufficio della Meloni? Rispondono, ridendo: «All’inizio, un grande caos, ma oltre al portone principale abbiamo altre vie d’uscita».

Paola Perego: «Ho subito molte molestie, ma mi sono sempre difesa. A un dirigente importante diedi una ginocchiata». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 28 ottobre 2023.

La conduttrice, in gara a Ballando, si racconta: «L'esordio fu ad Antenna 3 Lombardia con Ric e Gian, ero lì come valletta muta. Ma all’improvviso Ric mi disse: parla tu. E anziché leggere “l’eruzione di vapore”, mi scappò “l’erezione”. La mia prima gaffe»

A casa di Paola Perego non ci si abbracciava tanto. «Papà faceva il falegname, mamma era casalinga. Non erano persone abituate a manifestare i sentimenti attraverso gesti fisici». Sembra un dettaglio, ma è di quelli capaci di spiegare molte cose.

Festeggia 40 anni di carriera: la critica che più l’accompagnata è di essere un po’ fredda.

«All’inizio ero veramente un blocco di ghiaccio. Per anni mi hanno detto che ero algida, distaccata, che in tv facevo bene il mio compitino. In realtà ero sotto psicofarmaci. E, all’epoca, non è che potessi dire: scusate, siccome ho preso il Tavor non riesco a manifestare le mie emozioni».

Ha dichiarato di aver sofferto di attacchi di panico da quando era adolescente e ora di esserne, finalmente, uscita.

«È stato come tornare a respirare, una liberazione. Ci sono arrivata grazie a tanti anni di cure farmacologiche e psicoterapia. Ma, di certo, se fossi una persona fredda non ne avrei sofferto. Dentro avevo un mondo di emozioni che non ero in grado di tirare fuori. Gli attacchi di panico all’epoca erano semplicemente “l’esaurimento nervoso”. Andavi dai medici e ti dicevano che non avevi niente, abbattendoti ancora di più: la mia autostima era annientata».

Anni?

«Ne avevo 16. Finivo al pronto soccorso convinta che stessi morendo perché non respiravo. I farmaci mi hanno consentito di avere una vita, ma era ovattata: ricordo le situazioni del mio passato ma non le emozioni che provavo. Senza contare tutte le giustificazioni che mi sono dovuta inventare nel tempo. Per esempio, ho avuto un attacco di panico in macchina, una volta, e non ho più guidato per quattro anni. Ma non potevo dirlo, così mi inventavo motivazioni fantasiose. Ero la regina delle scuse».

Nel mentre, iniziava anche la sua carriera da modella.

«Solo perché avevo bisogno di lavorare. Da bambina non c’erano giochi, facevo le formine con la segatura avanzata da papà. Una volta fece delle racchette da tennis a me e mia sorella... ma pesavano troppo. Crescendo, ho iniziato a studiare e lavorare: facevo la barista, poi la babysitter finché mi proposero di fare la modella. Per me era assurdo».

Non lo dica: si vedeva brutta.

«Ah sì, assolutamente. In casa quella bella era mia sorella, di due anni più grande di me. Inoltre, io non ho mai avuto la velleità di fare spettacolo, anche perché non pensavo che avrei mai potuto farlo. Non mi passava per la testa».

Non era di quelle bambine che guardavano la tv sognando di entrarci?

«No, no. Il mio pensiero era trovare il posto fisso, avere uno stipendio, aiutare a casa. Mai nella vita avrei pensato di fare questo lavoro ed è andata anche un po’ a fortuna, ammetto. L’esordio fu ad Antenna 3 Lombardia con Ric e Gian, in diretta. Io ero lì come valletta muta. Ma all’improvviso Ric mi disse durante una telepromozione di un ferro da stiro: parla tu. E anziché leggere “l’eruzione di vapore”, mi scappò “l’erezione”. La mia prima gaffe».

Ha portato bene, si direbbe.

«La verità è che non so come ci sono arrivata a 40 anni di carriera. Ovviamente mi sono preparata, mi sono applicata, ho passato ore a guardare quelli bravi per imparare, rubare il mestiere. Però, onestamente, non avendo avuto mai il sacro fuoco dell’arte, trovarmi ancora qui è un miracolo».

A chi deve dire grazie?

«Il primo a credere in me è stato Marco Columbro. Mi chiamarono per fare la sigla di un suo programma, Autostop e alla fine di quella giornata mi chiese di condurre con lui. Aveva una pazienza infinita, leggeva tutti i miei copioni, mi faceva sentire come pronunciare le cose. È stato il mio primo grande maestro e gli sarò grata per tutta la vita. Forse non ha avuto la carriera che meritava, perché Marco è veramente un professionista straordinario. È un mondo che può essere cinico».

Lei ha avuto la carriera che si meritava?

«Per quello che ho saputo dare ho ricevuto il giusto. Vero è che, con la consapevolezza di oggi, forse avrei potuto dare di più, ma ho fatto quello che potevo. Sono stata la prima a fare l’infotainment da non giornalista, prima donna a condurre un quiz, ho condotto progetti innovativi. Oggi, senza più l’ansia di piacere a tutti, sono finalmente convinta di essere molto brava a presentare. È la cosa che so fare meglio rispetto a tutte quelle che ho provato».

Tipo?

«La schiuma del cappuccino: quando lavoravo come barista non sono mai riuscita a farla. Seriamente, oggi mi ritengo molto brava soprattutto nelle interviste, perché mi appassiono alla vita degli altri».

Sa che una, in particolare, è fissa nell’immaginario collettivo, vero?

«Andreotti — sorride —. Che spavento, io ero convinta che fosse morto. Non avevo mai visto un morto in vita mia. In più, visto il mio imprinting, non lo toccavo, non riuscivo. Gli dicevo solo: “presidente, presidente”, terrorizzata. Poi guardavo gli autori ed erano tutti nel panico, così ho lanciato la pubblicità. Lui dietro le quinte si è ripreso, ha chiamato il suo medico: era stato un ictus transitorio, una paralisi di cui non si era accorto. Decidemmo di farlo rientrare in studio per far vedere, appunto, che stava bene, solo che lui decise di sedersi sul mio sgabello, pronto per il blocco successivo. Ma io sono alta un metro e 76 senza tacchi, quindi lui aveva dovuto arrampicarsi: io lo tenevo da dietro per paura che cadesse, non arrivava a terra con i piedi. Quindi il retroscena è che ho avuto altri cinque minuti di panico. Il giorno dopo c’era un articolo anche su Le Monde».

Un programma che l’ha sorpresa?

«La Talpa. Abbiamo fatto il 60% di share su Italia 1, un record assoluto. La gente mi chiede in continuazione di rifarlo, ma non dipende da me. Però credo sarebbe bello. Certo, vederlo presentato da un’altra persona sarebbe uno shock, ma capisco che potrebbe succedere, specie se non andasse sulla Rai».

Dove lei ora conduce «Citofonare Rai2» ed è impegnata come ballerina a «Ballando con le stelle».

«Ballando è un regalo che mi faccio, per celebrare quel “qui e ora” che mi sono anche tatuata sul braccio. Oggi vivo nel presente. E mi posso permettere di giocare con questa trasmissione: ci metto tutto il mio impegno, ma non devo dimostrare di essere una ballerina. So di essere un pezzo di legno... Posso solo migliorare».

Suo marito Lucio Presta, grande agente televisivo, un tempo era ballerino, non le può dare qualche ripetizione?

«Niente, non c’è possibilità. Quando ha smesso di ballare ha appeso le scarpe al chiodo: non ha voluto farlo nemmeno al nostro matrimonio».

Un matrimonio ingombrante per chi fa un lavoro come il suo, no?

«Ormai sono passati 26 anni, ma all’inizio questa cosa faceva male. Dopo tutta la gavetta che avevo fatto, sentirmi dire: lavori perché c’è lui, ferisce. Oltretutto non ha mai fatto nulla per favorirmi, quindi fa doppiamente rabbia».

Avrebbe mai scommesso che dopo 26 anni sareste stati ancora assieme?

«No, ma io sostanzialmente non ho mai creduto tanto al per tutta la vita. Avevo fallito il mio primo matrimonio, a vent’anni, quando ci credevo . E quindi no, non avrei mai pensato che fosse per tutta la vita... ma poi eravamo così diversi all’inizio. Nel tempo è accaduto un meccanismo veramente strano: ci siamo rinnovati, siamo cresciuti assieme. Poi non è sempre facile, si litiga, ci sono le crisi, è normale. Ma oggi abbiamo raggiunto veramente un bell’equilibrio, che mi rende felice. E se gli altri parlano, ormai me ne frego».

Come è stato diventare mamma quando ancora soffriva di attacchi di panico?

«È stata dura. Intanto, è stata difficile la gravidanza senza farmaci, specie la prima perché ero ancora nel pieno. E ho avuto un attacco durante il parto che mi ha terrorizzata. Ma poi ti scatta il senso di protezione e in qualche maniera te la cavi. Con i miei figli ho imparato il contatto fisico, che non conoscevo. Mi sono separata che erano piccolissimi e anche se è stato un periodo tosto, oggi mi dico brava: i miei ragazzi sono due persone davvero per bene».

Ha raccontato di aver subito delle molestie, in questi 40 anni di lavoro.

«Al mio primo ingaggio da modella, a 16 anni, accompagnata da mia mamma, entro per provare i vestiti e il responsabile mi dice: andiamo a letto? È stata la prima di una serie piuttosto lunga di molestie da cui ho imparato a difendermi in fretta. Anni dopo un dirigente televisivo importante mi ha attaccata al muro: gli ho dato una ginocchiata e sbattuto la porta in faccia. Ho anche perso dei contratti per questo, ma ne vado fiera».

Mai pensato di denunciare?

«A volte mi frulla l’idea di fare un libro con nomi e cognomi. Se si fosse concretizzato qualcosa di ancora più grave avrei denunciato: alla fine me la sono sempre cavata al massimo con uno spintone o una ginocchiata. Per cui non l’ho fatto».

Sogni per il futuro?

«Vorrei tornare a occuparmi di violenza contro le donne con un programma. È un argomento che sento molto vicino. Per il resto mi immagino autrice. Ho scritto Citofonare e la cosa mi diverte tantissimo, tanto che lo vedo come il mio futuro».

Vuole vincere «Ballando»?

«No, no, non mi interessa vincere, non sono per niente competitiva. Anche se gioco a burraco con mio marito a me interessa fare una bella partita. Lui se perde non gioca più con me per due mesi».

Non è che è lui quello rigido della coppia?

«Sii, rigidissimo, abitudinario, fa sempre le stesse cose, negli stessi posti, con le stesse persone. Io invece no. Sono l’esatto opposto». Ancora una volta.

Estratto dell'articolo di Gloria Satta per “il Messaggero” l’11 aprile 2023.

 (...)

 A luglio approderà ai Giardini della Filarmonica con il monologo "Ho amato tutto" in cui è diretta da sua figlia Evita Ciri. Tra voi volano scintille?

«Ora va liscia anche se all'inizio c'è stata un po' di tensione. Pure il produttore era preoccupato, ma alla fine non è corso il sangue. Evita ha un carattere tosto».

 L'ha preso da lei?

«No, io sono mite e duttile, mi piace farmi governare».

 Ma come, non viene definita immancabilmente ribelle?

«Si tratta di un cliché che mi è stato appioppato ai tempi dei Promessi sposi perché, pur interpretando Lucia, non mi facevo fotografare in chiesa con il rosario in mano. Il regista Sandro Bolchi e i capi Rai non volevano una piagnona sottomessa ma una ragazza dignitosa, lavoratrice, incapace di sottostare ai capricci del padrone. Moderna».

 Ha finito per odiare quel personaggio che tutti associano a lei?

«Scherziamo? Ho un bellissimo ricordo di Lucia e tra l'altro Bolchi era un regista che amava gli attori, non tutti sono così. I Promessi sposi mi ha dato semmai una popolarità enorme a cui non ero preparata».

Al punto che mandò in crisi il suo rapporto con Mambor?

«Quando feci Lucia stavamo insieme da 10 anni e lui era abituato a considerarmi una ragazza da proteggere. Il mio successo lo destabilizzò e se ne andò in America».

 È vero che, dopo averlo sorpreso a letto con un'altra, lei gettò dalla finestra il materasso?

«Sì, ero tornata all'improvviso... Ho imparato che non bisogna mai fare sorprese (ride, ndr)».

 Come ricorda la Roma dei '60?

«Sono stati anni esaltanti, squattrinati, liberi. Mentre facevo il mio percorso di attrice frequentavo con Mambor personaggi come Kounellis, Pascali, Tacchi, Boetti, Schifano, Angeli. Tutti artisti assoluti, rigorosi».

 Quale considera il suo successo più grande?

«La vittoria allo Zecchino d'oro 1962 di La giacca rotta, una canzone che avevo scritto tenendo in braccio il mio fratellino Marco».

 Un treno che ha perso?

«Mollai il set di Jean-Luc Godard che voleva solo farmi stare nuda dentro un armadio. Ogni volta che sono stata considerata perché ero una bella ragazza ho provato disagio. Ma non mi pento di quel rifiuto».

 E di aver posato per "Playboy" si è pentita?

 «Macché. Avevo 40 anni, un'età in cui all'epoca le attrici finivano al museo delle cere. Quel servizio fu una mossa promozionale per dire che ero ancora viva. In più non avevo un soldo e c'era l'affitto da pagare».

 Ha dei rimpianti?

«Non aver approfondito lo studio della musica. Ho dedicato troppo tempo alla mia vita sentimentale non sempre gioiosa. Sono stata a lungo dipendente dall'approvazione di un uomo. Una grande cazzata».

 E ora?

«Da anni sono single. Mi è costato 7 anni di analisi, ma ne valeva la pena. Sto vivendo la stagione più serena della mia vita».

Paola Pitagora: «Io, sempre ribelle in scena. Non mi piaceva la mite Lucia». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2023.

L’attrice è protagonista dello spettacolo «Ho amato tutto», dedicato alla nobildonna anticonformista Paola Menesini Brunelli, con la regia di Evita Ciri,

«Prenditi un diploma e trovati un lavoro!», si raccomandava il padre ragioniere. Ma Paola Gargaloni, diventata famosa come Paola Pitagora, appena sedicenne comincia a frequentare un workshop per attori, danzatori, mimi. Una ribelle? «Sì, ed è stata la mia fortuna», risponde decisa l’attrice che, proprio in questo periodo, sta portando in scena la storia di un’altra donna ribelle: Paola Menesini Brunelli, una nobile anticonformista che, agli agi e ai privilegi, ha preferito l’amore e la libertà. Lo spettacolo, «Ho amato tutto», ha debuttato nei mesi scorsi a Roma, poi in tournée estiva da San Quirico D’Orcia al Salento. «Proprio nel Salento nacque per caso l’amicizia con Paola Menesini, scomparsa due anni fa - racconta Pitagora - Una donna, nata negli anni ‘30, che mi ha subito affascinato perché, pur appartenendo all’aristocrazia, se ne frega di tutto, si innamora di un giovane e lo sposa. Dal nobile castello dove abitava, va a vivere in un appartamento di 30 mq e scorrazza col marito in lambretta. Pur essendo laureata in chimica farmaceutica, preferisce dedicarsi alla famiglia e mette al mondo cinque figli. Sì, davvero una ribelle».

E lei, ora, si confronta in palcoscenico con sua figlia Evita Ciri, che firma il testo e la regia dello spettacolo: una convivenza pacifica?

Ride: «Evita è esigente e molto severa. Durante le prove, quando mi interrompeva categorica dicendo fai così, fai colà, non gliele ho mandate a dire, ma alla fine... lei è la regista, io l’attrice».

Un’attrice che nasce nei primi anni ‘60, frequentando gli artisti della scuola romana di Piazza del Popolo...

«Insieme a Schifano, Kounellis, Fioroni... passavamo il tempo seduti sugli scalini della Chiesa degli Artisti, davanti al bar Rosati, dove non potevamo permetterci nemmeno di consumare un caffè, troppo caro per le nostre tasche».

E lei si innamorò di Renato Mambor, pittore e attore che faceva parte del gruppo.

«Un grande amore. Fu lui che mi fece cambiare il cognome. In realtà sin da ragazzina, alle elementari, venivo presa in giro. Quando la maestra faceva l’appello e pronunciava Gargaloni, i compagni esclamavano: Gargarozzo!».

Perché Pitagora?

«All’inizio Renato mi aveva ribattezzato Pitagorica, perché diceva: sei senza tette, piatta come la tavola pitagorica. Poi, mentre facevo un provino per il produttore Cristaldi nel suo studio a piazza Pitagora, decisi di accorciare».

Dalla pop art ai «Promessi sposi» in tv...

«Feci il provino per il personaggio di Lucia Mondella, mentre ero in Ciao Ruy al Sistina, vicino al mitico Mastroianni e alla mitica Paola Borboni. Non ero convinta di impersonare la Mondella, mi sentivo un’anticonformista, non adatta a quel ruolo. Una sera chiedo consiglio a Paola che mi ordina: bacia la Madonna, hai una palla di fuoco tra le mani, giocatela bene».

E Marcello?

«Era riservato, niente a che vedere con il latin lover. Quando una sera venne a vedere il musical Sophia Loren, era talmente nervoso per quella presenza importante, che durante un monologo ruppe col pugno uno specchio».

Lei, un’anticonformista, che si addormenta al concerto di Bob Dylan nell’Isola di Wight. Com’è stato possibile?

«Eravamo un gruppo di italiani, riusciti a entrare senza pagare il biglietto e piazzati in prima fila. Vicino a me, Jane Fonda e Yoko Ono, ma giravano ovunque le canne! Faccio un tiro e mi addormento: mi sono svegliata agli applausi»

Una proposta che si pente di aver rifiutato?

«Godard mi voleva in un suo film: dovevo recitare nuda in un armadio. Sono scappata, ma non me ne pento.

Estratto dell'articolo di Teresa Ciabatti per corriere.it/sette/ venerdì 7 luglio 2023.

«Sul bisogno di cambiare che c’è in me» dice un verso di Stato di calma apparente , successo del 1993. «In quel testo c’era già quello che sarebbe avvenuto dopo» afferma Paola Turci. E si riferisce all’incidente che le ha distrutto parte del viso («connotati cambiati, quattordici interventi di ricostruzione»), e ai rovesci - felici e infelici - della sua vita. Prima cantautrice a sovvertire quelli che in Italia erano i canoni della donna che canta su un palco, amatissima da critica e pubblico (11 Sanremo - 3 come ospite), Paola Turci è stata capace di tradurre in parole e musica un femminile potente, consapevole, anomalo, libero. 

(...)

La bellezza è stata un ingombro?

«Non mi sono mai sentita bella, né lo era considerata. Mi nascondevo, mi vestivo molto, strati su strati».

Corteggiatori?

«Piacevo solo d’estate. Abbronzata, con gli occhi che diventavano verdi».

Riferendosi al tempo prima dell’incidente lei dice di aver vissuto con “un senso di onnipotenza incredibile”.

«Il pensiero che a me, proprio a me, non poteva succedere niente».

Già da adolescente?

«Per esempio d’estate: ogni sera prendevo la Vespa e andavo nel locale dall’altra parte del promontorio. Arrivavo all’apertura, ballavo fino alle cinque del mattino. E via, di nuovo a casa. Sa quante volte ho rischiato su quella strada?».

Incosciente?

«Correvo, nuotavo, odiavo stendermi al sole. Non riuscivo a stare ferma. Ero scalmanata, e, sì, incosciente».

(...)

Agosto 1993.

«Sicilia, tour. Sono nervosa perché la sera prima lo spettacolo non è andato come avrei voluto, in più si rompe la macchina del tour. Una mia amica siciliana mi presta la sua macchina. Intanto sento l’inquietudine montare. Sul traghetto ricordo di aver chiamato tutta la mia rubrica».

Per dire?

«Niente».

E?

«Quando chiamo mia madre dico solo “mamma”, basta “mamma” perché lei capisca che qualcosa non va. Si raccomanda di dormire, anche oggi mi ripete che devo dormire, ha paura che non dorma abbastanza». 

La notte del 15 agosto.

«Ho un vestito corto nero, e i capelli liscissimi, appena fatti. Guido la macchina della mia amica. Aspetto la telefonata di mio padre: guardo e riguardo il telefono, finché non mi accorgo che è spento. Da lì smetto di guardare la strada».

A quel punto?

«La macchina sbanda, io riesco a riportarla in strada, sbatte contro il guardrail, si cappotta due volte. In quegli istanti penso: “sono atletica, basta che accompagno le botte”». 

Il dopo?

«Appena la macchina si ferma sento i capelli tranciati di netto. La prima cosa di cui mi accorgo. I miei capelli lunghi non ci sono più».

Altro?

«Le voci della gente. Qualcuno dice: “Paola Turci, è Paola Turci”. Io non riesco a aprire gli occhi. In ospedale sento gli infermieri avvisare i medici: “c’è una ragazza nera”. Mi avevano scambiato per una ragazza nera, credo perché non si vedeva niente. Il viso era aperto, c’era tanto sangue». 

Lei cosa dice?

«Toglietemi questo vestito, sono piena di vetri dentro».

Risveglio dall’anestesia?

«Chiedo di non avvisare i miei per non farli preoccupare. In seguito saprò che mia madre quella notte ha sognato di riprendermi per un capello dalla lavatrice. Sogna che io sono dentro la lavatrice, e lei riesce a tirarmi fuori». 

Il tempo successivo all’incidente?

«A distanza di un mese riprendo il tour. Dico di stare benissimo, trovo mille giustificazioni ai capelli davanti agli occhi: il vento. “C’è il vento” ripeto. Mi copro in ogni modo, occhiali da sole, trucco. Al ristorante mi metto di profilo, con il lato del viso distrutto dalla parte del muro. Anni a nascondermi, fingendo di stare bene. Fingendo di non avere paura».

Quanta paura invece?

«Di essere vista, giudicata, di non essere all’altezza. Addirittura per strada, se qualcuno, riconoscendomi, mi fissava troppo, io m’innervosivo. Pensavo: sta guardando la cicatrice».

La cicatrice?

«La sentivo: qualcosa di appiccicoso che stringeva. Una maschera sulla faccia che non potevo togliere. Alzare una mano e gettare via».

La prima volta che si è riguardata allo specchio?

«Avevo fatto levare gli specchi da casa. Più avanti, con uno specchio piccolo ho iniziato a guardarmi, non tutta insieme. Dal collo in su, salivo: la bocca, il naso, un pezzo al giorno». 

Quanti giorni per vedere il viso intero?

«Non pochi».

A ottobre dello stesso anno fa il video di una canzone ( Io e Maria ), dove si mostra senza timore.

«Non proprio senza timore: capelli davanti alla faccia, occhialoni scuri, trucco pesantissimo. Ripresa di profilo, dalla parte intatta».

Con un’esistenza stravolta, in quel periodo lei deve cantare canzoni scritte in precedenza. Quanta distanza da quei testi?

«Non dalle canzoni che parlavano della voglia di cambiare. Lì continuavo a trovarmi, anzi: sembrava che quei testi raccontassero in anticipo quel che mi sarebbe successo, una specie di preveggenza. Piuttosto sentivo tantissima distanza dalle canzoni allegre. Le cantavo, e mi pentivo».

Esempio?

«Ce ne era una veramente scema, Pedalò : “Ciao bagnino su quel pedalò, come vedi nuotare non so».

Quanti anni per dire la verità?

«Ventiquattro. Ventiquattro anni per sconfessarmi. Per rivelare che non era vero niente: no, non stavo bene, non ero felice. Ho trascorso ventiquattro anni a nascondermi. Come i bulimici che mangiano e giurano di non aver mangiato niente».

Allora scrive Fatti bella per te . È il 2017.

«La mia liberazione. “Qualcosa dentro ti si è rotto e sei più bella”. Ci vuole tempo per capire che la bellezza è lì, nel punto di rottura». 

(...)

Paola Turci icona che si rivolge a un vasto pubblico, incluso quello Lgbt+.

«La prima volta che ho visto due ragazze baciarsi è stato a un mio concerto. Da bambina non sapevo nemmeno cosa significasse omosessuale, non era un argomento affrontato nella mia famiglia borghese Anni 70».

Nonostante ciò.

«Notavo la differenza di trattamento tra maschi e femmine. Una differenza che ho combattuto nella musica e nella vita».

La differenza nell’infanzia?

«Da piccole io e mia sorella cucinavamo e ci rifacevamo i letti. Mio fratello no, ha imparato molto dopo».

Come conosce Paola Turci l’ambiente Lgbt+?

«Da ragazza, grazie a un amico di Milano. Con lui ho la possibilità di vedere più mondo rispetto a quello visto fin lì. Incontrare persone nuove. Accorgermi delle ingiustizie, desiderare la parità». 

In quel periodo chi è Paola Turci?

«Mai definita attraverso la sessualità. Ho avuto molti uomini, eppure nessuno mi ha mai detto con accezione negativa: sei etero».

Al contrario?

«Mi dicevano che sembravo lesbica per via dei muscoli e della voce bassa».

E?

«In quel momento stavo con uomini: fidanzata, sposata».

Perciò?

«La gente continua a dire lesbica come un’offesa». 

Cos’è invece?

«Un aggettivo».

Sua moglie.

«Non m’incuriosiva, poi un giorno leggo una sua intervista su Il Fatto Quotidiano , di Francesca Fagnani, e rimango colpita. Quello che dice sui diritti, sulle ingiustizie. Al che la cerco su Instagram dove lei era arrivata da poco per cercare me».

Per cercare lei?

«Così mi ha detto. Mi seguiva come cantante».

Che musica ascolta Francesca Pascale?

«De André, Fossati, e Pelù».

Pelù?

«Le piaceva fisicamente».

Tornando a Instagram.

«Io metto un like a una sua immagine in sostegno di Radio Radicale. Dal like iniziamo a scriverci».

Primo incontro?

«A un mio concerto. Ero emozionata a sapere che nel pubblico ci fosse lei». 

Qualcosa che rappresenta voi due insieme?

«Il camper. Ci piace viaggiare in camper. Siamo andate a Amsterdam, e a Parigi».

Il giorno in cui l’avete comprato?

«Francesca individua il modello su internet, lei in questo è brava, ricerca. Quindi andiamo dal rivenditore. Ricordo la strada per tornare a casa: lei davanti col camper, io dietro in macchina».

Il vostro camper, descrizione?

«Non grandissimo: un living con due panche e un tavolo. Chiuso il tavolo, dal soffitto viene giù il letto».

I viaggi?

«Guida Francesca. Ogni tanto ci fermiamo in autogrill, ma non scendiamo. Rimaniamo dentro, andiamo in bagno».

Poi?

«Ripartiamo».

Cos’è la famiglia?

«Dove c’è amore».

Dove c’è amore per Paola Turci oggi?

«Qui».

(LaPresse il 9 marzo 2023) Ospite di Alessandro Cattelan nel programma ‘Stasera C’è Cattelan’ su Rai Due, Paola Turci ha raccontato come ha conosciuto Francesca Pascale con cui si è unita civilmente lo scorso luglio.

 «Ci siamo conosciute ad un mio concerto», ha raccontato la cantautrice che ha ammesso di aver avuto un gancio involontario da Francesca Fagnani che aveva intervistato Pascale: «Lessi questa intervista e rimasi colpita […] poi ho visto la foto e ho pensato ‘però dai guarda’», ha ammesso la Turci.

Parlando poi del loro primo incontro la cantante ha raccontato: «Vengo a sapere che sarebbe venuta al mio concerto a Torino. Ero un po’ agitata, l’ho vista mentre entravo in scena. Io la vedo e salta la luce! Ho fatto qualche pantomima e poi ho fatto un concertino chitarra e voce e poi dopo cinque minuti hanno ripristinato l’elettricità». Un fuoriprogramma che ha colpito…

Galeotta fu un’intervista di Francesca Fagnani. Paola Turci si racconta, dal primo incontro con Francesca Pascale al matrimonio: “La vidi e saltò la luce”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 9 Marzo 2023

Un colpo di fulmine o meglio di tensione che fece saltare la corrente. La prima volta che Paola Turci vide Francesca Pascale era a un suo concerto. Pascale era nel pubblico e Turci trepidante di scorgerla dal palco. “Io la vedo e.. salta la luce letteralmente! Così ho fatto un concertino senza audio, ma dopo cinque minuti hanno ripristinato l’elettricità. Francesca è rimasta colpita di questa cosa che ho cantato senza luce”. È questo uno degli aneddoti che la cantante ha raccontato ospite a Stasera C’è Cattelan.

Da luglio 2022 è sposata con Francesca Pascale. Dopo due anni di vita insieme cercando di sfuggire ai paparazzi e alla morbosa curiosità sulla loro coppia, le due sono convolate a nozze civili con una cerimonia da favola. Turci ha raccontato come ha conosciuto la moglie: “Tutto è nato ad un concerto, ma ‘Francesca era già una mia fan’” ha raccontato Turci. Ha confessato di dover ringraziare anche “la belva” Francesca Fagnani che ha contribuito a far scoccare la scintilla. Fagnani intervistò Pascale per il fatto Quotidiano e turci rimase ammirata dalle sue parole.

La lessi questa intervista e rimasi colpita – ha detto – Francesca non era nei miei radar e pensavo che Francesca Pascale fosse un’altra. Lei non si faceva tanto vedere. Comunque ho letto l’intervista, mi è piaciuta, poi ho visto la foto e ho pensato ‘però dai guarda, pure carina e intelligente’. Diceva cose che condividevo”. Turci venne a sapere della presenza di Pascale a un suo concerto a Torino: “Ero un po’ agitata, l’ho vista mentre entravo in scena, alla prima canzone – ha detto – Io la vedo e… salta la luce letteralmente! Così ho fatto un concertino senza audio, ma dopo cinque minuti hanno ripristinato l’elettricità. Francesca è rimasta colpita di questa cosa che ho cantato senza luce”.

La cosa di cui ho sofferto di più in questi anni di attenzione non richiesta, è stato leggere: ‘Perché vi volete far vedere così tanto?’. Era proprio il contrario, erano gli altri che volevano morbosamente cercare, capire, vedere, conoscere, inquadrare, fotografare. Per noi non c’era questa volontà. Io faccio fatica a parlare delle mie storie, dell’amore che mi riguarda”. Secondo quanto rivelato da Oggi qualche tempo fa Turci e Pascale starebbero ora pensando a un figlio, pensando a un’adozione o all’affido.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Paolo Belli: «Quando Vasco mi mostrò come si scrive una canzone. Baccini? Mai più sentito». Storia di Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 10 gennaio 2023.

M a poi al Liga gliel’ha fatto lo sconto sulla chitarra elettrica?

«Uno sconticino, perché il negozio di strumenti in cui lavoravo come commesso non era mica il mio e il titolare da quell’orecchio non ci sentiva tanto».

Quasi vicini di casa, voi due.

«Io di Carpi, lui di Correggio, tra le nostre case ci sono sì e no nove chilometri. Da ragazzi stavamo spesso insieme, stessi sogni, stessa passione, la musica. Una volta, tornando in auto, si rifletteva sulla vita e sul destino. Per due come noi, gente semplice di pianura, non era né facile né scontato avere successo. Ci siamo guardati negli occhi e quasi commossi. Poi siamo scoppiati a ridere: “Caspita che gran c... che abbiamo avuto!”», racconta Paolo Belli, 60 anni, esuberante, schietto ed emiliano come uno gnocco fritto («Non me lo nomini, per pietà, che oggi è il giorno che mi tocca solo frutta e verdura»). Così era da capobanda dei Ladri di Biciclette (quelli di «Siamo là -là-drì di biciclette siamo là-là-là e siamo qua») e così è rimasto (con quella appena finita sono 17 edizioni) da scatenato maestro d’orchestra, sgargiante co-presentatore e soprattutto gran consolatore/motivatore dei concorrenti di Ballando con le Stelle, prima di ripartire il 25 gennaio con il tour tea trale del suo show Pur di far commedia.

Un bambino di Formigine o Furmézen, come dite voi nati vicino Modena.

«Infanzia meravigliosa. La mia famiglia era molto umile, non avevamo niente, però eravamo sempre allegri. In paese saremo stati tremila, ogni scusa era buona per fare baldoria. Ed era pieno di bimbi, la tv non c’era e il passatempo preferito — cosa vuole — era sempre quello».

Mamma Piera faceva la cuoca alle Feste dell’Unità.

«Cucinava per un esercito: cofane di tortellini, lasagne, tagliatelle. In paese eravamo davvero come nel film Peppone e don Camillo: tutti i maschi erano comunisti, tutte le signore donne di chiesa sempre in parrocchia. Politica e religione erano un pretesto per stare in compagnia. Mai rimasto da solo nemmeno per un giorno. D’estate al campo sportivo ogni sera alle 18 c’era la grande sfida a pallone, trenta contro trenta, grandi e piccini».

Papà Guido, benzinaio.

«Un giorno, avrò avuto dieci anni, gli chiesi: “Vorrei tanto un pianoforte”. “Compralo”, rispose, punto. Fu così che chiesi a un contadino lì vicino se potevo dargli una mano con qualche lavoretto. Mi mise a raccogliere le barbabietole. Una fatica terribile, sempre piegato in due con le mani nella terra. Un giorno mi ribellai: “O mi fa guidare il trattore oppure non vengo più”».

Piccolo sindacalista.

«In tre mesi racimolai cinquantamila lire. Mi comprai una pianola usata, che mi pareva la più bella del mondo. Aveva sette tasti rotti. “E tu usa gli altri”, mi suggerì papà».

Al conservatorio studiò fagotto.

«L’unico corso a cui c’era rimasto posto. Pianoforte no, chitarra no, violino no, tromba nemmeno. La sera tornai a casa con la mia bella valigetta, con dentro i tre cilindri di legno da avvitare. “Cos’hai rubato?”, mi chiese mamma, sospettosa. “Niente, guarda, è il mio fagotto”. “Ecco, lo hai già rotto”».

Sulla carta sarebbe pure perito elettronico.

«Non so avvitare nemmeno una lampadina, appena sfioro un filo salta in aria la centralina di tutta Carpi. Mia moglie mi supplica di non toccare niente. Due anni fa comprai un macchinario per fare ginnastica in casa, non sono mai riuscito a montarlo».

I primi tempi suonava in sette band, una diversa al giorno.

«Passavo dal blues al rock alla mazurka, più tardi poi mi è servito».

Ne ha mangiato di pane e cipolla, parole sue.

«Eccome. C’era sempre una festa a cui suonare, fermi non stavamo mai, si partiva con un pulmino scassato blu, la paga a fine serata però era un panino e una birra».

Poi sono arrivati i Ladri.

«Mi sono sposato e trasferito a Carpi. Lavoravo nel negozio di strumenti del mio ex insegnante di piano, ci venivano un sacco di ragazzi del conservatorio. Conosci questo, conosci quello, mettemmo insieme la band. Al terzo giorno avevo già scritto . Subito dopo Dr Jazz & mr Funk. Un’esplosione di energia creativa. Partimmo con i concerti. Al primo vennero in 10, quindi in 30, 500, mille. Col passaparola dopo un anno eravamo richiestissimi. E la paga diventò due panini e due birre».

Nel 1988 partì per Milano bardato come Totò e Peppino.

«Con in mano una cassettina da portare alla Emi. Un anno dopo eravamo a Sanremo».

Eliminati alla prima serata, ma portò bene.

«Vasco Rossi ci prese come gruppo spalla ai suoi concerti. Grande Blasco, generoso. Una volta al ristorante gli confidai: “Sai, ti invidio per come scrivi i testi, io a comporre la musica ci metto tre minuti, ma poi con le parole mi pianto lì”. E lui: “Quando hai una canzone, dalla a me che te la sistemo io”. Ho preso la palla al balzo e gli ho portato una melodia. È diventata Bella città. Pazzesco, è sua, ma sembra che abbia usato la mia testa e la mia anima».

Sotto questo sole («è bello pedalare sì, ma c’è da sudare»), in coppia con Francesco Baccini, vinse il Festivalbar 1990.

«Gli dissi: “Dai, cantala con me”. È stato bello, ma poi non ci siamo più sentiti. Non avevamo niente da condividere e l’ho chiusa lì».

Dopo il picco, il tonfo. Addio Ladri. Anni che passano. Il telefono che non squilla più.

«Un periodo difficile, che ho superato grazie a mia moglie Deanna che mi ripeteva di non mollare. Un giorno stavo per lanciare il cellulare contro al muro, quando all’improvviso suonò. Era Piero Chiambretti. “Hai da fare? Perché non passi da me?”. Ho preso l’auto e sono andato. Preparava Il laureato bis per Raitre».

Con lui d’amore e d’accordo.

«È una macchietta, irresistibile. Professionista pazzesco. Una sera ero nella stanza d’albergo accanto alla sua, muri sottili, lo sentivo preparare le interviste facendosi domande e risposte, andò avanti per ore. Ho capito come si fa la tv».

Con Panariello, due amiconi.

«A Torno sabato eravamo un’armata Brancaleone, ma mi divertivo così tanto che quasi non volevo tornare a casa, dopo. Anzi, approfitto di voi: “Giorgio, se vuoi io sono qua”».

La saggezza di Gianni Morandi.

«Mi disse: “Io ho avuto due fortune, caro Paolo: fare successo e ritrovarlo”. Per me è stato uguale. Perché il treno passa tutti i giorni, ma tu devi essere pronto a salirci».

Milly Carlucci le mette ancora soggezione?

«Sempre, come il primo giorno. Perché lei è bravissima, perfetta, io un terribile pasticcione. Sbaglio tutto, dalla grammatica alla posizione in scena alle parole da leggere sul gobbo, ma poi alla fine risulta tutto giusto perché spontaneo».

Angelo custode dei concorrenti di Ballando.

«Prima o poi devo consolare tutti. Inconvenienti? Eccome se capitano. Una coppia doveva scendere in pista ma il ballerino non si trovava. Era in bagno. Crisi di panico? Uuh... tante. Ricordo con affetto Fabrizio Frizzi, che per me era un fratello maggiore. Contava i passi di continuo: “Cinque, sei, sette, otto”, era fissato. Quest’anno Iva Zanicchi fremeva, non vedeva l’ora che toccasse a lei. Dietro le quinte ci parlavamo in dialetto».

Ha vegliato pure su Diego Maradona.

«Ho palleggiato con lui in diretta, cantando e ballando, un onore. Come faceva al Napoli con i compagni di squadra, a Ballando prendeva le difese di tutti i concorrenti, anche se in teoria erano suoi rivali. Un professionista. Arrivava il giovedì da Buenos Aires, studiava la coreografia, affrontava la gara e la domenica ripartiva per l’Argentina»

Con chi ha un caratteraccio, come ve la cavate?

«Ne abbiamo avuti diversi, difficili o permalosi, ma con Milly accade il miracolo, si sentono protetti e rispettati e di colpo diventano tutti dolci come zuccherini».

Uno che vi ha fatto penare.

«Il mio amico Bobo Vieri. Ci ho messo anni a convincerlo a partecipare, si vergognava. Invece è uscito fuori per quello che è, divertente e simpatico. Adesso mi ringrazia. “Avevi ragione tu”».

Va sempre in bicicletta ogni giorno?

«La carico in auto e me la porto ovunque. Quando mancano 70 km alla destinazione, scendo e continuo in bici. A Roma ogni giorno ne faccio almeno 50, evitando i sampietrini...».

La dieta.

«La mia croce. Vorrei essere magro e non lo sono, vorrei non essere un mangione ma lo sono, le diete le ho provate tutte. Funzionano. Purtroppo funzionano pure i tortellini, ne mangio finché ce n’è, per quello poi devo correre a pedalare».

Ha dovuto rinunciare ai ciccioli?

«Ah... i ciccioli! Perché me li ha nominati? Mmm... Noi emiliani li inzupperemmo pure nel caffellatte».

I suoi vestiti sono... beh, catarifrangenti.

«Prima mi sbizzarrivo solo con le scarpe, bicolori, rosa fucsia, dorate. Poi sono passato al resto. Gli outfit li sceglie mia moglie con la costumista, tenendo conto che non sono uno stangone da un metro e 90. Ma sa che mi scrivono tante signore per sapere cosa mi metterò in puntata?»

Perde sempre tutto ciò che tocca?

«Sono campione mondiale. Semino cose lungo il tragitto. All’ufficio oggetti smarriti di Fiumicino mi fanno le feste. “Che si è perso oggi?” Ombrello, cappotto, telefono, chiavi, portafoglio, lascio in giro qualunque cosa. Una volta sono andato in aeroporto senza passaporto, sono tornato indietro, l’ho preso, ma quando sono arrivato non c’era più, l’avevo perso di nuovo, sono senza speranza».

Rodolfo di Giammarco per “la Repubblica – Edizione Roma” il 9 aprile 2023.

Paolo Calabresi ha assunto tanti ruoli in scena, cinema e tv, e anche nella vita […]

 Calabresi, lei ha più volte assunto identità non sue senza fare l’attore..

«Non volevo essere riconosciuto, mi attribuivo nomi altrui di persone reali, una cosa durata anni, cominciata quando ero a Milano […] Volevo concedermi Milan-Roma a San Siro e non c’erano biglietti. Escogitai una soluzione da Vip, annunciandomi come Nicolas Cage, che figurava nel film in uscita “Al di là della vita” di Scorsese.

 Scattò una macchina mediatica. Mi volevano venire a prendere, e per evitare d’essere smascherato chiesi all’autista del Piccolo di accompagnarmi, coi colleghi a farmi da guardie del corpo. Parlavo inglese, ebbi un posto accanto a Galliani, mi portarono negli spogliatoi, la tv sottolineò la mia presenza».

E le recite camaleontiche continuarono...

«Otto anni dopo mi finsi ancora Cage a Madrid per la Champions League con Real Madrid-Roma, e ricevetti onori dal presidente e dai giocatori spagnoli. Totti, cui erano giunte le voci del bluff a Milano, mi sussurrò ‘Ma lo voi paga’ il biglietto, ‘na volta?’.

Io avevo l’adrenalina a 1000.

 Mi sono mimetizzato anche da John Turturro ai David di Donatello, da capo africano in visita al sindaco Veltroni (mi ci vollero dieci ore di trucco), da Marilyn Manson al gala della pubblicità di Mediaset, da cardinale honduregno Maradiaga a un concerto di Gigi D’Alessio, da presidente del Cio in un’intervista concessa a Mediaset Sport con accanto Moratti sul tema di doping e Olimpiadi. […]».

[…]Le Iene?

«Sei strani anni, con me che cercavo un supporto ai miei trasformismi. Quando feci il regista d’un prossimo James Bond in un provino ho preso a schiaffi Corona: era prevista una scena di tortura, lui si è tolto la maglietta per far vedere i bicipiti, e io ho punito la sua vanità. […]». […]

DAGOREPORT il 9 febbraio 2023.

Il 19 febbraio il cantautore Paolo Conte si esibirà alla Scala. Mentre montano le richieste di biglietti (ci saranno i bagarini?) da parte di coloro che, sentito Conte, non metteranno più piede alla Scala nemmeno per un recital, montano pure le polemiche di quelli che alla Scala e all’opera ci vanno sempre e stigmatizzano la “ospitata” di Conte (che ospitata non è, poiché la serata figura prodotta dalla Scala). 

Qualcuno dichiara di non voler nemmeno “discutere la presenza di Paolo Conte alla Scala”; altri parlano dei “prezzi dei biglietti come scandalo mondiale”; qualcuno ricorda che alla Scala cantò anche Milva. Ma questa fu cosa diversa poiché Milva non cantò canzoni pop, ma alla Piccola Scala nel 1975 nello spettacolo ‘’Io Bertolt Brecht’’, tre anni dopo nella prima del “Diario dell'assassinata” con la direzione di Donato Renzetti e la regia di Filippo Crivelli; Luciano Berio la chiama nel 1982 e nel 1988 partecipò al dramma coreografico “L'angelo azzurro” di Roland Petit, quindi ultima apparizione nel 1989 protagonista in “Sette peccati capitali” di Kurt Weill con l’orchestra scaligera diretta da Zoltan Peskó.

Alla Scala non ha mai cantato il Nobel Bob Dylan, che pure sarebbe stato più legittimato, nemmeno Paul McCartney: perché ci arriva Paolo Conte? Di certo non l’ha cercato il sovrintendente Dominique Meyer: a lui, mi sa, arriva il pacco postale. E anche a tutti i lavoratori Scala, che per lo più stropicciano gli occhi all’iniziativa (si fa sciopero per la Cultura perché 90 lavoratori non sono troppi per montare due leggii e nemmeno un documentino critico sul concerto di Conte? Perché?). 

Quel che possiamo dire è che Conte appartiene alla casa discografica fondata dal compianto Piero Sugar, il grande produttore ungherese figlio di Salomon Sugar e Vilma Goldstein, gestita dalla vedova ex Casco d’oro Caterina Caselli. L’ex ministro della cultura, il ferrarese Dario Franceschini, sarebbe stato a conoscenza dell’iniziativa (quindi l’ha approvata? L’ha sostenuta? Spinta?) e, di certo, lo è stato il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, presidente del Teatro. 

Non è una affittanza: la Scala emette i carissimi biglietti (300 euro) tutti esauriti, probabilmente guadagna nella produzione e paga un feea Conte; pare che si produrrà un dvd dell’evento. Evento nel quale si dovrebbero usano chitarra elettrica e amplificazione. Alla Scala! 

 Non è una questione di classe, di élite… ma di cancellazione della storia della Cultura, mancata difesa dei generi, volontà di assecondare la disintermediazione dove tutto è uguale a tutto, la Ferragni è maîtrea Sanremo più di un professore ordinario di Filosofia e Conte alla Scala vale Mozart. Finora la Scala era resistita.

Poi ci lamentiamo dei like a questo e a quello e facciamo i distinguo se Uto Ughi sbotta e dice “basta” ai Maneskin. A proposito, loro, così fluidi e mainstream, visto che non sono a Sanremo quando li vedremo alla Scala?

Lettera di Piero Maranghi al ilfoglio.it l’11febbraio 2023.

Caro Paolo Conte, Lei è il mio cantautore preferito, l’ho ascoltata innumerevoli volte dal vivo, da Bari a Parigi, da Torino ad Amsterdam. Le Sue stanzette umide, i Suoi piedi un po’ prensili, i Suoi sguardi dei francesi popolano il mio cuore e la mia mente da sempre e ora animano le fantasie dei miei quattro figli, dai venti ai nove anni, cui ho trasmesso l’amore per l’universo contiano, per l’eleganza delle zebre e le frittelle con il vino.

 Vivo a Milano, la mia vita professionale è nella musica, io sono nella musica. Sono l’editore del canale Classica HD su Sky e Lei mi ha onorato più volte dicendo pubblicamente di sbirciarla ogni tanto; faccio, con Paolo Gavazzeni, il regista di opere liriche; produco documentari e libri sul teatro musicale e cartoon per i ragazzi, la serie più importante, 52 episodi con l’avatar di Daniel Barenboim, è distribuita in tutto il mondo.

Il Teatro alla Scala è la mia casa, un luogo dove, nella mia vita, ho fatto tutto, davvero tutto. Ma il 19 febbraio non verrò a sentirLa. Mi rivolgo a Paolo Conte e non alla dirigenza del Teatro per una ragione molto semplice, loro non hanno gli strumenti per comprendere, Lei certamente sì.

 Spiego il mio pensiero. Il Suo concerto è uno schiaffo alla storia della Scala; costituisce un precedente assai pericoloso; non dà nulla al Teatro da cui invece riceve moltissimo; è culturalmente un concerto ‘antipatico ed elitario’, come dire non vedo traccia di alberghi tristi e di intelligenza degli elettricisti.

Durante la direzione di Antonio Ghiringhelli, storico sovrintendente del dopoguerra, nel 1971 il cda ricevette dal Comune la richiesta, in occasione di un premio che Milano conferiva a Charlie Chaplin, di proiettare Tempi moderni nella sala del Piermarini; rispose di no, rispose che il teatro ha una funzione diversa; alla fine Carla Fracci fu protagonista di una Giselle dedicata a Charlot, che poté applaudire dal vivo, ricambiato calorosamente dal pubblico e il film fu proiettato in altra sala.

 Poi ci fu la sovrintendenza di quel Titano della politica culturale che era Paolo Grassi, lui ammise per primo Milva e lei tornò più volte negli anni ma lo fece per Brecht, Berio, Petit e se fosse ancora tra noi Grassi (avèghen!), oggi prenderebbe letteralmente a calci tutte le serate dei palloni d’oro, dei red carpet della moda, delle lavatrici nel foyer, prenderebbe a calci i neo-calciatori dell’Inter che arrivano a Milano ed entrano in Palco Reale, a teatro chiuso, per un selfie su Instagram. Prenderebbe a calci i responsabili di tutte queste amenità che popolano da oltre un decennio il Teatro alla Scala.

Carlo Maria Badini e Carlo Fontana, i due successivi sovrintendenti, rispettarono questo indirizzo. Per Fontana, il più autentico erede del magistero culturale e politico di Grassi, fu una scelta ponderatissima e assai meditata quella di permettere il concerto di Keith Jarrett, scelta che si formò su tre pilastri: le numerose incursioni interpretative dell’artista nel repertorio classico, la contemporaneità della sua ideazione musicale, l’assenza di amplificazioni.

Poi ci furono Stephan Lissner e Alexander Pereira; il primo dei due, tra le tantissime pressioni cui resistette nei dieci anni di sovrintendenza, dalla politica e dallo stesso cda, si oppose strenuamente alle continue richieste di un sindaco perché lasciasse esibire in Scala il Suo, di Lei Paolo Conte, co-genetliaco Adriano Celentano; nel periodo Pereira sono personalmente testimone di un episodio assai significativo. Un giorno mi chiama il console armeno pregandomi di chiedere se Charles Aznavour si possa esibire in Scala per la causa del suo popolo d’origine; rispondo che, pur adorando l’artista e condividendo la causa, sono contrario, ma che non mi sottraggo dal formulare la richiesta, forse anche per evitare arrivi da altri; chiamo Pereira con una certa apprensione, anche conoscendo la sua disinvoltura.

Dopo due squilli il sovrintendente risponde e secco mi dice “non possibile, se iniziamo non finiremo più, pochi giorni fa ho detto di no a un grande cantante americano, ora non mi ricordo il nome”. Saluti e fine? No, pochi minuti dopo mi manda, via sms, il nome: Bob Dylan! Durante Expo 2015 il direttore generale della Scala, Maria di Freda, si è battuta come un leone per impedire che Andrea Bocelli si esibisse nella sala del Piermarini e questa coerenza è probabilmente all’origine, anni dopo, della sua brutale defenestrazione dal Teatro. Amo Paolo Conte più di tutti i musicisti di cui sopra – con l’esclusione di Barenboim – ma non può bastare. Chi stabilisce il valore artistico Suo rispetto a quello di altri colleghi?

Il sovrintendente-direttore artistico Dominique Meyer. Qui la cosa si fa dolorosa poiché questo signore è manifestamente sprovvisto di cultura scaligera. A proposito, caro Conte, questa doppia carica in capo a un sol uomo – sovrintendente-direttore artistico – di stampo franco-germanico, inaugurata proprio alla Scala nel 2005 e poi scimmiottata da molti altri, in Italia si è rivelata una aberrazione inaudita che ha finito per deformare e distruggere tradizioni secolari, con buona pace di sindaci e amministratori, al meglio inconsapevoli, al peggio interessati ad abbandonare l’Opera a un destino di secondarietà rispetto a selfie e sfilate.

Sovrintendenti-direttori artistici, quasi sempre stranieri, che ci raccontano la storiella dell’internazionalizzazione (si legge omologazione) della Scala, non capendo che il nostro Teatro è stato per oltre due secoli il più internazionale dell’universo proprio per la Sua cifra unica e inimitabile. Oggi si è trasformato in un supermarket che fa cucina internazionale, si vedono e si ascoltano spettacoli identici a quelli di Amsterdam, Bordeaux, Dresda e non è più il teatro dei milanesi, come lo chiamava Stendhal.

Veda caro Paolo, per me queste considerazioni sono ancora più amare, i teatri italiani che hanno preso questa china sono quasi tutti amministrati dal centrosinistra; come liberale ho sempre scelto quella parte e ora devo constatare che anche in cultura abbiamo messo una pistola carica e senza sicura nelle mani di questa destra arrogante e sguaiata, così è, pagheremo carissimo temo.

 Ora ci dicono che l’attuale sovrintendente abbia permesso il concerto perché richiesto dai piani superiori? Peggio mi sento! La Scala è stato il simbolo assoluto di indipendenza e coerenza di un’istituzione culturale in Italia, da sempre! I NO degli uomini scaligeri alle pressioni esterne e interne sono innumerevoli nel corso della storia, non solo i sovrintendenti ma penso ai Maestri della Scala, penso ad Arturo Toscanini a Riccardo Muti; i loro NO sono un patrimonio della nostra cultura nazionale e del nostro orgoglio cittadino.

Già Toscanini e Muti, scrivendo i loro nomi nasce un’altra domanda: questi due direttori musicali avrebbero accettato in silenzio le scelte dei loro rispettivi sovrintendenti di concedere dei concerti, che so io, ad Alberto Rabagliati o Lucio Dalla? Il fatto ancor più grave è che ora abbiamo il precedente: è un’autorizzazione a procedere. Discografici, sindaci, consiglieri, ministri, sponsor fatevi sotto! Dal 19 febbraio si può e ognuno di voi ha un cantante, un cantautore, un urlatore del cuore, da far suonare alla Scala!

 Ancora, adorato e splendido Paolo Conte, Lei alla Scala, la mia è solo una constatazione, non dà nulla. Porta pubblico giovane? NO. Porta un pubblico che resterà attaccato alla Scala? NO. La Scala ha bisogno di Paolo Conte o di Mina o Dylan per essere quello che è (ormai sarebbe il caso di dire che era)? NO! E Lei cosa riceve? Tantissimo. Lei può esibirsi, primo “non classico” nella storia, sul palcoscenico che fu di Rossini e Verdi, di De Sabata e Callas, di Gavazzeni e Visconti, di Pavarotti e Abbado, di Strehler e Zeffirelli. Non mi interessa sapere se Lei percepisca anche un cachet, immagino però che facilmente ci sarà un cd o dvd “Paolo Conte alla Scala” e mi chiedo se serva al Teatro, ben conoscendo la risposta.

E poi l’antipatia dell’operazione, quella sera ci saranno tutti quelli che di solito vengono al 7 dicembre a farsi i selfie, per poi inabissarsi per tutto il resto della stagione fino al successivo 7 dicembre e da ora, dopo il 19 febbraio, fino al prossimo Paolo Conte che il prepotente di turno imporrà all’ennesimo sovrintendente-direttore artistico. I biglietti della serata poi sono carissimi, costano quasi il triplo del concerto che Lei terrà a Roma e che mi vedrà finalmente in prima fila a spellarmi le mani.

Caro Paolo Conte, dispiace profondamente, a un suo così profondo commendatore, dover passare ad altre danze come si passa in altre stanze, in altre parole dover estendere un messaggio così amaro a un artista così amato. Però Le offro una soluzione bellissima, ne tenga conto, io Le voglio molto bene: lasci stare la sala del Piermarini e chieda Piazza della Scala al Comune, per primavera.

 Montiamo un palco sotto Palazzo Marino e facciamo un concerto all’aperto “Paolo Conte per il Teatro alla Scala”, rivolto, anche fisicamente verso la Scala, Lei canterà per la Scala, come fosse con una splendida donna, un concerto dedicato alle gambe, alle tenerezze, alle dolcezze della Scala. Sarà una festa, noi milanesi e scaligeri saremo tutti con Lei.

Ci sarà anche una persona specialissima, Leonardo da Vinci, sì proprio lui, con la sua statua al centro della piazza e guardi che non è un caso che in quella scultura il genio di Vinci dia le spalle al Comune e sia rivolto al Teatro. Solo Lei può fermare questa banda di inconsapevoli dissipatori della tradizione meneghina e del Suo simbolo più luminoso, La Scala.

Con infinita gratitudine per l’attenzione, per le vampate africane, le caramelle alascane e i gregari in fuga!

Mi creda, Suo Piero Maranghi

Estratto dell’articolo di Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 12 febbraio 2023.

Lo splendido 86enne Paolo Conte si esibirà il 19 febbraio al Teatro alla Scala, e stiamo parlando di una delle nostre maggiori glorie internazionali […] cantautore, autore, polistrumentista jazz, pittore ed ex avvocato apprezzato in tutto Occidente […] un mostro sacro di statura incomparabile, e che, dopo la sua sessantennale carriera, forse, ecco: non meriterebbe la polemica che si sta tentando di imbandire per via di una sua presunta «estraneità» al mondo della Scala […] una tipica diatriba tardiva, un filo pretestuosa e perciò fuori luogo, improvvisata quando la stalla è già stata aperta da una vita, e i buoi sono già scappati da un pezzo.

La polemica, peraltro, l’ha tentata lo stimato amico Piero Maranghi perlomeno amico dello scrivente […] Maranghi, produttore, regista, scrittore, insomma competente benché fanatico verdiano (non si può avere tutto) ma che è anche gestore dei bookshop della Scala (le librerie) e eccoci, è proprio questo il piccolo conflitto d’interesse che inficia le sue frecciate all’attuale sovrintendenza scaligera: ossia le profonde incomprensioni (diciamo così) tra lui e il franco-tedesco e un po’ provinciale Dominique Meyer - il sovrintendente - che nei fatti hanno portato i bookshop a una provvisoria chiusura.

Questa è la premessa che Maranghi doveva fare: prima ancora di precisare d’essere un amante sperticato di Paolo Conte […] quasi un fatto personale tra Maranghi e la sovrintendenza, com’è comprensibile - data la mediocrità di Meyer - senza che tuttavia ci fosse bisogno, forse, dell’infinita quantità di argomenti anche contraddittori che Maranghi ha addotto alla sua polemica, come si dice: excusatio non petita.

 Alla Scala in passato si esibì Keith Jarrett, che nel mondo resta noto come jazzista sin dai tempi di Miles Davis, negli anni Settnta […] Alla Scala ha suonato il più che eclettico jazzista Stefano Bollani […] Ha pure suonato (cantato) il mitico Bobby McFerrin […] Parliamo di tre mostri. Mentre La Scala, in passato, ha detto no a Charles Aznavour (che voleva fare del suo concerto uno strumento politico) e persino a Bob Dylan […] Ha pure detto no a Bocelli perché, con tutto il rispetto, resta un interprete votato più al profano che al sacro, tanto che esordì praticamente a Sanremo. Ha detto tanti no, La Scala: ma anche tanti sì, e da tanto tempo […]

[…] La Scala […] è divenuta simile ad altri importanti teatri (che è anche un bene) ma ha perso un senso di appartenenza meneghina che però non è stato perso solo dalla Scala, ma da un’intera epoca, spersa in un tutto che sembra uguale a tutto. Alla Scala non c’è più Carlo Fontana. Non c’è più Paolo Grassi. […] Quindi Maranghi sa quanto possiamo condividere le sue parole quando scrive […] Lo scrivente prenderebbe volentieri a calci anche certi registi (ignoranti veri) che hanno scambiato il repertorio musicale per una colonna sonora delle loro cazzate, non studiando, non rispettando.

Maranghi dice che La Scala è un supermarket che fa cucina internazionale e dove si assiste a spettacoli identici a quelli di Amsterdam, Bordeaux, Dresda […] si poteva dire anche così: i teatri che hanno preso questa china sono i teatri di oggi. E oggi, appunto, menarla con Toscanini e Grassi e con Muti, e con «una volta era diverso», ci relega d’ufficio in una condizione di ritardo culturale: dove, beninteso, stiamo benissimo. Ma dove dimora, senz’altro, su un piano diverso, anche […] Paolo Conte […]

Dagospia il 13 febbraio 2023. Riceviamo e pubblichiamo:

 Dite all'amico Filippo Facci, stamattina gli ho già detto io in un cortesissimo colloquio telefonico, che il bookshop non è stato chiuso dalla Scala e/o dal Sovrintendente unilateralmente ma la licenza è scaduta 5 mesi fa ed io ho ridato le chiavi al concedente, tornando finalmente ad esser un uomo libero di esprimere, anche pubblicamente, il suo pensiero sul Teatro.

 Pensiero che, durante gli anni della concessione, ho dovuto trasmettere solo agli aventi causa in modo diretto e riservato, prerogativa che non ho mai smesso di esercitare.

 Piero Maranghi

Da “Posta e risposta – la Repubblica” il 14 febbraio 2023.

Caro Merlo, Piero Maranghi ha scritto un’accorata lettera a Paolo Conte, pubblicata sul “Foglio”, perché rinunci a cantare alla Scala il 19 febbraio. Mi accodo a questa perorazione, non tanto perché da loggionista e melomane (frequento il Teatro dal 1955, quando avevo 5 anni) io pensi che sia un oltraggio, ma perché semplicemente non mi sembra il luogo adatto, come dimostra banalmente anche la modalità di vendita dei biglietti, a prezzi molto più alti, introvabili solo dopo pochi secondi dall’inizio della vendita online.

 Il che dimostra che sono stati per la maggior parte distribuiti in altro modo, e per raggiungere un pubblico diverso da quello che normalmente frequenta la Scala (come avvenuto per il concerto di John Williams nel dicembre scorso).

 E, cosa ancora peggiore, non saranno venduti i biglietti di loggione la sera dello spettacolo, che si conquistano con una coda alla biglietteria qualche ora prima dell’inizio a un prezzo molto basso. Il vero scandalo è la non accessibilità al pubblico che normalmente frequenta il teatro. Sarebbe stato più onesto dire che era un evento privato per inviti. Attilia Giuliani

 Risposta di Francesco Merlo

È da mitomani reazionari pensare che il concerto di Conte alla Scala sia una profanazione e lei non è mitomane né reazionaria. La musica non si divide in musica alta e musica bassa, ma in buona e cattiva. E Paolo Conte è un classico della migliore musica italiana, degno della Scala come Verdi e Rossini e come i direttori Abbado e Muti, i registi Visconti e Strehler, i cantanti Tebaldi e Pavarotti…

Il concerto sarà una magnificenza come nel 2019 lo fu al San Carlo, che è il più antico teatro d’Opera del mondo. Della vendita dei biglietti non so nulla, ma spero che la solita furbizia non abbia superato la modica quantica. Lei mi dice che i loggionisti dell’ultimo momento meritavano il loro consueto spazio e ha ragione. Tuttavia, al di là della nota strafottenza “scaligera” verso il pubblico, la corsa ai biglietti lascia sempre una lunga coda di delusi in tutti i teatri del mondo.

 Soprattutto quando Conte canta Dal loggione : “Viva la musica che ti va sin dentro all’anima…”. E chiude con “parapunzipunzipù” che vale quanto i “miao” di Rossini.

Lettera di Milena Gabanelli a “la Repubblica” il 17 febbraio 2023.

Caro Direttore, sabato scorso leggendo il Foglio mi ha attratto un titolo: “Paolo Conte non profani la Scala”, firmato da Piero Maranghi, direttore del canale Sky Classica. “Oddio i fanatici della Scala - ho pensato che appena gliela tocchi ti fulminano!”. Ma poi leggendo la lettera, e a seguire le risposte e i commenti che ha suscitato (Sgarbi sul Foglio e Merlo su Repubblica ) vorrei fare alcune considerazioni.

Scrive Sgarbi che in passato sono già stati ospiti della Scala artisti del pop e del jazz, e quindi perché non andrebbe bene il grande Paolo Conte? Per essere precisi: Bobby McFerrin alla Scala ha diretto la Filarmonica, Stefano Bollani ha suonato Ravel, diretto da Riccardo Chailly; Milva ha cantato Berio. Ci sono stati anche due balletti: l’Altra metà del cielo (musica di Vasco Rossi che non era neppure presente), e il Pink Floyd Ballet, con la coreografia del maestro Roland Petit.

Dunque il tema posto da Maranghi non è chi porti alla Scala, ma il cosa . E dire “vogliamo Paolo Conte perché è bravo” significa ben altro, ovvero: non vogliamo più che alla Scala si ascoltino solo opere, sinfonie, balletti, quartetti, ma anche cantautori, rapper, musical, cabaret ecc. Porre questo tema non credo sia da reazionari (come scrive Merlo su Repubblica ), e tantomeno di distinzione fra musica alta e musica bassa.

È il caso di ricordare che la Scala rappresenta un simbolo di unicità universalmente riconosciuto. Non un tempio inviolabile, ma un simbolo che ha saputo adeguarsi ai costumi del pubblico ed è stato capace anche di dettarli, con coerenza e caparbietà, anche in periodi bui della nostra storia. E allora qual è l’utilità di smontare le fondamenta di questa istituzione? Forse perché non riesce più a stare in piedi con le proprie gambe, nonostante i corposi finanziamenti e sponsorizzazioni?

 Se è così il problema sta nella gestione, non all’altezza del suo compito. Infatti occorre guardare alla classe dirigente del Paese e alla politica culturale: siamo certi che, una volta avviato il “liberi tutti”, esistano freni alle pressioni e richieste di coloro che aspirano a quel palcoscenico e dei loro padrini? Il progresso consiste anche nel saper preservare “l’antico”. Almeno finché non ostacola necessità più generali (e non è questo il caso). Quindi mi sorprende un po’ la presa di posizione di Sgarbi quando sostiene che aprire la Scala a tutti va bene, ma si batte come un leone contro i parchi eolici o fotovoltaici, cruciali per la riduzione di Co2, perché disturbano il paesaggio.

Dagospia il 15 febbraio 2023. Dal profilo Facebook di Pierluigi Panza.

 E tu con chi stai? Chiedono nella Milano ztl: con Paolo Conte che va alla Scala grazie a Caterina Caselli che ha ottenuto di farlo esibire (da chi? Da Sala?) o con gli oppositori? È un problema grasso, di minoranza culturale trasversale che poco interessa alla politica. Non è un problema di genere, ma di qualità, sostiene chi difende la scelta della Scala. Per altri (come il direttore di Sky classica, Piero Marangh) il problema è il precedente: se va Conte alla Scala, perché non Branduardi?

 E Bob Dylan? E così via cantando, con gli altri che replicano che ci sono stati balletti su musiche dei Pink Floyd e anche - nessuno lo ha detto – di Vasco Rossi (spettacolo pessimo). Il Postmoderno ha soppiantato i generi come vecchi arnesi e siamo tutti fluidi? La fruizione è libera, inclusiva, liquida? Uno vale uno e questo è il bello?

La Scala non è un tempio, anche il melodramma è pop ecc. si sa; ma affermare che bisogna scegliere gli spettacoli sulla base della qualità (come scrivono Merlo e Mattioli) e non del genere ha una facile risposta: la qualità è un non-parametro oggettivo. Tre secoli di storia dell’Estetica (non solo musicale) hanno cercato di stabilire cosa sia il bello e no, la qualità e no. L’ha fatto mettendo a punto metodi critici e teorici. Ogni opera nata da Kunstwollen ha pretesa di qualità: ma sono poi spettatori, critici e una valutazione che, come scriveva Gadamer, si “distende lungo i tempi” a decretarne qualità e la sopravvivenza. Un direttore artistico non ha uno strumento di misurazione a priori, specie se estensivo a generi diversi. Conte è di qualità e Branduardi no? Non esistono forse ballate popolari di qualità: si possono portare alla Scala? E Jungle bells è priva di qualità? La storia dell’arte è piena di opere ritenute di qualità poi scomparse e di opere non rappresentate poi ritenute di qualità.

 Umberto Eco, che come gran parte della postmodernità colta era fautore della compresenza di Cultura alta, Midcult e Masscult, in “Alto, medio, basso” del 2010 scriveva che “la distinzione dei livelli si è spostata dai loro contenuti o dalla loro forma artistica al modo di fruirli” e mi sembra che questa affermazione sia ancora valida. Io posso usare Beethoven come sveglia del telefonino, ma se la uso in questo modo la parifico a qualsiasi motivetto, mentre se la ascolto alla Scala diretta da un maestro mi “dispongo” in un’altra fruizione e non perché cambi la qualità della composizione (le note sono le stesse) ma perché cambia il contesto.

 La scelta delle modalità di fruizione è uno dei pochi atti critici selettivi ancora esperibili. Eccoci al punto: la Scala che fruizione intende proporre alle future generazioni? Pensa di difendere una storia che, dall’Umanesimo in poi, ha distinto progressivamente per generi (aperti), categorie, qualità (discutibili), modalità fruitive ecc. o pensa di entrare nel mainstream fluido?

 Per rispondere a questa domanda bisogna fare molta attenzione a chi ci si rivolge. Umberto Eco, e direi tutti quelli che partecipano a questo dibattito, sono stati formati da una cultura strutturata. Quando la Postmodernità anni Novanta ci invitò a liberare i generi, la gaia scienza dell’alto e basso insieme fu per noi una giocosa liberazione: ma non eravamo e non siamo degli individui disintermediati, sappiamo che uno è Topolino e l’altro Kant. Oggi noi invecchiati dobbiamo mostrare responsabilità nei confronti di giovani generazioni nate e vissute nella più completa disintermediazione, spinta alla massima potenza dal mainstream: se non esistono più i generi sessuali, chi può pensare che, per un giovane, possano esistere i generi artistici? Se uno vale uno tra gli individui, può non esserlo per le opere d’arte? Con tanti saluti alla critica, è bello ciò mi piace e faccio quel che voglio e ascolto un medley dove mi capita e lo voto con un like.

Il risultato è che la poetessa più celebrata dell’anno è Amanda Gorman perché è nera, veste Prada e Biden la usa alla sua investitura o che Fedez è il maître à penser del Paese. Ma mentre noi postmodern invecchiati ridiamo degli esiti di questo divertissement disintermediato o pensiamo a come costruire consenso intorno ad altri personaggi che vengono del niente, come quelli del “Grande Fratello”, per i giovani non è un divertissement, non è consenso costruito: loro pensano che si la “verità”. Chi ha più like è più importante di Mattarella, Amanda Gorman è davvero una poetessa e Sanremo è più importante della Scala perché lo vedono 16 milioni a sera e non duemila.

 Ecco, Conte alla Scala è un tardo adeguarsi Postmodern a questo fluido mainstream. Ma se anche la Scala entra in Sanremo (pure con la sua violinista influcencer) chi può mantenere viva una “opposizione” culturale? Chi può, pur in minoranza, ancora dire: sono l’erede di quella storia che, dall’Umanesimo a oggi, ha cercato di stabilire criteri, suddividere per generi le opere d’arte, distinguerle e presentarne gli esiti in sedi modificabili ma ritenute consone alla loro fruizione? Che per Beethoven non è la sveglia e per Paolo Conte non è la Scala.

Marco Molendini per Dagospia il 15 febbraio 2023.

E' vecchia storia, fuori i miscredenti dal tempio. E' vero: Paolo Conte è un'anomalia nella programmazione della Scala. E' un'anomalia perché non c'è mai stato, perché nessun altro cantautore si è mai esibito sul sacro palcoscenico meneghino, perché il pop è altra cosa dal melodramma e appartiene a epoche diverse, perché il pubblico della lirica è ad alto tasso di conservazione.

 Ricordo tanti anni fa le stesse argomentazioni usate quando alla Scala si esibì Keith Jarrett, ma il grande jazzista aveva nel suo curriculum anche frequentazioni classiche e quindi, alla fine, la discussione si ammosciò (a parte che fece un gran concerto). Tanto per la cronaca, anche Paolo Conte ama ascoltare musica classica e ama la lirica, ma non c'è dubbio che sia diventato Paolo Conte per le canzoni che ha scritto. Canzoni di qualità, è il pensiero praticamente unanime e non solo in Italia. E, dunque, se il pop entra alla Scala, lo fa con dignità.

Leggo che Pierluigi Panza, scrittore, critico d'arte, sostiene che il precedente sarebbe rischioso, visto che aprirebbe le porte a chissà quali artisti e che il metro della qualità non rappresenterebbe un parametro. E qui viene fuori il problema, perché nell'ambito di un linguaggio che è quello della musica popolare si nega che ci possa essere un metro qualitativo?

E' come dire che è tutto uguale, insomma la posizione esprime un atteggiamento culturalmente aristocratico che nega addirittura al direttore artistico della Scala la capacità di poter distinguere in quella melma che è la musica pop. La storia della canzone, invece, ha avuto momenti altissimi, altri bassissimi e dimenticabili (ne abbiamo avuto una testimonianza nella settimana appena passata) esattamente come tutte le altre espressioni artistiche.

E' vero, come sostiene Panza, «la storia dell'arte è piena di opere ritenute di qualità e poi scomparse» ma perché la lirica dovrebbe essere esente da questo rischio? E poi, se vogliamo dirla tutta, perché la Scala ha invitato Paolo Conte? Perché ha avuto un'improvvisa folgorazione?

 O perché, forse sono stati fatti due conti, e qualcuno ha capito che invitare un grande autore di musica popolare può essere di richiamo almeno quanto molte rappresentazioni liriche che cercano la risonanza (e i titoli dei giornali) attualizzando il racconto.

 PS. Si, fra Paolo Conte e Angelo Branduardi c'è una differenza qualitativa. Come c'è fra Jingle bells e Bob Dylan.

LETTERA DI ALBERTO MATTIOLI A DAGOSPIA il 18 febbraio 2023.

Caro Dago,

no, il dibattito nooo!, strillava Nanni Moretti. E invece, questa volta sì, il dibattito sììì!, perché la rissa intellettuale su Paolo Conte alla Scala è assai stimolante e oserei dire divertente, certo più che dei soliti moralismi prêt-à-penser che alluvionano le pagine culturali dei giornali e che rendono così appagante non leggerle.

 Infatti Dagospia, che invece leggiamo tutti, specie chi nega di farlo, al Conte scaligero ha dedicato molto spazio. Ho l’impressione, però, che la discussione stia prendendo una piega molto italiana, quella di una battaglia di principio slegata dai fatti e condotta da persone che dei fatti non sono benissimo informate.

Nel mio piccolissimo, quel che dovevo dire l’ho detto sul “Foglio” rispondendo a Piero Maranghi che aveva aperto le danze sullo stesso giornale: la retorica del teatro come Tempio è ridicola dal punto di vista storico, perché quella del Tempio è una delle modalità della fruizione teatrale, non “la” modalità, e soprattutto pericolosa, perché giustifica quel conservatorismo arteriosclerotico che ha distrutto l’opera in Italia.

 E del resto basta andarci davvero, alla Scala, per rendersi conto che il Tempio assomiglia sempre più a una necropoli. Poi gli interventi si sono succeduti. Vittorio Sgarbi sul “Foglio” ha spiegato che Conte dev’essere ospitato alla Scala perché piace al pubblico e Filippo Facci su “Libero” perché piace a lui. Passata la fase del ciao, come sto?, Pierluigi Panza ha argomentato brillantemente il suo “no” chez Dago e Marco Molendini gli ha risposto per il “sì” esattamente con gli stessi argomenti che avrei usato io.

Poi ci sono tre firme che mi piacciono moltissimo ma che mi sono piaciute meno in questa circostanza perché, dagli argomenti che hanno usato, si capisce che non conoscono bene ciò di cui scrivono.

 Una è Francesco Merlo (fronte del sì), la cui rubrica su “Repubblica” è come Dago: la leggono tutti. Però se parli del “miao” di Rossini non sai quel che san tutti, cioè che il “Duetto buffo di due gatti” non è affatto di Rossini. La cosa è nota da decenni e fu definitivamente acclarata da Edward J. Crafts nel 1975, Merlo può consultare il numero 3 del “Bollettino del Centro rossiniano di studi”.

La seconda è Milena Gabanelli (fronte del no), grande giornalista e donna simpaticissima che ho conosciuto proprio a casa di Maranghi. Al suo intervento su “Repubblica” hanno messo un titolo curioso, “Competenza, altro che jazz”, come se il jazz la competenza non la richiedesse e nella gerarchia dei “generi” cara a Panza non fosse già stato elevato all’empireo della “classica” o quasi.

Ma magari il titolo non è farina del sacco di Gabanelli: curioso però che attacchi senza nominarlo il sovrintendente Dominique Meyer dove attaccabile lo è meno, sugli aspetti amministrativi e finanziari, insomma i conti, mentre invece il problema della sua gestione, come spiegava Maranghi, è che non ha alcuna linea artistica o culturale (anche se poi, su quale sia quella giusta, Maranghi e io saremmo sicuramente in disaccordo).

 La terza è Giacomo Papi (fronte del nì), autore del “Censimento dei radical chic”, un libro che ho adorato, che però oggi sul “Foglio” fra molte cose sensate dice che “niente è leggero come un’aria di Verdi”, già, e i monologhi di Amleto sono cabaret.

E qui mi fermo perché ho già sproloquiato abbastanza. Resta solo da chiedersi, ma questo l’ha già scritto Dagospia, perché di questa faccenda parlino tutti i giornali, oggi anche il “QN”, tranne il “Corriere della Sera” che pure è quello di Milano.

 E la Scala, “il primo teatro del mondo”, “il Tempio della musica” e altre baggianate (“Tante e tante volte ho sentito a Milano dirmi […] La Scala è il primo Teatro del Mondo. A Napoli Il S. Carlo primo Teatro del Mondo. In passato a Venezia si diceva La Fenice il primo Teatro del Mondo. A Pietroburgo Primo Teatro del Mondo. A Vienna Primo Teatro del Mondo e per questo starei anch’io. A Parigi, poi, l’Opéra è il Primo Teatro di Due o Tre Mondi!

Cosi (sic) io resto con la testa intronata cogli occhi spalancati, la bocca aperta dicendo… “e io testone non capisco nulla”… e finisco col dire che fra tanti primi sarà meglio un secondo”, firmato Giuseppe Verdi, 21 gennaio 1879), la Scala, dicevo, la Scala è Milano, anzi un’icona della milanesità più autoreferenziale e di successo, come il panettone, il risotto giallo, la moda, il Salone, l’apericena e i danée. Quindi forse hanno ragione i no: che c’entra, uno chansonnier di Asti, pheeega?

Estratto dell'articolo di Giacomo Papi per "il Foglio" il 18 febbraio 2023.

Quando ho letto il titolo della lettera aperta di Piero Maranghi contro il concerto di Paolo Conte alla Scala, ho pensato che fosse una battaglia di retroguardia. Dopo averla letta sono pieno di dubbi che non sono stati dissipati, anzi, dal dibattito in corso (che comunque è uno dei più interessanti degli ultimi anni).

[...] Mi pare necessario [...] parlare di due temi cruciali che la lettera pone: il rapporto tra contenuto e contenitore e quello tra bellezza e mercato. Il contenitore influisce sempre sul contenuto, e viceversa. Beethoven usato come sveglia telefonica, ha scritto Pierluigi Panza, o nello spot di Vecchia Romagna, aggiungo io, è diverso da quello ascoltato in concerto. [...] Allo stesso modo un romanzo di Georges Simenon cambia se è pubblicato negli Oscar Mondadori o da Adelphi. 

Il problema si acuisce se l’opera d’arte pretende una fruizione collettiva perché in quel caso la tensione tra contenitore e contenuto si carica di un elemento liturgico, per non dire sacrale, che rende il pubblico protagonista. Quando Maranghi scrive che la Scala offre a Paolo Conte più di quanto Conte possa restituire alla Scala, credo stia parlando di questo: eseguita in quel teatro quella musica diventerà ancora più grande, ma il teatro diventerà più normale. E così siamo arrivati al secondo problema, quello del rapporto tra bellezza e mercato, che banalmente si esplica nel numero di pezzi o biglietti venduti.

 [...] è indubbio che oggi al Louvre non ci si possa più andare a vedere la Gioconda, ma a farsi vedere con la Gioconda. [...] Quando vado alla Scala, spesso, mi annoio, non capisco quello che dicono, a volte dormo e russo, perfino. Insomma, faccio fatica. E come me fanno fatica, basta guardarli, quelli che alla Scala sono venuti per il teatro, ma sono disabituati all’opera.

E però alla fine, ogni volta, esco sapendo che è solo grazie a quella fatica se ho avuto accesso a una bellezza a cui la mia epoca, per questioni di velocità e consumo, non mi permetterebbe mai di arrivare. E’ per questo, credo, che nello statuto del Teatro alla Scala c’è la difesa della musica lirico-sinfonica, non quello della musica in generale.

 Forse dovremmo abbandonare l’opposizione tra musica classica e leggera, perché niente è leggero come un’ouverture di Rossini, un’aria di Mozart o di Verdi. Ma la leggerezza che si prova guardando la luce e le nuvole in basso, dopo avere fatto la fatica della scalata.

Mi pare che la domanda di Piero Maranghi sia sul confine, quindi sui limiti del mercato e della massificazione, perché quello che è facile si vende sempre più facilmente, ma dopo il facile, viene il semplice e dopo l’ovvio e dopo niente.

 Ha ragione Alberto Mattioli a scrivere che alla Scala, fino alla fine dell’Ottocento, ci si ritrovava a mangiare, bere e fare casino, ma questo non riguarda la musica. Se per ragioni economiche il programma si allargherà [...], il contenuto renderà sempre meno speciale il contenitore fino a svalutarlo anche economicamente, e saranno sempre più rari quelli che avranno voglia di sobbarcarsi la fatica di Mahler, Wagner o Berio, ma neppure, temo, del maestro Paolo Conte (che comunque è nell’anima e dentro l’anima per sempre resterà).

Dagospia il 18 febbraio 2023. Estratto da “Misteri per orchestra”, di Filippo Facci (ed. Marsilio-Feltrinelli)

«La musica era poco più che un’occupazione da girovaghi o da servi, un mestiere come un altro, un artigianato, al limite una ricreazione pomeridiana per nobili rampolli.

 Di rado, nel Settecento, era ritenuta un’arte come lo sarà da Beethoven in poi: i musicisti, anche a corte, erano considerati dei domestici e mangiavano con la servitù. 

 Poi nell’Ottocento le cose cambiano, ma per comprenderle appieno bisognerebbe ambientarle come si deve.

 Prendiamo i teatri, per esempio: erano molto diversi da come li immaginiamo oggi.

 La Scala, per citare il più noto, al primo piano aveva una bottega del caffe in cui la gente s’intratteneva a leggere e oziare mentre venivano preparate bevande calde da servire nei palchi; al secondo piano c’era una cucina e una pasticceria e dei camerini per le cene, con gli aromi delle pietanze a spandersi per tutto il teatro; al terzo piano c’era una stanza per i commerci, come la Borsa di oggi, e una galleria dei giochi dove la gente litigava e non di rado si accoltellava.

 In ogni palco non mancavano i liquori e un braciere per cucinare o per scaldarsi, e le tende, rivolte verso il palcoscenico, si potevano chiudere cosi da farsi gli affari propri.

La musica, intanto, andava. Nel complesso, un baccano d’inferno: tra sguardi e ventagli, l’arte si mischiava all’intrattenimento, e nei teatri, illuminati con splendidi lampadari ad argands, i borghesi e gli aristocratici si ritrovavano anche per fare un po’ di caciara. E poi, senz’altro, per confabulare dell’ultimo e inspiegabile mistero».

Lettera di Piero Maranghi a Dagospia il 19 febbraio 2023.

Caro Dago,

c’è un diritto di primogenitura, in questo dibattito, che mi spinge a voler esser io ad offrire l’ultimo intervento, perlomeno nella fase pre-concertuale.

 Non l’avrei fatto dopo la splendida lettera di Giacomo Papi! Avevamo costruito una Torre di Babele, tutti insieme che, con la seconda uscita di Alberto Mattioli, è diventata un condominio, con i suoi centesimi e millesimi, la chiave per usare l’ascensore e gli schiamazzi del secondo piano.

 Proviamo a risollevare, da bravi meneghini, il valore dell’edificio.

La ‘rissa intellettuale’ di cui parla Mattioli la fa solo lui, direi principalmente con se medesimo.

Sui mali dell’opera, mi sembra che l’isteria melodrammatica con cui espone sia nociva almeno tanto quanto il conservatorismo arteriosclerotico che stigmatizza; io comunque non sono ascrivibile a nessuna delle due categorie, giusto per parlare un po’ dell’io che alberga in me.

 Ancora rilevo che gli ‘issimi’, riservati a Merlo, Gabanelli e Papi, lasciano un sapore fortemente  cerchiobottista, non aggiungono nulla, direi che abbassano e certo distraggono. Lo conforto confermando che, certamente, sulle linee artistiche, lui ed io, avremo sempre opinioni discordanti, ma anche qui direi chissenefrega, tutto attaccato.

Infine, siccome ha il buon gusto di spoilerare pubblicamente chi si incontra a casa mia, gli ricordo che tra i frequentatori assidui ci sono anche Pierluigi Panza (fronte del NO) e Giacomo Papi (secondo me anche quello di Papi è un NO e non un ni). Chissenefrega II di chi frequenta casa mia, mi viene da dire.

 In mezzo a tutta questa melassa, con immancabile riferimento al provincialismo italico e alla retorica del Tempio, vorrei riportare in primo piano i temi più rilevanti:

il tema è Cosa, non Chi

quando Papi dice che la musica di Paolo Conte in Scala diventa più grande ed insieme il teatro più normale, Papi dice il vero?

dopo il ‘precedente Conte’ chi decide saprà porre argini o è già un liberi tutti?

davvero opera, balletto, musica sinfonica sono così in crisi?  Mi spiego, tra 236 anni - Mozart/Da Ponte per Don Giovanni 1787- Conte o Paoli si ascolteranno ancora? Tra 215 – 5a Sinfonia di Beethoven 1808 - i pronipoti faranno le code per Mina o Dylan alla Scala? Tra 110 – Stravinsky e la Sagra della Primavera 1913 – si discuterà della musica rap e di Blanco che calpesta i fiori?

Un’ultima riflessione: ieri un dirigente del Teatro mi ha scritto che ‘con Conte incassiamo quanto con un opera lirica’. Appunto! gli ho risposto. Incassate quanto con un’opera lirica e spendete meno, guadagnate quindi, soddisfate quell’abominio della ‘cultura che fa mangiare’.

 Allora davvero vi aspettate che, per politici e amministratori, non sia questa la via più semplice per mandare in soffitta musica e teatro, che stanno lì da secoli, per dare, nella storia, un quarto d’ora di gloria a qualcosa che, per manifesta insufficienza strutturale, un secolo di vita, a parte rarissime eccezioni, proprio non lo può festeggiare?

Per un sano e schietto dibattito post-concertuale, parliamo di questo, il resto è rumore.

Tuo Piero Maranghi

 P.S. Per favore si smetta di dire che la musica pop è già entrata in Scala con i balletti su musiche dei Pink Floyd o Vasco Rossi, in quei casi citati il centro dello spettacolo è la danza, non la musica, musica su base registrata (Vasco o Pink Floyd non erano lì in teatro a suonare e non era il loro concerto).

Estratto dell’articolo di Luigi Bolognini per repubblica.it il 19 febbraio 2023.

Che il mondo della musica riesca a dividersi su Paolo Conte è un segno dei (brutti) tempi che viviamo. A 86 anni il cantautore […] stasera debutta alla Scala. E nasce la polemica, lanciata dal musicologo ed editore di Sky Classica Piero Maranghi, che premette che Conte è il suo cantautore preferito, poi affonda: "È uno schiaffo alla storia della Scala, costituisce un precedente assai pericoloso, non dà nulla al Teatro". […] Segue, appunto, dibattito. […] Ora proviamo a fare il punto con Francesco Micheli, finanziere e da una ventina d'anni nel Consiglio di Amministrazione della Scala.

Anzitutto, stasera andrà?

"No, ma per impegni personali presi da tempo. Tuttavia non so se sarei andato, per una serie di motivi".

 Parliamone.

"Anzitutto nei decenni passati i sovrintendenti italiani, penso a Ghiringhelli e Fontana, dissero no ad artisti come Charles Aznavour, Adriano Celentano, Bob Dylan, Ornella Vanoni, giganti della musica contemporanea. Paolo Conte è perfettamente sul loro livello: che gli sia stato detto di sì non è scandaloso, ma perché si disse di no agli altri?".

Può essere che sia stato fatto un torto agli altri, ma che male c'è se è stato evitato un torto a Conte?

"Nessuno, in sé. Ma sa, noi non sappiamo perché Conte è stato invitato e come […] Con Meyer prosegue una linea che già fu iniziata da Pereira e Lissner, i suoi predecessori, entrambi stranieri: noi veniamo informati sulle decisioni prese per la programmazione solo a cose fatte, non possiamo dire né sì né no, ci troviamo il calendario di fronte o lo leggiamo sul giornale".

 E lei cosa avrebbe votato su Paolo Conte?

"Mi sarei dichiarato agnostico. […] Io amo la musica d'arte, che può essere classica, strumentale, lirica, jazz, pop, rock, quella amo e quella vorrei sentir suonare. Come diceva Bernstein, la musica si divide in solo due generi, bella e brutta […] Però c'è la questione del trascendente. In molte chiese si è deciso di non suonare più Bach, ma di affidare la musica a ragazzi con chitarre che la suonano pure male. Risultato, si è allontanato chi nella messa, nelle chiese, cercava anche la trascendenza”

 […] “Io dico che la Scala dovrebbe avere spazi e tempi per mettere in programma classici del pop e del rock, magari in concerti pomeridiani, e la sera eseguire - che ne so ?- il Fidelio. Sa qual è il rischio? Quello del teatro di repertorio".

Estratto dell’articolo di Andrea Laffranchi per il “Corriere della Sera” il 20 febbraio 2023.

[…] L’Italia della musica si è spaccata sul concerto di Paolo Conte alla Scala. La polemica è rimasta fuori dal foyer ieri sera. Chi era qui — circa 2mila spettatori per un sold out arrivato in 24 ore — non aveva dubbi sulla titolarità dello chansonnier astigiano.

 Per un’ora e mezza, spettacolo diviso in due tempi, il teatro milanese si è lasciato avvolgere da atmosfere inusuali per quei velluti e quegli stucchi. La classe, nel foyer e sul palco, però era quella cui il teatro è abituato.

Conte, 86 anni, ha messo lì la sua voce graffiata, quel suo modo di cantare dolente e allo stesso tempo ironico di uno che ne ha viste tante nella sua lunga vita. […] E non solo perché ha fatto anche l’avvocato nello studio di famiglia. Ci sono poi le sue canzoni che hanno spesso un appeal più sottile di quanto ne avesse l’opera quando nacque come divertimento popolare: ritmi vintage, tocchi jazzati, serate fumose.

Abito scuro e t-shirt, il cantautore entra in scena e si protegge gli occhi dalle luci. Applausi. Si siede al piano e via, con un ensemble di undici elementi e tre coriste, a ricamare racconti, a far viaggiare la mente nel tempo e sul mappamondo, a portare storie di una volta ma universali e sentimenti privati ma che toccano tutti, a regalare «quintali di poesia» come dice «Recitando», uno dei brani del primo atto. Che si era aperto con il viaggio di «Aguaplano» e la prima ovazione a «Sotto le stelle del jazz».

Non c’è scenografia. solo il pianoforte di Conte al centro e le pedane per i musicisti. […] Le protagoniste sono le canzoni, ancora più di quanto non lo sia Conte. Si alza per un paio di brani, inforca gli occhiali da sole. E prima dell’intervallo piazza «Dal loggione», storia di sguardi e gelosie dall’interno di un teatro.

 Nel secondo atto «Via con me» è il colpo che non può mancare, la canzone italiana ai suoi massimi livelli espressivi. «Diavolo rosso» è una cavalcata senza confini con i musicisti liberi di andare. Bis vero con «Via con me», cori e battimani del pubblico a tenere il tempo.

Nei giorni scorsi era stato Piero Maranghi [dopo un articolo di Dagospia, ndR], editore del canale Classica HD (Sky), a parlare di «profanazione» e «schiaffo» alla tradizione della Scala con una lettera al Foglio . Fra chi gli aveva risposto Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla Cultura, che anche ieri sera sottolineava l’idea di una musica «universale».

 Dominique Meyer […] accoglie gli ospiti nel foyer e si toglie qualche sassolino dalle scarpe. È stato lui, su sollecitazione di Caterina Caselli, a trovare un buco nel cartellone e ad accettare la sfida. «Una polemica di piccola gente che vuole tenere tutto per sé. La Scala non è un piccolo club, è un teatro aperto. Preferisco chi costruisce ponti a chi innalza muri».

 Per il premio Oscar Paolo Sorrentino, «Conte non ha scritto solo canzoni ma ha creato un immaginario». […] Anche Vinicio Capossela gioca con l’ironia: «In fondo le opere sono canzoni eseguite con una maggiore estensione vocale». […] Madame, reduce da Sanremo, rappresenta un mondo lontano anche da quello dello chansonnier: «È una sfida aprire al cantautorato e speriamo che questo spettacolo sia soltanto l’inizio di una lunga serie».

Estratto dell'articolo di Paolo Giordano per ilgiornale.it il 14 gennaio 2023.

Asti. «E dire che alla Scala non ci sono mai entrato come spettatore». Ci entrerà da protagonista, Paolo Conte, […] per la prima volta alla Scala, signore e signori. E la stella in scena ha appena compiuto 86 anni. 

 «Nella mia vita ho fatto grandissimi teatri come il Barbican di Londra o il Philarmonic di Chicago ma la Scala è il teatro della nostra lirica, di Verdi e di Puccini, a proposito Verdi è il mio preferito sin da quando ho ascoltato una sua aria e sono caduto folgorato dal cavallo a dondolo[…] Eh certo che in passato alla Scala avrei sognato di vederci Louis Armstrong o Art Tatum».

Ora Paolo Conte ci suona prima di Bob Dylan, che è in attesa di avere il permesso da anni.

«Bob Dylan ha fatto cose importanti ma, se penso all'Accademia di Svezia e tiro il bilancio della scuola italiana della canzone d'autore, da un punto di vista letterario abbiamo dato molto di più noi, anche dei francesi. E forse non ci è stato riconosciuto».

 […] 

Suonerà anche Azzurro? Di solito non è in scaletta.

«Vedremo. Di certo quando l'ho sentita cantare sui balconi durante il lockdown ho capito che è diventato quasi l'altro inno italiano. Non so ancora quale sarà la scaletta ma tre pezzi sono praticamente fissi: Via con me, Sotto le stelle, Gli impermeabili».

[…]

 Lei ha vinto tante targhe Tenco. Quest'anno l'ha vinta anche Marracash, un eroe del rap. Più rivoluzionaria la sua vittoria oppure Paolo Conte alla Scala?

«Forse è più dirompente che io vada alla Scala».

 […]

 A proposito, San Siro?

«A me piace. Lo lascerei dov'è».

 Tifoso milanista.

«Ma tiepido».

[…]

 Le hanno mai chiesto di fare il super ospite a Sanremo?

«A me no, alla mia manager sì. Ci andrei? No».

Paolo Rossi: «Quell’incidente con Berlusconi al Maurizio Costanzo Show. Da allora faccio satira politica». Giovanna Maria Fagnani su Il Corriere della Sera domenica 27 agosto 2023.

La colpa è di Jannacci e del Cavaliere: il comico e cantautore lo racconta in un podcast a Daniele Tinti e Stefano Rapone . Tanti gli aneddoti: dall’incontro con Renato Vallanzasca alla battuta rubata a Ignazio La Russa

«Giurate che non fate facce quando Berlusconi parla». È il 1994 e Paolo Rossi e Enzo Jannacci sono ospiti al Maurizio Costanzo Show per promuovere la loro tournée. Solo che è una puntata storica: sul palco c’è Silvio Berlusconi che parla della sua discesa in campo e per l’occasione non c’è il solito semicerchio. «Il Cavaliere è seduto davanti, Costanzo a sinistra e voi siete dietro, però venite nella stessa inquadratura» spiega lo staff Mediaset a Rossi e Jannacci. Da lì la raccomandazione e la pronta risposta: «Guardi, noi siamo comici, non possiamo promettere niente».

Paolo Rossi cominciò a fare satira politica per colpa di un «incidente» con Berlusconi che avvenne proprio dietro le quinte di quella puntata. L’attore e cantautore lo ha raccontato a «Tintoria», il podcast di Daniele Tinti e Stefano Rapone co-prodotto da The Comedy Club. Registrato live al Castello Sforzesco di Milano nei giorni scorsi (una serata sold out con 2 mila spettatori), si potrà ascoltare su tutte le piattaforme da martedì 29 agosto alle 12.30. Posto che i due non erano in grado di assicurare di «non fare facce», si accordarono per entrare in scena dopo l’intervento di Berlusconi.

Lo staff li avvisò di stare pronti a entrare in scena. «Io ero davanti, Enzo era dietro con la chitarrina, scende il Cavaliere dalla scala, mi passa vicino e si mette là— racconta Rossi nel podcast— a un certo punto Enzo, preso da uno dei suoi momenti di bizzarra follia, grida “ladro”!. Ma, furbo, urla “ladro” e si abbassa. Il Cavaliere si gira. E chi ha visto? E allora ho cominciato a fare satira politica ma solo per quell’incidente in pratica. A quel punto dovevo continuare, non c’era verso».

Un aneddoto esilarante, ma non l’unico. Prima di fare satira, infatti, nel camerino che condivise quella sera con il Cavaliere, Rossi spiega di aver fatto «l’unica cosa concreta contro Berlusconi. Gli ho fatto fuori tutto il catering. Anche i cannoli, li ciucciavo e glieli mettevo di culo». Ma durante la chiacchierata con Rapone e Tinti, l’attore ha ricordato anche l’incontro con Renato Vallanzasca. Il direttore di Opera lo aveva chiamato, spiegandogli che c’era un carcerato, in libera uscita dopo 38 anni, che era suo fan, aveva tutte le sue videocassette e voleva conoscerlo.

Era proprio il «bel Renè», il re dei banditi di Milano. Lui lo invitò alla serata per i 20 anni di Zelig, facendo segnare l’invito solo per «Renato» e indicandolo come il suo nuovo agente. «Lui arriva in camerino e tutti lo riconoscono. E tutti questi qui, “per bene”, gli dicono “onorato”. Ma come onorato? È un criminale. Sarà simpatico ma è un criminale. E lì ho capito che metteva male» ha spiegato il comico. Ma il meglio doveva ancora venire.

Rossi si raccomanda al direttore, nonché presentatore, Giancarlo Bozzo, di non dire al pubblico che tra loro c’è Vallanzasca. «Vuoi mai che la gente è così ignorante che gli chiede selfie, autografo». Bozzo lo rassicura ma poi non resiste e lancia la serata così: «È 20 anni che Zelig è aperto! Vorrei sapere chi in 20 anni non ha trovato una sera per venire allo Zelig». Il mattino dopo Vallanzasca si fa vivo al telefono: «È un tuo amico il presentatore?». E Rossi: «No è uno alle prime armi». Perché, gli dice il bel Renè «Sai ,a volte a volte uscire così, senza ferro (la pistola, nello slang della malavita)».

Ma nella puntata si parla anche di Pino Insegno, di Ignazio La Russa, vero autore della battuta «Moriremo tutti democristiani». Domenica 10 settembre, Paolo Rossi sarà ospite a «Il Tempo delle Donne», la festa-festival del Corriere della Sera alla Triennale di Milano, in occasione dell’uscita del film di Giorgio Verdelli «Enzo Jannacci - Vengo anch’io» che verrà presentato fuori concorso a Venezia e che vede testimonianze di Rossi, Verdelli e Paolo Jannacci.

Paolo Rossi e la figlia Georgia: «Ho tre famiglie», «da bambina mi terrorizzava con l’imitazione di Shining». Roberta Scorranese, inviata a Trieste, su Il Correre della Sera il 23 maggio 2023.

L’attore e la secondogenita Georgia si raccontano. «In comune abbiamo il fatto che piangiamo per qualunque cosa»

Paolo Rossi è un uomo diviso: tra la casa di Milano e quella di Trieste, tra tre famiglie, tra l’istinto casalingo e le tournée teatrali. «E adesso anche tra due cognomi», annuncia seduto sul divano del suo appartamento triestino, «mi faccio chiamare Paolo Rossi Kobau». Sua figlia Georgia, 29 anni, alza gli occhi al cielo: «L’ho scoperto oggi, per caso, su Wikipedia».

Il cognome di sua nonna.

PAOLO: «Me l’hanno cambiato di là (indica la vicina Slovenia, ndr), l’ho lasciato».

GEORGIA: «Peraltro, forse nemmeno ci chiamiamo davvero Rossi». 

Già, in «Chissà se è vero», il libro che avete scritto a quattro mani, c’è il racconto della vostra famiglia: pare che il nonno di Paolo non sia stato il suo vero nonno.

P: «Jannacci diceva: “Una storia è bella? Allora è vera”».

G: «Una sera a Napoli Paolo mi rivelò che in famiglia c’era questo segreto-non segreto, perché pare che tutti sapessero ma nessuno ne parlava. Chissà chi era il mio vero bisnonno, forse un pescatore di passaggio. O un marinaio».

Che famiglia incasinata.

P: «Quale delle mie tre famiglie?».

In effetti, lei ha tre figli da tre donne diverse. Georgia è la seconda, il primo è Davide e l’ultimo è Shoan.

P: «E Georgia è riuscita anche a farmi saltare la tournée di Capodanno perché è andata a nascere il 31 dicembre».

G: «Ma se eri sempre in giro a fare spettacoli!».

P: «Ma quando mai! Oddio, è vero che qualche volta, per sfuggire alle feste comandate, con altri attori cercavamo di inventarci delle tournée natalizie. Però quelli come me non hanno un mercato natalizio comico, ahimè».

Ma almeno, Georgia, quando era a casa la faceva ridere con qualche battuta?

G: «No, anzi. Mi terrorizzava facendo l’imitazione di Jack Nicholson in Shining».

P: «Eravamo in Lucania, un albergo sperduto nel nulla, noi i soli clienti, fuori i lupi. Lei si spaventò, ma pure io venni umiliato, perché la sera, in tv, diedero quel film e insomma, di fronte a Jack Nicholson originale io sparivo. Sfortuna. Un po’ come quando feci l’imitazione di un imprenditore edile e questo diventò premier. Oops!».

Georgia, in privato, mi ha detto che lei, in fondo, è un papà affettuoso.

P: «Vorrei vedere: ho assistito in sala operatoria a tutti e tre i parti».

Anche se nel libro la chiama «L’impostore».

G: «Perché con lui non sai mai quando sta dicendo la verità o quando sta recitando».

Il primo spettacolo di papà al quale ha assistito?

G: «Non ricordo, ma rammento che a ogni spettacolo, a un certo punto lui si metteva a parlare di Berlusconi. Ecco, io ho imparato chi era B. dagli spettacoli di mio padre».

P: «Silvio mi deve molto».

Davvero? E che cosa?

P: «La parola Bunga-Bunga, per esempio. Era una storiella che io e altri colleghi raccontavamo in Comedians, spettacolo in scena all’Elfo negli anni Ottanta. Poi, in qualche modo, qualcuno l’ha portata negli ambienti Mediaset».

Ma no.

P: «E secondo lei di chi è la battuta “Si muore tutti democristiani”, da cui mio figlio Davide ha tratto il titolo di un suo film? Di Ignazio La Russa. Ci incontrammo a San Siro, vollero farci una foto insieme e io chiesi che almeno ci fosse lo striscione dell’Inter. Quando ci salutammo, mi disse proprio quella frase».

Per chi avete votato alle ultime elezioni?

G: «Io Pd. Ma Elly Schlein non mi piace, almeno per quello che ho visto finora».

P: «Io non voto da tredici anni, da quando mi candidai (in Lombardia al Consiglio Regionale per la Federazione della Sinistra, ndr). Ma non votai nemmeno quel giorno: mi guardai allo specchio, non mi fidai di me stesso e rimasi a casa. Forse sono stato l’unico candidato nella storia a non aver votato per sé stesso».

G: «Paolo ha idee molto radicali in fatto di politica».

P: «Coerenti. Io sono per le ronde culturali: girano per strada e chiedono, a campione, di recitare il V canto della Commedia. Non lo sai? Via, in campo di concentrazione».

G: «E se uno nella vita vuole solo fare, poniamo, pasticcini e non interessarsi a altro?».

P: «Parafrasando il più grande di tutti, Mourinho, “uno che sa tutto di dolci non sa niente di dolci”».

Ma c’è qualcosa che vi mette d’accordo?

G: «Tutti e due ci commuoviamo facilmente. Io piango per tutto: quando qualcuno vince un premio a un quiz, davanti alle pubblicità».

P: «Io piango con Quella casa nella prateria. Assurdo».

Forse anche il lavoro. Georgia è autrice teatrale. Avete mai lavorato insieme?

G: «Lasciamo stare».

P: «Uh, ti ricordi quella volta in Sardegna? Dunque, andò così: misi su un laboratorio teatrale assieme a lei. Tutto filava liscio, peccato che la squadra di attori che avevamo assoldato — e che in paese doveva fingere di essere una rock band —, prese troppo alla lettera il “mescolarsi” con gli abitanti del posto e uno di loro cominciò a corteggiare una tipa. Finì in rissa».

G: «D’altra parte, tu come testo di base non avevi adottato, come tutti, lo Stanislavskij o Brecht, ma il manuale di addestramento del Kgb».

P: «Il migliore, ragazza».

Paolo a Trieste, Georgia a Milano. Vi vedete spesso?

G: «Per fortuna no» (ridendo).

P: «Ma sentila!».

G: «A proposito, so che stai girando un film».

P: «Faccio la parte di un prete. Tranquilla, a modo mio».

Però Paolo conosce molti personaggi dello spettacolo, forse per lei, Georgia, questo può essere divertente.

G: «Racconta di quella volta che ti chiamò Morgan».

P: «Mi telefonò nel cuore della notte, depresso fin nel midollo. Cioè, capite: Morgan che, a terra, chiama me. Comunque, io per distoglierlo dai pensieri neri, gli dissi: “Dai andiamo a fare una rapina a casa di Fabio Fazio”. E passammo la notte a fare una piantina della casa di Fazio. A proposito, Fabio, se stai leggendo ti mando un bacio».

Georgia, a un papà così divertente si perdona tutto.

G: «Quasi».

P: «Ma è colpa mia se io i bambini fino a cinque anni non li capisco?» (ride).

G: «Già, sono l’unica femmina tra due maschi. Loro tre giocavano a pallone e a me toccava stare in porta».

Ma il fatto che Paolo viva da solo a Trieste un poco la preoccupa?

G: «Tempo fa si è sentito male, abbiamo attivato i soccorsi per telefono, peccato che quando sono arrivati lui ha fatto finta di stare bene, ha sminuito il malessere, che non era una sciocchezza».

Paolo, perché?

P: «Perché se lavori in teatro non ti puoi permettere di stare male, mento a me stesso per curarmi e per ristabilire una realtà storica diversa».

G: «Una parte di me considera queste frasi inconcepibili, però dentro di me c’è una Georgia che lo capisce».

E poi, Paolo, lei ha tanti amici e colleghi che le telefonano tutti i giorni.

P: «Dopo le polemiche per la sua annunciata partecipazione a un festival in Russia, mi ha chiamato Pupo, lamentandosi: “Guarda come mi trattano, Paolo”. E io: “Pupo, ti stanno trattando come Dostoevskij”. E lui, senza battere ciglio: “Hai ragione, è proprio così”».

Estratto dell’articolo di Matteo Persivale per il “Corriere della Sera” il 17 marzo 2023.

«Senti, ho fatto e detto cose di cui non vado fiera. Giravo con quegli orridi cappellini da camionista firmati Von Dutch. Una volta sono andata a una festa di Halloween alla Playboy Mansion vestita da Sexy Pocahontas. A diciott’anni mi sono ubriacata a una festa e ho cantato un versione volgarissima di Gin and Juice di Snoop Dogg — conoscevo tutti i testi delle sue canzoni. Rifarei le stesse scelte, se avessi saputo allora tutte le cose che so adesso? Ovviamente no! Niente di tutto ciò riflette la persona che sono ora».

[…] «Paris: The Memoir» […] resta […] una testimonianza interessante per capire come l’inventrice, di fatto, dell’idea stessa di «influencer» trasformata poi in oro da imprenditrici più abili di lei a utilizzare i social media, sia rimasta clamorosamente spiazzata dalla sua invenzione.

 […] Nei primissimi anni 2000 l’erede dell’impero alberghiero (oggi ha 42 anni) formulò il modello di business dell’influencer, o almeno ne espose le premesse: creare un «personal brand» basato sulla propria bellezza, lo stile di vita da miliardaria, Los Angeles e gli aerei privati, utilizzando Internet per diffonderlo esponenzialmente nel mondo. Però allora Facebook non c’era (nacque nel 2004 per far socializzare gli studenti di Harvard), Twitter non c’era (2006) e soprattutto non c’era Instagram (2010). […]

È interessante leggere oggi Hilton, mamma 42enne, baby-pensionata del selfie, perché davvero creò il suo brand con spaventoso istinto per ciò che funziona online ma anche con altrettanto spaventosa incapacità di distinguere tra il trash e tutto il resto. […] E così di «trashata» in «trashata» Paris si racconta. Scrive del rapporto nato male con Playboy : «Vivevo con due playmate, conoscevo Hugh Hefner, mi chiese di posare per la rivista: continuava a offrirmi sempre più soldi, diceva che potevo non essere completamente nuda ma solo in topless, oppure con lingerie». Alla fine Hefner mise una foto trovata in un vecchio servizio di provini, e il numero vendette benissimo grazie al nome di Paris «perché la gente si aspettava di vedermi nuda all’interno della rivista. Risultato: i miei genitori incazzati, io in lacrime».

E ci inquieta con il racconto del rapporto, in terza media, con l’insegnante carino: «Tutte le ragazze della mia classe erano innamorate di questo bel giovane insegnante che pareva un modello di Abercrombie: tutte lo adoravano, comprese le suore».

Valentina Ariete per “la Stampa” - Estratti lunedì 13 novembre 2023.

Grazie alla sua versatilità, e alle grandi doti da ballerino - come ci tiene a sottolineare -, Lillo ormai è una dose di energia assicurata. Anche per gli amici. 

Cos'è l'amicizia per Lillo?

«Per me è fondamentale: ho investito più di altri nell'amicizia e nell'affetto, perché, a parte mia moglie e i familiari più stretti, non ho avuto figli. Quindi ho sempre avuto molto spazio per gli amici». 

Con un amico ha anche creato una coppia di successo: Lillo e Greg.

«Sì, noi abbiamo cominciato come amici: ci siamo frequentati per sei anni prima di lavorare insieme. La band Latte e i suoi derivati è arrivata molto dopo. Quindi possiamo dire che tutto è nato dall'amicizia». 

È più facile o più difficile lavorare con gli amici?

«Cerco sempre, finché posso, di crearmi un gruppo di persone a cui voglio bene. O con cui comunque sto bene. Sono uno di quelli che ha bisogno di un clima rilassato sul set. Poi c'è anche chi lavora bene sotto stress. Ma io no». 

A Lucca Comics & Games 2023 ha presentato Elf Me, film ambientato durante le feste, che arriva su Prime Video il 24 novembre: che cosa fa Lillo a Natale con gli amici?

«Mi piace giocare: giochi da tavolo, giochi di carte. Evito solamente la tombola: ho sofferto troppo da piccolo con mia nonna che ci faceva fare sei ore di tombola partendo dalle tre del pomeriggio! Quindi ho un problema solo con quel gioco. Per il resto mi piace tutto». 

Nel film c'è anche Caterina Guzzanti, con cui vi frequentate davvero, e che ritrova dopo la partecipazione a LOL - Chi ride è fuori. È sempre bello lavorare con lei sul set?

«Caterina è fantastica. In questo film un po' meno però: è l'assistente di Babbo Natale, particolarmente pignola, che proprio non sopporta il mio personaggio, un elfo casinista». 

A Lucca c'è stata anche una mostra dedicata alla sua passione per le miniature: come è nata?

«È partito tutto dal fatto che non rimorchiavo. Mi sono detto: a questo punto se resto a casa dipingo. 

Perché le piace così tanto? Tra l'altro questa passione la avvicina a Trip, l'elfo che ama costruire giocattoli che interpreta in Elf Me.

«Dipingo una mezz'oretta, prima di andare a letto, tutti i giorni. In quel momento va via tutto e l'unica cosa a cui penso è fare un'ombreggiatura particolare sulla faccia di quell'orco. È una cosa quasi zen per me. Mi insegna a essere presente in quel momento». 

Regala miniature a Natale?

«No, me le regalo io! Sono ancora uno di quelli che ama ricevere giocattoli a Natale. Preferisco una miniatura da dipingere a un orologio». 

(...)

Quando era piccolo aveva tanti amici?

«Ero un bambino timidissimo. Giocavo ai soldatini da solo, col fortino. Ho sofferto il fatto che mia madre mi costringesse a giocare con i figli delle sue amiche, che puntualmente mi distruggevano tutto». 

(...)

L'idea di Elf Me è di Gabriele Mainetti, che le ha fatto girare una scena alla E.T.l'extra terrestre. Com'è stato volare con le biciclette? Si è sentito di nuovo bambino?

«In realtà mi sento più la risposta italiana a E.T.! Devo ringraziare Gabriele, Goon Films e Lucky Red, che hanno prodotto il film: finalmente anche noi ci possiamo permettere di raccontare storie come questa, che fanno sognare, con tanti effetti speciali. Amo moltissimo i film di fantasia».

Ha amici tra i nuovi comici italiani?

«Amo la nuova generazione di comici. Credo, da comico maturo, che sia importante esaltare i giovani che ti piacciono. Perché il futuro della comicità è nelle loro mani. Ultimamente ci sono molti giovani talenti che mi piacciono: sicuramente Fanelli e Lundini, con cui ho lavorato nella serie Sono Lillo. Ma ce ne sono anche tanti altri. Per me che faccio questo lavoro da ormai 30 anni è piacevole vedere nuovi talenti che fanno cose che mi divertono molto».

"Il titolo perfetto era con il punto interrogativo". Sono Lillo, il lato oscuro dello show business: “Con Posaman racconto l’uomo dietro la maschera”. Chiara Nicoletti su Il Riformista il 5 Gennaio 2023

«Il titolo perfetto per questa serie, per raccontare cos’è veramente, doveva essere Sono Lillo?, con il punto interrogativo, perfetto per spiegare quella forsennata ricerca di quello che siamo veramente e che sfocia per forza di cose, spesso e volentieri, in situazioni tragicomiche, che fanno ridere». Pasquale Petrolo in arte Lillo, riassume in poche righe l’obiettivo degli 8 episodi di cui si compone la serie original Sono Lillo, da lui creata e scritta assieme a Matteo Menduni e Tommaso Renzoni in esclusiva su Prime Video dal 5 gennaio.

Presentata in anteprima lo scorso ottobre alla Festa del Cinema di Roma, Sono Lillo vede il protagonista, un comico molto meno arrivato e navigato del suo interprete, in conflitto con il suo personaggio più famoso, Posaman. Chi non avesse seguito Lol, il programma comico di Prime Video che metteva in una stanza 10 comici sfidandoli a non ridere per ben 6 ore consecutive, sappia che, in quell’occasione, Lillo, aveva dato vita appunto al tormentone di Posaman, il cui superpotere è fare pose a comando, con un limite di 6. In bilico tra realtà e finzione, Sono Lillo riflette sul significato di comicità e soprattutto sull’odio e amore verso il proprio successo.

«Secondo me rappresenta un po’ la paura che ti fa qualcosa di tuo che poi appartiene a tanti», spiega Lillo accanto al regista Eros Puglielli, lo stesso dell’ultimo film dell’attore, Gli Idoli delle donne del 2022, in coppia con il suo compagno d’arte storico, Greg. Prosegue: «Credo che sia una una fobia che abbiamo naturalmente quindi anche noi attori comici, che siamo sempre alla ricerca dell’approvazione degli altri nel nostro lavoro. C’è questa incongruenza, qualcosa che piace troppo al pubblico e che ti fa fermare e chiederti: ‘ma che è successo? perché questo sì e quell’altra cosa che ho fatto no?».

È da questa paura che nasce Sono Lillo e l’interrogarsi su Posaman, collocandolo come unico successo di un Lillo di un altro universo, uno in cui non è stato così fortunato professionalmente. «Interpreto un comico che arranca nella sua carriera e che funziona solo come Posaman, un supereroe che alla fine odia. Una cosa che poteva capitare anche a me se la mia carriera fosse andata in maniera diversa», confessa. E ancora: «Posaman è interessante per me anche a livello psicologico, nella serie io sono effettivamente me stesso, con tutte le mie insicurezze e con tutte le mie paure, ma sono trasportato in un altro multiverso. Mi interessava la chiave di racconto autoironica, umoristica, l’idea di divertire perché per me è la cosa più importante».

A differenza di quello che può sembrare fin dal titolo, Sono Lillo è serie corale e come tale si avvale di un folto gruppo di fuoriclasse della risata e della recitazione, a cominciare da due attori che sono pure star della serialità italiana, in vetta alle preferenze nell’epocale Boris 4, su Disney+: Paolo Calabresi e Pietro Sermonti. Quest’ultimo interpreta il migliore amico del malcapitato Lillo e suo agente, una doppia veste che causa un bel po’ di problemi e situazioni comico-demenziali, prima fra tutte l’ingaggio che gli procura al matrimonio organizzato da una famiglia appartenente a un clan camorristico. Ne svela i retroscena Sermonti: «Quello è un innesco efficace di inizio serie secondo me, l’essere catturati violentissimamente dalla camorra. Fa parte del deragliamento della popolarità. Io ho passato l’estate in montagna con Lillo dopo Lol e sembrava di stare con Papa Francesco, per fortuna i camorristi non si sono fatti vedere ma il rischio ogni tanto è quella violenza affettuosa. Con Lillo sul set si gioca come dei bambini, senza pudore alcuno».

E a proposito di popolarità stile Papa, nella realtà Lillo rivela di essere molto legato a Posaman perché gli ha permesso di raggiungere un pubblico più vasto: «Posaman ho avuto la fortuna di viverlo dopo una carriera lunghissima, quindi un successo stra popolare. Per me è stata una cosa bellissima crearlo, colpire un pubblico così vasto compresi i bambini che sono un pubblico meraviglioso perché senza sovrastrutture. Un bambino non dice: ‘forse lo devo rivedere!’, o gli piace o non gli piace una cosa». Non tutti sanno che Lillo è sempre stato un fan dei supereroi e dei fumetti. Posaman è solo l’ultimo di una serie di maschere supereroistiche da lui create negli anni: «La metafora del supereroe è importante», ha rimarcato in conferenza. «Sono un gran appassionato di fumetti, vengo da quel mondo lì e volevo anche diventare fumettista. Ho inventato anche altri supereroi come ad esempio Normalman, un uomo che diventa improvvisamente cento volte più intelligente, più agile, più forte ma che parte svantaggiato dall’essere cento volte più stupido. Insomma i supereroi che creo sono sempre improbabili».

Non solo uomini attorno a Lillo nella serie ma molte icone della commedia e della stand up comedy come Caterina Guzzanti (altra star di Boris), Michela Giraud, Emanuela Fanelli e un’attrice, Sara Lazzaro, che nonostante successi come Doc – Nelle tue mani con Luca Argentero, dimostra ora tutti i suoi tempi comici nel ruolo della moglie del protagonista. Si dice che per conquistare una donna bisogna farla ridere ma per Marzia, moglie di Lillo, questa vita sconclusionata del marito è diventata un po’ troppo e lo lascia. Questo è il motore del cambio vita del comico nella serie. Lillo elogia la sua co-protagonista femminile: «Io ne ho una vera di moglie a casa che conosco da ventotto anni e così mi ha fatto un po’ strano dovermi confrontare con un’altra sul set. Ma la Lazzaro è talmente autentica che mentre giravamo mi sembrava poi strano tornare a casa da mia moglie nella vita reale. Sara ha dei tempi comici pazzeschi, perfetti per la comedy».

Risponde Lazzaro: «La cosa che ho percepito è che dovevo portare un personaggio dalla solidità drammatica, all’interno di un universo comico. Lei lo lascia quindi in lui scatta questa necessità di ritrovare se stesso, di staccarsi da Posaman. È stato interessante insinuarmi all’interno di questa dinamica e al contempo portare una comicità che arriverà dal quarto episodio in poi». Dalla conferenza stampa alle interviste per la serie, Lillo ci tiene a sottolineare che Sono Lillo «parla di tante cose e nonostante il titolo egoriferito, è una serie in cui possono ritrovarsi tutti».

Lo conferma anche Eros Puglielli che la definisce anche come un percorso di ricerca: «Fianco a fianco con Lillo e gli sceneggiatori, il mio compito è stato costruire questo mondo molto matto, spostato e questa dimensione un po’ parallela a quella nostra in cui accadono degli eventi particolari. In un certo senso rappresenta l’esplorazione della ricerca di sé, il rifiuto o l’accettazione di se stessi, discorsi abbastanza comuni e universali. In questa esplorazione, il nostro protagonista è circondato da matti, che non lo aiutano, gli danno sempre consigli sbagliati e la maturazione è una conquista che questo personaggio deve fare da solo». Si può ipotizzare una seconda stagione? Puglielli conferma: «Certo che sì, noi proponiamo un universo che si può espandere all’infinito». Rimane da aspettare l’ultima fatica di Posaman, la settima posa. «Essendo la definitiva che chiude tutto l’arco – si giustifica Lillo – ci vorrà un annetto». Chiara Nicoletti

Dagospia il 3 ottobre 2023. Anticipazione da Belve

Patty Pravo racconta a Francesca Fagnani nella seconda puntata di “Belve” la sua vita piena di eccessi e sregolatezze. Quando si parla di droghe la conduttrice chiede se le ha provate proprio tutte, e la risposta della cantante è chiara: “Certo, ma chi è che fa questo mestiere senza anfetamina?” Sono più timidi a dirlo? “Non perché sono timidi, non lo dicono proprio”. La Fagnani a quel punto incalza: parla degli anni ’70 o anche di oggi? E la cantante conferma: “In generale”. E quando la conduttrice chiede degli effetti, la cantante spiega: “Stai sveglio: lavori talmente tanto che alle volte non dormi assolutamente, hai molta vitalità”. 

Patty Pravo racconta anche i suoi amori, così tanti che quando la Fagnani chiede scherzosamente l’elenco dei suoi mariti fa fatica anche lei a metterlo insieme. Dopo cinque matrimoni di cui, in un momento della sua vita, tre contemporanei, la Fagnani chiede se è rimasta in buoni rapporti con tutto lo staff. La cantante risponde divertita: “Beh, quasi con tutti”. 

La Fagnani ricorda anche i molti viaggi della cantante e delle dichiarazioni di Ornella Vanoni, che sull’argomento ha dichiarato che la Pravo racconta delle balle stupende. La cantante reagisce divertita: “Ma sai, Ornellì dice queste cose perché si diverte…” la Fagnani ribatte: ma la Vanoni dice che non è vero che ha fatto la transoceanica. E a quel punto Patty Pravo: “Ma certo che è vero, perché dovrei raccontare una cazzata del genere?”.

Patty Pravo racconta anche gli albori del suo successo, arrivato da giovanissima. Quando la Fagnani chiede se l’ha saputo gestire o ne è stata travolta, la cantante rivela: “Travolta no, ma papà mi diede la maggiore età a 16 anni, non sapevo assolutamente nulla di tutto questo; mi dedicavo e lasciavo che gli altri facessero”. Fagnani chiede: che gestissero i soldi? E la Pravo conferma: “Esatto”. La conduttrice continua: l’hanno anche un po’ fregata? La risposta della cantante è chiara: “Certo, e non solo loro”.

Estratto dell'articolo di Marinella Venegoni per “la Stampa” il 14 aprile 2023.

Tutto, in Patty Pravo, parte sempre da Venezia. La città dov'è nata, la città che par di capire le andava stretta fin da adolescente. Allevata dai nonni paterni, affezionatissima al nonno Domenico direttore dei Tabacchi, alla sua morte decise che lì non ci voleva più stare: «Ho annunciato alla nonna che dopo otto anni ero stufa del Conservatorio e, con la scusa di un corso d'inglese, sono saltata in auto con alcuni amici e siamo andati a Londra», ricorda. Era il 1965.

L'inglese s'imparava anche per strada, la curiosità della bellissima fanciulla andava altrove, alle zone più appetibili della Swinging London: «Ci si infilava a ballare, si cantava.

E mi sono scatenata nelle strade della moda, sono andata da Biba e sì, non mi sono persa neanche Mary Quant, mi ricordo anche di averla vista. Ho fatto il pieno di vestiti, poi sono andata a Roma e sono approdata al Piper».

 Chiedere particolari alla memoria di Nicoletta Strambelli è un po' complicato, quel che è certo è che era una ragazza molto sveglia, e sostiene anzi che lei nell'epoca della minigonna ci entrò da prima, danzando: «Mi piaceva, come a tutte le ragazze, e la mettevo. Era nell'aria, e anzi la mettevo già prima: mi ricordo che prendevo un sacchetto di stoffa (allora era beige), tagliavo il fondo, me lo infilavo e stringevo in vita il laccetto della parte superiore, come cintura».

«[…] In quel periodo a Londra c'erano minigonne da tutte le parti: Mary Quant fu geniale, perché riuscì a pubblicizzare questa novità della minigonna che però era già nell'aria, e se ne impadronì, la ufficializzò, fece una pubblicità moderna, le diede un'impronta fino a farla diventare una cosa sua. Dalla sua parte aveva Twiggy. Nel suo negozio poi non si trovavano solo le minigonne, c'erano i prodotti di bellezza, il trucco che cambiava e le ragazze che insegnavano come truccarsi a noi clienti, inglesi e straniere, che pendevamo dalle loro labbra. Carnaby Street era così affollata che non si riusciva a camminare».

[…]

Estratto dell’articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” l’8 aprile 2023.

Nove giorni prima che l’Italia scegliesse di stare dalla parte della libertà, il 9 aprile del 1948, a Venezia nasceva Nicoletta Strambelli. Colei che, citando sfrontatamente persino Dante, scese all’Inferno e al Sommo Poeta rubò un aggettivo: pravo, per metterselo addosso e indossarlo tutta la vita. Così nacque Patty Pravo e il suo percorso coronato da oltre mezzo secolo di successi con più di 110 milioni di dischi venduti nel mondo. […]

 La trasgressione come forma mentis sarà quella che la porterà a innovare sempre. E a scoprire, dopo i ritmi britannici che inseguì giovanissima fuggendo a Londra, anche il cantautorato francese. Nella capitale inglese rimase però solo per pochi giorni […] Fu così che quella ragazzina minuta, irrequieta ma al tempo stesso rispettosa, […] che a 17 anni, nella Città Eterna, si trasformò nel mito della “Ragazza del Piper”.

Un anno più tardi, nel 1966, un altro record. Il suo brano Ragazzo triste, fu il primo pezzo di musica leggera ad essere trasmesso dalla Radio Vaticana. […] uno dei momenti più belli della sua carriera: lo speciale che la Rai le dedicò nella prima serata del canale nazionale il 10 maggio del 1969. Era un sabato: dal titolo Stasera Patty Pravo. La cantante, eterea e dirompente al contempo, si vede volteggiare sul palco su passi di danza curati da un coreografo d’eccezione, Don Lurio.

Ad affiancarla tra sketch, aneddoti e canzoni troviamo Wanda Osiris, Luciano Salce, Donyale Luna, Franca Valeri, Paolo Villaggio e Aldo Fabrizi. Nel repertorio della giovanissima Patty c’erano già i grandi successi che sarebbero passati poi alla storia: da La bambola che la Strambelli negli anni ha riarrangiato e interpretato in tutti i modi possibili, […]

Il 1973, ormai mezzo secolo fa, sarà l’anno di un altro capolavoro, Pazza Idea che la porterà ancora una volta in vetta alle hit parade. Nello stesso album la bellissima Poesia, scritta per lei da un esordiente Riccardo Cocciante. Dolorosi gli anni 80 che la videro costretta a viaggiare oltreoceano, tormentata da pettegolezzi e anche accuse sull’uso di droga che l’artista non ha mai smentito. Ad eccezione della cocaina che dice di non aver mai usato. 

Al punto che nel 1992, anno in cui fu arrestata e reclusa per tre giorni nel carcere romano di Rebibbia, fu rimandata a casa con tante scuse, proprio perché cercavano la coca che mai avrebbero potuto trovare. In America posò anche per le copertine di Playboy e Playmen. Ma la trasgressione più bella resta per lei la musica che la riportò in auge, tra le numerose volte che la videro (e magari la vedranno ancora) al Festival di Sanremo, grazie a un mirabile connubio con Vasco Rossi che nel 1997 le regalò una perla come E dimmi che non vuoi morire.

 Per arrivare ad oggi di anni ne trascorreranno altri 25 anni, un quarto di secolo nel quale Nicoletta non ha smesso di cantare e produrre musica, spesso anche assieme ad autori giovanissimi. Perché a lei, che oggi è felicemente single dopo cinque matrimoni e cinque divorzi, piacciono i giovani. Non a caso l’unico regalo che vorrebbe per i suoi 75 anni sarebbe un pezzo scritto da Ultimo. […]

Patty Pravo: «La prima volta a 14 anni. Ho avuto 5 mariti e sono stata trigama». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2023.

La cantante: «Ho provato tutte le droghe, tranne la cocaina»

Patty Pravo, qual è il suo primo ricordo?

«Ho tre anni, sono piccolina e tento di suonare i tasti neri del pianoforte. Andavo a scuola da una nobile veneziana decaduta, la Mazzincrovato, che aveva una casa piena di gatti. Prendevo anche lezioni di danza dalla maestra Turiddu, che insegnava alla Fenice».

Cosa facevano i suoi genitori?

«Papà Aldo portava i motoscafi, mia mamma stava a casa. Si chiamava Bruna, ma era biondissima. Ebbe un parto difficile, era sempre in cura. Non ho ricordi della prima infanzia. Stavo dai nonni paterni».

Severi?

«Al contrario. Nonno Domenico era il direttore dei Tabacchi, nonna Maria una tabagista convinta; io a 10 anni fumai la prima sigaretta, e non ho mai smesso. Mi davano 50 lire per la gondola, io andavo a scuola a piedi e le spendevo per le Nazionali super; poi sono passata alle Marlboro rosse. A 14 anni anziché a scuola sono stata a fare l’amore».

Con chi?

«Non glielo dico. Ai nonni ho raccontato: “Sono stata a fare l’amore e mi è piaciuto molto, posso tornare a farlo oggi pomeriggio?”».

L’avranno rinchiusa in casa.

«Invece mi hanno lasciata andare. Erano persone libere e mi hanno sempre fatto vivere libera. La nonna usciva di notte per comprare la prima copia del giornale e tornava all’alba».

E suo padre?

«Ogni tanto mi veniva a prendere e mi portava allo stadio. Ricordo un Venezia-Juventus: impazzii per Charles e Sivori, con quei numeri pazzeschi. Così mi accompagnava in giro a vedere la Juve».

È ancora bianconera?

«Per forza! Un pochino».

Com’era la Venezia degli anni Cinquanta?

«Meravigliosa. Si camminava e si ascoltavano i passi, immaginando chi stesse per arrivare».

Chi arrivava?

«Ad esempio il patriarca Angelo Roncalli, il futuro Papa Giovanni: frequentava mia nonna e Cesco Baseggio, l’attore, perché voleva imparare il veneziano, per parlare in dialetto con i fedeli. Oppure Ezra Pound. Io abitavo a Dorsoduro, a san Barnaba, lui alla Giudecca. Un giorno lo incontrai con sua moglie e mi comprarono un gelato. Divenne una consuetudine passeggiare con il poeta».

E cosa le diceva Pound?

«Niente. Ezra Pound non parlava mai. Ma era una persona che emanava energia, e io queste cose le ho sempre sentite. La sera del 3 novembre 1966 suonai a Firenze. Alla fine dissi: c’è qualcosa di strano nell’aria, non restiamo a dormire, partiamo subito. Il mattino dopo l’Arno straripò».

Fino a quando restò a Venezia?

«Il nonno morì, rimasi sconvolta, e dissi alla nonna che dopo otto anni lasciavo il conservatorio e andavo a Londra a imparare l’inglese. La Londra del 1965 era pazzesca: succedeva di tutto e ci divertivamo moltissimo. Poi una sera sentii parlare di questo nuovo locale romano, il Piper».

E partì.

«Su un maggiolino. Con gli amici facemmo tutta una tirata da Londra a Roma. Il patron, Alberigo Crocetta, mi vide ballare e mi chiese: sai anche cantare? Io risposi di sì, alzai le spalle e me ne andai. C’è il filmato, sa? Nel nuovo spettacolo lo facciamo pure vedere».

Poi tornò.

«C’erano Arbore, Boncompagni, Tenco. Con Luigi vivevamo nello stesso residence».

Che idea si è fatto della sua morte?

«Non c’è nessun giallo. Si è suicidato. Non era una persona felice».

Boncompagni scrisse per lei «Ragazzo triste».

«Non mi riconoscevo in quella canzone. Dicevo: Gianni, noi non siamo tristi, siamo allegri, giovani, belli... E lui: vedrai che funziona. Funzionò».

La bambola è del 1968: «Tu non mi metterai tra le dieci bambole che non ti piacciono più...».

«A suo modo era un testo femminista. Lo incisero in tutto il mondo».

Renato Zero mi ha raccontato che, dopo mesi di assenza, lei tornò al Piper su una Rolls Royce bianca con autista nero, occhiali scuri e un levriero al guinzaglio, cominciò a cantare e nessuno la riconobbe, tranne il tecnico delle luci: «A Nicole’, te sei ammattita?».

«Ma no... Ero al massimo del successo, sarebbe stato difficile non riconoscermi (Patty sorride). Venivano a sentirmi Visconti, Bolognini, De Sica. In effetti avevo un autista nero, Pietro, e Crocetta mi metteva a disposizione una Rolls, che usavo per andare al mare. Renato all’inizio non c’era, arrivò dopo, come Loredana Bertè. Diventammo amici. Anche con Roberto D’Agostino: ci vogliamo ancora bene. Una volta mi divertii ad aiutare Renato Zero a montare lo spettacolo, portai un leone gigantesco, è un ricordo molto tenero... Da ragazzina avevo aiutato anche Lucio Dalla».

A far cosa?

«A scaricare gli strumenti musicali. Ero andata in un paesino veneto del Terraglio a sentire i Flippers, dove Lucio suonava sax e clarinetto. Io volevo restare, i miei amici però dovevano tornare a casa. Così dissi a Lucio: io vi aiuto con gli strumenti, e voi mi riaccompagnate».

Lei si chiama in realtà Nicoletta Strambelli. Come divenne Patty Pravo?

«Una sera, chiuso il Piper, ci facemmo un piatto di spaghetti con Crocetta e un gruppo di ragazze inglesi che si chiamavano quasi tutte Patty. Il discorso cadde su Dante. Io al conservatorio avevo studiato con Chiarini, che era un grande dantista. Ovviamente preferivo l’Inferno: “Guai a voi, anime prave...”. Patty Pravo nacque quella notte. Non che mi facesse impazzire come nome. Ma non me n’è mai fregato niente».

A Roma lei frequentava anche Mario Schifano, l’artista.

«Una delle persone che mi manca di più: eravamo fratelli. Una sera del 1965 a casa sua incontrai i Rolling Stones. Avevamo comprato una moto insieme, ma non andavamo da nessuna parte, giravamo in tondo attorno a piazza del Popolo, c’erano anche Tano Festa e Franco Angeli...».

Lei dove abitava?

«Vicino a piazza del Pantheon. Con Sergio Bardotti tiravamo mattina seduti sui gradini della fontana, con la chitarra. All’alba passava Andreotti, che andava a messa e poi in ufficio. Ogni volta si fermava a parlare con noi: “Com’è andata la notte, cos’avete fatto di bello?”».

Con Schifano avrà provato la droga.

«Mica solo con Schifano. Le droghe le ho provate tutte, tranne la cocaina che mi fa schifo. Canne, anfetamine, acidi: non era robaccia come adesso, che ti ammazza. Fu il mio periodo rockettaro. Poi sono andata in America e ho smesso».

Cosa votava nella Prima Repubblica?

«La prima volta che ne avevo diritto, alle politiche del 1972, andai al consolato di New York, ma mi dissero che non si poteva. Così non ho mai votato».

Cosa pensa della Meloni?

«Non mi sono mai schierata, e non mi schiero. A prescindere dal suo orientamento politico, è la prima donna ad arrivare dov’è arrivata: segno che deve avere molto carattere».

E di Berlusconi?

«È un uomo che si è fatto da solo e che rispetto».

Quindi a differenza di molti colleghi lei non ha mai provato interesse per la sinistra?

«Non è così. Ho sempre provato interesse per le persone vere. Craxi non mi dispiaceva affatto. Ho un ottimo rapporto con Bertinotti».

Ogni tanto lei spariva e si metteva in viaggio.

«Ero in Egitto, seduta sotto la Sfinge, quando feci amicizia con un cammelliere, che mi portò a fare il giro delle oasi. Fu l’iniziazione al deserto. In Marocco incontrai una carovana di tuareg che trasportava sale e rimasi con loro due mesi, unica donna, rispettatissima».

È vero che ha pure attraversato l’Atlantico a vela?

«In solitaria, partendo dalla Spagna. Speravo succedesse qualcosa di strano, invece presi gli alisei e fu una passeggiata. L’ho raccontato a Soldini: lui era incredulo, ma è andata davvero così».

E la via della Seta?

«Mi presi un anno sabbatico. Partii da Venezia sentendomi come Marco Polo, piena di visti e documenti però. Conservo ancora una sella che mi regalarono in Mongolia: non avevano mai visto una bionda».

Lei era amica anche di Jimi Hendrix.

«Lo vidi a Londra poco prima che morisse. Una persona stupenda. Scriveva cose classiche, non ne poteva più della parte del maledetto che spaccava le chitarre e suonava con i denti. Ma i produttori lo vollero così, sino alla fine».

Quante volte si è sposata?

«Di matrimoni ne ho celebrati cinque; ma veri solo tre».

Il primo?

«Con Gordon Fagetter, batterista a Londra».

Il secondo?

«Con Franco Baldieri, antiquario a Roma. Ci incontrammo e ci riconoscemmo. Passammo la notte insieme, e il mattino andammo in Campidoglio a chiedere i documenti per sposarci. Cavallina, la spia dei paparazzi, avvisò tutti: “C’è Patty Pravo che si sposa!”. Ero senza trucco, per fortuna sopra il pigiama avevo messo la pelliccia».

Per lei Riccardo Fogli lasciò i Pooh.

«Come dargli torto? (Patty sorride). In realtà ho saputo solo dopo che il suo manager l’aveva costretto a scegliere: non avrei mai voluto che si separasse dagli altri. Ci sposammo in Scozia, con il rito celtico».

Come finì?

«Ero a Londra per incidere un disco di Vangelis, quando incontrai Paul Martinez, che suonava il basso, e Paul Jeffrey, alla chitarra. Erano bellissimi, e ci amammo in tre».

Sembra il testo di «Pensiero stupendo». Non c’era gelosia?

«Gelosa non lo sono mai stata. C’era semmai una certa confusione. Aspettavo Martinez a Roma per partire insieme per un viaggio, quando mi dissero: “Qui sotto c’è un signore per lei con delle valigie bianche”. Una cosa cheap, che Martinez non avrebbe mai fatto. Infatti era Jeffrey: avevo sbagliato Paul. Il viaggio però riuscì lo stesso».

Chi ha sposato dei due?

«Martinez. Erano sempre loro a volersi sposare, e mi pareva brutto dire di no. Però in America andai con Jeffrey: scendemmo allo Chateau Marmont, a Los Angeles, e ci restammo un anno. Il problema sorse quando a San Francisco incontrai un altro musicista, Jack Johnson. Stracciai contratti miliardari con Jeffrey e lo lasciai lì. Ma venne fuori che le nozze con Baldieri non erano state annullate. L’avvocato mi tranquillizzò: la bigamia era punita; ma io sarei stata trigama. E la trigamia nel codice penale non è contemplata».

E ora?

«Ora sono felicemente sola».

Riccardo Fogli e Patty Pravo

Non le manca un figlio?

«Non ne ho mai sentito la necessità. E non ci ho mai pensato davvero, tranne che con Gordon, il mio primo marito. Eravamo in Giappone. Ci chiedemmo: ma mentre suoniamo chi lo guarda? Pensammo che avremmo potuto dondolarlo collegando la culla al pedale della batteria. Ma mentre lo dicevamo capimmo che non era il caso».

Lei era amica anche di Califano.

«Molto, pensi che nel testamento mi ha lasciato una canzone, Io so amare così. Avevo una segretaria francese, Monique, che parlava tutte le lingue: ma lui la sedusse e me la portò via».

Sedusse anche lei?

«Gli bastò la segretaria».

Altre amicizie tra le colleghe?

«Gabriella Ferri, che mi presentò Anita Pallenberg. Ripenso ad Anita mentre usciamo dalla farmacia notturna di fronte al Senato con l’ossigeno, c’era anche Donyale Luna, la modella, noi piccoline, lei altissima... Con la Vanoni ci siamo date un nomignolo: io la chiamo Ornellik, lei Nicopat. Con Giorgia scoprimmo che fumiamo le stesse sigarette e ci trovammo subito simpatiche. De Gregori e Venditti li conosco da quando erano bambini. E poi Elisa, Emma e Giuliano Sangiorgi».

Anche «Pazza idea» nasce da una storia vera?

«La scrissi con Giovanni Ullu e la firmarono in cinque, doveva intitolarsi Crazy Idea, e non mi è mai piaciuta. Mi identifico di più in un altro verso: “La cambio io la vita che non ce la fa a cambiare me...”».

«Dimmi che non vuoi morire», la canzone di Sanremo. La scrisse Vasco, vero?

«Mi mandò una cassetta registrata, in cui la cantava imitando la mia voce. Non mi raccapezzavo. Questa canzone mi piace ma non la conosco, pensavo: quando mai l’ho cantata? Vasco dice che io sono la sua parte femminile, lui la mia parte maschile».

Come ha trovato il Sanremo di quest’anno? Gli scandali?

«Quali scandali? Sanremo è sempre Sanremo, gli ascolti sono stati ottimi. A me interessa solo la musica. Noi avevamo una storia dietro, io ho cominciato a 14 anni scaricando gli strumenti di Lucio Dalla e sono arrivata a incidere in otto lingue e a vendere 120 milioni di dischi; questi ragazzi fanno numeri pazzeschi tra visualizzazioni e streaming, il successo è così immediato che li mandano subito nei palasport e negli stadi. Auguro loro di resistere per molto tempo».

Anche lei si presentò in tv praticamente nuda.

«Ma non avevo seno e potevo permettermelo».

Quali sono le otto lingue in cui lei ha inciso, oltre all’italiano?

«Francese, inglese, spagnolo, portoghese, tedesco, arabo, cinese».

Cinese?

«Andai per il lancio di un satellite. Mi seguirono un miliardo e 380 milioni di persone: uno share mostruoso. Se è per questo, nel 1969 mi invitarono alla Nasa dopo lo sbarco sulla Luna; lo stesso anno cantai per l’Armata Rossa. Una tragedia, tornai dalla Russia intossicata dall’acqua che ci facevano bere».

E a Venezia torna ancora?

«Sì. Ma ormai la si può girare solo di notte».

Il futuro dell’Italia come lo vede?

«La situazione è tragica, non solo in Italia; nel mondo. Rischiamo davvero la terza guerra mondiale. Anche se sono convinta che la Cina la guerra non la voglia. Vuole ancora crescere, espandersi in Africa. È abituata a tempi lunghi».

Cosa c’è nell’Aldilà?

«Niente. Non credo in Dio. Con tutte queste galassie, non si può pensare che esista una sola mente che abbia deciso tutto».

Non teme la morte eterna?

«No, anzi mi consola. Così eviterò l’Inferno, con tutta quella gente. Anche se la vera tragedia sarebbe il Paradiso: una noia... Andateci voi».

1979, quando il ciclone Patti Smith si è abbattuto sull’Italia del riflusso. PAOLO MORANDO su Il Domani il 31 ottobre 2023

Un concerto rock è diventato il simbolo di una stagione politica e sociale italiana, con tutte le sue contraddizioni. Lo racconta il musicologo Goffredo Plastino, nel libro Rumore rosso, uscito oggi per il Saggiatore

Venne in Italia a suonarvi per la prima volta nel settembre del 1979, domenica 9 a Bologna e lunedì 10 a Firenze. E avvenne l’impensabile, con stadi riempiti all’inverosimile: i conti esatti non fu mai possibile farli, perché a un certo punto gli ingressi vennero aperti anche a chi il biglietto non lo aveva per scongiurare disordini, allora all’ordine del giorno nei casi – rari – di concerti rock di artisti internazionali.

Ma stime attendibili fissarono in 140mila gli spettatori. Una cifra che nessuno si aspettava: basti dire che la data bolognese era prevista inizialmente non al Dall’Ara ma nell’angusta area dell’antistadio.

Fu un autentico ciclone, quello che Patti Smith portò in Italia - senza volerlo e suo malgrado - al tramonto del decennio più lungo del secolo breve: un ciclone che oggi rivive in Rumore rosso, volume appena pubblicato dal Saggiatore a firma Goffredo Plastino, musicologo calabrese della Newcastle University.

E il sottotitolo, “Patti Smith in Italia: rock e politica negli anni settanta”, ne riassume il contenuto solo per difetto, tanto monumentale è la documentazione che l’autore ha accumulato per anni e su cui ha costruito questo saggio, per il quale parlare di “opera-mondo” non è esagerato. Un mondo se vogliamo limitato nel tempo e nello spazio (poche settimane di fine estate di un solo anno, un paese come l’Italia allora ai margini dei circuiti del grande rock) ma frutto di un fenomenale carotaggio che, come vedremo, nulla tralascia.

IL CASO 7 APRILE

Prima di affrontarlo, occorre tratteggiare almeno sommariamente il contesto in cui saettò in Italia “Patti la Santa”, fresca reduce da un quarto album, “Wave”, in cui si presentava in copertina colombe sulle mani (oltre che con una sorprendente infatuazione per papa Luciani).

Un’Italia in cui lo shock per la tragedia di Aldo Moro ancora non era stato riassorbito, ma i cui strascichi continuavano a riverberarsi politicamente: ad esempio, con il rifluire dell’ondata elettorale che da anni alimentava la crescita del Partito comunista (e con l’uscita dei comunisti dalla maggioranza di governo figlia del compromesso storico).

E questo rifluire aveva anche a che fare con un’altra questione politicamente enorme: il caso 7 aprile, cioè la “decapitazione” per via giudiziaria di quell’area dell’autonomia che proprio nel Pci (oltre che in Cossiga, ma scritto con la K) vedeva il principale nemico, come si era visto in maniera palmare e drammatica due anni prima proprio a Bologna, teatro prima della morte dello studente Lorusso per mano della polizia e poi di un tesissimo convegno sulla repressione in Italia.

ROCK E POLITICA

E poi la musica, con scontri da anni tra giovani e polizia in occasione di concerti, in una iper politicizzazione di cui il fenomeno dell’autoriduzione era solo la punta dell’iceberg.

Led Zeppelin, Traffic, Santana, Lou Reed: l’elenco dei grandi nomi del rock le cui esibizioni italiane erano finite a botte e lacrimogeni non finirebbe più.

Un black out pressoché completo dal quale restarono fuori solo pochi eccentrici, come il giro canterburyano di Robert Wyatt e degli Henry Cow, in occasione nel 1975 di un memorabile concerto romano in piazza Navona, targato però in qualche modo politicamente (“Stampa alternativa” di Marcello Baraghini e la rivista “Muzak”, entrambi di area culturale vicina alla sinistra extraparlamentare).

Perché il connubio che in Italia si registrò tra rock e politica fu qualcosa di totalmente pervasivo, tanto da figliare per tutti gli anni Settanta un circuito distributivo ristretto ma capillare, tra feste dell’Unità, festival di Re Nudo e le mille iniziative di realtà come Lotta Continua, Avanguardia operaia e i Circoli ottobre.

LA POETESSA URBANA

Fu dunque nelle città più rosse d’Italia, Bologna e Firenze, che planò Patti Smith, strana “rockeuse” partorita dall’America, né punk né figlia dei fiori fuori tempo (o almeno non associabile per esteso ad alcuno dei due poli), bensì poetessa urbana compenetrata da una cultura, quella della sua New York, in cui allora passava un po’ di tutto.

L’Italia allora se ne innamorò come nessun altro paese, equivocando in larga parte il suo profilo. E d’altra parte l’industria discografica ci mise ampiamente del suo.

Rumore rosso lo certifica in maniera precisa, offrendo infatti una potente carrellata iconografica in cui, oltre a fantastiche immagini dei due concerti (e soprattutto del pubblico che in quei giorni aveva fatto delle due città un immenso camping), spuntano immagini promozionali della artista e dei suoi dischi prodotte per la stampa italiana, in cui si giocava su più registri.

A CHI APPARTENEVA?

A lasciare senza parole, sono però le dimensioni e l’intensità del dibattito che quei due concerti scatenarono. Nessuno ne rimase fuori: dalla stampa musicale specializzata ai quotidiani mainstream, dalle radio allora “libere” ai telegiornali del servizio pubblico.

E soprattutto i giornali politici. Si rimane stupefatti dalla quantità di articoli esaminati dall’autore, da un lato per via dell’acribia enciclopedica, dall’altro per la constatazione del livello degli interventi.

Che in gran parte non erano musicali in senso stretto, bensì mossi da una domanda che rivelava la natura del meccanismo (e soprattutto dell’equivoco) in cui la cantante rischiò di venire stritolata. E la domanda era in sostanza questa: a chi apparteneva Patti Smith?

IL TERRORE DEI MUSICISTI

Gli aneddoti in questo senso si sprecano: ad esempio, il tentativo di quegli intellettuali (Gianni Sassi della Cramps, “Bifo” Berardi, l’area della rivista “Alfabeta”) di strapparle un intervento a favore di Nanni Balestrini, latitante in seguito agli arresti del 7 aprile.

Oppure, le reazioni stupefatte di chi a Bologna, arrivando allo stadio circondato da giovani accampati come nei giorni del convegno sulla repressione, la sentì dire: «Oggi è domenica: dite a questi ragazzi che farebbero bene ad andare a messa».

E ancora, le reazioni del pubblico quando sul palco a un certo punto, assieme a lei e alla band, spuntò anche la bandiera americana: fischi, pugni chiusi, il lancio di decine di lattine e mani con le tre dita a pistola, uno dei simboli classici durante le manifestazioni dell’area più dura dell’autonomia.

Per non parlare del terrore degli stessi musicisti quando, all’ingresso degli stadi e al rientro nei camerini, dovettero passare tra file di poliziotti e carabinieri armati fino ai denti.

E tutto questo dopo mesi in cui l’editoria giovanile si era nutrita di una Patti Smith presunta ribelle irriducibile, per giunta dal profilo artistico altissimo, producendo più pubblicazioni di testi delle sue canzoni e delle sue poesie.

RICONQUISTARE I GIOVANI

L’appartenenza di Patti Smith a questo o a quel campo (il punk, il rock, la poesia, l’America a stelle e strisce o il sovversivismo internazionale) non poteva costituire un fattore indifferente. E alimentò una polemica fittissima, soprattutto perché entrambi i concerti vennero organizzati dall’Arci, dunque da un’organizzazione del Pci (la scelta delle location non fu casuale).

Fu quindi inevitabile che il mini tour della artista, preceduto da una straniante apparizione veneziana in veste appunto di poetessa, per un happening ristretto nell’ambito della Biennale, venisse letto come il tentativo del partito di Berlinguer di riportare dalla propria parte quei giovani che politicamente gli erano sempre più distanti.

IL CARTEGGIO

Lo sintetizzò Stefano Benni su Panorama in un esilarante finto carteggio tra il segretario comunista e la cantante, di cui qui c’è spazio solo per un minimo stralcio: «Dear Patti, ho telefonato a D’Alema, il nostro esperto giovanile, e gli ho detto: senti, questa Patti Smith che piace tanto ai ragazzi, prendiamola. Lui ha detto di no, queste son robe da Nicolini (l’allora assessore romano alla cultura, ndA), costa troppo, è sballata. Ma io ho insistito: senti, piuttosto che doverci confrontare con questi giovani rompiscatole o ascoltarli davvero, quando ci criticano preferisco dargli un bel po’ di musica. Perché per noi 30mila in uno stadio sono spettatori, 30mila in una manifestazione sono autonomi».

E la risposta, folgorante: «Avevo dei dubbi: ma poi ho letto il tuo saggio e ho capito. È vero Enrico, sei più sballato di tutti gli sballati di San Francisco e della Bowery messi insieme. Vengo: e mi farai provare quell’erba che, da un po’ di tempo in qua, tu fumi quando fai politica. Non dirmi che non ci dai anche tu, vecchio Junkie. A presto. Yours Patti».

TUTTA L’ITALIA

Che cosa furono quei due pazzeschi concerti e tutto ciò che ci girò attorno? Un mare di cose, che Goffredo Plastino elenca minuziosamente, in un esempio di microstoria la cui profondità ha davvero pochi eguali.

E oggi che cosa ne resta? Le parole con cui si conclude il libro, dopo una cavalcata appassionante, lo dicono come meglio non si potrebbe. Si cita infatti la stessa Patti Smith: «Se mi capita di camminare per strada, in Italia, c’è sempre qualcuno che mi si avvicina, e può essere un cuoco o un rappresentante del governo, e mi dice: Patti, io ero a Bologna. Sembra che tutta Italia, quella sera, fosse a Bologna...».

E l’autore: «In un certo senso è proprio così: c’eravamo tutti e ci siamo ancora, continuiamo ad ascoltare il rumore rosso di quei giorni, di quegli anni». Chapeau.

PAOLO MORANDO. Giornalista, ha lavorato in quotidiani di Trento, Bolzano e Verona. Ora scrive per Domani, Huffington Post, Internazionale, L'Essenziale e sul blog minima&moralia. Per Editori Laterza è autore di Dancing Days. 1978-1979: i due anni che hanno cambiato l’Italia (2009, ristampato nel 2020), ’80. L’inizio della barbarie (2016, finalista al Premio Estense), Prima di Piazza Fontana. La prova generale (2019, vincitore del Premio Fiuggi Storia, sezione Anniversari), Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri (2021, finalista al premio Acqui Storia) e L'ergastolano. La strage di Peteano e l'enigma Vinciguerra (2022), per Feltrinelli di La strage di Bologna. Bellini, i Nar, I mandanti e un perdono tradito (2023).

Patti Smith: «Femminista? Bisessuale? Io sono un’artista, una madre, una punk». Luca Mastrantonio su Il Corriere della Sera il 2 ottobre 2023.

La first lady del rock si racconta in un libro fotografico che mette a nudo i suoi lati più intimi E torna il suo sguardo poetico sulla vita e la morte 

Love is a ring, the telephone... È una notte di fine estate, e in attesa di una telefonata di Patti Smith è difficile non canticchiare Because the night . La musica è di Bruce Springsteen, di una dolcezza senza tregua, la canzone rotolò fuori dall’album cui stava lavoravando e la diede a Patti Smith, che trovò le parole per raccontare la complice tenerezza della notte, parole di chi ama la poesia francese dell’800 e vive a New York negli Anni 70 del Novecento: «L’amore è uno squillo, il telefono / l’amore è un angelo, travestito da lussuria». Il telefono! Finalmente. «Hi, it’s Patti». L’artista è a Washington, nel mezzo di un tour di musica e parole dove un pubblico di ogni età accoglie la sua energia, sul palco con vecchi e nuovi amici, da Michael Stipe dei REM ai The National. La voce è tersa, aria azzurra dopo un acquazzone. Serena, di chi è in pace con il mondo e con sé stessa, con i vivi e i con i morti.

L’occasione della telefonata è la pubblicazione presso Bompiani del volume A Book of Days , che raccoglie foto d’autore e polaroid personali, mescolando la vita privata, intima e familiare, alla galleria di grandi del rock che ha conosciuto, da Bob Dylan («il re delle maschere, mi aveva influenzato anche nel modo di camminare») a Lou Reed («era il wilde side di New York, non sempre capivo l’intensità dei suoi stati d’animo»). Un album di famiglia con molti fantasmi, anche di epoche passate, come Rimbaud di cui era una fanatica lettrice, varie forme di vita, come l’amato gatto, e oggetti-feticcio (dei suoi idoli, dei suoi cari) e luoghi del cuore (caffè, letti, cimiteri). Le didascalie sono testi che fanno da lieve contrappunto, Questo A Book of Days è prezioso per ciò che mostra e per come lo mostra, perché mette in scena lo sguardo di un’artista curiosa, sensibile ed empatica. Una lente d’ingrandimento sul cuore, una vivisezione del suo sguardo: non vediamo solo cosa ha visto, vediamo il suo sguardo. Di figlia, madre, artista, lettrice, amica, sorella... Molte foto hanno già fatto capolino sul suo profilo Instagram, dove (andateci, è @thisispattismith) salta agli occhi ciò che al mio orecchio è chiaro: lei è come appare, come canta, scrive, scatta. Una persona vera, non un personaggio.

Nel libro cita Baudelaire: “Il genio è colui che sa tornare all’infanzia a suo piacimento”. Quali sono i ricordi d’infanzia a cui torna con piacere?

«Ne ho molti legati ai libri, la mia era una famiglia umile, ma si leggeva tanto. Mi dava gioia leggere sotto le coperte con una torcia elettrica, fino ad addormentarmi. Poi ho un ricordo chiaro di quando avevo 10 anni, ero infelice perché avevamo lasciato la città per la campagna, finché non ho esplorato i campi con il mio cane, e siamo arrivati a un campo in mezzo ai peschi, vicino a un vecchio fienile. Mi sono addormentata e poi, al risveglio, la prima cosa che ho visto sono state le nuvole. Mi sentivo in Paradiso».

Altra citazione dal libro. Gérard de Nerval: “I sogni sono una seconda vita”. Come sono i suoi sogni?

«Stimolanti. Molte cose che scrivo sono ispirate a dei sogni. Tornando all’infanzia, su cui sto scrivendo un libro, da piccola feci un incubo mai dimenticata. Sognai che mia madre era con il mio fratello minore, stava guarendo da una polmonite. “Non disturbarlo, stagli lontano”, mi fa. Io invece vado a vedere come sta, gli sfioro il braccino e accidentalmente glielo stacca. Mi sono svegliata terrorizzata, temevo fosse reale, cercai una bambola per staccare un braccio e darlo a mio fratello. Poi ho capito che era un sogno. Avrò avuto 4 o 5 anni ma lo ricordo come fosse ieri».

Un bel sogno recente?

«Ah, in continuazione. Sogno le persone che amo, anche se non ci sono più. L’altra notte io e mio marito, Fred, eravamo in cucina, parlavamo e bevevamo caffè. Altre volte sogno Robert o mia madre... E quando mi sveglio mi pare di aver passato del tempo con loro».

Suo padre era appassionato di alieni, sua madre testimone di Geova. Questi mondi extraterrestri e ultra-cristiani hanno influito su di lei?

«Papà leggeva anche storia e filosofia, oltre a testi sugli alieni, sui segreti delle piramidi... era carburante per l’immaginazione. Come la Bibbia, con gli angeli, la Creazione, il misticismo dei sogni, la sensualità del Cantico dei Cantici, la poesia dei Salmi di David... Ciò che nutre l’immaginazione ci spinge a pensare le cose da soli, in modo indipendente. Così si diventa artisti, poeti, storici: vogliamo saperne di più». 

Accompagnava sua madre porta a porta, per fare proselitismo?

«I testimoni di Geova lo fanno perché Gesù ha detto ai discepoli di dare da mangiare alle pecore, e quindi diffondere la parola sacra, vanno di porta in porta per aprire la coscienza delle persone alle Scritture. Io ero adolescente, erano gli Anni 50... ricordo che certe persone ci tiravano le secchiate d’acqua addosso!».

In una sua riscrittura punk di ‘Gloria’ di Van Morrison lei recupera dei versi che aveva scritto per il suo primo reading a New York, negli Anni 70, nella chiesa di Saint Mark: “Gesù è morto per i peccati di qualcuno / non i miei”.

«Era un riferimento critico non a Gesù ma alla Chiesa che ci faceva percepire Gesù come la persona responsabile di ciò che facciamo e faremo, colui che ci perdonerà, che è morto per i peccati futuri! Quei versi furono la mia Dichiarazione di Indipendenza. Se commetto errori, sono errori miei. L’essenza dell’arte, della poesia, del punk è questo, la libertà».

Citando una canzone del suo amico Michael Stipe, dei REM, lei ha mai perso la sua religione?

«Michael è una persona spirituale, buona e generosa. Come mia sorella Linda, che era caritatevole prima di diventare testimone di Geova. Il mio rapporto con Dio non l’ho mai perso, magari è cambiato, si è evoluto, ma prego sempre, anche se non vado in chiesa».

Al concerto a Firenze del 1979 lei si mise a pregare con i poliziotti. Un gesto catto-punk.

«A Firenze, ma anche a Bologna, c’erano tanti poliziotti, con fucili e mitragliatrici, erano in fila, abbiamo dovuto passare in mezzo a loro, era spaventoso, erano anni di grandi tensioni in Italia, i poliziotti erano nervosi, temevano succedesse qualcosa. Mi sono messa a recitare la preghiera del Signore per infondere nell’atmosfera amore, per eliminare lo stress e la tensione; pensavo che molti poliziotti fossero cattolici, era come dire siamo tutti persone, esseri umani, non siamo nemici, ma fratelli e sorelle».

Per diventare l’artista che è diventata l’incontro con Robert Mapplethorpe è stato cruciale.

«Quando l’ho incontrato non avevamo un posto dove vivere, nessuno che credesse in noi... C’è una cosa che molti non sanno di Robert: suo padre era nell’esercito e sperava in una carriera militare per Robert, che alla scuola d’arte commerciale aveva una borsa di studio militare. Finché Robert a fine 1967 decide di non voler fare l’artista pubblicitario o il militare, per dedicarsi all’arte, rinuncia alla borsa di studio, il padre quasi lo rinnega e smette di dargli i soldi per l’appartamento. Così Robert è passato dall’avere una borsa di studio, un appartamento e l’approvazione del padre all’essere quasi per strada. Ed è stato allora che l’ho incontrato. Eravamo due che non avevano nulla, tranne il sogno comune di diventare artisti, per cui eravamo disposti a tutto, anche a grandi sacrifici».

Se dovesse scegliere una vostra foto-talismano, una foto che racconta il vostro rapporto?

«La gita a Coney Island, nel 1969. Avevamo pochi soldi, abbiamo mangiato un hot dog in due, ci siamo seduti, guardavamo l’oceano ed eravamo felici. Tornavamo sempre lì ogni anno quando potevamo. Anche quando avevamo molti più soldi e potevamo comprare cinque hot dog cercavamo di non perdere la felicità semplice di quell’hot dog condiviso. Anche quando abbiamo smesso di essere fidanzati è restato questo legame molto profondo».

Come la prese quando lui le disse che era gay?

«Non mi sembrava reale. Era il mio ragazzo, niente in lui mi aveva fatto pensare a qualcosa del genere, il suo modo di essere, la nostra intimità... è stato difficile da elaborare. Abbiamo attraversato tristezza, rabbia, accettazione e poi abbiamo cercato di tornare ad essere fidanzati, ma niente. Dopo un anno, mi ha detto che era sicuro, e io l’ho capito, processato. Siamo restati amici, l’arte ci ha aiutato. Lui è stato la prima persona a credere in me come artista. E io in lui. Non volevamo perderci. Siamo rimasti molto vicini, fino alla sua morte. E mi sento ancora vicino a lui».

Di Mapplethorpe è la foto in copertina di Horses del 1975 dove lei è in abiti maschili. Quando capì che le piace danzare tra il maschile e il femminile?

«Da subito. Da piccola non giravo attorno agli abiti da festa, il mio abito da sogno era di un pattinatore sul ghiaccio che avevo visto in un piatto di mia madre... il punto è che come artista devi saper andare oltre il genere, passare dal maschile al femminile, essere completo. Io ho i miei lati maschili e quelli femminili, che per esempio mi hanno permesso di essere madre, moglie. Posso cantare una canzone d’amore molto tenera, oppure recitare una canzone rock molto maschile, come Gloria ».

La maternità per lei è stata una scelta sofferta. A 19 anni ha avuto una figlia, data in affido, poi rientrata nella sua famiglia, composta da anche dai due figli che ha avuto da Fred, sposato nel 1980. Cos’è per lei la maternità?

«Io volevo essere una poetessa, un’ artista. Non ho mai aspirato a essere una cantante rock and roll, un personaggio pubblico... è successo e mi prendeva troppe energie, non stavo più crescendo come persona. Così ho lasciato la vita pubblica e ho finito per sposarmi e avere figli. La gente pensa che se sei madre è difficile essere un’artista, non è vero. Ci sono sacrifici da fare, hai delle responsabilità, ma se il tuo desiderio è fare l’artista, puoi farlo, devi impegnarti a usare il tempo in modo diverso, crearti i tuoi momenti. Per me è una vocazione religiosa. Mi svegliavo ogni mattina alle 5. Tutti dormivano. E fino alle 8, 8.30 scrivevo, era il mio momento. L’ho fatto per 16 anni, fino alla morte di mio marito. Desideravo essere una grande scrittrice e una buona madre e moglie».

Ha vissuto gli anni della liberazione sessuale. Oggi si parla di genere più che di sesso.

«Non ho molto da dire su chi oggi chiede “che pronome usi?” “Sei questo o quello?” “Sei bisessuale?”. Sono eterosessuale, ho avuto compagni maschi, sono la stessa di allora, degli Anni 70, ma non mi sono mai piaciute le etichette. “Sei femminista?” “Sei una cantante donna?” “Sei un’artista donna?” No, sono un’artista. Non voglio essere definita un’artista donna non più di quanto Marcel Duchamp sia etichettato come maschile o Raffaello un artista uomo. Nella nota di copertina di Horses c’era scritto “oltre il genere”. Io sono così. Poesia o punk? Maschile o femminile? Quello che conta è la libertà. Non è l’orientamento o il genere a definirci, ma le azioni, come ti comporti con la Natura e gli altri. Prendiamo Robert. La sua sessualità, che mi ha coinvolto, non era la cosa più importante. Le cose più importanti erano la sua gentilezza verso di me e il suo amore per l’arte e... aspetti che ho una chiamata».

Pronto? Tutto bene?

«Sì, scusi, mi stanno chiamando al telefono per il soundcheck del concerto. Domani la richiamo».

CHI È PATTY SMITH

LA VITA - Patti Smith (Chicago, 1946) è scrittrice, performer e visual artist (accanto in una foto recente). Ha pubblicato dodici album, tra cui Horses (più a sinistra). Il memoir Just Kids ha vinto nel 2010 il National Book Award non fiction. Nel 1980 ha sposato Fred Smith con cui ha avuto due figli, Jackson e Jesse

IL LIBRO - A Book of Days (esce il 27 settembre per Bompiani, trad. Tiziana Lo Porto) raccoglie parole e più di 365 scatti, che vanno dall’archivio personale di polaroid alle foto con lo smartphone, con cui ha animato il profilo Instagram durante il Covid

IL TOUR - Patti Smith sarà in Italia il 4 ottobre a Parma e il 5 a Gorizia per i primi concerti acustici di A tour of italian days, una serie di concerti acustici in luoghi sacri e suggestivi delle principali città italiane (tra novembre e dicembre) cui il libro è legato

Patti Smith, quella notte davanti al telefono e la genesi di "Because the night". Un incontro casuale tra Bruce Springsteen e Patti Smith: il rifiuto iniziale, poi quella telefonata che muta il destino discografico della cantante. Paolo Lazzari il 26 Aprile 2023 su Il Giornale. 

Tabella dei contenuti

 Record Plant, quell’incontro "galeotto" con il Boss

 L’assist del Boss e i tentennamenti di Patti

 L’attesa per quella telefonata nella notte

 La notte appartiene agli amanti: un successo mondiale

 Patti, dalla fabbrica alle classifiche mondiali

Se ne sta appesa alla cornetta, fremente, il telefono che bolle. Dall’altro lato del cavo agganciato nel sottosuolo americano nessun sussulto. Quella caterva di squilli a vuoto le passa il tempo per pensare ad altro. Ad esempio a quel pezzo lì. No, non fa decisamente per lei. Riattacca, sperando che il tizio la richiami. Scivola con la schiena lungo la parete della cucina, proprio sotto al cavo. E poi si sorprende a pensare che sta in ansia, ma si sente pure bene. Si sente viva, Patti Smith, e non è poco. Sì, pensa rialzandosi per comporre di nuovo il numero, a volte l’amore è uno squillo, una telefonata.

Record Plant, quell’incontro "galeotto" con il Boss

Nel 1978 si alternano tre pontefici, Jimmy Carter siede saldamente in sella agli Stati Uniti e i Van Halen pubblicano il loro primo album. Nel frattempo, la cantautrice originaria di Chicago ha trentadue anni. Coltiva giù un robusto circuito di fan, ma nulla di trascendentale. Cerca una svolta, Patti, però nel senso più profondo di una sua crescita artistica. Dei successi fast food non gliene frega niente. Non sa, come potrebbe, che il destino sta per recapitargliela proprio lì la sua grande occasione, nella pancia dei Record Plant Studios di New York, dove sta registrando Easter, il suo nuovo album. Tambureggiano alla porta. Deve togliere le cuffie. Quando apre si trova di fronte un tizio dalla faccia nota e sorridente. Stringe tra le mani il testo di una canzone. “Vorrei parlartene un attimo”, le sussurra Bruce Springsteen.

L’assist del Boss e i tentennamenti di Patti

Il Boss, reduce dall’euforico trionfo di Born to run, è già la risposta giusta alle speranze del rock a stelle e strisce. In quei giorni, i primi dell’anno, si trova lì anche lui perché sta registrando Darkness on the edge of town. Tra i nuovi pezzi composti ce n’è anche uno che potrebbe avere un ottimo potenziale, se solo capisse come sbloccarlo. Springsteen canticchia la melodia, ma pare perplesso. Dapprima pensa che potrebbe arrangiarlo con uno stile latino, poi getta la spugna. Anche il testo non lo convince. Infatti lo sibila appena, accennando qualche frase all’orecchio di Patti. Poi l’epifania: “Senti, l’ho scritta io, ma mi pare molto più adatta a te. Saprai di certo cosa farne”. Ora quella perplessa è Smith. Il motivo fila, anche troppo. Sembra eccessivamente mainstream per i suoi elaborati gusti. Afferra il foglio sgualcito e zeppo di note, dicendo che ci penserà.

L’attesa per quella telefonata nella notte

Si contorce Patti, chiedendosi cosa fare. Da un lato è onorata per il regalo di Bruce. Dall’altro teme di allontanarsi troppo dalla sua orbita interiore maneggiando una creatura non sua, potenzialmente incandescente. Tentenna la Smith, indugiando sulle possibili parole, interrogandosi sull’arrangiamento. La lambisce spesso l’idea di appallottolare quel foglio e non farne di nulla. Poi una sera che aspetta una telefonata da Franky “Sonic” Smith, chitarrista degli MC5 e suo futuro marito, resta impigliata in una rivelazione. Lui non la sta chiamando, né risponde ai suoi squilli. Lei si accascia vicino al telefono in trepidante attesa. Quel sentimento la strazia, ma le fa anche pulsare il cuore in petto. Riesce a sentirsi. Riscopre la forza motrice dell’amore. "Love is a ring, the telephone", mormora. Poi afferra una matita e inizia a scrivere sul testo di Springsteen. Sta per nascere "Because the night". 

La notte appartiene agli amanti: un successo mondiale

Patti procede come un treno. Vira l’arrangiamento del brano in chiave rock. Scrive trasferendo su carta quello che sta provando. Pilota finalmente il destino del brano. "Because the night belongs to lovers": quella strofa incisa nel ritornello è il manifesto di un’anima anticonformista che lei incarna perfettamente. Il pezzo viene diffuso il 2 marzo, esattamente un giorno prima dell’uscita di Easter. Diventa in fretta un successo mondiale e il faro di una generazione ribelle. Lei inizialmente fa spallucce. Anzi pare disgustata, al punto di autodefinirla “una commercialata di basso gusto”. Poi però deve ricredersi. La gente lo ama, ci si identifica. La storia di quella telefonata attesa appartiene a milioni di altre cornette. E non c’è davvero nulla di male se le aiuti a riconoscersi in una canzone. Il successo è deflagrante. Una cantautrice nota diventa star globale. A volte una chiamata senza risposta ti lascia tutte le risposte.

Patti, dalla fabbrica alle classifiche mondiali

Patti Smith nasce a Chicago il 30 dicembre 1946. Mamma Beverly fa la cameriera, anche se in precedenza c'aveva provato come cantante Jazz. Il papà, Grant, è un macchinista. Ha due sorelle, Linda e Kimberly, e un fratello, Todd. La fatica fa parte del suo corredo genetico: dopo il diploma va a lavorare in fabbrica, mentre attende di scoprire cosa le riserva la vita. Nel 1967 darà alla luce la sua prima figlia, ma decide di farla adottare. Le prime contaminazioni artistiche arrivano con il suo trasferimento a New York: qui frequenta Bob Dylan, Harry Belafonte, gruppi musicali, registi, poeti. Inizia a comporre i suoi primi versi e li declama accompagnata da una timida base musicale. L'approdo è nitido. A ventotto anni fonda il The Patti Smith Group e inizia a produrre album che si alimentano di un rock senza fronzoli, venato da una tambureggiante tensione anticonformista. Con la band pubblica Horses, Radio Ethiopia, Easter e il meno impattante Wave. Sale alla ribalta in modo irresistibile, raggiungendo un pubblico globale.

Ma nel '79, dopo una serie di concerti sold out in Italia, annuncia il ritiro a sorpresa. Intende sposarsi e dedicarsi alla famiglia, sostengono i media. Tornerà, sospinta anche dai consigli degli amici Michael Stipe e Allen Ginsberg, che la aiutano ad elaborare il lutto per la scomparsa del primo compagno, il fotografo Robert Mapplethorpe. Patti si prenderà delle pause e rientrerà sulla scena più volte negli anni seguenti. Sempre a sopresa. Sempre con quel rock impegnato e malinconico, che allude ai dolori e alle follie del mondo, ma anche ad una maniglia aperta sulla libertà per chi rifiuta di aderire ai dogmi.

Peppino di Capri. Estratto dell'articolo di Paolo Graldi per “il Messaggero” l'11 maggio 2023. 

Per lei, che ci vive, Napoli che cos'è?

«Napoli è energia pura. I napoletani sono gente che sa mettercela tutta per raggiungere uno scopo. Noi napoletani abbiamo voglia di farcela, a tutti i costi, una voglia infinita. E poi, lo ammetto, abbiamo anche due grandi alleati, il sole e il mare». 

E il Napoli, lo scudetto

«Ha vinto perché ce l'ha messa tutta, ha vinto con merito, con orgoglio, con passione autentica. Questo scudetto torna a Napoli e al Napoli per effetto di una costanza, una determinazione tutta napoletana. Una soddisfazione immensa.

Champagne!» 

Parliamo di lei. Possiede una voce assolutamente particolare. Che parte ha avuto nel suo successo?

«All'inizio, devo confessare, la mia timbrica nasale era particolare, mi prendevano in giro anche gli imitatori. Poi, col tempo, la gente ci ha creduto, è piaciuta.

Ed eccomi qua». 

Si sente un po' un poeta?

«Io mi sento un interprete: questa enorme parola così bella e così dolce. A volte, poi, si sta attraversando un periodo negativo: bene, è il momento più bello per scrivere. Cogliere quel momento, quella tremarella nell'aria, è il segreto. Dopo quel lavoro, diventa un successo, e arriva quando magari non ci speravi più». 

Come nascono le belle canzoni?

«Le canzoni nascono tutte belle e poi è il pubblico a decretarne il successo». 

Il sentimento che utilizza maggiormente nei suoi testi?

«La parola "amore" fa gola, è una poesia, è lo scatto che ti sussurra, ti apre e ti sprona. Poi, come si dice a Roma, se riesci ad "azzeccare" il successo è ancora meglio. A me è successo parecchie volte, non mi posso lamentare».

La canzone napoletana classica. Un lavoro culturale che le ha dato tante soddisfazioni.

Vero?

«Devo peccare di presunzione. Penso di essere stato fra i primi a scoprire la potenza della canzone napoletana. Ho capito che racchiudeva il pregio di essere tramandata ai posteri. Mia mamma Giovanna cantava in casa canzoni stupende, della sua epoca. E un bel giorno, quando ebbi l'occasione di essere un protagonista musicale, me ne uscii con canzoni tipo Voce e notte o I' te vurria vasà e altre di quella fascia generazionale e fu un grande successo. Spesso i ragazzi mi venivano vicino a chiedermi: "Che bella, ma è tua?" "Sì, va beh, magari", rispondevo». 

Le tre canzoni del suo repertorio che le piacciono di più?

«Partirei con Il sognatore, poi Champagne e Roberta.»

Qual è il segreto di una carriera tanto lunga?

«Al primo posto metterei l'umiltà. È il pubblico che decreta il tuo successo nel tempo. Per me sono 64 anni di canzoni, e non mi sono mai stancato di nulla.Ci sarà, spero, ancora un po' di spazio per me». 

(...)

Si capisce subito se una canzone avrà successo o bisogna sempre aspettare il verdetto del pubblico?

«È il verdetto del pubblico a decidere del successo di una canzone. Champagne, al finale di Canzonissima arrivò al 5º posto. Sconsolato pensai: "Allora di musica non capisco più niente". Tanto che mi detti un obiettivo: "Se entro tre mesi non arriva prima in classifica allora non ho capito niente e cambio mestiere"».

"Champagne" è un successo mondiale.

«Quando vado in qualsiasi teatro cominciano a gridare "Champagne, Champagne" e dovrei rispondere: "Non posso cominciare con Champagne perché altrimenti non saprei come finire". Champagne è per il saluto». 

Ha mai pensato "non ne posso più di cantarla"?

«Diciamo che potrebbe anche succedere. Ma non è così. Nel sentirla, nel cantarla, nell'interpretarla tante volte non è mai quella del giorno prima, c'è sempre qualche nota in più che la può abbellire, che la rende speciale». 

(...) 

Capri, la sua isola. Che cosa rappresenta per lei?

«Innanzitutto, chiariamo che non è la mia isola. Capri è il rifugio più dolce». 

Che cos'è che le piace di Capri?

«L'aria, la bellezza, l'atmosfera. L'Italia ha isole una più bella dell'altra. Però, forse, la gente a Capri respira di sicuro un'aria più dolce, più affascinante, più invitante, che ti guida nella via giusta. Ne sono innamorato».

Ultima domanda: in cinque parole, chi è davvero Peppino di Capri?

«Un uomo onesto, che si è dedicato al prossimo cercando di essere sé stesso. Non ho cercato vie di compromesso. Un uomo a cui è capitato molte volte durante la notte, a fine concerto, di non sentire più la stanchezza ed è rimasto ad aspettare il ragazzino che vuole l'autografo prima di andare a dormire».

Non sono solo canzonette. La sconfinata curiosità intellettuale di Peter Gabriel. Christian Rocca su L'Inkiesta l'8 Dicembre 2023

i/o è un disco atteso da ventuno anni che conferma come l’ex leader dei Genesis sia un genio, la cui lungimiranza è paragonabile solo alla common law inglese, perché è un musicista che si evolve nella tradizione e anticipa il progresso di una società che matura

Un disco che ho aspettato ventuno anni, anzi trentuno visto che il precedente, Up, non è paragonabile alla grandezza dei precedenti album del mio cantante preferito, Peter Gabriel, già voce e leader del mio gruppo preferito, i Genesis. Ma finalmente i/o è arrivato, a dicembre 2023 e in tre mixaggi differenti non molto diversi l’uno dall’altro, dopo che il sadico Peter ha centellinato un pezzo nuovo al mese a partire dall’inizio dell’anno, costringendoci ad aspettare il maledetto plenilunio per sentirne un altro e poi ad assistere al concerto dal vivo, a maggio a Milano, avendone già ascoltati soltanto quattro o cinque. 

L’album completo è composto da 12 canzoni, lunghe in media sei minuti, ciascuna delle quali è un’opera a sé stante, tanto ogni singola traccia di i/o si presenta come un mondo complesso raccontato con versi toccanti, denso di suoni, di diavolerie ingegneristiche, ma anche di archi e di cori, di musica contemporanea e di soul, di rock e di world music, di spruzzatine di genio di Brian Eno, e di maestria musicale del fedele terzetto di musicisti e compagni di una vita Tony Levin, David Rhodes, Manu Katchè (c’è anche la tromba di Paolo Fresu nell’ultimo brano Live and let live). Gabriel non si fa mancare niente, a ogni canzone ha abbinato anche un’opera visiva di un artista concettuale contemporaneo. 

In i/o c’è tutta la sconfinata curiosità intellettuale di Peter Gabriel, tutte le preoccupazioni civili, tutte le riflessioni evolute, tutte le speranze e tutti i timori sul progresso, sulla vita, sulla morte.

Gabriel è un artista incapace di fare due volte la stessa canzone o lo stesso disco, è un inguaribile traghettatore della contemporaneità verso nuove frontiere ancora da decifrare, «io sono solo parte di tutto», è un’intelligenza fin troppo cerebrale e per questo difficile da contenere, in particolare in questi tempi impazziti.

Peter Gabriel è semplicemente un genio, un genio musicale vero, uno che costringe ad ascoltare con reverenza le sue canzoni, le sue elaborate costruzioni musicali, la sua produzione rigogliosa e infinita, apparentemente eccessiva e artificiale, ma poi andatela a sentire dal vivo per rendersi conto che in realtà è solo cura meticolosa dei dettagli. 

Peter Gabriel è stato la bandiera del rock progressive e anche il suo straordinario rottamatore, avendogli fatto incontrare, attraverso gli incubi metropolitani dell’enigmatico Rael di The Lamb lies down on Broadway, il punk rock, ma in una versione ripulita dall’analfabetismo musicale dei suoi rivoluzionari alfieri. 

Peter Gabriel ha inventato la world music in tempi in cui non eravamo così stupidi da poterlo accusare di appropriazione culturale, ha inaugurato la stagione  del rock in difesa dei diritti universali, ha reso di nuovo contemporanea, e soprattutto rock and roll, la soul music americana di cui è un estimatore fin da quando, a diciassette anni, andò a un concerto di Otis Redding. Peter Gabriel ha trasformato le canzonette pop in trattati di introspezione personale e di impegno civile. 

i/o è il disco che fotografa lo stato dell’arte di un signore di settantatré anni, senza più il fisico e la presenza scenica della rockstar, ma ancora dotato di una voce commovente e di una testa che non rinuncia a guardare avanti, senza cestinare il passato. Peter Gabriel è come la common law inglese, la sua musica si evolve nella tradizione e anticipa il progresso di una società che matura. 

In i/o ci sono echi dei primi quattro album di Gabriel, e poi anche di So e Us: dal post progressive di Four kinds of horses, Love can heal, Playing for time, So Much, This is home, And still, le canzoni più belle dell’album, ma anche echi del rock di Shock the monkey o Solsbury hill in Panopticom e nella title-track i/o. C’è anche l’impegno sociale di Biko, Games without frontiers e Don’t give up in The court. E, ancora, il soul di Sledgehammer, Digging in the dirt e Big Time in Olive Tree e Road to Joy.

i/o è un disco favoloso, da ascoltare da soli, senza distrazioni, perché siamo solo parte di tutto.

Peter Gabriel: «L'ultimo show dei Genesis? Mi sentivo triste. La Sardegna? È la mia seconda casa». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera lunedì 4 dicembre 2023.

Il cantautore racconta «I/O», il nuovo album uscito a oltre 20 anni dal precedente: «Siamo tutti interconnessi e dovremmo ricordarcelo. Non temo la vecchiaia, credo nella longevità»

«Sono solo una parte del tutto», canta Peter Gabriel con la sua voce di velluto nel ritornello di «I/O», brano che dà il titolo al nuovo album, arrivato a oltre 20 anni dal precedente. L’interconnessione fra gli esseri viventi è uno dei temi centrali di un lavoro in cui il cantautore britannico, 73 anni, riflette sul tempo che passa, sull’amore, sulla tolleranza, sulla vita intera.

Oggi siamo più interconnessi o più concentrati su noi stessi?

«Internet e i social ci permettono di stare connessi, ma chiedono anche la nostra attenzione per guadagnare soldi. Però quella sensazione che alcune persone provano subito prima di morire o quando prendono delle droghe o meditano ci dà l’idea che ci sia qualcosa di molto più grande di quel che vediamo nella vita di tutti i giorni. Siamo piccoli atomi in un sistema unico, dovremmo ricordarlo».

Sarebbe utile tenerlo in mente anche per la crisi climatica. La supereremo?

«Non ha senso essere pessimisti perché allora tanto vale arrendersi. Vedere persone che vogliono cambiare le cose per il meglio ha un’influenza positiva e io voglio circondarmi di questo tipo di persone».

Guardando ai conflitti in corso, vede persone che lottano per un cambiamento?

«Ce ne sono in molti ambiti. Se guardiamo però a Israele e Palestina, si dovrà per forza arrivare a un accordo, altrimenti il massacro continuerà. Sostengo la Palestina da tanto perché ha subito un’oppressione enorme, ma quel che è successo agli israeliani è stato brutale e scioccante. Finirà solo quando le persone si siederanno a un tavolo a parlare».

Il tempo che passa è ben presente nel disco. Cosa ha imparato invecchiando?

«Che corri meno veloce e impari a dire più no alla gente. Forse impari anche a essere di più te stesso. Poi se guardiamo ai progressi della biomedicina, la longevità è una delle aree più interessanti. Forse stiamo entrando in un mondo diverso e se sopravviveremo alla crisi climatica dovremo cercare di costruire una società generosa ed equa per tutti».

Pensa anche all’Intelligenza Artificiale?

«Quando diventerà più intelligente degli uomini ci saranno possibilità straordinarie per cambiare il mondo, spero in meglio, ma starà a noi capire come usarla: può renderci liberi o schiavi».

«And Still» è dedicata a sua madre, morta 6 anni fa. È stata difficile da scrivere?

«Sì, ci ho messo un po’ perche avevo tanti sentimenti mescolati. Mi amava profondamente, così come io amavo lei, quindi mi è servita un po’ di distanza per poter scrivere qualcosa di vero».

Che ricordi ha della sua infanzia?

«Il Natale, la spiaggia, i pomeriggi pigri d’estate, andare sul trattore con mio padre e lavorare nella nostra fattoria... Tanti bei ricordi».

Paolo Fresu ha suonato in uno dei brani. Come l’ha conosciuto?

«Qualcuno mi ha mandato una sua bellissima versione jazz di un mio brano, «What Lies Ahead». Quando l’ho sentita ho pensato che sarebbe stato un gran musicista con cui lavorare. Non sapevo ancora che avessimo il comune legame con la Sardegna».

Continua ad andarci?

«Adoro andarci, è la mia seconda casa e mi rende felice, specie quando non ci sono troppi turisti».

Ricorda quando fu ospite a Sanremo nel 1983?

« Penso di essere famoso per la scena in cui mi sono lanciato sul pubblico con una corda, ma poi ho rischiato di farmi molto male, schiantandomi sul palco: so di aver fatto ridere due terzi dell’Italia».

L’anno scorso è andato, da spettatore, all’ultimo concerto dei Genesis.

«Ci sono andato perché i Genesis sono nati quando eravamo studenti e abbiamo lavorato sodo per far partire le cose, quindi volevo essere lì alla fine, per gli amici di tanti anni fa. È stato un misto di tristezza, calore, amicizia, anche se non era più la mia band, ma una creatura diversa. Abbiamo tanta storia insieme ed è stato bello essere lì».

Com’erano i primi tempi?

«Io ero quello che rompeva le scatole al gruppo: non erano tutti così consapevoli che dovevamo pagare le bollette e trovare date. Ci sono state due o tre occasioni in cui non sembrava che saremmo riusciti ad andare avanti, quindi il primo successo è stato bellissimo. Abbiamo tanti bei ricordi anche dell’Italia: ci andavamo in estate quando in Inghilterra non c’era lavoro. Suonavamo in discoteche, campi da calcio, teatri, ovunque ci pagassero».

Il ritorno di Peter Gabriel: «Sono un vecchio ragazzo alla ricerca di quello che conta davvero». Roberto De Ponti su Il Corriere della Sera il 18 Maggio 2023

Il cantante stasera debutterà alla Tauron Arena di Cracovia, in Polonia, poi subito due date in Italia, sabato 20 maggio all’Arena di Verona e domenica 21 al Mediolanum Forum di Assago. 

L’eterno indeciso si è finalmente deciso. E l’eterno insoddisfatto a quanto pare è finalmente contento del proprio lavoro, tanto da decidere di esibirlo ai suoi fan che da anni lo attendevano (anche un po’ al varco, a dire il vero). Peter Gabriel da Chobam è di nuovo in circolazione, stasera debutterà alla Tauron Arena di Cracovia, in Polonia, poi subito due date in Italia, sabato 20 maggio all’Arena di Verona e domenica 21 al Mediolanum Forum di Assago, eventi praticamente sold out (ma una risicatissima manciata di biglietti è ancora disponibile) che riportano nel nostro Paese l’ex cantante dei Genesis – si dice ancora così, anche se mollò la band ormai nella preistoria, il 16 agosto 1975 – dopo un’assenza di nove anni. «C’è sempre un misto di terrore ed eccitazione quando decidi di rimetterti in viaggio». Nulla di più vero, quando si parla (e a parlare è lui) di Gabriel, l’uomo più lento del mondo nel produrre nuovi album. Lui soppesa, centellina, rifinisce le canzoni, sempre insoddisfatto del prodotto finale. Lo aveva raccontato anni fa, nel 2002, dopo la pubblicazione del suo ultimo album in studio, «Up» (che peraltro seguiva di dieci anni il precedente, «Us»): «Le canzoni non sono come farfalle che appunti al muro con gli spilloni. Le canzoni nascono, crescono, si evolvono, assumono una vita propria e continuano a cambiare. Poi capisco bisogna mettere un punto fermo e dire: ok, è arrivato il momento di fotografarla e di pubblicarla così com’è. Ma anche una volta pubblicate, mi rendo conto che avrei potuto migliorarle ancora».

Un perfezionismo al limite del maniacale, che l’ha portato a far trascorrere altri ventun’anni prima di incidere un nuovo album di inediti. Lo ascolteremo presumibilmente a settembre ma intanto Gabriel, sovvertendo la classica regola disco-promozione-tour, porterà da stasera in concerto alcuni di questi brani prima dell’uscita del disco. Anche se, c’è da scommetterci, non si tratterà ancora delle versioni definitive-definitive. Ma Gabriel è fatto così, prendere o lasciare. E se le nuove canzoni, che hanno sonorità moderne ma ripescate dai tempi passati, dalla ricerca ritmica, da inesorabilità alla «Digging in the Dirt», sono lo specchio del nuovo album, allora vale la pena tutta la vita di prendere. Anche perché la band «storica» si è evoluta in maniera del tutto inaspettata. «Sono ormai un vecchio ragazzo, ma mi fa bene avere molta di questa giovane energia intorno. Penso che le cromie che ora possiamo usare, con i corni e gli archi, abbiano un significato che dal punto sonoro mi rendono davvero felice». Ed è paradossale che l’uomo che ha introdotto la tecnologia nella musica – do you remember Fairlight CMI, il primo campionatore piegato alle esigenze della canzone? – oggi sia tornato a strumenti analogici, anzi ancora di più, all’acustico, a una miniorchestra sul palco: «Abbiamo l’incredibile violoncellista Ayanna Witter-Johnson, che suona anche le tastiere e canta magnificamente, poi Marina Moore al violino e alla viola. E Josh Shpak, che è un brillante trombettista. Me l’ha segnalato Oli Jacobs, un produttore, che l’ha sentito suonare nell’appartamento accanto mentre stava a visitare un amico. Alle tastiere cercavo un musicista funky e Brian Eno mi ha detto: Peter, l’uomo che fa per te si chiama Don E. E ho scoperto che oltre a essere bravissimo sa suonare praticamente tutti gli strumenti».

A questi, si aggiungono i compagni d’avventura di una vita: Tony Levin, naturalmente al basso e agli stick, e David Rhodes alla chitarra, Manu Katché alla batteria e il ripescato Richard Evans, altro polistrumentista che aveva già suonato con Gabriel ai tempi del «Growing Up Tour». Quello che si può definire un mix tra una rimpatriata di vecchi amici e l’innesto di linfa nuova. E l’album? Ah sì, si chiamerà “i/o”, che altro non è che la definizione di un canale componente del sistema di input/output di un dispositivo, così almeno dicono quelli che ne sanno di informatica. Titolo di due lettere, come abitudine di Gabriel, come per gli altri album «So» (1986), «Us» (1992) e appunto «Up» (2002). E tralasciamo i primi quattro, per convenzione chiamati «I», «II», «III» e «IV» ma che in realtà non avevano titolo. E titolo ipertecnologico, perché va bene l’analogico, ma Gabriel guarda sempre avanti, come all’intelligenza artificiale che già aveva cantato nel 2016 con i suoi discepoli OneRepublic. E con molto sospetto. «Penso che siamo al punto di una crisi esistenziale, che riguarda l’AI. Sono un grande fan e sostenitore della tecnologia, ma come per ognuno di questi potenti strumenti di trasformazione devi avere un’idea di che cosa vuoi da loro e soprattutto di dove potrebbero portarti».

L’intelligenza artificiale è uno dei temi delle nuove canzoni, ma non solo: «Ci sono alcune idee che ricorrono in alcune delle canzoni come riconnettersi alla natura. Sento che abbiamo perso il senso da dove veniamo; penso che ci siamo allontanati dal pianeta, dal mondo naturale. Ci piace fingere di vivere in questo ambiente artificiale creato dall’uomo e di essere indipendenti e isolati, ma in realtà dipendiamo molto dal pianeta su cui siamo nati. Inoltre, ora ho 73 anni, sto invecchiando. E questo è un altro tema. Cercare di semplificare le cose che apprezzi, capire chi e che cosa è importante nella tua vita, ora che gli anni passati cominciano a essere tanti. Quindi sì, in qualche modo il disco è più riflessivo di altri. Però non preoccupatevi troppo, penso di essere ancora abbastanza vivo e con la band mi sono davvero divertito». Ed è verosimile che Gabriel si divertirà anche sul palco. Magari non ci si possono aspettare più tuffi sul pubblico, uscite di scena con i musicisti chiusi in una valigia, passaggi sul palco rimbalzando all’interno di una sfera o camminando a testa in giù appeso al soffitto, per non parlare del suo atterraggio (maldestro) da alieno sul palco di Sanremo nel 1983: oggi Peter Gabriel è uno ieratico 73enne dall’aspetto di un vecchio saggio ma la voce, per quanto possa sembrare impossibile, è persino migliorata grazie ai toni rochi che l’hanno resa inimitabile. E lo spettacolo è assicurato.

Intanto, da una colonna sonora ineguagliabile: «Sarà un compromesso: le persone generalmente vogliono sentire le canzoni che conoscono e l’artista generalmente vuole suonare le nuove cose. Quindi è una sorta di baratto in cui lo spettatore deve subire qualche nuovo brano per ascoltare anche quelli vecchi. È sempre stato un po’ così con me, ma penso che questo sia un bel gruppo di canzoni. Non tutte ritmate, ma sicuramente suonate con molto cuore». Quindi prepariamoci ad ascoltare brani nuovi come «The Court», «Panopticon» e «i/o» (a proposito: è la prima volta che Gabriel ha una title track di un album) ma anche evergreen come «Sledgehammer» o «Red Rain». E poi dal ritorno alla collaborazione con Robert Lepage, responsabile visivo e visionario dei tour di «Secret World» e «Growing Up»: «Sì, Robert Lepage è un regista teatrale e cinematografico straordinario e visionario, ma è la sua mente che amo. È anche molto divertente, a volte molto ruvido, quindi è divertente lavorare con lui. La sua forza è saper raccontare storie, collegare le cose insieme in modo da dare un senso compiuto al tutto. Non riesco a pensare a nessuno migliore per aiutare a realizzare le cose in termini di performance dal vivo perché ha questo meraviglioso senso visivo». È proprio vero: l’eterno insoddisfatto questa volta pare davvero soddisfatto. Buon per i suoi fan.

Il nuovo singolo dell’artista. Pico, da Procida il rap per raccontare i giovani al Sud: “I nostri sogni oltre la violenza”. Rossella Grasso su Il Riformista il 23 Dicembre 2022

Vengo dal paese dove i sogni li chiaman ca**ate”. Recita così il primo verso del pezzo che aprirà il suo disco e che è un po’ la cifra del suo lavoro: cantare, rappare e nel farlo raccontare quello che prova una intera generazione di giovani che vivono al Sud. È questo l’obiettivo di Pico, nome d’arte di Ludovico Izzo, 25 anni, nato, cresciuto e ispirato a Procida, piccola isola nel golfo di Napoli che nel 2022 è stata la capitale della cultura. Il 23 dicembre è uscito su tutte le piattaforme digitali il suo ultimo singolo dal titolo “Young Louis”. Una voce controcorrente che grida a tutti: “Il rap al Sud troppo spesso racconta solo di violenza. Ma essere giovani al Sud è molto altro: è cercare di seguire i sogni troppo spesso negati. Il mio primo album è un tributo ai lasciati fuori, a chi aveva un sogno ma non è riuscito a realizzarlo”.

Per Pico, la passione per la musica è iniziata per gioco quando aveva 20 anni. “Ero scritto all’Università, Informatica – racconta al Riformista – Con dei miei amici avevamo un gruppo su Whatsapp su cui per gioco scrivevamo delle rime. Ci accorgemmo che non erano male e così mi consigliarono di farne un mixtape. Le mettemmo su soundcloud, solo per noi. Ma la passione per quella musica e quel tipo di espressione cresceva ogni giorno di più. I ragazzi di Ars Nova poi mi misero in contatto con quelli che sarebbero presto diventati i miei produttori, Simone Capurro, Starchild, e Alex Silvestri”. Tutti 25enne napoletani che guardano lontano e pensano in grande.

Nella sua prima esplorazione Pico si era avvicinato a uno stile più lirico, pieno di parole, con un rap “old school” molto concentrato sulle rime. “Era un misto di rap e soul fatto per sperimentare, ma tutto quello che ho prodotto è rimasto nel cassetto, è per il futuro”, spiega il cantante. E racconta di quella passione che aveva sin da bambino per la scrittura. “Mai avrei pensato che quello che scrivevo potessero diventare canzoni – dice – la musica mi piaceva ma non mi identificavo e non mi rispecchiavo nel rap italiano e così ho deciso di mettermi anche io in gioco: ho iniziato con la sperimentazione alternative Hip Hop italiana sulla scia di Kendrick Lamar. È lui l’artista che ha risvegliato in me qualcosa, come un interruttore”.

E così è nato il primo singolo dal titolo “Democrazia dei singoli”. Pico racconta che dopo averlo pubblicato sulle piattaforme andò malissimo. “Poche visualizzazioni – racconta – ma nel momento in cui è andato male ho capito che non mi dovevo fermare proprio per l’amore che ho per la musica: non potevo tradirla e ho continuato a sperimentare e pubblicare. Ci sono state altre pizze in faccia che però mi sono servite a insistere e andare avanti. Fu allora che ho capito che stavo facendo musica per piacere agli altri e questo era sbagliato. Io sono una persona molto mite caratterialmente. Ho conosciuto una parte di me più aggressiva e competitiva, che non conoscevo. Young Louis, appunto, che ha preso il posto di Pico. E le cose sono andate meglio”. È come se Pico, piccolo e innocente, fosse entrato in un mondo enorme come quello della musica, senza tradire la sua natura “giovane” e “pura”. “Young Louis è l’alterego di Pico – spiega il rapper – è proprio l’ego che come un’armatura protegge l’io”.

I primi successi arrivano con il singolo “Red Light”, uscito con Machete e Sony Columbia dopo aver vinto il contest “Cantera Machete” su Twitch. “Grazie a quella competizione per me si sono aperte le porte dell’ Rca Studio di Milano. Per me è stata un’esperienza indescrivibile: ero già stato lì, ma ero rimasto fuori. Avevo portato una demo come fanno tanti ragazzi che sognano la musica. E invece in quel momento ero lì, dentro, invitato ad esserci e a registrare. Un sogno che era diventato realtà. Quell’esperienza ha rinnovato la mia determinazione: mi sono reso conto che non avevo nulla in meno rispetto agli altri rapper. Anche se faticoso, anzi, proprio perché è faticoso. Era la fatica a indicarmi la giusta direzione. Se fosse stato facile arrivare fin lì forse non sarebbe stato così”.

Quello che Young Louis, da ragazzo nato e cresciuto al Sud, proprio non tollera è la retorica che anche i rapper meridionali spesso appoggiano, che vuole il rap per raccontare solo di rapine, pistole e violenza. “Nel rap non si parla mai dei normali, dei ragazzi lasciati fuori perché non hanno la forza o le possibilità di inseguire i loro sogni – racconta Pico – Eppure i sogni sono fondamentali: senza sogni l’uomo resta uomo ma vale solo la metà, è l’ombra di se stesso. Con le mie canzoni voglio raccontare drammi quotidiani di ragazzi della mia età e il nostro mondo interiore”.

A 25 anni Pico ha già toccato con mano i drammi della sua generazione e quella fatica per provare a realizzarsi comune anche ai suoi coetanei. “Io, per esempio, sono un giovane di Procida, una piccola isola dove non ci sono stimoli. Dopo la scuola ogni ragazzo deve decidere se inseguire i propi sogni lontano oppure restare e fare quello che fanno tutti, anche se non ti piace”. Pico è rimasto a Procida ma ai sogni non rinuncia e ce la sta mettendo tutta per realizzare i suoi inseguendo la musica. “Io devo molto alla mia isola – spiega – ma ammetto che è come una relazione tossica con una donna che c’è ma non ti ama più e non ti dà più niente”.

Pico parla delle difficoltà che riscontra quotidianamente. “Forse fare musica al Sud è ancora più difficile – dice – C’è bisogno di talento, certo, se non ce l’hai non puoi andare avanti. Ma a volte ho l’impressione che al Sud non riesci proprio a far arrivare la tua voce da nessuna parte. Per esempio in Campania non ci sono proprio realtà che promuovono musica. Eppure di artisti bravi ce ne sono e come. Anche il rap napoletano è al top. Penso ad artisti come Geolier ad esempio. È come se fossimo isolati”.

Ma dell’essere meridionale il musicista ha preso anche tutto il meglio. Essendo cresciuto senza il papà, presto ha imparato da quelli che vedeva intorno a lui l’arte di arrangiarsi e a ritrovare in loro tutto quello che gli mancava e di cui aveva bisogno. “Ho imparato dalla gente a prendere le cose con filosofia – dice – e a riuscire ad affrontare ogni situazione. La mia musica non viene solo da me ma da tutti quelli che hanno versato acqua nella mia ‘brocca’. È come scritto in Siddharta. La mia brocca non è ancora piena ma penso che quello che c’è dentro non è da buttare”.

Nonostante le difficoltà Pico, con impegno e perseveranza, continua per la sua strada: “Spero che questa faticata che sto facendo e che non ho voglia di mollare mi porti sui palchi di tutta Italia – continua – voglio stare in contatto con le persone e fare la musica perché amo la musica. Ancora di strada ne ho da fare ma sono certo che troverò il mio posto nel mondo grazie alla musica”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Anticipazione da Oggi il 7 giugno 2023.

Pier Francesco Pingitore, fondatore del Bagaglino, sta preparando per la Rai una riedizione del suo spettacolo televisivo di successo degli anni Ottanta. Mancano data e dettagli ma c’è il nome: Bagaglione. Lo anticipa il settimanale OGGI nel numero in edicola da domani. 

Pingitore, 88 anni, da giovane dirigente del Fuan (il Fronte universitario legato al Movimento Sociale) e poi caporedattore del settimanale di destra Lo Specchio, sentito da OGGI conferma: «La cosa è ancora molto acerba, la proporrò a Viale Mazzini, ma chissà se quagliamo». E aggiunge: ««Ci sarà bisogno di irrobustire il ceppo originario di sangue nuovo, ma torneranno in servizio anche i veterani… Il mio problema è che i ribaltoni e le gaffe sono ormai così frequenti che in Italia gli stessi che fanno politica fanno pure la satira».

E sull’uscita dalla Rai di Fabio Fazio e Lucia Annunziata Pingitore dice: «Non so se ci saranno dei rimpiazzi altrettanto validi… Rilevo, senza acrimonia, che noi del Bagaglino, nel 1994, all’epoca della Rai dei Professori, fummo vittime dell’unica epurazione della tv di Stato, e avevamo da 10 a 12 milioni di spettatori ogni settimana. Quella volta però, caso strano, gli intellettuali non si strapparono le vesti».

Da ilnapolista.it l'11 giugno 2023.

Libero ha conversato con Pierfrancesco Pingitore, giornalista, regista, sceneggiatore e il padre del Bagaglino. Lo spettacolo è andato in scena e in onda per anni al Salone Margherita di Roma, finché, dopo il covid, la Banca D’Italia ha deciso di non riaprire più il teatro. 

Voi siete approdati li perche altri artisti non volevano lavorarci, e vero?

«Guardi, il Bagaglino ha fatto i suoi spettacoli dal 1965 in una cantina di vicolo della Campa- nella. Siamo arrivati al Salone Margherita nel 1972 in cerca di un posto che potesse evitarci i reumatismi. Quando arrivammo li quel teatro era completamente decaduto. 

Noi lo portammo a un fulgore che forse non aveva mai conosciuto prima con spettacoli di cabaret e poi per la televisione che raggiunsero picchi di 14 milioni di ascoltatori quando venne ospite Andreotti. L’ultimo spettacolo e stato La presidente nel quale immaginavamo che Valeria Marini potesse diventare presidente della Repubblica. Una sorta di vaticinio per quello che che e accaduto poco dopo con l’arrivo della Meloni a Palazzo Chigi». 

«Noi siamo stati cacciati dalla Rai dei Professori, ma nessuno si straccio le vesti…» 

Quindi dalla Rai vi mandarono via dopo la fine del mandato di Cossiga.

«Si con la Rai dei Professori. L’unico che ci diede la solidarieta fu Michele Santoro, dalle cui idee eravamo lontanissimi, ci invito in trasmissione. Fu Angelo Guglielmi, anche lui lontanissimo dalle nostre idee, a spiegare ai nuovi dirigenti che avrebbero perso una bella fetta di inserzionisti. Cosi ci richiamarono e facemmo una stagione trionfale con Bucce di banana. Ma poi ci volle Berlusconi e, ammaestrati dall’esperienza, passammo a Mediaset».

E li conobbe anche il Cavaliere…

«Si, lui e un fuoriclasse. Un uomo di una levatura diversa che ha lasciato il segno sulla storia d’Italia. Ma le racconto un aneddoto sul suo sosia…» 

Dica…

«Era un venditore di scarpe che gli somigliava moltissimo. Solo che non potevamo farlo parlare in scena perche aveva un fortissimo accento romano. Cosi gli dicemmo di sorridere soltanto. Gli facemmo rifare anche i denti ma non si trovo bene. Ricordo che si lamentava e mi diceva: “Ah dotto, cosi nun posso piu ne magna ne ride»

Pier Francesco Pingitore: "La Rai ci ha cacciato. Ma tutti zitti...". Daniele Priori su Libero Quotidiano il 06 giugno 2023

«Noi siamo stati cacciati dalla Rai dei Professori (primi anni 90, ndr), ma nessuno si stracciò le vesti...» Pier Francesco Pingitore, giornalista, regista, sceneggiatore è il padre del Bagaglino, compagnia rimasta legata per sempre al Salone Margherita di Roma che dopo la pandemia non ha più riaperto. Ha 88 anni e un piacere nel conversare con un’arguzia che davvero si starebbe ad ascoltarlo per ore senza annoiarsi. Amante della bella parola e del verbo messo al punto giusto, in questo frangente della sua vita ha ritrovato in Pasquino e nelle pasquinate la formula migliore per raccontare l’oggi. Tanto da ricavarci un libro: Le ballate di Pasquino in cui propone al lettore una serie di Cronache satiriche in rima romana, dal fottuto Covid alla fottutissima Guerra.

Pier Francesco Pingitore, una firma famosa. Riconosciuta e riconoscibile in molti ambiti. Ci spieghi anzitutto perché tutti la chiamano Ninni.

«È una storia tenera e banale. Mio fratello più grande di qualche anno, non sapendo dire il mio nome, prese a chiamarmi Ninni. È rimasta così da tempo immemore». 

Ci racconti il rapporto lungo mezzo secolo con il Salone Margherita, adesso chiuso.

«È stato chiuso dalla Banca d’Italia che ne è proprietaria e vani sono stati tutti i nostri tentativi di tornare a fare spettacolo lì. È ulteriormente grave che la Banca d’Italia che è un ente pubblico privi Roma di uno dei suoi più bei teatri. Esemplare unico in stile liberty». 

Voi siete approdati lì perché altri artisti non volevano lavorarci, è vero?

«Guardi, il Bagaglino ha fatto i suoi spettacoli dal 1965 in una cantina di vicolo della Campanella. Siamo arrivati al Salone Margherita nel 1972 in cerca di un posto che potesse evitarci i reumatismi. Quando arrivammo lì quel teatro era completamente decaduto. Noi lo portammo a un fulgore che forse non aveva mai conosciuto prima con spettacoli di cabaret e poi per la televisione che raggiunsero picchi di 14 milioni di ascoltatori quando venne ospite Andreotti.

L’ultimo spettacolo è stato La presidente nel quale immaginavamo che Valeria Marini potesse diventare presidente della Repubblica. Una sorta di vaticinio per quello che che è accaduto poco dopo con l’arrivo della Meloni a Palazzo Chigi». 

Lei è l’autore di un brano che ha fatto epoca: I ragazzi di Buda. Lo sente ancora suo quel pezzo o l’ha lasciato andare?

«Lo sento mio. Scrissi quel pezzo nel 1966, a dieci anni dai fatti di Ungheria, quando la rivolta degli ungheresi contro i sovietici era stata un po’ digerita dall’opinione pubblica italiana. Questa canzone fu cantata nel nostro cabaret in cantina, ma ebbe ripercussioni enormi arrivando nelle università e negli stadi. Fu cantata addirittura a Budapest. Mi mandarono un video in cui gli alunni delle scuole medie la cantavano metà in italiano, metà in ungherese. Ebbi anche un’onorificenza come cavaliere d’Ungheria». 

Tornando al Bagaglino. Le donne voi le avete omaggiate. «Meglio se belle» ha detto lei in una intervista. E le donne brutte?

«Ma scusi chi è che preferisce una donna brutta a una bella? Si può trovare più simpatica, più intelligente, è ovvio. Ma anche la bellezza costituisce valore. Oppure dobbiamo essere ipocriti? C’è questa condanna all’uso di un linguaggio politicamente corretto che è la morte del linguaggio, dello spirito, del divertimento. Il linguaggio è bello proprio perché è vario. Si avvale di espressioni che sono anche dure, pesanti o ideali e super leggiadre. La presunzione attuale di rovesciare tutti i canoni oltre che ipocrita mi pare grottesca». 

Tra tutte le vedette del Bagaglino. Ce n’è stata una alla quale si è sentito più legato?

«Se rispondessi non potrei più uscire di casa. Tengo a tutte le vedette, ma anche alle ballerine e le cantanti che abbiamo avuto. A partire da Gabriella Ferri. L’incontro con lei fu molto importante per me e per il Bagaglino stesso. Da lì partì un filone importante. Le stesse canzoni romane che Gabriella cantava nella nostra cantina, magari divenute desuete all’epoca, grazie alla sua rilettura acquisirono un tono di drammaticità e romanticismo che le fece arrivare a toccare l’anima di tantissima gente». 

Sulla vicenda che negli ultimi anni ha visto protagonista Pamela Prati si è fatto un’idea?

«Io sono convinto che sia stata carpita la sua buona fede. Che lei sia stata “intortata” in una storia difficile da credere, ma che somiglia a tante altre storie. Alcune le ho anche conosciute. Persone indotte a innamorarsi e mandare quattrini a uomini e donne inesistenti.. Non credo che lei fingesse, Anche perché non ne aveva nessuna utilità. Pensi che quando iniziò questa sua disavventura, aveva con me un contratto. Una settimana prima mi disse confidenzialmente che doveva sposarsi. Non credo di sbagliarmi». 

Nel suo libro c’è una satira intitolata Il catalogo dei Dodici Presidenti. Ne ha conosciuto personalmente qualcuno degli inquilini del Quirinale?

«Conobbi Leone. Me lo presentarono degli amici prima che diventasse presidente e poi Cossiga col quale ci fu episodio divertentissimo. Lui ammirava moltissimo Manlio Dovì che lo imitava. Non potendo venire al Salone Margherita invitò Manlio al Quirinale con tanto di truccatore al seguito per farlo esibire di fronte a lui. Si divertì molto e gli regalò delle cravatte».

Quindi dalla Rai vi mandarono via dopo la fine del mandato di Cossiga.

«Sì con la Rai dei Professori. L’unico che ci diede la solidarietà fu Michele Santoro, dalle cui idee eravamo lontanissimi, ci invitò in trasmissione. Fu Angelo Guglielmi, anche lui lontanissimo dalle nostre idee, a spiegare ai nuovi dirigenti che avrebbero perso una bella fetta di inserzionisti. Così ci richiamarono e facemmo una stagione trionfale con Bucce di banana. Ma poi ci volle Berlusconi e, ammaestrati dall’esperienza, passammo a Mediaset».

E lì conobbe anche il Cavaliere...

«Sì, lui è un fuoriclasse. Un uomo di una levatura diversa che ha lasciato il segno sulla storia d’Italia. Ma le racconto un aneddoto sul suo sosia...» Dica... «Era un venditore di scarpe che gli somigliava moltissimo. Solo che non potevamo farlo parlare in scena perché aveva un fortissimo accento romano. Così gli dicemmo di sorridere soltanto. Gli facemmo rifare anche i denti ma non si trovò bene. Ricordo che si lamentava e mi diceva: “Ah dottò, così nun posso più né magnà né ride».

Cosa le manca di più del Bagaglino?

«Il più grosso dispiacere per tutti è stata la morte di Oreste Lionello, un fratello per me. Come diceva Giorgio Albertazzi, Oreste è stato uno dei migliori attori italiani per capacità interpretativa e autoriale, un genio del doppiaggio. Poteva fare ogni personaggio. Lui non somigliava a nessuno, ma era come se somigliasse a tutti. Questo senza nulla togliere al talento e alla grande professionalità di artisti come Leo Gullotta, Pippo Franco e quella maschera latina, tipo maccus della commedia plautina che era Martufello. E poi avemmo anche Bombolo. Quando lo vidi entrare per la prima volta capii che ci trovavamo di fronte alla scoperta di un comico vero. Bastava che si mettesse seduto e già faceva ridere».

Estratto dell'articolo di Paolo Graldi per “il Messaggero” il 23 marzo 2023.

(...)

Nella sua lunga vita di artista ha goduto di più la gioia di vivere o patito la fatica di vivere?

«La gioia di vivere».

 C'è una frase ascoltata nella sua infanzia che l'ha accompagnata per tutta la vita?

«"Scendiamo al rifugio", durante la guerra tornata di terribile attualità»

 Che cosa ama di più vedere o sentire il pubblico?

«Sfottere chi comanda».

 C'è qualcosa che rimpiange del passato?

«Il passato».

Le qualità di un grande attore?

«Non credersi un grande attore».

 Il peggior difetto di un attore?

«Credersi un grande attore».

 Qual è il vizio che detesta di più e perché?

«L'invidia. Perché sono troppo presuntuoso per abbassarmi a invidiare qualcuno».

 Come nasce l'idea di uno show tipo Bagaglino?

«Dalla voglia di ridere, scherzare, sfottere, giocare, rendere omaggio alle donne. Se belle, meglio. Molto meglio».

Il regista ha un segreto, una firma: la sua qual è?

«Mettercela tutta. Sempre. Si tratti di uno sketch o di un film per Hollywood, io ci metto sempre lo stesso impegno. (Almeno credo, non avendo mai girato film per Hollywood. Finora)».

 Le piace la satira di oggi: la differenza con quella del passato qual è?

«Quella del passato era satira».

 Che cosa la fa ridere al di là del palcoscenico, nella vita?

«I discorsi alla tv dei cosiddetti "opinionisti". Che una volta si chiamavano cazzari».

 La politica messa alla berlina perché piace tanto?

«Perché è l'unica vendetta che il popolo si può concedere».

I politici, generalmente, si offendono e protestano o accettano la satira che li colpisce e li rappresenta?

«Purché si parli di loro i politici si farebbero tirare anche le torte in faccia. Lo dico per esperienza».

 Chi si offendeva e chi ne sorrideva?

«Sorridere sempre. Offendersi mai. Crepare di rabbia, qualche volta»

 La satira aiuta a capire le crepe della politica?

«La politica crepa per conto suo, senza bisogno della satira».

Come è cambiata la satira negli anni?

«La satira è sempre quella che Orazio duemila anni fa definiva: "Dire la verità ridendo". Ma trovarne in giro oggi è difficile».

 Le piace la comicità rappresentata oggi in televisione?

«Spiacente, ma non la frequento».

 C'è una battuta nei suoi innumerevoli spettacoli che è diventata virale e che magari si ricorda ancora?

«Avrei tanto voluto essere di sinistra. Ma purtroppo non c'era più posto».

 (...)

 La donna sempre al centro dei talk show, perché? È un mistero che si presta a tante sfumature e allusioni?

«La donna a poco a poco sta diventando il centro di tutto. Meglio così. È tempo che gli uomini si riposino».

 Ci sono nella sua storia di inesauribile autore teatrale e di regista dei miti ispiratori?

«Roma, la libertà, le donne, Dumas, la cioccolata».

 (...)

 Il brano che rappresenta per lei qualcosa di irripetibile?

«Il canto di Paolo e Francesca della Divina Commedia. Per i morti alle Termopili di Simonide tradotto da Quasimodo. Je ne regrette rien, cantata da Edith Piaf».

 A quali valori si ispira?

«Ai valori bollati. Gli unici che non cambino nel giro delle generazioni. E delle degenerazioni».

Pierfrancesco Favino: «Ebbi un’esperienza omosessuale, ma nulla di carnale. Il mio Comandante? Salvava naufraghi perché italiano». Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 27 ottobre 2023.

P «Ognuno è libero di trarre le proprie considerazioni. Il peggior nemico dell’attore è l’aggettivo. Anche il Papa l’ha detto: è una restrizione chiudere un uomo in una definizione. Quando nel film al comandante Todaro danno del fascista, lui risponde: io sono un uomo di mare. Un uomo contraddittorio: molto cattolico, ma attratto dall’esoterismo, dallo spiritismo».

In effetti il comandante Salvatore Todaro rifiuta senza motivo apparente l’imbarco sul suo sommergibile a un marinaio, che pochi giorni dopo si ammala di peritonite: se fosse partito, sarebbe morto. «Todaro previde anche la propria, di morte: colpito dal nemico nel sonno. La sua vita fu segnata dal dolore: ebbe un grave incidente, il suo corpo era ingabbiato nel busto. Quando gli annunciano che la moglie aspetta un altro figlio, dice: “Sarà una femmina, si chiamerà Marina, ma io non la vedrò”».

Di Todaro sappiamo che per tre volte salvò i naufraghi della nave che aveva affondato in guerra. Lei però ha dovuto costruire un personaggio che non aveva mai visto, di cui non aveva mai sentito la voce. «Ma ho potuto leggere le sue lettere. Era un uomo dignitoso e un po’ ritroso. Sua figlia mi ha scritto: “Non ho mai sentito la voce di mio padre; d’ora in poi sarà la tua”. Fosse solo questa l’utilità del nostro lavoro, ne valeva la pena».

Una voce dall’accento veneto. «Todaro era nato a Messina, ma a sei anni aveva seguito a Chioggia il padre, anche lui marinaio. Ho vissuto con i sommergibilisti all’arsenale di Taranto. È una comunità unita dalla fratellanza, al di là delle bandiere».

Lei è stato poliziotto nel film Acab: la scena dello sfogo del celerino in tribunale è di culto. «Sono due cose diverse però. I poliziotti hanno la rabbia di non essere compresi. I sommergibilisti hanno l’orgoglio di non essere compresi. Ed è come se fossi entrato nel loro mondo».

È stato nei sottomarini? «Sì. Sono macchine dalla tecnologia avanzatissima, ma restano quelle pensate da Leonardo: la cosa più difficile è tenerle a galla. Ho provato la camera dei fumi, dove si impara ad affrontare le emergenze, con le maschere anti-gas e le bocchette cui attaccarsi per respirare».

L’accento veneto gliel’avevamo sentito ventun anni fa, in El Alamein, dov’era il sergente Rizzo. La scena di culto è lei che spara con la mitragliatrice contro i carri inglesi gridando disperato. «Avevo ricevuto la notizia della morte di mio padre. Ero andato al suo capezzale per l’operazione di angioplastica, poi ero tornato sul set. Qualcosa non funzionò. Sono i momenti in cui ti senti inutile, in cui ti chiedi: cosa ci faccio qui? Eppure il mio maestro, Mario Ferrero, me l’aveva detto: questo è un mestiere in cui non ci sono feste comandate, e non ci sono lutti. Mi sono imposto di passare sempre il compleanno con le mie figlie, Greta e Lea. Con mia moglie Anna è più facile: compie gli anni il 24 dicembre».

Chi era suo padre? «Aldo Favino era nato a Foggia, rimase orfano a undici anni e andò a studiare in seminario a Torino. Insegnava latino e greco, poi un fratellastro lo inserì nell’azienda di famiglia: legname. Mia mamma Stella ha 93 anni, anche lei pugliese, di Candela. Io però sono nato a Roma, unico maschio, con tre sorelle più grandi».

Qual è il suo primo ricordo pubblico? «Il rapimento di Moro. La strage alla stazione di Bologna. E la morte di Alfredino Rampi. Era un ragazzino poco più piccolo di me. Rimasi tutta la notte davanti al televisore in bianco e nero, ricordo l’arrivo di Pertini».

Lei cosa vota? «L’ultima volta, Emma Bonino. Fatico a riconoscermi in un partito».

Ha interpretato Craxi nel film di Amelio . Stefania e Bobo come l’hanno presa? «Li ho conosciuti, in Tunisia ho girato a casa loro. Sono stati molto corretti, non si sono lamentati di nulla, neppure delle asperità: la scena in cui al congresso del Psi maltratta il compagno idealista, i litigi appunto con la figlia...».

Craxi era un omone che metteva quasi paura, la fisicità era un tratto importante della sua politica. Come è diventato Craxi? «Mi sono fatto crescere le unghie, per pensare di avere mani più grandi. Portavo pantaloni leggeri e larghi, per dare l’idea di avere gambe più grosse, meno tornite. E poi sono ingrassato».

Di quanto? «Tra i 7 e gli 11 chili. A fisarmonica: per le scene di Craxi giovane dovevo essere più magro che per quelle di Craxi in Tunisia. Non è solo questione di aspetto, ma di respiro, di movimenti, di battito cardiaco. Devi calarti nei panni di un altro, gli americani dicono nelle scarpe: una scarpa che non è la tua, ma lo diventa a forza di consumarla, logorarla, sformarla. Ho preso 11 chili anche per diventare Buscetta. Il record però è di 22, per recitare la parte di Mimmo, il malavitoso dal cuore buono di Senza nessuna pietà».

Per Comandante invece è dimagrito. «Ho perso progressivamente nove chili: a bordo del sommergibile, come si vede nel film, non c’era da mangiare, e Todaro sopperisce facendo recitare al cuoco napoletano la lista delle ricette...».

Com’è la dieta Favino? «Non c’è. Per prendere e perdere peso mi faccio seguire da una biologa nutrizionista. Mi sottopongo a una serie di esami, anche ormonali, per capire come reagisce il mio fisico, quali alimenti mangiare e a quale ora del giorno».

Ci saranno regole che vanno bene anche per noi. «Certo, dissociare carboidrati e proteine aiuta a smaltire i chili presi associandoli; sempre meglio cominciare il pasto con verdure crude, insalata, frutta; ma ognuno di noi deve scoprire cosa fa bene al suo organismo».

Lei è stato Gino Bartali, che era piccolo e forte, ma pure Giorgio Ambrosoli, che era lungo e sottile. Come ha fatto? «Ho allungato la falcata e mi sono un po’ ingobbito, per simulare un’altezza che non ho. Ho cercato di riprodurre il gesto di Ambrosoli, grande fumatore, che si chinava in avanti con la sigaretta tra le mani, mentre Bartali si ingobbiva sulla bicicletta, così...» (Favino in pochi secondi diventa Ambrosoli e diventa Bartali).

Senta Favino, lei è un attore di impressionante bravura, come ormai tutti riconoscono. Cosa le è venuto in mente di infilarsi in una polemica con Adam Driver e le produzioni americane che usano attori americani per raccontare storie italiane, come quella di Ferrari? «Si è voluto ridurre a una contesa tra attori un discorso di sistema. Io non ho ovviamente nulla contro Adam Driver, che è molto più bravo di me...».

Questo non è vero. Ma un film con Adam Driver si può vendere pure in Groenlandia e in Antartide, a differenza di un film con qualsiasi attore italiano. «Mi ascolti. In America esiste da anni una cultura che viene chiamata woke. Nasce come forma di rispetto per le minoranze. Ma ora vale anche per il cinema. L’ultimo Oscar l’ha vinto un film asiatico, il penultimo un film con un protagonista sordomuto. Se si racconta una storia tedesca, si fa con attori tedeschi. Prenda “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, prodotto da Netflix: romanzo tedesco, attori tedeschi, girato in tedesco, vince il Bafta, il più importante premio cinematografico inglese. Intanto noi italiani stiamo gettando un’occasione».

Anche Visconti per il scelse Burt Lancaster. «Ma non c’era la cultura woke. Il mio non è un discorso personale — tra l’altro sto girando due film all’estero, uno è “Il conte di Montecristo” —, né sindacale; è un discorso industriale. Lei sa che tra i primi dieci film più visti in Italia quest’anno non c’è un solo film italiano? Perché dobbiamo rinunciare a essere ambiziosi, a raccontare noi le nostre grandi storie? Ho una scuola di recitazione a Firenze, si chiama Oltrarno, come il quartiere dov’è nata. Ho visto molti talenti, ma non vorrei essere al loro posto. Vogliamo dare loro una prospettiva?».

È vero che lei ha avuto un’esperienza omosessuale? «Non fu nulla di carnale. Un uomo più grande di me mi corteggiava, e io ho voluto togliermi un dubbio sulla mia sessualità, per non portarmelo dentro tutta la vita. L’ho sciolto, ho capito che omosessuale non lo ero. Era un tempo in cui se sentivi un’emozione per un uomo ti chiedevi cosa avevi di sbagliato; adesso per le nuove generazioni è tutto più semplice. Nello spettacolo l’omosessualità è sempre stata presente, io stesso ho lavorato con Ronconi e Ferrero, e anche la fluidità è sempre esistita».

Quali sono i suoi rivali e i suoi amici nel cinema? «Sono amico da decenni di Giallini, Mastandrea, Accorsi e tanti altri, e nemico di nessuno».

Perché non fa più fiction tv? «Perché mi sono reso conto che si stava prendendo in giro il pubblico; e il pubblico per noi è sacro. Le cose vanno fatte bene, non tirate via».

Per recitare Pinelli in «Romanzo di una strage» lei incontrò la vedova e le figlie. «Andai a casa loro con Michela Cescon, la bravissima attrice che impersonava Licia Pinelli. Fu molto emozionante. Ora però preferisco non farlo più. Ogni interpretazione è comunque un tradimento. E non voglio entrare in qualcosa di troppo privato».

Chi è il suo modello di attore? «Irraggiungibile: Gian Maria Volontè».

Alla fine del film, al comandante nemico che chiede perché l’ha salvato — aggiungendo che lui non l’avrebbe fatto —, Todaro risponde: «Perché siamo italiani». Cosa vuol dire? «Todaro disse proprio così. Può voler dire molte cose. Io la interpreto nel senso che siamo un popolo aperto e accogliente, che mette la vita umana prima di tutto. Mentre i politici parlavano di blocco navale, i ristoratori di Lampedusa cucinavano per sfamare i profughi. Anche loro sono lo Stato italiano».

Pierfrancesco Favino: «Ho fatto mille mestieri per pagare l’affitto. Non mi realizzo spendendo in ville e lusso». Il successo, il cinema italiano all’estero, il ruolo dell’attore. Dialogo a tutto campo con l’artista che torna in sala con un nuovo film, in cui interpreta un poliziotto nella sua ultima notte di lavoro. Claudia Catalli su La Repubblica/L’Espresso il 23 marzo 2023.

Cinquemila euro per un passaggio in macchina: è la proposta irresistibile che fanno a Franco Amore, assistente capo della polizia per 35 anni, in procinto di andare in pensione. È il nuovo personaggio che interpreta Pierfrancesco Favino nel thriller “L’ultima notte di Amore”, in anteprima al 73mo Festival internazionale del Cinema di Berlino e appena arrivato al cinema. Lavoratore instancabile e poliziotto integerrimo che non ha mai sparato a nessuno, deve decidere se lasciarsi tentare dalla malavita cinese a Milano. Perché basta una serata sbagliata a mettere in discussione una vita intera.

Il film è tutto giocato sul crinale tra legalità e illegalità, su un raggio di luce che può illuminare come bruciare una carriera. Come si è avvicinato al tema?

«A ognuno di noi piace pensarsi onesto, ci raccontiamo come persone che seguono le regole, oppure diciamo quanto siamo fighi se non le seguiamo. Franco è di quelli che fa della sua onestà un vessillo ed è interessante quanto sia labile nella nostra cultura il confine fra essere una persona onesta e essere considerato un fesso. Franco viene trattato da fesso da tanti, prova frustrazione per questo, però poi viene messo in una situazione che può cambiare le cose. Uno come lui, che segue le regole, dovrebbe essere la normalità. Ma noi italiani abbiamo la mentalità del farci togliere la multa dall’amico vigile, il film parla anche di ciò».

E di cosa significhi avere ricchezza e successo in una società sempre più cinica.

«Oggi accendi il cellulare e vedi che stanno tutti benissimo, sono in forma smagliante, hanno successo. Anche quando è evidentemente un insuccesso, te lo fanno passare come successo. Questo percepire che c’è sempre qualcosa di meglio di te ti schiaccia e ti mette in un angolo. Specie se sei uno come Franco, senza uno scatto di carriera in 35 anni, impossibilitato a fare un doppio lavoro. Ci sono tante persone che faticano ad arrivare a fine mese e sono subissate dal paragone di ciò che dovrebbero essere».

Com’è stato rivestire la divisa dopo “Acab”?

«È sempre interessante scoprire la vita di queste persone, da dove vengono, perché hanno fatto questa scelta. Ma si tratta di corpi d’appartenenza diversi, la celere non è la mobile e anche i personaggi sono diversi. Resta uno dei mestieri peggio pagati che esistano, soprattutto rispetto a quello che viene loro chiesto. Le loro condizioni andrebbero migliorate».

Per interpretare una persona che fatica ad arrivare a fine mese, a cosa si rifà?

«Io ho campato con poco per molto tempo. Ho fatto mille mestieri per pagarmi l’affitto, e non parliamo di un’era fa. Faccio questo mestiere dal 1992, fino al 2015 non sono stato pagato grandi cifre. Conosco il valore del denaro, sono uno che va a fare la spesa, alla posta, porta le figlie a scuola. Non disperdo il denaro, non ho bisogno della villa, del cuoco, del lusso sfrenato, non mi realizzo in quella dimensione. Detto questo, alla base del mio mestiere ci sono comprensione ed empatia indispensabili per abbracciare le potenzialità di chi interpreto. Senza giudizi e con tutta l’apertura mentale che posso. Se domani voglio interpretare un elefante e credere di essere un elefante lo divento: mostrare al pubblico ciò che non riesce a vedere, e a volte immaginare, è la funzione di un attore».

È uno dei pochi attori in grado di prendersi molto in giro, penso all’episodio su Che Guevara nella serie Sky “Chiami il mio agente – Italia”: quanto si è divertito?

«Tantissimo, la possibilità di ironizzare su noi stessi è fondamentale, non potevo non cogliere al volo l’occasione di prendermi in giro rispetto ai vizi personali, come l’idea del mio trasformismo per cui sono diventato un meme. Per “Chiami il mio agente” pensavamo a un volto che tutti conoscessero, alla fine ho proposto io Che Guevara. Mentre giravamo non riuscivo a guardare in faccia Anna (Ferzetti, ndr.) e le mie figlie per quanto ridevano».

È mai rimasto intrappolato in un personaggio?

«Non credo, ma non lo misuro. Quando Anna ha interpretato la serie delle “Fate ignoranti” ho notato che il suo modo di camminare era diverso, immagino accada pure a me. Non ho mai avuto la sensazione di farlo per paura di essere meno concentrato, mi immergo in ciò che faccio, non al punto di cancellarmi rispetto alla mia vita».

Però tra tutti quelli che ha interpretato avrà qualcuno che gli è rimasto addosso...

«Buscetta, Di Vittorio e Pinelli ho faticato ad abbandonarli: avrei voluto investigarli di più, perché mi interessano certe vicende della storia d’Italia».

In “Boris 4” Fabrizio Gifuni si spaccia per lei, dicendo di essere Favino dopo 15 ore di trucco. Come l’ha presa?

«Con il sorriso, anche se mi fa un po’ impressione che ogni tanto spunti fuori il mio nome, non faccio caso al fatto che sono una persona conosciuta. Noto, certo, che l’ironia sul “Non ci sono più ruoli, li fa tutti Favino” continua, forse perché se un mio film esce al cinema e dopo va su piattaforma pare che io stia sempre sullo schermo. Ma se pensiamo ai vari Mastroianni e Gassman, loro sì che stavano sempre sul set e sempre al cinema».

A che punto della carriera sente di essere?

«Non so, ragiono sempre rispetto a quello che so fare, non a quello che mi viene riconosciuto: vedo bene il margine di crescita rispetto alla mia idea di questo mestiere».

Non è ancora arrivato dove voleva?

«Non so se ci arriverò mai, ho un’idea molto alta di questo lavoro. Cate Blanchett in “Tàr” è una grande ispirazione, come anche attori meno noti ma ugualmente sbalorditivi, come Jesse Plemons. Poter scegliere le cose che faccio è un lusso che ho da qualche anno, e mi piace interpretare film come “L’ultima notte di Amore” per farmi vedere dal pubblico in modo diverso».

Come si rapporta con i più giovani?

«Mi dedico ai ragazzi con la scuola che dirigo a Firenze (Oltrarno, ndr.): bisogna avere fiducia in chi fa un percorso serio, è scivolosa la tentazione del successo sui social».

Il talento oggi paga ancora?

«Se si lavora seriamente, dove c’è talento quel talento vince. Come attore mi lascio ispirare dai nuovi talenti come i ragazzi con cui ho lavorato nel film Netflix “Il comandante” o quelli visti in “Mare Fuori”».

Siamo appena stati alla Berlinale: all’estero il cinema italiano è molto apprezzato.

«I nostri film piacciono, circolano, siamo noi che frustriamo le ambizioni, pur avendo armi e specificità storica per raccontare come nessuno. Dovremmo smettere di avere sudditanza psicologica per il cinema americano, che peraltro non funziona più come un tempo. Persino maestri come Spielberg raccontato se stessi e vengono sorpassati da cinematografie più stimolanti e originali. Un grande autore? Penso a Thomas Vinterberg, austriaco. A Charlotte Welse, scozzese. O a certi italiani che non hanno da invidiare a nessuno».

Alberto Mattioli per “Il Foglio” - Estratto il 30 giugno 2023.

C’è Valentina Cortese che arriva al funerale di Palma Ojetti direttamente da Salisburgo “senza nemmeno cambiarsi: indossava il tipico completo in lana cotta con i bottoni di corno, la coda di tasso sul feltro verde e il classico grembiule di seta ricamata. Insomma, era in costume tirolese” e “ovviamente non poté rinunciare al suo show” mettendosi a parlare con la defunta.

C’è Montserrat Caballé che arriva alla prima prova della mitica “Semiramide” di Aix non sapendo la parte, e vabbè, quando mai ne ha imparata una, ma soprattutto dopo essersi ingozzata di meloni la sera prima. Risultato: fuga precipitosa in cerca di una toilette, e “in sala fummo investiti dalla colonna sonora di uno spettacolo pirotecnico. Era l’effetto apocalittico dei meloni” (altre fonti degne di fede raccontano però che la descrizione dell’incidente fu questa: “Uno tsunami di m…”). 

C’è Angela Gheorghiu che come al solito pianta grane e viene cacciata da una “Traviata” a Madrid con questa sentenza: “Le note scritte non le fai perché non le sai, quelle non scritte non le fai perché non le hai”. C’è Paola Borboni che risponde così a Renato Rascel che le aveva dato della “brutta vecchia”: “Vecchia sì, ma sono stata giovane; brutta forse, ma sono stata molto bella. Lei, alto mai!”. 

C’è naturalmente, e tanto, la Compagnia dei giovani, Falk-Guarnieri-De Lullo-Valli, tutta genio, bravura, trionfi, grandi tragedie e, talvolta, piccole meschinità. 

C’è Alberto Arbasino giovane che si taglia le vene per un amore infelice ma poi replica “con tagli più superficiali” per un altro lui, e “noi amici cercammo ironicamente di dissuaderlo dal ripetere lo stesso gesto ogni volta, altrimenti tanto valeva farsi installare una cerniera lampo direttamente sui polsi”. 

C’è Teresa Berganza, celebre Carmen che racconta della sua cameriera che ascolta in tivù la Caballé, ancora lei, cantare l’Habanera e strilla indignata: “Señora, la gorda canta lo suyo!”. Ci sono tutti, insomma.

Che delizia, questo Non si può mai stare tranquilli, gli “Incontri di vita e di teatro” di Pier Luigi Pizzi, scritti per la Edt insieme al giovine Mattia Palma, che si avvia a diventare un Pizzi del giornalismo musicale. Pizzi ha 93 anni portati in modo da fare invidia a un sessantenne, ed è in carriera come scenografo, costumista, regista, direttore artistico, da 72: non sono solo le memorie sue, ma quelle del teatro italiano, e tutto, cantato, parlato e danzato. 

Una delizia dall’inizio alla fine, ovvio, un turbine di persone, personalità, vizi, virtù, glorie, miserie raccontato con una grazia talvolta affettuosa e talaltra perfida, da Saint-Simon (ma più ironico) o da cardinale di Retz (ma meno presuntuoso). Tutto Pizzi minuto per minuto e spettacolo per spettacolo, incontri, scontri, passioni intellettuali e amorose (anche etero), viaggi, mostre, mostri. 

Non parla male di tutti, no. Ma di molti, sì. E naturalmente noi malvagi godiamo di più quando il Nostro demolisce qualcuno en passant, con quella nonchalance distratta che distrugge. 

E allora Visconti “si prendeva terribilmente sul serio, con l’aggravante di una totale mancanza di ironia”, Fellini era “cinico e bugiardo”, Zeffirelli aveva il problema “di mettersi in competizione con Visconti” (diagnosi giustissima, alla fine: da qui l’accumulazione seriale), mentre Wanda Osiris, lanciando rose cosparse di Arpège in platea, “cantava (si fa per dire)”. Rossella Falk sposa un ricchissimo industriale, Rino Giori e si trasferisce con lui in Svizzera.

Qui “cominciò a fare le pulci ai conti della servitù, inimicandosi tutti fin dal primo giorno, ma dato che era piuttosto incauta nel ricevere visite in villa in assenza del marito, la vendetta non ci mise molto ad arrivare: fu subito denunciata a Giori che la buttò fuori di casa”. 

Naturalmente non manca la celebre guerra delle pellicce fra lei e la Cortese, alle prove di una “Maria Stuarda” di Zeffirelli, quando le dive arrivarono ogni giorno con dei capi più preziosi e più lunghi, finché “Valentina, con grande senso dell’umorismo, pose fine alla competizione presentandosi con due pellicce una sopra l’altra, con colbacco e manicotto”. E’ una vita raccontata in modo tale da farci invidiare chi l’ha vissuta. Anche perché, in questo cocktail di sentimenti, l’unico che Pizzi non ha shakerato è la nostalgia. [...]

Estratto dell'articolo di Andrea Malaguti per “La Stampa” il 31 maggio 2023.

«Alla mia età mi sento come la Vanoni». Una donna? «No, una persona serena e in pace col mondo, che riesce a guardare le cose con distacco e può dire liberamente quello che gli passa per la testa». 

Anche quando si parla di Rai, Mediaset, pensiero unico e lottizzazione? «Soprattutto». Chissà se Ornella Vanoni è davvero pacificata, ma Piero Chiambretti, il bambino più adulto della tv italiana, sembra a due passi dal Nirvana. Invidiabile. 

«Oggi mi sento proprio a posto. Ho ricevuto un sacco di messaggi pieni di affetto. Vuole dire che ho seminato bene». Ha firmato un nuovo contratto? «No, è il mio compleanno. Sono 67. Il WhatsApp di mia figlia Margherita mi ha spappolato il cuore». 

[…] 

Piero Chiambretti, con una tessera in tasca si lavora meglio in tv?

«Bella domanda. Soprattutto perché ha tante risposte».

La prima che le viene in mente?

«La prima che mi viene in mente sono due. Se ce l'hai fatichi meno a lavorare, direi. Ma direi anche che se non ce l'hai, se sei un cane sciolto, hai il vantaggio che magari lavori anche quando cambiano i governi». 

Diciamo che nella tv pubblica è meglio essere amici degli amici?

«Diciamo che la tv e la politica vanno a braccetto da sempre e che non c'è nulla di nuovo sul fronte occidentale, anche se oggi molti scappano dando l'impressione di farne una questione di principio». 

E invece?

«Non vanno sulle montagne in Sardegna, si spostano più semplicemente dove hanno mercato per continuare a fare il proprio lavoro». 

È un pizzino per Fazio?

«Ma figuriamoci. La tv è da sempre una specie di Grand Hotel pieno di gente che va e gente che viene». 

Salvini ha salutato quelli che sono andati via da Rai3 con un velenoso Belli Ciao.

«Bah, un tempo la televisione spostava i voti. Nel 1994 successe con Berlusconi, che passò rapidamente da imprenditore a primo ministro. Poi questa forza di persuasione si è affievolita. D'altra parte se la tv fosse tutta di sinistra la destra non avrebbe vinto le elezioni».

Vero, ma Salvini e Belli Ciao?

«È di cattivo gusto usare Bella Ciao in questo modo. Rende omaggio a quei partigiani che morivano davvero per la nostra libertà. Mi pare una mancanza di rispetto nei loro confronti usarla così superficialmente».

Lo sente il venticello autoritario di cui tanto si discute?

«No. Io faccio tv da decenni e anche negli anni d'oro di Rai3, di cui sono stato fondatore (e me ne vanto), la lottizzazione era codificata. Rai1 alla Dc, Rai2 ai socialisti, Rai3 alla sinistra. Sono giusto cambiati i colori».

La Rai si sta impoverendo?

«Tutto può essere. Ma, da quello che leggo, chi se n'è andato lo ha fatto per scelta. Non è stato cacciato nessuno. E nessuno è rimasto disoccupato. Mi sembra difficile parlare di censure». 

Di che cosa parlerebbe?

«Vedo che in giro ci sono agenti molto efficienti che riescono a garantire spazi confortevoli ai propri assistiti. Io, quando fui fatto fuori dalla Rai, rimasi fermo due anni. Nessuno si indignò o scese in piazza, ma non è che mi sentissi un martire. Piuttosto noto con dispiacere che in Italia gli ideali sono meno importanti degli interessi». 

Chi fu a cacciare lei?

«Non ricordo l'esecutore». 

Il mandante?

«Si disse Berlusconi. Che poi però mi ha chiamato a Mediaset, dove sono in piena sintonia con Piersilvio. Lavoro lì da dodici anni, dopo averne fatti quindici in Rai». 

Ci resta a Mediaset?

«Spero di sì. Abbiamo dei progetti». 

Ha mai votato per il Cavaliere?

«Mai. E neanche fatto una festa dell'Unità». 

È vero che il suo primo provino in Rai, nel 1982, lo fece in mutande?

«Sì, avevo capito come sarebbe finita». 

Mi pare che sia andata di lusso.

«Oggi sono una persona serena, senza conti in sospeso. A 67 anni sono un uomo libero, un privilegio a cui tanti si sottraggono. Ma la libertà di pensiero esiste. Poi, certo, bisogna trovare il pensiero». 

Bello. Ma tornerei brevemente alle mutande. Che cosa le saltò in testa?

«Volevo rompere gli schemi e suscitare una reazione. Mi trovai in una stanza con sette funzionari di altissimo profilo e dissi: scusate, non ho sentito la sveglia e sono dovuto uscire di casa in fretta, avevo anche il pianoforte ma è rimasto incastrato nell'ascensore». 

Reazione?

«Nessuna. Un silenzio tombale. Ma nella loro testa evidentemente restò qualcosa. Tipo: ma tu guarda questo demente». 

Come andò la storia del bavaglio a Cossiga?

«Era il 1992. Facevo il Portalettere. Era tutto improvvisato. Il Quirinale mi disse: se vuole incontrare il presidente si trovi alla Casina Valadier alle 15. Andai convinto che fosse uno scherzo e mi portai il bavaglio da dargli. Capii che era tutto vero solo quando vidi muoversi i cespugli». 

Scoiattoli di Villa Borghese?

«Agenti dei servizi. Poi arrivarono anche gli elicotteri». 

Oggi lo porterebbe un bavaglio a Mattarella?

«Mattarella è un santo, è l'unto del Signore. Dunque va trattato di conseguenza». 

Ovvero?

«Si è sacrificato per la collettività accettando un altro settennato. Forse meriterebbe in regalo due biglietti per Miami». 

E un bavaglino a Ignazio La Russa?

«Ma no. La Russa fa parte di un mondo nostalgico che ancora accompagna la politica e, nel bene e nel male, accende dibattiti. Per la tv è utilissimo». 

Fuori dalla tv è altrettanto utile?

«Bisognerebbe fare questa domanda a Meloni: La Russa è un uomo di Stato o è meglio sapere in che stato è? Personalmente mi fa molto ridere». 

[…] 

De Filippi o Fiorello?

«Due superprofessionisti che fanno cose molto diverse. Impossibile scegliere». 

Crozza o Frassica?

«Scelgo Frassica, perché con lui ho un rapporto quasi fraterno. Ma anche qui siamo di fronte a due stili molto diversi. Uno politico ed estremo, l'altro più surreale». 

Schlein o Meloni?

«Schlein devo ancora capirla. Ma il suo arrivo a sorpresa non mi pare abbia dato la scossa attesa. Avrebbe dovuto affidarsi al fattore attak». 

Qualunque cosa voglia dire.

«Vuole dire che doveva sì attaccare la destra, ma anche tenere unite le due ali del suo partito. In questo momento mi pare invece che sia la miglior compagna di lotta di Meloni». 

La quale?

«Ha le carte in regola per tenere a bada la sua cordata». 

Occhio, per avere difeso la premier Arisa è stata riempita di contumelie.

«Altro segno della confusione che regna sotto il cielo. Come si fanno ad attaccare i fascisti se poi ci si comporta come loro?». 

A Discovery andrebbe?

«Sono un professionista. Sono stato in tutte le reti. Non vedo perché no». 

In 45 anni di televisione chi è il più bravo che ha visto?

«Risposta difficile. A istinto dico gli artisti ospiti del teatro cabaret di Torino. Da Troisi a Teocoli. Allora non c'erano follower, per avere successo dovevi portare qualcuno in sala. Erano pazzeschi. E sono rimasti inarrivabili». 

La sua battuta più bella?

«Il mio sogno nel cassetto? Stare nel cassetto». 

Chiambretti, le manca la Rai?

«L'ho sempre detto che vorrei finire la mia carriera in Rai. Da bastian contrario, nel momento in cui tutti scappano io potrei tornare». 

Ci sta dando una notizia?

«Era solo una battuta». 

Sa imitare Pino Insegno?

«Perché?». 

Magari aiuta.

«In effetti no».

Estratto dell’articolo di Massimiliano Nerozzi per corriere.it l’8 aprile 2023.

Riformando il decreto del tribunale di Torino, dell’ottobre scorso, la corte d’Appello […] ha dato ragione a Piero Chiambretti, dimezzando il contributo al mantenimento della figlia, da 3 mila a 1.500 euro mensili (lui chiedeva di darne 800). Oltre al pagamento della retta scolastica e del canone dell’appartamento dove la piccola vive con la mamma, Federica Laviosa. Che è rimasta di sasso.

 Come si sente?

«Male, malissimo. E chi ci rimette in questa vicenda è la bambina».

 Più delusa o più arrabbiata?

«Non lo so. Ma so che tutta questa storia nasce dal rancore che lui ha per me: me la vuole fare pagare, si vuole vendicare».

Perché?

«Da quando ci lasciammo, sono stata sette anni single, pensando solo a mia figlia. Qualche anno fa, avevo trovato un fidanzato: e lui ha perso la testa. Una volta, discutemmo al telefono, a me scappò una parola poco carina: mi fece scrivere dagli avvocati».

 Chiambretti, nel reclamo, sostiene che lei spendeva i soldi del mantenimento per sé stessa: cosa risponde?

«Che non è assolutamente vero. Secondo lei mi potrei intascare i soldi destinati a mia figlia? Abbiamo anche prodotto i documenti. Ho sempre fatto tutto per lei, tutto il possibile per farla stare bene. La priorità è mia figlia».

È anche la priorità del suo ex, ha ribadito lui.

«Ah sì? E mi ha portato due volte in tribunale. Vede la bambina due volte al mese, quando non annulla l’impegno per problemi di lavoro. E quando io e mia figlia stavamo ancora a La Spezia, mandava a prenderla l’autista con la baby sitter. Non mi faccia parlare».

 I giudici scrivono che l’assegno va «rideterminato in considerazione delle attuali esigenze della minore»: che ne pensa?

«Strano. Perché è lo stesso assegno su cui ci fu l’accordo al tribunale di La Spezia, nel 2016, quando la bambina aveva 5 anni».

 I legali di Chiambretti scrivono che 3 mila non sono giustificati per una bambina di 11 anni e che il suo reddito è ora di 2.900 euro al mese.

 «Ma per favore, parliamo di una persona con un patrimonio sui 15 milioni di euro. E parliamo di sua figlia. A meno che non ci debba essere differenza tra come sta con un genitore e con l’altro».

La Corte, e i legali del suo ex, sostengono pure che anche lei dovrebbe contribuire al mantenimento.

«Lavoro, in un centro di yoga e pilates, faccio tutto il possibile. E mi dedico a mia figlia, per tutto il tempo possibile. Sennò, chi sta con lei?».

[…]

Estratto dell'articolo di Maurizio Caverzan per La Verità il 2 aprile 2023.

Piero Chiambretti, siamo sulla Verità quindi giuri di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Dica: lo giuro.

«Lo giuro, sulla testa di Pier Silvio...Fatico a vedere Pier Silvio come un editore, lo vedo più come figlio, anche perché è più giovane di me. Ci siamo conosciuti molti anni fa al Vecchio porco, un ristorante vicino a Corso Sempione dove ci si incontrava per caso la sera tardi. Scattò una simpatia che poi si è trasformata in lavoro».

 È il suo sponsor in Mediaset?

«Si dice che io sia il suo cocco e per questo lavori, ma mi sembrerebbe limitativo per lui. Credo non abbia interesse ad assoldare chi non lo merita. Io mi sforzo di dare il meglio e penso che lui sia sempre rimasto soddisfatto. Più semplicemente mi pare che stimi il mio lavoro e in questi 12 anni me l’ha dimostrato».

 È soddisfatto di com’è andata La tv dei 100 e uno? Si ricordi che ha giurato…

«Molto soddisfatto, ho raggiunto i tre obiettivi che mi ero prefissato. Il primo, divertire; il secondo, emozionare; il terzo, sorprendere».

 (...)

 In questi casi il rischio del paternalismo, della scarsa spontaneità o della vocina infantile è sempre in agguato?

«Anche la retorica e il trombonismo lo sono. A me piace dividere, infatti hanno detto che sono un vecchio rincoglionito e un genio, uno sfruttatore di bambini e un visionario che sfida la tv. Mi vanno bene tutte le etichette: a un’azione corrispondono delle reazioni. Io sono sereno come una Pasqua, che per altro è vicina».

 Come li avete trovati così talentosi?

«Con diversi mezzi, dalla chiamata alle armi dei serpentoni tv alla società di scouting di Sonia Bruganelli, fino al passaparola di amici e parenti. Sono stato fortunato perché, insieme ai talenti che cantavano, ballavano e parlavano con proprietà di linguaggio superiore alla loro età, molti dei 100 che non hanno mai aperto bocca hanno fatto gruppo con quelli che scendevano in campo. Li voglio ringraziare perché sono stati importanti come i talenti. Al termine della terza puntata ho visto scene di dispiacere come da fine delle vacanze».

(...)

Le hanno rimproverato di averli fatti parlare di Putin e Zelensky?

«E cosa c’è di male? Non vivono in una campana di vetro, sono bombardati dai tg, vedono i giornali e le foto che parlano solo di quello».

 Soddisfatto dell’accoglienza della critica? Ricordi che deve dire la verità…

«La critica dev’essere critica, se fa i complimenti non serve. Il critico è un generale che spara sui suoi soldati. Leggendo più i titoli degli articoli ho visto che molti erano distruttivi, mancava solo il bazooka. Mi è venuta nostalgia della critica del passato, quella di autori come Ugo Buzzolan, Oreste Del Buono e Beniamino Placido».

 Perché?

«Perché, sebbene attaccassero anche me, usavano la penna e l’ironia dando consigli per migliorare prodotti a volte balbettanti. I critici di oggi, anche i più rinomati, invece usano la roncola e il livore».

 A proposito di verità, le sottopongo una frase di Alexis Carrel, premio Nobel della medicina: «Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore; molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità». Vale anche per la critica televisiva?

«Le verità sono difficili da trovare. Un critico è un essere umano che scrive e pensa secondo le proprie simpatie e perciò rappresenta solo sé stesso. La critica tv italiana non sposta un telespettatore, quella americana ti fa chiudere un cinema».

 Quella che l’ha più irritata è che lei è sempre uguale e non cresce?

«Sulla crescita lo sapevo, me l’aveva già detto il mio endocrinologo. Più che una critica è un’inesattezza. Io sono sempre diverso in uno stile che rimane invariato. Armani è sempre Armani pur facendo vestiti sempre diversi, Valentino lo riconosci dal colore rosso e l’amatriciana in tutta Italia è sempre la stessa pur cambiando regioni e ingredienti».

Adesso che cosa farà?

«Mi metto sulla riva del fiume e aspetto».

 Chi o che cosa?

«Di capire cosa fare con Mediaset. Il contratto è scaduto, sono in stand by, ma capirò presto cosa fare perché abbiamo già deciso di incontrarci. Nel frattempo guarderò la tv degli altri, quella che piace alla critica e che io non so fare, come i talent e i reality show. Sono propenso a tornare con La tv dei 100 e uno. Se non arriverà l’idea del secolo che mi farà cambiare programma, lavorerò alla vendita all’estero di questo format. Sarebbe una gratificazione d’autore, prima ancora che economica».

(…)

Estratto dell'articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” il 21 marzo 2023.

Con La Tv dei 100 e uno Piero Chiambretti ha deciso di puntare sui più piccoli e sul futuro. Un mondo completamente cambiato in cui neppure la satira ha più il potere di prima ma nel quale il Pierino della tv ripone le proprie speranze proprio sui bambini, tanto da averli resi protagonisti del suo nuovo show su Canale 5. Un esperimento in tre prime serate di mercoledì. La prima, andata in onda la scorsa settimana, ha vinto alla grande la battaglia dell’audience. «È un progetto articolato che credo possa avere anche possibilità di essere venduto all’estero».

 Domani lo show tornerà in scena con ospiti speciali come Ezio Greggio, Enzo Iacchetti, Belen Rodriguez e Vittorio Sgarbi, chiamati a rispondere alle domande senza filtri dei bimbi.

 (...)

Il critico Aldo Grasso ha definito il suo show «un brutto programma per bambini per un conduttore che non è mai cresciuto». Vuole rispondere?

«Il critico si autodetermina proprio diventando critico. Più è feroce meglio è. Cosa c’è di meglio che attaccare un programma, un personaggio, la sua onorabile professione trentennale ricca di soddisfazioni? È giusto che faccia così, quindi, visto che lo ha fatto anche in passato, lo invito a insistere anche sulla seconda e sulla terza puntata».

 (...)

 L’innocenza dei suoi 100 bambini può essere considerata una risposta all’eccesso di volgarità dei reality di cui anche Piersilvio Berlusconi si è lagnato?

«Io ho tentato di fare un programma nelle mie corde. Non sono mai stato volgare né trash.

Anche quando mi hanno definito trash era solo lo sdoganamento di alcuni luoghi comuni che diventavano spettacolo. Del resto la tv non può essere troppo diversa dalla realtà. La mia non era una risposta ma forse una domanda alla quale ho avuto anche la risposta. Si può fare una tv appena diversa con risultati piacevoli da ogni punto di vista. Posso dire certamente che l’editore si è complimentato per il prodotto».

Da angelo custode e malandrino di Sanremo. Come le sono sembrati Chiara Ferragni e Fedez al Festival?

«Hanno fatto quello che dovevano fare. Creare rumore, scompiglio, fiumi di parole come quella canzone che vinse al Festival del 1997 che feci con Mike e la Marini. È stata un’ operazione intelligente di marketing televisivo fatta dal gruppo di Amadeus che nei suoi festival ha parlato a tutti i generi di pubblico.

 La cosa strana, semmai, è che il pubblico televisivo chiede a gran voce delle novità ma quando le novità arrivano si spaventano perché non le riconoscono. Vogliono essere rassicurati da novità che non sono novità».

Lei dai tempi di Markette ormai 15 anni fa sdoganò la fluidità sessuale in tv con Maga Maghella e altri personaggi. Oggi come la spiegherebbe ai suoi 100 bambini in prima serata?

«C’è poco da spiegare. Loro già parlano tra di loro di fluidità, li sentivo. I bambini, bombardati da informazioni sui loro telefonini e computer, sono informati in modo parziale ma di tutto. Qualsiasi cosa crediamo loro non sappiano, in realtà la sanno già a modo loro. Non c’è tanto da spiegare, semmai aspettare la domanda che va puntualizzata con una risposta. La spiegazione è superflua perché sono arrivati loro prima di noi a capire i cambiamenti di tendenze, di costume e anche l’ossessione esagerata del politicamente corretto».

Da grande innovatore quale lei è stato, quale sarà il futuro della tv?

«Guardando i bambini vedo il loro e anche il nostro futuro. Da anziani saremo gestiti da questi bambini che hanno fortissime sensibilità su ambiente, solidarietà. Sono rimasto stupito dall’accoglienza che hanno riservato a Peter Ace, una delle star del programma, un ragazzo che ha 2 milioni e mezzo di follower. Lui fa del bene attraverso il web. Frequenta i barboni, porta del cibo, abbraccia i barboni. Amano anche i calciatori, ma il benvenuto che hanno dato a questo ragazzo è stato superiore. Ciò vuol dire che c’è un’educazione civile che non immaginiamo. Mi ha emozionato quel ragazzo e ancora di più la reazione degli altri bambini. Questo vuole dire che esiste una generazione non così degenerata come qualcuno ci vuole mostrare».

Estratto dell'articolo di Aldo Grasso per corriere.it il 16 marzo 2023.

Il bambinismo di Piero Chiambretti. Era inevitabile che finisse così, impegnato nella lallazione televisiva, ossessionato dal “baby talk”, quella vocina che l’adulto usa per rivolgersi ai bambini.

 Da quando Chiambretti non ha più alle spalle gente come Bruno Voglino o Romano Frassa o Gianni Boncompagni è tornato bambino (sto parlando di televisione, non della persona): ha cominciato a perdere la sua identità, a credere di essere altro da sé, a occuparsi di cose a lui estranee, a sbagliare programmi.

 Ultima tappa: “La tv dei 100 e uno”, un piccolo kolossal di “piccoli fans” che scavalca la mezzanotte (Canale 5). È uno show troppo costruito in cui i bambini recitano a fare i bambini (lo stereotipo del bambino in tv), in una spirale di ricatti affettivi.

[…] Spiace per Chiambretti. Quanto sono lontani i tempi di “Complimenti per la trasmissione” o “Il portalettere”! A un certo punto ha smesso di “crescere” professionalmente, ha cominciato a fare sempre lo stesso programma: costruire una cornice sontuosa per un baraccone da fiera. Adesso, alle “mirabili difformità” ha sostituto i bambini, ricavandosi il ruolo di novello Mago Zurlì.

Estratto dell’articolo di Andrea Scarpa per “il Messaggero” il 13 febbraio 2023.

(…)

A Sanremo nel 1997 per condurre il Festival si vestì da angelo: quando sarà, cosa pensa di meritare?

«Non lo so. Spero solo che nell'Aldilà non ci siano i virus e non ci sia bisogno del green pass».

 Che ne pensa del Festival di Amadeus?

«Ho visto poco, ma ho letto le cronache. E il Festival dice che la tv generalista è viva e lotta assieme a noi. Sanremo è lo stato pontificio della tv ed è ecumenico, democratico e politicamente corretto. E poi Amadeus con Mattarella ha chiuso il cerchio magico, cosa che gli farà guadagnare il paradiso qualora un giorno dovesse lasciare l'Ariston».

 Lo lascerà mai?

«Non credo che mollerà presto».

Per lei è una storia chiusa?

«L'ho fatto in tutte le salse: con Mike Bongiorno, con Pippo Baudo e con Raffaella Carrà. Non credo ci sia più bisogno di me».

 Il suo errore più grande?

«Non fare il bis del Festival del 1997, quello con Mike e Valeria Marini. Quando la Rai me lo offrì dissi che Sanremo è come il militare: si fa una volta sola».

 Quell'anno si fidanzò con la violinista dell'orchestra del Festival, Elena Majoni, che due anni dopo la lasciò ispirando il suo primo e unico film da regista e attore, "Ogni lasciato è perso", un flop clamoroso. Rita Rusic, che glielo produsse nel 2000, oggi dice che lei doveva continuare a fare cinema: perché ha mollato?

«Perché ho capito che non fa per me, anche se mi ha insegnato come fare meglio la tv e curare ogni dettaglio».

È vero che dopo quell'insuccesso si rifugiò in Messico?

«Sì. Dopo essere andato al cinema la tv non mi voleva più, così andai da alcuni amici che avevano un resort in Messico. Volevo starci un anno ma dopo qualche mese mi chiamò Raffaella Carrà per arruolarmi nella giuria di qualità di Sanremo».

 In passato le hanno chiesto di impegnarsi in politica più di una volta: è mai stato sul punto di accettare?

«Quelle offerte mi arrivavano dalla sinistra italiana durante gli anni di Rai3, la cosiddetta Telekabul di Sandro Curzi, ma non ho mai creduto ai politici. E siccome da tempo ormai si vota come se si partecipasse al Grande Fratello, non voto proprio più».

 Nel 2002 fece un'intervista in cui diceva di aver avuto tantissime donne: vent'anni dopo come sta messo?

«Oggi sono pochissime, quasi nessuna. Sono in aspettativa. Mi fido di quello che dice Vittorio Sgarbi: la donna ideale esiste, l'importante è non incontrarla».

Con la madre di sua figlia ha un contenzioso legato agli alimenti da versare: a che punto siete?

«È una questione molto complicata, c'è un minore di mezzo e non ne posso parlare, ma se esiste una giustizia quella soddisferà tutti».

 (...)

Estratto da tgcom24.mediaset.it l'1 luglio 2023.

Brutte notizie per i fan di Piero Pelù, che aspettavano di vederlo durante il tour estivo "Estremo live". Via social il cantante ha infatti annunciato di doversi fermare per qualche mese per problemi di salute: "Ho subìto uno shock acustico forte dalle cuffie. Questo ha acutizzato gli acufeni, rendendoli molto aggressivi. Avrò bisogno di un riposo forzato per le mie orecchie di rocker".

[…] "Ragazzaccc miei, non avrei mai voluto farvi questa comunicazione ma a questo punto è inevitabile", ha scritto ai suoi follower. "Ho ricevuto l'unanime comunicazione che avrò bisogno di un riposo, dunque il tour 'Estremo' di quest’estate 2023 dovrà essere rimandato di alcuni mesi". 

"Nessun addio, è un arrivederci" […]"Sono giorni molto delicati per me che non ho mai rinunciato a nessun live, anche con le costole rotte dopo i miei stage diving, ma devo affrontare questa nuova realtà con lucidità". […] "Attenzione, questo NON è a un addio alle scene ma solo un arrivederci al prima possibile".

Estratto dell’articolo di Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” l'1 luglio 2023. 

[…]

Che viaggio fu?

«Un flash. Ero direttore dell’Estate fiorentina, dovevo rientrare per la presentazione del programma a Palazzo Vecchio. […] nel settembre 2007 mi dimisi. […]». 

[…] Con chi viaggiava?

«La band si chiamava P-Trio, dove P stava per Power ma pure per Piero. Paul Baglioni (non parente) alla batteria, Fefo Forconi tatuato dalla testa ai piedi alla chitarra, Barny Bagni al basso. E sosia».

[…]Eravamo invitati da un ambasciatore molto simpatico, Alfredo Matacotta, che aveva avuto l’idea di un festival della cultura contemporanea italiana. Il Mart di Rovereto aveva mandato capolavori del Novecento: Schifano, Guttuso, Burri. Poi c’eravamo indegnamente noi». 

Come fu l’arrivo?

«Ci portarono subito alla conferenza stampa […]E lì si appalesò subito Svetlana». 

Svetlana?

«La chiamo così perché non ne ricordo il nome. Svetlana era l’interprete che ci avevano assegnato nella Mosca della perestrojka, quando ero andato per suonare, con i miei amici dei CCCP-Fedeli alla linea. Svetlana era chiaramente una spia, incaricata di sorvegliarci. E purtroppo lo era anche la nostra interprete vietnamita. Molto bella e graziosa. Ma non ci mollava mai. Cominciò un duello». 

Perché?

«Perché io la seminavo per andare a vedere la Hanoi vera. […]».

E i mercati?

«Ho visto scene meravigliose. Nugoli di moto come se fossimo al Mugello. Motorini con a bordo padre, madre e quattro figli: da surclassare i napoletani. Ho visto con questi occhi un motorino con un maiale vivo da 250 chili davanti e un altro dietro, sul portapacchi. Un altro motociclista sul portapacchi portava una torre alta tre metri di gabbiette piene di anatre vive, cui era meglio non affezionarsi».

Oltre che viaggiatore lei è notoriamente animalista.

«Mi indigno quando vedo maltrattare gli animali. Ma mi indignai ancora di più nel vedere come i poliziotti vietnamiti maltrattavano i loro compatrioti. La più banale delle violazioni, anche solo il non camminare dritti sul marciapiede, era punita con il manganello elettrico, il taser. C’era gente che era in galera da vent’anni. Ma erano punite con durezza anche le forme più banali di dissenso. Tra l’altro non potevo avere accesso a Internet e ai miei social, anzi l’unico, che all’epoca era MySpace: ero segnalato in quanto sostenitore di Amnesty International». 

Un regime.

«Un regime comunista. Su cui si era innescato il capitalismo selvaggio. In Vietnam producevano già beni americani, compresi gli strumenti musicali. Ma la libertà era bandita. A cominciare dal rock. Il nostro sarebbe stato di fatto il primo concerto rock nella storia del Paese». 

[…] Torniamo ad Hanoi 2007.

«In camerino cominciamo a preoccuparci, quando sentiamo un grido che cresce: “Elo, Elo”, poi “Ielo, Ielo”, infine: “Pielo, Pielo”... Stavano gridando il mio nome». 

Ottimo inizio. 

«Il bello doveva ancora venire. Ma non ero io. Era il sosia». 

 […]

 E cosa accadde? 

«Anche i poliziotti diedero la schiena al pubblico e si girarono verso il palco. Noi ovviamente non ci risparmiammo e ci demmo dentro: Tribù, El Diablo, le canzoni più rock e anche le più ballabili. La carica partì dal fondo. Il terzo settore travolse il cordone e invase il secondo. Poi tutti insieme sfondarono l’altro cordone, e si ritrovarono con i Vip a pogare sotto il palco. La piramide sociale si era capovolta. Suonammo per due ore, sotto la pioggia monsonica, in un’atmosfera insieme folle e mistica». 

E l’ambasciatore? 

«Lo vidi pogare in mezzo ai vietnamiti, con il pollice alzato: missione compiuta».  

E i poliziotti ferocissimi? 

«Non pervenuti. A fine concerto cominciammo tutti insieme a gridare: “Hanoi rocks!”. Che è il nome di un gruppo finlandese; ma era anche un grido di rivolta. Tornammo felici nei camerini; li trovammo svuotati. Non ci era rimasto più nulla: soldi, cellulari, carte di credito. Recuperammo solo i passaporti, gettati in un angolo». 

E poi? 

«Capimmo che era il momento di tornare a casa. Era stata la piccola vendetta di un regime che per una notte, e una soltanto, era stato sconfitto da un pezzo piccolo ma prezioso del suo popolo. Lasciai una dedica “all’ambasciata più ganza del mondo”. Per fortuna il volo di ritorno non era in overbooking. Alfredo Matacotta ci ha lasciati due anni fa. Ma quella dedica ora è scolpita su una lastra di marmo all’ambasciata italiana di Hanoi».

Pelù: «Mai più Litfiba, torno da solo». Storia di Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 23 aprile 2023.

Piero Pelù ha messo definitivamente in archivio i Litfiba, band che negli anni 80 fu pioniera nel dimostrare che il rock si poteva fare anche in italiano. Dopo il tour d’addio con Ghigo Renzulli, ha ripreso in mano la carriera solista e venerdì ha pubblicato «Musica libera» con Alborosie, star mondiale del reggae.

Il reggae non è il suo pane...

«Una ripartenza fuori dagli schemi: non è rock, non è pop, non è una ballad. Il reggae è un genere che amo, nell’89 andai in Giamaica per scoprire un nascente raggamuffin, ma che in carriera ho solo sfiorato. Albo è un cervello musicale in fuga. È dovuto emigrare perché l’Italia non gli attribuiva ciò che meritava ed ora è una star mondiale del reggae. L’Italia è un paese duro con i suoi figli migliori».

I Litfiba degli esordi ebbero successo in Francia. Il motivo era lo stesso?

«La Trilogia del potere ebbe più successo lì che da noi. Stavo più a Parigi che a Firenze perché non mi sono mai piaciuti gli ambienti provinciali in cui si vive di invidie... Per noi fu salvifico, ci fece mettere il turbo».

Con la reunion per i 40 anni il motore Litfiba si è inceppato. Occasione persa?

«Ci si può provare in tutti i modi ma quando le teste sono troppo lontane è inutile l’accanimento terapeutico. Sono per la dolce fine e questo è stato: non come nel ‘99 che fu terribile e triste. È la fine della storia più importante della mia vita, e mi sono tatuato Litfiba dal fegato alla milza».

Divergenze artistiche o personali con Ghigo?

«Nonostante abbia superato i 60 anni rimango uno spirito rivoluzionario e non mi voglio fermare nello sperimentare. Negli anni 80-90 eravamo sintonizzati su questo, poi non più... Con la reunion ho provato a riportare quello spirito, ma ho trovato in lui un conservatore di ciò che è stato e non può più tornare...».

Oltre il rivoluzionario, il 7 luglio parte un tour che ha chiamato «Estremo».

«Si capirà come intendo oggi la musica che ho fatto in questi 43 anni. Riarrangiamenti estremi con i Bandidos e l’aggiunta di elettronica grazie ai synth di Voodoo. Preferisco sbagliare da solo».

Sarà al Primo Maggio: nel 1993 srotolò un preservativo sul microfono...

«All’epoca nei club europei vedevo distribuire preservativi gratis per prevenire l’Aids. In Italia era tabù parlarne, Wojtyla aveva fatto discorsi arretrati: ero indignato. Vincenzone (Mollica che lo intervistava ndr) si trovò in un momento particolare...».

Fedez ha parlato di censura preventiva nel 2021, che farà se le chiederanno prima i testi di quello che dirà?

«Hanno già chiesto “cosa dirà Pelù?”. “Musica libera” parla di fratellanza, per il resto non so. Tutto si evolve, ogni giorno vedo cose pazzesche e mi immagino già cosa sentiremo il 25 aprile. Potrei salire sul palco con la foto di Mattarella, di cui ho grande rispetto, sulla tshirt, magari con la spilla punk come fecero i Sex Pistols con la regina».

Il Concertone dei sindacati ha perso valore sociale dice Capossela. Nel 2018 ci fu polemica per Sfera Ebbasta che sfoggiò 2 Rolex...

«Erano cinesi (ride ndr). È giusto che il Concertone si apra ai nuovi linguaggi della musica, ma sarebbe bello che chi partecipa si ricordasse di cosa parla il Primo Maggio. Altrimenti diventa una festa come Capodanno o Ferragosto. Il tema dei diritti del lavoro è centrale: non si può dimenticare chi muore sul lavoro o chi fa lo schiavo per la raccolta dei pomodori».

Estratto dell'articolo di Alessandro Ferrucci per “il Fatto quotidiano” il 16 maggio 2023.

Lo abbiamo cantato, intonato, fischiettato o accennato tutti e (quasi) senza saperlo. Se Il carrozzone “va”, La lontananza “è come il vento”, o Tutt’al più “mi accoglierai” hanno accompagnato per anni e decenni la nostra vita, un bel po’ di merito va al maestro Piero Pintucci. 

(...) 

A 80 - splendidi - anni Piero Pintucci è sempre seduto all’interno del suo studio di registrazione, tra mixer, batteria, schermi, ricordi, chitarre, pentagrammi e magie musicali ancora nel cassetto.

Alla RCA è arrivato nell’anno...

1966 e trovai Gino Paoli e Gianni Morandi, poco dopo The Rokes; (sorride) allora avevo un gruppo e insieme ai Rokes ho condiviso il palco di un locale pochi giorni prima di entrare in RCA. 

(...)

Con Modugno ha realizzato La lontananza.

In RCA quasi nessuno credeva in quel pezzo, mentre Mimmo ne era innamorato e io con lui; (pausa) Modugno era l’idolo di mio padre, anche lui musicista, e quando da ragazzo uscivo di casa, spesso cercavo i suoi brani sul juke box; quando ho iniziato a lavorarci ho raggiunti un sogno. Non ci credevo. 

L’intro del brano è suo ed è fondamentale...

(Sorride lievemente) Sì, abbastanza azzeccato, però solo negli ultimi anni si è iniziato a dare la giusta importanza alla melodia, a riconoscerle la forza di persuasione; eppure la melodia può essere realizzata anche solo con una nota. Vuole ascoltare? (Si alza, si siede davanti al pianoforte, toglie il runner dalla tastiera e con il “fa” crea una magia) 

Quante ne ha incise?

Non ne ho idea, un numero spropositato: solo per Renato Zero sono una cinquantina tra canzoni e arrangiamenti. Con Zero ha esordito nel 1973 con Supermarket. Quando Renato arrivò in RCA venne immediatamente notato da Franco Migliacci (autore anche di Volare), allora un’autorità assoluta e per qualche mese collaborarono... 

E poi?

Renato capì di non poter andare da Migliacci e dirgli “al testo ci penso io”, sarebbe stata un’eresia: un ragazzo appena arrivato che rifiuta uno dei più grandi parolieri. 

Allora?

Renato ci teneva a utilizzare un suo vocabolario, una sua narrazione, mentre sulla musica si affidava a me o ad altri. 

Soluzione con Migliacci?

Dirgli la verità e Franco fu bravissimo ad accettarla. 

Pure da giovane Zero aveva un bel caratterino.

(Ride) Era un coraggioso, uno micidiale; in quegli anni si presentava alla RCA vestito in maniera incredibile: stivali, tacchi alti, pantaloni aderenti, magari color viola, piume, paillettes e soprattutto con in braccio una gallina al guinzaglio. Ma l’aspetto incredibile non era tanto l’abbigliamento, ma che da casa sua alla Montagnola fino alla RCA prendeva l’autobus; (cambia espressione) lui attraversava la città, da solo, così; a Roma era conosciuto ancor prima di diventare famoso. 

La settimana scorsa lei era al concerto romano di Zero...

Siamo sempre amici, ci vogliamo bene. 

In 50 anni avete mai litigato?

(Ride) Eccome! Una mattina alla RCA, a causa di alcuni bisticci su dei brani, mi ha regalato un bel “sei uomo di merda” (lo imita alla perfezione, non solo per il tono ma pure i tempi) e come risposta l’ho rincorso e attaccato al muro fino a quando ci hanno diviso.

Conseguenze?

Dopo poco lo sapevano tutti, ma è finita così: era una lite tra fratelli. Qual è il parametro per definire chi è artista... Se quando canta dà emozioni. 

Chi l’ha emozionata?

Gabriella Ferri; appena iniziava si fermava tutto intorno a lei; poi ci sono altri artisti bravi nel diventare riconoscibili. 

A chi pensa?

A Nicoletta (Patty Pravo); con lei non ho avuto molta fortuna. 

Avete inciso Tutt’al più.

Canzone pensata per Mina e nata da un testo di Migliacci che per il prima volta aveva provato a scrivere qualcosa di autobiografico. 

Perché la poca fortuna?

Quel brano partecipò a Canzonissima e si trovò contro due big come Morandi e Ranieri: non c’era battaglia. 

E Mina?

(Sospira) La storia è da martellate in mezzo alle gambe.

Cioè?

Per farle ascoltare il brano l’ho cercata ovunque, con l’RCA che non voleva perché non era una sua artista. Impossibile, non trovavo alcun contatto. Allora, all’ultimo, nonostante la vergogna e la timidezza decisi di chiamare suo marito nella redazione del Messaggero (il giornalista Virgilio Crocco): “Buongiorno, le chiedo perdono in anticipo, ma sono un musicista e vorrei portare un pezzo a Mina”. Risposta: “Non sono il suo manager”. E attacca. 

Peccato.

Non è finita qui. Nicoletta va a Canzonissima, porta il brano e una settimana dopo squilla il mio telefono: “Sono Mina, ho sentito il pezzo: mi sono emozionata”. 

Dopo ci ha mai lavorato?

No, lei stava a Milano, e a Roma ero già impegnato con Renato, Gabriella e altri. 

Com’era la Ferri?

(Immediato) Meravigliosamente folle e sotto ogni lato caratteriale, ogni atteggiamento o manifestazione: era un’estremista; (pausa) anche sul piano delle relazioni.

 Che vuol dire?

Non aveva filtri e se qualcuno le piaceva andava dritta, un po’ come è successo a Sanremo quando ha cantato in coppia con Stevie Wonder e proprio Stevie Wonder è stato protagonista di un corteggiamento esplicito.

E di lei si è innamorata?

Un po’ sì, tanto che a un certo punto ho dovuto rinunciare alla collaborazione. 

Della Ferri si è detto avesse la fobia del pubblico.

È vero e per tranquillizzarsi assumeva delle pastiglie che poi mischiava con l’alcool; anche io sono andato a comprarle. Però non era mica l’unica ad aver paura, capitava un po’ a tutti. 

Chi altro?

Ricordo Domenico Modugno a Sanremo: prima di cantare tremava e cercava in me la giusta rassicurazione; io dallo stupore non ci credevo, e pensavo a mio padre morto, e a cosa avrebbe detto di quella situazione. 

Patty Pravo si agitava?

Nicoletta possedeva una presenza scenica rara e non solo sul palco; poi rispetto al canto non era perfetta, ogni tanto stonava.

Alla RCA c’era Lucio Dalla.

(S’illumina) Un istrione, uno dei più grandi e all’inizio veniva pure derubricato a coglione. 

Come mai?

Per certi atteggiamenti e per un fisico non proprio statuario. 

Che atteggiamenti?

Alla RCA c’era un enorme montacarichi, serviva a spostare gli strumenti da piano a piano: lui spesso si sedeva lì dentro, in un angolo, e ci stava un tempo infinito, mentre la piattaforma saliva e scendeva. Gli serviva per riflettere. 

Secondo Mara Maionchi lei ha nutrito tanti artisti.

(È stupito, quasi si commuove) Davvero lo ha detto? Sono contento, tanti artisti sono nati qui (indica la sua casa, il suo studio), compresa Mia Martini: ho lavorato pure al suo primo album; (abbassa la voce) che toppa ho preso. 

Con Mia Martini?

No, con Loredana (Bertè); lei viveva con la sorella e con Renato Zero, come fratelli, sempre insieme. Quando mi portarono Loredana per una sorta di provino, mi fissai sui suoi errori, giocava sui virtuosismi, andava su con le note e alla fine le consigliai di lasciar perdere, di puntare più sulla bellezza; in realtà in mezzo a due fenomeni come Renato e Mia mi sembrava impossibile ce ne potesse essere pure un terzo, era un questione di casistica. 

E invece?

Loredana andò a Milano e la scoprì Mario Lavezzi.

Qual è l’artista che non ha ottenuto quello che meritava?

(Resta in silenzio a lungo, inizia una risposta, poi ci ripensa e scuote la testa) È più semplice la domanda inversa. 

Chi ha ottenuto più di quello che meritava?

La maggior parte, ma la vita è questa, è un po’ come la storia de “i soldi portano soldi”: quando diventano celebri tutti intorno a loro si scappellano.

(...) 

Un artigiano che ha creato capolavori come Il carrozzone.

Brano pensato per Gabriella Ferri e da lei rifiutato; lì oltre al “vestito” è mia anche l’idea di base e l’incipit, ma alla fine il testo l’ha firmato solo Evangelisti, io compaio per la musica; all’epoca spesso funzionava così... 

Quindi le è successo di frequente.

Se avessi firmato tutto quello che ho creato avrei sistemato figli e nipoti. Lei chi è?A questa non so rispondere. 

Come mai?

È una domanda che nella vita mi sono posto tante volte. E non ho ancora trovato la risposta giusta.

Pilar Fogliati: "Il politicamente corretto quando è stupido fa paura". L'attrice sarà protagonista alla ventesima edizione del Magna Graecia Film Festival: la nostra intervista. Massimo Balsamo il 27 Luglio 2023 su Il Giornale.

Talentuosa, divertente, ambiziosa. Il successo di Pilar Fogliati è a dir poco meritato, ma il meglio deve ancora venire. La giovane attrice presenterà in concorso alla ventesima edizione del Magna Graecia Film Festival la sua opera prima da regista, “Romantiche”, che le ha permesso di mettersi alla prova su più livelli.

"Odio il Natale", poi "Romantiche". Periodo ricco di impegni e di successi…

"Mi sento sicuramente fortunata per i risultati ottenuti e per gli incontri fatti. Dà soddisfazione il fatto di aver ricevuto un riconoscimento, significa che hai fatto qualcosa che merita attenzione. Sono contenta, sì. ‘Romantiche’ mi ha dato delle belle soddisfazioni, perché è il mio ‘bambino’: è una cosa tanto intima, ci ho messo la faccia quattro volte, l’ho scritto e diretto".

“Romantiche” lo hai scritto, diretto e interpretato. Molte responsabilità...

"Sì e lo ritengo un privilegio e un lusso. Quando scrivi una cosa sei facilitato per la prima regia. Io non mi sento una regista, ma mi sento una persona che ha raccontato i personaggi che ha scritto attraverso la macchina della regia. È stata una responsabilità che mi sono presa perché conoscevo alla perfezione quello che volevo venisse fuori. È un film molto parlato, che ruota attorno a quattro personaggi che vorresti abbracciare oppure prendere a schiaffi (ride, ndr)". 

Quanto è stato importante collaborare con un’istituzione come Giovanni Veronesi?

"Incontrarlo è stata semplicemente la più meravigliosa fortuna della mia vita. Lui già conosceva i personaggi, è stato lui a spingermi a fare un film, promettendo di darmi una mano per la sceneggiatura. È come se avessi avuto un seminario privato intensivo di due-tre anni con Veronesi. Mi ha insegnato le regole della commedia, come guardare i personaggi, le nozioni a livello produttivo. Ci siamo anche scontrati - in maniera assolutamente benevola - ma con la sua esperienza mi ha dato tutto, e si è divertito ad entrare in contatto con la mia età. Non è solo un grande regista e sceneggiatore, ma è anche una persona che sa insegnare tanto: una qualità innata e meravigliosa. Non lo ringrazierò mai abbastanza".

Hai raccolto tanti applausi, ma c'è stata una critica che ti ha ferito o fatto riflettere?

"Sì, una critica mi ha fatto riflettere parecchio. Un ragazzo in una proiezione a Varese mi ha chiesto perchè avessi tratteggiato i maschi come stupidi. Ci ho pensato, perchè non era mia intenzione delinearli come cretini! Anche perchè faccio parte di una generazione 'fortunata'. Ma ribaltando il punto di vista, l'altro sesso diventa accessorio e al servizio delle donne". 

Utilizzi il sorriso per affrontare diversi temi, ma hai mai avuto il timore di qualche polemica?

"Guarda, mi hanno criticato perchè nel mio film si fuma tanto. Io mi sono semplicemente basata sulla realtà e i personaggi fumano al 100 per cento. A me spaventa da morire sapere che il software Final Draft utilizzato per le sceneggiature avrà un programma che ti dice: 'Attenzione, manca l'inclusività per il tot per cento'. Io trovo veramente che sia totalmente contro la creatività. La cosa che mi dispiace è che parlando con le persone tutti sono contro il politicamente corretto, ma poi sui media o su internet la correttezza sembra quasi il pensiero comune. Non mi sembra un sentimento vero, ecco. Il politically correct non mi piace quando è stupido, fa paura: la cultura deve educare, ma non in quel modo. Si può accendere la coscienza specialmente attraverso personaggi sbagliati e sentimenti brutti. L'inclusività la comprendi grazie a un romanzo, non attraverso la singola parola".

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

"Ho in uscita il film 'Confidenza' di Daniele Luchetti e con protagonista Elio Germano: ho avuto l'opportunità di lavorare con un regista che stimo tantissimo e con l'attore che reputo il migliore in Italia. Poi 'Cuori 2' e 'Odio il Natale 2', mentre in questo momento sto girando un film a Roma, 'Finchè notte non ci separi', l'opera di Riccardo Antonaroli".

Pino Insegno, ascesa e caduta del presentatore «preferito» da Meloni: «Soltanto cattiverie su di me». Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera domenica 29 ottobre 2023.

Il conduttore e lo share sotto l’1,8%: la mia colpa? Essere stato sul palco di Giorgia

Il presentatore preferito da Giorgia Meloni giace laggiù, lì sotto, all’1,8% di share.

Pino, e adesso?

Pino, lo chiudete o no questo Mercante in Fiera?

Pino, come la cambiamo l’egggemonia culturale del Paese con ascolti così striminziti? (sembra di sentire la voce severa di Giovanbattista Fazzolari, il sottosegretario turbato da questa Rai che perde milioni di ascoltatori ogni giorno, in molti programmi).

Domande pruriginose, preambolo inutile. Seguiamo invece un testimone oculare, una fonte, che fa strada nei corridoi grigiastri del centro di produzione «Fabrizio Frizzi», l’ex leggendaria Dear, mura gonfie di umidità e cavi elettrici, luci al neon sempre accese, dove Pino Insegno registra il suo programma.

Quelli che capiscono di televisione, te lo spiegano così: non solo è un format vecchiotto (la prima volta andò in onda nel 2006, su Italia 1), soprattutto è un game show. Tecnicamente: viaggia su binari precisi. Domanda, risposta, domanda. Il conduttore ha poco spazio per aggiungere qualcosa. Dovrebbe essere un lavoro pulito. Ma Pino esce con la camicia sudata. L’aria piacionesca in camerino diventa una maschera triste. Ogni puntata, nello struggente tentativo di inchiodare qualcuno davanti allo schermo, prova a metterci qualcosa di suo, rovista in tutto il mestiere che ha, e ne ha: la gente, però, lo vede, lo ascolta in un miscuglio di efferata euforia e sarcasmo da avanspettacolo, e cambia canale. Maurizio Costanzo diceva che Pino, nel suo mitico show al Teatro Parioli, fosse quello capace di sfornare le battute migliori. Solo che lì faceva l’ospite.

Le stagioni di grazia, per ciascuno di noi, vanno e vengono. Ma nessuno sa riconoscerle subito. Pino — ci parleremo tra qualche capoverso — s’era invece convinto fosse tornato il suo turno (nella Rai controllata dal Pd — quando era al culmine del successo, quando con Reazione a catena faceva anche il 30% — fu allontanato di botto: «Insegno? Insegno è fascio»).

Flash back necessari.

Ritornare a piazza del Popolo, 22 settembre 2022, un giovedì: il centrodestra chiude la campagna elettorale delle politiche e quando tocca a Giorgia Meloni salire sul palco, a presentarla c’è lui, Pino. Sono amici da vent’anni. Esagerando, lui le va incontro tutto vestito di nero. E, leggermente enfatico, l’accoglie dicendo: «Verrà il giorno della sconfitta, ma non è questo il giorno...», citazione tratta dal Signore degli Anelli (nel film ha doppiato, lui che è uno strepitoso doppiatore, Aragorn, il personaggio di Viggo Mortensen: Pino rende omaggio alla futura premier sapendo che è cresciuta nella storica sezione di Colle Oppio, una catacomba romana che Fabio Rampelli — all’epoca segretario — aveva trasformato in laboratorio politico, tra inedite pulsioni ambientaliste e solida militanza, cameratismo moderno, e una misteriosa fascinazione per Tolkien, appunto).

Il giorno dopo il trionfo elettorale, cominciano a scrivere: Pino, l’artista di regime. Pino, il raccomandato. È un’ombra scura con il pizzetto che cala su Viale Mazzini. Frullatore. «Gli danno Domenica In. No, lui ha chiesto di condurre Sanremo» (alla fine incasserà due programmi: questo tragico Mercante in Fiera e L’Eredità, che partirà a gennaio — vertici Rai già riuniti in preghiera: perché lì, in quella fascia oraria, traino del Tg1, non sono ammessi fallimenti).

Lui, comunque, lascia fare. L’unico commento è: «Tanto quando non ce l’hanno con me perché sono di destra, ce l’hanno con me perché sono laziale». Poi entra a Palazzo Chigi. Una roba mai vista. Entra, esce. Poi ritorna, riesce. La seconda volta, i cronisti lo fermano. E Pino, un filo arrogantello: «Sono andato a prendere un caffè. Perché, è vietato?». No. Però Fiorello il caffè lo prende al bar.

Ma è così che va: Pino si sente improvvisamente qualcosa che non è mai stato nella sua lunghissima carriera in cui ha magistralmente dato la voce agli altri (da Mel Gibson a Matt Dillon, a Will Smith) per poi essere anche frontman della Premiata Ditta a Buona Domenica e conduttore dello Zecchino D’Oro, attore di cinema come «Boro Scatenato» nelle Finte Bionde dei Vanzina e interprete a teatro, con musical al Sistina e commedie leggere non pretenziose, quella nebulosa — come ha scritto Andrea Minuz sul Foglio — che sta due dita sopra al Bagaglino e un po’ sotto il teatro di prosa, con titoli tipo Gallina vecchia fa buon Broadway.

Adesso, al cellulare, via Whatsapp, sembra di parlare con Mel Gibson: voce solenne, tono sincero.

«Ho 64 anni: e nessuno dice che ne ho 40 di carriera sulle spalle e che sono commendatore della Repubblica per meriti sociali. Sento l’affetto della gente...».

Per strada, forse. In tv, con l’1,8%, un programma di solito viene chiuso.

«Senta: mi hanno chiesto di dare una mano a una rete chiamata Raiduepercento. Perché è quella la media di quella fascia oraria. L’idea era di rianimare un po’ lo slot, di far capire all’abbonato che non passano solo vecchi telefilm quattro volte di seguito. Mi fanno partire all’1,2%, poi devo scalare: facciamo la media del 2,4%. Non è tanto? Okay, ma non è nemmeno poco. E segnalo che siamo solo alla ventesima puntata».

Teme possano chiuderle il programma?

«Guardi, è una cattiveria che ha scritto Dagospia».

Dagospia ci prende quasi sempre. E, comunque, in sua difesa è dovuto intervenire Roberto Sergio, l’amministratore delegato della Rai.

«La verità è che ce l’avete con me perché ero sul palco di Giorgia... E, allora, le chiedo: quelli che invece vanno sul palco di piazza San Giovanni alla festa del Primo Maggio?».

Beh...

«No, certo... Massimo rispetto per i lavoratori. Volevo dire che...» (cade la linea. Insegno riprova a chiamare, ma ricade. Riprova ancora e, questa volta, non si accorge di essere in linea. Ora non è più Mel Gibson, ma Pino Insegno. Lo sento che dice: «... È il Corriere, devo capì che cazzo vonno scrive...». Poi si riprende e rimette su la voce gentile di Gibson).

«Ehm... Dicevamo?».

Estratto dell’articolo di Silvia Fumarola per “la Repubblica” venerdì 15 settembre 2023. 

Pino Insegno è nel camerino degli studi Rai della Dear, pausa delle prove del Mercante in fiera […] 

Che effetto fa debuttare col bollino di “raccomandato dell’anno”?

«[…] Ho 64 anni, nessuno dice che ne ho 40 di carriera alle spalle, ho fatto le prime serate su Rai 1, la domenica pomeriggio, ho girato i teatri e fatto tv con l’Allegra brigata, poi è nata la Premiata ditta, sono un attore comico, faccio il doppiatore da una vita. Queste cose il pubblico le sa. […]».

È andato due volte a Palazzo Chigi a trovare Giorgia Meloni. Non c’entra col suo ritorno?

«Mi avete massacrato. È vero che sono amico di Giorgia da 20 anni. Ma mi creda, non sono andato a Palazzo Chigi per parlare di Rai, volevo chiederle di sostenere le iniziative per aiutare i malati di Sla. […] E a Palazzo Chigi ci tornerò, voglio parlare col ministro della Pubblica istruzione Valditara per insegnare ai professori come usare la voce. Gridano in classe e sono tutti svociati, se parlassero col diaframma non avrebbero problemi». 

Torniamo a lei da Meloni.

«All’uscita ho detto ai giornalisti che ero stato a Palazzo Chigi perché il caffè è buono. Ma di che stiamo parlando? Ho fatto tante cose nella vita. Non lo scriva, ma sono commendatore della Repubblica per meriti sociali, onorificenza ricevuta dal presidente Giorgio Napolitano. Certe cose le tengo per me, sono a posto con la coscienza». 

Come ha conosciuto la premier?

«Era una ragazza con una grande volontà, determinatissima. Francesco Storace mi aveva permesso di aprire accademie gratuite per i ragazzi, per me non aveva un colore politico, abbiamo sempre parlato di formazione dei giovani. La incrociai a una manifestazione. Giorgia è di Roma e della Roma, sul calcio fronti opposti. Le ricordo sempre: “Viviamo in una società multilaziale”». 

L’ha presentata al comizio finale della campagna elettorale.

«Quando mi hanno chiesto: “Ti va di presentare Giorgia in Piazza del Popolo?”, ho detto subito di sì. Scelta di campo difficile perché sapevo che sarei stato giudicato».

Da ragazzo era di destra?

«Ero democristiano. Ho avuto simpatia per i repubblicani, i liberali, come sono stato vicino a Renato Nicolini, che era comunista e ha fatto cose straordinarie. Se una persona di sinistra fa una cosa bella, chi è di destra la dovrebbe abbracciare. E viceversa. Una volta c’erano La Malfa, Moro, Berlinguer, Almirante. Non c’è stato un ricambio generazionale degno. Con FdI mi sono sentito di stare vicino a un cambiamento, con la speranza che sia reale, importante». 

Se Meloni non c’entra col suo ritorno in Rai, chi c’entra?

«Sono arrivate ai vertici persone che mi apprezzavano in tempi non sospetti, dall’amministratore delegato Roberto Sergio a Angelo Mellone, a Marcello Ciannamea, che è sempre venuto in teatro. Mi ha detto: “Mi piacerebbe lavorare con te”».

[…] 

La polemica della Gatta nera, Ainett Stephens troppo vecchia. Poi la modella scelta, via per il fumo e arriva Miss Italia Lavinia Abate. Ha avuto voce in capitolo?

«Con Ainett si è scatenata la polemica perché avevo detto che dopo quindici anni bisognava fare dei cambiamenti. Chiariamo: gatta nera perché porta male quella carta, se fosse stata gialla o verde sarebbe stato uguale. Il giorno della ragazza in barca con le cartine mi avete telefonato tutti, non avevo capito che fosse successo. Mai avuto il potere di cacciare o di scegliere».

Nell’autobiografia “La vita non è un film”, ha scritto anche che ha un solo testicolo.

«L’ho scritto perché chi è nella mia condizione deve sapere che può fare una vita normalissima, ho quattro figli».

[…]

Maria Elena Barnabi per Gente sabato 9 settembre 2023.

La conversazione che leggete in queste pagine con Pino Insegno, romano, 64 anni, di professione attore, doppiatore («Sono 442 i film a cui ho dato la voce) e conduttore televisivo, avviene a casa sua a Roma, tra una sigaretta e l’altra, la salvia indiana dono del capo Apache – una delle sue passioni – che brucia per “purificare” l’ambiente e la moglie Alessia Navarro, affermata attrice di teatro che va e viene. Siamo nella sua stanza-rifugio a pian terreno: le pareti sono tappezzate di dvd e cd, sugli scaffali ci sono memorabilia de Il Signore degli Anelli (ha doppiato l’attore Viggo Mortensen) e un divano Chesterfield occupa la scena con maschia presenza. 

Questa è la prima intervista che Insegno fa prima del suo grande ritorno in Rai: dal 25 settembre sarà al timone de Il mercante in fiera (su Raidue, da lunedì a venerdì alle 19.55), mentre da gennaio prenderà in mano L’eredità su Raiuno. E poiché questo ritorno ha scatenato più di una polemica – è stato detto che sarebbe stato scelto per via della sua amicizia con la premier Giorgia Meloni – questa conversazione è anche l’occasione per fare chiarezza. Ma cominciamo dall’inizio. 

Quando prende il via il suo ritorno in grande spolvero in Rai?

«L’anno scorso. All’epoca ero rientrato in Rai con il mio programma Voice Anatomy e proposi al povero Ludovico Di Meo (dirigente Rai mancato a gennaio, ndr) di portare Il mercante in fiera su Raidue, un game show che ho fatto per anni e con successo su Mediaset». 

Però poi è stato Marcello Ciannamea, fresco direttore del prime time della Rai, a darle l’ok.

«Ciannamea per me è sempre stato solo un amico che lavorava in Rai, Meloni e compagnia bella non c’entrano niente. È sempre venuto a vedermi in teatro, ha stima di me. Mi ha chiesto se avevo delle idee, ho proposto anche a lui Il mercante in fiera».

(...)

Come divenne famoso?

«Avevo 20 anni e con il gruppo l’Allegra Brigata a teatro rifacevamo cose del Quartetto Cetra. Caso volle che la figlia di Tata Giacobetti fosse innamorata di uno di noi e venne a vederci col padre. Lui rimase folgorato e la sera dopo venne con Pietro Garinei (storico commediografo e registra teatrale, ndr) e Gino Bramieri. Tempo una settimana ed eravamo in prima serata su Raiuno nel G. B. Show, il Gino Bramieri Show. Era il 1983. Da lì poi nacque la Premiata Ditta». 

Da zero a 100 in pochi giorni.

«Abbiamo avuto gente che ci voleva bene. Gianni Minà era innamorato di noi, mi invitava a casa sua, tipo che eravamo io, lui e Robert De Niro. Ci infilava ovunque anche se non c’entravamo un cavolo. Un anno ci invitò a Mantova per gli 80 anni del musicista Gorni Kramer: per dire, sul palco c’erano Bice Valori, Paolo Panelli e poi la Premiata Ditta, robe da matti. Conobbi Walter Chiari, uno dei miei miti. Mi disse: “Mi piace il tuo sguardo, mi sembra il mio di quando ero giovane, tienilo. Si vede che c’hai fame”». 

Quella fame c’è ancora?

«Sempre. Film, teatro, tv: per me è sempre la prima volta. Sono un’entusiasta. Quando finisco uno spettacolo, ci metto dieci minuti a salutare il pubblico. Pietro Garinei mi diceva a fine spettacolo: “Insegno, vada a casa. Vada”. Ma non riesco, è più forte di me. È questione di essere gentili con il tuo cliente. Sarò meno personaggio, ma chissenefrega». 

La famiglia semplice, la voglia di arrivare, l’affetto del pubblico e alla fine i successi. Anche lei si sente un underdog, un outsider, come la nostra presidente del Consiglio?

«Ma magari fossi un outsider: ho 60 anni passati, faccio questo mestiere da 40 anni».

Ammetterà che prendere in mano la fascia preserale per nove mesi su due canali Rai non è da tutti…

«Ma io il preserale l’avevo già fatto. Mica sono un influencer con un milione di follower che si è messo a condurre un programma. Io ho una storia».

E che storia ha lei?

«È fatta solo di cose che hanno funzionato. Ho fatto teatro, doppiaggio, ho condotto. Lo stupore mi fa ridere».

 Lo stupore nasce dalla sua amicizia con Giorgia Meloni.

«È vero: sono salito su quel palco (nel settembre 2022 l’attore presentò Giorgia Meloni per la chiusura della campagna elettorale di Fratelli d’Italia a Roma, ndr) e ho appoggiato la signora Meloni. È una mia amica, è una persona che stimo, so che potrebbe far bene. Fine. Se parliamo di politica è giusto che ci confrontiamo sulla politica, ma se parliamo di spettacolo, parliamo di spettacolo. A 20 anni sono entrato in Rai: mica ero amico di Forlani». 

La polemica è nata anche dal fatto che in Rai ci sono stati cambiamenti che la fanno pendere più a destra.

«Ci sono sempre stati, e nessuno ha mai detto niente. È successo anche a me: mi hanno tolto un programma e nessuno ha detto niente. Lei mi ha più visto condurre Reazione a catena (lo fece dal 2010 al 2013, ndr) o lo Zecchino d’oro?». 

Chi le fece lo sgambetto?

«Le giuro che non è stato D’Alema e neppure Berlinguer».

Si vuole togliere qualche sassolino dalla scarpa? Fu fuoco amico?

«Non fu la politica. Diciamo che la ruota è girata. Ma nessuno si chiese perché, pur facendo uno share alto, io in Rai non c’ero più. Comunque, ora sono tornato». 

Lo rifarebbe di presentare quel famoso congresso della destra?

«Certo che sì, come andrei e vado allo stadio a vedere la Lazio, la mia squadra. Non faccio il romanista perché la Roma è più popolare. Ma rispetto le bandiere giallorosse, rispetto Francesco Totti. Se mancassi di rispetto a quella bandiera, sarebbe giusto criticarmi». 

L’amicizia tra lei e Giorgia Meloni come è nata?

«Ci siamo incrociati tanti anni fa, conosco anche la sorella. Io di lavoro faccio pure il formatore per le aziende: da 26 anni insegno l’uso della voce alle persone per parlare in pubblico. Ho anche aiutato qualcuno di loro a esprimersi meglio sul palco. È stato un rapporto confidenziale e professionale».

Come giudica i suoi primi mesi di governo?

«Giorgia Meloni è cresciuta molto: non era facile essere una donna, presidente del Consiglio, così piccolina e sentirsi grande, alta. È riuscita a farlo, e mi auguro che riesca a fare cose giuste».

Anche lei è critico verso la comunità Lgbtq+ come questa compagine politica?

«Per me la diversità va accettata, essere gay non è anormale: è una condizione che va rispettata. Nella mia vita sono sempre stato circondato da persone omosessuali, con la Premiata Ditta siamo stati tra i primi a fare spettacoli alla serata Muccassassina del centro sociale romano Mario Mieli per tirare su soldi per l’Aids. La sessualità non ha colore. Ed è bello che ci siano persone famose che si dichiarino gay: è importante per i ragazzi che non riescono a dirlo ai genitori».

Nella sua autobiografia La vita non è un film ha confessato lo shock di quando da bambino ha scoperto di avere un testicolo solo.

«Me lo rivelò mia madre, all’improvviso, quando le dissi che avevo letto che Giulio Cesare aveva un solo testicolo. “Anche tu”, fece lei. Fu un colpo. Crescendo ho puntato su “altre cose” nel rapporto intimo, ho imparato ad amare le donne senza pensare per forza alla prestazione».

Perché ha deciso di parlarne?

«Perché so che ci sono tanti uomini nelle mie condizioni ed è giusto che sappiano che puoi avere una vita normale. Io ho avuto varie donne e quattro figli. Vi sembro uno che abbia avuto problemi?».

Estratto dell'articolo di Giuliano Foschini per “la Repubblica” giovedì 20 luglio 2023.

Pino e Giorgia, due underdog di successo. Ecco: non è soltanto l’amicizia a legare Pino Insegno — attore, doppiatore, conduttore, stando al Fantatv il nuovo uomo più influente della Rai visti i suoi andirivieni con Palazzo Chigi — con la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.  

(...) «Il primo no della mia vita — si legge nel capitolo Io non ho paura — lo devo a Giulio Cesare (...) A otto anni tornai da scuola con un pettegolezzo in tasca (...) “Mamma oggi la maestra ci ha raccontato che Giulio Cesare aveva un solo testicolo”. Mamma mi guardò con una mansuetudine inedita (...) Poi disse in un soffio: “Anche tu”. Fu così che scoprii di avere una menomazione. Avevo una palla. Una sola». 

Ma proprio come la presidente del Consiglio, Insegno nella sua biografia non racconta proprio tutto della sua vita. Nessun accenno alla politica, alla sua amicizia con Meloni o alla sua carriera da imprenditore che con la politica ha avuto tanto a che fare. Insegno era uno dei soci (aveva il 50%), per esempio, della Ince srl, società di comunicazione che all’inizio degli anni 2000 ebbe un incarico molto importante da Alitalia, durante la gestione di Giancarlo Cimoli, l’ingegnere voluto da Silvio Berlusconi alla guida della nostra compagnia di bandiera, la cui gestione è passata alla storia per essere stata una delle più disastrose, tanto da accompagnarla al fallimento.

Bene, come emerse dagli atti depositati al tribunale, e che tanto fecero arrabbiare i sindacati, la società di Insegno aveva avuto una consulenza importantissima dall’azienda (tanto da vantare un credito da 77mila euro davanti ai giudici) per il restyling della rivista Ulisse, quella che veniva distribuita sugli aerei. Una consulenza, raccontarono le cronache dell’epoca, che Cimoli aveva difeso con i denti davanti a chi lo accusava di sprechi. D’altronde la collaborazione di Insegno con Alitalia era antica: la Premiata ditta, il quartetto comico di cui faceva parte, aveva girato alcuni spot per la compagnia anche anni prima.

La sua società, oltre a curare Ulisse, aveva poi organizzato un maxi evento per i 60 anni della società, al Salone Margherita, Sulle ali di un sogno , che aveva proprio Insegno vestito da capitano in copertina. E proprio Alitalia aveva finanziato il Festival del doppiaggio di cui Insegno era uno dei principali protagonisti. 

Tutte cose di cui a Insegno fu chiesto conto in un’intervista a il Giornale da un cronista con i fiocchi, l’attuale direttore del tg1 meloniano Gian Marco Chiocci: «Si parla di una consulenza da un milione di euro…» gli veniva domandato. E Insegno: «E se fosse così, stavo a parlare con te…». 

In realtà la vena dell’imprenditore, Insegno, non l’ha persa dopo l’esperienza con Alitalia. Pur non risultando ancora tra gli amministratori, Ince Media, la società che ha fondato con il suo amico Filippo Cellini che ne detiene il 97% della proprietà, è in grande sviluppo.

Negli scorsi anni ha lavorato a uno spot per il ministero del Turismo e da poco è andato in Rai un documentario su Gabriele D’Annunzio tratto da un libro di Giordano Bruno Guerri. Una sorta di premonizione visto che proprio di D’Annunzio, a cui voleva dedicare un cartone animato, parlò nella sua prima uscita ufficiale il nuovo dg della Rai, Gianpaolo Rossi. 

A restare fuori dalla biografia di Insegno è anche la politica. «Fingevo di essere un attivista politico nel triennio del liceo per star simpatico a certe studentesse impegnate nella lotta di classe» scrive nel suo libro. 

(...)

Estratto dell'articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” il 17 luglio 2023.

Sono mesi che Pino Insegno è diventato la notizia del giorno. Attore, doppiatore, conduttore televisivo da quarant’anni, 450 film doppiati all’attivo, nell’ultimo anno Pino si è macchiato della “colpa” di essere amico della premier Giorgia Meloni. 

Prima della presentazione dei palinsesti, per mesi, è finita nel mirino l’assegnazione dei programmi in Rai che alla fine saranno: Il Mercante in Fiera, una sua creatura che torna in tv a settembre, dopo quasi vent’anni, nell’access prime time di RaiDue e da gennaio, su RaiUno, L’eredità. Un fiorire quotidiano di polemiche che Pino non capisce e non ama ma nelle quali, ci ha raccontato, «ho dovuto imparare a galleggiare».

Ma c’è qualcos’altro a cui Insegno tiene di più. Lo capiamo quando ci mostra con emozione lo spot di Voice for purpose, la campagna per i malati di sla di cui Insegno è ideatore assieme al Campus Biomedico, l’Ospedale Niguarda, Centri Clinici NeMO, Nemo Lab, Translated, Dream On e Aisla riuniti in un consorzio globale che vuole restituire voci umane ed espressive a chi è costretto a utilizzare sintetizzatori vocali. Pino è anche il primo donatore. 

«Ho fatto la conferenza stampa con il ministro della Salute, Schillaci e il presidente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ma nessuno ne ha parlato...». 

Insegno, complimenti anzitutto per questa meritoria iniziativa solidale. Così onora al meglio anche il suo ruolo di commendatore della Repubblica...

«Lo sanno in pochi perché non mi piace vantarmi di quello che faccio. Ma quella onorificenza me l’ha conferita il presidente Napolitano. Non certo un uomo di destra. Poi nel corso della mia carriera ho incrociato 11/12 governi di ogni colore, fino a quando diventa presidente del Consiglio una persona della quale approvo alcune scelte sociali. 

Mi spieghi per quale motivo non dovrei appoggiarla? Mi sono sentito dire che un attore non deve schierarsi. E chi l’ha detto? Vedo ogni giorno tanti illustri colleghi parlare e dire la loro dal palco del 1 Maggio in giù...». 

Resta il fatto che l’uomo del momento ora è lei. Come sta vivendo tutto questo?

«All’inizio l’ho vissuto male non essendo abituato ai clamori esterni al mio mondo. Mi chiedevo: ma perché non mi giudicano per quello che so fare e valgo oggettivamente come artista? Perché continuano a creare polemiche ad arte, sperando che io risponda per dare verità a quelle che sono in realtà solo falsità? 

Sono stato in Rai dal 1983 con Gino Bramieri e l’Allegra Brigata per oltre vent’anni, poi ci sono tornato e fino allo scorso anno ho fatto Voice Anatomy. Questa è la realtà su cui gente che forse nel 1983 non era nemmeno nata, scrive bugie. Non so nuotare in questo mare di m..., però poi ho capito che devo sguazzarci un po’ per restare a galla». (Sorride) 

(...)

Questi social non la convincono proprio...

«I social lasciano il tempo che trovano. Io faccio sempre una battuta: Gesù aveva solo dodici follower e uno ha abbandonato il gruppo. Guardate un po’ che ha fatto! (sorride). Quindi dico: ben vengano le piattaforme sulle quali scegli i film che vuoi, mal vengano i social sui quali c’è chi, dietro falso nome, si nasconde per spargere odio e falsità». 

Lei, anche con la Premiata Ditta, si è sempre posto con un umorismo e una comicità leggeri. Come spiega il fatto di essere divenuto, oggi, l’artista più divisivo?

«Sono diventato divisivo per una scelta politica che poi è anche maggioritaria nel Paese. Ma io anche se su 10mila persone solo 200 la pensassero diversamente, starei ad ascoltare le ragioni e le critiche di quei 200. Tutto diventa un problema quando ti accorgi che l’attacco è gratuito e legato solo all’appartenenza a una squadra. Così tutto diventa banale e intellettualmente stupido, prevenuto, una costruzione fatta solo per attaccare». 

(...) D’altra parte potevo chiedere di fare venti prime serate su RaiUno no? Invece ricomincio con uno show nell’access prime time di RaiDue». 

Il suo Mercante in Fiera su cui pure hanno avuto da ridire...

«Lo rifaremo in chiave moderna. Tenendo però sempre conto che fu un fatto epocale anche quello, all’epoca. Ha venduto 15 milioni di pacchetti di figurine e più di 400mila giochi da tavola Clementoni. Puntiamo ad essere una alternativa al Tg1 e al Tg5 che potrebbe dare delle soddisfazioni oltre a tante idee nuove. Penso che questa Rai con Mellone, Ciannamea, Sergio e Rossi sia aperta a proposte innovative. Ci si deve provare. Anche perché le piattaforme fra poco supereranno la tv generalista».

(…)

Pino Insegno? Una scomoda verità: quando fu cacciato dalla Rai... Daniele Priori su Libero Quotidiano il 31 maggio 2023

Una reazione a catena. Potrebbe essere questo l’effetto (si spera finalmente buono) da cui prenderanno vita i nuovi palinsesti Rai. Un puzzle in via di composizione che ormai da mesi vede al centro delle maggiori aspettative Pino Insegno, attore, showman, doppiatore di chiarissimo successo che non manca mai di affiancare alla bravura anche quell’umiltà e quell’animo leggero che fanno di un comico un grande artista, capace di sorridere e restare in silenzio, nonostante la ridda di polemiche (quasi mai eleganti) che da settimane, se non da mesi, cercano di offuscarne il talento.

Una reazione a catena, appunto, come la trasmissione omonima che proprio Insegno ha condotto dal 2010 al 2013 per quattro stagioni e 362 puntate, toccando ascolti e record di share oltre il 30 per cento e consegnando (non certo per sua volontà) una macchina ben avviata nella mani di Amadeus che lo ha sostituito nelle successive tre stagioni, rilanciandosi proprio grazie al successo di quello show preserale estivo.

PRESERALE

Ora, però, ancora un’altra reazione a catena – al di là della singolare casualità che vedrà esattamente quello show ripartire, condotto da Marco Liorni, il prossimo lunedì 19 giugno – sarà l’effetto che si innesterà, restituendo, come pare, lo scettro del preserale (in autunno) al buon Pino Insegno che da settembre sarà chiamato a condurre la nuova stagione de L’Eredità, ereditandola da Flavio Insinna (abbastanza infastidito, secondo alcuni rumors), al punto che persone vicine all’attore hanno commentato maliziosamente sui social “per giusto merito”, riferendosi proprio al passaggio di consegne in vista tra Insinna e Insegno. Rosiconi.

NESSUNA SPIEGAZIONE

Eggià, lo si può ben dire invece. Considerando che, a fronte di un esercito di finti attuali epurati - che in realtà si sono solo dati a una conveniente fuga – è stato proprio il buon Insegno, ormai quasi dieci anni fa, nonostante il suo trentennio di carriera e militanza in Rai, ad essere stato messo davvero da parte senza ricevere alcuna spiegazione e senza che nessuno tra artisti e intellettuali, oggi costernati per l’addio di Fazio, abbiano sollevato un sopracciglio. Nonostante gli anni della Premiata Ditta abbiano fatto ridere l’Italia intera a partire dal 1981. E poi addirittura il record di ascolti raggiunto da Insegno nelle sue stagioni di conduzione dello Zecchino d’Oro, sempre tra il 2010 e il 2013, quando la trasmissione dell’Antoniano iniziò a rilanciarsi, segnando audience attorno ai 3 milioni di telespettatori per un 25 per cento di share.

“ME LO DICONO TUTTI”

Senza contare anche le prime serate che Insegno ha vinto con il programma Me lo dicono tutti! andato in onda a partire dalla primavera del 2011 per due stagioni su RaiUno, in contemporanea con l’esordio del fortunatissimo Tu si que vales su Canale 5 che fu superato dallo show di Pino sulla Rai grazie a un insperato 20 per cento di share. A proposito di merito, dunque, si potrebbe ben dire. E senza che in nessun modo incidesse allora la politica. Almeno quella vicina a Insegno. Tanto che, quando il Pd, senza nemmeno vincere le elezioni, è tornato al potere anche in Rai, infischiandosene beatamente di ascolti e share, ha fatto saltare tra i primi, proprio il buon Insegno. Adesso, però, alla nuova svolta mancherebbero davvero solo le firme e gli incontri che il neo amministratore delegato Roberto Sergio terrà con i conduttori vecchi e nuovi (pure con Marco Damilano per dire, ipse dixit) nelle prossime settimane. Tutto dovrà avvenire entro il mese di giugno, considerando che il 7 luglio a Napoli saranno presentati i nuovi palinsesti. E chissà quale sarà, allora, la reazione a catena tra i democratici in cerca di fantomatici martiri. Chissà. 

Luigi Mascheroni per il Giornale il 29 maggio 2023. 

(...)

Te la do io l'egemonia!

Prepariamoci a una Rai con Pino Insegno alla conduzione di tutto, da Unomattina a Unomattina del giorno dopo, 24 ore su 24; Pio e Amedeo alle  News, Mario Adinolfi a RaiVaticano, Massimiliano Finazzer Flory, ala liberale della drammaturgia de droite, a RaiCulura. E Martufello a RaiFiction: «Ao' ma proprio io, ma che pe davero davero?». 

È vero: ormai Pino Insegno è diventato il simbolo della rivalsa della destra che vuole i suoi spazi di potere: programmi, reti, palinsesti, festival, teatri, sale e Saloni; è la destra che per anni si è fatta fregare dalla sinistra sulla mitica «matricola Rai», un escamotage per far lavorare solo chi ha già collaborato una volta, in un circolo vizioso che gira sempre a sinistra, e così addio ai nuovi arrivati. È la destra di vendetta e rappresaglia che pretende un posto al centro dell'arena, dopo anni passati a guardare gli altri dagli spalti. Ave! So' Caio Gregorio, er guardiano der pretorio, c'ho du' metri de torace, fa' la guardia nun me piace'...

Pino Insegno come nuovo Spartaco, il Liberatore di tutto il lebbrosario in attesa di un contratto in Rai. Nunzia De Girolamo condurrà Estate in diretta, ma pure Autunno, Inverno e Primavera. Monica farà un po' Rai e un po' LaSetta. Paola Ferrari si prenderà Rai Sport e RaiPlayboy. Laura Tecce male che vada Rai 5, a fare i documentari sugli animali: papere, gatti e underdog. Ed Enrico Montesano è la volta buona che espugna Ballando con le stelle, e la t-shirt della X Mas la impone a tutta la giuria. 

«Ahó, so' egggemone!». 

Io non temo l'egemonia in sé, temo l'egemonia in me, in te, lui, lei, voi. A chi la Rai? «A noi!!». Ce lo meritiamo il busto di Pino Insegno della Gialappa's. 

Ma poi, comunque, Pino Insegno se lo merita. Fosse solo per il coraggio. È vero che a Roma basta che entri nello stesso bar in cui Giorgia Meloni sta bevendo un cappuccino in mezzo agli uomini della scorta per poter dire «Ahó, stamattina ho fatto colazione con Giorgia...», però lui donna Giorgia la conosce davvero (e ci vuole l'audacia di un Hobbit a non essere di sinistra in quell'ambiente).

A settembre scorso era sul palco in Piazza del Popolo, alla chiusura della campagna elettorale del centrodestra, per presentare con epica tolkeniana la leader Giorgia Meloni, la sua Galadriel: «Ci sarà un giorno in cui il coraggio degli uomini cederà, in cui abbandoneremo gli amici e spezzeremo ogni legame di fratellanza. Verrà il giorno della sconfitta, ma non è questo il giorno». Poi ad Ancona ha condotto l'evento a sostegno del candidato di centrodestra a sindaco. E negli ultimi mesi è stato intercettato più volte fare anticamera tra il Collegio Romano e Palazzo Chigi. 

Domanda: ma viene prima l'occupazione o l'egggemonia? 

E così Pino Insegno, professione doppiatore (ma anche attore, comico, conduttore radio e tv), dal quartiere Monteverde alla Terra di mezzo, romano e laziale, partito dalla Premiata Ditta  la sua personalissima Compagnia dell'Anello  e arrivato a scorrazzare per le affollate praterie-prateRai, 63 anni, già amico di Gianfranco Fini e Mauro Mazza (con Gianni Alemanno sindaco rischiò di ottenere la gestione della «Casa dei teatri» di Roma), ha vissuto troppo a lungo nel ruolo di Le marginal, come nel più bel film di Jean-Paul Belmondo (doppiato però da Renzo Stacchi). Ora, dopo anni da eterno secondo, è il momento di prendersi i primi piani: sarà L'Eredità al posto di quel comunista di Flavio Insinna (quello della «nana di merda», a proposito di merito), o sarà il prossimo Festivàl di Sanremo? Come ti Insegno a diventare il nuovo volto del paesaggio televisivo italiano. «Avemo occupato? E mo' famo l'egggemonia».

Se fosse per noi, di Rai ne vorremmo due. Una con direttore generale Morgan, l'altra con Luca Barbareschi. Che non si sa se sono più bravi o più antipatici. 

Comunque, dài. Bravo, Pino Insegno è bravo. Come attore di teatro un paio di volte è riuscito persino a vedere il suo nome sui camerini del Sistina, ma Enzo Garinei gli dava del Lei e lo teneva a distanza. Come attore di cinema non hai mai toccato palla, per quanto da giovane abbia giocato in serie D (ma scusa, cosa c'entra? Niente, per dire). E come comico, non giudichiamo: Aldo Grasso però ha detto che «La sua comicità si pone al livello più basso dell'evoluzione televisiva», e se si volesse evidenziare il lato comico del comico, basterebbe ricordare quando, nel 2017, su Radio24, Insegno si lanciò in una furiosa invettiva proprio contro Aldo Grasso per via di una stroncatura che però il critico televisivo non aveva mai scritto (Insegno si era confuso, e poi chiese scusa, e sembrava di essere in un film di Neri Parenti).

E come conduttore, insomma... Le sue cose le ha fatte, ma il suo Voice Anatomy, per quanto apprezzato in casa Fratelli d'Italia  ci è andata anche Giorgia a fare un'ospitata, e ci chiediamo perché  a livello di Auditel è sempre stato sui livelli di Rai2 per cento. E questo è quanto. Però, appunto, Pino Insegno  senza essere Nando Gazzolo  è un ottimo doppiatore, professione che peraltro esige capacità di adattamento, camaleontismo, funambolismo; sinonimi: mutevolezza, volubilità, opportunismo. 

Volubile, stizzoso («Anvedi 'sto stronzo: a lui gli hanno dato tutti i film di James Bond... ma l'hanno mai sentita la voce mia!?»), atticciato, o ramicio come si dice a Roma, ma che ha sposato veline e mogli bellissime, forte spirito di rivalsa, figlio dell'artigiano Armandino e della casalinga Romana, frontman di un premio e di una scuola di doppiaggio, autore dell'autobiografia La vita non è un film (eh, magari...), brillante, veloce, sempre sul pezzo  Maurizio Costanzo diceva che era il miglior battutista passato sul suo palco  e a suo modo anche paraculo (uno Zoro di destra, insomma), Pino Insegno nella sua arte è un maestro. Altrimenti difficilmente sarebbe passato dalla gavetta giovanile del doppiaggio nei film porno - ai tempi stracult di Eiaculazione da Tiffany: mugolii, debito d'ossigeno e 300mila lire a turno - al leggendario «Io sono Aragorn, figlio di Arathorn!», anche se il suo fiore al microfono è la voce data a Brad Pitt nel film L'esercito delle 12 scimmie.

Centurione dell'esercito della destra Brancaleone alla crociata di Saxa Rubra per una supremazia di telecomando e «te l'avevo detto» - dalla sostituzione etnica alla sostituzione televisiva è un attimo, ma poi chi dice che perdere Massimo Gramellini è un dramma? E anche Fabio Fazio prese 30mila euro per doppiare male i Minions e nessuno disse niente - Pino Insegno è arrivato al suo Rubicone. Di qua un'eterna subalternità, di là l'egggemonia. E dietro di lui ce ne sono tanti altri, ma tanti, ma tanti...

Vai avanti tu Pino, a che noi ci viene da ridere.

Dagospia il 4 marzo 2023. Estratto da “Un Giorno da Pecora – Rai Radio1”

Pino Insegno, attore, doppiatore, conduttore, si è raccontato a Un Giorno da Pecora, la trasmissione di Rai Radio1 condotta da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari, a partire dall'attività che lo ha reso tra i più famosi professionisti in Italia e non solo: quello del doppiatore. Che, ha raccontato, è partita con dei film un po' particolari.

 "Nei primi anni 80 iniziai a doppiare i film a luci rosse, il film porno. C’erano solo vocali e consonanti messe alla rinfusa ma se tu volevi in quel periodo c’era solo il cinema e il cinema a luci rosse”, ha spiegato l’attore. “Quei film erano fatti bene, a gente li andava al cinema a vederli, potevi farlo solo li”.

Si ricorda qualche titolo? “Facemmo dei film come ‘Ben Dur’, nel quale io doppiavo un antico romano. Oppure, citando Oscar Wilde, c’era ‘L’importanza di chiavarsi Ernesto’. Ma in quel periodo doppiai anche dieci film a luci rosse filippini”. Come mai? “Mi chiamo’ il direttore del doppiaggio e mi disse: se sei libero dobbiamo fare dieci film hard filippini…”

Successivamente Insegno ha dato voce alle più grandi star di Hollywood, da Viggo Mortensen a Jamie Foxx. Quali sono i film che, quando le sono stati proposti, ha accolto con più entusiasmo? “Dipende, ad esempio quando è arrivata la proposta di doppiare Jamie Foxx nel film su Ray Charles ero molto contento: film, difficile, complesso e difficile da doppiare. Ma anche quando è arrivato ‘Django’: li sei felice come un bambino perché per dieci giorni sei Django!”

Secondo lei, tra i politici chi ha una voce migliore?

Fini aveva un bel modo di esporre - ha detto a Un Giorno da Pecora Insegno - mentre Meloni sta diventando sempre più brava, utilizza il romano solo nelle ‘rotture, quando vuol far sorridere”.

E Giuseppe Conte?

E’ troppo uguale nella voce, secondo me ha un problema con le corde vocali. Una volta l’ho incontrato, eravamo al matrimonio di Alfonso Bonafede e gliel'ho anche detto: Giuseppe, cerca di non uniformare tutto quello che dici allo stesso modo. In quell’occasione gli ho anche dato il numero di un grande otorino che abbiamo, ma non mi ha mai richiamato”.

E che voce ha Salvini?

Ha una voce perentoria, è cantilenante come un po’ tutti. Sono i colori, le intenzioni che fanno la differenza”.

Lei ha presentato alcune recenti manifestazioni del c.destra, quella di Giorgia Meloni e quella del neo governatore del Lazio Francesco Rocca.

Giorgia la conosco da tantissimo tempo, da prima che diventasse deputata e ministro della Gioventù, ci conoscemmo in un’occasione familiare e non politica.

E’ una persona che ho apprezzato. Rocca lo conosco da quando era dg del S.Andrea”.

Come vede la premier nel passaggio dall’opposizione al governo?

E’ migliorata molto, ha acquisito una sicurezza che le faceva paura, si è trovata in prima linea ma negli ultimi anni è sempre stata moderata”.

Lei manca dalla tv da qualche tempo: le piacerebbe tornare?

A me piacerebbe continuare a fare questo mestiere. L’anno scorso sono tornato con Voice Anatomy ed è stato un buon successo, mi piacerebbe tornare a fare il conduttore”.

C’è chi dice che tornerebbe in Rai solo perché amico di Meloni.

Io non sono mai andato via dalla Rai, spero di tornarci perché è casa mia, certo non perché ho appoggiato Giorgia Meloni. Con la premiata Ditta in Rai ho fatto solo successi, idem quando ho fatto il conduttore, per cui sono queste cose a parlare. Se avessi fatto dei flop sarebbe stato diverso”.

Insomma, non le interessa se questo viene scritto.

E chi se ne frega, tanto lo scrivevano anche prima..."

Estratto dell'articolo di Emiliano Raffo per mowmag.com il 19 febbraio 2023.

Ha iniziato a pompare hard-rock quando suonare hard-rock in Italia era un azzardo underground. Classe 1949, da Monte di Procida, Pino Scotto ha vissuto appieno il “rock n’ roll lifestyle […] Abbiamo fatto una chiacchierata con lui. Raffreddato e febbricitante sì, ma nient’affatto domo.

 Senti, leviamoci di mezzo Sanremo. Tutti gli occhi sul Festival, come al solito. Cosa ti ha lasciato?

Un persistente senso di vomito. Pensavo fossimo solo il Paese più ignorante d’Europa e invece meritiamo l’estinzione, facciamo schifo. Mi sono sforzato di guardarne una serata, ma non ho trovato tre note a fila che potessero definirsi musica. Ma chi è ‘sto stron*o che ha scelto i pezzi?

 Ehm, Amadeus?

Ecco. E quando mai ha capito qualcosa di musica, questo qui?

 Mai un Sanremo peggiore di questo, quindi?

Sì, credo che si sia toccato il fondo. Ormai le canzoni non contano più un caz*o. Conta il gossip, come si vestono tutte le marionette disposte sul palco e come scoreggiano. Della musica non frega più un emerito caz+o a nessuno[…].

Uno come te, tuttavia, Sanremo l’ha sempre tenuto ben distante, anche quando ti piaceva di più…

Eppure un anno avrei dovuto partecipare. […] minacciai di tirarmi fuori il pisello sul palco per metterlo in mano, in diretta, alla cantante con cui avrei dovuto eseguire il brano. Lei era una bella tipa, prorompente, che faceva dance negli anni ’80. Stranamente preferirono lasciarmi a casa.

 Cavoli, ma allora Blanco che devasta i fiori è riuscito in un’impresa eversiva che a te è stata negata.

Ma era tutto preparato, dai. “Striscia” li ha sputtanati all’istante. Stessa cosa per quel bacio tra Fedez e quell’altro innominabile (Rosa Chemical, nda). Tutto fasullo: niente musica, solo audience.

[…] Capitolo Maneskin. Accusi il nostro Paese di essere arretrato…

Certo! I Måneskin esistono perché esistono gli italiani.

 …eppure hanno raccolto molti consensi anche all’estero, sebbene Pitchfork – affibbiando all’ultimo “Rush!” un devastante 2 (su 10) – abbia dato una bella sberla ai nostri.

Il successo straniero mi sorprende, sinceramente. Ma non possono durare: non hanno la stoffa, la statura, la tenuta. È un successo effimero, frutto di investimenti giganteschi, di una promozione fortissima.

 […]

Altri tempi…

Io ho visto Jimi Hendrix nel 1968. Sono stato in tour con Black Sabbath, Motörhead, ZZ Top, Deep Purple, AC/DC. Dovrei resettarmi orecchie e cervello per ascoltare la musica di oggi e non ridere.

 Qualcuno di questi mostri sacri ti ha mai mostrato di apprezzare la tua musica?

Ma sai, è gente che suonava in giro per mezzo mondo, magari con band di supporto diverse. A volte ho ricevuto qualche complimento di circostanza, ma da Ronnie James Dio e Lemmy ho ascoltato parole di sincero affetto. Due artisti e persone che ho sempre apprezzato tantissimo.

Rubavi qualche consiglio a questi grandissimi?

No, facevamo festa assieme, piuttosto. Ma di quelle toste, non so se mi intendi…

 Allontanando il fantasma del Festival, credi che in Italia possano cambiare le cose?

Ti rispondo così: se mi chiedessero di fare il giudice a un reality chiamerei con me Cristiano Godano dei Marlene Kuntz e Caparezza, a cui aggiungerei Edoardo Bennato per la canzone d’autore. Vedi come te la ribaltiamo la musica italiana in un solo anno.

 Ti è mai stato offerto di fare il giudice?

Sì, ma non volevo cover. Pretendevo solo artisti che presentassero brani originali, ma mi hanno detto che senza cover mi sarei giocato il pubblico televisivo. A vedere come sono andate le cose, purtroppo hanno avuto ragione loro. E dire che a me bastava uno stipendio mensile per tutta la durata del lavoro e il sostegno a un ospedale che ho contribuito a far costruire in Guatemala.

 […]

Meglio l’omologazione, insomma. Troppo ingestibile la libertà?

Troppo scomoda. A Sanremo Rock – lontanissimo dal Festival dell’Ariston, sia chiaro – ho ascoltato gruppi pazzeschi, ma nulla, alla fine restano lì.

 […]

Pino Scotto in tour, sei ancora un party-animal?

Morto Lemmy ho smesso con tutto. Sei anni che non bevo Jack Daniel’s, quattro anni e mezzo che non fumo. E anche il resto non lo tocco più. Avrò risparmiato 300mila euro negli ultimi 6-7 anni…

Estratto dell'articolo di Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 15 Gennaio 2023.

Vi siete conosciuti a 10 anni.

Amedeo: «Pio era una creatura tutta tonda, non si sa bene come riuscisse a deambulare».

Pio: «Lui invece era un batuffolo di pelo nero».

Amedeo: «Mi sono sviluppato presto, grazie a Colpo Grosso».

 Amici subito.

Pio: «Due bambini atipici, per fisicità e provenienza, capimmo presto che non ci avrebbero mai presi sul serio[...]».

 Ma la storia che siete nati nello stesso reparto di maternità di Foggia, a cinque giorni di distanza, in due culle vicine, è una fandonia che propinate ai giornalisti?

Pio: «No, è vera, l'abbiamo scoperto dodici anni fa».

Amedeo: «Esiste una foto, l'hanno ritrovata le mamme, una carrambata, compare pure nella sigla di Emigratis».

 [...]

Quasi non oso chiedervi dei tempi della scuola.

Amedeo: «Ero bravo - l'intellettuale del duo sono io, si capisce da lontano - poi mi sono perso. Ho fatto lo scientifico, lui ragioneria, rappresentanti di istituto, ci si ritrovava in testa ai cortei, per fare casino, senza un perché».

Pio: «Che poi il tipico motivo per fare sciopero era il riscaldamento rotto in classe, quando fuori c'erano 40 gradi con gente in maniche corte».

 Poi, l'idea.

Pio: «Ci venne in mente di guadagnare qualche soldino divertendoci, come animatori nei villaggi turistici».

 [...] Debutto a Telefoggia, pochi mezzi, tanta fantasia.

Pio: «C'era una telecamera e una videocassetta, la stessa del tg. "Avete mezz' ora, poi riportatela che hanno sparato a uno". Sognavamo in piccolo».

Amedeo: «Avremmo firmato per ottenere anche molto meno. Questo mestiere ti dà una soddisfazione importante: far ridere la gente. Come quando vedi i tuoi figli felici e sei felice anche tu».

 Esisteva un piano B?

Pio: «Figlio di statali, i miei sognavano laurea e posto fisso. "Che mi laureo a fare? Il posto fisso non lo voglio"».

[...] Amedeo: «Pure i miei premevano per una sistemazione sicura, ma io non volevo lavorare tutti i giorni. L'ideale sarebbe stato un posto da bidello. Due mesi di ferie pagate, gli altri passati a fare il venditore abusivo di pizzette».

[...]

 Non sia mai. Gavetta dura.

Pio: «A volte abbiamo proprio fatto la fame. Quando lasciammo Telenorba per salire a Milano, andammo a vivere a scrocco da amici e parenti».

Amedeo: «E abbiamo definitivamente perso la dignità».

 Un tour di casa in casa.

Amedeo: «Il primo a ospitarci fu un amico. Ci piazzammo sul divano del salotto.

Tornavamo alle tre del mattino. Le due coinquiline, studentesse, ci odiavano. Poi siamo passati da un altro compaesano. E infine dal fratello di Pio, che dormiva nel letto matrimoniale con lui. Io invece avevo la cameretta di Mondo Convenienza. Una sera però il fratello aveva accalappiato una ragazza. Immagini quanto si spaventò, nel cuore della notte, vedendosi entrare questo coso qui sotto le coperte».

 Lo show più sfigato?

Pio: «Domenica di Pasqua del 2001, un buco di locale a Baselice, vicino Benevento».

Amedeo: «Dei 12 avventori in sala, non rideva nessuno.

Dopo 25 minuti i camerieri ormai ci passavano davanti con i piatti, non abbiamo avuto il coraggio di chiedere i 75 euro. Non c'era il camerino. Ci siamo cambiati sul terrazzino, sotto la neve».

 A chi vi siete ispirati per i due zoticoni scrocconi?

Pio: «A due tifosi del Foggia incontrati sull'autobus. Il nostro cafone è un ignorante tenero che si adatta al mondo come può, ma nasconde una sua dignità, una sua bontà».

Amedeo: «Facciamo i forti con i forti, non con i deboli. La gente ci vede come due Robin Hood. Rubiamo ai ricchi per dare a ai poveri: noi».

 Quei vestiti assurdi dove li trovate?

[...] Pio: «La pelliccia bianca l'abbiamo trovata a Mediaset, forse era di Pamela Prati. Amedeo: La nera era il visone di mia madre, con la tasca bucata e le palline di naftalina. Per comprarlo ci fu un G8 tra parenti, andarono in 12».

Prodezze di cui siete fieri.

Pio: «Francesco Totti con il capitone in mano, Maria De Filippi sul divano in ciabatte». [...]

 [...]

Amedeo: «Sono peggio di noi, le nostre mamme, in crociera pagata da Graziano Pellè, tutto compreso tranne le bevande, sono partite con due casse di minerale». [...]

(ANSA venerdì 28 luglio 2023) - La loro singolare esperienza presto potrebbe tradursi in un progetto più ampio con la Bontempi per una musichetta pubblicitaria e per una linea di giocattoli musicali, senza dimenticare i bambini con la realizzazione di laboratori didattici nelle scuole per avvicinarli alla musica. Sono i prossimi obiettivi della 'Playtoy Orchestra', l'ensemble guidato da Fabrizio Cusani, 53 anni, che per primo ha proposto musica, per adulti e bambini, suonando esclusivamente giocattoli che emettono suoni. Dopo recenti nuove tappe all'estero e incontri in Italia, oggi la band di 7 elementi si esibisce a Vitulano, il paese sannita dove nacque nel 2001.

Un improbabile esperimento, quello di 22 anni fa, come lo definisce Cusani, ma che poi ha avuto successo: "Stiamo ricevendo nuovi inviti per manifestazioni in Italia e all'estero - spiega all'ANSA - dopo l'esperienza britannica nel regno della beatlesmania, al 'Palladium', la partecipazione al 'Britan's got talent', ma anche agli eventi al teatro di Ferrara e al Trianon a Napoli, ci stiamo organizzando per il Romania Got Talent, l'Espana Got Talent, kermesse negli Emirati Arabi, in Cina". Oltre a Cusani (direzione e giocattoli), la band è composta da Gianpasquale Cusano (percussioni giocattolo), Jacopo Cerulo (pianola Bontempi), Rocco Calò (fisarmonichetta di plastica), Giuseppe Caruso (batteria di 30 centimetri), Gioele Cerulo (chitarrista/basso), Saverio Coletta (pianino di Charlie Brown).

 "Facciamo musica con i giocattoli, per avvicinare le persone ad un mondo, specie quello della musica classica, che può risultare difficile, colto ma che può essere semplice come un giocattolo" afferma Cusani. Suonano musicisti professionisti con tastierine, piccole batterie e xilofoni, chitarrine giocattolo. La più grande difficoltà è suonare fisarmonichette che perdono i tasti, piccole pianole che non hanno polifonia: "Puoi suonare un tasto per volta, massimo due, il terzo non suona - spiega l'artista - quindi ciascuno deve fare la sua piccola parte integrandosi perfettamente con i suoni degli altri". L'ensemble si è esibito dai grandi classici della musica colta alle colonne sonore fino al samba passando per l'esecuzione di 'Bohemian Rhapsody' dei Queen.

Estratto dell'articolo di Ilaria Floris per adnkronos.com giovedì 7 dicembre 2023.

"Certo che ho mandato il brano, lo faccio ogni anno. Io sono pronto per Sanremo da 14 anni, ma Sanremo non è ancora pronto per me e per i miei brani sociali. Quest'anno ho fatto più di 110 concerti e il 2024 sarà simile perché ci sono già tante richieste, quindi il gradimento su di me c'è. 

Tuttavia viviamo un'era dove si devono ascoltare solo canzoni d'amore magari belle ma innocue da non disturbare l'equilibrio culturale e ideologico di nessuno". Non le manda a dire Povia e, in un'intervista con l'Adnkronos, all'indomani dell'annuncio dei big del festival di Sanremo 2024 fa alcune considerazioni, confermando di essere stato scartato dal direttore artistico Amadeus.

"Nei festival viene perdonato tutto a tutti, mentre a Povia che porta messaggi positivi e sempre con rispetto, no -scandisce il cantautore- Nei quattro festival a cui ho partecipato ho sempre portato argomenti particolari ma appunto positivi e mai trattati da nessuno e hanno sempre avuto successo proprio perché erano incoraggianti e straordinari in mezzo a tante canzoni ordinarie". 

Il pubblico, spiega Povia "le ha notate subito e ancora oggi le canta e le richiede come bis. Ho sempre partecipato da solo senza appoggi ed è sempre stato difficile entrare, poi dipende dalla volontà delle persone che lavorano al festival".

Oltre a ciò, "mettici anche che sono un libero battitore, non ho parrocchie e amicizie influenti, non ho potere di scambio, mi autoproduco, non ho mai avuto una major che fa pressioni e neanche la voglio, e infine ho le mie idee e le espongo spesso con canzoni e dichiarazioni quindi capirai... 

Senza nulla a togliere alle tante canzoni in gara, il 'fattore Povia', che mi tiene fuori dal festival da quasi 15 anni non dipende dalla canzone brutta o bella, anche se è più facile far pensare questo", è lo sfogo del cantante. "Sono scelte e le rispetto.. magari ci riprovo il prossimo anno", conclude Povia sorridendo. […]

Sanremo 2024, lo sfogo di Povia: “Fatto fuori per non disturbare l'equilibrio ideologico”. Il Tempo il 04 dicembre 2023

Non le manda a dire Povia e, in un’intervista con l’Adnkronos, all’indomani dell’annuncio dei big del Festival di Sanremo 2024 fa alcune considerazioni, confermando di essere stato scartato dal direttore artistico Amadeus: «Certo che ho mandato il brano, lo faccio ogni anno. Io sono pronto per Sanremo da 14 anni, ma Sanremo non è ancora pronto per me e per i miei brani sociali. Quest’anno ho fatto più di 110 concerti e il 2024 sarà simile perché ci sono già tante richieste, quindi il gradimento su di me c’è. Tuttavia viviamo un’era dove si devono ascoltare solo canzoni d’amore magari belle ma innocue da non disturbare l’equilibrio culturale e ideologico di nessuno».

«Nei festival viene perdonato tutto a tutti, mentre a Povia che porta messaggi positivi e sempre con rispetto, no - scandisce il cantautore -. Nei quattro festival a cui ho partecipato ho sempre portato argomenti particolari ma appunto positivi e mai trattati da nessuno e hanno sempre avuto successo proprio perché erano incoraggianti e straordinari in mezzo a tante canzoni ordinarie». Il pubblico, spiega Povia «le ha notate subito e ancora oggi le canta e le richiede come bis. Ho sempre partecipato da solo senza appoggi ed è sempre stato difficile entrare, poi dipende dalla volontà delle persone che lavorano al festival». 

Oltre a ciò, «mettici anche che sono un libero battitore, non ho parrocchie e amicizie influenti, non ho potere di scambio, mi autoproduco, non ho mai avuto una major che fa pressioni e neanche la voglio, e infine ho le mie idee e le espongo spesso con canzoni e dichiarazioni quindi capirai... Senza nulla a togliere alle tante canzoni in gara, il ’fattore Povia’, che mi tiene fuori dal festival da quasi 15 anni, non dipende dalla canzone brutta o bella, anche se è più facile far pensare questo», è lo sfogo del cantante. «Sono scelte e le rispetto… Magari ci riprovo il prossimo anno», conclude Povia sorridendo. L’ultima volta che Povia è stato al festival, dopo averlo vinto nel 2006 con ’Vorrei avere il becco’, è stato nel 2009 con il controverso brano ’Luca era gay’.

Da open.online il 20 giugno 2023.  

L’amministrazione comunale valuta di querelare il cantante dopo il video pubblicato sul suo profilo Facebook. A rinunciare alla sua esibizione sarebbero stati i commercianti che lo avevano ingaggiato, dopo le durissime polemiche sui social 

Rischia di finire in tribunale la polemica tra Povia e il Comune di Sulmona, dopo che il concerto del cantante previsto per il prossimo 6 luglio è stato annullato. Una decisione presa dai commercianti che avevano ingaggiato l’artista dopo le durissime polemiche scoppiate sui social e le contestazioni nei confronti del cantante per le sue posizioni espresse in passato sul Covid e la comunità Lgbtq.

Povia però è convinto che sia stata l’amministrazione comunale ad annullare la sua esibizione, parla di un fantomatico «sistema ideologico imposto», e sul suo profilo Facebook lancia una serie di accuse: «Il Comune crede che possa succedere qualcosa per motivi di ordine pubblico e ti annulla il concerto – tuona il cantante nel video pubblicato sul suo profilo – Io canto e non ammazzo la gente. Se l’istituzione si prende paura del nulla e si fa intimidire da quattro critiche, non solo gliela dà vinta a questi quattro beoti ma subisce quell’atteggiamento comunque mafioso perché per paura viene portato ad annullare l’evento. 

Se è così un’istituzione, parlo in generale, deve cambiare mestiere». Da parte sua il Comune di Sulmona non esclude di querelare il cantante per diffamazione dopo le accuse lanciate nel video.  

(...)

Pupi Avati: «Ogni sera leggo la lista dei miei 250 amici morti. I miracoli accadono e la mia vita lo dimostra». Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 29 ottobre 2023.

Pupi Avati, «L’orto americano», il suo nuovo romanzo che diventerà un film, si apre con una scena agghiacciante: il protagonista scava giustappunto nel suo orto e trova una vagina chiusa in un barattolo. È una storia onirica, tra il giallo e l’horror. Del resto uno tra i suoi primi film di successo, «La casa dalle finestre che ridono», era un horror. E poi Zeder, L’arcano incantatore, Il signor diavolo… Perché? «Perché sono cresciuto in un mondo magico. Durante la guerra sfollammo in campagna, a Sasso Marconi: i bombardamenti su Bologna parevano fuochi d’artificio».

«L’infanzia è il tempo del brivido. Non solo la guerra; la favola contadina, il fascino della religione preconciliare. Nei miei horror, e anche nel romanzo, c’è sempre un prete. Rigorosamente in tonaca nera. Oggi i preti sembrano assistenti sociali».

Non le piace Papa Francesco? «Posso essere sincero? Non tanto. Se il giorno dell’attacco di Putin fosse andato sul confine ucraino forse avrebbe fermato la guerra, come San Leone Magno con Attila».

Ma dai, cosa poteva fare il Papa? «Se credi in Dio, devi credere nell’onnipotenza di cui lo Spirito Santo ti ha perfuso. I sacerdoti non parlano più della vita e della morte, del peccato e dell’oltretomba. Un tempo erano loro ad accompagnarti di là, ed erano i depositari dei segreti inconfessabili del morente. Quasi tutti avrebbero ancora bisogno di preti così: il proselitismo laico se lo possono permettere solo i ricchi».

Cosa ricorda della guerra? «Avevamo il comando nazista dall’altra parte della parete di casa. Per evitare che ci requisissero la Topolino, la seppellimmo nell’orto. Una ragazza che andava con i tedeschi, la Cocchina, fece la spia. I soldati tirarono su la Topolino di peso».

Sasso Marconi è a otto chilometri da Marzabotto. «Non vivemmo il massacro, ma ricordo le notti nei rifugi a Bologna. Le sirene, la fuga; i rosari a raffica, il palazzo che trema tutto; il biancore dell’aria piena di fumo, le urla delle donne che riconoscono i morti».

Che ricordo ha del fascismo? «Atroce. La sopraffazione, la paura. Tutti temevano tutti. E la guerra è la peggiore esperienza che possa vivere un essere umano».

L’Italia del dopoguerra com’era? «Impresentabile e felice. A casa ho la foto di classe delle medie: siamo in 35, uno più brutto dell’altro. Sembriamo la famiglia Addams. Non si capisce neppure che stagione fosse: questo aveva cappotto e cappello, quello era in canottiera… Eppure non ce n’è uno che non sorrida. Anche perché per molti era la prima foto che facevano in vita loro. Ognuno coltivava il proprio sogno individuale, e attendeva cose straordinarie».

Lei cosa votava? «Dc. Poi mi sono innamorato di Berlusconi. Era come Fellini: quando stavi con lui, ti faceva sentire la persona più importante del mondo. Fin quando è stato Berlusconi, mi è sempre piaciuto moltissimo».

Da quando non era più Berlusconi? «Da un po’ di anni. Mi torna in mente una serata sulla terrazza di Laura Betti. Erano tutti comunisti. Quando dissi che ero democristiano, incrociai lo sguardo di Moravia, carico di disprezzo. Capii che non mi avrebbero mai più invitato».

Ha pagato un prezzo per non essere di sinistra? «Ma no! È quello che vogliono sempre farmi dire; ma non è vero. Ho fatto tutti i film che volevo: il cassetto è vuoto. Sono riuscito pure a fare il film su Dante, e ora a portarlo in Giappone».

Nel film lei fa dire a Boccaccio: «Dante sapeva il vero nome di tutte le stelle…». «Quella frase è mia, sa? Certo, non sono considerato dalle persone che piacciono. L’amichetteria, come la chiama Fulvio Abbate».

Com’è la Meloni? «L’ho votata perché so che non vuole essere ricordata solo come la prima donna premier, ma a qualunque costo vorrà riuscire nell’impresa fallita da tanti predecessori. Anche se mi ero illuso che privilegiasse la competenza all’appartenenza. Ho proposto un comitato di artisti, disinteressati alla poltrona, per fare di RaiTre la rete culturale, senza pubblicità. Non mi hanno preso sul serio».

E la Schlein? «Non mi riconosco in lei, ma vedo nei suoi confronti un accanimento eccessivo».

Qual è il suo primo ricordo? «I litigi tra mamma e papà. Erano molto diversi. Lui era un uomo bello, spiritoso, colto, che aveva sposato la sua dattilografa. La famiglia di papà era borghese e monarchica, quella di mamma contadina e socialista».

È vero che suo padre era di origine calabrese? «Ci raccontava di discendere da un aristocratico, Pio Avati. Non era vero. Ho speso due milioni di lire per ricostruire l’albero genealogico, e in effetti ho trovato un Pio Avati: accattone e omicida».

Lei rimase orfano a dodici anni. «Mia madre era ossessionata dalla poesia di Pascoli, La cavallina storna: quando la ascoltava, piangeva. Noi gliela recitavamo per dispetto, e lei fuggiva tappandosi le orecchie. Mio padre morì in macchina a Santarcangelo di Romagna, nella stessa curva, nello stesso giorno — 10 agosto —, alla stessa ora in cui era stato assassinato il padre di Pascoli. Nell’incidente morì anche mia nonna materna. Ci stavano raggiungendo a Rimini per festeggiare il ferragosto».

Come fece sua madre a mantenere la famiglia? «Fu un miracolo. E la premessa affinché i miracoli possano accadere è crederci. Vendevo surgelati…».

Quali? « Bastoncini Findus, sogliola limanda, piselli primavera. Vidi 8 e mezzo di Fellini e decisi di fare cinema. Lo annunciai alla mamma, che aveva sempre sognato di fare l’attrice, ma non me l’aveva mai detto. Lei andò in cartoleria, comprò un grande quaderno e ci scrisse sopra: I film di Pupi. Poi disse: ci serve una sede a Roma. Così affittò una pensione, piena di studenti americani. Mamma rispondeva al telefono, se chiamava un produttore rispondeva: “Pupi è appena uscito”. Ma io stavo a Bologna a vendere surgelati».

Come furono gli esordi? «Un disastro. Eravamo in cinque: io, un antennista, un fruttivendolo, un amministratore di condomini, un custode del museo del cinema di Bologna. Dilapidammo oltre duecento milioni del nostro mecenate, che si faceva chiamare Mister X».

Chi era? «Carmine Domenico Rizzo, costruttore edile, primo contribuente dell’Emilia Romagna. Anche se era calabrese, per davvero. Era un tempo in cui per racimolare i soldi si chiedeva agli esercenti dei cinema di sottoscrivere cambiali, poi si scontavano alla Bnl, e con i proventi del film si rimborsavano. Gli esercenti erano i tuoi soci. Oggi il titolare di una multisala non sa neppure quali film proietta. Le multisala sono la rovina del cinema».

Ci sono le serie tv. «Difficilmente diventano cinema. Sono per lo più speculazioni commerciali di dilatazione del racconto».

Lei suonava il jazz. «Smisi quando nel gruppo entrò Lucio Dalla: era troppo più bravo di me».

È vero che per invidia voleva buttarlo giù dalla Sagrada Familia? «Ma no! Me le sono inventato. Metà della mia vita è frutto di invenzione».

Ai lettori del però non si possono dire bugie… Il successo arrivò già nel 1975: «La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone». «Un altro miracolo. Propongo il film a Paolo Villaggio, che accetta. Ma il produttore, Giovanni Bertolucci, il cugino di Bernardo, non si fida: “Villaggio dice sempre di sì a tutti e non mantiene mai!”».

Era vero? «Paolo era cattivo e inaffidabile, ma di un’intelligenza superiore. Fatto sta che il produttore vuole una prova: la firma di Villaggio su ogni pagina del copione. Comincio l’inseguimento a Paolo attraverso cabaret, teatri, circoli del tennis».

E il miracolo? «Mi telefona Ugo Tognazzi. Era l’attore del momento, aveva già fatto Amici miei, era il numero uno al botteghino. Ma, con umiltà incredibile, mi chiede: “Lei pensa che io sarei adatto a questo film?”. Poi mi invita a cena a casa sua, a Torvaianica».

E lei? «Mi precipito, con mia moglie. Tognazzi mi accoglie e subito mi racconta che la sera prima ha fatto cilecca con una donna. Quella sua intimità nell’insuccesso fece sì che dopo un minuto eravamo già amici. Lo siamo rimasti per tutta la vita. Alla fine quel film lo fecero sia Tognazzi sia Villaggio».

Tra i suoi primi sceneggiatori ci fu Maurizio Costanzo. «Talento straordinario. Allora lavorava alla radio. Si inventò Bontà loro ma era terrorizzato dal video, per farsi coraggio prendeva due optalidon e un caffè. Quando uscirono le liste della P2 provò a negare e si nascose in un residence di via Po. Andai a trovarlo e lo convinsi a chiamare Pansa e a raccontare la verità. Ripartì da una tv privata in Sardegna».

È vero che lei fu invece tra gli sceneggiatori di «Salò o le 120 giornate di Sodoma», l’ultimo film di Pasolini? «Sì, ma non gli piacque. Così andai a trovarlo a casa, in via Eufrate 9, all’Eur. Mi aprì, gli chiesi se fosse vero che la sceneggiatura non gli era piaciuta, e lui rispose impietoso: sì. Gli raccontai che anch’io, come suo padre, ero di Bologna. Mi fece entrare, fu carinissimo. Cominciammo a riscrivere il film, insieme con Citti, che doveva essere il regista. Noi discutevamo di violenze e coprofagia, e ogni tanto si affacciava Susanna, la mamma di Pierpaolo, per chiederci se le melanzane le volevamo fritte o con il pomodoro. Capii che “Salò” per lui sarebbe stato il film definitivo, con cui si affacciava sul baratro dell’orrore. E andava oltre. Salò era per Pasolini quello che fu il Requiem per Mozart».

Com’era come persona? «Io conoscevo il Pasolini diurno: solare, allegro, leggero. Parlavamo di calcio, io milanista, lui del Bologna. Ma il Pasolini notturno non lo conoscevo. Mi invitò alla prima de “Il fiore delle mille e una notte” e mi fece sedere accanto alla madre. Susanna sussurrò “speriamo che sia bello”, poi mi prese la mano e me la tenne stretta per tutto il film, alla fine ci abbracciammo piangendo: “È stato bravo Pierpaolo?”, “sì, è stato bravo”. Questo affidarmi la madre, come la Madonna a San Giovanni, fu la cosa più bella che Pasolini potesse farmi».

Lei ha lavorato anche con Christian De Sica. «Era un bambino, più che recitare cantava. Con il fratello Manuel componeva la coppia comica più straordinaria che abbia visto; incredibile che non abbiano mai lavorato insieme. Giovanna Ralli mi portò da Carlo Ponti, il produttore, che mi offrì 60 milioni per fare due film, uno con Christian e l’altro con Luca De Filippo. Figli d’arte. Rifiutai».

È vero che per voleva Lino Banfi come protagonista? «È vero. Lo portai a cena, divorò un vassoio di ostriche, e mi disse di no: voleva fare Il commissario Logatto con Dino Risi. Cominciai a sfogliare un album di foto, vidi Abatantuono, e pensai: è lui. Diego aveva lasciato il cinema, gestiva un night a Rimini, il Lady Godiva. Gli ho cambiato la vita. È bello dare felicità. Quando ho telefonato a Edwige Fenech a Lisbona per proporle un film si è messa a piangere per la gioia: erano sette anni che nessuno le proponeva un film».

Fellini com’era? «Parlava solo di soldi, di tutti quelli che l’avevano imbrogliato. Aveva un fratello, Riccardo, che voleva fare pure lui il regista, ma Federico gli impose di cambiare cognome; Riccardo rifiutò. Quando morì, Fellini soffrì molto, si sentiva in colpa. Per mia fortuna con mio fratello Antonio ho un rapporto bellissimo, gli devo molto».

Lei è sposato da sempre con la stessa donna, Amelia, detta Nicola come il nonno. « La vidi per la prima volta con il suo fidanzato di allora, un conte. La conquistai per sfinimento. Con le belle donne devi fare così; e lei era bellissima. In una coppia c’è sempre uno che ama di più; e quello ero e sono io. Sentivo che quella ragazza era la tessera mancante del puzzle della mia vita, e non avrei mai potuto trovarne un’altra. Una sera uscimmo, era il 18 settembre, mancavano cinque minuti a mezzanotte, le dissi: tra poco compio gli anni, sono solo al mondo, me lo dai un bacio? Me lo diede».

Un bellissimo regalo di compleanno. «In realtà compio gli anni il 3 novembre. Ora con mia moglie non ci abbracciamo più, dormiamo in camere separate. Il tempo porta il pudore. Ma non siamo soli. A volte la guardo e la trovo identica a sessant’anni fa. La cosa mi emoziona molto».

Come immagina l’aldilà? «Non so immaginare la mia assenza, un mondo senza di me. Penso al dolore che proveranno i miei figli, Tommaso, Alvise, ma in particolare Maria Antonia: tra padre e figlia c’è sempre una corsia preferenziale».

Lei che rapporto aveva con sua madre? «Non ho mai accettato la sua morte. Facevo le prove, passavo sotto la sua finestra quando sapevo che non era in casa — mia mamma si affacciava sempre alla finestra quando passavo —, ma non è servito a nulla. Ancora adesso mi sorprendo a pensare: devo chiedere consiglio alla mamma».

Il protagonista del romanzo porta sempre con sé le foto dei suoi morti. A lei è mai arrivato un segnale dall’aldilà? «Mai. Però con i miei morti parlo. Sul computer ho una lista di 250 nomi di persone care che mi hanno lasciato: la sera li leggo tutti, li evoco, e li sento venire per aiutarmi a superare le mie angosce. Ora ho aggiunto Burt Young e Sergio Staino. Ho suggerito lo stesso metodo a Francesca Fagnani — sono amico suo e di Enrico Mentana —, e la sera dopo mi ha chiamato: “Lo sai Pupi che funziona?” Noi siamo debitori verso coloro che ci hanno preceduto. Invece abbiamo cancellato il passato, la memoria. Un tempo in questi giorni si andava al cimitero e si lasciavano i fiori a tutti. Oggi chi lo fa ancora?».

In Zeder lei immagina un cimitero dove i corpi rinascono. Un anno dopo Stephen King pubblicò un romanzo, “Pet Sematary”, basato sulla stessa idea. «Fu certo un caso. A me l’intuizione venne dopo che a mia suocera parve di aver rivisto il suo cocker, che era morto».

Quando si diventa vecchi? «Quando via via ti dicono che se ne sono andate le ragazze della tua vita. La vecchiaia è dura. Il corpo recalcitra e non ti obbedisce più. Ti assale il rimorso per quello che non hai fatto, per i libri che non hai letto, per le persone che non hai incontrato».

Lei però ha fede. «La mia fede si fonda su una frase di Jung trovata nella sua casa di Basilea: “Vocatus atque non vocatus Deus aderit”; che lo invochi o no, Dio è qui. Ne ho fatto delle ceramiche da mettere nelle case di campagna dei miei amici laici. La mia Costituzione ha quasi duemila anni ed è infinitamente meglio di quella del 1948. Articolo uno: gli ultimi saranno i primi».

Ma dall’altra parte cosa c’è? «Spero ancora in un ultimo miracolo, confido che possa accadere qualcosa per cui io capisca il senso della mia vita. Di sicuro ci sono più cose tra cielo e terra di quelle che vediamo, e anche di quelle che immaginiamo».

Dopo questa intervista diranno che, se lei non è bugiardo, è matto. «Le persone creative, un po’ folli, ci sono indispensabili. Sono coloro che dilatano la ragione, per le quali nulla è impossibile e tutto si può realizzare. Ringrazio mia madre per averci educato all’impensabile».

Quadri, produzioni e banche. Pupi Avati: "Giro ancora film perché non mi sono arricchito". Il regista bolognese parla a IlGiornale.it del suo rapporto con il denaro e di come il cinema stia in piedi grazie a un'economia a sé. Nico Spuntoni il 5 Maggio 2023 su Il Giornale.

Si chiama Giuseppe, ma nel pantheon del cinema italiano è entrato col nome con cui tutti lo chiamano da sempre: Pupi. Stiamo parlando di Pupi Avati, uno dei più prolifici registi del Belpaese che ha girato film rimasti nell’immaginario collettivo come “Regalo di Natale” o “Il papà di Giovanna”. Che si apprezzi o meno il suo cinema, il regista bolognese è uno dei pochi contemporanei capace di dare un marchio di fabbrica al suo lavoro dietro la cinepresa: un film “alla Pupi Avati”, infatti, è un film riconoscibile, con caratteristiche precise. È anche uno dei pochi – se non l’unico – ad aver sperimentato la doppia veste di regista e produttore, insieme al fratello Antonio e per questo conosce bene rischi ed opportunità economiche del mondo del cinema.

Che rapporto ha con i soldi?

"E’ molto importante il rapporto di un autore con il denaro, specialmente per chi come me ha scelto di diventare produttore di sé stesso. Quando sono in fase di sceneggiatura e scrivo, ad esempio, “2000 cavalieri scendono dalla collina”, subito mi scatta la lucetta rossa dei costi e così riduco a “70 cavalieri”. Da produttore/regista sto sempre attento a rientrare nel mio budget perché nel cinema non c’è nulla di creativo che non sia transitato attraverso un condizionamento finanziario e attraverso una quantificazione dei costi. Ecco perché mettersi in proprio significa affrancarsi da molti condizionamenti, potendo godere di una libertà espressiva, creativa e produttiva anche se in cambio di un ridimensionamento dei costi."

C’è una frase o un episodio della sua infanzia che hanno segnato il suo approccio con il denaro?

"La mia famiglia era abbiente: mio padre era un collezionista di quadri ed aveva una delle gallerie più prestigiose d’Italia. Ma morì giovane, a 42 anni, in un incidente stradale. Mia madre si trovò da sola con tre figli e per andare avanti dovette cominciare a staccare i quadri. Mi ricordo noi bambini che la accompagnavamo a Firenze o a Bologna a portare questi quadri avvolti nel plaid ai mercanti. Li sottopagavano, approfittando di una vedova che non ci capiva molto. Avevamo firme importantissime e il ricavato ci bastò per andare avanti. Quindi ricordo questa scena di mia madre che andava a vendere – anzi, svendere – i quadri di nostro padre e poi ci portava tutti in trattoria."

Il denaro è sinonimo di successo?

"In generale il cinema ha col denaro un rapporto molto complicato. In cinquantasei anni di carriera posso dire di aver individuato una costante: i miei film a basso costo sono andati sempre meglio di quelli ad alto costo. Ad esempio “Regalo di Natale” ebbe un costo minimale e lo girammo proprio per recuperare un film che era andato male, “Festa di laurea”. Poi io e mio fratello siamo noti nell’ambiente cinematografico perché non ricorriamo a cast di moda, ma cerchiamo di reinventare attori lontani dalle scene da un po’. Ad esempio, nel mio nuovo film in uscita il 4 maggio, “La quattordicesima domenica del tempo ordinario”, abbiamo scommesso su Edwige Fenech che per la prima volta reciterà in un ruolo drammatico."

Ha fatto investimenti in passato che non rifarebbe?

"Ho girato e prodotto un film, “I cavalieri che fecero l'impresa”, che è costato quindici miliardi ed è andato malissimo. Da lì si è aperta una voragine perché quindici miliardi sono una cifra importante. C’è stata una stagione nell’economia occidentale, in particolare italiana, in cui le banche erano propense a supportarti in qualsiasi tipo di impresa. In un periodo degli anni ‘90 lavoravamo con diciassette banche che ci avevano aperto dei fidi, poi ad inizio del nuovo millennio è cominciata la necessità di rientrare. Ma come fai? Il cinema vive di un’economia tutta sua: quando vanno male i film perdi tantissimo, quando vanno bene non guadagni quasi nulla perché ti caricano spese. A meno che non fai cinepanettoni o i film di Checco Zalone che fanno incassi stratosferici."

Qual è stato il suo investimento più azzeccato?

"Girare e produrre quello che è stato il film più economico del 1976, “La casa dalle finestre che ridono”. Io e mio fratello eravamo disperati perché avevamo fatto un film molto costoso, “Bordella”, costato 500 milioni e che era stato sequestrato per oscenità. Avevamo perso la possibilità di incassare, quindi decidemmo di costituire questa società e fare un piccolo horror. Spendemmo 150 milioni di lire per 12 persone in totale, compresi gli attori. Quell’horror è stato un così grande successo che ancora oggi, quando presenzio alle conferenze, i ragazzi mi chiedono di autografare il dvd. Noi poi abbiamo ceduto i diritti, non abbiamo lucrato ma le società che li hanno comprati hanno continuato e continuano a guadagnarci ancora oggi. Un film così è come un grande palazzo con tanti appartamenti in affitto e tutti gli anni puoi andare lì a riscuotere gli affitti, senza fare nulla."

Ha mai la sensazione di non avere abbastanza soldi?

"La scelta di un’indipendenza culturale e produttiva a livello economico-finanziario è stata un bagno di sangue. Ho vissuto la libertà di raccontare le storie che volevo tutte le volte, quindi non ho frustrazioni. Tuttavia, a 84 anni e in una fase pre-conclusiva della mia carriera posso dire di non aver maturato quelle risorse che mi consentono di sedermi, riposarmi e godermi ciò che ho fatto. Devo continuare a lavorare ed essere assillato dai problemi. Ma forse è anche un bene perché questo tiene la mia mente e il mio cervello in attività."

Tarantino: “Ero un piccolo etologo che osservava gli adulti nel loro habitat naturale”. Da lastampa.it l’8 aprile 2023.

Quentin Tarantino domani alle 18 sarà alla Libreria Mondadori Duomo di Milano per un’anteprima de La Milanesiana 2023, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi. Il regista presenterà il nuovo libro Cinema Speculation in conversazione con Antonio Monda. Stasera sarà protagonista di una serata al Teatro Grande di Brescia, sempre incentrata sul libro, edito da La Nave di Teseo, di cui qui di seguito pubblichiamo un brano.

All’epoca i miei giovani genitori andavano spesso al cinema e di solito mi portavano con loro. Avrebbero potuto piazzarmi da qualche parte (mia nonna Dorothy era quasi sempre disponibile), ma invece mi portavano con loro. Un motivo era perché sapevo tenere la bocca chiusa. 

Di giorno mi era consentito essere un bambino normale che faceva domande stupide ed era infantile, noioso ed egoista come di solito sono i bambini. Ma se la sera mi portavano al ristorante, in un pianobar dove suonava Curt, in un locale notturno (cosa che ogni tanto succedeva) o al cinema – a volte addirittura con un’altra coppia – sapevo che erano cose da grandi. E se volevo partecipare alle cose da grandi, era meglio che non rompessi troppo i coglioni.

In pratica dovevo evitare di fare domande cretine e capire che non ero il centro dell’attenzione. Gli adulti uscivano per parlare, ridere e scherzare. Il mio compito era starmene zitto e non interromperli in modo infantile. E sapevo che a nessuno importava molto dei miei commenti sul film o sulla serata (a meno che non fossero carini). Non è che se avessi infranto la regola poi sarei stato trattato male. Ma ero incoraggiato a essere educato e a comportarmi in modo maturo.

 Perché se avessi fatto il bambino rompicoglioni, la volta dopo sarei rimasto a casa con una babysitter, mentre loro uscivano a spassarsela. E io non volevo stare a casa! Volevo uscire con loro! Fare cose da grandi! In un certo senso ero un piccolo etologo che, anziché i grizzly, osservava gli adulti di notte, nel loro habitat naturale. Era nel mio interesse tenere la bocca chiusa e gli occhi e le orecchie ben aperti.

Erano queste le cose che facevano gli adulti quando erano da soli.

 Era così che socializzavano.

 Era di questo che parlavano tra di loro.

 Era questa la roba che gli piaceva fare.

 Era questa la roba che li faceva ridere.

 Non so se fosse intenzione di mia madre, ma mi stavano insegnando come si comportavano gli adulti. E quando mi portavano al cinema, il mio compito era stare seduto e vedere il film, che mi piacesse o no.

Be’, alcuni di questi film da adulti erano pazzeschi! M.A.S.H., la Trilogia del dollaro di Sergio Leone, Dove osano le aquile, Il padrino, Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, Il braccio violento della legge, Il gufo e la gattina e Bullitt. Altri, per un bambino di otto o nove anni, erano un rompimento di marroni assurdo: Conoscenza carnale, La volpe, Isadora, Domenica, maledetta domenica, Una squillo per l’ispettore Klute, La ragazza di Tony, L’amante perduta, Diario di una casalinga inquieta...

Comunque sapevo che, mentre guardavano il film, a nessuno importava se mi stessi divertendo.

 Sono sicuro che abbastanza presto mi deve essere scappato qualcosa come: «Ehi, mamma, che barba!» E sono sicuro che la risposta fu: «Senti, Quentin, se fai il rompipalle quando ti portiamo fuori la sera, la prossima volta te ne stai con la babysitter a vedere la tele, mentre io e papà andiamo a divertirci. Decidi tu». Decisi che volevo uscire con loro.

 La seconda regola era: non fare domande stupide durante il film.

Un paio di domande, all’inizio, mi erano concesse, ma poi erano cavoli miei. Ogni altra domanda era rimandata alla fine. Di solito riuscivo a rispettare la regola, ma c’erano delle eccezioni. Mia madre raccontava sempre alle amiche la volta in cui mi avevano portato a vedere Conoscenza carnale. Art Garfunkel vuole convincere Candice Bergen ad andare a letto con lui. E si scambiano una serie di battute tipo: «E dai, facciamolo». «Non ne ho voglia». «Ma mi hai promesso che l’avremmo fatto». «Ti dico che non ne ho voglia». «Ma lo fanno tutti!». A quanto pare, con la mia vocina stridula da novenne, chiesi ad alta voce: «Ma cosa vogliono fare, mamma?». Il che, secondo mia madre, fece scoppiare a ridere tutti gli adulti presenti in sala.

Di fronte al celebre fermo immagine alla fine di Butch Cassidy rimasi perplesso. Ricordo che chiesi: «Che cosa è successo?». «Sono morti» mi spiegò mia madre. «Morti?» esclamai. «Sì, Quentin, sono morti» mi assicurò. «E come fai a saperlo?» chiesi astutamente. «Perché quando si blocca l’immagine, vuol dire questo» rispose pazientemente. «E come fai a saperlo?» ripetei. «Lo so e basta» mi rispose in modo insoddisfacente. «Perché non l’hanno fatto vedere?» chiesi quasi indignato. A questo punto mia madre perse la pazienza e scattò: «Perché non volevano!». «Però avrebbero dovuto farlo vedere» borbottai sotto voce. E malgrado quell’immagine sia diventata così celebre, non ho cambiato idea.

Comunque, di solito sapevo che mentre mamma e papà guardavano il film non era il momento di bombardarli di domande. Sapevo che stavo vedendo dei film da grandi e che certe cose erano fuori dalla mia portata. E se non capivo che nella Volpe Sandy Dennis e Anne Heywood avevano una relazione omosessuale, poco male. Quello che importava è che i miei genitori si divertissero e io stessi con loro quando uscivano la sera. Il momento delle domande arrivava dopo la fine del film, quando stavamo tornando a casa.

Quando un bambino legge un libro da adulti, è inevitabile che ci siano parole che non capisce. Ma a seconda del contesto e delle frasi che sono attorno, a volte arriva a capirle da solo. Lo stesso succede quando un bambino vede un film da adulti. Ovviamente, ci sono cose che non capisci e che i tuoi genitori vogliono che tu non capisca. Ma ce n’erano altre di cui, anche se mi sfuggiva il significato preciso, coglievo comunque il senso generale.

 Soprattutto le battute che facevano ridere gli adulti. Cazzo se era eccitante essere l’unico bambino in un cinema pieno di adulti, vedere un film da adulti e sentire che tutti ridevano per una battuta che di solito sapevo essere sporca. E a volte, anche quando non la capivo, ci arrivavo lo stesso.

Al tempo stesso, nel modo in cui gli adulti reagivano ai film che ho appena citato, c’era qualcosa che all’epoca non avrei saputo individuare, ma che capisco adesso. Se i bambini vedono un film dove ci sono parolacce usate in modo comico e gag su cacca e scoregge, di solito ridacchiano.

 Quando sono un po’ più grandi, sono le battute sul sesso a farli ridere. Ma la loro è una risata al tempo stesso maliziosa e spavalda. Sanno che sono cose che forse sarebbe meglio non vedessero e non sentissero. E il tipo di risata rivela la consapevolezza della trasgressione. Bene, all’inizio degli Anni 70 era così che gli spettatori adulti reagivano alla comicità a sfondo sessuale (... ) le risate avevano la stessa sfumatura colpevole.

Quentin Tarantino. C'era una volta il cinema americano. Stefano Giani il 22 Marzo 2023 su IlGiornale.

Il regista due volte premio Oscar racconta gli autori e i film che lo hanno formato

C'era una volta un bambino che s'innamorò del cinema. Lunedì quell'ormai ex bimbetto compirà sessant'anni e, guardandosi indietro, quando le gambine arrivavano a fatica alla fine della poltrona di certe sale di Los Angeles, ricorda che, da quei locali appesantiti dal fumo e da due spettacoli per un pugno di dollari, era partita la scalata ai due Oscar ora a bella posta in casa sua. Visto che non ama farlo pubblicamente, ha deciso di raccontarsi a modo suo. Scrivendo. La sua vita come la sceneggiatura di un film. Ma soprattutto come una lunga storia iniziata nei drive in di L.A. per mano alla mamma.

Perché Connie, come la chiama lui, il suo piccolo se lo portava tranquillamente in Sunset Boulevard e al Tiffany gli propinava La guerra del cittadino Joe e Senza un filo di classe. Tra razzismo di due americani medi e spregiudicatezza di due fidanzati che parcheggiano la madre in ospizio per fuggire insieme. Non proprio il massimo per educare un bambino di sette anni. Era il 1970 e quel bambino si chiamava Quentin Tarantino.

Cinema speculation (La nave di Teseo) è il suo racconto di una vita attraverso i titoli e le persone con cui ha condiviso le emozioni di una sala buia. Con il valore aggiunto di una narrazione - tutt'altro che paludata anzi spesso irriverente - infarcita dai ritratti di tanti personaggi tratteggiati da uno che con loro ha stretto contatti diretti. L'appuntamento è un evento speciale nell'ambito della Milanesiana, in cui il 7 aprile il regista di tanti capolavori dialogherà con Antonio Monda alle 18 in Mondadori.

All'Italia Tarantino è legato profondamente, non solo per quelle origini che gli vengono per parte del padre che non ha mai conosciuto, ma anche per ragioni culturali e cinematografiche. Tanti film e personaggi che hanno contribuito alla sua formazione come Sergio Corbucci ed Enzo Castellari, citati anche direttamente in C'era una volta a Hollywood e Bastardi senza gloria.

Le pagine di Cinema speculation sono però molto più americane del loro stesso autore e quello che emerge è un ritratto della Mecca losangelina nel passaggio tra vecchia e nuova Hollywood. Tra la generazione di autori classici e i cosiddetti «movie brats», i ragazzacci rampanti che non ne volevano sapere dell'impolverato manierismo di un cinema da dimenticare. E gli anni Cinquanta sono demonizzati dallo stesso Tarantino che si mostra decisamente più benevolo con i film degli anni Sessanta anche se qualcuno non gli andò giù. Bambi, tanto per buttare un titolo. E non solo.

«Easy rider aveva uno slogan fantastico, peccato che non rispondeva alla verità». Quelle parole - «Un uomo andò alla ricerca dell'America e non la trovò» - erano il quadro di una generazione iconoclasta più che la sintesi di una trama. Il film entrò nella storia del cinema dove è tuttora un simulacro di eccellenza e modernità ma il suo autore, Dennis Hopper, si guadagnò l'odio dei più giovani e il distacco di chi come Peter Bogdanovich fu testimone dello scontro generazionale.

Violenza verbale che oggi farebbe ridere ma allora fu una sassata. E a raccontarlo furono l'allibito regista e gentile consorte che, a cena con George Cukor al ristorante, assistettero al delirio di onnipotenza di Hopper che apostrofò l'anziano collega con un «Vi seppelliremo tutti» in cui si sintetizzava l'acerrimo scontro dei ragazzi antisistema come lui verso i «babbioni» che non si rassegnavano alla pensione.

La schiera dei John Ford, John Wayne, Charlton Heston, Howard Hawks erano finiti nel mirino dei contestatori Robert Altman, Hal Ashby, Sam Peckinpah, Arthur Penn, Paul Mazursky. Ogni epoca insomma vede una sfida tra chi ha fatto la storia e chi invece vuole farla. La differenza è che quei ragazzacci non erano nati nell'industria ma erano cinefili che davano al pubblico quel che il pubblico voleva vedere. I modelli erano Fellini, Truffaut e Renoir o almeno lo spirito dei loro film come Il mondo di Alex che è una parafrasi di Otto e mezzo.

Era nata l'era dei remake ma gli eroi non erano più gli stessi. Billy the kid non era il sorridente cowboy di King Vidor e Custer non era più Errol Flynn. Come Wyatt Earp non era l'integerrimo sceriffo Burt Lancaster. Si cercavano cioè nel passato degli States le origini dei fantasmi di un presente ingombrante. E quando Arthur Penn e Robert Aldrich inquadravano il genocidio dei pellerossa, in realtà guardavano alle vite bruciate in Vietnam. Paralleli fuori dall'America difficilmente percepibili, ma Tarantino li spiega con attenzione e precisione.

La stessa cura meticolosa che mette nel puntare l'indice sui critici cinematografici. Non è tutto oro quel che luccica, insomma, anche se i promossi ci sono e hanno nomi e cognomi. Clint Eastwood, ad esempio, non proprio un ragazzino oggi. Ma al bambino che si sedeva al Tiffany per mano alla mamma appariva il profilo di un uomo che si stava riscattando dai western all'italiana per uscire dai confini. Ogni confine. Un po' come in fondo ha fatto Tarantino, ex ragazzo di bottega al videonoleggio di Manhattan Beach.

Estratto dell'articolo di Stefano Ghionni per “il Messaggero” il 12 marzo 2023.

«Pensavo che sarei diventato anch'io un gangster, da bambino mi passavano sempre davanti agli occhi grosse quantità di banconote, enormi casse di vini e liquori accatastati nei retrobottega e molte, molte armi». Parole dette alcuni anni fa da Quincy Jones. Ma per fortuna sua e soprattutto della black music, il destino aveva altri progetti per quello che sarebbe diventato il Re Mida delle sette note. […]

Ma Quincy Delight Jones Jr., che martedì 14 marzo compirà 90 anni (è nato a Chicago), è tanto altro. Nasce come musicista, come trombettista. Ma diventerà anche compositore, arrangiatore e direttore d'orchestra. E avrà anche un ruolo importante nell'impegno sociale. […] ha lavorato con i più grandi, da Ray Charles (suo amico d'infanzia con cui tutto ebbe inizio) a Sarah Vaughan, da Charles Aznavour a Jacques Brel. Ma ha lavorato anche con Lionel Hampton, Betty Carter, Dinah Washington, Dizzy Gillespie, Miles Davis.

 […] Ma a dargli l'eco internazionale è la collaborazione con Frank Sinatra. È il giugno del 1958 quando Jones riceve una telefonata dall'ufficio della Principessa Grace di Monaco in cui si spiegava che The Voice voleva che mettesse insieme un'orchestra per un concerto allo Sporting Club del Principato, con l'obiettivo di raccogliere soldi per i rifugiati. 

[…] I due si ritroveranno nel 1964, quando Sinatra lo chiama per chiedergli di arrangiare e dirigere una sessione in studio che stava facendo con Count Basie e la sua band. Nasce così It Might as Well Be Swing che contiene Fly Me to the Moon, voluta dall'aviatore Buzz Aldrin come colonna sonora del primo viaggio sulla luna degli astronauti dell'Apollo 11. Quincy considererà per sempre Sinatra come suo mentore: «Frank era il mio stile. Era alla moda, e soprattutto un musicista mostruoso», spiegherà nel 2001. I due lavoreranno ancora insieme nel 1966 (Sinatra At The Sands) e nel 1984 (L.A. Is My Lady).

A rendere la carriera di Quincy Jones più ricca sarà la sua collaborazione con il cinema. Per Hollywood vestirà i panni di compositore di colonne sonore di film di successo come A sangue freddo e Getaway, il rapinatore solitario. Tutto il mondo è ai suoi piedi e a corteggiarlo ecco un giovane Michael Jackson. Nel '79 ecco Off The Wall. Ma arriva nel 1982 il capolavoro della coppia: Thriller. Successo clamoroso. Anche questa volta, Quincy ha fatto centro. E come produttore tre anni dopo stupisce con We Are The world, brano scritto da Jackson e Lionel Richie e realizzato per raccogliere fondi per l'Etiopia.

Una canzone interpretata da un supergruppo composto da 45 artisti, come Harry Belafonte, Stevie Wonder, Cyndi Lauper, Bob Dylan, Bruce Springsteen, Billy Joel, Al Jarreau Tutti a disposizione di Quincy, che nella sua carriera si aggiudicherà 26 Grammy. I personaggi cui si sentirà più legato sono stati Charles e Sinatra: «Sono cresciuto con Ray e Frank, non ho avuto tanta scelta. Ci scolavamo sette Jack Daniel's doppi ogni ora. Quei due sapevano come divertirsi».

 Tra gli italiani che hanno lavorato con lui c'è Tullio De Piscopo, scelto alla batteria da Quincy per i brani Non preoccuparti e Adesso ricomincerei di Lara Saint Paul: «Ho un ricordo indelebile di quel giugno del 1973. Finimmo le registrazioni a Milano, negli studi della Poligram, a mezzanotte. Gli altri musicisti andarono via, io rimasi con lui che ordinò pizza e birra a volontà. Parlammo fino alle 5 del mattino e mi diede un grande insegnamento: di "stare sempre dentro al groove"».

Estratto dell’articolo di Totò Rizzo per leggo.it il 12 maggio 2023.

La mia casa, la chiama Raf. La sua casa è la musica, ovviamente. Ma è anche il titolo del tour che sta toccando i teatri di mezza Italia (domenica 14 sarà all’Auditorium Parco della Musica di Roma e lunedì 15 agli Arcimboldi di Milano), quello del nuovo album che esce ad inizio autunno preceduto da “80 voglia di te” (il singolo cantato live nello show, già sulle piattaforme streaming e dal 26 maggio in radio), della sua biografia per Mondadori nelle librerie. 

(…)

Il nuovo singolo è “80 voglia di te”: 80, un numero magico, gli anni da cui tutto partì.

«È un’assonanza di numeri, suoni, tempo. È lo stile della canzone che si rifà alla musica di quel decennio, tra disco e dance. È il riferimento a quel momento in cui è cambiata la mia vita: ero un ragazzo che suonava punk-rock e mi ritrovo catapultato in una popolarità inaspettata. Ma oltre alla mia, è cambiata anche la vita di tanti altri».

Un decennio epocale.

«Sì, di grandi mutamenti: geopolitici, di costume, tecnologici. In quegli anni tutti sognavamo un mondo diverso: stava per cadere il Muro di Berlino, l’economia marciava, c’erano i primi segnali di attenzione ai problemi dell’ambiente. C’era un clima di positività diffusa anche se molti la bollavano come edonismo, in senso dispregiativo. E invece si scopriva, dopo la pesantezza degli anni ‘70, quanto fosse importante dare valore anche alla leggerezza. Non è un caso che, ancora oggi, quegli anni facciano tendenza». 

Lei ha attraversato artisticamente quattro decenni come se avesse vissuto tante vite diverse. Dalla dance di “Self control” al ritmo tribale del “Battito animale”, dal techno-pop di “Ti pretendo” al brit di “Cosa resterà di questi anni ’80”, al pop tout court di “Gente di mare”. Un eterno curioso.

«Se un minimo comun denominatore c’è, nella musica che ho fatto, è d’aver portato tanti stili dentro il pop. Non ho mai amato seguire i cliché, non mi sono mai adagiato nella comfort zone che ti garantisce il consenso. Tra i miei album ce n’è uno, “La prova” in cui facevo rock. Attenzione, non il rock all’italiana, con rispetto parlando, di Vasco o di Ligabue, ma un rock bello tosto».

Qualche giovane che le piace?

«Madame e Blanco, ho molto apprezzato Lazza a Sanremo. Tra i non più giovanissimi, Marracash e mi è molto piaciuto l’ultimo disco di Guè».  

I talent?

«Sono un fenomeno più televisivo che musicale. Anche lì: nel numero qualcuno c’è, è emerso: ma sono convinto che Mengoni e i Måneskin, per esempio, ce l’avrebbero fatta lo stesso». 

Ha citato Sanremo: lei ne ha fatti 4 da interprete e vinto uno da autore (“Si può dare di più”, ndr.). Ci tornerebbe?

«In un festival che ha per obiettivo la musica sì. Sanremo aveva preso una brutta piega, aveva seguito troppo i talent e il loro meccanismo, fuori questo, eliminato quell’altro, ripescato quell’altro lì. Poi è arrivato Baglioni e da musicista ha fatto due festival molto musicali, fuori dagli schemi tv, senza che l’intrattenimento strabordasse. Anche Amadeus ha fatto degli ottimi festival ma l’ultimo mi è sembrato ammiccare troppo ai social».

Il signor Raffaele Riefoli, eterno ragazzo 63enne, marito de «la più bella del mondo» (Gabriella Labate, ndr.) e padre di Bianca e di Samuele, ormai adulti, chi è nel privato, nel quotidiano?

«Visto che li ha citati, le dirò che è stato, ed è, un marito e un papà abbastanza presente. Non ho mai mancato una recita scolastica dei miei figli e per farlo ho rinunciato senza rimpianti anche a tournée all’estero. Bianca ora è una media-manager ma i suoi interessi hanno spaziato dalla fotografia al cinema. Anzi, è stata anche regista di un mio video quasi a costo zero. Nel senso che, visto che si trattava del quarto singolo di un album e che il budget era quasi finito, mi ha detto: “Tranquillo, papà, lo giro io, anche se i soldi sono pochi”. Ci ha pure vinto un premio. Samuele per adesso fa scuola di cinema ma continua la sua ricerca musicale».

Una coppia d’acciaio quella con Gabriella, quasi trent’anni insieme. C’è una ricetta?

«Intanto la fortuna d’incontrarsi, poi quella di scegliersi ogni giorno, una frase che può sembrare un luogo comune ma che va messo alla prova dei piccoli fatti quotidiani. È anche la tenacia nel sopportarsi, beninteso. Ancora oggi non oso pensare cosa sarei senza Gabriella, sarei certamente un uomo imbranato».

(...)

Raf: «La mia Roma e quei rendez-vous memorabili con Corrado Guzzanti, Marco Marzocca e Lillo». Paola Medori su Il Corriere della Sera il 7 Maggio 2023

Il cantautore, in concerto all'Auditorium il 14 maggio, racconta la «sua» città, gli incontri, la sua vita divisa fra Miami e la Capitale   

«Vi accoglierò con l’energia della musica, le canzoni che sono tanti capitoli della mia vita e le emozioni di sempre». Raffaele Riefoli, in arte Raf, ripercorre sul palco il suo viaggio. Interprete di brani pop d’autore approderà con «La mia casa Tour» all'Auditorium, domenica 14 maggio. Nel live, oltre ai classici: da Self Control, che compie 40 anni, a Il battito animale fino a Ti pretendo, rivisitato con Guè, alcuni inediti e sorprese top secret. 

Il libro di memorie in uscita

«La mia casa, la nostra casa è il pianeta in cui viviamo, che stiamo tormentando», esordisce l’artista pugliese, nato a Margherita di Savoia nel 1959. Romano d’adozione si divide tra la Capitale e Miami, dove vive: «Amo la romanità, quell’umanità dei quartieri che le altre città se la sognano!».    La mia casa è un tour, un album (fuori in inverno) e un memoir scritto con Cosimo Damiano Damato, che uscirà il 9 maggio per Mondadori. «È uno scrigno che racchiude viaggi e luoghi. Poesie e amore. Palchi, hotel e la strada che mi ha portato a quello che sono oggi. Per la prima volta rivelo molto di me stesso, come nelle nuove canzoni. Un privato che da timido e riservato non mostro mai, soprattutto sui social».

Se non avesse fatto il cantante?

 «Avrei voluto fare il regista e lo sceneggiatore. Ho un’attitudine naturale a osservare le vite degli altri, riflettere sulle mie esperienze. Prendo spunto dai libri, dai film che traduco in canzoni. Come il mondo là fuori, sono cambiato. I brani scritti negli anni 80, 90 e 2000 sono diversi da quelli di oggi. La musica ha bisogno di essere leggera e impegnata». 

Lo sguardo è rivolto alla Terra?

«Sono preoccupato per il suo futuro. Non possiamo più sottovalutare problemi come il cambiamento climatico e credere di poter stare bene, pensando solo a noi stessi. Serve un impegno concreto, una maggiore sostenibilità. La Terra è messa a rischio, tra 30 anni sarà un posto invivibile». 

L’indole da ribelle?

«Sono diventato un vecchio signore borghese (ride!). Ero un contestatore. Una voce contro, anche se la mia natura resta sempre rivoluzionaria e punk non posso più essere così anarchico. Ho una visione più ampia della società».   

Nel libro racconta l’amicizia con Pino Daniele.

«Eravamo vicini di casa e ci piaceva girare in bici per le campagne a nord di Roma. Mi citofonava e diceva: “Andiamo?”. È successo solo quando gli orari erano gli stessi perché lui si svegliava presto, io no. Aveva problemi con la vista. Non metteva a fuoco e pedalavamo insieme. È stato un grande amico».  

Renato Zero? 

«Se è in vena, ti fa morire dal ridere. Una sera si parlava di cani, e poi si è presentato a casa con un bulldog francese per i miei figli, Bianca e Samuele. Berta, così l’ha voluta chiamare. Ha un grande cuore e una bontà incredibile. Quando mia moglie Gabriella (Labate, ndr) è stata ricoverata per più di un mese, al Gemelli, a causa di un problema di salute, Renato andava a trovarla due volte la settimana con una scatola di cioccolatini o fiori».  

E i rendez-vous con i comici romani… 

«Ho un gruppo storico di vecchi amici: Corrado Guzzanti, Marco Marzocca e Lillo. Ogni estate organizziamo serate memorabili. Tutti a tavola, a mangiare e bere. Mia moglie dice sempre che sono un comico mancato. Mi piace prendermi in giro, fare le imitazioni. L’ironia salva dall’inquietudine». 

Vive da anni tra Roma e Miami, in Florida. Trova la Capitale cambiata? 

«C’è troppo traffico che fa incavolare la gente. A Miami faccio la vita da pensionato. Vado al bar in pantaloncini e ciabatte, come quando ero nel mio paesino a Margherita di Savoia. Poi c’è il mare. Incontro qualche amico, c’è una nutrita comunità d'italiani. Ma dopo qualche mese mi manca Roma, la sua Storia, le incredibili architetture. La amo profondamente, all’inizio il caos e la caciara mi mettevano ansia. Poi sono entrato nella romanità». 

E cosa ha scoperto? 

«La generosità dei romani. Roma è fatta di rioni, quartieri che sono paesi dove la gente ha l’abitudine di aiutarti. Nonostante, negli ultimi anni, sia stata violentata dall’incursione di cosche mafiose è riuscita a conservare quell’umanità, che le altre città se la sognano».  

Due figli, Bianca, nata nel 1996 e Samuele nel 2000: 27 anni di matrimonio con sua moglie Gabriella Labate. Come siete riusciti a non disunirvi?

«Una storia d’amore è fatta di momenti. La passione e la magia iniziali nel tempo lasciano spazio a un altro tipo di legame. Io e Gabriella ci scegliamo ogni giorno. È importante capirlo. Se penso alla mia donna ideale, vedo sempre e solo lei. Poi bisogna accogliere anche la sopportazione. Il segreto è amare e sopportarsi». 

Suo figlio Samuele studia scuola di cinema a Roma; scrive, canta e produce musica. A quando un duetto? 

«Musicalmente viaggiamo su due linee parallele. Samuele fa un rap tendente al pop. Ai suoi esordi gli ho dato dei consigli, e abbiamo anche collaborato. Ora viaggia da solo. È appena uscito su Spotify il suo nuovo pezzo, TPMS (Tuo padre mi detesta). Un brano autobiografico che mi piace molto. È proprio figo».

Raf: «La malattia di mia moglie? Cinque anni tremendi ma ne siamo usciti rafforzati». Caterina Ruggi d'Aragona su Il Corriere della Sera il 15 Aprile 2023

Il cantante, in giro per l'Italia con «La mia casa tour», racconta gli anni Ottanta a Firenze, gli inizi musicali, l'amore e la famiglia: «Mio padre mi ha dato un’educazione siberiana. La musica ha bisogno anche di futilità»

«Finalmente, i teatri tornano a essere la mia casa. Accoglierò gli spettatori con nuove sonorità. E spero di arrivare nei cuori delle persone con le canzoni che hanno accompagnato la loro vita (come spesso mi confidano), svegliandone anche l’attenzione sulle problematiche sociali».

Raffaele Riefoli, per tutti Raf, è pronto per «La mia casa tour», che parte mercoledì 26 da Crema e arriva a Firenze, al Teatro Verdi, il 19 maggio. Un ritorno a casa, in un certo senso, perché Raffaele si trasferì a Firenze ad appena 17 anni per studiare all’Istituto d’Arte di Porta Romana e poi alla facoltà di Architettura.

Perché scelse Firenze?

«Volevo studiare arte: Firenze rappresentava la sede ideale, anche perché mi dava l’opportunità di incontrare ragazzi con cui condividevo la passione per la musica underground. Però la verità è che mi trasferii lì per inseguire una ragazza: quell’amore durò un anno o poco più, ma io rimasi a Firenze».

I suoi non presero bene il suo trasferimento a Firenze?

«Mio padre mi aveva dato un’educazione di stampo siberiano. Eravamo alla metà degli anni 70: non tutti i ragazzi decidevano di spostarsi a metà liceo. Immaginate come venivo visto in un paesino della Puglia dove nei lunghi inverni in cui succedeva niente l’unico sport era sparlare delle disgrazie altrui. Per loro un capellone con l’orecchino che suonava in una band era certamente un drogato. Non che io mi astenessi da qualche canna; ma non sono mai diventato dipendente dalle droghe perché sballare non era la mia priorità. Io avevo le idee chiare: volevo fare musica. Solo quando mi vide in tv, ospite di Raffaella Carrà, papà mi presentò a tutti come una star internazionale».

Cosa ricorda della Firenze anni Ottanta?

«I fermenti degli anni in cui abitavo in via Maggio, dove trovai un ambiente stimolante e divertente, che spingeva a sperimentare nuove forme di creatività. In una cantina dove si faceva musica rock, che dopo poco avrebbero chiamato punk suonavo con i Caffè Caracas, trio formato con Ghigo Renzulli e Renzo Franchi. Quando mi spostai a Londra formarono i Litfiba».

A casa Bigazzi conobbe Umberto Tozzi…

«Giancarlo Bigazzi mi diede appuntamento dicendomi “Vieni a casa mia, in via Santa Marta”. Non esistevano i navigatori, trovare quell’abitazione su una delle bellissime colline sopra la città con la mia Fiat 127 fu un’impresa. Da allora iniziai a frequentare tutti i giorni casa sua, una sorta di fabbrica di canzoni, dove si faceva quello che faccio ancora: scrivere dischi da zero. Ancora oggi, infatti, io non faccio come chi va in studio e trova tutto apparecchiato dal suo staff: amo scrivere le mie canzoni, cominciando dai primi suoni e arrivando alla confezione del prodotto finale. La casa di Bigazzi era un home studio, dove si suonavano al pianoforte i brani che andavano poi perfezionati in studio. E lì ho conosciuto tanti cantanti, compreso Umberto».

Proprio assieme a Tozzi è tornato dopo la pandemia sui palcoscenici italiani (compreso il Verdi di Firenze) con «Due — La nostra storia»…

«Ritornare a cantare dal vivo con Umberto è stato bellissimo perché con lui non ci sono problemi, solo grande divertimento, emozioni, rispetto reciproco e affetto. La nostra è una vera amicizia, non solo sul palco. Ci rimproveriamo a vicenda di essere ritardatari: la verità è che abbiamo in comune molti difetti e forse anche molti pregi. Io ho visto crescere i suoi figli, lui i miei».

Torniamo al titolo del nuovo tour: quale è la sua casa?

«Oggi la mia casa si divide tra le campagne laziali e la Florida, dove ho la residenza dal 2017. Però sono anche un umano che vive sul pianeta Terra ed è estremamente preoccupato per lo stato della sua casa. È un’illusione credere di poter stare bene se ci curiamo solo di noi stessi, sottovalutando problemi come il cambiamento climatico, che potrebbe mettere in discussione l’esistenza umana sul pianeta».

Che potere ha la musica?

«Non quello che aveva negli anni Settanta, quando una popstar poteva dettare la linea perché aveva pochi rivali nella comunicazione con i giovani. Oggi ci sono gli influencer, i videogiochi, internet… Però è possibile veicolare messaggi sociali anche attraverso canzoni apparentemente leggere, come il mio singolo Cherie, che l’estate scorsa ha fatto ballare e divertire».

Lei ha soprattutto sdoganato le canzoni d’amore…

«Noi italiani abbiamo pagato il confronto con i cantautori “impegnati”: tra gli anni Ottanta e Novanta se scrivevi una canzone allegra o che parlava di sentimenti eri considerato un qualunquista, superficiale, banale. Piano piano si è scoperto che la musica ha bisogno anche di futilità. Il mio pubblico si aspetta da me un compagno di strada che gli parli di cose importanti e lo faccia anche cantare in macchina a squarciagola. Se sono ancora qui, con un tour in partenza e un disco che uscirà l’inverno prossimo, è perché tutti i giorni mi chiudo nel mio bunker a scrivere, cantare, provare, produrre…».

A proposito di amore, festeggia 27 anni di matrimonio con sua moglie Gabriella Labate. Si sente una mosca bianca nel mondo dello spettacolo?

«Quando la conobbi — a Saint Vincent, dove lei, ballerina e soubrette del Bagaglino, era ospite di un programma musicale della Rai — riconobbi subito il vero amore. Ho vissuto tutti questi anni in maniera naturale e spero di viverne altrettanti con la mia famiglia. Non l’avrei mai immaginato, perché da ragazzo ero piuttosto ribelle; davo preoccupazioni continue ai miei genitori».

«The show must go on»: questo il mantra che l’ha spinto anche quando sua moglie ha avuto la diagnosi di una malattia rara e, quasi contemporaneamente, ha subito un incidente...

«Abbiamo vissuto cinque anni tremendi. Inutile negare le paure, il senso di precarietà… Però ne siamo usciti rafforzati in molti aspetti, a cominciare dalla nostra unione e complicità. E soprattutto grazie a lei, siamo riusciti a non trasmettere angoscia ai nostri figli».

Musicisti in famiglia?

«Bianca si è laureata in Florida e sta lavorando come social media manager. Samuele studia scuola di cinema a Roma; scrive, canta e produce musica».

Ha già la scaletta del nuovo concerto?

«Ci saranno sicuramente le mie canzone storiche: dai brani di Self Control, che compie 40 anni, a Ti pretendo, che ho rivisitato con Guè. Ma anche le vecchie canzoni che ricordano solo i miei fan e un paio di inediti. Cercherò di essere più possibile vicino, anche fisicamente al pubblico».

Francesco Moscatelli per “la Stampa” il 31 Dicembre 2022.

«Tutto si modifica ma noi uomini, invecchiando, siamo sempre più legati a quello che è stato, a quello che abbiamo vissuto. A Natale questa cosa è ancora più forte. In questi giorni mi è tornato in mente l'abete che decoravo insieme ai miei fratelli, con le arance e i mandarini al posto delle luci, la tazza con il latte e i biscotti per Gesù bambino, il meccano, che era il mio regalo preferito, la mia mamma che ogni tanto durante l'anno lasciava qualche soldo in più al negozio di alimentari per poi ritrovarsi a dicembre con il cesto per il pranzo di Natale». 

Renato Pozzetto, 82 anni, eterno «ragazzo di campagna» della comicità italiana e saltimbanco - a lui piace definirsi così - del cabaret milanese, alterna riflessioni, ricordi e colpi di tosse («Mi sono beccato il Covid, c****»). Ha come sempre mille idee in testa: un nuovo spettacolo con l'inseparabile Cochi, la riscoperta di un antico vitigno, il "Liseiret", che produrrà insieme al barolista Elio Altare e all'ex ministro della Salute Ferruccio Fazio, il progetto di portare in teatro la sua canzone Babbo Natale è un geometra accompagnato da un coro di voci bianche. 

Da vero milanese lei non si ferma mai. Ma questa operosità non è un po' una malattia?

«Non credo. Noi milanesi siamo fatti così. Fa parte del nostro Dna. Una volta gli operai si spostavano da una parte all'altra della città per lavorare, oggi ci dedichiamo alle grandi iniziative. Penso alla moda e al design, all'idea di correre nei cinque continenti per portare ovunque le nostre creazioni. Mi piacciono i milanesi e mi piace l'idea di una città abituata a modificarsi, a cercare di capire dove va il mondo e ad evolvere».

Qualche tempo fa aveva ipotizzato un sequel del «Ragazzo di campagna» con una mucca che avrebbe dovuto partorire un vitello in cima al Bosco verticale. Ci sta lavorando?

«Sono amico dell'architetto Stefano Boeri e l'idea mi stuzzica. Pochi giorni fa stavo parlando con un manager di Medusa e abbiamo fatto un po' di conti: in poco meno di quarant' anni il Ragazzo di campagna ha fatto 100 milioni di ascolti. Ogni italiano, compresi neonati e centenari, l'ha visto più di una volta».

Dov' è nato il suo celeberrimo «Taaac»?

«C'era un amico che veniva al Derby e che frequentava le corse dei cavalli a San Siro. Era molto simpatico e incarnava appieno il tipo di umorismo che girava in quel mondo lì.

Mentre raccontava di un cavallo che aveva vinto una gara, ad esempio, ti infilava un dito nella pancia o nell'orecchio, continuando a parlare come se nulla fosse e godendosi la tua reazione. Oppure ti schiacciava un piede. Il "taaac" è saltato fuori così, in modo naturale.

Accadeva lo stesso da Gattullo, la pasticceria di porta Lodovica che frequentavo con Enzo Jannacci, Lino Toffolo, Beppe Viola, Bruno Lauzi. Lì sono nate tante idee, come l'Ufficio Facce, perché si respirava un'ilarità speciale. Ci si guardava attorno e si annotavano atteggiamenti, espressioni, tic. Era una miniera».

Chi le piace fra i comici e i cantanti di oggi?

«Seguo poco. Non uso internet e nemmeno i social. I tempi sono cambiati e certe cose, come il rap, non le capisco proprio. Ma non intendo in senso negativo. Mi sembra come quando abbiamo debuttato io e Cochi. Sono stati i giovani ad aiutarci, perché gli adulti pensavano che fossimo degli stupidi. Non capivano un brano come La gallina. Anzi, spesso si incazzavano perché era molto lontano dalla musica leggera o dalle canzoni del Festival di Sanremo». 

Cosa pensa dell'idea di abbattere San Siro per costruire un nuovo stadio?

«Non saprei, anche perché sebbene io sia milanista, e pure amico dell'ex presidente dell'Inter Massimo Moratti, ho frequentato pochissimo lo stadio. Ci andavo da bambino. Da adulto ho sempre avuto la sensazione che alla fine della partita tutti i tifosi, indipendentemente dal risultato della loro squadra, condividessero una certa tristezza. La tristezza della fine della domenica e della festa, la tristezza di chi il giorno dopo doveva andare a lavorare. Io, da privilegiato che ha sempre amato il proprio lavoro, allo stadio mi sentivo fuori posto». 

Fra qualche settimana la «sua» Lombardia andrà a votare. Che idea si è fatto della sfida fra Attilio Fontana, Letizia Moratti e Pierfrancesco Majorino?

«Conosco bene Attilio Fontana perché prima che decidesse di buttarsi laboriosamente in politica è stato il mio avvocato. Oggi mi segue sua figlia, che è bravissima. Ma di politica non parlo. Fortunatamente nella vita ho avuto passioni diverse. La politica mi interessa, ma la guardo con un certo distacco. L'ho sempre detto anche a Umberto Bossi».

Conosce bene il Senatur?

«L'ho incontrato una volta in aereo rientrando da Roma, dove stavo girando un film. Non ci eravamo mai visti prima ma lui mi ha fermato e mi ha detto: mi sono trasferito a Gemonio, siamo diventati compaesani. I miei genitori, infatti, hanno sempre vissuto lì. 

Quando andavo in moto a trovarli mi capitava di incrociare Bossi che, a piedi, andava dal tabaccaio a comprare i toscani. Siamo diventati amici e ogni tanto suonavo il campanello della sua villetta e passavo a salutarlo. L'abitazione era modesta e lui stava sempre appollaiato vicino al camino. Mi incuriosiva il suo modo di intendere la politica e mi piaceva pensare che anche Silvio Berlusconi, per parlare con lui, doveva salire fin lì». 

"Il mio autoritratto dopo mezzo secolo di dischi e tournée". Le nuove canzoni escono dopodomani. "A marzo tornerò sul palco con concerti più essenziali". Paolo Giordano il 6 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Renato Zero, 73 anni e 33 dischi di inediti. Quello nuovo esce dopodomani. Autoritratto.

«Non mi sarei minimamente aspettato di sentirmi chiamare maestro da ragazzi di sedici anni».

Sono ragazzi che magari ascoltano testi trap violentemente misogini.

«Però i veri responsabili di quei testi non sono loro, loro sono vittime di certe normative e della non educazione di certe famiglie. Se il padre dice alla madre sei una zoccola, è ovvio che poi questa violenza si ripercuota nei testi dei figli».

I testi di Renato Zero sono tutt'altro.

«Il mio è nato come un gioco che poi è diventato una professione e anche un pronto soccorso che ha guarito tante sofferenze».

Dice niente.

«Alla mia età è già un risultato, qualcuno al mio posto avrebbe già cercato il badante».

Il nuovo disco di Renato Zero è visionario e contemplativo come sempre, ha i versi commoventi di Quel bellissimo niente, piacerà molto anche a chi in Zero a Zero ritrova tracce di tanto tempo fa ma soprattutto è cantato molto, molto bene, forse con ancor più intensità che negli ultimi tempi. Insomma, nell'epoca dei selfie, lui fa un Autoritratto che è a colori ma pure in bianco e Zero, candido come in Vita ma pure carico di pensieri e riflessioni tipicamente sue come in Avventuriero. Oltretutto è un autoritratto d'autore che a marzo farà parte del nuovo tour «che è ancora tutto da immaginare» ma sarà forse meno rutilante e più essenziale perché «un clown che si toglie il trucco, comunque, i colori li ha dentro, ormai fanno parte del suo intimo». E poi, diciamola tutta, il repertorio di Renato Zero è così gigantesco e importante che dovrebbe fare sei ore di concerto ogni sera. Invece «me so' dovuto obbligare a fare dei medley perché tutta questa roba nun ce sta».

Dopo mezzo secolo di dischi Renato Zero è ancora arrembante.

«Siamo scesi in piazza per molto meno di quello che accade oggi. Non è il momento di rimanere tra quattro mura a piangersi addosso magari guardando una tv vergognosa, e lo dice chi la guarda da tutte le angolazioni. Spesso siamo spettatori impotenti».

Si delega tutto alla politica.

«Quando sentite un politico parlare di giovani? Quasi mai. La politica è così distante dai giovani da preoccuparsi solo minimamente del fatto che, per andare all'Università, si debba pagare 600 euro per un posto letto».

La cronaca è piena di violenza contro le donne.

«Le donne oggi pagano per tutto ciò che gli uomini non riescono a realizzare e subiscono tutta la loro rabbia. Se gli uomini potessero partorire, non succederebbero certe cose. Trovo incredibile che non si sia ancora imparata la lezione. Ed è inutile fare dei talk show».

Cosa bisognerebbe fare?

«Intanto mettersi nei panni delle vittime e dei carnefici per capire meglio».

I suoi «sorcini» sono fedelissimi. Qualcuno le ha mai raccontato di aver subito violenze?

«Per come ho imparato a conoscerlo, il mio pubblico è un portatore sano di positività. Mi vuole talmente bene che non mi vorrebbe coinvolgere. Durante i miei concerti comunque raccomando sempre di parlarsi, di raccontarsi, di aiutarsi. Sono persone che sono cresciute con me, mi conoscono, mi seguono. Loro vengono prima di tutto. Ad esempio per loro ho speso 140mila euro per non farli stare in piedi, magari nel fango, durante al concerto del Circo Massimo».

Andrà alla Prima della Scala?

«Se facessimo una foto alla platea degli ultimi anni, scopriremmo che ci sono sempre le stesse persone. Forse sono cartonati. La cultura stessa si è stancata di non essere ascoltata».

Lei si mantiene single.

«E sto bene. Ma intorno c'è un lacrimatoio... Tutti che si lamentano, eh ho il letto vuoto».

Come reagisce?

«Diciamo che aiuta molto considerare le mie canzoni come fossero persone fisiche. E poi...».

E poi?

«Ho un figlio meraviglioso e due nipoti che porterò via con me a Capodanno».

Feste in famiglia.

«Quando sei stato giovane bene, la vecchiaia è un viaggio meraviglioso».

Estratto dell’articolo di Andrea Scarpa per “Il Messaggero” il 23 aprile 2023. 

[…] Per rendere l'idea di quanto ancora funzioni quello che fa Renato Zero, dopo 55 anni d'attività, meglio dare i numeri che sprecare parole: i 24 concerti (l'ultimo, quello del 4 maggio al Palasport di Roma, è stato aggiunto 5 giorni fa) del nuovo tour Zero a Zero, una sfida in musica, partito il 7 marzo da Firenze, hanno totalizzato finora 280 mila spettatori paganti. 

[…] 

Com'è andata la sfida fra la persona Renato e il personaggio Zero?

«Zero ha riconosciuto i suoi limiti e io gli ho confermato la scrittura... (ride). Lui è più superficiale, io sono più composto e rigoroso».

La convivenza è stata mai realmente difficile?

«Mai. Io sono l'ossigeno, lui la bombola. Senza di me, ’ndo va?

Comunque guardarsi dentro e accettarsi è una roba che ha fatto riflettere anche il pubblico sui percorsi di consapevolezza e crescita. Oggi tutti vanno dietro all'estetica farlocca dei social che nasconde la vera identità delle persone». 

In questo tour c'è qualcosa che l'ha stupita?

«Ovunque vada, nei miei confronti c'è quasi devozione. I giovani mi chiamano maestro, gli anziani mi vedono e si commuovono... Mi sembra incredibile, però mi piace. Prendo questo affetto come la croce da Gran cavaliere che nessuno mi ha mai dato».

Sta dicendo che non è stato considerato e gratificato dalle istituzioni?

«Lo Stato non partecipa alle sventure e ai trionfi degli italiani, riscuote e basta. La meritocrazia è del tutto ignorata». 

Si sono dimenticati di lei?

«Con la mia musica non mi sono mai sottratto per cambiare in meglio questo Paese: a 17 anni, per esempio, ho scritto Qualcuno mi renda l'anima contro la pedofilia. Quindi un riconoscimento per tutto quello che ho fatto penso di meritarlo». 

[…]

Dal suo osservatorio come vede l'Italia?

«Il Sud è completamente al buio, gli hanno staccato il contatore. Da Roma in giù siamo tutti extracomunitari. La mia città così in basso, io che sono nato nel 1950, non l'ho mai vista. E mi manca anche quella Roma puttanona che si dava a tutti, sorrideva e aveva sempre la battuta pronta». 

Temi come identità di genere, uguaglianza e libertà sono i suoi da sempre: oggi che sono attualissimi un po' li considera una sua vittoria?

«Diciamo che nel mio giardino i semi erano puri e fecondi. Sono stato fortunato, oltre che paziente e accomodante. Alla fine degli Anni '60 uno come me non s'era mai visto. Me la sono vista brutta spesso. Quando mi insultavano per come mi mostravo mi salvavo con la dialettica. A chi mi voleva picchiare chiedevo: "Perché mi odi? Che cosa ti ho fatto? Ragioniamo". Glielo dicevo in italiano forbito, li spiazzavo, e mi lasciavano stare».

È sempre andata bene?

«No. Un giorno, mentre facevo l'autostop, scese uno dall'auto, si avvicinò, e senza dire una parola mi diede uno sganassone fortissimo. Rimasi come un deficiente, steso per terra. Mi fece volare la parrucchetta rossa che mi ero messo in testa. Me ne tornai a casa sconsolato. Non era serata». 

La peggiore?

«Un giorno, con un'amica, facendo l'autostop ci caricarono tre ceffi: io andai dietro, in mezzo a due, lei davanti. Quello che guidava si mise a tastare le cosce di Rita, che gli disse di smetterla. Io, da dietro, feci il duro: "Lasciala stare che mi incazzo!". Quello si girò: "Statte zitto che te se cucinamo pure a te". Rita aprì lo sportello e fece per buttarsi in corsa. Rimasero così impressionati che ci fecero scendere a calci». 

Anche artisticamente all'inizio non fu facile, giusto?

«Certo. Nel 1973, in via Garibaldi a Roma, feci un concerto per un solo spettatore. Il giorno dopo, però, lo stesso signore tornò con 12 persone. Il passaparola mi ha sempre aiutato». 

[…] 

La prossima fermata quale sarà?

«Vorrei fare come il sassofonista inglese Ronnie Scott, che nel 1959 aprì a Londra il mitico Jazz Club (lui è morto nel 1996, ndr). Faceva accoglienza e intrattenimento a 360 gradi. Come me quando avevo il tendone di Zerolandia. Sto pensando a un locale così. Ci sto lavorando». 

Il sogno Fonòpoli è ormai andato?

«No. Ma ci vorrebbero degli imprenditori motivati...». 

Un erede artistico ce l'ha o no?

«Tanti giovani, visto che non ci sono più quei discografici che scelgono e fanno crescere, fanno solo copia e incolla». 

Achille Lauro e Rosa Chemical, quindi, sono fuori gioco?

«Io dovrei anche essere contento di certe attenzioni, però a me piace l'originalità. Amo chi ha una sua identità». 

Con il film "Ciao Nì!" nel 1979 incassò più di "Superman": perché non ne ha più fatti?

«Lo girai con la Cineriz, guidata da Fulvio Frizzi, papà di Fabrizio. Solo che subito dopo lui morì, e io lasciai perdere». 

È sempre un accanito giocatore di Playstation e un fan di Super Mario Bros?

«Certo. Ho appena comprato l'ultima versione del gioco, solo che non ho la console dietro e sono disperato: non posso giocare. Come torno a Roma vado subito a vedere il film». 

Che ne pensa della Schlein, segretario del Pd, che è favorevole alla maternità surrogata?

«Chi è? Ah, certo. Si fa molta confusione con le parole. Non mi sembra ci sia urgenza di queste cose. Ci sono tanti bambini da adottare. Bisognerebbe snellire le praticheper poterlo fare». 

Dopo l'intervento al cuore come va?

«Con lo stent molto meglio. Il mio cuore l'ho sfruttato tanto, ma si fa ancora rispettare». 

E l'amore?

«Sono sposato con il mio pubblico. E poi, che te devo di'? Ci vuole culo anche per trovare l'anima gemella». 

A 72 anni non ha una ruga: 15 anni fa, però, si sottopose a un intervento di liposuzione al collo con il chirurgo plastico Paolo Santanché, ex marito di Daniela Santanché: ha fatto altro?

«Ahahaha (ride). Non ho una ruga perché mi sono abbronzato solo due volte in vita mia. Una di queste mi sono sorpreso: non ero io. Fossi stato Otis Redding l'avrei accettato... (ride). Adoro Ray Charles, Ella Fitzgerlad, Whitney Houston... Amo i neri: sono detestati perché sono i più forti in tutto. Io mi vesto di nero anche per solidarizzare con loro». 

Il nero un po' sfina.

«Vabbè. Aspetti, le passo una persona». «Sono Andrea Bocelli, buona giornata». «Ha capito con chi stavo? Ha visto che amici ho?».

Dagospia il 20 febbraio 2023. “La mia curiosità non ha sesso e non ha età/forse è per questo che successo ha”. Era il 1989, a "Fantastico 10", Renato Zero infiamma il Teatro delle Vittorie sulle note di “Voyeur” con una performance in cui coinvolge anche il pubblico. Renatino si dimena, ancheggia, sculetta, rotea il bacino e si sdraia sugli spettatori. 

Verrebbe da dire: Rosa Chemical, chi? Quello che abbiamo visto con Fedez durante l’ultimo Festival sul palco dell’Ariston con Fedez è solo la copia di mille riassunti. “L’originale vince sempre”, artiglia Zero durante la presentazione del suo nuovo tour in cui ha voluto mandare un messaggio artistico al suo “numero impressionante di sosia”.

Dopo la risposta piccata a “Domenica In” di Rosa Chemical (“Mi è dispiaciuto leggere quelle cose, non è stato affettuosissimo”) è arrivata un’ulteriore spiegazione da parte di Renato Zero che, ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”, ha chiarito: “Vorrei che quelli che operano nel settore della musica e dello spettacolo preparassero questi ragazzi perché va bene il look ma ci vuole anche lo spessore artistico, senza di quello si campa una stagione e basta”.

 Ma la trasgressione non è solo un travestimento ben riuscito. Renatino, che ha portato nella musica popolare temi come l’aborto, lo stupro, la fede e la sessualità quando erano argomenti tabù, ha ricordato, oltre ai tre sacerdoti che aveva in famiglia, anche la nonna che “prima di uscire mi sbottonava la patta e mi tirava fuori lo strumento perché si era rotta i coglioni che tutti le dicevano: ‘ma che bella bambina’. “Io volevo portare avanti un discorso di cambiamenti…”

Estratto dell'articolo di Paolo Giordano per “il Giornale” il 19 febbraio 2023.

Bentornato Renato Zero, ha seguito Rosa Chemical al Festival di Sanremo?

«Non frequento assiduamente i social ma vado scoprendo di avere un numero di sosia impressionante».

 In effetti il testo di Made in Italy in gara all’ultimo Sanremo si ricollega a brani che lei ha scritto decenni fa. Ad esempio Triangolo.

«Ma io lo assolvo, non è colpa di Rosa Chemical ma di chi ritiene che la musica sia solo performance. E manda in scena persone che non hanno ancora la preparazione necessaria».

 Ossia?

«Se Renato Zero o Claudio Baglioni sono diventati quello che sono, il merito è anche dei collaboratori che li hanno seguiti e consigliati bene». 

C’entra anche la gavetta.

«Io conosco bene i ravanelli, i carciofi, le zucchine, gli asparagi, tutti gli ortaggi. Conosco bene il banco frutta e verdura. Perché a inizio carriera me li hanno tirati tutti dietro».

Anche a 72 anni Renato Zero vince sempre per (ampio) distacco. Divagatore di professione, confusionario ma lucidissimo, debutterà a inizio marzo a Firenze con il tour Zero a Zero che ha curato come sempre in prima persona […] 

[…] Quest’anno si parlava di lei come super ospite di Sanremo.

«Amadeus mi ha telefonato per invitarmi. Ma ho pensato che, essendo alla vigilia del tour e dopo aver fatto il Circo Massimo, avrei potuto rinviare al prossimo anno».

 La sera della finale del Festival di Sanremo lei era ospite di C’è posta per te su Canale 5.

«Se uno va a Sanremo deve preparare bombe e carri armati... Se vai a C’è posta per te ti puoi mettere un tailleurìno e le scarpe lucide. Nel senso che è una partecipazione in amicizia. Certo, ho trovato un po’ fuori posto la programmazione di Mediaset contro il Festival».

[…] E la fede in Dio?

«L’arrivo del Covid mi ha costretto a mettere in discussione la fede. E da qui è nato il disco Atto di fede. Ho chiesto a amici come Buttafuoco, Farinetti, Cazzullo, Soldini e Travaglio di scrivere il loro pensiero sulla musica che mandavo. Ho avuto un bel “rimbalzo” da tutti, a parte uno...».

 Chi?

«Cattelan […] L’avevo invitato, non mi ha risposto e lo ha annunciato solo per radio. Mi ha ferito».

 Renato Zero senza freni.

«Che bello arrivare a settant’anni. Così puoi dire il ca... che vuoi».

[…] Non conta soltanto la «performance» come oggi.

«Spero che i giovani artisti siano più preparati. Anche perché l’originale vince sempre».

 Dopo decenni di amicizia, ha discusso con Loredana Bertè.

«Ma non ho mai smesso di amarla».

 Farete la pace?

«Ho notato che da quando non la frequento più come prima, lei è migliorata tantissimo. Insomma io non la metto più al riparo ma lei si ripara bene lo stesso da sola». [...]

Renzo Arbore: «Penso alla morte e ho paura della sofferenza. L’immortalità? Ho avuto qualche segnale... Sarebbe bellissimo». Malcom Pagani su Il Corriere della Sera sabato 28 ottobre 2023.

A 86 anni lo showman si racconta in un’intervista a 7: «Venni bocciato in terza liceo, un trauma. Dopo la laurea mio padre mi disse: hai un anno di tempo, usalo o farai l’avvocato». «Mi amareggia chi insegue il successo a qualsiasi costo»

Renzo Arbore vive in un museo, ma non ha intenzione di diventarlo. Ha girato il mondo e scoperto talenti. Ha inventato ciò che non esisteva e rivoluzionato ciò che c’era. Continua a studiare, a catalogare, a collezionare idee. Gli anni sono ottantacinque, lo spirito non ha età.

La sua prima canzone?

« La pupa alla finestra , una canzone friulana che mi aveva insegnato la mia bambinaia. La cantavo sotto i bombardamenti, a cinque anni. La sirena, il rifugio, la gente in pigiama. È come se avessi tutto davanti agli occhi».

La memoria è una gabbia?

«Tutt’altro. È una risorsa. Ed è strano perché sulle cose che mi sono accadute di recente a volte si stende un velo, ma il passato remoto, le sue voci e i suoi volti invece affiorano tutti fortissimi».

Cos’altro ricorda della sua infanzia?

«La noia. Il sentimento preminente della provincia. Gli infiniti pomeriggi a fare lo struscio sul principale viale di Foggia. Salutavo sempre le stesse persone e intanto, passeggiando, cercavo di orecchiare un pettegolezzo, una novità, qualcosa di cui parlare».

Dalla provincia bisogna fuggire?

«La provincia è straordinaria, ma se vuoi fare l’artista prima o poi devi andare via».

Lasciarla non era semplice: significava recidere il cordone.

«Non era solo una questione sentimentale, muoversi era un’impresa. Per andare in villeggiatura a Riccione, da bambini, prendevamo un accelerato che partiva all’ora di cena e arrivava alle quattro del pomeriggio del giorno dopo. Partire significava traslocare. Sul treno caricavi i bauli pieni di piatti e tovaglie e a bordo provavi a credere che saresti arrivato davvero consolandoti con fumetti e caramelle».

Per inseguire la musica lei arrivò a Napoli.

«A Napoli gli Arbore svernavano arrivando in carrozza e con la città la mia famiglia aveva un rapporto profondo. Era considerata meno lasciva, meno tentatrice della Roma della Dolce Vita, ma l’ipotesi che mi occupassi di musica era vista comunque con sospetto. Ero stato bocciato in terza liceo, un trauma, e mio padre dopo la laurea fu chiaro: “Ti do un anno di tempo, se non lo sfrutti ti metti a fare l’avvocato come tuo fratello”».

Lei quell’anno lo sfruttò.

«Dopo un’infinità di tentativi e qualche silenzio sconfortante ebbi in extremis un colpo di fortuna e venni convocato a Roma, alla Rai, in Via del Babuino. Era l’ultima occasione prima di ritornare a casa sconfitto e mi trovai di fronte a una signorina con dei fogli in mano».

Che fogli erano?

«Le mie domande inevase. Mi disse “Oggi ne scade una per maestro programmatore di musica leggera”. Chiesi di cosa si trattasse e lei vagamente lascio cadere un “credo che si tratti di scegliere i dischi in radio”. “La faccio subito” le risposi. Andai a casa di un amico, compilai la domanda su una lettera 22 e tornai a casa aspettando una risposta che non arrivò per mesi. Avevo quasi rinunciato all’idea quando arrivarono i Carabinieri a casa».

I Carabinieri?

«Avevano ricevuto una segnalazione dalla Rai di Roma e stupiti vennero a casa mia, in portineria, per informarsi. “Chi è Renzo? È il figlio del dottor Arbore?”. La portiera rispose “nù bravo guaglione” e qualche giorno dopo arrivò la convocazione della Rai per un esame da maestro. Aprii il telegramma e mi fiondai a Roma. All’esame incontrai Giandomenico Boncompagni, facemmo subito amicizia. Lui sveglio, io imbranato. Superai l’esame e trascorso qualche mese mi ritrovai a immaginare programmi con lui».

«MIO PADRE SOSTENEVA CHE I SOLDI IN TASCA LI AVESSERO SOLTANTO GLI SFACCENDATI... CHI HA SAPUTO COS’ERA LA FAME, CHI È STATO FELICE CON UN TOZZO DI PANE E ZUCCHERO DA SFOLLATO, CON IL DENARO NON PUÒ CHE AVERE UN RAPPORTO EQUILIBRATO»

Bandiera Gialla , Alto Gradimento , la lista delle sue creazioni è infinita.

«Ventuno nuovi format. Li ho contati. C’erano umorismo, scoperte, scalette finte e c’era l’intuizione, credo giustissima, di non parlare di attualità ma di lavorare con la fantasia. La fantasia beffa il contingente, restituisce eternità alle trovate del momento, permette di non invecchiare. Gli arrangiamenti, le battute e le canzoni nascevano con l’idea di non sottostare a nessuna moda e quindi di avere il dono di non passare mai di moda».

Con i suoi compagni d’avventura c’era alchimia, complicità, amicizia.

«C’era amicizia, sicuramente. Ma c’era anche stima. Prenda Mario Marenco. Un intellettuale finissimo, un ottimo designer, un eccellente architetto».

Tutte qualità.

«Sprovviste però del più elementare senso pratico. Mario era bravissimo a realizzare le cose però andava aiutato. Io e Boncompagni gli gettavamo un’esca e lui, abilmente guidato, tirava fuori delle perle che se fossero state preparate non avrebbero mai avuto la stessa efficacia. Lo stesso valeva con Nino Frassica. Eravamo come istruttori di tennis: lanciavamo la palla dall’altra parte della rete e aspettavamo la risposta».

L’improvvisazione è stata sempre la sua seconda pelle.

«Non dico che senza improvvisazione non ci sia divertimento, ma di sicuro improvvisando ci si diverte di più».

«ROMPERE CON FELLINI FU UN DOLORE. SI OFFESE PER COME LO AVEVO MESSO IN SCENA, PRESO DALL’IMPELLENTE BISOGNO DI ANDARE IN BAGNO»

Ogni tanto, di invenzione in invenzione, capitava che qualcuno ci rimanesse male.

«Alla vigilia dell’uscita di FF. SS , il mio secondo e ultimo film dopo il Pap’occhio , invitai Federico Fellini in proiezione privata. Lo avevo messo in scena, all’inizio del film, preso dall’impellente desiderio di andare in bagno. Ci rimase male. “Questa volta non ci siamo” mi disse gelido a fine film e per un po’, nonostante Giulietta Masina avesse cercato di sdrammatizzare, non ci parlammo. Fu un dolore».

Fu un peccato di lesa maestà?

«No, fu ingenuità bella e buona. Federico era un artista immenso con tratti marcatamente bambineschi. L’avanzare dell’età evidentemente non lo rendeva allegro e scherzare su quello non lo faceva ridere».

A lei che impressione fa l’età che avanza?

«Ha ribaltato senso e direzione della noia giovanile di cui le parlavo all’inizio. Da ragazzo era ispirazione, oggi mi appare come un nemico. La sconfiggo o provo a farlo tenendomi occupato».

A cosa non rinuncerebbe mai?

«A una conversazione disutile. Non avere per forza un fine ti aiuta ad avere una prospettiva della vita più lieve, più gentile».

È mai stato venale?

«Mai. Mio padre sosteneva che i soldi in tasca li avessero soltanto gli sfaccendati. È strano dirlo e somiglia a un paradosso o a una contraddizione, ma chi ha saputo cos’era la fame, chi è stato felice con un tozzo di pane e zucchero da sfollato, con il denaro non può che avere un rapporto equilibrato».

C’è ancora qualcosa che la amareggia?

«L’inseguimento del successo a qualsiasi costo. La furberia, l’espediente, la paraculaggine. È una brutta parola, lo so, ma in italiano non ne esiste una migliore».

La avverte spesso?

«Ne posso sentire l’odore a chilometri di distanza».

Un suo pregio?

«Non porto rancore. Sono stato deluso, ma provare rancore è troppo faticoso».

Cos’altro è faticoso?

«Pensare di non esserci più. Di provocare dolore a chi resta».

Pensa mai alla morte?

«Ci penso, certo. E ho paura della sofferenza».

Non sarebbe bello essere immortali?

«Sarebbe bellissimo esserlo in un’altra dimensione. Qualcuno se lo augura, qualcuno ci crede, persino».

E lei ci crede?

«Non lo so. Qualche segnale l’ho avuto. Me lo tengo stretto e non ne parlo con nessuno».

CHI È RENZO ARBORE

LA VITA - Renzo Arbore è nato a Foggia il 14 giugno 1937, figlio di un dentista e di una casalinga. Già prima di laurearsi in Giurisprudenza aveva cominciato a suonare il clarinetto: nel 1964 vinse un concorso in Rai e cominciò a lavorare come maestro programmatore di musica leggera in radio. Ha lavorato in coppia con Gianni Boncompagni per creare trasmissioni di varietà come Bandiera gialla, Alto gradimento, L’altra domenica, Cari amici vicini e lontani..., e Indietro tutta! Tra i suoi più grandi successi c’ è Quelli della notte (1985).

IN TV - Ha scoperto e lanciato molti personaggi, tra i quali Roberto Benigni, Giorgio Bracardi, Mario Marenco, Nino Frassica e Luciano De Crescenzo. Renzo Arbore non si è mai sposato: ha avuto una lunga storia con la cantante Gabriella Ferri e poi con l’attrice Mariangela Melato (nella foto). Poi ha avuto una relazione con Mara Venier durata fino al 1997. Nel 2007 è tornato con Melato rimanendole accanto fino al giorno della morte di lei, avvenuta nel 2013.

Dagospia il 24 giugno 2023. La nota Rai: "Per Arbore, affetto e gratitudine"

La Rai ha voluto rendergli omaggio con una nota: “Buon compleanno a Renzo Arbore, con grande affetto e altrettanta gratitudine per aver messo la sua passione, il suo straordinario talento, la sua sconfinata capacità di spettacolo a disposizione della Rai e del pubblico italiano“. Così la Presidente Rai Marinella Soldi e l’Amministratore Delegato Roberto Sergio nel messaggio di auguri rivolto a Renzo Arbore nel giorno del suo ottantaseiesimo compleanno. “Ci auguriamo che Renzo voglia continuare a deliziarci e stupirci con quell’ironia e quel gusto del gioco che hanno contribuito a creare un'immagine del servizio pubblico allegra, festosa e veramente di tutti. La Rai è e sarà sempre la sua casa”.

Estratto da corriere.it il 24 giugno 2023.

Il grande amore della vita di Arbore è stata l’attrice Mariangela Melato, scomparsa nel 2013. «È stata la donna più importante, mi ha dato la ragione interiore, il significato più profondo della vita personale. Pensavamo di sposarci, poi gli impegni artistici dividono per tanti motivi: lei andò in America, io rimasi a Roma, ci siamo allontanati e ci siamo ritrovati negli ultimi anni con un nuovo fuoco di passione assolutamente ardente». Il matrimonio mancato è un rimpianto ancora oggi: «È stato il grande errore della mia vita. Mia madre mi aveva già preparato i documenti».

Estratto dell’articolo di Andrea Greco per “OGGI” il 24 giugno 2023.

Il più giovane di tutti gli uomini di spettacolo italiano compie 86 anni. Ironico, colto, leggero, elegante, con i suoi programmi ha rivoluzionato la radio e la televisione, evitando ogni scorciatoia per affidarsi a idee e fantasia. 

Renzo Arbore non ci ha mostrato ciò che siamo, ma ciò che vorremmo o dovremmo essere. Inutile cercare nella sua lunga carriera una frase scortese, un attacco personale, una polemica scomposta. 

Generoso come pochi altri, ha scoperto e dato spazio a mille volti: da Nino Frassica a Roberto Benigni, da Milly Carlucci a Ilaria D’Amico. Abbiamo sentito alcuni di loro per farci svelare il segreto di Arbore, e tutti sono arrivati alla medesima conclusione. il segreto di Arbore è Arbore.

«Come ho conosciuto Renzo, anzi, come Renzo abbia conosciuto me resta un mistero. Era la metà degli anni Settanta e vivevo in un appartamentino nell’estrema periferia di Roma. Un giorno, forse era il 1974, mi arrivò una sua telefonata. Il punto è che io, il telefono, non lo avevo. Infatti chiamò il bar Rico, sotto casa mia, e da lì mi vennero a citofonare: “Andy, viè giù che ce sta un certo Arbore che te cerca”. Ero da poco tornato dal Sudan con una marea di debiti. Ero andato per girare dei documentari ma il mio socio scappò con la cassa, lasciandomi in un mare di guai. Mi mantenevo vendendo sacchetti dell’immondizia nei mercati.

Renzo mi disse in seguito che qualcuno gli aveva raccontato delle mie performance da imbonitore ed era curioso di conoscermi. Dopo quella telefonata scomparve. Passarono un paio d’anni e si rifece vivo, convocandomi per un surreale colloquio di lavoro che ebbe come teatro la sua Fiat 500. 

Lo accompagnai prima in banca, poi in lavanderia, scherzammo un po’ e finito il giro decise che io, nel suo nuovo programma, che poi sarebbe stato L’Altra Domenica, avrei dovuto interpretare la parte di un suo lontano cugino italoamericano capace di esprimersi solo con due concetti: “Buono” e “No buono”. Fu un successo clamoroso e una svolta per me. La Rai mi pagava poco, 40 mila lire a puntata, ma grazie a quella visibilità arrotondavo facendo cabaret e ospitate in discoteca. […]

«Ero in un ristorante romano con un amico, una domenica sera, quando mi accorsi che in un tavolo vicino c’erano Renzo Arbore, Roberto Benigni e Luciano De Crescenzo. Appena li ho visti ho cominciato a pensare a una strategia per andarmi a presentare e salutarli. Sapevo che piantare in asso il mio cavaliere sarebbe stato molto maleducato, però era anche un’occasione che non potevo lasciarmi sfuggire. Così mi sono alzata con una scusa e ho abbordato Roberto Benigni: “Salve, si ricorda di me? Al Grand Hotel di Milano le ho recuperato la penna che aveva dimenticato al bar...”. 

Forse si ricordava, forse ha fatto finta di ricordarsi, ma comunque è stato gentile: un primo passo lo avevo fatto, così sono riuscita a presentarmi a tutta la tavolata e ho salutato per andare in bagno. 

Quando sono uscita ho trovato De Crescenzo lì, davanti alla porta, ad aspettarmi. “Signorina, mi darebbe il suo numero di telefono? Abbiamo dei progetti di lavoro...”. Sembrava una frase di circostanza, e invece dopo qualche tempo Arbore mi chiamò per una comparsata e poi divenni la valletta di Tagli, ritagli e frattaglie. Una volta ho trovato anche il coraggio di confessare a Renzo quanto gli fossi grata: “Senza di te non ce l’avrei mai fatta”. Ma lui anche in quell’occasione fu signorile, dolce. Mi rispose: “Lory, ce l’avresti fatta comunque, non è merito mio”».

«Se penso a Renzo mi viene in mente un momento magico: lui seduto nel salotto dei miei genitori in Romagna, con davanti un piatto di tagliatelle. Era andata così: dopo Quelli della notte lui voleva assolutamente essere invitato dai miei per un pranzo romagnolo. Era curiosissimo di conoscere il mio papà, anche perché sapeva che il personaggio che interpretavo era ispirato a lui, tornitore meccanico comunista, onesto e buono fino al midollo, caparbio ma accomodante: proprio da quest’ultimo tratto del carattere distillai il tormentone “Non capisco ma mi adeguo”. […]

«Ho guardato con attenzione Renzo al lavoro, per imparare e assorbire, e mi sono convinto che il suo segreto sia la musica: lui, qualsiasi cosa faccia, si comporta come un direttore d’orchestra. Di una persona o di uno spettacolo, quello su cui si concentra è il ritmo, il feeling. Sa quando deve far partire un assolo, quando è bene rallentare e quando schiacciare sull’acceleratore.

Quando registravamo Indietro tutta! di scritto non c’era nulla, perché non era possibile scrivere quello che voleva da noi, eppure tutto funzionava grazie alla sua sensibilità per l’improvvisazione. Persino il giudizio sulla puntata non era delegato a riunioni e analisi dei dati. 

Per sapere se eravamo andati bene o male, appena si spegnevano le telecamere ci guardavamo un istante e sapevamo se eravamo stati da 6 o da 10. Però, credo che alla base di tutto ci sia un meccanismo di selezione: lavora solo con persone che frequenterebbe anche fuori scena, con le quali andrebbe a cena».

«Il tratto più affascinante, adolescenziale e romantico di Renzo è la sua inossidabile e compulsiva passione per le puttanate, non trovo un altro termine che renda così bene l’idea. È perennemente a caccia di chincaglieria, cibi in scatola, oggetti inutili: quando siamo in tournée lui visita in ogni città negozietti etnici, supermercati e rigattieri alla ricerca di qualcosa da portare a casa. In tanti anni di tour, avendo anche una prodigiosa passione per la cucina regionale, ha tessuto una fitta rete di spacciatori di specialità introvabili che incontra ai margini dei concerti o negli alberghi dove facciamo tappa. 

A volte le conseguenze sono disastrose. Anni fa, in Calabria, ritornò in hotel dopo un concerto con due sacchetti di lumache, di cui va ghiotto, recuperate chissà come. La mattina dopo, quando si è svegliato, le lumache erano in fuga per tutta la camera e per recuperarle abbiamo impiegato alcune ore, in una situazione così assurda che non riuscivamo a smettere di ridere. Quando uno pensa al dietro le quinte dei tour di successo immagina donne, feste e champagne. Ecco, quando si sta con Renzo può invece capitare che il backstage sia una titanica caccia alla lumaca, perché quando si lavora con lui bisogna sempre aspettarsi l’inaspettato, e questo lo rende unico e insostituibile».

«Sapendo quanto sia scaramantico Renzo, non vorrei che questa raccolta di aneddoti e ricordi lo porti istintivamente a toccare ferro. Quindi come prima cosa gli faccio gli auguri per i suoi strepitosi 86 anni, e brindo a tutte le serate, i viaggi, i concerti e le feste di Natale che abbiamo condiviso. Assieme a Luciano De Crescenzo loro sono stati la mia seconda famiglia, quella i cui membri li scegli per affinità e simpatia.

Avere amici così, conservare nitida la memoria del viso indolenzito, dal troppo ridere, per giorni e giorni, è stata una grande fortuna. Come si dice a Napoli, tenevamo la capa fresca, eravamo senza pensieri, non c’erano invidie: il successo arrivava da solo, bussava alla porta mentre noi ci divertivamo, non eravamo noi a inseguirlo. Renzo ha tante grandi qualità e un difetto: a volte pretende di insegnarmi come si fanno i piatti napoletani, ma lui è di Foggia, e che ne sa?».

(...) Renzo è fantasioso, pieno di senso dell’umorismo, ma ciò che lo rende unico credo sia questa grazia che rende tutto leggero».

«Se non fosse stato per lui farei il magistrato o l’avvocato o chissà. Mancavano quattro esami alla mia laurea quando un amico comune mi segnalò a Renzo, lui guidava Rai International e cercava un volto fresco, nuovo da affiancare a Gianfranco De Laurentis a La Giostra del Gol, indirizzata agli italiani all’estero (...)

Estratto dell’articolo di Andrea Parrella per fanpage.it il 4 maggio 2023.

A Napoli lo scudetto non è norma. Il racconto di una città immersa in un'atmosfera di gioia e attesa perenne per il trionfo nazionale dopo 33 anni è un mosaico con un campionario di tessere che vanno oltre lo sport, abbracciano ricordi televisivi, musicali, di cinema e cultura.

È un continuo richiamo obbligatorio a immagini riferite ai due precedenti scudetti, in particolare il primo, quando la Rai mise in piedi una grande festa televisiva condotta da Gianni Minà – memorabile l'intervista a Massimo Troisi – in cui ebbe un ruolo fondamentale anche Renzo Arbore. Maradona, Giordano, Renica, Garella, Ferrara, alla Rai per la festa del 1987 c'erano tutti gli eroi di quel primo tricolore.

Il conduttore ricorda quei giorni entusiasmanti a Fanpage.it, in una conversazione registrata nella domenica di illusione, quella di Napoli-Salernitana che avrebbe potuto regalare lo scudetto matematico e che invece è finita in pareggio. 

Arbore, mettiamo da parte la scaramanzia e, nelle segrete stanze di questa telefonata, diamo per scontato che lo scudetto sia cosa fatta. Cosa ricorda del primo tricolore e di quella festa televisiva?

“Quello speciale è rimasto nel mio cuore. Cantammo una canzone di Mario Abate, Core Napulitano, di cui adattai il testo inserendo la parola "scudetto". Riuscimmo a mettere insieme tutti i cantanti napoletani che erano lì alla sede Rai di Fuorigrotta. C'erano tutti, fu il primo scudetto e qualcosa di epocale, inimmaginabile, in un momento in cui la città era sempre sfortunata, no di certo quella di oggi.”

Quella celebre festa televisiva come nacque?

“Nemmeno lo ricordo. Qualcuno evidentemente mi interpellò, quelli erano anni in cui ero molto popolare. Allo stadio San Paolo, al tempo, c'era un gruppo di tifosi che si chiamavano Quelli della notte, i quali mi "rapirono" alle 13 del giorno della partita che festeggiava lo scudetto a Napoli. Non l'ho mai raccontato. 

Vennero a chiamarmi nell'albergo dove alloggiavo con una scusa, io scesi in camicia, mi stavo cominciando a vestire per andare allo stadio e loro mi portarono a San Giovanni a Teduccio. Là c'era una banda che intonava Quelli della notte e c'era una sfilata di maschere con tutti i calciatori.”

E la partita?

“Mi accompagnarono in tempo allo stadio, facendo tutti i sensi vietati. La vidi con Luciano De Crescenzo e Marisa Laurito. Di certo non potevo perdermela. Quella festa in diretta Rai resta un reperto incredibile. Alla serata erano presenti tutti i calciatori e tantissimi artisti. Sì, tutti i più noti al tempo. Da Peppino Di Capri, Teresa De Sio, Mario Merola, Nino D'Angelo, James Senese e tanti altri. Si sa che gli artisti napoletani raramente si riuniscono, mentre in quell'occasione tutti vennero a cantare quella canzone.” […]

“Alla fine degli anni Ottanta c'era questa forma di rifiuto?”

Io ho vissuto con Luciano De Crescenzo quegli anni bui caratterizzati dalla camorra, la criminalità, ma anche il rifiuto della cartolina. Si combatteva con l'idea della bellezza retorica della città, ma io ritengo che anche quella sia una cosa da celebrare. Ormai gli stessi napoletani la qualificano come città più bella del mondo e io che ho girato il mondo lo confermo senza dubbio. 

Al netto di quelle sacche micidiali che restano, Napoli resta la città più bella del mondo e questo scudetto è il suggello di una stagione straordinaria che va oltre lo sport. È anche oleografica se vuoi, ma una certificazione. Sorrentino, Garrone, De Giovanni, Mare Fuori, i 60 anni della sede Rai, è un momento incredibile e bisogna ammetterlo.

Ha citato Mare Fuori, anche in televisione Napoli ha una rilevanza assoluta. Cosa guarda?

Sono molto contento per il successo di Salemme, ingiustamente messo in disparte dalla critica in passato, così come mi piace anche Bar Stella, che ha preso una bella via. […]

Estratto dell’articolo di Paolo Graldi per “il Messaggero” il 16 febbraio 2023.

Renzo Arbore, una vita ad Alto Gradimento: soddisfatto di tanto successo?

«Certamente sì, non mi lamento. La critica però avrebbe dovuto essere più generosa con la mia "Orchestra Italiana". Questo è l'unico rammarico».

 Rammarico: perché?

«Insomma, i miei 1600 concerti in trent'anni dal 1991 al 2021, l'orchestra stabile più longeva del mondo: meritavamo di più, ma in pochi lo sanno».

La sento amareggiato.

«Della mia notorietà la televisione si è mangiata tutto: la musica è stata vista come un ripiego. Errore. Io ho rilanciato la canzone napoletana, per la prima volta e prima che lo facessero i napoletani stessi. I quali l'hanno fatto, alle volte, addirittura con riluttanza».

Un trionfo planetario?

«Facevo concerti di tre ore l'uno con le più belle canzoni napoletane. Siamo stati in Cina, Giappone, Russia Sovietica e anche Russia dopo la fine del regime. Tre, quattro volte sulla Piazza Rossa. Nord e America Sud America e non parliamo di New York, ci sarò andato sei volte»

 Una critica che considera ingiusta?

«Diceva qualcuno che la mia musica era "musica turistica": O sole mio, quando io ho cominciato veniva snobbata persino dai cantanti napoletani. Adesso O sole mio è la canzone più popolare del mondo. Non la canzone napoletana più popolare del mondo, ma la canzone più popolare del mondo. Questa è la mia medaglia».

 Grandi soddisfazioni dalla tv, vero?

«Non parliamone per niente di tutto quello che ho inventato per la televisione, solo che questo ha oscurato il mio lavoro artistico della parte musicale, tutti ritornano sempre su quello che ho fatto in televisione. Ho lasciato il video perché avevo un altro messaggio, un'altra mission, quella di rilanciare la canzone napoletana».

 C'è una cosa che avrebbe voluto fare e non ha potuto realizzare?

«Diventare un grande jazzista».

 Una cosa che le procura un dolore o un rimpianto? O un rimorso

«Non avere fatto una famiglia con Mariangela Melato. Il rimorso più grande della mia vita».

La memoria: quale uso ne fa?

«Sono un grande coltivatore della memoria che con l'età tende a svanire. Cerco di mantenerla con l'esercizio. Ho dei bellissimi ricordi che meritano di non essere dimenticati».

 La gelosia è un male necessario o un inutile fardello?

«Purtroppo, è un male necessario anche per un artista».

 È mai stato geloso?

«Con moderazione».

(...)

Estratto dell'articolo di Stefano Mannucci per il “Fatto quotidiano” il 13 febbraio 2023.

“Non sono solo canzonette. Non lo sono mai state”.

 (...)

 Un patrimonio incredibile, fondamento della memoria collettiva.

Cultura popolare. Ma che non siamo stati in grado di esportare, diversamente dalla moda, dal cibo, il design, l’architettura. Eppure la nostra creatività musicale non ha avuto eguali. Da Mina fino alla Carrà. A meno di non tradurle. Altri, come la Francia, la Spagna e perfino gli anglosassoni, hanno sfruttato il potenziale commerciale dei cantanti per diffondere le loro lingue. Io ho imparato il francese con Becaud e l’inglese con Nat King Cole. Con l’italiano non è stato possibile, perché le nostre succursali delle major discografiche avevano il mandato di lavorare per il mercato interno, senza progetti di varcare i confini.

Ma Morandi avrebbe potuto conquistare il mondo, e così Dalla.

 Scarsa lungimiranza?

E pure il mancato appoggio delle istituzioni, non importa di che colore fossero i governi.

Che non hanno colto l’altezza ingegnosa dei nostri artisti. Non c’è stata divulgazione, promozione, protezione, dialogo con l’estero. Eppure i cantautori hanno toccato vette liriche inimmaginabili: Dalla ha lavorato con il poeta Roversi, Battiato con il filosofo Sgalambro. De Gregori in Titanic racconta la tragedia della nave meglio che nel film. Tranne Dylan o Cohen e qualche chansonnier, chi è riuscito a tanto?

 (...)

Battisti?

Rivoluzionò il meccanismo della canzone, che prima di lui aveva attraversato più fasi: in origine melodica con Villa o Achille Togliani, poi Modugno e gli urlatori, infine il rock’n’roll che avevano innescato lo spirito ribelle di Celentano, infine il beat, da cui copiavamo.

Battisti mise tutto a soqquadro. Per prima me ne parlò la discografica Christine Leroux, fidanzata con Cino Tortorella, il Mago Zurlì. Era entusiasta di questo giovane che suonava con I Campioni. Incontrai Lucio prima di Mogol.

 Dove?

Abitavo nello stesso palazzo del direttore romano della Ricordi. A cena veniva Battisti, ascoltavamo dischi. Con Mogol presero dalla vita vera dei loro amici un sacco di spunti per brani di natura amorosa. In mano a quei due diventavano successi le disgrazie sentimentali altrui.

 Compreso lei, Renzo.

Beh, Innocenti evasioni parlava di una mia avventura….

 La sua prima incursione a Sanremo?

Non avevo fatto neppure Bandiera Gialla. Mi mandò la Rai con il mitico registratore Nagra a realizzare banalissime interviste. Chiesi a Modugno se fosse emozionato.

 Ne ha visti tanti, di Festival.

C’ero anche nel ’67.

 Tenco.

Fui l’ultimo a far sorridere Gigi, in camerino. Davanti a lui chiesi a Dalida a quale Madonna si ispirasse per le pose: “All’Incoronata o all’Annunziata?”. Tenco rise. Poi andò a cantare, e più tardi, al ristorante, aveva il volto terreo. Pasticche a parte, gli aveva dato fastidio l’eliminazione in favore de La Rivoluzione di Gianni Pettenati, che apparteneva al nuovo filone della “linea verde” discografica, i brani spensierati.

Tenco era fissato con le canzoni di protesta, che stavano passando di moda. Ciao amore ciao non era un capolavoro come Lontano Lontano, che mi aveva fatto sentire in anteprima. Ma Gigi ci credeva, temeva di sentirsi superato.

Ricky Martin: lui e Jwan Yosef avevano una relazione aperta. Il cantate vuole la custodia congiunta dei figli.  Notizie.it il 8 Luglio 2023 

Come annunciato dall’artista portoricano con un lungo post Instagram, la relazione fra Ricky Martin e il pittore Jwan Yosef si è ormai conclusa, dopo 6 anni di storia d’amore. Sembra che il matrimonio non sia finito in maniera troppo turbolenta, forse anche alla luce del rapporto per così dire particolare che i due avevano instaurato. Come riportato in anteprima dalla rivista USA PageSix, sembra che entrambi i membri della coppia avessero una discreta libertà e che potessero, dunque, avere rapporti anche con altri uomini.

Ricky Martin e Jwan Yosef erano una coppia aperta prima del divorzio?

Come riporta PageSix (citando una fonte anonima vicina alla coppia che in queste ore ha parlato con il Daily Mail) sembra che fin dal giorno del loro matrimonio i due avessero di fatto aperto la coppia. Ciò significa, in sostanza, che sia Ricky Martin sia Jwan Yosef potevano avere rapporti extraconiugali a loro piacimento, pur mantenendo il rispetto reciproco e non facendosi coinvolgere da un punto di vista sentimentale. Sembra, come racconta l’amico della coppia, che questo tipo di “sistema” avesse funzionato fin dall’inizio, ma ad un certo punto qualcosa si sarebbe incrinato proprio alla luce dell’apertura della coppia.

Come precisato dall’amico: “Nessuno dei due si è innamorato di qualcun altro. Il sesso è qualcosa che avrebbero fatto insieme o in maniera separata con altri partner”.

La coppia vuole la custodia congiunta dei figli

I due hanno avuto due figli, Lucia di 4 anni e Renn di 3 anni, avuti da madre surrogata: in base agli ultimi rumor sembra che Ricky Martin abbia richiesto la custodia congiunta dei due bambini.

Ricky Martin è inoltre padre di altri due bambini, Matteo e Valentino, avuti 14 anni fa prima del matrimonio con Yosef.

Estratto dell’articolo di Walter Veltroni per corriere.it il 22 maggio 2023. 

Io, Rita Pavone, abitavo in una casa di Borgo San Paolo, a Torino. Eravamo in sei, in due stanze. Conservo ancora oggi il divanetto di allora, mi ricorda la fatica del vivere. Poi la Fiat ci concesse di avere una casa tutta per noi, sopra al Lingotto, in piazza Bengasi. Ricordo la prima volta che papà ci portò, mi sembrava di stare a Beverly Hills. C’era un corridoio lungo in cui mio fratello ed io ballavamo il rock and roll e poi il tinello, la cucina, tre camere, due balconi. E fuori il giardino, la sabbia, l’altalena. Un paradiso, un sogno che si realizzava. 

Papà, il mio manager

Io non sono figlia d’arte, mio padre faceva il tornitore. Da bambina cantavo una vecchia canzone messicana.  

(...)

E poi mi ero stufata di vedere e sentire nei locali, tra il pubblico, le ironie sulla mia statura. Altro che body shaming, mi massacravano. Decisi di smetterla, avrei seguito i consigli di mia madre che mi aveva progettato la vita che in quel tempo era prevista per le signorine come me. Un lavoro, quale che fosse, un fidanzato che lei aveva già scelto e via così. Ma mio padre non voleva. Una sera ci fu una grande litigata tra loro. Papà mi aveva iscritto di nascosto al festival degli sconosciuti di Ariccia. «Sei un irresponsabile, con quale soldi Rita va a Roma?» gli chiese lei. Lui rispose, fermo: «Tu non hai messo da parte i soldi per comprare il frigorifero?». Mamma non credeva alle sue orecchie, noi ancora stavamo con la ghiacciaia e il frigorifero ci sembrava un sogno. Rispose a papà che non se ne parlava nemmeno.

Fu allora che mio padre disse la frase che non ho mai dimenticato, «Penso che la vita di mia figlia valga più di un frigorifero». Per me la musica era il riscatto. A dodici anni facevo la camiciaia, lavoravo nove ore al giorno, prendevo due autobus alle cinque del mattino. Ad Ariccia vinsi. Quando tornai in treno, era notte, trovai mio padre al binario. Gli dissi per scherzo che anche lì era andata male. Gli vennero gli occhi umidi ma lo abbracciai e festeggiammo. 

Chi vinceva il festival aveva diritto a un provino alla Rca, sulla via Tiburtina. Fu lì che vidi per la prima volta Teddy Reno, l’uomo della mia vita. Io entravo, lui usciva. Ho l’immagine davanti agli occhi, aveva una giacca appoggiata sulla spalla. 

Si alternavano vari ragazzi e loro erano distratti. Poi toccò a me. Cantai When somebody loves you e vidi che, ad una ad una, le teste si alzarono e capii che ce l’avevo fatta. Alla fine del provino a Teddy Reno che diceva che sarei dovuta tornare presto in casa discografica mia madre disse, a brutto muso, che non avevamo i soldi per un altro viaggio a Roma. Mi sarei seppellita, ma Teddy la rassicurò che ci avrebbe pensato la Rca.

Il mio primo brano fu La Partita di pallone . Lo aveva scritto Edoardo Vianello e lo arrangiò Luis Bacalov. Fu un successo improvviso e travolgente. Una sera mi telefonò Guido Sacerdote, uno degli autori di Studio Uno. Io pensavo fosse uno scherzo di Gianni Morandi che abitava con me nella stessa pensione. Invece era tanto incredibile quanto vero. Lo incontrai al caffè Greco, mi propose di fare dodici puntate, mi disse che Antonello Falqui mi voleva. La Rca era contraria, diceva che era presto, che ero piccola. Ancora… Mio padre decise. E fu, ancora una volta, la mia fortuna. 

Diciotto anni

Il 1963, proprio sessant’anni fa, fu il mio anno indimenticabile. Mi ricordo tutti i brani di quei dodici mesi incredibili: Alla mia età, Sul cucuzzolo , Come te non c’è nessuno, Il ballo del mattone, Non è facile avere 18 anni, Datemi un martello. E poi il mio preferito: Cuore. 

Era un brano americano, Heart!, che aveva inciso Wayne Newton. Me ne innamorai ma, di nuovo, la Rca era contraria, forse anche perché era difficile avere i diritti che erano delle Messaggerie musicali. Andai con Teddy da Piero Sugar, un vero signore, e gli dissi che non poteva togliermi quel brano. Lui sorrise e io la incisi. Fu un successo travolgente.

Quell’anno fu il singolo più venduto. Che tempi, per me. Terzo posto nella classifica di tutto il 1963 per Come te non c’è nessuno , dodicesimo per La partita di pallone, ventiduesimo per Alla mia età , trentatreesimo per Il ballo del mattone, quarantatreesimo per Non è facile avere 18 anni.  

Diciotto anni. Era proprio l’età che avevo in quell’anno breve e meraviglioso. Il mondo sembrava un’autostrada, come quella del Sole, la vita ci spalancava le braccia, tutto sembrava un’opportunità, avevamo fiducia nel futuro, il peggio era alle spalle. Oggi le braccia sono serrate, soffocanti, ci stringono, ci trascinano in un buio rabbioso.

Io allora ero piccola e grande e forse il pubblico mi vedeva come una specie di Lolita. Ho sempre amato le pagine che Umberto Eco mi ha dedicato nel suo «Apocalittici e integrati». Ogni tanto le rileggo: «La Pavone appariva come la prima diva della canzone che non fosse donna; ma non era neppure bambina, nel senso in cui lo sono i soliti insopportabili fanciulli prodigio…». 

I corteggiatori

So che non ero bella, ma ho avuto molti corteggiatori. Persino Gianni Morandi mi faceva il filo, ma non era il mio tipo. Siamo sempre restati amici. Era come mio fratello. Ci sentiamo simili. Suo padre calzolaio, il mio tornitore. Tanta fatica, tanta gavetta. 

Io sono arrivata illibata al matrimonio, nonostante i miei ormoni galoppassero. È stata dura, immagino anche per Teddy. Lui aveva diciannove anni più di me e nell’Italia bigotta del tempo fu visto come uno scandalo. Ci siamo sposati nel 1968 e stiamo ancora insieme. Ora lui qualcosa non la ricorda più ma ci basta uno sguardo per capirci. Ce ne dissero di tutti i colori e forse da quel momento in poi il mio successo è cominciato a scemare. In Italia. Perché fuori tutto è continuato. Nel 1972 ebbi un trionfo all’Olympia di Parigi. E ho continuato a girare per il mondo.

In Italia era finito l’incanto. Si voleva che fossi Lolita o forse Minnie. Ma io ero cresciuta, ero donna, moglie, madre. Leggevo, avevo un mio pensiero, una mia identità. Dico sempre quello che penso, qualche volta sbaglio come mi è capitato nel caso di Greta Thunberg, errore per cui chiedo di nuovo scusa. 

(...)

Lo andammo a cercare ai tempi del Giornalino di Gian Burrasca. Anche quella che avventura.. Regia di Lina Wertmuller, compagni di lavoro Sergio Tofano, Valeria Valeri, Bice Valori imbruttita e in ginocchio… E poi Nino Rota, il musicista di Fellini. Lui mi fece sentire La pappa col pomodoro al pianoforte. Però sembrava un minuetto, era bella ma lenta. Ci voleva qualcosa che mi assomigliasse di più. E così Karas, con il suo zither, venne in studio e registrò la sua meravigliosa introduzione, io ci misi un inopinato urlo e tutto si combinò meravigliosamente.

Io non volevo farlo, quel programma. Mi sentivo male nel ruolo di un ragazzino, maschio. Tutto quello che volevo scrollarmi di dosso. Lina mi fece una sfuriata. Aveva ragione, fu un successo enorme. Avevo tre fratelli, me li studiai per il personaggio. Uno di loro se ne è andato qualche tempo fa. Aveva una encefalopatia congenita. Per un anno mi sono occupata solo di lui. Ora voglio ripartire.

Nel ricordare quell’anno incredibile per me — il 1963, l’anno di Giovanni XXIII e Kennedy — mi è venuto il desiderio di tornare a cantare le canzoni della mia vita. Per dare un titolo allo spettacolo ho chiesto in prestito alla famiglia di Pierangelo Bertoli una frase che riassume il senso della mia vita: «Con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro».

Le Porsche, Andy Warhol e il salone di bellezza. Ringo: "Mettere su famiglia è rock". Il direttore creativo di Virgin radio, voce di Revolver e conduttore tv, racconta a Il Giornale.it il suo rapporto con il denaro e il successo. E ammette: "Per fortuna della gestione ci pensa la mia fidanzata Rachele, lei è più ponderata". Francesca Di Maio il 15 Maggio 2023 su Il Giornale.

“Quando avevo 17 anni ho vissuto con altri amici punk, a Londra, col sacco a pelo, per terra. Dormivamo a Victoria Station, di fianco a un tombino da cui usciva aria calda. Ho sempre avuto un rapporto distaccato nei confronti del denaro e ancora oggi mi è rimasto questo essere selvaggio. Infatti lo rifarei, ma ormai ho un’età." A parlare è Ringo, direttore creativo di Virgin radio, voce di Revolver e conduttore tv, ha energia (rock) da vendere, ma - ammette - la gestione delle finanze non è il suo forte. Prima di iniziare a leggere l'intervista per ilgiornale.it e conoscere il suo rapporto con il denaro e gli investimenti, Ringo vi dà un consiglio: mettete un pezzo dei Ramones e non guardate l'orologio.

Come hai già dichiarato in passato, hai sperperato molto in gioventù…

"Erano gli anni ’80, c’era il contante che girava à gogo, si faceva la bella vita. Di quei tempi non rinnego nulla, mi sono divertito tantissimo, certo è che non ero capace a metter via soldi, nemmeno quelli per la spesa. Sono rimasto un po’ bambino in questo: se ho una moneta in tasca voglio subito il gelato! Mia figlia Swami, che ha solo 23 anni, è molto più brava di me a risparmiare. Io sono un artista, sono istintivo, voglio la mia moto col pieno e va bene così!" 

E oggi?

"Non sono cambiato! Il mio è un difetto, lo so, ma ho imparato, a mie spese, che quando hai soldi è bene pensare a come li spendi, perché un giorno potrebbero fruttare. A Milano la vita è carissima, ormai anche se vai a mangiare all’osteria spendi un capitale, è difficile risparmiare, ma se si ha la possibilità, consiglio davvero di affidarsi a chi è esperto in fatto di investimenti."

E tu a chi ti affidi?

"Alla mia fidanzata Rachele, delle finanze se ne occupa lei, per fortuna! Come tutte le donne, è brava a ponderare."

È vero che in passato ti sei lasciato scappare un quadro di Andy Warhol?

"Non mi ci far pensare. Potevo acquistarlo a 40 milioni di lire, oggi varrebbe più di un milione di euro."

Altre occasioni perse?

"Tante! Ho comprato un sacco di Porsche che poi ho scassato e rivenduto a quattro soldi, ora potevano essere un investimento, avrebbero un valore inestimabile. Ma io le distruggevo, come quella volta che con una Porsche del ‘69 me ne sono andato in Sardegna a fare il dj. Era pieno di buche, ci voleva una jeep, come quella che uso ora, dove ci posso caricare di tutto, dai dischi alla spesa."

La spesa quindi la fai tu, non Rachele?

"Mi capita anche di fare la spesa, ma Rachele dice che compro in modo compulsivo e che porto a casa roba di bassa qualità, insomma, se la fa lei è meglio! E poi io sono malato di shopping: comprerei tutto. Anche quando viaggiamo io mi fiondo nei posti e lei mi tira fuori."

Preferisci i negozi fisici o compare on line?

"No, non sono bravo a comprare on line, io sono rimasto antico in questo, io devo andare al negozio e parlare con la gente."

Cosa hai comprato con i soldi del primo lavoro importante?

"Ho visto i soldi veri dall’86, quando fondai l’Hollywood (insieme a Giorgio Baldaccini e Roberto Galli, ndr). All’epoca ci scorrevano tra le mani fiumi di denaro, eppure la soddisfazione della mia prima paghetta, quella non la dimenticherò mai. Avevo 13 anni, facevo il garzone in un centro di bellezza di via Monte Napoleone. Quando presi il mio primo stipendio - erano 135 mila lire – mi batteva il cuore a mille. Presi quella busta chiusa, andai da mamma e le dissi: ecco mamma, tieni, questo è il mio stipendio. Quello che guadagnavo lo portavo sempre a casa, eravamo in sei in famiglia e non eravamo ricchi. Abitavamo in Bicocca, in un quartiere popolare, la bistecca si mangiava una volta al mese. Io mi rifacevo con le mance delle contesse e delle baronesse che frequentavano quel centro di bellezza. Ci sapevo fare, le riempivo di complimenti e così racimolavo anche 6 mila lire a settimana. E con quei soldi offrivo le cene agli amici, compravo tutti i miei dischi."

Il denaro, secondo te, è sinonimo di successo?

"A me i soldi non piacciono, ho rispetto per chi li ha e ammetto che servono, ma non mi piace quando si usa il denaro per prevalere. I soldi se ti pigliano sono come una droga e quando questo succede, come in tutte le cose, non va mai bene. il denaro è il diavolo, è lucifero ed è lì che ti aspetta, ma se tu lo rispetti e rispetti te stesso impari a dominarlo e a vivere bene. Io, per esempio, adoro offrire le cene ai miei amici: che sia pizza, sushi o cena stellata, stare a tavola in buona compagnia è bellissimo e i soldi questo te lo permettono, è inutile negarlo. Quando sono in America passo sempre da Las Vegas, perché è troppo divertente, ma lì vedi anche fiumi di denaro buttati al gioco, ecco no, questo non è giusto! Io vieterei l’azzardo e le scommesse, cominciamo a rispettare i soldi da lì, e lo dico da sprecone."

Quale sarebbe, secondo te, un buon investimento oggi?

"Non ho dubbi: anche con pochi soldi, vale la pena investire in un’assicurazione sulla vita, questo secondo me è un passo intelligente da fare in famiglia."

Hai un tuo “bene rifugio”?

"La casa e la macchina. Almeno per il bene rifugio, posso dire che ce l’ho fatta."

L’economia è rock?

"Vivere la vita bene, senza perdersi, metter su famiglia, questo è rock. Anche se con pochi soldi, arrivare a fine mese e dire: ok, ce l’abbiamo fatta anche stavolta. Questo è rock and roll. E poi, naturalmente, tirar su tuo figlio a musica rock!"

Qual è la colonna sonora della tua via?

"Ramones, Beatles e Elvis: è questa la mia miscela esplosiva per andare avanti nella vita!"

Estratto dell'articolo di Alessio Mannino per mowmag.com il 14 gennaio 2023.

(...)

Ringo, partiamo dal protagonista assoluto della prima serata, almeno quanto a polemiche: Blanco che strapazza a calci i fiori, simbolo di Sanremo, sul palco dell’Ariston, come nel video della sua canzone "Ladro di fiori". Una mossa finta, pre-concordata, o gli è saltato l’embolo?

Ma va, quale concordata. Si vede che ha perso la brocca. Non ti funziona l’in-ear, le cuffiette che ti permettono di sentire la musica prima di tutti, così da farti sentire parte integrante del suono? Se sei un cantante vero, li togli e canti. Ma siccome tutta questa gente che va a Sanremo con questo mestiere non ha niente a che fare, non è abituata a cantare dal vivo, non ha fatto i bar, le cantine, i garage…

È questo manca a questi ragazzi! I cantanti facevano anni di gavetta, tutta la trafila che oggi non c’è più. Prendono un computer, sono belli, hanno Instagram, e partono con la carriera. Ci sono anche i reality che li aiutano, come X Factor, e si creano dei surrogati da marketing.

 Però appena c’è il primo problema tecnico, vanno in tilt. Sto facendo un’analisi tecnica, non li voglio accusare. Se uno è capace veramente di cantare dal vivo, se ne fotte dell’in-ear, tira fuori la voce e canta. Poi  sul fatto personale che abbia sbroccato così, poteva chiedere scusa subito, sarebbe bastato secondo me. E al mio collega Amadeus dico: cazzo, riprendilo! Sei il padrone di casa.

 Amadeus ha preferito abbozzare facendogli una battuta con il sorriso.

Non me ne voglia, ma visto che ha la mia età, sessant’anni, e visto che è il padrone di casa, al suo posto a Blanco avrei detto: senti, sei alterato (perché era alterato, si vedeva), vattene lì dietro, io faccio pulire e poi torni a cantare. Sono sicuro che il pubblico avrebbe applaudito, e lui la ramanzina l’avrebbe capita.

 Quando tornava fuori, chiedeva subito scusa. E invece no, ha preferito le scuse via Instagram. Ma no! No! Chiedi scusa al pubblico che ti ha fischiato! Sei un artista sul palco, rispetta il pubblico e quelli a casa! Hai perso la brocca? Capita a tutti nella vita. Ma non questa storia di scrivere su Instagram… Che palle!

 Anche per questo uno può pensare sia stata una trovata per far discutere il giorno dopo.

Ma no, uno non va a giocarsi l’immagine e la carriera per una cosa così. I commenti di questi giorni erano tutti insulti. Un massacro.

 (…)

Tornando al piano più tecnico-musicale, la dimensione live com’è stata?

Ho sentito delle stecche allucinanti…

Ovvero?

Ho visto la Oxa, e anche Facchinetti dei Pooh… Ragazzi, immaginiamo un evento così a Los Angeles: ma li hai sentiti i cantanti americani? Perché fanno paura dal vivo e noi invece non riusciamo a uscirne fuori?

(…)

 Allora parliamo dell’altro personaggio chiamata da Amadeus per richiamare il pubblico più giovane, la top influencer italiana, Chiara Ferragni.

Chiara Ferragni secondo me era in imbarazzo. Hanno chiamato una che non fa questo mestiere, non ha la disinvoltura di una Brigitte Bardot. Sembrava la zia di provincia che vuol fare la trasgressiva in balera.

 Non è una polemica la mia, ma lei è una ragazza che ogni giorno parla di sé a 28 milioni di followers: bene, va in prima serata su Rai 1 e ha davanti 10 milioni di spettatori, e parla di sé stessa e a sé stessa, con quella lettera. Si mostra quindi come se fosse su Instagram, con un monologo alla lei bambina. Cazzo, ma non argomenti! Non ha argomenti! Ma attenzione, non voglio fare polemica, la mia è un’analisi. E anzi devo dire che fra tutti è stata una delle poche persone spontanee, e io apprezzo la spontaneità.

 Di rock ci sarà stato almeno il giubbotto di Piero Pelù con le toppe dei Dead Kennedys, dei Dri, la spilletta dei Mötorhead. Un omaggio al punk.

È un amico, Piero. Non ne parlo.

 Ma stiamo parlando di una giacca, in fondo.

Caro Piero, se porti le giacche punk a Sanremo lì non c’entri una mazza. Io avrei messo un bel frac o un tight. È il festival della musica italiana, se mischi le carte e parli di altro, non va bene. E vale anche per la politica. Benigni è un mostro, ma cosa c’entra il monologo sulla Costituzione a Sanremo? Personalmente non l’ho capita. Si potrà dire, no? Non lo sto mica offendendo. Mi sono sforzato, da direttore artistico, di capire perché, prima che andasse sul palco la prima canzone, siano passati 40 minuti. Amadeus deve fare i numeri, e li fa, e gli faccio i complimenti perché ha trovato la chiave, però è obbligato a questi sotterfugi. Siccome, secondo me, con la musica italiana non fai quegli ascolti, deve escogitare queste trovate, e mi scuso se uso questo termine riferendomi a Benigni che è un genio.

La canzone al Festival della Canzone aveva qualche chances di essere protagonista?

Macché. Noi italiani siamo gli spioni che guardano alla finestra che macchina usa la moglie del vicino. Siamo trash, di base. Altrimenti non si spiegano gli ascolti per il Grande Fratello Vip, per dire.

 Il festival però ha dato modo all'altro mattatore, diciamo così, di lanciare i suoi abituali messaggi a favore dei diritti lgbtq, (con il bacio concordato con Rosa Chemical), contro la destra e per la cannabis libera, cioè Fedez.

Ma qual è il messaggio, che non l’ho capito? Sull’omosessualità in Italia? Mi pare che sia più che normale. Fanno pure le pubblicità dove si vedono i modelli che si baciano. Ormai è sdoganata, mica aspettiamo Fedez per capire se un uomo può baciarsi con un altro uomo in Italia. Fra l’altro, ha anche tolto visibilità a sua moglie. E sulla cannabis... Ma come si fa ad andare in tv a dire una cosa del genere?

Non ho nulla contro la cannabis, ma è droga. Se è vietata, perché devi dire in tv di legalizzarla? Per me uno può fumare quanto vuole, però ripeto, perché Sanremo deve essere una piattaforma di propaganda? E poi, si parla tanto di donne, e attacchi proprio ora la prima donna capo del governo? Finalmente abbiamo una donna che ce l’ha fatta, e invece la massacrano con il festival.

 Fedez ha anche strappato la foto del viceministro Galeazzo Bignami da giovani con la svastica al braccio.

Ma aveva più senso Sinead ‘O Connor quando ha strappato la foto del Papa, aveva più senso! Qui c’è un politico che a una festa ha fatto una cazzata vestendosi così, ma se dovessimo tirar fuori le foto di tutte le minchiate che abbiamo fatto nella nostra vita andiamo alla gogna tutti. Mi chiedo: è la sede adatta per proteste del genere? Sentendo la vox populi, non è piaciuto. La stessa Egonu è partita in quarta dando dei razzisti a tutti quanti e poi ha dovuto un po’ fare marcia indietro.

(…)

Tornando alle scelte: tu avresti relegato il messaggio del presidente ucraino Zelensky a un'ora impossibile, a notte fonda?

Non ho capito: vogliamo parlare di pace? Io lo avrei fatto parlare, è un leader di un Paese aggredito da un altro. Questo è un messaggio: se sono tutti liberi a Sanremo, tutti per la fraternità e l’amore e l’inclusione, perché non hanno fatto parlare Zelensky? Leggere un suo scritto a quell’ora è stata una forzatura. Amadeus ha fatto risultati enormi, peccato non con la musica ma con una pagliacciata.

 Alla fine il vero vincitore è Marco Mengoni, o Lucio Presta, il manager di Amadeus e di Benigni che è stato un po' il regista-ombra dietro le quinte?

È un manager che ha piazzato bene i suoi colpi. Bisogna vedere altri cosa avrebbero fatto al posto suo. Io pensavo però ci fosse un controllo in Rai, sul conflitto d’interessi, no? Io metterei dei controlli pubblici, visto che la Rai è pagata dagli italiani. Comunque, hanno fatto i risultati Amadeus e company? Hanno vinto loro, punto. È un dato di fatto. Poi possiamo criticare la parte artistica, ci sono tanti che non sanno cantare e usano l’autotune, ma se la Rai voleva i numeri, li ha avuti. Poi ho letto una dichiarazione di Mengoni che non ho capito molto bene.

 La dedica alle donne, visto che i primi posti nella classifica finale vedono solo uomini?

C’è una giuria, c’è un voto telefonico, il popolo ha votato. Non si deve fare una menata su questo.

 Troppa retorica?

Tantissima. È il festival della retorica. Oserei dire che è il festival dell’Unità.

Magari non proprio quella del vecchio Partito Comunista.

Siamo lì, dai. È una battuta. La sinistra si è impossessata di alcuni spazi e ha fatto un po’ di propaganda. Mi sarebbe piaciuto vedere più costume e più canzoni, anziché un festival politicizzato. Personalmente sono anche per il sociale. Per esempio era il momento di lanciare un messaggio contro il bullismo e il femminicidio. Accadono cose terrificanti, con ragazzini che picchiano altri ragazzini a sangue. Hanno cantato trapper giovani, perché non hanno parlato di questo

Almeno Gianluca Grignani resta una certezza come persona vera, musicista autentico?

Lui è vero, è così. Forse è stato uno dei pochi veri talenti della musica italiana degli ultimi anni. E se l’è bruciato a modo suo per sue scelte che io rispetto, è adulto e fa quel che vuole. Ma lui poteva dare molto di più

 a una sola cosa decente, una sola?

Ho visto un pezzetto di canzone di Mr Rain, non era malvagia, mi sembrava un bel pezzo. Ma in realtà ho visto il festival fra una pubblicità e l’altra della partita della Juve, eh. Mi è capitato di vedere anche Tanatai. Non male il ragazzo. Per lo meno era senza autotune! Era ben intonato, vestito bene, mi ha fatto una bella impressione. Un bel dandy, professionale.

 Insomma, mi sembra che il tuo messaggio sia: bravo Amadeus per lo share, però troppa politica e troppa retorica. E per giunta ora la destra al governo ha facili argomenti per cambiare la musica, dall'anno prossimo a Sanremo.

La destra non aspettava altro. Le hanno prestato il fianco. Ma alla fine nessuno parla di musica. Amadeus ha fatto dei grandi ascolti e rinnovo i miei complimenti, ma ha snaturato quello che era l’antico spirito di Sanremo, cioè la musica italiana.

Robbie Williams e la rottura con la Spice Girl Geri Halliwell: "Ecco perché è finita". Nel corso del documentario Netflix a lui dedicato, il cantante ha spiegato le ragioni della rottura con Geri Halliwell. Federico Garau il 4 Novembre 2023 su Il Giornale.

Sarebbe stata la stampa e la grossa visibilità a causare la rottura fra i cantanti Robbie Williams e Geri Halliwell, entrambi protagonisti della musica degli anni '90. Dopo tanti anni, quindi, viene rivelata la ragione della separazione fra i due artisti, entrambi molto amati dal pubblico. Nel corso della serie Netflix a lui dedicata, Williams ripercorre alcuni momenti della sua vita, soffermandosi anche sulla fine di quella relazione.

"Ho creduto a certe voci e..."

Ormai 49enne il cantante ha parlato della sua relazione con Halliwell descrivendola come qualcosa di serio e magico. Quella con la Spice Girl, infatti, non è stata per lui soltanto un'avventura, ma qualcosa si sarebbe messo fra loro.

Nel corso della serie Netflix atteso per l'8 di novembre, Williams ha raccontato che la storia d'amore con la cantante era cominciata durante il periodo in cui lui frequentava il gruppo degli alcolisti anonimi per combattere le sue dipendenze. All'epoca qualcuno lo avvisò sui rischi di incominciare una relazione in un periodo così delicato. Nulla però gli impedì di legarsi alla Spice Girl: i due sono divenuti una coppia a inizio anni 2000.

Stando a quanto riferito dal The Mirror, Williams avrebbe vissuto un periodo felice con la Halliwell ma, alla fine, la sua paranoia avrebbe vinto su tutto. "Siamo andati davvero molto d'accordo, è stato divertente, ed eravamo solo una piccola banda che condivideva un momento davvero magico, in un posto magico", ha raccontato il cantante. Poi, però, è successo qualcosa. "Alcuni hanno cominciato a dire che Geri si metteva d'accordo con i paparazzi, e io ho creduto a quelle voci. Questo dimostra che i riflettori, spesso, danneggiano la tua psiche, senti di non poterti fidare di nessuno".

Sarebbe quindi stata la mancanza di fiducia da parte del cantante nei confronti di quella che allora era la sua compagna a far naufragare la relazione. "Ora non penso che sia vero neanche per un secondo, ma in quel momento ci credevo", ha ammesso il cantante.

La vita è andata avanti

Nel corso del suo racconto, Robbie Williams è poi passato a parlare delle altre sue relazioni, fino ad arrivare all'incontro con la moglie Ayda, 44 anni. I due hanno cominciato a frequentarsi nel 2006, convolando a nozze nel 2010. Dalla relazione sono nati quattro figli: Teddy, Charlie, Coco e Beau.

Estratto dell’articolo di Irene Soave per il “Corriere della Sera” l'1 novembre 2023.

Robert De Niro, a ottant’anni, è da tempo in causa con l’ex assistente personale Graham Robinson. Lui l’ha denunciata per frodi professionali, lei gli ha fatto causa accusandolo di sessismo e di essere un despota. «Puro nonsense!», ha sbottato lunedì lui davanti al giudice, nell’ultima udienza della causa intentata da lei contro l’attore. 

Sullo sfondo le liti tra l’assistente e la fidanzata di De Niro, Tiffany Chen: accusava l’assistente di «comportarsi come una moglie». «Tiffany e io prendiamo insieme ogni decisione», ha quasi gridato lui. E in effetti è dopo l’arrivo di Tiffany nella vita di De Niro che sono cominciati i sospetti sull’assistente. 

[…]

Dopo undici anni di collaborazione, iniziata da assistente e finita da vicepresidente della casa di produzione Canal di De Niro (a 300 mila dollari l’anno), Graham Robinson si era dimessa quasi da un giorno all’altro. Allora De Niro la accusò di «violazione degli obblighi di fiducia», chiedendole sei milioni di danni: agli atti del processo anche quattro giornate di lavoro in cui lei guardò 55 puntate di Friends. Soprattutto, fregava sistematicamente all’azienda soldi, miglia aeree e persino capsule Nespresso. 

Eppure c’è di più. Agli atti alcune mail tra Robert De Niro e la fidanzata Tiffany Chen: all’inizio della frequentazione lei era convinta di una relazione tra De Niro e l’assistente. «Intimità immaginaria», la definisce l’attore. Robinson ha negato tutto, definendo le accuse «assurde» a suo tempo e negando anche di avere per De Niro alcun tipo di interesse sentimentale. Poi è passata al contrattacco.

Una contro-causa: chiede un risarcimento da 12 milioni di dollari per danni. Dopo le dimissioni, a causa del rifiuto dell’attore di scriverle una lettera di referenze, non aveva più trovato lavoro. Inoltre De Niro avrebbe creato un ambiente sessista, riempiendola di apprezzamenti e compiti ingrati. Lui in tribunale è apparso nervoso e ha spesso alzato la voce, rintuzzato dal giudice. […]

Estratto dell’articolo di lastampa.it venerdì 10 novembre 2023.

La casa di produzione di Robert De Niro è stata condannato a pagare oltre 1,2 milioni di dollari alla ex assistente personale dell'attore, Graham Chase Robinson. La giuria del tribunale di New York ha stabilito che la Canal Productions si è resa colpevole nei confronti della donna di discriminazione di genere e ritorsione, pur non attribuendo responsabilità personali a De Niro. L'attore è stato impegnato in una battaglia legale con la sua ex assistente fini dall'aprile del 2019, quando Robinson si licenziò. 

La donna ha sostenuto che De Niro e la sua compagna Tiffany Chen avevano reso il suo lavoro un incubo, sottoponendola ad abusi e angherie. De Niro ha invece accusato Robinson di avergli sottratto miglia premio delle compagnie aeree per un valore di 85mila dollari.

Nel corso di oltre un decennio al servizio di Toro Scatenato, l'assistente personale dell'attore era arrivata a guadagnare 300mila dollari all'anno dovendo pero tollerare, a suo dire, un ambiente di lavoro «tossico» in cui lo stesso De Niro ha ammesso di essersi fatto grattare la schiena da lei almeno «un paio di volte». […] Sembra però accertato che Robert non avesse avuto remore a chiedere attenzioni particolari, come chiedere alla segretaria di ordinare un Martini da Nobu per portarlo a casa sua dopo le 23, o di averla chiamata al cellulare due volte pur sapendo che lei era al funerale della nonna.

[…] il comportamento di De Niro, per strano che sembri, non è inusuale nel circuito in cui si muovono super ricchi e grandi del cinema. Nel 2019, riuniti attorno all'hashtag #PayUpHollywood, assistenti personali di vip hanno fatto a gara per denunciare il peggior trattamento subito da parte di padroni come Naomi Campbell, che nel 2007, in un attacco d'ira, tirò un telefono addosso alla segretaria personale, o Christian Bale il cui Personal Assistant si è sfogato in un libro dettagliando le sue mansioni tra cui annusare le ascelle della star prima di ogni red carpet. […]

Cos’ha che gli altri non hanno. Gli 80 anni di Robert De Niro e del suo miracolo: riesce ad essere camaleonte ma sempre Bob. Mario Lavia su Il Riformista il 17 Agosto 2023 

Sono decenni che andiamo a vedere i film con Robert De Niro, l’avevamo tanto amato, poi si era un po’ smarrito e l’avevamo perso, ma oggi che taglia il bel traguardo degli ottant’anni lo amiamo come non mai. È inevitabilmente invecchiato ma gli occhi ridenti sono sempre quelli nel retrovisore di un taxi (Taxi driver) o di quando guarda in quelli di Elisabeth McGovern (C’era una volta in America). E dunque la nostra vita, come quella delle generazioni più giovani, s’intreccia con questo attore tra i più grandi dell’intera storia del cinema, accanto agli Humphrey Bogart, ai James Cagney, agli Spencer Tracy, ai Paul Newman. E a Marlon Brando, forse il riferimento più immediato in quanto a carisma e forza interpretativa.

Ma che cos’ha De Niro che gli altri non hanno? Perché col passare degli anni quel sorrisetto ironico, quelle grinze attorno agli occhi, quel neo sulla guancia, quel ripetere ossessivamente le stesse parole, tutto questo “denirismo” ci colpisce, ci fa sorridere, ci impressiona, ci commuove? Sì, è un bell’uomo ma come ce ne sono tanti, non come il meraviglioso Brando, non ha una voce indimenticabile, e allora cosa? Il miracolo di Robert De Niro sta in questo: che riesce a essere un camaleonte ma è sempre De Niro. Non sono molti i casi di attori che riescono a cambiare radicalmente pelle pur restando se stessi. Bogart in fondo faceva più o meno sempre la stessa parte e anche Cagney, persino il sublime Cary Grant alla fine è sempre il dandy simpatico e fascinoso che tutti amiamo. De Niro invece è stato un tassista, un missionario, un sassofonista, un depravato, un gangster, un prete, un marine, un analfabeta, un poliziotto, uno scassinatore, un fallito, un giovane mafioso, un prete, un ebreo, un irlandese, un italiano: tutta l’America in un unico volto. Ecco perché è l’attore di Martin Scorsese, cioè del regista che ha fatto della memoria americana l’avventura della sua opera cinematografica e che individuò fin dal lontano Mean streets (1973) in quell’attore versatile come nessuno il volto di tutta l’America tardo-novecentesca.

“Bob” ha avuto una carriera sfolgorante sin dall’inizio, inanellando almeno una decina di capolavori assoluti, poi nei primi anni Duemila – proprio come successe a Brando – ha fatto il verso a sé stesso in film che nemmeno si ricordano più ma poi è tornato grande, fino ai giorni nostri. Se chiudiamo gli occhi, quale immagine di “Bob” ci viene in mente? Fatelo, questo gioco: non vi verrà una sola immagine ma tante. Pesto, sul ring. Al volante in una New York nera. Giovane boss a Little Italy. Mirando a un cervo, “un colpo solo, un colpo solo”. E anche (America a parte) giovane rampollo di un possidente nella provincia di Parma nel grande affresco di Bertolucci. Nessuno è stato così poliedrico, nessuno così “cattivo” e così “umano”. E na parola infine la vorremmo dire, da spettatori italiani, sulla voce di De Niro, quella del compianto Ferruccio Amendola, senza il quale forse Taxi driver in Italia non sarebbe stato Taxi driver, quella voce di velluto anche quando doppiava lui nella scena della roulette russa per non dire del leggendario “Dici a me? Ma dici a me? Ma dici a me? Eh, non ci sono che io qui…”. Robert De Niro in un certo senso è il cinema dei nostri anni, e anche di quelli che devono ancora venire. L’incanto della sua recitazione è una gioia per questa forma di vita che è il cinema. Come direbbe lui ripetendo le parole: “Buon compleanno Bob, buon compleanno Bob”. Mario Lavia

Estratto dell’articolo di Massimo Balsamo per “il Giornale” giovedì 17 agosto 2023.

Robert De Niro taglia il traguardo degli 80 anni. Tra i migliori attori della storia del cinema, l'interprete newyorkese continua a rappresentare un punto di riferimento per Hollywood. Versatile e professionista maniacale, l'italo-americano ha tracciato un solco nella storia della recitazione: insieme a Jack Nicholson, Al Pacino e Dustin Hoffman, ha proposto canoni di bellezza distanti dai modelli precedenti e personaggi inconsueti. Addio agli eroi infallibili, spazio a protagonisti dalla vulnerabilità terrena. [….]

Film cult, capolavoro par excellence di Scorsese e probabilmente la miglior performance di sempre di De Niro: "Taxi Driver" rappresenta tutto ciò. Premiato con la Palma d'oro ma snobbato agli Oscar, il thriller tra neo-noir e giallo psicologico racconta la storia di Travis Bickle, un giustiziere nella New York post guerra in Vietnam. Per preparare il personaggio, De Niro guidò un taxi per le strade newyorkesi fino a girare la città per dodici ore al giorno. 

Due anni dopo "Taxi Driver", un altro cult con protagonista De Niro: "Il cacciatore" di Michael Cimino. Vincitore di cinque Oscar, tra cui qullo per il miglior film, racconta le traumatiche esperienze militari in Vietnam di un gruppo di amici. Iconica la sequenza della "roulette russa" girata insieme a Christopher Walken (premiato con l'Oscar al miglior attore non protagonista). […]

Un'altra interpretazione memorabile firmata da Robert De Niro chiama in causa uno dei grandi maestri del cinema italiano, ossia Sergio Leone, affiancato dal maestro Morricone. Il suo "C'era una volta in America". L'attore interpreta Noodles, il gangster le cui vicende si intrecciano con la storia degli Stati Uniti a cavallo fra gli anni Venti e il 1968. 

Ispirato all'autobiografia dell'agente federale Eliot Ness, "The Untouchables - Gli intoccabili" di Brian De Palma è un'altra opera dedicata al mondo gangster rimasta nella storia. Qui De Niro veste i panni di Al Capone, il più potente e spietato gangster della storia, e condivide la scena con fuoriclasse del calibro di Sean Connery, Kevin Costner e Andy Garcia.

Tratto dal romanzo Il delitto paga bene di Nicholas Pileggi, a sua volta basato sulle vicende del pentito Henry Hill, "Quei bravi ragazzi" ripropone il tandem vincente Scorsese-De Niro. Uno dei migliori gangster movie mai realizzato, candidato a sei Oscar e scelto all'alba del nuovo secolo per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.

Estratto dell’articolo di Giacomo Galanti per huffingtonpost.it giovedì 17 agosto 2023.

“Dobbiamo portarvi in caserma”. È la notte del 4 febbraio 1981 a Roma. Una gazzella dei carabinieri sfreccia per la centralissima via del Corso all’inseguimento di un taxi. Fermata l’auto gialla, i militari con in braccio i mitra tirano fuori i due passeggeri e, messi con le spalle al muro, li perquisiscono. 

Mentre qualche curioso si ferma a guardare e un paio di fotoreporter riprendono la scena, i due uomini vengono spinti nell’auto dei carabinieri e portati nella caserma di via in Selci. I fermati sono Robert De Niro e il collega Keith Carradine. E no, non si tratta di un film.

De Niro è in Italia per fare pubblicità al suo ultimo film, Toro scatenato, grazie a cui otterrà un Oscar come miglior attore protagonista. Arrivato il giorno prima da Milano, il celebre attore ha cenato insieme all’amico Carradine - famoso per film come Nashville e I duellanti - in un ristorante di un albergo vicino a piazza di Spagna. I due poi hanno deciso di svagarsi un po’ nella notte romana. 

Ma appena saliti su un taxi, due paparazzi hanno riconosciuto De Niro e a bordo della loro Alfetta hanno cominciato a seguire gli attori. Durante una sosta a Piazza del Popolo, il tassista insospettito dall’auto che continuava a seguirlo, ha informato i carabinieri appostati in zona. I militari hanno così identificato i due fotografi. […] 

Insomma, si vede che i carabinieri in questione non frequentavano molto le sale per non aver riconosciuto il famoso protagonista di Taxi Driver.  “De Niro e Carradine scambiati per brigatisti”. “L’attore De Niro a Roma scambiato per terrorista”: questi i titoli dei quotidiani il giorno dopo. Quasi da poliziottesco all’italiana.

Lutto per Robert De Niro: morto il nipote 19enne Leandro. A dare l'annuncio della morte di Leandro De Niro Rodriguez, 19 anni, è stata la madre Drena, figlia adottiva dell'attore Robert De Niro. Novella Toloni il 3 Luglio 2023 su Il Giornale.

Leandro De Niro Rodriguez, nipote dell'attore Robert De Niro, è morto a soli 19 anni. La notizia del decesso - le cui cause sono ancora sconosciute - è stata data dalla madre, Drena De Niro, figlia adottiva del divo di Hollywood. "Il mio bellissimo e dolce angelo. Ti ho amato oltre ogni parola dal momento in cui ti ho sentito nella mia pancia. Sei stato la mia gioia, il mio cuore", ha scritto la donna sulla sua pagina Instagram, annunciando la prematura scomparsa di Leandro.

Leandro De Niro Rodriguez aveva seguito le orme del nonno, studiando recitazione e ottenendo alcuni ruoli in film di successo come "The Collection", film del 2005 nel cui cast figurava anche la madre Drena e poi "Cabaret Maxime" e "A Star is Born", la pellicola del 2018 con Bradley Cooper e Lady Gaga. La notizia della morte è arrivata come un fulmine a ciel sereno nella famiglia De Niro e la madre, Drena, figlia del celebre attore Robert, ha sfogato tutto il suo dolore sui social network.

Quando Robert De Niro pagò per farsi rovinare i denti

Il drammatico messaggio di Drena De Niro

"Vorrei essere con te adesso. Non so vivere senza di te ma cercherò di andare avanti e diffondere l'amore e la luce che mi hai fatto provare tanto per essere la tua mamma", ha scritto la donna su Instagram, concludendo: "Eri così profondamente amato e apprezzato e avrei voluto che solo l'amore ti avesse salvato. Mi dispiace tanto piccolo mio". Drena De Niro è la maggiore dei sette figli di Robert De Niro. Ex modella anche lei attrice, 51 anni, era la figlia di Diahnne Abbott, prima moglie dell'attore americano, che dopo le nozze decise di adottare Drena, dandole il suo cognome nel 1976. La figlia di De Niro aveva avuto Leandro dalla storia d'amore con l'artista Carlos Rodriguez.

Mentre i genitori del giovane hanno esternato il loro dolore sui social network, nessun commento è arrivato da Robert De Niro. La stampa americana, in particolare il sito Insider, riferisce che l'attore non possiede account social e dal suo staff non sono arrivate dichiarazioni ufficiali sulla morte del nipote. Il drammatico lutto colpisce comunque da vicino il divo di Hollywood da sempre molto attaccato alla sua numerosa famiglia.

Estratto dell'articolo di Stefania Rocco per fanpage.it il 12 maggio 2023.

Ha un nome e un volto la piccola Gia Virginia Chen-De Niro, la settima figlia di Robert De Niro, avuta dalla compagna Tiffany Chen. È stato l’attore a concedere qualche informazioni in più a proposito della piccola nel corso di un intervento nel programma CBS News. Virginia è nata il 6 aprile scorso. 

La conduttrice Gayle King, al telefono con l’attore, ha prima alluso al silenzio di De Niro a proposito della nascita della piccola. Poi ha aggiunto: “Potrei, per favore, sapere come si chiama?”. Dopo un attimo di silenzio imbarazzato, De Niro ha acconsentito a mostrare una foto della piccola e a svelare qualche dettaglio, accuratamente tenuto nascosto fino a oggi. […] 

Gia Virginia Chen-De Niro è nata il 6 aprile

Gia Virginia Chen-De Niro, settima figlia di Robert De Niro, è nata il 6 aprile scorso con un peso di circa 4 chili. De Niro ha aggiunto che la gravidanza sarebbe stata pianificata. “Come si fa a non pianificare una cosa del genere?”, ha dichiarato a Page Six. Ha aggiunto che sia lui che la compagna Tiffany Chen hanno fortemente voluto la bambina. “Eravamo al settimo cielo”, ha aggiunto, raccontando il momento della nascita. 

L’incontro tra Robert De Niro e Tiffany Chen

Robert De Niro ha incontrato la compagna Tiffany Chen, madre della sua settima figlia, nel 2015 sul set del film “The Intern”. All’epoca, il divo era ancora sposato con la ex moglie Grace Hightower. La prima uscita ufficiale da coppia è arrivata nel 2021, anni dopo la separazione. […]

Robert De Niro e il settimo figlio (tra i misteri) a 79 anni. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2023

Il divo due volte premio Oscar è diventato di nuovo papà. «Un figlio cercato, queste cose si pianificano». La madre è la campionessa di arti marziali Tiffany Chen

Nei secoli fedele alla filosofia della sua maestra di recitazione e di vita Stella Adler, secondo la quale l’interprete deve scomparire dietro i suoi personaggi, Robert De Niro rilascia poche e laconiche interviste, sempre malvolentieri, molto spesso monosillabico, e soltanto per promuovere i suoi film come da contratto. La sua vita privata? Sempre misteriosa. Due mogli, sei figli. Drena (che oggi ha 51 anni) e Raphael (46) avuti con la prima moglie Diahnne Abbott, i gemelli Aaron e Julian, 27enni, con Toukie Smith (che non ha mai sposato), Elliot (25) e Helen (11) con la seconda moglie Grace Hightower.

Nessuna concessione ai paparazzi. Sette anni fa però sorprese tutti spiegando durante un programma tv del mattino che suo figlio Elliot è autistico. E l’altro giorno, ecco un’altra sorpresa, ancora una volta per caso: ha dichiarato di essere diventato papà per la settima volta, a 79 anni . Niente nome della madre, solo la precisazione che «è un figlio cercato, queste cose si pianificano». L’intervistratrice chiede se la paternità sia diventata più semplice, lui risponde solo che «non lo è mai». La madre — hanno ricostruito certosinamente i tabloid — non è la seconda moglie Grace Hightower ma la nuova compagna Tiffany Chen, 45 anni, conosciuta nel 2015. De Niro non ha aggiunto dettagli: niente età del bimbo, niente nome. Il sempre documentato «Daily Mail» britannico ha però rapidamente fotografato la neo-mamma in un parco, con in braccio un bimbo di circa un mese e mezzo.

Italoamericano di vecchia scuola, con interessi artistici fuori dal cinema, e pochissimi amici quasi tutti fuori dallo showbusiness, De Niro è e resta così affascinante perché prende tutto sul serio, dal lavoro alla vita privata. È l’anti-influencer, senza presenza sui social media, con la vita che è il contrario di un reality (in questo ricorda il quasi coetaneo Bob Dylan). Proprio alla dichiarazione del 2016 relativa all’autismo di Elliott sono seguite due cose assolutamente inedite per gli standard di De Niro. La prima: da allora appare regolarmente nelle campagne delle Special Olympics, i giochi riservati a persone con disabilità cognitive, perché Elliott è un bravo tennista, e a loro rilascia interviste sul suo privato con grande franchezza e umanità.

La seconda conseguenza all’ammissione dell’autismo del figlio è che De Niro ha provocato per questo la prima e unica polemica della sua carriera: aveva inizialmente incluso nel suo Tribeca Film Festival il documentario di un medico radiato, autore di uno studio poi ritrattato che collegava i vaccini all’autismo. Immediate le proteste, aggravate dal fatto che il divo due volte premio Oscar si dichiarò ufficialmente no-vax, attribuendo la condizione del figlio ai vaccini fatti da bambino. Fu costretto a ritirare il film dalla rassegna rincarando però la dose (di polemiche) poco dopo, confermando il suo appoggio alle tesi del film.

Estratto dell'articolo di Emanuela Giampaoli per “la Repubblica” il 13 Gennaio 2023.

La prima volta a 18 anni, quando a Bologna voleva iscriversi a una scuola di teatro, fu il direttore a provarci. A venti, al Centro sperimentale di Roma, il produttore. Poi fu la volta del comico di fama. E la lista potrebbe allungarsi. Bolognese, classe 1963, Roberta Lena, attrice, regista, autrice, ha esordito con Bellocchio per poi lavorare con Virzì, Soldini, Tornatore. «È una cosa latente, che può succedere sempre. Lina Sastri al Centro sperimentale si raccomandò: "Quando vi chiedono una scena di nudo controllate sia necessaria e in sceneggiatura"».

 Cominciamo dall'inizio.

«Vivevo a Bologna, volevo iscrivermi a un corso di teatro, venni convocata dal direttore della scuola. Entrai, era tutto in penombra, capii dove voleva andare a parare. Rinunciai, poi andai a Roma al Centro sperimentale».

 Con il produttore a Roma?

«Mi disse: "Se non la dai al produttore non lavorerai mai nel cinema italiano, non hai alternative". Salutai e ringraziai, ma fu brutto. Per fortuna non è andata così, ma con lui non lavorai mai».

 (...)

 Ma capitava spesso?

«Sì, nel cinema, ma pure quando facevo la commessa per mantenermi agli studi. Un comico una volta addirittura si propose di aiutarmi con la Sip, c'erano ancora i telefoni fissi, in cambio dei miei favori. Robe da matti».

 Come è oggi la situazione?

«Temo sia cambiata poco. Il peggio l'ho visto negli anni di Berlusconi. Sul set di una grande fiction, prima serata, scoprii l'esistenza delle roulotte singole per le amanti dei ministri. E delle roulotte "di gruppo" per quelle dei deputati. Una ragazza mi spiegò che per far carriera non bisognava andare a letto con più di due deputati, andavano scelti bene. Concluse che lei si sarebbe poi data alla politica. Qualche volta il suo nome l'ho visto».

Estratto del libro di Pino Corrias “Hanno fermato il capitano Ultimo” pubblicato da “il Fatto Quotidiano" il 13 Gennaio 2023.

Matteo Renzi. Il caso Consip è passato. Renzi che aveva accusato Ultimo “di intrufolarsi” nelle indagini per nuocere a lui e alla sua famiglia, attraverso il capitano Scafarto, è stato smentito. Era vero il contrario: è stato Renzi, con le sue accuse in pubblico ad avere compromesso Ultimo e i suoi uomini che nel frattempo erano entrati nella sezione controspionaggio dei Servizi segreti. Un attacco diretto.

Sostenuto da una campagna di stampa piena di notizie false, imprecise, distorte. Ma ottime per screditare la sua storia, le sue ultime indagini sulla cooperativa Cpl Concordia, e infine isolarlo, come si fa in tante trame della storia italiana con i personaggi scomodi. Spesso i più ostinati.

 Fino a quel magnifico colpo di scena all’Autogrill di Fiano Romano, 23 dicembre 2020, quando proprio Matteo Renzi viene filmato da un’automobilista mentre si incontra con Marco Mancini, dirigente dei Servizi segreti, mani in tasche tutti e due, chiacchiere fitte.

Un incontro, documentato da Report di Rai3, che l’ex premier Renzi proverà a smontare in una bagatella natalizia: “Il dottor Mancini voleva farmi gli auguri di Natale e portami una scatola di Babbi”, che poi sarebbero dei wafer ricoperti di cioccolato, innocente specialità dolciaria romagnola. Tutti andati di traverso, immaginiamo.

 Visto che a causa di quell’incontro Mancini è stato licenziato dai Servizi a dimostrazione della gravità del suo comportamento. Mentre Renzi, che pure ha provato a travestirsi da vittima di oscure manovre, è finito dentro la risata dell’opinione pubblica a suo ennesimo discredito, e di quella privatissima di Ultimo.

Neanche Totò mi ha fatto mai ridere così. Povero Renzi. Accusava me e i miei uomini di complottare contro di lui. Anzi di intrufolarci in qualità di agenti segreti. Senti che bella parola: intrufolarci. E poi si fa scoprire mentre si intrufola con un agente segreto, in un Autogrill, pensando di passare inosservato”.

 Per non dire la velocità con cui si sono eclissati quei politici come Luigi Zanda, Roberta Pinotti, Paolo Gentiloni, Michele Anzaldi che ai tempi del caso Consip strillarono l’allarme golpe ai danni di Renzi, maneggiando accuse senza fondamento. Spariti tutti, con le loro bugie nel sacco, scegliendo il silenzio al secondo giro di giostra, quello dei “Babbi all’Autogrill”, che è una sequenza da cinepanettone in purezza.

La bancarella, il Rolex e le moto. Il Baffo: "Per vendere inventavo poesie". Roberto da Crema, il re delle televendite, racconta il suo rapporto con il denaro e il successo: "Il contatto con il pubblico vale più di tutto, i soldi sono una conseguenza". Gabriele Cappi il 26 Giugno 2023 su Il Giornale. 

Diretto e sincero con un respiro affannoso inconfondibile. Questo è Roberto da Crema conosciuto come “il baffo”, diventato il re delle televendite grazie al suo stile inconfondibile. Una persona che si è sempre occupata di vendite e scambi di beni e servizi, racconta a Il Giornale.it il suo rapporto quindi con il denaro e il successo.

Se dico investimenti cosa viene in mente?

Mi fai una domanda lavorativa o personale?

Partiamo con il personale.

Allora mi viene in mente il divertimento, se c’è una cosa che mi piace non ci penso e la compro. Sono uno di manica larga, agisco di impulso, sono uno spendaccione con la passione dei motori. Solo quella. Non mi drogo, non bevo e ho smesso di giocare. Non ho vizi, ma amo tutto ciò va su due ruote: prima dell’intervista mi stavo guardando delle moto Guzzi e me ne sono innamorato. Ho a casa tre moto che non uso e penso ne acquisterò un’altra. Io godo solo a sentire il rombo, le accendo e le spengo. Una libidine.

A livello lavorativo invece se dico investimenti a cosa pensi?

Sono sempre stato fortunato, un disperato nelle cose personali ma nel lavoro sono un segugio, ho sempre venduto tutto quello su cui ho messo le mani. Ho fiuto e non ho mai sbagliato un cambio merce. Se invece mi dici finanza.

Se andiamo sulla finanza cosa succede?

Sono un contadino verace, se mi parli di borsa mi viene in mente la borsa della zia Teresa la domenica dopo la spesa al mercato. Non mi parlare di Wall Street o trading che non capisco nulla. Sette anni fa ho comprato un lingotto d’oro a 32 euro al grammo, ora l’oro è raddoppiato, a saperlo ne avrei preso un bancale. E' stato un colpo di, se posso dirlo, culo! La persona davanti a me quel giorno comprò 100 lingotti e pensai “che pirla”. A conti fatti il pirla sono io.

Quindi se ti dico la parola bit-coin?

Posso dirti una cosa a istinto? La parola Bitcoin mi ricorda il nome di una malattia. Non riesco ad avere a che fare con una moneta che non esiste o comunque è virtuale. Per me rimane una parolaccia.

Più generoso o più avaro?

Sono un generoso, tutti i venerdì con i miei amici mangiamo insieme e ce la giochiamo a carte, scala 40. Io pago anche quando vinco. La soddisfazione di offrire una pizza agli amici è qualcosa di impagabile. Poi ci sono i soliti “tirchioni” della compagnia che mi danno dello sciocco perché pago sempre io. Penso che i veri pirla siano loro. La manina è una brutta cosa.

Il denaro è sinonimo di successo?

Direi di no e ti faccio un esempio: qundo ho iniziato non mi conosceva nessuno e vendevo prodotti senza neanche avere la descrizione e le caratteristiche di cosa stavo vendendo, allora mi inventavo un modo, una poesia, un movimento da fare insieme all’oggetto. Creavo la voglia di farti comprare e arrivavano centinaia di chiamate. Quello era il successo, il rapporto con il pubblico. Il denaro è solo una conseguenza.

Si sono mai rovinati rapporti per colpa dei soldi?

Sì, è successo. Una volta prestai dei soldi a un amico e non li ho più avuti indietro. A distanza di anni ho rivisto l’amico alla guida di un’auto di lusso e ha fatto finta di non vedermi. È paradossale: io gli prestai i soldi e io ero quello da evitare. La maggior parte delle persone che ho intorno però non sono così. Ho una casa a Lampedusa e sai che soddisfazione fare un giro in barca e poi una grigliata tutti insieme.

Cosa ha comprato con i soldi del primo contratto/lavoro importante?

Ho preso un Rolex d’acciaio, ai tempi lavoravo a Catania per Telecolor e vendevo pennelli per tinteggiare le pareti. Un altro televenditore vedendomi in diretta che indossavo un orologio da 30 mila lire mi prese in giro, allora mi sono fatto coraggio e con i primi soldi mi comprai per quasi 3 milioni di lire un Rolex che possiedo ancora.

Prima si vendeva per televisione oggi invece online, a te piace fare shopping? Se sì dove?

Bellissima domanda, hai davanti l’ignorante più grande al mondo per quanto riguarda i computer, io sono alla vecchia maniera, mio nonno vendeva frutta e quando lo aiutavo al mercato mi inventavo poesie sulle ultime pere rimaste descrivendo la bellezza della frutta alla signora Teresa di turno. Il contatto con la gente è la cosa più bella che c’è, sia quando compri che quando vendi.

Ha mai la sensazione di non avere abbastanza soldi? Se sì, quanto frequentemente?

No e ti spiego perché, ho sempre venduto e comprato, soldi che entravano e uscivano. Prima vendevo in televisione poi ho aperto dei negozi. Ho fatto mille progetti e mille lavori ma quando uno vive ed è felice di quello che ha non si preoccupa più. A me basta la mia barchetta e andare a pescare nel mare di Lampedusa. Non cerco cose fantascientifiche perché ho imparato che ci lasci il “culo” alla lunga.

Quali sono stati i soldi meglio spesi della tua vita?

Sinceramente? Un mulinello elettrico per pescare, mi ricordo che ero a Lampedusa e quando peschi con filo a 80 metri fai una fatica incredibile. Il primo giorno che lo usai con me c’era anche un pescatore detto Peppino Calamaro, mi disse “Baffo, cos’è questo rumore?”. Gli piacque talmente tanto che ne comprò due!

Vecchioni: «Dopo la perdita di mio figlio la mia fede è più forte. La fortuna più grande? Aver trovato mia moglie». Storia di Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera mercoledì 22 novembre 2023.

Di aule, così come di palchi, il professor Roberto Vecchioni ne ha frequentate molte. Ma quella dove ha tenuto una lectio martedì è un po’ diversa dalle altre, «con una platea che conosco poco», in Vaticano, nella Basilica di San Pietro. Tema dell’incontro: «Dio non fa preferenze». Con lui, il cardinale Gianfranco Ravasi.

Partiamo dal principio: Dio non fa preferenze. Lei come la vede? «Sono andato a rileggere gli Atti degli Apostoli e mi sono reso conto che lì c’è scritto: Dio non fa preferenze ma accoglie chi ha rispetto di lui, a qualunque nazione appartenga».

Perché é importante riflettere su certi temi? «Oggi c’è una grande crisi tra ideale e reale a favore del reale. Non ci si sofferma più sull’ideale, nemmeno sull’idea. In questo modo noi programmiamo una eternità temporanea, convinti di essere eternamente reali. Non è così».

La fede è un dono o una conquista? «Io con la mente e con la fantasia sono arrivato a un bisogno assoluto di super umano, di ultraterreno, di qualcosa che non sia solo chimica. Alla fede ci si arriva quasi sempre attraverso i sentimenti, quella forza incredibile che governa il mondo che è l’amore: è un’invenzione troppo straordinaria. E non parlo di cellule che si uniscono ad altre cellulle. Mi riferisco al fatto che pensi a una donna lontana mille chilometri ma senti che la ami, in un modo che va oltre le mini maglie della realtà».

È sempre stato un credente? «Non sono mai stato ateo, ma un credente molto debole sì. Del resto ho fatto le scuole cattoliche, finisci per forza per andarci contro a un certo punto».

E cosa l’ha fatta crescere nella sua fede? «I dolori. Il cercare di spiegarmi razionalmente o sentimentalmente il perchè del male. E quindi lentamente capire che c’è un senso, oscuro ma c’è. Aveva ragione Eschilo: si impara soffrendo. Ed è vero, non si impara niente dalla felicità, è uno stato di quiete, di mare morto. Nel mare in agitato scopri come navigare».

Quest’anno ha affrontato il dolore più spaventoso, ha perso suo figlio di 36 anni. «È stato il dolore più grande della mia vita. Il più grande. Ma invece di sbalzarmi nell’inferno mi ha proiettato verso la speranza».

Dio non fa preferenze, si dice. Ma per la Chiesa non sembra valere lo stesso: pensiamo ai divorziati, alle persone omosessuali... «Tutte le religioni rivelate diventano granitiche. La Chiesa parte da precetti scritti inossidabili, ma il Papa sta dando un grande esempio per cambiare le cose. Le aperture hanno bisogno di tempo ma secondo me arriveranno. La mia non può essere una promessa, evidentemente, ma è una speranza».

Lei, come padre, non ha fatto nessuna differenza quando sua figlia le ha detto che era omosessuale. «Ma no, certo. Non ho le competenze per esprimermi sul perché la Chiesa non lo abbia ancora fatto ma io dico che accadrà. Si capirà, si dovrà capire che bisogna vivere in un mondo in cui gli uomini possono esprimere il proprio spirito e il proprio sentimento. Il proprio bisogno di trovare tranquillità, rifugio e piacere in un’altra persona, chiunque sia».

Se così non fosse, il rischio non è quello di creare sempre più distanza con le persone? «È vero che il mondo si è completamente ribaltato anche solo dal 900. Molte persone sono un po’ allo sbando e si rifugiano in uno scetticismo ironico. Con i social poi, si è creata una complessità di egoismi dove tutti parlano: esistono solo delle tesi, e nessuno ha più voglia di ascoltare. Personalmente, invece, sono pieno di amici. Quelli storici, che conosco da quando sono ragazzo. E quelli nuovi. Di tutte le professioni, ricchi o poveri, non ha importanza. Ci accomuna una grande confidenza e lealtà. Con molti di loro parlo quasi ogni sera: il mondo lo devi riempire di continue parole, ma di altri».

Ci sono anche quelle di sua moglie. «Ho avuto questa fortuna immensa: da 43 anni sto con una donna che è meravigliosa e siamo una cosa sola. Posso aver avuto tutti i dolori del mondo, ma posso anche dire che per 43 anni ho avuto al mio fianco una persona con cui — nel bene e nel male, nei litigi, nel capirsi e non capirsi — abbiamo costruito una sintassi dell’esistenza comune».

È una dichiarazione d’amore bellissima. «È quello che provo. Oggi non riesco nemmeno a comprarmi un paio di calzini se non c’è lei a consigliarmi. Se non c’è lei, non c’è una ragione».

Un po’ come per la fede, ha capito nel tempo che era un amore così o ne è stato travolto? «Non c’è una ragione: quando l’ho vista la prima volta sono crollato. E l’ho vista in mezzo cento persone, ma subito ho pensato: la mia vita parte da qui. Non so dove arriverà, ma parte da qui. Era una donna bellissima, la più bella che avessi mai visto in vita mia. E lo è ancora, ma la bellezza è la sua qualità peggiore».

Se potesse fare una domanda a Dio, cosa gli chiederebbe? «Solo: perché? E credo ne uscirebbe un libro di 6500 pagine».

Andando nel prosaico: è vero che ha una memoria portentosa? «Penso sempre di non averne mai quindi mi esercito. Ripeto mentalmente le cose tante volte e quando sono di fronte a nomi antichi complicatissimi provo a “sezionarli” associandoli a due oggetti o due numeri».

Lei ha mai fatto preferenze? Ci sono delle persone che, a priori, proprio non ama? «Dal punto di vista umano per me siamo tutti uguali, poi ci sono persone che mi stanno sui... a prescindere. Non andrei mai sullo yacht di un miliardario, ad esempio».

Magari è un miliardario simpatico... «Sono ben pochi i miliardari simpatici. Ma non frequenterei nemmeno uno che beve dalla mattina alla sera o qualcuno con idee granitiche, come un signore che sentivo parlare “dei comunisti” l’altro giorno... per il resto mi va di parlare di tutto e con tutti, rispetto chi crede in altre religioni, ma anche i laici».

Il segreto è praticare l’amore e l’ascolto, quindi? «In questo modo sono arrivato a 80 anni e me ne sento 40. Mi sento giovane, in divenire. Mi vengono in mente le parole dette da un nativo dell’Amazzonia a un esploratore che gli spiegava come si vivesse fuori dalla foresta: voi correte, correte sempre, ma perché non vi fermate un momento e aspettate che la vostra anima vi raggiunga?».

Estratto dell’articolo di Walter Veltroni per “Il Corriere della Sera” il 25 giugno 2023.

Roberto Vecchioni, com’è avere 80 anni?

«Io credo che sia un’età assolutamente uguale a tante altre. Il tempo ha due funzioni: una esterna, che ci debilita o ci opprime. È come scalare ogni giorno una montagna tremenda: è il nostro fisico. Poi c’è l’altra, con Bergson potremmo dire che è l’interiorità di ciascuno di noi. E questa stagione, che riflette il tempo della coscienza, ha poche variazioni. 

Magari ha slittamenti intellettuali, ideologici, ma la sua natura, dai vent’anni in poi, non si riduce. Anzi, aumenta ogni ora. È un tempo della vita di cui ti sai appropriare. Si è capaci di custodirlo, di assaporarlo con il pensiero. Mentre il destino ha un peso rilevante nella vita fisica, in quella della tua coscienza conta ben poco. È proprio la tua scelta che vince, il libero arbitrio del tuo ragionare e delle tue decisioni».

Quali dei sogni che avevi da ragazzo si sono realizzati?

«Nessuno completamente. Si sono realizzati in parte, poi si sono spezzettati, poi realizzati di nuovo. È il ciclo normale dell’esistenza umana: primavera, estate, autunno, inverno. Le settimane che finiscono inevitabilmente con domenica e cominciano con lunedì. La vita del mondo è un ciclo, non esiste una definizione finale o un approdo finale. Questo consente di tenere vivi i tuoi sogni e di poterli realizzare un pezzetto alla volta, oppure di accontentarti di ciò che sei riuscito a fare. […]». 

Cosa ti fa pensare la guerra in Ucraina?

«Non c’è lungimiranza. Io vorrei portare Putin davanti ad un prato della pianura padana per fargli vedere quanta erba c’è. Poi tirare su un filo e dirgli: “Questo prato è l’universo, questo filo è la Russia, cosa credi di fare?”. […]». 

Immaginiamo che tu possa telefonare a casa tua in un momento della tua vita e parlare con te stesso, quale momento sceglieresti?

«Questa tua domanda mi colpisce. Fuori sacco ti racconto cosa sto scrivendo. Tu non lo dirai mai».

[…] Gli errori che consiglieresti a te bambino di non fare?

«Ne ho fatti tantissimi, anche grandi. C’è sempre gente che dice “no io non rifarei tutto quello che ho fatto”. Ma, in realtà, se fai un’altra cosa, sbagli lo stesso. […] La vita è fatta di errori, di salti, di sbagli e io ne ho fatti tanti. La mia carriera ha influito tanto, tantissimo per le persone che mi sono vicine. Però se avessi rinunciato alla mia carriera probabilmente sarebbe successo qualcos’altro. 

Molti amici li ho persi per colpa mia, perché mi sono comportato in maniera stupida o arrogante. Li ho persi e qualcuno non l’ho ritrovato più. Gli errori sono sempre sugli affetti, mai sulle cose. Non mi importa nulla di aver vinto o no Sanremo. L’errore è sull’affetto sbagliato, non compreso o non dare nel momento in cui devi». […]

E la musica quando la incontri?

«Ho cominciato perché sentivo a radio Luxembourg canzoni americane, francesi. Sempre per la mia curiosità, la mia voglia di cercare ciò che non sapevo già, ho voluto imparare a suonare la chitarra. Ho tentato di imparare da solo, ma non riuscivo, allora mia mamma che era una donna meravigliosa, mi ha preso un maestro. 

Lui insegnava con il solfeggio, io però volevo gli accordi per suonare le canzoni. Dopo quattro lezioni il maestro è tornato da mia madre e le ha detto “Le ridò i soldi, suo figlio di musica non capisce niente”. Così è iniziata la mia carriera». [...]

Sanremo cosa è stato per te?

«Inimmaginabile, quello che è successo. Innanzitutto quel rompicoglioni di Morandi che mi telefonava ogni giorno per farmi andare. È persino venuto a casa mia da Bologna per prendermi per il collo. Io gli dicevo che non avevo brani, che la mia musica con Sanremo non c’entrava niente. Ma lui insisteva. Una sera mi trovavo a Roma per un concerto. Vivevamo un periodo brutto, il 2011, e io ero addolorato per l’Italia. Il portiere di notte dell’albergo mi disse “Professo’, adda passà ‘a nuttata”. 

Io ero in ascensore e quella frase mi era restata dentro. Pensavo “questa maledetta notte dovrà pur finire”. In camera avevo scritto già mezza canzone, nella mia testa. Non avevo niente per scrivere e allora ho telefonato al mio arrangiatore e gli ho cantato tutta la canzone per telefono. Il giorno dopo ho chiamato Morandi e gli ho detto: “Gianni, ce l’ho, la canzone”». […]

Anche «Luci a San Siro» e «Samarcanda» mica son da buttare via…

«Luci a San Siro è una canzone d’anima, quelle che vengono fuori così, senza neanche bisogno di ragionare. Samarcanda l’ho scritta tra Milano e Bologna in macchina. Mio padre è morto proprio quando sembrava che stesse guarendo. Era malato di cancro, sembrava guarito, ma nel momento in cui pensavamo che fosse tutto a posto, il destino se l’è preso. 

Ho ricordato la leggenda araba del re che salva il suo servo e lo manda in un’altra città per allontanarlo dalla morte. Ho scritto questa storia durante quel viaggio in auto. Ce l’avevo già tutta. Solo che mi mancava uno spunto, qualcosa. Sì, era una bella canzone, però volevo metterci qualcosa che giungesse a tutti. Arrivo a Bologna, a un semaforo. Uno davanti a me frena, all’improvviso, io gli vado quasi addosso e gli urlo “Oh, coglione!” E quell’“Oh coglione” è diventato “Oh cavallo”». […]

C’è un altro brano, quello su tuo figlio Arrigo, morto a trentasei anni due mesi fa: «Figlio chi si è preso il tuo domani /quelli che hanno il mondo nelle mani».

«Questa è una canzone che io amo tantissimo, anche se non è mai andata. Era un ritratto abbastanza preciso di una pubertà, di una gioventù che si lasciava andare. Arrigo aveva tante meravigliose qualità, in primo luogo la sensibilità. 

Ma anche tante debolezze, insicurezze, incertezze che non c’era modo di fargli passare e che forse aumentavano nel vedere il padre che aveva successo. Ma qui siamo alla domanda di prima: che strada prendere? Che errore non fare? Rinunciare ai concerti? Non lo so...»

Cosa è stata per te la sua fine?

«Una cesura tra una vita e un’altra, lo è stato ancora di più per mia moglie. Non l’ho presa come un’ingiustizia. Questo no, assolutamente no. Mi viene in mente Eschilo che diceva: “Si impara soffrendo”. Forse dalla felicità non si impara un cazzo. Si impara solo soffrendo, sperando di tornare alla felicità. È stato il crollo del mondo, dell’universo, ma non di certezze e ideali. 

E poi lo sento dentro fortissimo, mio figlio. Lo sento intensamente, Arrigo, me lo rivedo dentro continuamente. Lui era bipolare, ho una metafora: un giorno, tornando dall’ospedale vicino Piacenza dove lui andava a fare terapia, abbiamo preso la Statale per andare a Desenzano ed era piena di autovelox.

Gli ho detto “Facciamo una cosa: tu guida, passa, ogni volta che c’è un autovelox te lo dico e tu rallenti”. Abbiamo fatto questa strada di corsa e sembrava la vita, proprio. Corsa, corsa corsa e ad ogni autovelox lo fermavo. Quando siamo arrivati lui mi ha abbracciato e mi ha detto: “Li abbiamo fottuti tutti, papà”. E invece un autovelox ci aveva beccati. Ho tentato di dire: “Non è colpa sua, ma mia, guidavo io”. “Eh no...” hanno risposto. “... abbiamo visto, prendiamo lui”». Questa è la morte di mio figlio: gli autovelox della vita».

«Corro nel tuo cuore e non ti piglio».

«È così per tutti i padri. Il mistero che c’è, dentro un figlio o una figlia, è soprattutto quando lo vedi fare cose che non sono nelle tue consuetudini, non sono comprensibili per il tuo essere novecentesco. Lasci fare, ma non capisci. Quello per un figlio è un amore incosciente, non riesci a comprendere perché, ma sai che devi amarlo, sempre». 

La canzone si chiude con una duplice domanda: «Dimmi dimmi cosa ne sarà di te/ dimmi cosa dimmi cosa ne sarà di me». 

Che risposta ti dai oggi?

«Lui non lo sapeva, cosa sarebbe stato di sé. Non potevo chiederglielo, però potevo chiedergli cosa ne sarà di me. Nella sua intelligenza avrebbe risposto: “Padre non smettere mai di correre per quella strada, perché è la tua vita”. Mi avrebbe risposto così».

Il più letto del 2022. Roberto Vecchioni: «Scoprii che mia moglie mi tradiva. Mia figlia lesbica? Sempre saputo (e non ci ho mai badato)». Caterina Ruggi d’Aragona su Il Corriere della Sera il 24 dicembre 2022.

Il cantautore si racconta presentando il nuovo album: «I giovani siano curiosi come Ulisse»

«E se non potrai correre/ e nemmeno camminare/ ti insegnerò a volare». È un inno alla vita, sempre e comunque, anche di fronte alle avversità, la canzone che Roberto Vecchioni e Francesco Guccini dedicano ad Alex Zanardi, con una citazione di Kavafis: «Se partirai per Itaca ti aspetta un lungo viaggio…». In effetti, il viaggio di Odisseo è il riferimento letterario supremo di «Infinito», ultimo album di Roberto Vecchioni, a cui è dedicata la sua tournée «L’Infinito, parole e musica», che giovedì (ore 21.15) si ferma al Politeama Pratese. 

È felice di tornare a Prato? 

«Tanto! Mi lega a Prato il ricordo di uno dei simposi più belli della mia vita: una baldoria colossale! Avevo tra i 30 e i 40 anni: dopo il concerto in un campo sportivo, mi fermai con gli operai di una laneria in un postaccio (forse una cantina) tutta la notte a cantare, chiacchierare, scherzare... Facemmo l’alba a raccontarci barzellette, sciocchezze e cose della vita. Mi colpì la grande spiritosaggine dei toscani, la capacità di ridicolizzare le cose tragiche, di infierire in modo ironico, a volte sconcio, sempre con grande intelligenza». 

A Firenze, invece, ha un ricordo amaro, raccontato nella canzone «Due giornate fiorentine»… 

«In verità ero sulle colline intorno a Scandicci con la mia prima moglie, quando ho scoperto il suo tradimento. E il matrimonio è finito. Lo sfondo troppo bello strideva con il mio dolore, perciò scappai via. Ma Firenze non ha colpe; è simbolo dell’umanità, perché da lì inizia l’Italia, e mi ispira solo pensieri positivi». 

Ed è a metà strada tra la sua Milano e Napoli, città d’origine dei suoi genitori… 

«Sono tre città così diverse che potrebbero appartenere a tre nazioni. Oggi Milano è l’unica città europea d’Italia: tutto vi avviene e tutto può avvenire. Firenze è gioiello di antichità che arriva nel presente con l’arte e la cultura. Napoli è sogno, fantasia, speranza, desiderio, un ammasso di tutte le spiritualità possibili. Io non potrei mai lasciare Milano, che è mia madre, mio padre, mio figlio e il mio cane». 

Torniamo all’ultimo album: cos’è per lei l’infinito? 

«Un grande cerchio, come ben dicono tutti i grandi pensatori. È ricorrente l’associazione tra l’infinito e le curve di una donna. D’altronde, perfino gli atomi sono circolari; le uniche cose piatte dell’universo le abbiamo costruite noi umani. Per immaginare l’infinito dobbiamo invece pensare a Ulisse, e alla nostalgia del ritorno». 

Il suo tour è una sorta di ritorno, uno sguardo sul passato, da cui emerge una sua idea nuova di amore per la vita… 

«Con l’età ti accorgi dei particolari. Mentre fino a 60 anni, hai pensieri grandi — la pace nel mondo, la libertà per tutti, l’esistenza di Dio… — , alla mia età pensi a te stesso. Parafrasando Cartesio, penso, quindi esisto. Non esisto perché penso; ma vivo, qualunque sia il mondo. E allora godo delle piccole cose, come l’amore per i nipoti, le poesie che posso scrivere, i sorrisi che posso fare alla gente che incontro. Cose piccole, ma importantissime». 

Come ha vissuto gli ultimi due anni? 

«Con un grande magone. La gente non può immaginare cosa sia per un artista la mancanza del palcoscenico. Non è come un operaio senza officina o un avvocato senza studio. Perché solo quando sale sul palco l’artista è pienamente se stesso». 

Come è sopravvissuto ai lockdown? 

«Con una moglie meravigliosa, continui messaggi di amici e colleghi, i miei quattro nipoti, quando ho potuto ricominciare a vederli. Ho pubblicato per Einaudi il romanzo Lezioni di volo e di atterraggio, andato benissimo. E adesso ne sto scrivendo un altro su una donna universale, una somma di tutte le donne che ho conosciuto e di tutte le grandi della storia, da Marie Curie a Emily Dickinson, da Saffo a Vittoria Colonna».

 La beffa è che per la canzone «Voglio una donna» fu accusato di anti-femminismo… 

«Non fu capita la mia provocazione. Dicevo “Voglio una donna con la gonna” per celebrare la donna nella sua femminilità, invitandola a non rinunciare alla differenza con il maschio. Io non parlerei mai di parità di genere, ma di parità tra i generi». 

Come ha vissuto l’omosessualità della sua primogenita? 

«Francesca aveva 15 anni quando venne da me impaurita sussurrando “Papà ti devo dire una cosa”. Le chiesi: “Che c’è? Sei drogata? Ti sei innamorata di un assassino? No? Allora vaf..., mi hai fatto prendere un colpo”. L’ho sempre saputo, e non ci ho mai badato. Trent’anni fa, sono stato un anticipatore. Credo che l’amore sia universale e ciascuno possa fare le sue scelte. Ho accompagnato Francesca tre volte ad Amsterdam per la fecondazione assistita; alla fine sono arrivate due gemelline che oggi hanno 9 anni. So che lei l’ha fatto per me, perché voleva farmi diventare nonno. Poi anche Carolina ha avuto due figlie. Per tutte e quattro, sono un nonno che gioca tanto». 

Francesca ha subito discriminazioni? 

«Sicuramente; ma è un bulldozer. Oltre a occuparsi di pr e scrivere saggi, ha fondato e presiede l’associazione Diversity, che nella kermesse di maggio radunerà pensatori, intellettuali e attori. A 18 anni scelse di venire a vivere a Milano per l’università; siamo rimasti sempre “pappa e ciccia”. Anche Edoardo (l’ultimo figlio, avuto dopo Carolina e Arrigo dall’attuale moglie, Daria Colombo, mentre Francesca è nata dal primo matrimonio) mi somiglia tanto. L’unico piccolo dramma dei miei figli è il senso imitativo del padre. Si sentono artisti, un po’ fuori dal mondo, con velleità letterarie. Forse è colpa mia: li ho fatti sognare troppo, di realtà ne ho data poca. Ma è di realtà che c’è bisogno per confrontarsi con la vita, con le persone, con il lavoro». 

Come spiegherebbe ai giovani la guerra che si sta combattendo ai confini dell’Europa? 

«I giovani sono diversissimi. Quando insegnavo al liceo mi adattavo alle loro diversità. Con tutti, bisogna parlare tanto, anche perché tendono ad essere idealisti e categorici. Va bene essere pacifisti, ma anche Gesù se avesse avuto una serie di pugni invece di un solo schiaffo probabilmente non avrebbe dato l’altra guancia… Insomma, l’Ucraina non poteva evitare la guerra; ma qualcosa è andato storto negli anni scorsi. Gli equilibri mondiali erano sconnessi. Se studiassimo di più la storia antica vivremmo più tranquilli. Allo Iulm, nel corso “Contemporaneità dell’Antico”, insegno proprio le risposte che può darci il passato. Invece, viviamo tutti al quinto piano di un palazzo che non ha niente sotto. Poi è chiaro che inizia a scricchiolare». 

Nel brano «Ti insegnerò a volare» ribadisce che non importa arrivare primi, ma essere più forti del destino… 

«I ragazzi dovrebbero tornare a essere come Ulisse, con la sua curiosità per il mondo. Purtroppo oggi Ulisse non compierebbe il suo viaggio per scoprire il mondo, ma per trovare ricchezza e potere».

Francesca Vecchioni: «Fu papà Roberto a spingermi al coming out Poi disse: non potevi dirmelo prima?» Elena Tebano su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

Francesca, la figlia del cantautore Roberto Vecchioni, racconta il suo coming out: ero appena uscita dall’adolescenza e temevo la sua reazione

«A dire la verità non avevo nessuna intenzione di fare coming out con mio padre, perché avevo paura della sua reazione. È stato lui che è venuto a chiedermi». Francesca Vecchioni, 47 anni, figlia del cantautore Roberto Vecchioni e presidente della Fondazione Diversity — no profit che promuove la cultura dell’inclusione nei media, nelle aziende e nella società — ricorda così il giorno in cui ha detto a suo padre di essere lesbica.

Come è successo?

«Era maggio, io ero appena uscita dall’adolescenza. Mi chiese se frequentavo qualcuno: mi rovesciai addosso il succo che stavo bevendo. Fino ad allora non avevo detto nulla della mia vita sentimentale: non volevo mentire e quindi omettevo».

Cosa rispose?

«Che era complicato. Si allarmò subito: “Perché non me lo vuoi dire, cosa c’è che non va? È un drogato, un poco di buono?! Non sarà mica in galera, vero?”. Era troppo, non potevo non dirglielo: “È che non sto con un uomo, papà, sto con una donna!”. Rimase un attimo in silenzio. Poi mi disse: “Ma vaff… mi hai fatto spaventare… Non sapevo più cosa pensare! Ma non me lo potevi dire subito?!».

Era preoccupata che non la accettasse?

«Si ha sempre paura di fare coming out: dipende dalle aspettative che credi che i tuoi genitori abbiano su di te. Ma le aspettative sono plasmate dalla società e quindi siamo noi stessi responsabili di questa cosa: la politica, i media e ognuno di noi. Era anche trent’anni fa: oggi dovrebbe essere diverso, anche se purtroppo ci sono molti casi in cui fare coming out con i propri genitori significa ancora trovarsi di fronte a un muro insormontabile. Adesso che sono madre ho capito ancora di più l’importanza di quelle domande. E della reazione di mio padre e di mia madre: anche lei è stata subito accogliente».

Perché sono importanti?

«So che un genitore non può realizzare appieno il rapporto con i propri figli se non lo rende autentico. Nessuno può star bene con un padre o una madre che non lo ama per quello che è. E i genitori che non hanno la capacità di comprendere com’è il loro figlio o la loro figlia rischiano di perderli. Anche perché nessuno diventa gay o trans per le influenze esterne, come qualcuno ancora pensa: non lo scegli come non scegli il colore della pelle».

Lei ha avuto due gemelle, che adesso hanno dieci anni, con la sua ex compagna Alessandra Brogno: avete mai subito discriminazioni?

«No. Tutti, dai vicini di casa ai genitori dei compagni di scuola delle bambine sono sempre stati aperti. La società è più avanti della politica».

Poi vi siete separate, come succede a molte coppie: questo vi ha creato problemi a livello burocratico?

«Abbiamo avuto la fortuna di essere residenti nel comune di Milano, con figlie nate nel comune di Milano: ci ha riconosciuto il sindaco, un processo immediato che ci ha permesso di evitare i lunghi ricorsi in tribunali per l’adozione in casi particolari. E l’assurdità che Alessandra dovesse “adottare” le sue figlie, magari dopo anni di attesa e incertezza. Nella maggior parte delle città non è così».

A proposito di madri: la ministra della Famiglia Eugenia Roccella ha detto che non modificherà il decreto Salvini del 2018 che ha imposto di scrivere «madre» e «padre» sulle carte di identità dei minori nonostante una sentenza del Tribunale di Roma che ne ha sancito l’illegittimità. E nonostante il parere del Garante per la Privacy secondo cui questa dicitura potrebbe limitare i diritti dei figli delle coppie dello stesso sesso.

«Sono andata a rivedere la mia prima carta di identità, rilasciata più di quarant’anni fa: c’era scritto “genitori o chi ne fa le veci”. Poi sono andata a vedere la carta di identità delle mie figlie, che sono nate nel 2012, e anche lì c’era scritto “genitore o chi ne fa le veci”. Prima del decreto Salvini nessuno riteneva un problema non avere “madre” e “padre” sui documenti. E non per via delle famiglie omogenitoriali, ma perché il concetto di genitore è inclusivo. Riconosce tutte le famiglie: quelle etero, quelle omogenitoriali, quelle in cui c’è un solo genitore o genitori affidatari».

La ministra dice che chi vuole la dicitura genitore può fare ricorso.

«Mi preoccupa che un ministro spinga i cittadini a rivolgersi ai giudici. Intanto perché costringe i tribunali, già intasati, a intervenire a spese dei contribuenti per far riconoscere un diritto che i bambini e le bambine dovrebbero già avere acquisito nel momento in cui sono stati riconosciuti. E poi perché così mette in conto l’esistenza di bambini di serie A e di serie B: crea una difformità di diritti e tutele tra quelli che hanno bisogno del tribunale per avere la carta di identità scritta correttamente e quelli che ce l’hanno subito».

Francesca Vecchioni, il coming out e la reazione di papà Roberto: "Fu sollevato". A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica il 29 Dicembre 2022.

La figlia del cantautore racconta di quando rivelò al padre di essere lesbica. E si dice preoccupata sulla questione della carta d'identità con mamma e papà anche per i genitori gay

Francesca Vecchioni, 47 anni, è la figlia del cantautore Roberto. Ma è anche presidente dell'associazione Diversity, che promuove la cultura dell'inclusione nei media, nelle aziende e nella società. In un'intervista al Corriere della Sera racconta del suo coming out e della reazione del padre.

"Avevo paura della sua reazione"

"A dire la verità non avevo nessuna intenzione di fare coming out con mio padre, perché avevo paura della sua reazione. È stato lui che è venuto a chiedermi", ha detto al Corriere della Sera.

"Era maggio, io ero appena uscita dall'adolescenza. Mi chiese se frequentavo qualcuno: mi rovesciai addosso il succo che stavo bevendo. Fino ad allora non avevo detto nulla della mia vita sentimentale. Non volevo mentire e quindi omettevo".

I timori di papà Roberto

"Gli dissi che era complicato", spiega Francesca aggiungendo che Vecchioni padre "si allarmò subito: 'Perché non me lo vuoi dire, cosa c'è che non va? È un drogato, un poco di buono?! Non sarà mica in galera, vero?'. Era troppo, non potevo non dirglielo: "È che non sto con un uomo, papà, sto con una donna!". Rimase un attimo in silenzio. Poi mi disse: "Ma vaff... mi hai fatto spaventare... Non sapevo più cosa pensare! Ma non me lo potevi dire subito?!".

La reazione della madre

Anche la madre Irene Bozzi (prima moglie di Roberto Vecchioni) è stata molto accogliente. "Si ha sempre paura di fare coming out: dipende dalle aspettative che credi che i tuoi genitori abbiano su di te. Ma le aspettative sono plasmate dalla società e quindi siamo noi stessi responsabili di questa cosa: la politica, i media e ognuno di noi", aggiunge Francesca Vecchioni.

Mamma separata

La donna ha avuto due gemelle, Nina e Cloe, con la compagna Alessandra Brogno. Poi si sono separate: "Abbiamo avuto la fortuna di essere residenti nel comune di Milano, con figlie nate nel comune di Milano. Ci ha riconosciuto il sindaco, un processo immediato che ci ha permesso di evitare i lunghi ricorsi in tribunali per l'adozione in casi particolari. E l'assurdità che Alessandra dovesse "adottare" le sue figlie, magari dopo anni di attesa e incertezza. "Nella maggior parte delle città non è così", commenta.

La carta di identità

E sulla questione della carta d'identità con mamma e papà anche per i genitori gay dice: "Mi preoccupa che un ministro spinga i cittadini a rivolgersi ai giudici. Intanto perché costringe i tribunali, già intasati, a intervenire a spese dei contribuenti per far riconoscere un diritto che i bambini e le bambine dovrebbero già avere acquisito nel momento in cui sono stati riconosciuti. E poi perché così mette in conto l'esistenza di bambini di serie A e di serie B: crea una difformità di diritti e tutele tra quelli che hanno bisogno del tribunale per avere la carta di identità scritta correttamente e quelli che ce l'hanno subito".

Rocco Hunt e i tormentoni: «Ho una doppia anima: credo nel rap di denuncia ma è tempo di leggerezza con il pop commerciale». Il cantante campano lancia «Un bacio all’improvviso» con la star spagnola Ana Mena dopo la hit «A un passo dalla luna» del 2020. Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 5 giugno 2023.

Li avevamo lasciati «A un passo dalla luna», li ritroviamo a scambiarsi «Un bacio all’improvviso». Rocco Hunt e Ana Mena tornano a scaldare anche questa estate con una nuova dose di pop, reggaeton e bachata. Il sodalizio dello scorso anno tra il rapper e hitmaker campano e la stellina spagnola ha portato risultati strabilianti: «A un passo dalla luna» ha superato i 350 milioni di streaming, ha nove dischi di platino tra versione italiana e versione spagnola, è entrata nelle classifiche di America Latina, Spagna, Francia. Un successo che si aggiunge alla lista di tormentoni di cui Rocco Pagliarulo è autore, da «Roma - Bangkok» di Baby K e Giusy Ferreri a tanti brani scritti con i Boomdabash, tra cui «Karaoke».

Squadra che vince non si cambia?

«Si dice che la musica sia usa e getta ma io e Ana abbiamo fatto un piccolo miracolo, cioè far durare A un passo dalla luna per più di un anno, quindi è stato spontaneo avere un follow up. E poi tra noi è nata una bella amicizia».

Cosa avete in comune?

«Siamo due ragazzi del sud, io salernitano e lei malagueña. Quel sud viscerale fatto di tradizioni e contaminazioni popolari. Lei da piccola cantava il flamenco, io le canzoni napoletane».

Cosa ama della sua voce?

«Non so se mia moglie approva, ma Ana ha un timbro sensuale e soave che a tratti ricorda quello di una bambina, con sfumature spagnole».

Non temete di ripetervi?

«Credo sia un ritorno che la gente voleva. Lavorando a tanti successi dell’estate ho visto che i bis funzionano. È chiaro però che l’anno prossimo bisognerà fare qualcosa di nuovo: tre volte consecutive no».

«Tormentone» spesso ha un’accezione negativa.

«Ho scritto pezzi seri nella mia vita, ma questo non lo è ed è fatto apposta. Pensate se dopo i mesi passati arrivasse una canzone pesante! Comunque nessuno ha la pretesa di accontentare tutti, ma anche chi parla male dei tormentoni almeno una volta, sentendoli, un sorriso lo fa».

C’è una corsa annuale ad azzeccare la hit?

«Fortunatamente sono un cantante estivo atipico e non mi ritengo vittima della gara dei tormentoni. Non sono come quelli che sbucano a maggio e vanno via a settembre, i “Bublé del Natale”. Ho una carriera anche d’inverno».

È anche tra gli italiani più sentiti al mondo su Spotify.

«Sono stato anche primo in radio in Spagna: non succedeva da Laura o Eros. Finalmente noi italiani siamo un pochino cool e sono felice anche per i Måneskin, arrivano dal niente e hanno risultati storici. Hanno rievocato la nostalgia del rock, io l’ho fatto con il pop-rap: spero si aggiungano altri».

Nel 2014 la sua «Nu juorno buono» ha vinto Sanremo tra le nuove proposte.

«Era la prima volta per un brano rap, parlavo della mia terra e di speranza, ma c’erano parole in napoletano e temevo di non essere capito. Sette anni dopo, il rap in tv è diventato naturale e anche il napoletano è di nuovo cool».

Come concilia il lato da hitmaker e quello di rapper?

«Ho due anime ma dietro c’è sempre Rocco. Il rap e la denuncia sociale sono la mia vera essenza, ma dentro di me c’è stata un’evoluzione e ho fatto delle cose potenti a livello commerciale».

Commerciale per lei è...?

«Un complimento, significa piacere a tanti, anche a mia nonna e mio figlio. Ho cambiato stato sociale con la musica, perché negarlo. Non avrebbe senso parlare di strada o rivalsa se ora non mi appartengono più. Ma non mi faccio mancare l’anima arrabbiata e non dimentico le mie origini».

Un paio di anni fa, sui social, aveva annunciato l’addio alla musica.

«Non era quello il messaggio. Si trattava di una delusione momentanea di cui ho voluto rendere partecipi i fan. Ma ho peccato di immaturità, avrei potuto evitare. Non ho mai pensato di mollare».

A 26 anni ha già famiglia: suo figlio ama le sue hit?

«A 4 anni è uno spoiler vivente. Così a marzo la maestra ha chiamato mia moglie chiedendo cosa fosse questo “bacio all’improvviso” che sentiva cantare dalla sua classe...».

Rocco Hunt: «Ecco perché non accettai di scrivere l’inno del Napoli. Sanremo? Un tritacarne». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 5 giugno 2023.

Il rapper: «Jovanotti mi ispira, Pino Daniele lo chiamavo Maestro. Mio figlio di 6 anni spoilera sempre le mie nuove canzoni cantandole in classe ai suoi compagni»

Lo sa di essere una voce della Treccani? «Rocco Hunt: nome d’arte del rapper italiano Rocco Pagliarulo».

«Uà, me l’avevano detto, non ci credevo. Mi sento improvvisamente colto. Pensare che dodici anni fa mi ascoltavano giusto tre cani».

A casa la chiamano Rocchino.

«Resto sempre il piccolino, pure se sono cresciuto. I miei hanno festeggiato i 29 anni di matrimonio. “Il giorno delle nozze c’ero già anch’io, nella tua pancia”, ho ricordato a mamma. “E sennò mica me lo sposavo a tuo padre”, ah ah».

Ha raccontato: «Sono cresciuto in una stanzetta con la muffa alle pareti».

«La casa era umida, specie d’inverno, ma non c’erano i soldi per chiamare il pittore e togliere le macchie. Però le canzoni più belle le ho scritte lì, anche Nu juorno buono. Avevo fame di vita, di emozioni, di conoscenze».

Anche fame vera?

«Quella mai, ringraziando Dio. Papà era operatore ecologico e si è sempre fatto in quattro per noi, anche quando è rimasto disoccupato e lo vedevo piangere la sera».

E che altro c’era in quella cameretta?

«Tutti i ritagli di stampa che parlavano di me. E il ritratto di Padre Pio, quello stava in ogni stanza della casa. Un giorno papà è entrato e mi ha visto provare le mosse di rap e hip-hop. Sconsolato, ha guardato il quadro implorando la grazia: “Padreppìo aiutalo tu”».

E l’aiuto celeste forse è arrivato quando ha vinto Sanremo tra le Nuove Proposte nel 2014.

«E lui si è tatuato sulla schiena il volto gigante del santo, insieme al titolo della mia canzone».

Dai 15 ai 17 anni, in attesa di successo, faceva il pescivendolo nella bottega di zio Franco.

«Noi di Salerno ci chiamano “i pesciaioli”. Mi svegliavo anche alle quattro di mattina, se c’era il mercato. E quando uscivo incontravo i miei amici che tornavano dalla discoteca, che invidia. Ma con quei soldi mi sono prodotto il primo video, che in un mese ha fatto 40 mila visualizzazioni su YouTube e alla fine mi ha chiamato la Sony».

Che ha imparato in pescheria?

«L’arte di pulire e spinare il pesce. So capire se è fresco con un solo sguardo. Mai comprarlo senza testa, specie i gamberi. Vuole dire che sono almeno del giorno prima».

È cresciuto ai bordi di periferia.

«Al quartiere di Santa Margherita di Pastena o al Ciampa ‘e cavallo, a forma di ferro di cavallo, costruito da Bruno Zevi, sempre ai confini della città, tra le palazzine popolari dell’Ina Casa, quelle con i mattoncini marroni. Adesso sono pezzi da collezione, li vendono su e-Bay».

Dove è più facile perdersi.

«Tanti amici hanno preso una direzione sbagliata e hanno pagato con il carcere o con la vita. La strada avrebbe potuto inghiottire anche me, è stata dura, ma le difficoltà mi hanno dato forza, una marcia in più. La nostra era una famiglia umile ma pulita, di lavoratori. Mi ha salvato. Sono stato fortunato, lì davvero uno su mille ce la fa e io ce l’ho fatta. Quando torno giù, ritrovo gli stessi compagni di allora: uno fa l’operaio, uno il corriere, uno il cameriere, ma siamo ancora noi».

Di quel primo Festival che cosa ricorda?

«Ero un bambino, nemmeno capivo dov’ero, sul palco di Sanremo il mio genere musicale non si era mai visto. Tanto meno un brano che parlava della Terra dei Fuochi. Ma ho preso tanti voti in più di molti Big in gara. Arisa fu molto gentile con me. E subito dopo la vittoria mi arrivarono messaggini di Jovanotti, Eros Ramazzotti, Gigi D’Alessio. A Salerno spararono i fuochi d’artificio, la città era tappezzata di foto mie, come se avessi vinto le elezioni».

E del secondo, nel 2016, tra i Campioni?

«Ero più dentro al business, conoscevo tutti. Durante Sanremo però non ci si frequenta, è un tritacarne, si resta chiusi in camera a guardare la serata. Cantavo “Wake up”, in radio era andata subito forte, ero convinto di piazzarmi tra i primi tre, invece sono arrivato nono, non me lo aspettavo e ci sono rimasto male».

E a Domenica In da Massimo Giletti si sfogò: «Per me lo Stato è assente in certi momenti. Dov’era quando io mi alzavo la mattina e facevo il pescivendolo a 16 anni? E dov’era quando mio padre a casa doveva guardare il frigorifero vuoto?».

«Un giornalista mi aveva accusato di essere qualunquista e di aver fatto il solito piagnisteo del Sud. Ero nervoso e ho reagito».

A un certo punto, nel 2019, annunciò di volersi ritirare, schiacciato da troppe pressioni.

«Era soltanto uno sfogo su Instagram perché non riuscivo a pubblicare il mio album. Anche per problemi miei. Scoppiò una bomba mediatica. Poi però sono tornato, ho fatto pace con me stesso dopo due anni confusi. Ero in crisi di identità, non sapevo ancora che la strada presa era quella giusta».

Ed è cominciata la stagione dei tormentoni estivi che ancora dura: «Ti volevo dedicare» (con J-Ax e i Boomdabash), «A un passo dalla luna» e «Un bacio all’improvviso» (con Ana Mena), «Caramello» (con Elettra Lamborghini e Lola Indigo), adesso «Non litighiamo più», già disco d’oro.

«Volevo fare rap puro, ma la gente voleva altro. Un sacco di rapper vanno in crisi quando diventano troppo pop».

Chi sono i suoi migliori amici nella musica?

«Clementino, ci frequentiamo da tanto. E Geolier, fenomeno del momento, usciamo insieme quando passo per Napoli. Da piccolo era un mio fan, ha voluto la torta di compleanno con la mia faccia sopra. Rappresentiamo il riscatto di noi che cantiamo in dialetto, ormai è stato sdoganato».

C’era già stato Pino Daniele.

«Le radio passavano solo le canzoni in italiano. Zio Pino. Ho avuto l’onore di cantare con lui al Palapartenope. L’avevo incontrato negli studi di Radio Dj, mi ero imbucato per conoscerlo. “Uè uagliò, che tieni da fare a dicembre?”. “Niente, Maestro, specie se mi volete voi”».

Chiama Maestro anche Gigi D’Alessio?

«Con Gigi ho più confidenza. Poi c’è Eros, tra noi c’è un grande affetto. Registravo nel suo studio, facevo una cover di Edoardo Bennato: Un giorno credi. Entrò e cantò con me il ritornello. Ho un buon rapporto anche con Jovanotti, l’anno scorso sono stato al suo Jova Beach Party, abbiamo suonato insieme, forte, è stato di ispirazione per il mio percorso».

Le chiesero di scrivere l’inno del Napoli, disse di no.

«Sarebbe stato un grandissimo onore ma era più giusto che lo facesse un napoletano doc, che se lo sente sulla pelle».

Fa incetta di dischi d’oro e di platino.

«Ne ho 25 di platino e 14 d’oro, ma vorrei disintossicarmi da questa logica. La carriera te la fanno i numeri, vero, ma anche i pezzi che non vincono premi eppure entrano nel cuore della gente e la spingono a comprare il biglietto di un concerto».

Dove li tiene?

«Mia moglie mi ha proibito di portarli nella casa nuova, li ho lasciati nel mio studio di registrazione. E ho deciso di regalarne qualcuno ai miei fan storici, tanto ho un sacco di doppioni. Ma non sono mica d’oro vero».

L’ultimo video l’ha girato a Corviale, il Serpentone, periferia sud-ovest di Roma.

«Quando me l’hanno proposto sono rimasto folgorato. Ho dentro questa esigenza di rappresentare la periferia. Voglio dare speranza e regalare felicità ai bambini di quei quartieri».

L’hanno accolta come uno di famiglia.

«Alcune scene le abbiamo girate a casa di una signora che poi ci chiedeva il permesso di rientrare nella sua stanza».

Ha rimediato pure un pasto caldo? Che so, un piatto di bucatini cacio e pepe?

«Magari, stavo a dieta, solo tanti caffè. Da Caramello ho perso 15 chili».

E come?

«Allenandomi. Mangiando pulito, con il piano nutrizionale giusto, c’è anche la pizza. Ma posso bere solo un calice di vino due volte a settimana, un sacrificio per me che sono un appassionato. Qualche settimane fa ero a Bordeaux a degustare i rossi e ho sgarrato. Ci sta. Sennò come le scriviamo queste canzoni?»

Gli occhialoni fanno subito Rocco Hunt.

«Li porto dalla prima elementare, sono astigmatico, non ho mai voluto toglierli, mi piace l’immagine da scugnizzo intellettuale e me li tengo, ne ho tantissimi. A scuola mi chiamavano quattrocchi, ma anche chiattone e poi terrone, però io non mi offendevo, sono orgoglioso delle mie origini e dei miei difetti».

Ha i capelli curati al millimetro.

«È una malattia, sono fissato con la sfumatura del taglio e la barba in linea, almeno una volta alla settimana vado a confessarmi dal barbiere. Di solito mi segue Nando Quaranta, lo stesso dei calciatori del Napoli. Quando sono in tour istruisce il sostituto di turno».

Come ha conosciuto sua moglie Ada?

«Siamo amici dall’adolescenza, da quando lavoravo in pescheria. Siamo sposati da 6 anni, oddio no, da 7, se mi sente mi ammazza».

Corteggiamento lampo?

«Magari. Come tutte le donne si è fatta desiderare, le sono stato appresso per due o tre anni. Poi, quando cominciava a cedere, mi sono fatto desiderare io. Ma ho resistito due mesi».

È diventato padre a 23 anni.

«E sono fortunato, Giovanni detto Giò Giò a 6 anni è un bambino sensibile, educato, per niente viziato, frequenta una scuola internazionale a Milano».

Gli piacciono le sue canzoni?

«Sì, le ascolta sempre in anteprima, è il mio primo tester. Ma è dura fargli capire che non deve cantarle in classe, me le spoilera sempre. Non litighiamo più non era ancora uscito e tutti i suoi compagni già cantavano «la canzone dei missili». («Le tue parole sono missili, missili/Me ne arrivano tantissimi, fortissimi»).

Dagospia domenica 19 novembre 2023. Da "I Lunatici" - Rai Radio2

Rocco Papaleo: "Volevo fare il professore ma ero uno studente fallito. Sono un padre troppo apprensivo, mio figlio è il termometro del mio umore. Vivo con la paura che possa succedergli qualcosa. Gli esordi? Cantavo a una festa, mi vide Veronesi che mi consigliò a Pieraccioni...". 

Rocco Papaleo è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalle 23 alle 3. 

Papaleo ha parlato della sua carriera: "I miei inizi? Un mix tra il caso e la mia passione per la musica. Ho iniziato a suonare la chitarra da ragazzino, mi sono trovato a studiare recitazione e da lì in poi è nata anche una passione di cui non avevo conoscenza in gioventù. Attorno ai 30 anni ero a una festa, su un terrazzo, e cantavo una mia canzone.

Mi vide Veronesi, gli rimasi impresso e suggerì a Pieraccioni il mio nome quando Leonardo fece 'I Laureati'. Fu un film molto fortunato, un grande successo, ha dato una bella spinta alla mia carriera". 

Ancora Papaleo: "A scuola ero brillante ma ero anche molto distratto, avevo voglia di scherzare, di suscitare sorrisi. All'università ho iniziato facendo ingegneria, poi ho cambiato facoltà e ho scelto matematica. Puntavo a diventare insegnante, a fare il professore. Ero uno studente fallito, lì è venuta la voglia di studiare recitazione, e ho scoperto questa passione.

Come l'hanno presa in famiglia? I miei genitori non ci sono più, ma sono stati meravigliosi, non mi hanno ostacolato, mi dissero semplicemente che mi avrebbero sostenuto. Mi considero un cantattore.  I miei esempi? Giorgio Gaber, Gigi Proietti. La mia vita privata? Io mi farei fotografare volentieri con una bella donna, evidentemente sono un personaggio che non ha quel tipo di appeal e quindi non faccio fatica a proteggere la mia vita privata. In realtà forse non è così interessante da essere spiattellata in prima pagina. 

Sono un padre troppo apprensivo, la relazione con mio figlio è la mia relazione principale ed è il termometro del mio umore. Se sta bene lui per me è tutto ok. Vivo con la paura che possa succedergli qualcosa, forse non sono stato capace di dirgli i no che gli andavano detti. Nei suoi confronti ho un carattere ansioso".

Sul politicamente corretto: "La mia narrazione non urta particolarmente, è impregnata di ironia, tenerezza, dolce. Non c'è molta polemica in quello che propongo io. Non ho avuto mai un problema col politicamente corretto".

Rocco Papaleo: «Sono umile e me ne vanto». Talento, empatia, altruismo. La famiglia in Lucania. La passione per la chitarra. L’attore, ora alla regia del suo ultimo film, “Stonato”, con Giorgia nel cast, si racconta a tutto campo. “Adoro mio figlio. E non ho più paura della morte”. Aisha Cerami su la Repubblica il 16 giugno 2023. 

«Da ragazzino non sapevo fare niente», dice il regista, l’attore, il musicista, il comico, l’artista Rocco Papaleo. Un artista che ha scommesso con il caso, che ha vissuto sin da giovanissimo inseguendo una meta sfocata, fuggevole. «Ho portato avanti tante cose per tanto tempo senza sapere dove mi avrebbero condotto». Un uomo che ha percorso la sua strada scoprendo le proprie capacità passo dopo passo. Che ha dimostrato, con la tenacia di chi non può fare altro, di avere un dono.

Non è stato facile farlo parlare del suo talento, modesto come lo sono spesso gli uomini di talento, ma ha dovuto accettare una regola: non essere umile per il tempo dell’intervista. 

Questa umiltà è per lei una difesa?

«Direi che tendo a mettere le mani avanti. Potrebbe sembrare una strategia, in effetti… è che punto più a sorprendere che a deludere (ride). Però sto al gioco, mi sembra un buon esercizio, ogni tanto bisogna farsi coraggio. Sarò gentile con me stesso come faccio nel privato, dove ripongo la coscienza delle mie qualità. Anche se, diciamolo, la mia umiltà ha una forte componente di insicurezza. Ho una reale passione per il talento altrui».

Attenzione, niente umiltà!

«Ecco, per esempio sono bravo a riconoscere le qualità artistiche negli altri e sono privo di invidia. Quindi direi che ho un atteggiamento positivo nei confronti della bellezza altrui. E sono una persona empatica, a detta anche di chi mi sta vicino. Poi, certo, quando i fan mi dicono che sono il numero uno mi viene da ridere: mica sono un tennista».

Le do una mano… lei ha tante abilità. Sa suonare, scrivere canzoni, recitare, dirige film. Non crede che basti tutto questo per ritenersi fuori dal comune?

«Sono tante cose apparentemente diverse che appartengono tutte al mondo dell’intrattenimento. Sono fuori dal comune? Non lo so. Sono stato fortunato. Sono cresciuto in una cittadina di provincia, a Lauria, in Basilicata, con due genitori dall’animo semplice. Mi sono ritrovato a studiare recitazione perché una carissima amica, Vittoria, mi ha iscritto a un corso… credeva che la mia simpatia fosse commerciabile. E così ho cominciato a mettermi alla prova. A sfruttare ciò che già sapevo e a osservare chi ne sapeva di più. Suonicchiavo la chitarra, mi piaceva scrivere canzoni, facevo ridere. Poi, piano piano, gli incontri con artisti di alto livello mi hanno fatto crescere».

Suo padre era un impiegato, sua madre una casalinga. Da dove le è arrivata la passione per la musica, tanto da farle venir voglia di imparare uno strumento?

«La musica ha una forza inarrestabile. Arriva ovunque. In casa mia si sentiva sempre la radio; era la mia compagnia. D’inverno quando il buio arrivava si chiudevano le porte e io, piccolo e senza fratelli, non avevo altro che lei, la canzonetta. Con la mia mamma ascoltavamo Sanremo, Canzonissima. Programmi che mi hanno formato, che mi hanno consolato. La chitarra ho imparato a suonarla da solo e da solo ho cominciato a scrivere canzoni. Ma imitavo ciò che sentivo, ero limitato. Poi a diciannove anni, quando mi sono trasferito a Roma, ho avuto modo di incontrare tante persone interessanti che hanno ampliato il mio mondo musicale. Ricordo che quando ascoltai le canzoni di Sergio Caputo mi dissi: cavolo, uguali alle mie! Erano più belle, oggi lo ammetto, ma che qualcosa che anche io credevo di saper fare avesse successo fu una spinta incredibile. E così decisi di affinare il mio… posso dirlo?».

Lo dica.

«Talento! (ride)».

Ho letto molte sue interviste e ho notato che non parla quasi mai del suo papà.

«Vero. Mio padre lavorava all’ufficio delle imposte dirette. Era un uomo timido, silenzioso, schivo. È morto che avevo trent’anni… Ci siamo parlati in maniera molto profonda solo alla fine. Era un uomo eccezionale, ma non abbiamo mai avuto un rapporto di confidenza. Nonostante questo, è riuscito a trasmettermi, con i fatti probabilmente, il valore dell’onestà. Un’onestà che mi ritrovo addosso».

Sarebbe fiero di lei?

«Sì. Sia lui che mia madre mi hanno sempre dato una mano. Quando ho smesso l’Università hanno continuato a sostenermi economicamente. Hanno creduto in me. Sono anche venuti a vedermi a Roma, in un teatrino off. Fu quella la volta che si resero conto che stavo facendo le cose seriamente. Era un bel lavoro, quello spettacolo, non come le recite di paese a cui erano abituati. Avrei voluto che mio padre continuasse a seguire la mia vita, ma lo fa la mia mamma, che era molto legata a lui… quindi penso che se mi vede lei, allora mi vede anche lui».

Parliamo adesso del suo cinema. Lei dice sempre di essersi improvvisato un po’ in tutto. Ogni cosa sembra nata dalla fortuna o da un incontro; ma dirigere un film non prevede il dilettantismo né tanto meno il semplice estro.

«Anche lì, ho imparato osservando. Sono stato tanto tempo sui set, ho visto come si lavora. Amo il cinema, ho fatto scorpacciate di film. E mi sono circondato di ottimi professionisti che mi hanno protetto, che hanno reso tutto possibile. Io mi sono dedicato alla costruzione delle scene, come fossi in teatro. Ho, appunto, usato la mia esperienza».

C’è un film in particolare a cui si è ispirato nella ricerca del suo stile?

«“The Blues Brothers”, per esempio. Un film strepitoso, pieno della musica che amo. E anche “Little Miss Sunshine”, un film che mette in scena il tono che preferisco: malinconico, divertente e commovente».

Un po’ com’è lei.

«Giusto… è la mia natura».

E da dove viene questa malinconia?

«Sarebbe bello scoprirlo. Posso formulare ipotesi grossolane. Forse viene dal fatto che sono figlio unico… e che sono terribilmente miope. Diciamo che ho dovuto lavorare molto con l’immaginazione. Probabilmente queste due cose mi hanno fatto sentire solo. Per carità, sono circondato da affetti, ma la solitudine che si prova nella vita ha poco a che fare con gli altri».

Questa sua inquietudine l’ha sempre accompagnata?

«Alti e bassi. Ho passato momenti in cui mi pareva che il mio mestiere fosse vuoto. Poi è sempre accaduto qualcosa che mi ha riportato il sorriso. Come per esempio lavorare al mio film “Basilicata coast to coast”, o all’ultimo film: “Stonato”, dove ho lavorato con Giorgia, persona dolcissima e davvero piena di talento, lei. Una cosa importante: ho un figlio che mi riempie la vita. Ecco, l’amore che provo per lui mi fa sentire meno solo».

Ha paura della morte?

«Non più. Ho vissuto abbastanza, con grande soddisfazione. Certo, ancora voglio fare e fare. Ma che dire, quando la morte arriverà non mi troverà né impreparato né incompiuto».

Estratto dell’articolo di Valerio Palmieri per “Chi” domenica 5 novembre 2023.

Lorenzo Tano sa bene che, finora, è stato conosciuto da tutti solamente come il figlio di Rocco Siffredi, re dei film per adulti. E per lui questo non è un problema. È fiero di suo padre, dal quale ha ricevuto amore ed educazione, e non rinnega il lavoro del genitore: collabora con la sua casa di produzione per quanto riguarda la parte tecnologica e manageriale. 

Anche se non ama le domande che insistono sul padre: laureato in Economia, appassionato di sport, ha deciso di fare un’esperienza televisiva come Ballando con le stelle per mettersi alla prova in un campo a lui sconosciuto e farsi conoscere sotto questo aspetto. 

I suoi genitori, Rocco e Rosa, sono entusiasti della sua partecipazione al programma di Milly Carlucci: sono i suoi primi sostenitori, invitano tutti i fan a votarlo, e lo riempiono di consigli. Per Lorenzo, dicevamo, Ballando è una sfida soprattutto perché non ha mai amato ballare e, lo scorso aprile, si è lasciato, dopo 12 anni, con la fidanzata storica, la quale gli chiedeva di portarla in discoteca, senza successo. […]

Domanda. È arrivato da single e, dopo due puntate, la danno quasi per fidanzato. Com’è l’intesa con Lucrezia? Su che cosa si basa il vostro rapporto?

Risposta. «Abbiamo un buon rapporto professionale, stiamo uscendo insieme anche fuori dallo studio, a pranzo e a cena, ma più che altro per stabilire un rapporto a livello umano che ci aiuti a conoscerci meglio per togliere l’imbarazzo nel ballo. Ci troviamo bene a tutti i livelli». 

D. Non ha paura che la sua ex sia gelosa e torni all’attacco?

R. «No, sicuramente no, abbiamo chiuso i rapporti completamente, non credo ci sia alcun problema a riguardo».

D. È cresciuto circondato da un mondo, quello dei film per adulti, che è visto da un lato con curiosità e dall’altro con sospetto: si sprecano le battutine e viene considerato l’anticamera, anzi, la camera da letto, del peccato. Lei come lo ha vissuto?

R. «Il mio primo vero approccio con quel mondo è stato fuori dal set, perché sul set non potevo andare. Ho avuto modo di conoscere, in un contesto famigliare, gli attori, le attrici, tutti quelli che lavorano sul set, e le ho trovate persone come tutte, che sanno di avere addosso un’etichetta o dei pensieri da parte degli altri, ma alla fine, considerano normale il loro lavoro. Io ci sono cresciuto in quel contesto, accettandolo in tranquillità, non vedo differenza con gli altri mondi lavorativi».

D. Fra i progetti dell’Academy di suo padre c’è un corso sulla sessualità. Non pensa che il porno offra una visione della sessualità libera ma a volte distorta, che magari fa credere ai ragazzi che l’amore sia soltanto quello?

R. «È esattamente così, infatti l’obiettivo principale del nostro corso è proprio quello di far capire che il mondo dei film per adulti non deve essere considerato come educazione sessuale. 

Stiamo creando un corso a parte, che non c’entra con il cinema a luci rosse, ma è l’opposto, perché spieghiamo come la sessualità dovrebbe essere, anche grazie all’aiuto di professionisti. Facciamo paragoni con il mondo dei film per adulti proprio per dire che sono due ambiti distinti. 

E, visto che nessuno lo ha mai spiegato veramente, e che abbiamo esperienza in entrambi i campi, abbiamo ritenuto di poter tenere dei corsi anche sui social rivolti a tutti, per chiarire la differenza».

D. Suo papà è un’icona, ed è il primo a scherzare sul proprio ruolo. Lei appare più timido.

R. «Papà, in famiglia, è quello che ci dà campo libero su tutto, è quello “buono”, come penso in tutte le famiglie, mentre la mamma è quella che ci mette sempre in guardia: “non fare questo”, “fai attenzione”, è una dinamica classica in tutte le famiglie». […]

Protagonista nello show Rai. Chi è Lorenzo Tano, figlio di Rocco Siffredi e concorrente a ‘Ballando con le stelle’: “Paragone non mi mette ansia”. Redazione su L'Unità il 29 Settembre 2023

Ammette senza problemi che la gente “non mi conosce e se mi conoscono è perché sono suo figlio”. Il padre in questione è Rocco Siffredi, l’attore porno italiano, autentica star del settore a livello internazionale, mentre le dichiarazioni arrivano dal figlio 27enne Lorenzo Tano.

Il giovane sarà impegnato dal prossimo 21 ottobre a “Ballando con le stelle”, il programma in onda su Rai1 di cui sarà uno dei partecipanti. In una intervista al Corriere della Sera Lorenzo è estremamente sincero e non nasconde di concordare con chi ha sentenziato che la sua presenza nel programma è dovuta al solo fatto di essere figlio di Rocco Siffredi.

“Sì, ho letto già un bel po’ di commenti cattivi in questo senso. Ma in realtà io concordo – spiega Lorenzo – Rappresento una scommessa, ma più che altro la domanda è da fare agli autori che mi hanno scelto”.

Laureato in Finanza, economia e commercio, Lorenzo più che il mondo della finanza ha preferito seguire il padre: non davanti alla telecamera ma lavorando per lui nell’Academy per attori hard fondata da Siffredi in Ungheria.

“Ho iniziato a lavorare con papà – racconta il 27enne al Corriere -. Prima, da appassionato di tecnologia, gli ho fatto cambiare tutta l’attrezzatura, che era un po’ datata, ma lui non sapeva usare le nuove telecamere così ho dovuto fargli un po’ di formazione. Da lì in poi ho iniziato a lavorare fisso in produzione, concentrandomi anche su tutta la parte di progetti futuri, di ampliamento del business“.

Un lavoro come un altro per lui, che ci è cresciuto dentro visto la fama e la carriera del padre. Lorenzo però ammette che “la prima volta sul set sciocca un po’ tutti ma basta arrivare alla fine della giornata perché tutto si normalizzi completamente“. Inoltre “vivendo in Ungheria, poi, tante domande mi sono state risparmiate”. Ma spiega anche di non voler seguire le orme paterne: “Quando papà mollerà mollerò subito anche io, non continuerò a fare quello che fa, anche perché il suo stile non mi piace tantissimo. Il modo in cui fa le riprese, non è quello che farei io. Lo supporto ma quando smette dico basta anche io e lì dovrò capire cosa fare. Al momento stiamo lavorando a una piattaforma educazionale, che si rivolge a chi vuole lavorare nel settore ma, principalmente, agli altri, con un corso dedicato alla sessualità”.

Per partecipare a “Ballando con le stelle” Lorenzo dovrà anche fare ritorno in Italia: nato a Roma, dove la famiglia ha anche casa, non ci ha mai passato molto tempo. A proposito di Italia, Tano spiega che non vivendo qui non si è trovato mai a dover parlare, nelle relazioni, di suo padre, però ora che è single e ha “iniziato a frequentare di nuovo delle ragazze solo una italiana mi ha chiesto: ‘Ma tu non ti senti in ansia per essere il figlio di Rocco Siffredi?’. Le ho risposto: ‘No perché?. E lei ha detto: Boh, non so’, Ed è finita lì”. Redazione - 29 Settembre 2023

Estratto da corriere.it il 16 gennaio 2023.

Un nuovo talento dell’atletica. Si chiama Leonardo Tano, ha 23 anni e ieri nel meeting indoor di Ancona ha fatto segnare il primato personale nei 60 ostacoli, corsi in 7’’87 secondi. Leonardo ha un cognome che a molti non dirà tanto, ma ha un papà molto noto. Chi è? Rocco Siffredi, il noto pornoattore (Siffredi è infatti uno pseudonimo). Tano è il figlio minore dell’attore e di Rozsa Tassi.

[…]

Rocco Siffredi e Rózsa Tassi: il primo incontro al festival del cinema hard, il matrimonio (e i due figli), 7 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 4 maggio 2023.

Sempre insieme nonostante le difficoltà: l’attore hard (che il 4 maggio compie 59 anni) e l’ex modella sono sposati da quasi 30 anni

Gli inizi

Il suo pseudonimo si ispira a Roch Siffredi, protagonista - interpretato da Alain Delon - del film gangster «Borsalino» (1970) di Jacques Deray. Parliamo di Rocco Antonio Tano, alias Rocco Siffredi, che il 4 maggio festeggia il suo 59mo compleanno. L’attore hard ha iniziato la sua carriera nel mondo del porno nei primi anni Ottanta, con il film «Belle d'amour»: a Parigi, dove si era trasferito per lavorare nel ristorante di suo fratello, ha incontrato in un locale a luci rosse Gabriel Pontello, interprete e produttore di film hard. È stato lui a presentarlo al produttore Marc Dorcel e al regista Michel Ricaud.

Il matrimonio con Rózsa Tassi

Decine di film girati, tantissime donne sul set…ma una sola nel suo cuore. Rocco Siffredi è sposato dal 1993 con Rózsa Tassi, nome d’arte Rosa Caracciolo. Qualche mese prima l’incontro fatale agli Hot d'Or di Cannes (celebre festival dedicato al cinema hard): Rosa era stata ingaggiata per fare da testimonial a una pubblicità di telefonia erotica e Rocco, che in quel periodo stava girando il film «Il guardaspalle», le chiese di sostituire la sua partner nella pellicola. «La protagonista diede forfait e lui, a bruciapelo, mi propose di sostituirla. Non ci eravamo neppure baciati, accettai a una sola condizione: che le mie scene di sesso fossero girate soltanto con lui. Così dovettero cambiare la sceneggiatura e il film si trasformò in una versione hard di The Bodyguard. Lui faceva Kevin Costner e io Whitney Houston», ha raccontato Rosa nel 2011 a Panorama.

I due figli, Lorenzo e Leonardo

Da Rosa Rocco ha avuto due figli, Lorenzo (1995) e Leonardo (1999). Com’è andata quando hanno scoperto che mestiere faceva il papà? «(Ride) È la domanda classica dell’uomo italiano che si fa mille pippe mentali - ha raccontato l’attore nel 2021 al Corriere -. Io mi sono trasferito in un altro pianeta. L’importante è non far finta, non giustificarsi. È stato semplice: ho avuto una compagna super intelligente, che si chiama Rozsa e non ha mai cercato di farmi cambiare idea. Abbiamo fatto la strada insieme. I miei figli dicono che sono fortunato a fare quel che mi piace nella vita».

Il primo ritiro

«Mi hanno chiesto tante volte se sono mai stata gelosa di lui, quando girava scene con altre donne - ha detto Rosa nel 2019 intervistata dal settimanale Oggi -. Non lo sono mai stata perché mi sono sempre fidata di lui. Sapevo che quello era il suo lavoro e ha sempre fatto di tutto per provarmi ogni giorno che ci sono solo io per lui. Mi dicono che ero fin troppo tranquilla, ma era lui a darmi la sicurezza per esserlo. Sapevo e so che mi ama». In seguito alla nascita dei figli nel 2004 Rocco Siffredi ha annunciato il suo ritiro dal mondo del porno.

Il supporto di Rosa

Ma lontano dal set l’attore non era sereno: «Senza il set non stava bene - ha svelato Rosa sempre a Panorama -, e per sfogarsi era costretto ad andare a letto con delle prostitute. Allora un giorno gli ho detto: visto che io ai tuoi ritmi non ci sto, meglio che ricominci a girare. Così è stato». Il supporto di Rosa, nei momenti più difficili, è stato fondamentale per Rocco. «Mia moglie sa che purtroppo l'ho tradita con delle prostitute - ha detto nel 2018 Siffredi a Libero -. Se sei uno abituato a fare sesso tutto il giorno, diventa quasi un bisogno fisiologico. Anzi di più: una vera e propria droga. E io lo ammetto, sono stato parecchio dipendente dal sesso. Chi va su un set se ne accorge. Ci sono le luci, i tempi da rispettare, un mucchio di persone. Si va, si scopa e si riparte. Uno stop and go che nella vita reale non esiste».

Sull’Isola dei Famosi

«Voglio essere un padre e un uomo migliore. So che mia moglie merita tanto di più». Nel 2015 Rocco Siffredi ha partecipato all'Isola dei famosi. Il percorso nel reality, per sua stessa ammissione, l’ha cambiato. «Quella è stata un’esperienza di analisi vera - ha detto nel 2018 al Corriere -. Sono riuscito a tirar fuori tanta confusione, buttarla lì davanti e guardarla e ho riposizionato tutto riuscendo a capire chi io sia pur sapendo che non posso essere Rocco Siffredi senza il personaggio Rocco Siffredi. Sull’Isola guardavo il sole e la luna, i lunghissimi tramonti... E quella roba lì, le cose della natura ti ricaricano, ti danno una nuova visione della vita».

L’annuncio a Belve

Rocco Siffredi ha parlato in diverse occasioni, negli anni, della dipendenza da sesso e dei tentativi fatti per liberarsene. Nel novembre 2022, ospite di Francesca Fagnani a Belve, alla domanda «Lei ha detto che è arrivato a pensare di castrarsi, e proprio a quel punto è arrivato a chiedere aiuto a Dio tramite l’intercessione di sua madre: cioè, cosa chiedeva in quel momento?» ha risposto, visibilmente commosso: «Di farmi morire, semplicemente». Quel periodo, drammatico, della sua vita è durato a lungo: «È durato tanto - ha detto l’attore -, completamente fuori ho paura che non ci sarò mai». Nella stessa intervista con Francesca Fagnani però l’attore ha annunciato un nuovo ritiro dal porno (dopo il secondo, durato dal 2015 al 2017): «Sembra che ce la sto facendo. L’ho detto tre volte: “Mi fermo” e poi ricasco. Sono molto debole da quel punto di vista. Ora mi sono fermato da due mesi, sto bene. Mi dirigo totalmente verso mia moglie. Una volta mi dissero: “Rocco, il segreto è guardare solo tua moglie, tutta l’energia solo su di lei”. Devo dire che sta funzionando».

Raoul Bova, la lite e il processo: «Ora l’avvocato si scusi». Lui: no, mi ha aggredito. Storia di Elvira Serra su Il Corriere della Sera domenica 3 dicembre 2023. 

Difficile immaginare Raoul Bova nei panni dell’Incredibile Hulk. Eppure, il bel Don Matteo che ha preso il posto di Terence Hill sul piccolo schermo, è accusato di violenza privata, lesioni e minacce nei confronti del penalista Matteo Cartolano, del Foro di Roma. I fatti risalgono al 27 aprile del 2019 e si tratta di una cosiddetta lite stradale degenerata: secondo l’accusa, l’attore avrebbe aggredito non solo verbalmente il legale, che parcheggiando aveva fatto cadere la compagna, Rocío Morales. Cartolano ha esibito un referto dell’ospedale San Giovanni con prognosi di cinque giorni. Venerdì mattina c’è stata l’udienza davanti al giudice monocratico Valerio De Gioia, che ha invitato le parti a trovare un accordo in vista del 16 aprile 2024, quando si rivedranno tutti in Tribunale. Sarà possibile?

La versione di Raoul

«Tutto è possibile», dice ora Bova, che si è ritagliato il tempo di questa telefonata nel giorno del compleanno della primogenita avuta con Rocío, Luna, otto anni ieri (insieme hanno anche Alma, di 5, mentre lui è già padre di Alessandro e Francesco, avuti con l’ex moglie Chiara Giordano). «Ma per quanto riguarda me e la mia compagna sarebbe potuta finire all’istante nel 2019, quando è successo il fatto: bastava un semplice “scusa” o l’ammissione di aver fatto una cosa non bella nei confronti di una donna, dopo averne provocato la caduta. Eppure anche in Tribunale, alla domanda dell’avvocato se fosse disposto a chiedere scusa, Cartolano ha detto di no e questo mi sembra grave, in tempi nei quali la violenza contro le donne è diventata un’emergenza». Il penalista, dal canto suo, assicura al che prenderà in considerazione l’esortazione del giudice. Ma contesta la ricostruzione dell’attore romano: «La versione di Bova è figlia della sua notorietà: l’unica insistenza che ha avuto è stata nel prendere a calci e pugni la mia vettura e successivamente nel minacciarmi, pur non avendo visto nulla».

La richiesta di scuse

«Quello che dice lui fa un po’ sorridere», replica il protagonista della commedia Nessuno mi può giudicare. «La mia insistenza era unicamente legata alla richiesta di scuse. La prognosi per la spalla è assurda: se avessi voluto dargli un cazzotto, e non avrei mai reagito a una violenza con un’altra violenza, glielo avrei tirato in faccia, non sulla spalla. Ma vorrei chiarire che avrei fatto la stessa cosa se a cascare con il sedere per terra fosse stata un’altra donna e non Rocío, perché tutti siamo chiamati a intervenire di fronte a un’ingiustizia. È quello che insegno ai miei due figli maschi, che hanno sempre difeso le ragazze». Il padre dell’attore era di Roccella Jonica e anche su questo i due uomini hanno avuto da ridire. Bova: «Quel giorno ha dichiarato di essere un avvocato e anche calabrese, come per minacciarmi». Cartolano rettifica: «Per calmarlo, gli ho detto che suo nonno e mio nonno in paese si conoscevano».

Versioni agli antipodi

Al momento le due versioni sono agli antipodi e solo in un’aula giudiziaria i protagonisti potranno chiarirsi (e il giudice trarne le conseguenze). Bova chiude: «Non amo essere intervistato e soprattutto non ho mai usato la stampa per risolvere questioni private, ma ci tenevo a dire questo: Rocío alla fine per fortuna non si fatta niente. Ma come deve sentirsi una donna dopo che un uomo con la sua auto accelera e rischia di investirla? Non è violenza? O aspettiamo che una vittima si rompa una gamba?». Cartolano, invece, ribadisce: «Non ho fatto in tempo nemmeno a pensare o a proferire parola, sono stato aggredito con una violenza mai vista e di conseguenza il pensiero delle scuse per la manovra è svanito».

Dagospia lunedì 2 ottobre 2023. Anticipazione da “Belve”, in onda martedì 3 ottobre su Rai2

Ospite della seconda puntata di “Belve”, Raoul Bova parla della separazione dalla sua ex moglie e le conseguenti voci sulla sua omosessualità. 

Quando Francesca Fagnani gli  ricorda dell’intervista a “Vanity Fair”, in cui ci tenne a dichiarare di non essere gay, l’attore risponde imbarazzato: 

“Diciamo che in quel periodo non si ha la lucidità per dire sempre delle cose esatte. Ho semplicemente smentito quello che si diceva su di me. Molti parlano di questo lato un po’ così, ma ognuno la pensa come vuole”. 

L’attore racconta a Francesca Fagnani anche del suo rapporto con la suocera, l’avvocato Annamaria Bernardini De Pace. Quando la conduttrice ricorda di una lettera scritta dall’ex suocera e poi pubblicata, Bova racconta: 

“Sono cose che fanno le persone che hanno un grosso dolore; cercano di sfogare con la rabbia attraverso qualsiasi mezzo per danneggiare l’altro, pensando che il dolore poi si attenui. Ma penso che alla fine sia un boomerang, il dolore torna indietro”. E quando la Fagnani chiede come va adesso il rapporto, e se sono amici, Bova glissa con una risata.

Si parla anche del suo attuale rapporto con Rocío Muñoz Morales, iniziato subito dopo la fine del suo matrimonio: “Abbiamo superato a volte lo scetticismo sulla nostra storia, a volte qualche attacco, e devo dire che siamo andati avanti bene e credendo in noi stessi. Le cose, quando si lascia passare il tempo e si dimostrano con i fatti, funzionano”. 

E sulla sua immagine da conquistatore, smentisce: “Evito di creare situazioni che possono diventare ambigue”. La Fagnani chiede: “Quindi non ci prova? E lui: “No, ma neanche do l’opportunità di provarci ad alcune persone. Con amiche o conoscenti non cerco mai di creare una situazione ambigua”.

Anticipazione da Oggi il 4 marzo 2023.

In un’intervista al settimanale OGGI, in edicola da domani, la madrilena Rocío Muñoz Morales racconta il suo percorso di vita. Dal tormento vissuto per un amore tossico («avevo 19 anni, ero al servizio dell’altro, dovevo dare molto per ricevere poco») fino all’incontro con Raoul Bova sul set del film Immaturi-Il viaggio: «Ci ho messo un po’. Non dico per innamorarmi ma perché tutti e due credessimo che quello poteva essere l’amore della nostra vita». Bova la chiama «la mia compagna guerriera», e in effetti lei ha dovuto affrontare ogni genere di difficoltà. La parola più gentile? Raccomandata. «Mi ha salvata l’onestà con me stessa».

Del compagno dice: «Siamo sposati nell’anima! Certo io non gli chiederò mai di sposarmi». E quando le viene chiesto cosa l’abbia fatta innamorare risponde: «Il suo cuore, la sua anima. La sua bontà. Ne abbiamo passate tante, la base della nostra coppia è solida. Dopo dieci anni abbiamo ancora un rapporto fresco. E molto, molto passionale».

 Professionalmente, Rocío è in un momento felice: «Porto sempre me stesa in tutto quello che faccio, sono perfezionista all’eccesso». Dal 30 marzo su Rai 1 riprende il suo posto in «Un passo dal cielo». A maggio sarà accanto a Massimo Ranieri in tre prime serate, sempre su Rai 1, dal titolo «Tutti i sogni ancora in volo». Inoltre introduce otto pellicole cult su Cielo, ogni  venerdì, per il ciclo «Lo sguardo di lei», e ha una parte nel film con Fabio Volo «Una gran voglia di vivere».

E a OGGI confida un turbamento che affronta con la meditazione e sedute dallo psicologo: «Non si va in terapia per cambiare, ma per convivere al meglio con i propri difetti. Io credo di essere invincibile, onnipotente. Di riuscire a tenere sotto controllo le mie cose e quelle degli altri. Mi assumo responsabilità che non mi appartengono e questo non fa vivere bene»

Estratto dell’articolo di Giuseppina Manin per il “Corriere della Sera” giovedì 17 agosto 2023.

Domani Roman Polanski compirà 90 anni. [...] sempre pronto a rimettersi dietro la macchina da presa. Un film via l’altro, uno più sorprendente dell’altro. L’ultimo, The Palace, folle notte del capodanno 2000 in un grande albergo svizzero, a Gstaad, dove Polanski ha casa. Commedia nerissima e provocatoria, protagonisti dei ricconi viziati e viziosi che lì si ritrovano per dar sfoggio di stravaganze di ogni tipo mentre la fine del mondo incombe. Il 2 settembre l’anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia. Polemiche e risate garantite. 

Novant’anni così, prova provata che il tempo non scorre uguale per tutti, vanno festeggiati. A suo modo, senza clamore, a Parigi con la moglie Emmanuelle Seigner, i figli Morgana e Elvis, e un ristretto gruppo di amici. Tra questi Luca Barbareschi, produttore italiano dei suoi titoli più recenti, da L’ufficiale e la spia , al documentario Hometown , a The Palace , dove è anche nel cast con Olivier Masucci, Fanny Ardant, John Cleese, Mickey Rourke. «Ci vogliamo bene da 50 anni — racconta Barbareschi —. Roman è l’uomo più buono e gentile mai incontrato, oltre che l’artista straordinario che conosciamo [...]».

E tra i dettagli del compleanno c’è pure il giorno in cui cade. Venerdì, come il 18 agosto 1933, quando Rajmund Roman Thierry Liebling (vero nome del futuro Roman Polanski) viene al mondo a Parigi da una famiglia di ebrei polacchi. Tre anni dopo è già partito. Per sfuggire all’antisemitismo montante in Francia, suo padre decide di tornare a Cracovia. Pessima idea, visto che poco dopo i nazisti occupano la Polonia, Roman e i suoi vengono chiusi nel ghetto, la madre morirà a Auschwitz, il padre sopravviverà a Mauthausen. E lui, a sei anni, dovrà cavarsela da solo.

[...] deve far fronte a un calvario destinato a non finire. A salvarlo arriva il cinema. Si diploma alla Scuola di Lódz, il primo film nel ’62, Il coltello nell’acqua , lo scrive con Jerzy Skolimowski, amico sceneggiatore che ora firma anche The Palace . La Polonia gli va stretta. Polanski inizia il suo errare di déraciné. In Gran Bretagna gira tre film che lo incoronano regista di noir morbosi e beffardi, da Repulsion a Cul-de-sac a Per favore non mordermi sul collo . Di quest’ultimo è anche protagonista a fianco di Sharon Tate.

Che diventerà sua moglie e morirà nell’eccidio di Bel Air, scannata incinta di otto mesi con altre quattro persone dai seguaci di Charles Manson. 

Roman, che in quei giorni si trova a Londra, è devastato. Eppure c’è chi cerca di addossargli la colpa accusandolo di aver trafficato con il diavolo sul set del sulfureo Rosemary’s Baby.

I titoli successivi, Macbeth e Chinatown , sono improntati al più cupo pessimismo. Ma quello che forse di più svela l’animo piagato del regista è L’inquilino del terzo piano .

[...]

Cinema allucinato e allucinante, capace di esplorare zone oscure con l’arma dell’assurdo, mescolando paura e risate. [...] Nel ’77, dopo un party a casa di Jack Nicholson, viene accusato di aver violentato una ragazzina di 13 anni, Samantha Geimer. Si fa 42 giorni in cella, il giudice è intenzionato a dargli 50 anni di carcere, Roman fugge in Francia. Negli Usa non tornerà più. Iscritto nella red notice dell’Interpol, nel 2009 viene arrestato a Zurigo: farà un anno di arresti domiciliari.

Nonostante Samantha Geimer abbia dichiarato di considerare chiusa la faccenda, nuove accuse si aggiungono: la modella Valentine Monnier, a 63 anni sostiene di esser stata abusata da lui quando ne aveva 18, l’attrice Charlotte Lewis, a 43 anni riferisce molestie sul set di Pirati quand’era sedicenne. Il filone giudiziario è ancora aperto. [...]

Roman Polanski fa 90 anni: i suoi 7 migliori film. Massimo Balsamo il 18 Agosto 2023 su Il Giornale.

Il regista nato a Parigi è uno degli ultimi grandi maestri di cinema in circolazione, ma non ha alcuna intenzione di fermarsi: alla Mostra di Venezia sarà presentato il suo ultimo film, "The Palace"

Tabella dei contenuti

 Repulsion (1965)

 Rosemary’s Baby (1968)

 Chinatown (1974)

 L’inquilino del terzo piano (1976)

 Il pianista (2002)

 Carnage (2011)

 L’ufficiale e la spia (2019)

Roman Polanski è uno degli ultimi grandi maestri di cinema, questo è lapalissiano. Sessant’anni di carriera, decine di successi, diversi capolavori ma anche una vita fatta di dolori (dalla fuga dal nazismo all’assassinio della moglie Sharon Tate nell’eccidio di Cielo Drive) e di controversie. Il grande talento di Polanski è la forza naturale, unita a una natura eclettica e alla capacità di osservare la realtà da un punto di vista diverso dal suo, il più possibile oggettivo. La sua filmografia è ricca di opere stratificate e complesse, capaci di scuotere lo spettatore a prescindere dal genere, dall’horror al dramma di impostazione teatrale. Un faro della modernità che compie oggi 90 anni, ricorrenza ideale per andare a conoscere i suoi 7 migliori film.

Repulsion (1965)

Opera seconda di Roman Polanski e suo primo lungometraggio in lingua inglese, “Repulsion” è probabilmente il suo film più spaventoso. Concepito come film strettamente commerciale, “Repulsion” è un dramma che porta alla mente a Hitchcock sia per il titolo che per la scelta della protagonista, una donna biona in pericolo. Grande gestione della tensione e del turbamento, un’opera ricca di scene metaforiche e di complessi piani sequenza. Impossibile non citare la bellezza ipnotica di Catherine Deneuve, a una delle prime apparizioni sul grande schermo.

Rosemary’s Baby (1968)

Tratto dall’omonimo romanzo, “Rosemary’s Baby” è uno dei numerosi capolavori firmati da Polanski. Il regista segue fedelmente il romanzo di Ira Levin, combinando realismo e distorsione psicologica. Tra tormento e inquietudini, tra satanismo e violenza, fu un successo al botteghino anche grazie alle straordinarie interpretazioni, su tutte quelle di Mia Farrow e Ruth Gordon.

Chinatown (1974)

Primo noir della filmografia del regista, “Chinatown” è il maggiore successo di pubblico e di critica della carriera di Polanski, nonché il suo ultimo film realizzato negli Stati Uniti. Grandissimo lavoro di scrittura cinematografica – lo zenit di Robert Towne – ma sarebbe ingiusto non menzionare la regia sopraffina: “Chinatown” è straordinario dal punto di vista visivo. Numerosi gli omaggi ai classici del genere, senza rinunciare alla modernizzazione. E che meraviglia il finale!

L’inquilino del terzo piano (1976)

Come molti altri film, “L’inquilino del terzo piano” fa parte di quell’elenco di opere rivalutate con il passare degli anni. Flop al botteghino – fortunatamente non intaccò la carriera di Polanski – lo sconvolgente thriller psicologico ricorda da vicino il già citato “Repulsion”. Qui il cineasta ricopre anche il ruolo di protagonista, giocando con realtà e immaginazione.

Il pianista (2002)

Tratto dal romanzo autobiografico omonimo di Władysław Szpilman, "Il pianista" è grande cinema. Una storia straziante e intensa per raccontare un’epoca, protagonista un essere umano imperfetto e fortunato, perché sopravvissuto a una tragedia enorme come l’Olocausto. Vincitore della Palma d’oro a Cannes e di tre premi Oscar, il film ha un ritmo incalzante ed è ricco di scene rapide e dense. Per Adrien Brody l’interpretazione della vita.

Carnage (2011)

Basato sull'opera teatrale Il dio del massacro della drammaturga e scrittrice francese Yasmina Reza, "Carnage" è teatro che diventa cinema. Una straordinaria tensione narrativa, un dramma da camera che si trasforma in una partita a quattro, una pernacchia al politicamente corretto. Polanski si conferma un fuoriclasse, ancora una volta, sbugiardando senza filtri l’ipocrisia della borghesia contemporanea. Sontuosi i quattro protagonisti: Jodie Foster, Kate Winslet, Christoph Waltz e John C. Reilly.

L’ufficiale e la spia (2019)

In attesa di “The Palace” – sarà presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia – l’ultimo film di Polanski è tra le gemme della sua filmografia: “L’ufficiale e la spia”. Il regista porta sul grande schermo il caso di Alfred Dreyfus, ufficiale dell'esercito francese che nel 1894 venne accusato di spionaggio e messo sotto processo. L’errore giudiziario, il fallimento della giustizia e l’antisemitismo: tanti i temi sul tavolo, senza dimenticare l’intolleranza e la vergognosa gogna mediatica. E ancora, Polanski attraverso il caso Dreyfus accende i riflettori sul rapporto tra società ed etica, una costante del cinema polanskiano.

Il regista compie 90 anni. Chi è Roman Polanski, maestro di suspance tra avanguardia e storia del cinema. Nessuno come lui ha saputo scavare nei labirinti della psiche. Maestro di suspense, profondo conoscitore dell’animo umano e delle sue miserie, il regista ha saputo fare di ogni suo film una vera opera d’arte. Giulio Laroni su L'Unità il 17 Agosto 2023

Domani Roman Polanski compie novant’anni. Negli ultimi tempi, soprattutto dopo l’affermarsi del #MeToo, le note vicende penali che lo riguardano sono tornate al centro del dibattito pubblico e la sua opera è andata incontro a una progressiva emarginazione. Pochi – e tra questi il direttore della Mostra del Cinema di Venezia, Alberto Barbera – hanno ricordato che il piano dell’analisi critica non va sovrapposto a quello del giudizio morale sull’uomo.

L’espulsione dall’Academy di questo grande cineasta, avvenuta nel 2018, rimarrà una pagina buia nella storia del cinema contemporaneo, e ciò al di là di qualsiasi valutazione sulle azioni che ha commesso. Polanski, di cui vedremo il nuovo The Palace all’80esima Mostra del Cinema, è un autore non facile da inquadrare, anche per la sua costante attitudine a sperimentare strade nuove. La sua formazione culturale è immersa nello spirito delle avanguardie e delle neoavanguardie: legge Gombrowicz, studia Beckett e il teatro dell’assurdo, si nutre di surrealismo.

È forse questo clima che infonde alla sua opera una forte vocazione anti-dogmatica (che lo accomuna al suo amato Buñuel), una profonda diffidenza verso ogni verità data in forma precettistica. Il suo è un cinema del dubbio, che rifiuta la lotta tradizionale tra bene e male e indaga sulle espressioni più oscure dell’animo umano. Parafrasando Clouzot: “Voi credete che il bene sia la luce e l’ombra sia il male. Ma dov’è l’ombra? Dov’è la luce?”. L’esperienza della tragedia del nazismo, la deportazione dei genitori, la morte della madre ad Auschwitz lo inducono a una forte avversione per il pensiero totalitario, che si esprime ad esempio in una fede nel diritto come luogo delle sfumature, come ne L’Ufficiale e la spia (2019), o nella democrazia come alternativa alla vendetta: la Sigourney Weaver de La morte e la fanciulla (1994), scoperto per caso colui che l’aveva seviziata per conto di un regime filofascista sudamericano, decide di torturarlo con l’intenzione di ucciderlo, ma alla fine gli salva la vita, e così facendo non fa di lui un martire.

Memore della Polonia del blocco sovietico, Polanski è anche nemico dell’arte impegnata (come fa dire al protagonista di Venere in pelliccia, 2013), che subordina la forma di un’opera alla sua valenza sociale e assegna ad essa una funzione pedagogica. Il cinema ha invece per lui una forte componente soggettiva, interiore, rappresentata idealmente dal tema dell’occhio, dall’osservazione come gesto fondamentale. Questo atteggiamento, presente sin dai suoi esordi (ad esempio nel cortometraggio Un sorriso dentale, 1956, sul voyeurismo), è evidente ne L’inquilino del terzo piano (1976), che potrebbe quasi essere una rilettura surrealista e kafkiana de La finestra sul cortile (1954), ed è centrale anche ne Il Pianista (2002), in cui gli orrori del nazismo sono filtrati attraverso gli occhi di Szpilman, che spiano attraverso i vetri rotti delle case.

Non sorprende che un cinema così attento alla dimensione privata tenda fortemente verso il dato psicologico e sappia addentrarsi in modo attendibile nel mondo della malattia psichica, come nel già citato L’inquilino del terzo piano, viaggio nella schizofrenia paranoide, o in Repulsion (1965). La scrittura filmica di Polanski ha una tonalità limpida, nitida, spesso raggelata. Rifugge dalle sdolcinature, si accosta alla materia con uno stile quasi asettico, come in una descrizione anatomica. Ci sono spesso nel suo stile qualcosa di acre e di acido, delle scosse aspre, un gusto corrosivo. Forse la definizione di Lautréamont potrebbe applicarsi agevolmente anche alla sua opera: “Bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire ed un ombrello su un tavolo di dissezione”.

Se questa tendenza rimane ad uno stadio superficiale, di conflittualità non dialettica, può dar vita a un cinema delle sensazioni, a una sorta di maniera del conturbante, dove la ricerca dell’inquietudine prende le forme di un sensualismo un po’ fine a se stesso. E così il tema della degradazione, centralissimo in Polanski, si esprime talora in un effettismo insinuante, in un turbinio di psicologismi contorti. Film come Cul de sac (1966), Luna di fiele (1992),Venere in pelliccia (2013), Quello che non so di lei (2017), tutti all’insegna di una raffinata configurazione tecnica, rimangono invischiati in un paradigma ideologico, che mette in scena il rapporto di vittima e carnefice attraverso un frigido, ripetitivo schema sadomasochistico, soffocato in una gamma di emozioni ristretta.

È il lato più borghese di Polanski, che in questi casi non sa cogliere l’essenza reazionaria di un modello che fissa in modo rigido i ruoli di servo e padrone, dimenticando la lezione di Sartre: nessuno nasce vinto, né vincitore. Nel Polanski migliore i conflitti emotivi trascendono invece il piano della mera opposizione e si elevano a quello della contraddizione dialettica, avvicinandosi alla dimensione dell’assurdo autentico e dell’atonale. L’inquilino del terzo piano, ad esempio, è un’affascinante, libera avventura intellettuale che sfugge costantemente a qualsiasi pietrificazione, tradisce continuamente ogni conciliazione e si presenta come un flusso di coscienza, quasi un modello di scrittura automatica.

In Rosemary’s baby (1968) le inquietudini interiori si proiettano nella dimensione dell’anima e assumono una consistenza eterea, lunare; in Macbeth (1971), forse l’esito più affascinante di Polanski, danno vita a una grandiosa, disperata discesa agli inferi, con una finissima ricerca cromatica nei costumi; in Tess (1979), da Thomas Hardy, si trasfigurano in un grande affresco. Chinatown (1974), pur nella sua elegante costruzione, porta invece il suo stile a un grado quasi estetizzante, vagamente virtuosistico.

È forse da Welles, uno dei suoi autori di riferimento, che Polanski apprende l’uso sapiente della profondità di campo, la gestione accurata dei rapporti tra primo piano e sfondo: si pensi ad esempio a certe scene di Carnage (2011). Da Hitchcock impara l’uso della suspense e della “dramatic irony”, cioè la capacità di trasmettere un’informazione allo spettatore prima che uno o più personaggi la apprendano, che troviamo tra l’altro in Cul de sac o in Rosemary’s baby. Egli è anche un acuto direttore d’attori, capace di gestire pochi personaggi in ambienti ristretti: da Il coltello nell’acqua (1962), tuttora straordinariamente moderno, a La morte e la fanciulla, a Carnage, a Venere in pelliccia.

Come ricorda Alberto Scandola nell’interessante studio dedicato al cineasta, Polanski studia il film burlesque già nei programmi della scuola di cinema di Łódź, e ciò contribuisce a trasmettergli una passione scanzonata per i movimenti fisici degli attori, per la corporeità. Non mancano in lui le ricadute nel kitsch (come nel suo terribile, pittoresco Oliver Twist, 2005), né le concessioni alle istanze della commercialità. Ma questo cineasta ormai novantenne, dallo stile trattenuto e dallo humor pungente, rimane uno dei più giovani, moderni e avanzati maestri viventi del cinema contemporaneo. Giulio Laroni 17 Agosto 2023

Ron compie 70 anni: il primo incontro con Lucio Dalla (e com’è nata «Piazza grande»), la vittoria a Sanremo 1996 con Tosca, 8 segreti. Storia di Arianna Ascione su Il Corriere della Sera 13 agosto 2023.

Com’è nato l’amore per la musica

«A 8 anni ho fatto il primo spettacolo cantando “24 mila baci” e ballando il twist. Lì ho detto: questo è il mio lavoro». Così raccontava nel 2021 al Corriere Ron, che proprio oggi compie 70 anni. Il cantautore, all’anagrafe Rosalino Cellamare, è nato a Dorno il 13 agosto 1953 in una famiglia di origini pugliesi. Cresciuto a Garlasco (dove vive ancora oggi) si è avvicinato alla musica anche grazie a suo fratello Italo, pianista, con cui amava organizzare piccoli in spiaggia, al mare in Liguria. E questa non è l’unica curiosità su di lui.

Il primo incontro con Lucio Dalla

Da ragazzino Ron ha preso lezioni di canto e ha cominciato a fare concorsi, accompagnato dai suoi genitori perché era minorenne. A 15 anni è stato notato da un talent scout della Rca: lo ha chiamato a Roma, dicendo che un cantautore voleva fargli sentire una possibile canzone per Sanremo. Il cantautore era Lucio Dalla. «Arrivò con quattro ore di ritardo, tanto che mio padre disse “torniamocene a casa”. Era in sedia a rotelle, tutto ingessato perché aveva avuto un incidente, gli uscivano solo barba e occhialetti». Il brano che Dalla voleva proporgli era «Occhi di ragazza» (rifiutato dalla commissione selezionatrice del Festival è stato poi inciso da Gianni Morandi).

Il nome d’arte

È stato proprio Lucio Dalla a suggerire a Ron il suo pseudonimo: «Mi disse “basta con sto Rosalino - raccontava il cantautore nel 2021 al Corriere -. Poi invecchi, non puoi chiamarti così tutta la vita. Comincia a usare Ron”. Ma Lucio trovava un soprannome a tutti. Aveva un istinto fortissimo, un sesto senso. E con lui si rideva sempre».

Otto volte a Sanremo

Nel 1970 Ron debuttò per la prima volta a Sanremo, in coppia con Nada con il brano «Pa' diglielo a Ma'». «Se riguardo ai filmati in bianco e nero dell’epoca, vedo un ragazzo pieno di energia e tenerezza, dimostravo meno della mia età. Incontrai i miei miti dietro il palco, vidi piangere una cantante famosa perché eliminata e non capivo il perché della tristezza». Il cantautore sarebbe poi tornato al Festival altre 7 volte (l’ultima nel 2018 con la canzone «Almeno pensami»). Nel 1996 la vittoria, in coppia con Tosca, con «Vorrei incontrarti fra cent'anni»: «Non ci speravamo. Così la sera della finale non aspettammo il verdetto e andammo al ristorante. Avevamo un tovagliolone al collo per mangiare gli spaghetti con l’aragosta quando ci chiamarono dicendo che eravamo nei primi tre. Scappammo via di corsa».

«Piazza grande»

A proposito della genesi di «Piazza grande», scritta nel 1971 insieme a Lucio Dalla, Ron raccontava nel 2019 al Corriere: «Eravamo su una nave che da Napoli ci portava in Sicilia. Una giornata meravigliosa, il mare piatto, i miei 18 anni, ero felice di vivere. Mentre tutti dormivano sul ponte della nave, io strimpellai alla chitarra e piano piano cominciò ad arrivare una melodia. Lucio si svegliò e mi disse: “Bella ‘sta cosa”. Gli piacque molto e mi diede alcune idee musicali. Insieme, in un’oretta venne fuori la musica di Piazza grande. È un ricordo ancora così vivido nella mia mente, ce l’ho chiaro come una fotografia».

Quella «casetta piccola così»

Sua nonna invece gli ha ispirato «Attenti al lupo» (poi cantata e portata al successo da Dalla): «Andandola a trovare mi accorsi che la casa aveva una finestra più piccola - ha raccontato Ron nel 2022 al Corriere -. Mi sedetti al pianoforte e scrissi: C’è una casetta piccola così / Con tante finestrelle colorate / E una donnina piccola così / Con due occhi grandi per guardare. In origine la canzone si chiamava proprio La casetta. Mi piaceva ma la sentivo troppo personale. Decisi che non sarei stato io a cantarla. Pensavo a Dalla. O a Celentano: mi sembrava avesse la tenerezza giusta. Lucio venne da me mentre preparavo il mio album. Mi chiese: “La fai, Rosalino?”. “No”, risposi. “Allora la faccio io: con questa, vendiamo un milione di dischi”. Aggiunsi: “Sei matto, il solito sognatore!”. Aveva ragione lui. Di dischi ne abbiamo venduti ben di più». Quando incontrò David Bowie

Una volta, a New York, Ron ha incontrato uno dei suoi miti: David Bowie. «Un giorno ero a New York in ascensore e salì Bowie! La prima cosa che pensai fu stupida: ero felice perché era più basso di me», ha raccontato il cantautore in questa intervista al Corriere.

Vita privata

Non è mai trapelato nulla sulla vita privata di Ron: l’artista è sempre riuscito a mantenere il suo privato lontano da gossip e riflettori.

Estratto dell’articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” domenica 30 luglio 2023.

Ronn Moss si descrive ironico come un Pippo disneyano anche se a 71 anni ha ancora un fisico da Ken. Basette sfumate, t-shirt e braccialetti, ha suonato e cantato, applaudito, sul palco del Marateale — Premio Internazionale Basilicata. La star di Beautiful, l’ultimo suo episodio trasmesso in Italia dieci anni fa, è ancora amata e riconosciuta.

[…] 

Che infanzia ha avuto?

«Spensierata. Con amici e vicini andavamo in collina, giornate a costruire fortezze. Viaggiavamo nella parte posteriore di camion aperti. Un’infanzia spericolata ma normale; oggi tutto è protetto, i bimbi crescono con troppe paure. […]». 

La musica prima della recitazione. I Beatles alla tv.

«Sì, ma già ascoltavo la classica, l’opera, uno strano jazz. Mi attraggono le vibrazioni, della musica e della vita. Perciò sono diventato musicista e non medico. Ho studiato medicina, biologia, fisiologia, ho assistito ad autopsie senza battere ciglio. Sarei stato un ottimo chirurgo ma agli otto anni di università ho preferito la band». 

La prima adrenalina da palco?

«Quando il batterista ed io, che suonavo il basso, ci siamo ritrovati gli unici nel locale, gli altri bloccati nel traffico. Lì ho capito che ti devi lasciare andare, affidarti al potere della musica. L’ho scoperto guardando di nascosto mia sorella nella sua stanza strapparsi i capelli mentre ascoltava Elvis».

“Baby come back” è arrivato ai vertici della classifica in America.

«A vent’anni siamo passati dalle feste al mainstream. Non c’è niente di meglio che sfidare 25.000 persone in un’arena e avere quell’energia che ti torna dal pubblico». 

La recitazione?

«Il mio produttore discografico di allora, Robert Stigwood, mi disse “hai mai pensato di fare l’attore?”. Io sognavo solo la musica ma anni dopo, il gruppo in crisi, ci ho provato.

Qualche orribile comparsata in tv, mi presento agli Zoetrope Studios di Francis Ford Coppola: fatemi fare qualcosa. Chiamano il barbiere, trasforma i capelli lunghi e incolti in un taglio anni 40, mi ritrovo in smoking al tavolo dietro Jessica Lange e Sam Shepard in Frances. Ho capito che volevo stare a quel tavolo. […]».

Il primo film in Italia. “Paladini”.

«Ero a contratto con una rete importante, due produttori italiani mi chiedono in prestito. Divento Ruggero, Barbara De Rossi era Bradamante, Maurizio Nichetti il mago. Mi sono addestrato a cavallo, con le spade, conoscevo le arti marziali. Tre mesi sull’Etna, poi Roma. […]». 

Una masseria, l’azienda vinicola, la produzione di film, il tour musicale.

«Vivo tra gli Stati Uniti e qui. Sono orgoglioso di aver girato Viaggio a sorpresa con Lino Banfi, un fratello, anche se lui non parla inglese e il mio italiano è limitato. […] Farò sempre più il produttore». 

Capitolo “Beautiful”: la prima audizione per Ridge?

«Affittai uno smoking, non avevo nulla di elegante, ma ne trovai solo uno di due taglie più piccolo: sono arrivato con i pantaloni al polpaccio e le maniche striminzite. Stranamente quella fila di produttori sorrideva, c’era una strana energia. Prima ancora che aprissi bocca, avevano capito che ero Ridge. Faccio da spalla per l’audizione di un’attrice, lei sulle mie ginocchia, scherziamo in sintonia. Era Joanna Johnson, Caroline. Alla prima sessione fotografica con la famiglia Forrester vado da Susan Flannery, mia madre nella soap: “Ciao, mamma”. E lei, gelida: “Non chiamarmi così”. Poi è diventata il cuore della famiglia». 

Il successo mondiale?

«L’ho capito dopo. Tu reciti per le telecamere, la troupe, non capisci cosa accada fuori. L’accoglienza in Italia mi ha sconvolto. Sono grato a ogni spettatore che ancora mi ferma, non mi sono mai sentito una star».

Momenti difficili?

«Beautiful è durato 25 anni della mia vita. Ci sono stati momenti stressanti, proprio come la vita che vivevo in parallelo. Come Ridge ho avuto morti e traumi. Ho perso mio padre, diversi amici: andavo comunque al lavoro, per farmi forza, non ho perso un giorno di riprese, anche malato. Tra una scena e l’altra mi è capitato di correre in camerino a vomitare. Tornavo e ricominciavo, senza un lamento: c’erano altre 200 persone il cui lavoro dipendeva da me». […]

Estratto dell’articolo di Valentina Colosimo per “Vanity Fair” il 25 giugno 2023.

Rosa Chemical è vestito da Rosa Chemical, i pantaloni neri di pelle che fanno un po' fetish, una camicia aperta sul davanti, gli occhiali scuri, orecchini e piercing, tatuaggi che partono dal collo. Fuma una sigaretta elettronica in piedi addossato alla finestra aperta («dà fastidio?»), non beve alcol «perché non mi piace perdere il controllo, l'ho già perso troppo da ragazzino», buone maniere, sorriso bianchissimo, accento torinese. 

Eccolo qui il pericoloso cantante che avrebbe voluto innescare una eversiva «rivoluzione gender» secondo la deputata Maddalena Morgante di Fratelli d'Italia, qualche giorno prima di Sanremo. Alla fine con quell'attacco le ha fatto un favore? «Sì, la ringrazio e le mando sempre tanto amore», ammette lui. 

Non sarà quella gender ma in una rivoluzione ci spera: in Made In Italy e ora in Bellu guaglione canta un po' la stessa cosa, la libertà di esprimersi, di mostrarsi per ciò che si è al di fuori delle convenzioni di genere, culturali, sociali, e quella di amare chi si vuole e come si vuole, poliamore e promiscuità, sesso libero. C'è dentro il suo vissuto, quello di un outsider naturale, nato a Rivoli 25 anni fa, vero nome Manuel Rocato, mamma estetista, papà che lascia casa molto presto, una violenta sensazione di diversità, l'urgenza di esprimersi. […]

Da dove viene questa esigenza di inneggiare alla libertà?

«C'è chi racconta di quando spacciava per la strada, io racconto le difficoltà che ho avuto nell'essere accettato. Metto lo smalto da quando avevo 14 anni, prima che diventasse di moda, avevo i capelli lunghi, i tatuaggi, le borchie. Dentro la mia testa era tutto normale, non esistono cose da uomo e cose da donna». 

E fuori dalla sua testa?

«Un sacco di dita puntate e commenti tipo: ah, allora sei gay, allora sei trans. Come fossero insulti, poi. Capito?». 

[…] In futuro ci saranno dei Rosa Chemical in banca?

«A Londra i poliziotti sono tatuati. Io ci ho vissuto per sei mesi, li ho visti». 

Che cosa faceva a Londra?

«Ho fatto un botto di lavori. Grafico, illustratore, tatuatore, macellaio». 

Macellaio?

«Già. E neanche mi piace la carne. Ma per i soldi ho fatto di tutto a Londra. Ci ho vissuto sei mesi a 18 anni: due mesi di povertà e quattro di povertà estrema. Il secondo giorno che sono arrivato ho speso un sacco di soldi per comprare l'attrezzatura per fare musica, in poco tempo avevo finito tutti i risparmi. Aiutavo come grafico un ragazzo italiano, che mi dava 200 euro al mese. Ma c'era l'affitto settimanale per una casa in condivisione con trenta persone, il cibo e tutto il resto…». 

E come ha fatto?

«Ho conosciuto due ragazzi italiani che facevano una rivista fetish. Li aiutavo nell'impaginazione, poi mi hanno ospitato a casa loro: dormivo in un divanetto a due posti all'ingresso dell'appartamento, con tutti gli spifferi.  […] 

La svolta quand'è arrivata?

«In quei mesi mi sono buttato nella musica, ho iniziato a fare alcuni pezzi, il mio primo ep e ho visto che ingranavo, gli stream crescevano, a un certo punto durante una diretta Instagram in cui parlavo di piedi è arrivato uno streamer famoso, Panetti: quello è stato uno dei segni che qualcosa stava cambiando». 

Parlava di piedi su Instagram?

«Sì, ne parlavo in modo ironico, del perché mi piacciono, mi mandavano foto di piedi e io dovevo dare i voti». […] 

«A Torino, prima di andare a Londra, quando facevo il writer e andavo a fare i graffiti di notte. Poi una volta mi hanno anche beccato e ho subìto un processo». 

Racconti.

«Avevo 16 anni, ho fatto parecchie cazzate, vandalizzato dei monumenti. Ho pubblicato anche un video in cui mi drogavo e poi andavo a vandalizzare. La polizia di Torino ha aperto una squadra per me e i writer come me».

Come l'hanno beccata?

«Perché ero scemo (ride, ndr), mi riprendevo senza mostrare la mia faccia ma poi i video li mettevo su Facebook. I poliziotti sono venuti a prendermi a casa alle sei del mattino con un mandato per droga e vandalismo». 

[…] E suo padre?

«I miei si sono separati quando avevo quattro anni, per qualche tempo è stato nei dintorni, poi si è trasferito in America. La mia famiglia è sempre stata composta da me e mia mamma». 

Non ha rapporti con suo padre?

«Sì, li abbiamo, per esempio poco tempo fa ero in Giamaica e lui mi ha raggiunto lì. Cambiamo argomento?». 

Parliamo di Fedez e del famoso bacio a Sanremo. A ripensarci oggi, rifarebbe tutto?

«Non lo so, quell'episodio è successo perché in quel momento mi andava di farlo e deve rimanere lì».

Ne ha parlato con Fedez?

«Non l'ho più sentito dopo quella sera. E poi è passato tanto tempo». 

Lei è ancora su OnlyFans?

«Sì, al momento pubblico molto poco ma sto per tornare più forte di prima». 

Ma perché ci sta?

«Mi diverto. Sono stato uno dei primi, nella musica, a parlare di sesso in maniera così aperta, per me non è un tabù. Se adesso ci mettessimo a parlare di penetrazione, non ci troverei niente di strano. Sono una persona molto promiscua, mi piace fare sesso e mi piace farlo con tante persone diverse, mi sono sempre filmato, quindi a un certo punto ho pensato che potevo farci dei soldi». 

Però ora non ne ha più bisogno.

«No, è solo un passatempo. OnlyFans è bello anche perché c'è la chat in cui gli iscritti ti fanno le richieste». 

E lei li accontenta?

«È da tanto che non accontento nessuno, però qualche volta sì, succede. Ora tornerò con dei contenuti di coppia con Alex Mucci, una star di OnlyFans. Ci tengo anche a dire che quando si parla di inclusività dobbiamo pensare anche alle ragazze che lavorano con il corpo e alle sex worker, che oggi sono considerate malissimo, per non dire insultate». 

Ma lei sessualmente come si definisce?

«Mi riconosco nel sesso italiano». 

Non vuol dire niente…

Ride. «Vuol dire tutto e niente, ma questa è la definizione. Tornando a OnlyFans: mi piace organizzare la location, pensare alle idee. Perché, vede, io sono sociopatico». 

Sociopatico?

«Io non esco di casa. Lo faccio solo per lavorare, se no sto chiuso dentro. Non mi piace uscire, andare nei locali, frequentare le persone». […]

Che cosa fa in casa oltre che lavorare?

«È triste da dire ma gioco alla Playstation: ho bisogno di non pensare. E poi faccio musica. Musica e sesso. Tanto sesso». […] 

Vuole lanciare l'idea di un Tinder dei famosi?

«No, anzi, a me non interessano i famosi, io voglio fare sesso con la commessa, con le persone normali. Adesso mi tocca rispondere su Instagram ma è un casino, non è gestibile».

Estratto dell’articolo di Giulia Taviani per milano.corriere.it l'8 giugno 2023.  

Dietro Rosa Chemical ci sono tanti Manuel Franco Rocati, come è registrato all’anagrafe, e tutti sono degli artisti. Il primo disegnava graffiti, il secondo ha sfilato come modello per Gucci, il terzo invece è il cantante che abbiamo visto esibirsi sul palco di Sanremo con «Made in Italy». «Sono sempre stato un artista, anche prima di essere riconosciuto come tale - Rosa Chemical raggiunto dal Corriere al telefono -. Creativi si nasce, e poi ti affibbiano il termine artista solo perché sei diventato famoso». 

Ma perché «Rosa»? È un omaggio alla madre, che porta lo stesso nome. «Il rapporto tra noi è bellissimo, per me lei c’è sempre stata: è la mia prima supporter. Adesso purtroppo non la posso vedere spesso perché io sono a Milano e lei a Torino». Lo ha raccontato anche nel corso dell’evento organizzato qualche giorno fa a Milano da ScuolaZoo: in quell’occasione, davanti al pubblico di studenti, aveva svelato di aver avuto a lungo un rapporto travagliato con il suo corpo, risolto proprio grazie al sostegno materno.

«Se vedevo un chilo di più stavo male, non ho mai avuto una bella relazione con la mia immagine riflessa nello specchio. Ma il vero cambiamento è arrivato quando ho iniziato a volermi bene. E l’ho fatto grazie a mia mamma», ha dichiarato Rosa. «Ero un ragazzo difficile», aggiunge al telefono con il Corriere. «Nel paese dove sono cresciuto (Rivoli, in provincia di Torino, ndr) c’erano poche cose da fare. Trascorrevo le notti fuori a fare i graffiti e poi tornavo a casa con i primi treni del mattino. Mamma non mi ha mai giudicato, anche se ero un ragazzo abbastanza agitato. Mi è sempre stata a debita distanza. Mi diceva che la vita era la mia e le conseguenze le avrei dovute pagare io». 

(...)

Rosa Chemical viene da una tradizione rock e metal, motivo per cui vederlo esibirsi sul palco distrugge le aspettative (soprattutto quelle negative) precedentemente costruite in testa: «La gente quando viene a un mio concerto è piena di pregiudizi. Mi hanno incasellato come artista urban e si aspettano un live rap. Io invece ho un altro bagaglio culturale, quindi la mia attitudine, il modo in cui mi comporto sul palco, arriva dal mondo rock. Lo show che creo insieme alla band non ha nulla a che vedere con il rap, e questo gasa la gente».

Tra gli artisti che ammira e con cui sognerebbe di duettare sbucano Cesare Cremonini («sono pazzo di lui»), Justin Bieber («è uno dei miei punti di riferimento») e Calcutta. Ma se potesse cantare, grazie all’intelligenza artificiale, con qualcuno del passato sceglierebbe Chester Bennington (frontman dei Linkin Park morto nel 2017) e Fred Buscaglione.  «Guarda che luna - inizia a cantare - guarda che mare. È la prima volta che canto per qualcuno al telefono (ride, ndr)». 

Rosa Chemical ha dichiarato la sua ammirazione per BudBunny, che vede come colui che ha ucciso il machismo nel reggaeton: «Parliamo di uno stile maschilista che oggettifica la donna. Lui, invece, la donna l’ha difesa, anzi si è schierato dalla sua parte. Nel penultimo disco si è vestito con abiti femminili e ha parlato di come le donne possano e debbano giustamente fare ciò che vogliono».  Quanto al rap italiano - che secondo BigMama, per citarne solo una, è ancora troppo razzista e omofobo, Rosa puntualizza: «C’è chi denuncia e chi invece continua a usare quei toni. La direzione pop è più “giusta”, nell’urban il procedimento è più lento, cambia se cambia la classe sociale di chi lo fa. Deve cambiare in primis la realtà in cui questi artisti vivono». Lo stesso principio vale per la scena musicale italiana.

Quando chiediamo a Rosa Chemical se è arte anche la musica dei rapper milanesi passati alle cronache per i loro rapporti con la giustizia (da Baby Gang a Simba La Rue passando per Blackbaby, arrestato a inizio anno per rapina e lesioni) risponde: «Dipende se uno utilizza la musica per denunciare una realtà, denunciare il posto da cui viene e tutto ciò che ne consegue, o se inneggia a quello. Io inneggio all’amore, alla libertà d’espressione, ovviamente non mi trovo d’accordo con quello che cantano».

Gli chiediamo un punto di vista anche su Milano. Miss Keta ha cantato quella "Sushi e coca", dal suo punto di vista la città è davvero così? «Per me no e non lo è mai stata - risponde - ma non frequento questi posti. Sulla libertà di vivere la propria sessualità invece, non possiamo fare di tutta l’erba un fascio. Essendo la capitale della moda è più avanti rispetto ad altre città in questo senso. Ma ci sono i pro e i contro, dipende dal contesto e dal quartiere. Ci sono dei luoghi in cui la libertà d’espressione o la libertà di vestirsi come ci pare è ancora limitata. Io difficilmente esco dove so che non mi sentirò accettato. Anche se ora ho le spalle larghe: i pregiudizi non mi toccano». 

Proprio a Milano Rosa Chemical ha aperto il tour invernale registrando tre sold out su quattro ai Magazzini Generali. Ricorda ancora la primissima volta che si è esibito davanti a un pubblico, a Torino: «Avevo 20 anni. Ero appena tornato da Londra per festeggiare il mio compleanno. Ho affittato un piano intero di una discoteca e ho cantato con dei veri cantanti insieme a me. È stato incredibile. Al tempo non ero ancora nessuno. Il rock? Forse se mi fossi spinto avrei potuto aggiustare la mia voce per fare quello. Ma non sempre quello che ascolti o che ami è quello che poi vuoi fare nella vita».

Questione di Chemical. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 2 febbraio 2023.

Ignoravo l’esistenza del o della cantante Rosa Chemical fino a quando la deputata Maddalena Morgante si è alzata nell’aula di Montecitorio per chiederne l’esclusione dal prossimo Festival di Sanremo. Forse la parlamentare di Fratelli d’Italia è un abilissimo ufficio-stampa, perché da qualche ora di Rosa Chemical parlano tutti. Ma se così non fosse, e la Morgante avesse veramente deciso di utilizzare il palcoscenico della Camera per invocare una censura nei confronti dell’amore fluido di cui Chemical è interprete? Allora bisognerebbe darle una notizia: da alcuni mesi il partito di cui fa parte non è più seduto sui banchi dell’opposizione. Finché si sta all’opposizione è naturale che ci si batta per affermare la propria identità, rimodellando il mondo in base ai propri gusti. Quando però si va al potere, le cose cambiano. Si devono governare gli esseri umani non come si vorrebbe che fossero, ma come sono davvero, senza visioni da Stato totalitario che ficca il naso sotto le lenzuola dei governati, suggerendo di quali preferenze sessuali e di genere si possa parlare o tacere in tv. La fluidità esiste, è presente dentro la società, e in modo consapevole soprattutto nelle nuove generazioni che la sorella d’Italia vorrebbe proteggere dall’esposizione televisiva di Rosa Chemical. Il Festival, come i giornali, non crea la realtà. La fotografa. E da un partito di governo i cittadini pretendono che amministri i nuovi fenomeni, non che si illuda di rimuoverli cestinandone la fotografia.

Il discorso alla Camera della deputata di Fratelli d'Italia. Rosa Chemical e il delirio di Maddalena Morgante (FdI): “Proteggiamo i nostri bambini da Sanremo e dalla propaganda transgender”. Francesca Sabella su Il Riformista il 2 Febbraio 2023.

Pensavate di vivere nel 2023? Avete sbagliato epoca, siamo tornati al Medioevo. E bene ce lo spiega l’onorevole di Fratelli d’Italia Maddalena Morgante in un brillante intervento alla Camera dei Deputati. L’argomento? Sanremo (senz’altro una priorità in questo momento storico) e una propaganda eccessiva della libertà sessuale e del gender fluid… “Rosa Chemical (rapper italiano, all’anagrafe Manuel Franco Rocati, ndr.) ha annunciato che alla prossima edizione di Sanremo, porterà sul palco il sesso, l’amore poligamo e il porno su OnlyFans (una piattaforma di intrattenimento con molti contenuti dedicati agli adulti, ndr.) – ha affermato l’onorevole di Fratelli d’Italia – La rivoluzione fluida era già da tempo sul palco dell’Ariston, ma trasformare Sanremo nell’appuntamento più gender fluid di sempre è del tutto inopportuno. La tv rimane il principale mezzo di informazione e i minori sono la fascia principale di ascoltatori – e ancora – Il festival della canzone rischia di diventare l’ennesimo spot del gender fluid e della sessualità fluida e che da sempre Fratelli d’Italia contrasta. È innegabile che la rassegna canora sia un veicolo culturale, politico e sociale e come il mondo della musica sia un palcoscenico. Questo suo ruolo ormai da tempo e soprattutto in queste edizioni si è trasformato in una propaganda a senso unico. Propaganda della peggiore ideologia che vuole minare l’identità dell’uomo e della donna, e della dissacrazione dei simboli religiosi. Proteggiamo i nostri bambini. Non è accettabile”.

Caro onorevole Morgante, è invece accettabile che un uomo che ha scelto di diventare donna perché ha capito che quella era la sua natura possa essere picchiato o ucciso? È accettabile che due uomini che si scambiano un bacio per strada debbano essere insultati? È accettabile che i transgender o i non binari, le persone cioè che non si riconoscono nell’essere donna o uomo, vengano emarginati? Sbeffeggiati? Condannati dai social… e dai politici?

Superfluo riportare la cronaca di questi ultimi anni, cronaca di episodi agghiaccianti verso le persone trangender e omosessuali. La libertà sessuale è sacrosanta al pari di quella di espressione che permette a ognuno di dire la propria. Affermare che Sanremo sarebbe una rassegna canora che promuove una certa idea di sessualità è limitante, forse bisognerebbe guardarla da un altro punto di vita: normalizza ciò che normale dovrebbe essere già. E il fatto che si rivolga a un pubblico di giovani è la sua forza, non il suo limite. Tanti ragazzini che vivono e convivono con il pregiudizio potrebbero invece vedere i propri idoli cantare l’amore libero, il rispetto, l’amore punto e basta e magari cambiare idea. Le famiglie, mai come durante questa edizione, devono tenere accesa la Tv. Così ci saranno delle serate educative.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Fratelli d’Italia contro Rosa Chemical a Sanremo 2023: «Inaccettabile spot del gender e del sesso fluido, davanti ai bambini». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 2 Febbraio 2023

Le parole alla Camera della deputata Maddalena Morgante contro la partecipazione del cantante al Festival

Non il Festival della canzone italiana, ma «l’appuntamento del gender fluid». La deputata di Fratelli d’Italia Maddalena Morgante è preoccupata per la piega che, a suo dire, sta prendendo Sanremo, dove «già da tempo», scrive, è in atto «la rivoluzione “fluida”». A spaventarla particolarmente quest’anno, tanto da spingerla a sollevare il caso in Aula, è la partecipazione di Rosa Chemical che, nel suo brano «Made in Italy» parla di sesso libero, vissuto senza tabù né etichette.

«Desta sconcerto la notizia che Manuel Franco Rocati, in arte Rosa Chemical, in gara alla prossima edizione del Festival di Sanremo, porterà, come da lui stesso affermato, e chiedo scusa finora dei termini che utilizzerò, il sesso l’amore poligamo e il porno su Only Fans — esordisce Morgante —. La rivoluzione fluida era iniziata da tempo al teatro Ariston. Ma trasformare un appuntamento che ogni anno tiene incollato allo schermo famiglie e bambini, emblema della tv tradizionale convenzionale, nell’appuntamento più gender fluid di sempre, è del tutto inopportuno».

La deputata ribadisce di essere preoccupata in particolar modo per gli spettatori più giovani: «Nonostante viviamo nell’era dei social network, la televisione rimane il principale canale di informazione per i cittadini. E i maggiori fruitori del mezzo televisivo rimangono i minori e le famiglie che diventano la fascia di riferimento principale per la creazione di programmi — prosegue —. Il Festival rischia di diventare l’ennesimo spot del gender e della sessualità fluida, temi sensibilissimi e che da sempre Fratelli d’Italia contrasta. È inaccettabile che tutto questo possa avvenire non solo nella tv di Stato, che troppo spesso dimentica il suo ruolo di pubblico servizio, e non soltanto con i soldi dei contribuenti, ma soprattutto davanti ai tantissimi bambini che guarderanno la televisione per una serata in famiglia».

La risposta di Rosa Chemical è stata «muta»: due cuori in una storia di Instagram a corredo di una foto dell’intervento di Maddalena Morgante con la scritta «Made in Italy» (il titolo del brano che porta a Sanremo)

Rosa Chemical, a Sanremo e su Onlyfans: «Non è pornografia, vivo il corpo senza problemi». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2023

Il trapper è una delle rivelazioni attese al prossimo Festival

«Rosa che?». Rosa Chemical. L’effetto sorpresa del Festival di Sanremo potrebbe essere lui: trapper anomalo, immagine genderless, testi a luci rosse, in gara con «Made in Italy», brano fra Balcani e dance unz unz.

Nel 2022 al Festival era ospite di Tananai nella serata dei duetti: si presenti lei.

«Sono Rosa Chemical, il nome di battesimo di mia mamma e una citazione dei My Chemical Romance, la mia band preferita da teen. Vorrei evitare di essere definito rapper o cantante: sono un artista, una persona che ha una visione diversa delle cose».

Prima di Rosa Chemical?

«Manuel Franco Rocati, 25 anni il 30 gennaio: una persona introversa nella vita privata, sul palcoscenico mi metto a nudo in tutti i sensi».

Anche sui social... Giravano sue foto esplicite su Twitter e ha un profilo OnlyFans molto spinto. Teme reazioni dal pubblico dell’Ariston e di Rai1?

«Mi piace mettermi in discussione, anche se questo crea disappunto negli altri. Non è esibizionismo: vivo il corpo e la sessualità senza problemi. Il mio OnlyFans è una forma d’arte, non è porno. A Sanremo non mi presenterò certo come mi ha fatto mamma».

La sua identità sessuale?

«Non etichettabile. Sono aperto a rapporti eterosessuali, omosessuali, transessuali. Se eccita e c’è consensualità per me va bene. Sono perverso della perversione».

Droghe comprese?

«Attorno ai 14-15 anni ho avuto un periodo in cui vivevo recluso in casa, mi odiavo, mi immergevo in droga e arte. Grazie a mia madre ho smesso: non bevo e non mi drogo, nemmeno marijuana. Al massimo sesso e sigarette elettroniche».

Lei fa quello che Renato Zero faceva negli anni 70, e Achille Lauro di recente...

«Ha ragione. Loro hanno aperto delle porte, hanno contribuito a livello ideologico e di immagine a parlare di libertà, ma se devo farlo ancora io vuol dire che c’è bisogno di ripeterlo all’infinito. “Made in Italy” parla di sesso libero, poliamore, “da due passiamo a tre”. C’è dietro la voglia di approcciarsi al sesso con meno tabù, schemi ed etichette».

Il sesso, l’amore, il sogno, la storia, i piedi: tutto «made in Italy» nel testo. Cosa significa?

«Non è nazionalismo, ma con gli amici diciamo “italiano” quando una cosa ci piace. Un sushi buono? Lo definiamo italiano. Io sono sesso italiano».

Come si relaziona con il panorama rap, machista se non a volte omofobo?

«Non faccio quasi mai feat. Chi lavora con me è come se si schierasse. Mi sono staccato da quel mondo perché il clima, fra immagine delle donne e razzismo, è peggiorato».

Sulla copertina di «Forever», disco di debutto, si fece ritrarre sia nei panni dello sposo che in quelli della sposa... All’Ariston si vestirà da uomo o donna?

«In quattro sere vedremo un po’ di tutto. La borsetta comunque serve anche all’uomo, è comoda e ha stile. La mia impronta non è una maschera. Da piccolo ascoltavo i Tokio Hotel il cui leader sembrava una donna: i miei coetanei gli davano della checca, per me aveva stile e coraggio».

È stato bullizzato da ragazzo?

«Sono cresciuto fra le mucche e i campi di Alpignano, provincia di Torino, 15 mila cittadini “generalisti”. Ero la pecora nera: frangetta o capelli lunghi, lineamenti effemminati e vestiti da donna. C’erano sguardi, commentini e risate, ma non bullismo fisico. Non c’era la violenza che c’è oggi a Milano».

Sua madre che diceva?

«Ho avuto la mamma più potente del mondo. In casa il giudizio non è mai esistito: razzismo e omo-transfobia le ho trovate in altri adulti che usavano le parole negro e frocio come insulto. Così ho scoperto quello che non volevo essere. Visto che ho sviluppato quelle che ad altri sembrano perversioni mi sono chiesto se mamma non mi abbia lasciato troppa libertà, ma ho capito che è stato perfetto così. Il proibizionismo non funziona, anche nel linguaggio».

Lei usa la f-word e la n-word nelle canzoni...

«Alla base c’è il rispetto. Non devi essere omosessuale per difendere i loro diritti. Però bisogna insegnare a non usare quelle parole a chi non ha ancora chiaro questo».

In «polka 2 :-/», uno dei suoi brani più popolari, dice «fanculo Marco Mengo...». Glielo ripeterà a Sanremo?

«A Marco voglio bene. Allora mi andava di provocare il pop di plastica e ho preso lui come capro espiatorio. Mi rimangio quello che ho detto anche perché mi è piaciuto l’album “Materia” e poi l’ho in squadra al FantaSanremo».

Estratto dell’articolo di Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 16 febbraio 2023.

Le polemiche, racconta, non lo hanno sfiorato. E non vede l’ora di riabbracciare il pubblico: due date a Milano ai Magazzini Generali, il 17 e il 18 aprile, quinto nella classifica di Spotify con Made in Italy, Rosa Chemical, all’anagrafe Manuel Franco Rocati, 25 anni, di Alpignano (Torino) è la rivelazione di questo Festival di Sanremo. Ama stupire.

 Non la scandalizza niente?

«I retrogradi, i bigotti e le persone con i paraocchi».

[…]

 Si aspettava più il successo o le polemiche?

«Avevo messo in conto più le polemiche. L’amore che sto ricevendo è bellissimo».

 Il primo attacco di Maddalena Morgante, la deputata di FdI, l’ha colpita? Oggi che le direbbe?

«Non mi ha toccato minimamente, mi dispiace che la gente critichi senza sapere, ero consapevole che parlasse di una cosa che non conosceva. Vorrei sapere se si è ricreduta su di me... Penso di no».

 Per la destra è il simbolo del male, si sente il paladino del gender fluid?

«No. Mi sento un artista che sale sul palco e si esprime, se poi in me si ritrova tanta gente sono contento».

 Amadeus l’ha definito “un festival all’insegna della libertà”: per lei quella sessuale è la più importante?

«In realtà no, ma è un tema che mi tocca perché per me conta. La libertà di parola e di pensiero hanno un valore immenso. Sul palco il mio focus era legato alla sessualità».

Dà un valore politico alle sue performance?

«No, tengo la politica lontana perché sono abbastanza ignorante in materia. La gente strumentalizza tutto».

 Il bacio con Fedez ha fatto scalpore: “Chi” ne pubblica uno di otto anni fa. Che ha pensato quando hanno scritto che avrebbe messo in crisi il legame con Chiara Ferragni?

«Di questa vicenda non voglio più parlare, è stata ingigantita».

Molti hanno detto: niente di nuovo, fa quello che facevano Renato Zero e Achille Lauro. In cosa si sente diverso da loro o simile?

«Se avessi fatto qualcosa di già visto sarei passato inosservato. Non è stato così, ci ho messo qualcosa in più o di diverso, non c’era stata una performance così sfacciata».

[…]

Chi è Rosa Chemical, il rapper “gender fluid” a Sanremo con Made in Italy e la polemica con Morgante di Fratelli d’Italia. Vito Califano su Il Riformista l’ 8 Febbraio 2023

Rosa Chemical non è sconosciuto dalle parti dell’Ariston: l’anno scorso aveva cantato nelle serate dei duetti con Tananai, una cover di A far l’amore comincia tu di Raffaella Carrà. Scommette che il suo brano “farà discutere le famiglie riunite a tavola”, ha detto a TV Sorrisi e Canzoni. E perché mai? Rosa Chemical porterà a Sanremo Made in Italy, una canzone che definisce un inno alla libertà, certo la sua partecipazione è diventata argomento di scontro e dibattito politico ben prima l’inizio delle danze al Festival.

Rosa Chemical è lo pseudonimo di Manuel Franco Rocato: unione tra “Rosa”, il nome della madre, e “Chemical”, un tributo alla band My Chemical Romance. È nato a Voghera, in provincia di Padova, ma è cresciuto a Grugliasco, in provincia di Torino. Rapper, esordio nel 2018 con il singolo Kournikova. Ha fatto però anche da modello per la casa di moda Gucci. Del 2019 l’inizio della collaborazione con il produttore Greg Willen: ha pubblicato il singolo Rovesciata e l’ep di sette tracce Okay Okay!!.

Da solista ha pubblicato i videoclip di Scolapasta e ABC e i singoli Facciamolo e Fatass. A scalare le classifiche di Spotify, Tik Tok. Feat nell’album di debutto della FSK, FSK TRAPSHIT REVENGE. Del 2020 il secondo album, Forever. Il singolo britney lo ha pubblicato in collaborazione con MamboLosco e Radical e nello stesso anno, attraverso degli indizi sulla sua pagina Instagram, annuncia l’uscita dell’album Forever And Ever: un repack del precedente album con cinque nuove tracce.

A proposito del brano che porterà a Sanremo ha detto “mai puntare il dito su ciò che ci sembra ‘diverso’. Ci sono tante forme di amore. Chi dice cosa è ‘normale’?”. E però non tutti sono stati d’accordo. Su Rosa Chemical è stata innescata la prima polemica del Festival di Sanremo con la deputata di Fratelli d’Italia Maddalena Morgante che ne ha chiesto l’estromissione. “Franco Rocati, in arte Rosa Chemical, ha intenzione di portare in gara al Festival il sesso, l’amore poligamo e i porno su Onlyfans”, ha detto la deputata veronese di 41 anni, avvocato, sposata e con due figli. “L’ennesimo spot in favore del gender”.

Amadeus aveva risposto in conferenza stampa: “Non sono d’accordo con le critiche, ma il pezzo di Rosa Chemical magari diventerà quello preferito dai suoi figli e dopo tutto questo lo ballerà anche lei”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Estratto dell'articolo di Stefano Mannucci per “il Fatto quotidiano” il 10 febbraio 2023

Dica la verità, Rosa Chemical: non sarebbe curioso?

Di fare cosa?

 Di poter sbirciare dentro la casa di Maddalena Morgante, la deputata di FdI che in Parlamento l’ha descritta come il male.

Le polemiche sciape e distruttive non mi toccano, ma sono certo che ora i suoi bambini stanno ballando il mio pezzo. E siccome sono certo che la signora sia intelligente, si sarà unita a loro nella danza. 

Lo scenario che ha immaginato ironicamente Amadeus, in risposta alla lunare sortita in Parlamento della Morgante.

Quando l’altra sera sono entrato sul palco ho sentito il dovere di ringraziare Amadeus. Così come sono grato a Chiara Ferragni e Fedez, che hanno preso le mie difese contro chi chiedeva la mia esclusione dal Festival. Per la prima volta mi sono sentito compreso.

 Però Fedez l’ha citata nel suo freestyle non concordato con la Rai, che potrebbe procurarle nuove antipatie. Il suo nome è nella stessa barra in cui si parla del viceministro Bignami vestito da Hitler.

Non penso ad altri attacchi da parte degli ultraconservatori. Fedez ha fatto una scelta coraggiosa, parlando anche per conto dei ragazzi che non dispongono di un palco o di un microfono, ai quali viene negata la libertà di essere come sono.

 A destra l’hanno dipinta come un pornografo che attenta alla morale pubblica.

Mercoledì, subito dopo l’esibizione, i miei social sono stati invasi da commenti positivi. Non solo da parte dei più giovani, ma anche di adulti e perfino di anziani che pensano con la loro testa, e che inorridiscono a sentir certi politici inventarsi la “rivolta gender fluid”.

 (...)

 Definiamo le puttane.

Io lo sono.

 Lei?

Sono una puttana perché faccio tanto sesso, tutto quello che voglio, con chi voglio.

 Il poliamore citato nel testo di Made in Italy.

Qualcuno lo pratica, troppi etichettano.

 (...)

 Stasera sarà in duetto con Rose Villain per America della Nannini.

È tempo di rialzare il volume sul concetto di autoerotismo femminile.

 Ma in Italia perché certe istanze fanno ancora scandalo?

Non ero ancora arrivato io a sistemare le cose.

 È pronto per il tour?

Prima resto concentrato su Sanremo. Voglio amplificare il messaggio senza tentennamenti né blocchi emotivi. Poi arriveranno i primi concerti della mia vita. E vedere ballare tutti. Anche i bambini.

Rosa Chemical a Sanremo 2023, la sua storia: quando era Soiek, il writer più ricercato di Torino.  Paolo Coccorese su Il Corriere della Sera l’8 Febbraio 2023.

La storia di Manuel Rocati, il cantante di «Polka» attaccato dalla politica che al Festival ha realizzato la sua rivincita

Se si pensa ai suoi trascorsi, è difficile considerare il Rosa Chemical di oggi come modello negativo per i giovani. Alla deputata di Fratelli d’Italia, che ha chiesto l’esclusione da Sanremo dell’artista di Alpignano perché la sua canzone celebra «poligamia e OnlyFans», basterebbe interrogarsi sulla sua biografia per scoprire come l’approdo all’Ariston sia il traguardo di una rivincita che, nonostante l’ombretto e i tatuaggi sul volto che l’hanno fatto eleggere «testimonial del gender fluid» tra i comitati Pro vita, sarebbe celebrata come un esempio per tanti ragazzini. 

La storia di Manuel Rocati, questo è il suo vero nome, parte una mattina dell’inverno del 2014. Prima dell’alba, il minorenne, che frequenta l’Albe Steiner con poca voglia, è svegliato dalla mamma preoccupata. Alla porta, ci sono i vigili. Hanno in mano un decreto di perquisizione. Lo accusano di aver imbrattato i muri e i treni. Allora Rosa Chemical, nel mondo sommerso dei graffitari, si faceva chiamare Soiek. La sua arte, sinonimo di vandalismo, era la valvola di sfogo di un adolescente in difficoltà. Quando aveva 16 anni, Rosa Chemical è stato il super ricercato dagli investigatori anti-graffito della Polizia Municipale torinese. Una task-force voluta dall’allora sindaco Piero Fassino per arginare un fenomeno comune a tutte le grandi città. L’indagine per dare un volto a Soiek partì quando il suo scarabocchio invase i palazzi dell’intero corso Francia. 

«La tag è biglietto da visita. Col tempo la perfezioni, la rendi più bella. È da piazzare ovunque: più in alto, più in grande, su un posto ben visibile», raccontava allora il writer affetto da quella che gli studiosi definiscono la «febbre da tag». La dipendenza dalle scariche di adrenalina provocate dalla sfida illegale, con gli altri graffitari e le forze dell’ordine, per disegnare in serie il proprio nome da battaglia. «La chiamo fotta, è quello che senti quando esci la notte con gli spray e aspetti che si faccia l’una per sfogarti sul muro. Fino a poco tempo fa, lo facevo quasi ogni giorno, anche se l’indomani dovevo andare a scuola», si legge nella prima intervista del giovane Rosa Chemical datata 2015. Un ragazzo monopolizzato dalla voglia di esprimersi. Che con le bombolette, trovò il modo di uscire dalla sua cameretta, dove, come raccontano i vigili che lo braccarono, si era rinchiuso. 

Un passato che il cantante di Sanremo ha ricordato in un video, parlando di quel periodo difficile, trascorso al buio, a fumare e disegnare bozzetti. La musica c’era già. Molto diversa da quella di oggi. Il suo idolo, che ha ispirato il nome da street-artist, era il rapper Kaos. Pochi lo immaginano, eppure il Rosa Chemical, diventato famoso come trapper di Polka, è cresciuto respirando la cultura hip hop della generazione precedente. Il merito è della sua seconda famiglia. Parliamo della crew Bocs, la «squadra» di writer più importante di Torino. Lui era il più piccolo, per età quasi un figlio dei fondatori. Divenne membro per le sue doti. Non per gioco. «Soiek è il più promettente writer che la città abbia mai avuto», raccontavano allora quelli della Bocs. 

Il ragazzino senza paura, che non temeva di competere con i più grandi e, per questo motivo, era odiatissimo. Quando, con i suoi spray, ricoprì i disegni di un’altra crew, qualcuno decise di fargliela pagare. Ma la violenza non riuscì a fermare la creatività che ben presto divenne una professione. Nel curriculum di Rosa Chemical — che è vegetariano, rifiuta l’immagine del rapper machista e l’uso delle droghe —, ci sono uno studio di grafica, delle mostre e un trascorso da tatuatore. Poi sei anni fa, lasciò Torino per cercare qualcosa di meglio in Inghilterra. Lontano dall’Italia, scrisse a Londra, la hit che lo ha fatto diventare un idolo di Tik Tok, come i suoi video su Instagram, dove parla della passione per il feticismo, dei trattamenti di bellezza (eredità dalla mamma Rosa, proprietaria di un salone) e delle sue unghie colorate. Sembrano il souvenir di quando faceva i murales. Uno l’ha disegnato nell’ufficio dei vigili quando lo portarono in comando. In via Bologna, quel ragazzino non l’hanno dimenticato e sono convinti: «Quella mattina, gli cambiammo la vita».

Arisa a Belve: «Sono stata una schiava sessuale. Non sono più un’icona gay? Ma che me frega». Giovanna Maria Fagnani per corriere.it mercoledì 27 settembre 2023.

L’artista si confida a Francesca Fagnani: dal rapporto coi genitori che l’hanno «forgiata a botte» a quello coi colleghi che la ritengono un’artista con cui è difficile collaborare

Dallo scandalo delle foto hot per «cercare marito» alla lite con la comunità lgbt. Dal rapporto coi genitori che l’hanno «forgiata a botte» a quello coi colleghi cantanti, che la ritengono un’artista con cui collaborare è «difficile». Arisa, ospite di Francesca Fagnani a «Belve» si è raccontata a 360 gradi. E si è parlato tanto d’amore. La cantante ha confidato di essere stata una schiava sessuale. «Essere schiavo sessuale è una liberissima scelta. Affidi la tua vita a qualcun altro perché lui o lei ti fanno sentire in una certa maniera. A volte ti libera da ogni male». Oggi si è pentita «Perché lui non ha avuto rispetto di tutto l’amore che gli ho dato. Io lo rispetto, lui invece ogni tanto se ne esce con qualcosa che non va bene, ma io non reagisco». Oggi accontenta più: «Voglio uno che muore per me». Dopo la pubblicazione delle foto nuda su Instagram e l’annuncio della ricerca di un marito si sono fatti avanti «tanti giocatori, non calciatori che quello sarebbe interessante» ha scherzato con Fagnani.

«Licenziato da icona gay? Ma che me frega...»

E si è parlato anche di politica. Dopo le sue parole di apprezzamento per Giorgia Meloni, Arisa aveva ricevuto molte critiche e insulti sui social dalla comunità Lgbt, tanto da rinunciare a partecipare al gay Pride di Milano e Roma di cui era stata madrina nel 2022. «Mi sono sentita non capita, come una persona che si è battuta per una parte di persone ingrate» confessa. Non ha ricucito con la comunità. Fagnani scherza: "L'hanno licenziata da icona gay» e Arisa ribatte: «Ma che me frega».

«Forgiata a botte...»

Infine, si è ripercorsa l’infanzia dell’artista. Lei aveva detto e ha confermato di essere stata anche «forgiata a botte», per poi aggiungere, a proposto delle sofferenze che questo ha determinato: «Io non lo farei, però come ho detto più volte i miei genitori si sono trovati di fronte un essere anomalo e loro erano un po' inesperti, avevano le loro problematiche. Io li ringrazio sempre perché mi hanno preparata a tutto, posso sopportare qualsiasi cosa». Oggi: «Sono considerata un'artista difficile, ma lo dicono apposta, perché ho un senso del dovere molto radicato che arriva anche dalle mie origini».

Dal profilo Instagram di Mario Adinolfi mercoledì 30 agosto 2023.

Da Arisa arriva un bel messaggio finalmente femminile e non femminista: puoi avere tutta la fama, il successo, i soldi e l’emancipazione che vuoi; alla fine ti mancherà sempre un uomo per il quale cucinare. E a cui piaccia “solo e da matti l’organo sessuale femminile”. Tanti saluti al gender fluid, al mammo, al maschio abbacchiato dalla donna virago.

Arisa sbotta ed è più forte del generale Vannacci. Vuole il matrimonio e il principe azzurro, perché tutto il resto altrimenti ha un sapore sbiadito. POST SCRIPTUM: Alcuni si sono scandalizzati per il nudo che accompagnava il messaggio di Arisa, dimenticando che il corpo nudo è simbolo stesso dell’arte che ha attraversato secoli di storia, da non confondere con l’orrore della pornografia. A chi davanti al messaggio importante di Arisa si fissa a guardare il dito anziché la luna indicata, dedico la mia annuale “nuotata di primavera”. Nudo è bello, il porno va vietato.

Ivan Rota per Dagospia mercoledì 30 agosto 2023.

Ho visto cose che voi umani…

Ma cosa ha visto Andrea Di Carlo, ex fidanzato di Arisa? Dopo l’ annuncio “matrimoniale” della cantante che cerca un uomo interessato al sesso femminile, anatomicamente parlando, in particolare al suo, corredandolo con foto in cui appare nuda: “max 45 anni, economicamente autosufficienti a cui piaccia solo e da matti l’organo sessuale femminile”. 

La cantante non è nuova a provocazioni, ma questa volta il suo ex si è risentito in quanto gli è sembrata una frecciatina verso di lui . L’ agente Andrea Di Carlo, prima di stare con Arisa, stava con un ragazzo. Riferendosi allo scambio di ‘ti amo” tra la cantante e la collega Madame, ha detto: “Lei lo cerca Alfa, ma semo sicuri che a lei piace l’organo sessuale maschile? Mah. Se potessi parlare di quello che ho visto. Bocca mia taci“. Cosa intende? Che ad Arisa piace anche altro?

Ecco cosa aveva dichiarato Arisa ai tempi della relazione con Di Carlo : “Quando l’ho conosciuto si era anche appena lasciato con un ragazzo e l’ho subito visto come un fuoriclasse nel modo di vivere la vita, nel prendersi quello che vuole” – aveva dichiarato Arisa annunciandone la relazione – “Aveva avuto un fidanzato per molto tempo, ma la cosa non mi ha fatto paura. So che sono di passaggio su questa terra, per cui la vita voglio viverla appieno. Quando parliamo della sessualità, siamo tutti filosofi, tutti bravi a dire che l’amore non ha sesso, ma quando arriva il tuo momento, che fai? Ti tiri indietro?”. 

Come si sa, Malgioglio l’ha perculata con un annuncio in cui cerca l’ amore (max. 49 anni). Gli hanno risposto  anche Leonardo Pieraccioni e Giorgio Panariello, suo collega  a Tale e Quale Show. Il primo ha chiesto uno sconto sull’età, il secondo gli ha proposto l’amico Carlo Conti.

Estratto da leggo.it il 27 maggio 2023.

«Giorgia Meloni mi piace perché ha molta cazzimma. Questa cosa andrà contro di me. Una volta ho fatto un discorso dicendo che la signora Meloni mi piacesse. Tutti i miei amici mi avevano sconsigliato di farlo, affermando che sarei stata additata come fascista». 

Arisa, cantante e due volte vincitrice di Sanremo, alla fine ha deciso comunque di dire la sua sulla situazione politica in Italia e anche sui diritti della comunità Lgbtqi+, della quale è stata anche madrina del pride del 2022. 

L'artista, ospite de "La Confessione", il programma tv di Peter Gomez sul canale Nove, racconta la sua simpatia per la premier: «Le sue non sono posizioni aperte, però secondo me lei si comporta come una mamma molto severa e spaventata. […]

Arisa sarà ospite dei pride di Roma e Milano, eppure a suo avviso c'è bisogno di un cambio di atteggiamento da parte di tutti nei confronti di Giorgia Meloni, compresa la comunità Lgbtqi+: «Io vorrei provare ad ampliare un po' la rappresentanza sui media rispetto alla comunità LGBTQI+, che non è fatta solo di macchiette o scene plateali, ma di gente normalissima. Penso che dobbiamo smettere di spaventare, ma dimostrare che siamo gente "wow". 

Mi piacerebbe che le persone avessero la pazienza e l'amore di farle capire certe cose, perché lei è veramente una che può portarci ad alti livelli, ha la cazzimma e noi serve una persona così».

Estratto da today.it il 28 maggio 2023.

Arisa è su tutte le furie. Dopo le sue ultime dichiarazioni su Giorgia Meloni, la cantante lucana ha deciso di mettere le cose in chiaro e rispondere a tutte le critiche ricevute dalla comunità Lgbt, tra cui anche quelle di Vladimir Luxuria, che si è scagliata contro di lei perché in un certo senso ha difeso Giorgia Meloni e il suo pensiero nei confronti dei gay definendola "solo una mamma spaventata".  […] 

Così, Arisa, furiosa, ospite a Domenica In, ha voluto mettere le cose in chiaro e spiegare che sì, Giorgia Meloni le piace ma non per questo ha cambiato opinione sulla comunità Lgbt che, per lei, resta sempre importantissima e da difendere. 

"Adesso è un momento del caz*o - ha esordito Arisa dopo che Mara Venier le ha chiesto come stesse -. C'è stato un grosso misunderstanding dopo la mia intervista con Peter Gomez. Io non mi aspettavo che mi venissero fatte determinate domande. Io sono una paciera da quando sono piccola e cerco sempre di trovare un equilibrio tra le parti.

In questi anni sono sempre stata dalla parte di tutti i diritti e di tutte le minoranze e sono anche dalla parte della minoranza più grande, le donne. Quindi io sono dalla parte di tutti i diritti e posso essere anche contenta se una donna come me sale al governo ed è alla più alta carica del potere. 

Però penso anche che questo non ha a che vedere con il pensiero politico che lei ha su certe cose. Io ho detto che la Meloni mi piace poi che ci siano problemi grandissimi rispetto all'accettazione della comunità Lgbt è una realtà. Io non voglio risultare come una traditrice, una voltafaccia. Sono 15 anni che sono dalla parte dei diritti Lgbt e continuerò a esserlo".

Rosalba Pippa: Arisa. Estratto dell’articolo di Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 6 marzo 2023

[…] A 40 anni, Rosalba Pippa, due volte vincitrice del Festival di Sanremo (nel 2009 da esordiente con Sincerità e nel 2014, nella categoria Campioni, con Controvento), ex giudice di X Factor , ex star di Ballando con le stelle , ora coach di Amici , è sempre sorprendente. 

Schietta, stravagante, inquieta, dice: «So cosa voglio, il prossimo passo è la concretezza. Dipendiamo troppo dal giudizio degli altri». Ha cambiato tante volte, sui social ha mostrato il suo corpo, “i rotoli di ciccia” e la vita da vespa, ha parlato del suo percorso. «Sono forte e fragile, come tutti. Ma ho imparato a volermi bene».

Ha detto: «Vedo con chiarezza l’orizzonte verso cui voglio dirigermi». Quale è?

«La concretezza. Siamo dipendenti dal giudizio degli altri, specie chi fa il mio lavoro. La mia strada è la melodia, è bello credere nei sentimenti: non demoliamo le speranze. […]».

È scappata spesso?

«Sì, tante volte, per prima cosa da me stessa. Sono sempre quella del passo indietro, del “non me lo merito”. […] Bisogna avere il coraggio di non piacere a tutti». 

[…]  Avevano fatto scalpore le foto in cui aveva un’immagine sensuale: un dimagrimento di cui si è parlato tanto. Cos’è cambiato?

«[…]  A me piace posare per i fotografi, fare foto in cui non sono io. Il problema è che poi sono io».

Perché dice così?

«Perché mi piace quella immagine ma finisce lì. Quando mi riguardo, ci sono foto che ritraggono un’attrice anni 40, una cantante spogliarellista anni 70, e posso essere tutte queste donne. Certe relazioni lasciano l’amaro in bocca, anche se hai ricevuto un rifiuto sai che vali a prescindere. Invece per prima cosa mostri il corpo: “Sono fica, non me ne frega niente”. Poi ti passa pure quella roba lì». 

Però le donne sono sempre giudicate: pensi agli attacchi a Levante che si è fatta bionda.

«C’è anche un fattore di invidia, eh. L’Italia ha tantissimi pregi, ma è un paese. Questa storia del giudizio per cui ognuno deve mettere bocca è provinciale. E lo dico io che vengo dalla campagna. Non se ne può più». 

Non pensa che i social abbiano peggiorato le cose?

«Hanno dato la parola a tutti, nel bene e nel male […] c’è quello che critica il naso di Marina Abramovic. Rimango sempre più ferita dal genere femminile che attacca il genere femminile, è come se mi sentissi più compresa dagli uomini che dalle donne. Se mostro i rotoli di ciccia, e li ho fatti vedere, ci sta che uno mi dica: “Non ti vergogni?”. Quando le cose sono più arzigogolate, c’è un pensiero volutamente cattivo, leggo, ed è da parte di una donna». […]

Estratto dell’articolo di Roberto Faben per “La Verità” il 24 giugno 2023.

Nel 1971, quando a Canzonissima apparve Rosanna Fratello, all’epoca ventenne, molte mogli italiane, sistemate sul divano accanto ai mariti, provarono un lampo di gelosia. Quella giovane bruna che, interpretando Sono una donna, non sono una santa, avversava una tentazione e faceva attendere per esaudire una promessa d’amore, calamitava l’attenzione. 

La cantante pugliese, nata a San Severo (Foggia) nel 1951, aveva già raggiunto fulminea notorietà a Sanremo 1969, tanto da essere chiamata, l’anno dopo, anche nel cast del varietà Rai del sabato sera E noi qui, accanto a Gino Bramieri e Giorgio Gaber. Tra i telespettatori c’era anche Giuliano Montaldo, che in lei vide subito Rosa, moglie dell’anarchico Nicola Sacco, anch’essa pugliese, affidandole poi la parte nel film Sacco e Vanzetti, che le valse il Nastro d’argento come miglior attrice esordiente. 

Lino Banfi l’avrebbe voluta per le sue commedie al peperoncino: incassò un no e ripiegò su Edwige Fenech. Per lei Giorgio Conte, fratello di Paolo, ha scritto Non sono Maddalena. Sposata dal 1975, una figlia, Guendalina, 43 anni, e due nipoti, Alessandro, 12, e Giovanni, 10, vive a Milano, ma spesso si reca nella sua casa a Pietrasanta, in Toscana, e ha molti progetti.

[…] Cosa voleva fare da grande?

«Ho sempre immaginato di fare questo lavoro. Mio papà, quando tornava a casa, cantava le canzoni napoletane ed era intonatissimo». 

Le prime volte, si sentiva intimidita dal pubblico?

«Timidina lo ero sicuramente ma salivo convinta sul palco. Partecipai al concorso “La reginetta della canzone”, la finalissima fu a Piacenza, presentava Pippo Baudo e c’erano le case discografiche. Eravamo tutte donne e su centinaia ho vinto il concorso. Venni scritturata dall’Ariston, la mia casa discografica, la mia carriera iniziò lì, poi Un disco per l’estate, il Cantagiro…».

Come andarono le cose per il suo primo Sanremo?

«All’inizio del ’69, non riuscivano a mandarmi a Sanremo, ma capitò che Anna Identici, già in programma con la canzone Il treno, ebbe un problema in famiglia, tentò il suicidio, e Alfredo Rossi pensò di mandare me per sostituirla. Fu un successo enorme d’immagine, nonostante non fossi entrata in finale, per tre punti. Cantai Il treno e da lì non mi sono più fermata, ancora Sanremo l’anno dopo, poi Canzonissima…». 

Sono una donna, non sono una santa ebbe un successo enorme a Canzonissima.

«All’epoca i grossisti acquistavano dalle case discografiche i dischi, per poi distribuirli. Sono una donna, non sono una santa entrò in classifica prima che uscisse a Canzonissima, i grossisti ne avevano acquistate moltissime copie, e finì, mi fa un po’ senso dirlo, davanti anche a Battisti, ai Beatles…». 

Nel 1985 lei partecipò a Premiatissima, il remake di Mediaset di Canzonissima.  Come ricorda Silvio Berlusconi?

«Lo dico col cuore, ho il ricordo di una persona davvero gentile, umana, propositiva, aperto a qualsiasi dialogo, ti consigliava, ti diceva qui puoi migliorare, oppure hai fatto bene, amava il suo lavoro. È la persona che ci vorrebbe ancora, che non è stata sempre capita ma che all’Italia mancherà. Si dovrebbe continuare a pensare, in alcuni momenti, a cosa avrebbe fatto Berlusconi per salvare l’Italia. E ha dato il pane a tantissimi che se non ci fosse stato lui sarebbero rimasti a casa». 

Cosa ne pensa della Rai di oggi?

«In Rai bisognerebbe che si dessero una calmatina, perché la tv è prima di tutto degli italiani e invece decidono loro, è diventata un giro a circuito chiuso, solo amici degli amici. Berlusconi invece aveva portato una certa democrazia che oggi in certi contesti non trovo più. […]».

Come ha conosciuto suo marito?

«Mio marito l’ho conosciuto perché anche i suoi genitori approdavano a Milano da Palermo, cercavano fortuna e venne ad abitare nelle case che i miei avevano costruito.

Abitava di fronte a me e ci si dava la mano dalla finestra del bagno mio e suo, una cosa molto ingenua, nata per gioco, eravamo ragazzi…». 

Ma gliel’ha cantata, solo per lui, Sono una donna, non sono una santa?

(Sorride). «Nooo, ma lui l’aveva capito da solo che bisognava aspettare i tempi, non c’era bisogno di cantargliela, siamo cresciuti mano nella mano».

[…]  Nel 1978 apparve in copertina su Playboy. Pose limiti alle richieste della testata?

«Erano foto composte, oggi fanno sorridere. Ho dato un limite al tutto, anche perché non è spogliandoti che diventi una donna sensuale, non c’è bisogno di far vedere tutto per esserlo. Una volta le donne erano belle quando s’intuiva senza vedere. Se una donna esagera non è più credibile». 

[…] In amore un tradimento si può perdonare?

«Oddio, oddio, oddio… si può perdonare se finisce lì, ma secondo me se una persona è fedele, lo è sempre… Dipende, queste cose non si possono dire con certezza».

È stato spesso scritto che Aldo Moro abbia avuto per lei un’infatuazione.

«Io ho conosciuto l’uomo politico attraverso, come una volta si usava fare, gli spettacoli dopo i comizi, si andava a cena, un paio di volte sono stata seduta vicino a questo grande statista a cena. Ho cenato a casa di Berlusconi, conosciuto Craxi, conoscere un politico non significa essere la sua amante.

Moro era umano, amava i giovani, mi diede anche dei consigli. Mi disse che gli piaceva il mio timbro di voce, che arrivava al cuore, all’anima, con questi canti un po’ sofferti, le canzoni folk della nostra terra, era anche lui pugliese, apprezzava la mia persona, il mio modo di essere, tutto qua. Mi è stato riferito che ci sarebbe, agli atti, una lettera scritta alla moglie durante la prigionia, in cui le chiede scusa per un pensiero, un minimo di debolezza avuto nei confronti di una giovane donna. 

Io, questa lettera, non sono mai andata a leggerla, ma sembra quasi che se gli piacevano la mia voce e le mie canzoni sia una colpa. Moro bisogna solo rispettarlo».  […] 

Rosario.

Giuseppe

Rosario.

Estratto dell'articolo di Aldo Grasso per “Sette - Corriere della Sera” domenica 13 agosto 2023. 

Negli Anni 70, la famiglia Fiorello abitava ad Augusta , e il Nostro frequentava con alterne fortune il liceo scientifico Principe di Napoli. Ha confessato a Edmondo Berselli: «Nello show lo dico chiaro, l’unico mio titolo di studio è il battesimo. Studiare, ma si poteva? Augusta è un’isola, eravamo circondati dal sole e dal mare, fin da bambini si stava sempre fuori, a giocare a chiappeddi, le pietre al posto delle bocce, in palio le figurine Panini». 

«Noi siciliani siamo abbastanza stanziali, cioè non ci muoviamo dalla Sicilia, addirittura siamo capaci di non conoscere parte della Sicilia. Io vivevo ad Augusta, il massimo che potessi permettermi era di andare a Letojanni, la città dove è nato mio padre, nei pressi di Taormina o a Giardini Naxos, la città di origine di mia madre. Ogni tanto da Augusta si andava a Catania. Ma era un viaggio, un lungo viaggio: il tono era “È andato a Catania!”. Cioè mezz’ora di macchina per noi rappresentava l’idea di viaggio, se poi andavi a Messina, ci voleva il passaporto. Messina era lontanissima---! Messina».

«Era arrivata la cartolina precetto. Dovevo presentarmi a Bari». […] «Mi presentai in caserma così come venivo dal villaggio, capelli lunghi e maglietta con la scritta Miami Beach. L’ufficiale che ci inquadrava mi notò subito in mezzo agli altri. Con tono perentorio ordinò al caporale: “Portalo dal barbiere!”».

«[…]un bel giorno, era il 1982, me lo ricordo perché stavo festeggiando la vittoria dell’Italia al Mondiale di calcio in Spagna. Ero al villaggio turistico Valtur di Brucoli a urlare per i gol di Rossi e Tardelli. Torno a casa tardi, mia madre è sveglia e mi dice che è arrivata […] la chiamata di leva: presentarsi al distretto militare di Bari, al 48° battaglione fanteria Ferrara. Era la prima volta che uscivo dalla Sicilia, a 22 anni. Vi rendete conto? […]».

[…]A Bari mi sono trovato bene durate i tre mesi del Car, centro addestramento reclute. Mi misero persino in un picchetto d’onore, per cui io mi ricordo, ma ci deve essere una foto in giro. […] in cui si vede l’allora presidente del Consiglio Giovanni Spadolini passare in rassegna il Sacrario militare dei Caduti d’Oltremare di Bari. E dietro ci sono io sull’attenti». 

«Finiti i tre mesi c’è la destinazione, sono tranquillo, penso di tornare in Sicilia, come altri corregionali. Invece mi mandano a Sacile. Dove minchia si trova sto Sacile? “Tranquillo”,mi dicono, “si trova in Friuli”. Per me allora il Friuli era un posto che non esisteva, non sapevo nemmeno dove fosse, per questo mi mandano a Sacile. Questo paese mi pareva un presepe, […]». 

«Torno ad Augusta e il capo villaggio della Valtur mi fa una sorpresa. Mi licenzia da barista e mi assume come animatore, ma per l’invern o. “Per l’inverno?”, chiedo io, ma se non c’è nessuno. Credevo a uno scherzo e invece mi portò in Costa d’Avorio. […] Racconto questo perché quella fu la prima volta che presi l’aereo, a 23 anni e mezzo. Quando arrivo in Africa e scendiamo sentivo un caldo dell’inferno e credevo fosse colpa dei motori dell’aereo e invece più mi allontanavo dall’aereo più faceva caldo, c’erano 50 gradi all’ombra e il 98% di umidità. […]

Per farla breve, perdo 10 kg perché mangiavo solo ananas e mi ricordo che lì mi tolsero un dente, mi portarono da un dentista che in quei giorni non aveva corrente elettrica, questo mi tolse il dente praticamente a mani nude, con un caz.. di tenaglia. Mi ha frantumato l’osso della mascella, ho fatto 15 giorni chiuso in camera per la febbre, un disastro. […] vedevo colleghi con la febbre a 42 gradi che sentivano un freddo cane con la temperatura esterna a 50 gradi, bisognava coprirli con delle coperte. Per fortuna non presi la malaria ma il chinino mi ha lasciato un segno: epatite C da farmaco».

[…] «Tornato in Italia faccio i villaggi Valtur invernali: Sansicario, Cervinia, Marilleva e poi quelli estivi in Puglia, ma a quel punto lì mi muovevo già con l’aereo avanti e indietro, quindi da lì poi son partito». 

«La prima grande città che ho incontrato è stata Roma: quando si finiva la stagione si veniva tutti a Roma nella sede Valtur […] «Quando inizia di nuovo la stagione estiva, un certo giorno ci dicono: “Dobbiamo andare a Milano a incidere la sigla della Valtur scritta da Dario Baldan Bembo”. Minchia, a Milano! Andammo a Milano a incidere questa sigla e per la prima volta vidi Milano. Mi ricordo che giravamo con i miei colleghi animatori e dissi: “Minchia ma questo è un altro mondo”. Milano già all’epoca si trovava avanti rispetto a tutto quello che avevo visto fino ad allora e qui stiamo parlando del 1983 o 84. C’erano già i paninari, i giovani avevano i capelli tagliati strano. Mi dicevo: “Ma guarda qua come sono questi milanesi”.

I luoghi comuni c’erano tutti: lavoravano, andavano tutti di corsa, il traffico non era quello di Roma, tutto perfetto, tutto pulito. A Milano ci sono tornato con Bernardo Cherubini, il fratello di Lorenzo. Eravamo in Calabria e mi dice se andiamo a trovare suo fratello, Jovanotti, che aveva cominciato la sua avventura con Claudio Cecchetto: siamo andati a Milano, era il 1987, sono stato lì una settimana e in quella settimana è successo tutto. […] L’anno dopo ho preso la decisione di lasciare i villaggi, mi sono trasferito a Milano, stavo in una casa, cioè nel quartier generale di Cecchetto, e a Radio Deejay guardavo quello che facevano gli altri, rubavo loro il mestiere. Poi ho cominciato a fare i primi programmi con Tony Severo e poi con Amadeus ed è lì che è nata l’amicizia con Amadeus».

Il Karaoke diventa presto un appuntamento imperdibile, Fiorello una scoperta inaspettata e il suo […] 

«[…] Se c’è una città che mi ha fatto impazzire per la sua bellezza è Trieste: il mare, quella piazza meravigliosa, la gente che convive con la bora, i passamani per non volare via, i caffè. Se vai in un caffè storico di Trieste, come il Caffè degli Specchi in piazza Unità d’Italia, ti danno il menù dei caffè. Mi dia questo, mia dia quello, con quei nomi. A Trieste c’ero andato per la prima volta con il Karaoke e dal pubblico mi tirarono un’arancia. […]».

«Finito il Karaoke torno a Milano, ma dopo essere stato a un Maurizio Costanzo Show e avendo poi avuto modo di fare con lui La febbre del venerdì sera abbiamo scoperto di avere una certa affinità al cazzeggio. Per lui era la prima volta che smetteva gli abiti del giornalista e lasciava che io scherzassi con lui. Scrisse persino Adriano Celentano: “C’era Fiorello al Costanzo e maimi sono divertito così tanto perché ho vistoMaurizio fare cose che non avevamai fatto prima”. Poi abbiamo fatto Buona domenica e in quell’occasione ho conosciuto Susanna e quindi Roma. Ho capito che Roma sarebbe stata la città della mia vita. Ho appena fatto una settimana di vacanza in Liguria ma appena sull’autostrada arrivo a Roma Nord, dopo imbocco la strada verso casa, ecco, è il caso di dirlo,mi sento a casa.Mi sento proprio romano».

Nostalgia della Sicilia? «Si manifesta ogni qualvolta vedi una foto, del cibo, ricordi un profumo e allora penso: “Ah la nostalgia della mia terra!”. Ci chiamano “terroni” non a caso… Ci chiamano così perché siamo attaccati alla terra». «Poi, ovviamente c’è la Sicilia, la Sicilia non si tocca. Ogni estate vi passo almeno dieci giorni, vado a vedere posti dove andavo quando ero bambino, vado a trovare tutti i parenti e anche lì, la Sicilia, io non l’ho scoperta tutta perché, come ho detto all’inizio, noi siciliani siamo sempre nel nostro orticello. […]

Estratto dell’articolo di Paola Italiano per La Stampa il 4 aprile 2023.

La cantante, il sosia di Elvis, quello di Thomas Milian, il salutatore, un attore, un bambino di Bruxelles sulle spalle dello zio, un «reduce del Karaoke di Italia 1 nel 1994», come da cartello appeso al collo. «Sta diventando una corrida qui», dice Fiorello nel baretto dietro l’angolo di via Asiago, mentre riprende con il telefono la corte dei miracoli che ogni mattina lo viene a trovare a colazione al bar.

 Un bugigattolo dove ci stanno sì e no 6-7 persone, tutti non si può entrare, la gente si assiepa all’entrata, aspetta il suo turno di passare davanti a Fiore per la diretta social quotidiana che precede Viva Rai2! - un saluto, un messaggio, una canzone, una poesia –. Quelli dietro allungano il collo per vederlo, alzano le braccia per uno scatto o un video, come si fa a un concerto. E invece sono le cinque del mattino, Roma dorme, la notte è ancora scura, le strade deserte, eppure al «Bar di guerre stellari», un silenzio che profuma di caffè e cornetto caldo viene rotto dagli applausi: «Sssssshhhhh, esultate piano, che qui protestano».

 (...)

 Dopo la diretta Instagram si torna in via Asiago, dove per strada, davanti al «glass» in cui Fiorello e Biggio e tutto il cast attorno commentano le notizie, cominciano i movimenti per la diretta su Rai 2 alle sette e un quarto. Quello che la tv non fa percepire con esattezza è l’imponenza della produzione e la precisione della macchina a cui lavorano circa 200 persone tra autori, produttori, tecnici, ballerini, musicisti, sarti, coreografi. Al piano terra della sede Rai di via Asiago c’è una sala riunioni, dalla strada si intravede dentro la finestra: «Nasce tutto qua – spiega Fiorello – dopo la trasmissione al mattino ci riuniamo e tiriamo giù delle idee tutti insieme. L’idea di Batman e Wonder Trans, per esempio, ci è venuta per caso, era il compleanno di Christian Bale, ho chiesto se c’era un costume da Batman, e c’era: il più brutto che si sia mai visto. L’ho indossato e quello già faceva ridere».

Wonder Trans invece è Fabrizio Biggio con i suoi baffetti vestito da Wonder Woman, ormai un classico dei siparietti di Viva Rai2!, e in questi tempi di sensibilità molto suscettibili, viene da chiedersi perché con Fiorello nessuno protesti. «Certo che protestano. Come è naturale che succeda nel 2023, ora ci sono i social. Prima magari si arrabbiavano lo stesso, ma al massimo si sfogavano al bar, ora possono farlo pubblicamente. Però ormai abbiamo fatto il callo alle proteste, perché si protesta su qualsiasi cosa. Davvero: qualsiasi cosa. E spesso dando giudizi senza alcuna competenza. E allora io ho smesso di farmi problemi, perché protestare su tutto equivale a protestare su niente. Nessuna autocensura».

(...)

 Tra l’altro in trasmissione, nella folla che circonda ogni mattino Fiorello, a volte compare anche la figlia di Fiorello, quella cui Meloni faceva da baby sitter, che ha 16 anni, fa il liceo classico. «Giorgia non la faceva giocare con le Barbie, non voleva nemmeno che guardasse i cartoni con le principesse», racconta Fiore, che si dice contento della ragazza in trasmissione («sono le prime volte che mi cerca da quel punto di vista»), ma che preferirebbe non vederla nel mondo dello spettacolo in futuro. «Perché so com’è questo mondo. Se lo facesse, dovrebbe fare una cosa totalmente diversa da quello che faccio io.

Ad esempio, è una brava pianista e anzi: colgo l’occasione per farle un appello pubblico perché riprenda a suonare, si è fermata dopo 5 anni di conservatorio e tre da privatista. Allora andrebbe benissimo, ma se facesse la showgirl che balla canta suona allora direbbero che è figlia di, con tutti i problemi dei figli di. Tra l’altro – prosegue – fino a 14 anni non sapeva nemmeno cosa fossero il pop e il rap. Il suo mito erano Martha Argerich e Lang Lang, ci portava a vedere i loro concerti, Lang Lang l’abbiamo anche incontrato: ha delle dita così lunghe che quando è venuto a salutarci stavano ancora suonando».

A Fiorello il Premio Gianfranco Funari Giornalaio dell’anno 2023 a Viareggio. Nicola Santini su L’Identità il 18 Febbraio 2023.

Italian showman Rosario Fiorello poses with the Assomusica award at the 70th Sanremo Italian Song Festival, Sanremo, Italy, 06 February 2020. The festival runs from 04 to 08 February. ANSA/ETTORE FERRARI

Schietto, verace, amante della sana provocazione, Gianfranco Funari ha rivoluzionato il modo di fare tv tra gli anni Ottanta e Novanta. Il conduttore televisivo, scomparso nel 2008, con i suoi programmi di successo, da Aboccaperta a Mezzogiorno è…, passando per Funari News, ha impresso la sua inconfondibile cifra stilistica alla storia del nostro piccolo schermo. A lui è stato intitolato un prestigioso riconoscimento Premio Gianfranco Funari –Giornalaio dell’anno 2023, ideato dalla Libero Produzioni Televisive di Marco Falorni e organizzato con il patrocinio della Fondazione Carnevale di Viareggio. Nella cittadina toscana, la seconda edizione della kermesse, ha visto premiati tre personaggi di spicco della tv italiana odierna: Rosario Fiorello, mattatore di Viva Rai 2!, programma del mattino della seconda rete della tv di Stato campione di ascolti, Serena Bortone, regina del pomeriggio di Rai 1 e Diego Bianchi, in arte Zoro, volto di punta di La 7. A scegliere i vincitori dell’edizione 2023, un ristretto gruppo di giurati che ha diviso un pezzo di strada personale e professionale con lo stesso Funari: Morena Zapparoli Funari, il regista Ermanno Corbella, i giornalisti Gianni Barbacetto e Francesco Specchia, Marco Falorni e Andrea Frassoni di Libero Produzioni Televisive. “I premiati di quest’anno ci danno la fotografia precisa, con modalità diverse, del nostro momento storico e di come la televisione possa e debba raccontarlo. Tutti e tre i premiati hanno degli elementi ‘alla Funari’ e del professionista serio, ironico e libero che fu Gianfranco”, ci spiega Marco Falorni, per molti anni autore e poi produttore del conduttore romano. Gli fa eco Andrea Frassoni, autore del docufilm Funari Funari Funari per Sky Documentaries: “Anche se Fiorello, Bortone e Zoro sono tre fuoriclasse della tv di oggi, è evidente che abbiano fatto tesoro della lezione di un maestro della tv di ieri come Gianfranco. È bello che tutti e tre abbiano accolto questo premio con onore e grande rispetto per Funari”. “Uno che si rapportava così come faceva Funari al proprio pubblico e ai propri ospiti, non si era mai visto. Almeno io non l’avevo mai visto”, ha commentato Diego Bianchi, padrone di casa di Propaganda Live, il programma di La7, in onda ogni venerdì in prima serata. “Era assolutamente un semplificatore della comunicazione, nel momento in cui c’era il famoso ‘politichese’, un linguaggio che in realtà non c’è più, anzi adesso sembrano un po’ tutti Funari, anche i politici.

Fiorello: «Gli inizi a Radio Deejay, che mi chiese di fare la pianta, l’arrivo a Milano e la tv». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 3 Febbraio 2023

«A Milano non mi facevano fare nulla. Mi dissi: se tra una settimana non cambia qualcosa me ne torno al lavoro nei villaggi. Mi chiamarono per il programma su Italia 1. Non sapevo cosa bisognava fare, ma l’ho fatto»

«I biglietti costavano e soldi per andare al concerto non ce n’erano. Ma io avevo l’arma segreta. Io avevo il cugino Nino». Campo sportivo di Letojanni, provincia di Messina, anno 1967. Nino Nicita, vigile urbano, pancia prominente e faccia da Dean Martin, fende due ali di folla adorante tenendo per mano un bambino di sette anni. Un vigile, all’epoca, «valeva quanto un generale di corpo d’armata». Nino e il bambino si lasciano la folla alle spalle e guadagnano la porta d’ingresso di una roulotte. Bussano. Aspettano. «E poi a un certo punto apre e me lo ritrovo davanti. Abituato com’ero a vederlo in televisione, dove era alto qualche centimetro, dal vivo mi sembrava enorme, gigantesco. E la luce che emanava, non avete idea, c’era luce ovunque: per il carisma, certo, ma anche per lo sbrilluccichìo delle gemme sui vestiti, con delle frange che spuntavano da tutte le parti. Era come se anche la roulotte avesse le frange. All’epoca mica c’era la globalizzazione che ti faceva vedere tutto, e magari avresti detto “vabbé ma queste cose le fa già Elvis, chi se ne frega”. All’epoca così c’era lui e basta. O ti piaceva lui o ti piaceva Gianni Morandi.

L’incontro col suo idolo

Signor Little”, gli disse Nino, “questo è mio cugino”. Lui mi guardò e disse: “A’ more’ (moretto, ndr), come te chiami?”. “Rosario”, gli risposi. Mi diede due buffetti sulle guance e scrisse su un foglio di carta “a Rosario, con affetto”. Non potete immaginare il dispiacere di aver perduto, chissà dove e chissà quando, quel pezzetto di carta con l’autografo. Ma Little Tony, fateci caso, da grande l’avrei portato con me sempre, a pegno di una sorta di debito di riconoscenza per quella sera in cui mi aveva accolto con mio cugino Nino nella sua roulotte prima del concerto di Letojanni. Sempre, in tutti i miei show, quelli dal vivo e quelli in tv, Little Tony ci sarebbe stato». Forse il segreto dell’eterno successo di Rosario Fiorello, confermato per l’ennesima volta dall’esperienza quotidiana di Viva Rai 2, è nascosto in Sicilia e negli occhi del bambino di sette anni che incrociano per la prima volta quelli di una star, Little Tony.

La fiducia nel «mezzo»

Non importa che sia televisione o radio, emittente di Stato o commerciale, che sia Instagram o un teatro, che vada in onda la mattina prestissimo, al pomeriggio o in prima serata, solo di sabato o solo gli altri giorni della settimana. Il fuoriclasse è tale forse perché, dietro, c’è un bambino che ha creduto nel «mezzo» come se il «mezzo» fosse il tempio di una religione unica e di una verità assoluta. Come se tutto quello che succedeva e succede dentro il «mezzo» fosse reale, autentico, indiscutibile. Di questi tempi Fiorello si sveglia quando per gli altri è notte fonda, alle 5 è già in via Asiago, alle 7.15 si accende la lucina della diretta di Viva Rai 2; quando finisce la diretta, inizia a lavorare al programma del giorno dopo e verso mezzogiorno guadagna uno studio di Rai Radio 2 per consegnare a un microfono pezzi unici del suo passato, storie minime di una vita quotidiana che messe insieme fanno una grande storia. Sembra un cesto in cui i fichi d’India della Sicilia degli anni Sessanta e Settanta convivono con i fast food e la Milano da bere degli anni Ottanta, le ristrettezze economiche del prima con i grandi guadagni del dopo; come un album dalle figurine più disparate — il cugino Nino e Claudio Cecchetto, Little Tony e Lorenzo Jovanotti, Amadeus e Pippo Baudo — incollate e messe insieme da un’unica mano: la sua.

La passione per Walter Chiari

«Da ragazzo andavo pazzo per Walter Chiari. Lo guardavo in tv e ogni volta era una sorpresa continua. Miiii’, pensavo, ma come gli vengono tutte ‘ste battute? Ma come cavolo fa? Poi battute belle, precise, al punto giusto tie’, ecco che Walter Chiari dice la cosa che va detta e che fa anche ridere. Più avanti, quando mi sarei esibito io, avrei pensato “chissà se stasera avrò la fortuna di Walter Chiari, chissà se al momento giusto mi verrà la battuta giusta”. È che io non pensavo proprio che Walter Chiari se le preparasse prima, le battute, l’ho capito solo dopo».

L’idionsincrasia per i provini

La sacralità del mezzo, quello che vi succede è reale, non c’è trucco e non c’è inganno. L’idiosincrasia di Fiorello per i provini forse nasce da questo: il provino è finto. «A quello con Pippo Baudo per Fantastico neanche sapevo di essere a un provino. Vedevo quelli in fila davanti a me che provavano la voce, qualcuno scaldava i muscoli per ballare, qualcun altro si allenava per un numero da giocoliere. Quando arrivò il mio turno, mi chiesero che cosa sapessi fare e risposi con sincerità che non sapevo fare nulla, volevo solo i soldi del biglietto per poter tornare a casa, ché non li avevo. “Sai cantare?”. Sono intonato, risposi. Pippo Caruso attaccò al pianoforte e io gli andai dietro con quella strofa improvvisata, “non so fare nulla, voglio andare a casa, non ho i soldi per il biglietto”. I cameramen iniziarono a farmi segno col pollice in alto; persino Caruso, che era sempre serio, accennò un mezzo sorriso; Baudo si era addirittura alzato per accompagnarmi. È fatta, pensai. Macché. “Sei bravo ma non ti prendo”, mi disse».

Animatore nei villaggi

Negli archivi fotografici di Palazzo Chigi, sepolta tra centinaia di migliaia di fotografie, deve essercene una del 1982 che ritrae il presidente del Consiglio in carica, Giovanni Spadolini, in visita ufficiale al Sacrario militare dei Caduti d’oltremare, a Bari. Dietro Spadolini c’è un giovane sull’attenti che imbraccia un fucile: è Fiorello, che trascorre tre mesi della leva militare nel capoluogo pugliese, con la cartolina ricevuta all’indomani della vittoria dell’Italia ai Mondiali del 1982. Al ritorno dal servizio di leva fa avanti e indietro dai villaggi turistici, si sente il ragazzo più fortunato del mondo perché la Valtur l’ha assunto a tempo indeterminato. «Sapete che cosa voleva dire, no? Stipendio sicuro e pure bello alto, contributi pagati, avvenire garantito».

I primi passi in radio

Fino a quando la storia non prende una piega decisamente malinconica. «A pensarci ora, vi giuro, mi faccio tenerezza da solo...», accenna. Claudio Cecchetto l’ha chiamato a Milano per lavorare a Radio Deejay. «Si trattava di accettare uno stipendio decisamente più basso di quello che avevo con la Valtur e di acconciarsi a fare la pianta. Che cos’era la pianta? Semplice: non dovevi fare nulla. Soltanto stare alla radio a osservare, a vedere quello che facevano gli altri, ad assorbire, a imparare. Il primo con cui ho fatto la pianta è stato Tony Severo. All’epoca andava tantissimo la soap opera Sentieri, noi facevamo una specie di parodia che avevamo ribattezzato Viottoli... Amadeus, che era arrivato prima di me, aveva già un programma suo, si chiamava Mattinata esagerata, dove io andavo a fare le vocine di sottofondo...».

Liturgie milanesi

Milano sapeva essere crudele per chi non ne conosceva le liturgie, anche quelle minime. «Una volta — ricorda Fiorello — entrai dal fornaio e mi misi in fila per comprare due rosette vuote. Mangiavo quello, due rosette vuote. Vedevo che mi superavano tutti e non capivo il motivo. Dopo un bel po’ il panettiere mi spiegò che, se non avessi preso il numeretto, gli altri avrebbero continuato a superarmi. Ma che ne potevo sapere che c’era il numeretto, chi l’aveva mai visto...».

In casa con Sandy Marton

Se il vitto è così così, l’alloggio è insuperabile. Via Alberto da Giussano, zona Parco Pallavicino, a due passi dalla radio. «Cecchetto mi disse “da domani abiterai là insieme a tutti gli altri”. Gli altri erano Franchino Tuzio, Marco Baldini, Tracy Spencer, i fuorisede della galassia Deejay, tanto per capirci. E soprattutto lui: Sandy Marton». Qualche tempo prima Cecchetto aveva scovato quel ragazzo croato mentre faceva il cameriere a Ibiza; e, solo guardandolo con quella chioma bionda fluente, quando capì che faceva il musicista gli aveva commissionato su due piedi una canzone sull’isola, Gente de Ibiza, che tradotta in inglese era diventata la hit People from Ibiza. «Vado a questa via Alberto da Giussano, citofono e chi mi apre la porta? Lui, Sandy. “Tu sei il nuovo?”, mi chiese. “Sì, sono il nuovo”. Da quel momento iniziai a fare il citofonista di Sandy Marton. Le donne lo cercavano a tutte le ore. Peeeee (imita il suono del citofono, ndr), c’è Sandy? Sandy, che magari stava già in compagnia, mi faceva segno di dire che non c’era».

La prima puntata

La pianta però rischia di appassire. Fiorello arriva a un passo dal comprare un biglietto di sola andata per la Sicilia. «Non mi facevano fare nulla, non ne potevo più di stare a Milano. A un certo punto mi do un tempo. Ma non un tempo lungo, una scadenza breve: se tra una settimana non avrò fatto nulla, me ne torno al lavoro ai villaggi». Quando l’ultima sabbia sta esaurendo la parte alta della clessidra, «Cecchetto mi chiama per andare a fare Deejay television su Italia Uno. Non sapevo che cosa bisognava fare ma l’ho fatto. Aspetto che vada in onda la prima puntata e tra me e me penso: ce l’ho fatta, adesso sono famoso. Adesso esco di casa e mi riconosceranno tutti».

Voglia di notorietà

In fondo, è l’eterno ritorno dello stesso capitolo della storia di Rosario Fiorello: il mezzo è sacro, la tv non mente, quello che accade è reale, quello che succede dopo è scritto sulla pietra, com’era stato per Little Tony, Pippo Baudo, Sandy Marton, Giovanni Spadolini, Walter Chiari, per tutti quelli che erano stati dall’altra parte del mezzo, dentro la tv; e che, una volta stati dall’altra parte, poi non erano più quelli che erano prima di starci. «A Milano andava il look Ibiza: capello lungo, jeans, Camperos, camicia hawaiana e sopra la camicia una giacca nera elegante. Mi vesto e prendo la metro alla stazione Pagano per andare in centro. Una tratta bella affollata. Mi fermeranno tutti, pensavo. Sulla metro niente, non mi riconosceva nessuno. Sceso a San Babila inizio a guardare io le persone negli occhi, a fissarle. Come a dire “riconoscimi, dai, riconoscimi, sono quello della tv”. Niente di niente. Solo alla fine una ragazzina mi disse una cosa tipo “assomigli a quello che ha fatto Deejay television”. Ma comunque poca roba. Imparai quel giorno che sulle cose bisognava lavorarci. Starci e basta non sarebbe bastato. Mai».

Quel disco di Fred

Che è un insegnamento che Fiorello conserva ancora oggi, quando la sua sveglia suona che per gli altri è ancora notte fonda, quando il motore della Vespa è gelido e va scaldato, quando il freddo taglia la faccia di chi va a lavorare su due ruote, quando è ancora buio e la telecamera si accende sulla intro sempre diversa che lui e Fabrizio Biggio consegnano alla nuova puntata di Viva Rai 2. Il cuore del leone di Sicilia è sempre lo stesso e non è cambiato. Una vocina interiore, tutti i giorni, gli ricorda le cento lire di un juke-box di Augusta, il rumore della gettoniera, il braccio meccanico sollevava tre 45 giri e la puntina che li riproduceva, sempre gli stessi, sempre nella stessa sequenza. «It’s ecstasy when you lay down next to me di Barry White, I will survive di Gloria Gaynor e poi il disco magagna, sempre al momento giusto: La mia estate con te di Fred Bongusto». Si rivolge alla regia di Rai Radio 2, come a non voler interrompere un’emozione che sta per finire: «Ce l’abbiamo La mia estate con te di Fred Bongusto? Me ne fate sentire un pezzetto?»

Andrea Scarpa per "il Messaggero" il 29 gennaio 2023.

[…] a 62 anni, Fiorello con Viva Rai2! ha resuscitato una rete boccheggiante come Rai2, dando nuova vita a una fascia oraria televisiva che prima di lui faceva l'1 per cento di ascolti e oggi il 15 - dopo aver superato il clamoroso tafazzismo del Tg1 che di fatto non l'ha voluto su Rai1. Insomma, un fenomeno. Il solito.

 Che Italia si vede all'alba?

«Un'Italia buona. Io comincio dopo le cinque facendo per strada una diretta Instagram. Quella è la parte migliore della giornata: a quell'ora la gente non si è ancora incattivita, i cellulari non squillano e tutti salutano con piacere. Dura poco, però. Basta realizzare che la benzina costa troppo, la bolletta è in scadenza, non c'è parcheggio...».

 E lei quando si incarognisce?

«Mai. Io sono un privilegiato».

[…]

Vista l'ora, chi non ha accettato l'invito al suo show?

«Quelli della vecchia guardia, tipo Francesco De Gregori. Antonello Venditti mi ha detto: Fiore, te vojo bene, ma non chiedermi di venire a quell'ora. Se lo fai di pomeriggio, sto già lì».

[...]

lei all'Ariston andrà o no?

«Non se ne parla, ho il mio show. Se si va lì bisogna dare il massimo e io non ho tempo né la forza di preparare niente».

Almeno un collegamento lo farà?

«Qualcosa faremo. Intanto per Viva Rai2! ci sarà il nostro Gabriele Vagnato».

 A lui ha detto qualcosa dopo che sui social, all'indomani del furto a Milano della sua bici, ha dato del ladro alla persona sbagliata, rimediando una denuncia?

«Onestamente, no. Ma so che oggi con telecamerine, dirette in ogni momento, e l'ossessione del politicamente corretto, è facile sbagliare. Bisogna regolamentare la materia. Un po' come le intercettazioni telefoniche, senza le quali Matteo Messina Denaro non l'avremmo preso».

A proposito, da siciliano che ne pensa: è davvero una svolta?

«Lo spero. Il clima è cambiato, la gente scende in piazza senza timori e applaude i carabinieri».

 È vero che da giovane la prendevano in giro perché suo padre era un finanziere?

«Sì. C'era sempre chi faceva la battuta: Ecco il figlio dello sbirru. Quando hanno preso Messina Denaro ho pensato proprio a mio padre, che ha passato la vita in divisa».

 Per lei chi vincerà il Festival?

«Giorgia. O uno fra Ultimo e Mengoni. Ma a Sanremo può succedere di tutto».

 Secondo lei Chiara Ferragni al Festival cosa farà?

«Un monologo sul tema della lotta alle violenze contro le donne […]

Delle quattro co-conduttrici - Ferragni, Fagnani, Egonu e Francini - chi la incuriosice di più?

«Francesca Fagnani. È in gamba e potrebbe sorprendere: è sul pezzo, ha la battuta pronta e credo che non si farà intimorire dalla prosopopea del Festival».

 Amadeus punta a battere il record di Pippo Baudo?

«[…] Quello di quest'anno andrà benissimo: lo so che adesso leggendo questa intervista lui si gratterà da tutte le parti, ma è così. E, da quello che so, ha ancora carte da giocare».

 Quali?

«Non lo dico (ride)... Sorprenderà tantissimo. Quindi mi chiedo: chi è il pazzo che farà il Festival dopo di lui? La Rai sarà costretta a chiedergli di guidare il sesto, e per il futuro si vedrà. Io gli ho detto che lo deve fare. Chi fa il nostro mestiere un po' aspira alla gloria».

 Addirittura?

«Sì. E se ne fa sei di fila, lui entrerà nei libri di Storia dello spettacolo italiano […]».

 È vero che Baudo nel 1986 la bocciò a un provino?

«Sì. Da super tecnico aveva capito che sono prolisso. Mi disse: Non ti prendo perché ho bisogno di uno che in tre minuti faccia una cosa. Tu in tre minuti al massimo dici come ti chiami. Sei bravo, però: non perdiamoci di vista».

 E la ricontattò?

 «Certo. Quando nel 1987 passò a Mediaset mi offrì di condurre un gioco in piscina, ma poi lui litigò subito con Berlusconi e se ne andò. E io non feci più niente».

E dopo il clamoroso comunicato del cdr del Tg1 che definiva uno sfregio affidare a lei uno spazio del mattino, di fatto costringendola a traslocare su Rai2, l'ad Fuortes a Natale le ha mandato un regalo con un bel bigliettino di auguri?

«Ahahahaha (ride)... […] l'unica cosa che mi è dispiaciuta di quella vicenda sono state le modalità: la parola sfregio non è stata carina. Alla fine, però, devo ringraziarli: meglio così. Mi sento più libero su Rai2».

 Prima che partisse il suo show, il 5 dicembre, ha detto che se avesse raggiunto il 4 per cento di ascolti l'avrebbero promossa amministratore delegato della Rai: al posto di Fuortes qual è la prima cosa che farebbe?

«Oddio, chi potrei licenziare?».

 Quelli del comunicato dello sfregio?

«Manco li menziono (ride). Forse investirei di più su Rai2 per farla diventare una rete giovane. Farei lavorare Fedez, Cattelan, Marcuzzi e tanti volti nuovi. Ed eliminerei le fasce Day Time e Prime Time, che nessuno capisce, e ripristinerei l'organizzazione di prima: direttore di Rai1, Rai2, Rai3... Coletta (attuale direttore della fascia Prime time, ndr) lo degraderei a direttore di Rai2, per averlo sempre vicino. Come direttore di Rai3, invece, farei tornare Andrea Salerno da La7. Gli farei subito la proposta, tanto dare più soldi di Cairo è facilissimo: ha il braccino corto... Si può dire (ride)?».

E di Zelensky al Festival che ne pensa?

 «Io sto con Amadeus».

Dagospia il 13 Gennaio 2023.

Fiorello graffiti. “A Milano facevo il citofonista di Sandy Marton”. A “Non è un paese per giovani”, il programma di Massimo Cervelli e Tommaso Labate e su Radio 2”, lo showman racconta gli esordi in radio, la seconda delle sue molte vite dopo il periodo da animatore nei villaggi. “La Valtur mi aveva fatto un contratto a tempo indeterminato, ma io avevo ormai deciso di provare con lo spettacolo.

 Arrivai a Milano, a Radio Deejay facevo 'la pianta', stavo lì e osservavo. Prestavo la voce, quando serviva, nella trasmissione di Amadeus, “Mattinata esagerata”. Con Tony Severo facevo la parodia della soap "Sentieri", “Viottoli”. Qualche tempo dopo incontrai Marco Baldini, che ho recentemente risentito. È padre di un bambino meraviglioso, mi si riempie il cuore di gioia quando vedo Marco felice…”.

 Tra una imitazione di Vittorio Salvetti, storico patron del Festivalbar, e una digressione sul “disco-magagna” “La mia estate con te” di Fred Bongusto, Fiorello ricorda la prima casa in via Alberto da Giussano, a Milano. “Lì mi aprì la porta Sandy Marton. Bello come il sole, non potete capire. Ho visto cose che voi umani…Le donne impazzivano per lui. Suonavano al citofono e chiedevano di Sandy, che era impegnato sempre con qualcuna. Mancava solo che distribuissi i numeretti…”. Fiorello  tornerà lunedì prossimo in tv con “Viva Rai 2”: “Avremo come ospite un politico il cui nome finisce con la i…” (Meloni? Oppure Salvini, Renzi, Berlusconi, Bonaccini. O magari, Casini)

Alberto Dandolo per Oggi oggi.it il 23 dicembre 2022.

Sono le 6.30 del mattino di un giorno di dicembre. A Roma piove a dirotto. Via Asiago e transennata. Le uniche luci che si scorgono sono quelle dei fari che illuminano il set del programma di Fiorello, Viva Rai 2!, il vero, grande evento televisivo della stagione. Che giorno dopo giorno affeziona sempre più spettatori. Rosario e un vulcano di energia e adrenalina. A fine puntata e con svizzera puntualità ci riceve nel suo camerino.

A che ora suona la sua sveglia?

«Alle cinque meno dieci, cronometro tutto: so quanto tempo impiego ad arrivare da casa mia a via Asiago. Ho anche misurato i tempi dei semafori. Ci metto sei minuti e quaranta secondi per arrivare con la moto e otto minuti e venti secondi con la macchina! Pensi che sono io che sveglio la sveglia: apro gli occhi ogni cinque minuti. La aspetto con riverenza a occhi aperti perché non credo sia rispettoso farla suonare senza che io sia già mentalmente e fisicamente operativo». 

Aspetta sveglio la sveglia?

«Esatto. Io alle cinque meno dieci ho già da tempo salutato il sonno. Non so perchè, ma io voglio che suoni mentre sono già pronto. E alla sveglia dico: “Non ce la fai, non ce la fai...”. Alle cinque e due minuti sono qui». 

Vuole controllare il tempo per sentirsi rassicurato?

«No, e un bisogno, nasce solo dall’essere vecchio. Gli anziani dormono sempre meno. Piu vai avanti con l’età e meno dormi. Pero, da buon meridionale, non mi levate la pennica del pomeriggio. Ormai quelli che mi conoscono lo sanno. Trovo messaggi che iniziano cosi: “Ciao Fiore, so che stai dormendo, quando ti svegli poi mi chiami?”. Sono i messaggi di chi mi conosce bene». 

Torniamo in via Asiago. A Viva Rai2! c’è il racconto di ciò che accade nel Paese.

«Sono impegnato 24 ore su 24. L’idea nasce già 11 anni fa: prima per caso, poi con l’avvento dello smartphone, che mi ha aiutato. Quando ho avuto l’opportunità di avere la telecamera del cellulare in mano, ho cominciato a riprendere per scherzo gli avventori del bar vicino casa, il Tom Bar di Via Flaminia, e lo facevo con me dietro. In quei giorni nacque la prima  Edicola Fiore, che non si chiamava neanche Edicola Fiore: postavo i contenuti su YouTube». 

E poi?

«Sono sbarcato su Twitter. Credo di essere stato uno dei primi in Italia. In quel periodo era in preparazione l’ultimo varietà #ilpiugrandespettacolodopoilweekend e fu il primo show con l’hashtag. Bibi Ballandi, il mio amato produttore, mi disse: “Ma cos’e quel cosino che c’è sul titolo?” (imita l’accento emiliano, ndr). E io: “Bibi, poi te lo spiego, pero fidati di me che è una cosa importante”. E mi ricordo che, allora, una fetta del pubblico a Cinecittà era composta appunto dai miei follower su Twitter, ne avevo circa 450 mila, ed ero quello che ne aveva di più insieme a Jovanotti e Nicola Savino. Non c’era ancora la figura dell’influencer». 

Ha anticipato i tempi. Perchè tradurre tutto questo in tv?

«Perchè quell’Edicola Fiore solo postata sui social divento un’Edicola Fiore televisiva con Sky, facemmo due edizioni. Poi con il mio arrivo a RaiPlay per il lancio della piattaforma cominciammo a provare, nello stesso Glass, una specie di anteprima dello show di Viva Raiplay, che sia chiamava Via Asiago 10, unendo tutte le esperienze precedenti. E finalmente siamo riusciti a fare Viva Rai 2, sperimentando: diciamo che per la generalista e un esperimento, ma sulle piattaforme io l’avevo già testata». 

Una sfida non da poco.

«Si. E soprattutto in una fascia oraria dove non hai una platea numerosissima, pero c’è una buona fetta di persone che a quell’ora guarda la tv. Di Rai 2 si sa, e inutile riparlarne: alla fine, quando si dice il caso, il destino, col senno di poi, forse e veramente stata la scelta giusta per il tipo di show che stiamo facendo. Probabilmente Rai 1 sarebbe stata troppo». 

Non sarebbe stata in linea?

«Molto probabilmente no: qui ci sentiamo un po’ più liberi, a casa. Rai 1 e più istituzionale, su alcune idee da attuare magari saremmo stati un po’ più frenati». 

Ha portato il varietà alle 7 del mattino riuscendo al contempo a raccontare ciò che accade nel Paese. E lo ha fatto a modo suo.

«E la mia cifra. Cerco di fare una satira non convenzionale. I miei denigratori spesso dicono “ma Fiorello rende sempre simpatici tutti quelli che critica...”. 

Senza comprendere che io sono totalmente al di sopra delle parti. Il mio obiettivo e solo quello di portare buonumore con degli spunti di riflessione. Senza abbracciare alcuna idea politica, senza pregiudizi». 

Le piace il cazzeggio.

«A me piace fare cazzeggio sul centrodestra, sul centrosinistra o su chiunque faccia qualcosa degna di essere sottolineata e denunciata. Noi non ci tiriamo indietro se c’è da parlare della corruzione europea o dei fatti di Soumahoro. Con Salvini avevamo per esempio fatto mezza polemica sul Ponte di Messina, io dicevo che prima bisogna fare le strade, e li già ero “comico contro il governo”. Io invece penso ai tempi della Roma papalina. A quei giullari che colpivano tutti, dal Vaticano ai governanti dell’epoca. Si divertivano a prendere in giro. Perchè il “prendere in giro” in realtà e un atto di liberta e insieme di denuncia». 

Che Paese sta raccontando?

«Beh, un Paese in piena crisi. Si sa, con la guerra in Ucraina, la pandemia, tutto ha assunto un volto nuovo. Eventi che lasceranno strascichi ancora per molti anni. Tantissime attività hanno chiuso e quindi molte persone sono rimaste senza lavoro». 

E giusto che lo Stato aiuti chi non sa come sostenersi o come arrivare a fine mese?

«Credo che il Governo debba aiutare chi e veramente in difficolta. Sostenere chi ne ha bisogno e fare al contempo luce su chi invece se ne approfitta. Vede, io ricordo mio padre che era un dipendente statale e guadagnava una cifra pari a 800 euro al mese di oggi, anche meno, diciamo 700 euro, con 4 figli, casa in affitto e macchina in leasing. Era difficilissimo andare avanti. Quindi se mio padre avesse avuto il reddito di cittadinanza, un sostegno, sarebbe stato l’uomo più felice del mondo. A mio padre, a fine mese, rimanevano forse 80 euro per mangiare».

Lei che rapporto ha con i soldi?

«Ho grande rispetto per il denaro. Cerco di farne un buon uso e di avere una relazione più sana possibile. Le confesso una cosa: non ho mai liquidi addosso». 

Pos o non Pos?

«Direi Pos! Il fatto di avere il cellulare e di avere una carta di credito a tetto limitato e un toccasana. Adoro potermi vivere la pigrizia di prendere un caffe e sventolare il cellulare, per me e una roba incredibile. Mia figlia invece e arrabbiata per questo fatto, dice “mi dai 2 euro?”, e io non li ho, e lei: “Basta con questo cellulare”». 

In che cosa investe i suoi soldi in cosa?

«Sono l’uomo che non fa girare l’economia perchè non compro nulla. Solo piccole spese legate al quotidiano o alle esigenze familiari. A tutto il resto, per fortuna, ci pensa mia moglie». 

Giorgia Meloni fu assunta come babysitter da sua moglie Susanna per badare alla prima figlia.

«Si, e stata babysitter di mia figlia, ma era mia moglie che si occupava di babysitteraggio. La Meloni e pero oggi una mia cliente. Nel senso che, quando faccio uno spettacolo live, lei viene. Quest’estate ne ho fatto uno a Ostia Antica, io non lo sapevo, ma guardando tra il pubblico ho visto la Meloni li. E devo dire che, quella sera, battute gliene feci, eccome!». 

E una sua fan.

«E ci tengo a dirlo: fece comprare i biglietti con altro nome e arrivo li come una spettatrice comune».

Viva Rai 2! fa ottimi ascolti.

«Non ne parlo, sarò contento quando il programma finirà».

Bilancio delle prime settimane?

«Ottimo. Le parlo a livello artistico: un risultato superiore a quello che avrei mai potuto pensare e sperare».

Che televisione ha trovato?

«Se si riferisce alla general sta, oggi e molto cambiata. Se mi chiedessero di fare un varietà il sabato sera direi di no. I varietà lunghissimi, di tre ore, quel tipo di show, grazie no. Oggi la gente vuole la serialità, il pubblico si appassiona alle storie, ai personaggi. Ormai e una sorta di globalizzazione dello spettacolo. Si va in televisione, cellulare, tablet, piattaforme, radio. Anche noi. 

Andiamo in onda la mattina, in diretta, quella e la base, la madre. Ma poi c’è la replica su Rai 1 la notte, poi c’è RaiPlay, poi tutte le clip sui social, poi su Rai Radio Tutta Italiana su Raiplaysound, poi i vari servizi nei programmi...

Ormai questa e televisione a tutto tondo, non c’è più il programma fine a se stesso, e tutto correlato. C’è una madre centrale del programma e poi questo continua per tutta la settimana fino alla nuova puntata: cosi e Ballando con le stelle, Tale e Quale, cosi Amici di Maria De Filippi, cosi il Grande Fratello e cosi e tutta la televisione». 

Chi la ama vorrebbe tornasse in prima serata.

«Guardi, io dico sempre “l’ho già fatto”, ogni cosa e figlia del suo tempo, in quel periodo andava bene. Adesso secondo me va bene questa cosa qua e sono contento che i risultati lo stiano dimostrando. Se facessimo questo programma alle 9 del mattino anzichè alle 7 già sarebbe diverso». 

A proposito di fasce orarie, la polemica col Tg1.

«Una polemica che e nata e morta li: un’ora dopo la diffusione del comunicato del Tg1 io stavo già su Rai 2. Come dire: “Oh raga’, c’hanno ragione, quello e un loro spazio”. Pensi che io avevo persino proposto Rai 5, Rai 4. E stato Stefano Coletta (dirigente Rai, ndr) a dire “perchè no Rai 2?”. Ci sono rimasto male solo per il comunicato e i toni un po’ duri e poco rispettosi».

E vero che Amadeus sta facendo pressing per averla a Sanremo?

«Con tutto il bene che voglio ad Ama, voglio bene anche a questo programma. Fuori da Via Asiago, VR2! si snaturerebbe. Noi pero seguiremo Sanremo, avremo i nostri inviati in riviera. Avrò Gabriele Vagnato sul posto, ma quella settimana sarà dura pure per me! Figuriamoci ad andare li, io non ce la faccio neanche a livello fisico. Già per fare questa intervista, che interrompe il mio ritmo, sono sballato. Collegarsi alle 7 e un quarto significa entrare in diretta dopo poche ore dalla fine della puntata di Sanremo... Ecco, forse quella settimana mi stancherò molto di più perchè vorrò vedere quanto più possibile la puntata del Festival. Ma siccome quel disgraziato di Ama, mio amico, farà molto tardi, mi toccherà faticare». 

Che ne pensa della scelta di Chiara Ferragni?

«Devo essere sincero: io e Ama erano due anni che ci provavamo. Poi a un certo punto lui mi dice “Ciuri, guarda il Tg1”, e li ha annunciato la Ferragni. L’ho chiamato e gli ho detto: “Ce l’hai fatta”, e lui: “Non ho mai mollato”’. Con Ama prima o poi tutti cedono. Pero, sappiatelo, lui a me le cose non le dice: io non sapevo un nome di un cantante in gara, di un ospite... Pensi che quando e venuto alla prima puntata di Viva Rai 2! non mi aveva detto neanche che avrebbe annunciato da noi la presenza di Francesca Fagnani al Festival». 

Anche lei ha ceduto ad Ama.

«Con me ha fatto poca fatica». 

E Natale, come vivrà queste feste?

«Intanto fino al 23 lavoriamo, poi il 24 e il 25 dobbiamo preparare altre puntate. Passero un Natale di lavoro, riuscirò a fare solo qualcosa con la famiglia e basta. Neanche i regali quest’anno, non ho tempo. Dico a tutti: vi prego, i regali ve li faccio dopo». 

Che rapporto ha col tempo che passa?

«Tento di fare più cose possibili per non pensarci. Se uno si dovesse fermare, come ogni tanto faccio quando mi prende lo schiribizzo di dire “basta non faccio più niente, sono vecchio”, beh, fortunatamente le persone che mi stanno accanto mi spronano. Mia moglie Susanna mi dice: “Alzati, va li, fai lo show dal vivo, non ti fermare”. E questo l’unico modo per non aver tempo di pensare di stare invecchiando. Perchè devo fare la riunione, e poi devo pensare a fare l’intervista con Dandolo, e poi deve arrivare Marracash e devo fare io l’intervista a Marracash... Anzi, sa che Marracash sta arrivando? E tempo di salutarci».

Maurizio Costanzo per “Libero Quotidiano” il 10 dicembre 2022.

Fiorello sa cos' è la tv e, infatti, è difficile che sbagli un programma. Anche questa volta, con Viva Rai2!, in onda tutti i giorni alle 7.15 su Raidue, ha fatto centro. Non a caso, viene replicato anche verso l'una di notte su Raiuno. Fiorello non conosce regole, se non quelle suggerite dalla fantasia e dalla voglia di mischiare le carte.  

È stato sempre così. Poi, siccome suppongo che sia pigro, mette sempre tempo in mezzo, tra un programma e l'altro. In questo Viva Rai2! c'è proprio l'anima di Fiorello nella sua voglia di far diventare uno sconosciuto un suo luogotenente, nel far cantare a quasi sconosciuti canzoni, nel far diventare vincente un qualcosa che, in altre mani, sarebbe stato perdente. Insomma, uno bravo.

Mi piace raccontare la prima volta che lo incontrai. Ero stato incaricato dalla società Valtur, che ha molti villaggi turistici, di fare un giro in Italia per vedere se c'erano intrattenitori da proporre a un pubblico nazionale e non solo ai villeggianti. Feci questo viaggio e, in uno dei cinque-sei villaggi che visitai, incontrai questo giovanotto che intratteneva in maniera originale e divertente il pubblico, sia sulla spiaggia come al momento del pasto. 

Lo volli conoscere e prendemmo un appuntamento a Roma. Lui partecipò a qualche puntata del Costanzo Show, ottenendo sempre un ottimo successo. Poi, fece alcuni suoi spettacoli di Karaoke e io, chiamato da Canale 5 a fare Buona Domenica, lo misi nel cast. Fu un grande successo. Si può dire che, da quel momento, cominciò la straordinaria carriera di Rosario.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 6 dicembre 2022.

Dal dehors di via Asiago è andato in onda non un programma, non un morning show, non una strampalata rassegna stampa. No, è andato in onda un soffio di buonumore lungo 45 minuti, la cosa di cui più abbiamo bisogno in questo momento. Accompagnato da Fabrizio Biggio, («l'altro dei Soliti Idioti e tu sai che dai Soliti Idioti al solito cretino è un attimo») e da Mauro Casciari, «detto Bellosguardo», Rosario Fiorello ci accompagnerà ogni mattina, dalle 7.15 alle 8 su Rai2.

Potremmo segnalare la presenza di Amadeus, venuto a sostenere l'esordio dell'amico e ad annunciare che la «belva» Francesca Fagnani sarà l'altra co-conduttrice di Sanremo; potremmo segnalare l'inchiestina milanese di Gabriele Vagnato, tiktoker da 3,5 milioni di follower, su quanti guardano Rai2 (nessuno); potremmo citare la festante presenza della giudice di Ballando con le stelle Carolyn Smith (a riprova che di quel programma è l'unica presenza simpatica), ma non è molto importante la cronaca. Basta andare su Rai Play e abbandonarsi al flusso. 

Ancora una volta, quello che davvero conta è l'atmosfera che Fiorello sa creare, la curiosità che appaga senza aver avuto bisogno di destarla, quel senso di vagabonda felicità che ti assale per la durata di Viva Rai2! : la felicità è fatta di attimi, essa transita, non la si possiede, al massimo la si coglie. Come ben sappiamo, in ciò che vediamo mettiamo il nostro proprio pensiero, per cui in verità non ci sarebbe bisogno di rifuggire da alcun programma: il nostro io cerca sempre di normalizzare l'insolito.

Con Fiorello è diverso perché è un sabotatore celeste dei nostri poveri convincimenti, è un'ilarità che ti scuote sin dalle prime battute, è il momento in cui la vista si annebbia un po' come succede nei desideri. Per questo, conviene lasciarsi andare, anche quando dall'«agenda Giorgia» spunta l'idea di «partecipare alle primarie del Pd».

Tiziana Cialdea per Novella 2000 il 6 dicembre 2022. 

Al debutto non poteva mancare l’amico di sempre: Fiorello è partito col botto. Primo ospite d’onore di Viva Rai2!, in onda già dal 5 dicembre alle 7:15 su Rai 2, e anticipato da Aspettando Viva Rai2!, disponibile in streaming sulla piattaforma Raiplay, è stato Amadeus. «Neanche gliel’ho dovuto chiedere». Impegnato per sei mesi con la diretta dopo l’alba, Fiore ha escluso di raggiungerlo a Sanremo, per il Festival. «È impossibile fisicamente.  Manderò il mio inviato Gabriele Vagnato, giovane tiktoker che da solo fa più numeri di Rai 2. Di Sanremo ne ho fatti due pieni e uno a metà: per chi fa il mio mestiere, fare tre Festival di fila strategicamente non si fa. Nessuno con il mio ruolo l’ha mai fatto. L’ho fatto io, solo io. E per amicizia». 

Quindi, Rosario è concentrato su questa nuova avventura: «Sento il peso della responsabilità e non solo perché vado “sul servizio pubblico”. Questo è un programma delicato: va in diretta e commentiamo notizie. Io sono molto diretto e devo stare attento. Ma non voglio stare attento. Non sono un pericolo pubblico in termini di satira, sono altri i comici ficcanti. Io ficco poco». Inizialmente la rassegna stampa dell’artista siciliano era prevista su Rai 1. 

E, interrogato sul “dirottamento” dal primo canale della Tv di Stato a Rai 2 Fiorello ha replicato: «Si dice che si chiude una porta e si apre un portone: non era preventivato. Però capisco i giornalisti del Tg 1: hanno difeso il proprio spazio. Poi c’è modo e modo di esporre le proprie ragioni. Per me è stato poco elegante il loro comunicato. Si poteva fare in altro modo: bastava una telefonata. Leggere, dalla sera alla mattina, quelle parole tra cui “sfregio” è stato brutto. Tutto qua. Per il resto io non ho nulla contro il Tg 1 e arrivare su Rai 2 è stato un attimo. Un passaggio semplice e indolore».

E ha aggiunto: «Rai 2 è sempre stata la rete dell’innovazione, da Quelli della notte a Quelli che il calcio. Non va sottovalutata. È sempre stata la rete giovane della Rai. E poi ho notato che su Rai 2 siamo tutti belli. Ci sono io, Stefano De Martino, Alessandro Cattelan... ma soprattutto Milo Infante! E tra le donne? Ilaria D’Amico, Simona Ventura, Paola Perego: possiamo andare a Milano Moda. A Rai 1 ci sono Amadeus, Carlo Conti: vuoi mettere? L’estetica conta!». 

Qual è la differenza tra Viva Rai2! e Edicola Fiore, che andava in onda su Sky?

«L’idea di Edicola Fiore mi è venuta in mente nel 2010 quando ho scoperto lo smartphone: il primo modello di quella marca lì (Apple, n.d.r.). Ma io Edicola Fiore l’ho sempre fatta, anche prima. Perché mi sveglio la mattina, vado al bar e commento l’attualità. Con gli amici del bar. 

Quando ho avuto il mio primo smartphone ho iniziato a postare i video di quei momenti: a quei tempi esisteva solo Facebook, che a me non è mai piaciuto particolarmente. Così usavo Youtube: per postare cinque minuti ci voleva un’ora, un’ora e mezza. Poi è arrivato Twitter. La mia “edicola” dunque è stato un programma esclusivamente social, almeno all’inizio. Poi è diventato uno spazio televisivo, su Sky. Ora la sfida è quella di vedere se quella cosa funziona anche su una rete generalista. Se non ha lo stesso effetto, e potrebbe essere, io e i miei collaboratori dobbiamo cercare una strada per farla funzionare. L’esperimento su Raiplay è stato buono, ma quello della Tv è un pubblico diverso: però ho sei mesi per correggere il tiro...».

Fiorello e la sveglia presto. Abitudine o maledizione?

«Alle cinque del mattino sono già in piedi. L’ho sempre fatto. Sono io che sveglio il mio condominio. E da una casa, la mia, passo a un’altra, quella di via Asiago, dove per quasi otto anni ho fatto Viva Radio2!, poi Viva Raiplay! e ho scelto di tornare perché ci sto bene». 

Alla vigilia  non ha nascosto di essere emozionato.

«Io vado al di là dell’emozione. Sono sempre terrorizzato: nei primi cinque minuti di uno spettacolo ho paura. Che poi, male che va, non succede niente. Ma da sempre mi accompagna questo stato d’animo, da quando facevo l’animatore nei villaggi, anzi da quando andavo a scuola e dovevo essere interrogato. 

Ansia da prestazione e terrore per il giudizio mi fanno sempre compagnia. Con l’età sono migliorato, perché l’esperienza a qualcosa serve. Ma il timore c’è sempre. E proprio perché Aspettando Viva Rai2! ha avuto successo sono preoccupato che Viva Rai2! non vada altrettanto bene».

Ma perché il pubblico dovrebbe scegliere Viva Rai2! al posto di un altro programma?

«La mia è un’alternativa a quello che di solito c’è a quell’ora: c’è il Tg 1, c’è il Tg 5, che in quella fascia è fortissimo. Se il pubblico sceglierà noi magari le notizie le ascolterà dopo: da noi le notizie verranno commentate, a modo nostro. In questa avventura sono affiancato da Fabrizio Biggio che secondo me finora ha raccolto meno di quello che merita ed è un grandissimo artista e dopo questa esperienza avrà tante altre occasioni». 

Questa nuova avventura televisiva l’ha riportata sui social. Che negli ultimi tempi aveva trascurato: perché? 

«Per due anni ne sono stato a distanza. È stata una scelta ponderata perché mi ero reso conto che mi svegliavo con l’ansia di dover dire qualcosa. Di dire la mia su ogni argomento.

Quando usi i social e sei personaggio pubblico ti svegli la mattina e devi dare il buongiorno, se vai in un posto devi farlo vedere, così come quello che mangi. Quando mi sono fermato ho provato la stessa sensazione di quando ho smesso di fumare: mi sentivo sollevato. Perché il nostro ego ci porta a vedere i commenti, con la speranza di leggere complimenti. Ma esistono gli haters e i loro commenti fanno male, anche se non ci mettono la faccia. 

Se leggo che a Pasqualino86 non piace il mio programma ci rimango male. Così, due anni senza per me sono stati una meraviglia. E anche adesso pubblico le mie clip, non quello che mangio o dove vado in vacanza. Quella è la mia vita lontana dai social. E non leggo i complimenti. Né gli altri commenti».

Fiorello sotterra Rai 1, disastro per la Maggioni: cos'è successo. Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022.

La risposta alla protesta del Tg1 arriva dai dati Auditel. Dopo che la redazione si era scagliata contro Fiorello ("No al suo programma nei nostri spazi del mattino"), ecco che ci pensa Viva Rai 2 a sistemarli. Il programma dello showman ha infatti totalizzato ascolti da record, tanto da superare il tiggi del primo canale. Ascolti oltre le aspettative raggiunti grazie anche alla presenza di Amadeus con l'annuncio di Francesca Fagnani come co-conduttrice per una sera al Festival di Sanremo 2023.

Più nel dettaglio Viva Rai2! Glass Cam (durata 5 minuti) raccoglie 170.000 spettatori e il 4.69), a seguire – dalle 7.15 alle 8.01 – Viva Rai2! segna 683.000 spettatori con il 14.1 per cento. …E Viva il Videobox ha convinto 211.000 spettatori (4.02 per cento). Dall'altra parte gli ascolti del Tg1 sono ben più bassi. Eccoli: Rai1 TgUnoMattina Rassegna Stampa ha raccolto 245.000 spettatori con il 9.89 per cento. 

Il TG1 delle 7 ha informato 360.000 spettatori e il 10.72. TgUnoMattina ha raccolto 492.000 spettatori con il 10.12 (in sostanza, dalle 7:13 alle 7:30: 352.000 – 8.13 per cento, dalle 7:32 alle 7:45: 387.000 – 7.88, dalle 7:46 alle 7:58: 436.000 – 8.34 per cento, dalle 8:36 alle 8:55: 714.000 – 14.11); all’interno il breve TG1 delle 7.30 segna 352.000 spettatori con il 7.52 per cento mentre il TG1 delle 8 ha informato 867.000 spettatori con il 16.46. Insomma, il telegiornale del mattino diretto da Monica Maggioni perde parecchio rispetto alla precedente settimana e si ferma al 12,5 per cento di share. Che sia l'effetto-Fiorello? Chissà...

Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 29 novembre 2022.

 «Non dice bene a chi va su Rai2: chi la tocca muore...ma noi andiamo in una fascia che meglio di così non si poteva perché sta all'1%: se faccio il 2% significa il 100% in più; se faccio il 4% divento amministratore delegato della Rai». 

Fiorello ironizza a modo suo alla vigilia della partenza di Viva Rai2! , il suo nuovo morning show («noi facciamo un mattin show», corregge lui) che dal 5 dicembre alle 7.15 diventa un appuntamento da ora di punta (solitamente della sveglia). 

L'impianto è consolidato, un mix di preparazione e improvvisazione tra one man show, rassegna stampa, ospiti musicali e non, inviati sui generis, la satira morbida e benigna che è la cifra della sua televisione. Andrà avanti per sei mesi («siete sicuri che ho firmato per così tanto tempo?»), in totale 115 puntate («un numero che non raggiungo nemmeno sommando tutte quelle che ho fatto dall'inizio della mia carriera»).

Amadeus sarà l'ospite della prima puntata, ma non ci sarà uno scambio di cortesie per Sanremo 2023: «Chiariamolo subito: non ci sarò al 100%. Ho già partecipato a tre Festival di fila (due pieni più uno nella serata di apertura), un impegno che strategicamente per me non aveva senso, ma l'ho fatto in virtù dell'amicizia che mi lega ad Amadeus». 

 L'ansia da debutto però non lo abbandona mai: «Altro che emozionato, sono sempre terrorizzato. Ho sempre paura prima dell'inizio di uno spettacolo, anche se con il tempo sono un po' migliorato, ma la verità è che ho il terrore del giudizio delle persone: quando andavo a scuola per le interrogazioni, quando facevo l'animatore nei villaggi». In fondo è anche questo «terrore», insieme a una dose di narcisismo necessaria per chi fa il suo mestiere, che l'ha spinto a silenziare i social per due anni: «La mia è stata una scelta ponderata perché mi svegliavo con l'ansia di dover dire sempre qualcosa. Il nostro ego poi ci porta a guardare i commenti, ci piace leggere i complimenti ma poi stiamo male quando troviamo gli insulti. A un certo punto ho pensato che era il momento di smettere di rincorrere il futuro; la sensazione senza social è stata quella del sollievo di quando ho smesso di fumare».

Aveva fatto molto discutere il cambio di rete, da Rai1 a Rai2, su pressione dei giornalisti del Tg1, ma Fiorello non cerca nemici: «Lo spostamento non era previsto, ma a volte si chiude una porta e si apre un portone. Capisco pienamente i giornalisti del Tg1, hanno difeso un loro spazio. 

Poi c'è modo e modo di dire le cose. L'aspetto meno carino è stato il comunicato, dire che la mia presenza era uno "sfregio" è stato poco elegante».

Un attimo e ritrova il gusto della battuta: «E poi Rai2 è la rete dei belli: ci siamo io, De Martino, Cattelan, Ilaria D'Amico, Paola Perego, su Rai1 invece ci sono le facce di Amadeus e Carlo Conti... è una questione anche estetica». Uno dei compagni di viaggio sarà Fabrizio Biggio: «Lo incontrai per caso in Rai, senza spiegargli niente lo chiamai in studio e feci una puntata con lui. Volevo vedere cosa avrebbe fatto all'impronta. E fu bravissimo. Quindi è stato naturale chiamarlo. Biggio ha raccolto meno di quello che merita, spero che questo programma lo aiuti a trovare una trasmissione tutta per lui. E poi ci raggiungerà anche Francesco Mandelli, ricomporranno I Soliti Idioti ma in altre vesti». Non solo loro.

La «quota giovani» ha il volto di Gabriele Vagnato, tiktoker da quasi quattro milioni di follower «Da solo fa il doppio di Rai2...». Fiorello diventa serio quando riflette su quanto accaduto a Ischia: «Quando avviene una tragedia diciamo sempre quanto ci dispiace, ma suona molto retorico. Forse gli italiani, tutti noi, ci siamo stufati di sentire sempre le stesse frasi. C'è un copione ormai, come se fosse scritto in un libro. Capitolo uno: si poteva evitare. Capitolo due: è colpa di... Le istituzioni si avvicendano e le situazioni non cambiano. Le decisioni non andrebbero prese dopo le disgrazie. Abbiamo capito che l'Italia va aggiustata, non rattoppata. E noi cittadini dobbiamo fare la nostra parte, seguendo sempre le regole». 

Fiorello porterà nella mattina di Rai2 il suo intrattenimento acuto, la sua comicità leggera, perché «si può dire tutto, ma senza astio e senza cattiveria. Non guardiamo in faccia nessuno: destra, sinistra e centro. E non ci sottraiamo a nessuna polemica, anzi ci piacciono quando sono sane e costruttive, ma tutti noi che facciamo questo mestiere abbiamo una responsabilità. Siamo il Servizio Pubblico, saremo in diretta, e io dovrò stare attento ma non lo sarò, anche perché tutti conoscono il tipo di satira che faccio, sono altri i comici ficcanti. Io ficco poco...».

Michela Tamburrino per la Stampa il 16 novembre 2022.

Se non fosse troppo crudele come gioco di parole, si potrebbe dire che la Rai è nel pallone. Un pallone mondiale tanto è enorme il caos che l'attraversa. Ogni giorno ne capita una che quasi quasi si prova tenerezza per quest' Azienda picchiata come un punching ball. 

Un fuoco di fila che quando diventa fuoco amico fa ancora più male. Non si sono ancora spenti gli echi del caso Montesano, che esplode l'affare Mondiali molto più complesso, economicamente molto più dannoso, strategicamente molto più sottile. La testa di serie Rai Rosario Fiorello, corteggiato da tempo e finalmente convinto al ritorno con un suo programma long time, lo stesso che salvò le sorti del Festival di Sanremo per due edizioni, ora nel suo «Aspettando Viva Rai2» in diretta Instagram e su Raiplay, continua a massacrare la Rai sollevando il problema dei Mondiali di Calcio trasmessi da un Paese, il Qatar, che fa «dei diritti umani uno zerbino da calpestare tutti i giorni». Logica conseguenza è l'invito a disertare le partite in diretta trasmesse dalla Rai. E in molti già giurano di essere disposti a spegnere la tv, peggio, a sintonizzarsi altrove. Lo fanno esponenti dei Cinque stelle, di Forza Italia e persino l'infettivologo Matteo Bassetti.

Ieri Fiorello, mostrando la pagina della «Stampa» ha preso in giro l'ad Fuortes, dicendo che era andato sotto casa sua in protesta e qualcuno gli aveva fatto trovare una testa di cavallo «di bronzo», mettendo insieme l'avvertimento mafioso stile «Padrino» e l'animale simbolo della Rai.

Ma perché sta accadendo tutto questo e perché nessuno si prende la briga di fermare lo tsunami di portata micidiale? 

Perché, sostengono gli esegeti di cose Rai, le ragioni andrebbero ricercate in un passato non tanto remoto. Fiorello è uomo di cuore, di sentimento, ma - se stuzzicato - anche di risentimento. Soprattutto se la sua suscettibilità viene pungolata oltre misura. Così come si era messo al servizio della causa combattendo a mani nude contro un Teatro Ariston vuoto causa pandemia con il sodale Amadeus, allo stesso modo potrebbe aver vissuto come ingratitudine quell'alzata di scudi dei giornalisti del Tg1 che difendevano i loro spazi, ma di fatto ne causarono lo sfratto da Rai1.

Fiorello che riflette molto sulle cose e i piatti migliori ama mangiarli freddi, non reagì per la bagarre che lo vedeva al centro. Tacque e poi prese lo scomposto dietrofront e il passaggio a Rai2 con spirito anglosassone, anzi ringraziando per la nuova collocazione. Ora potrebbe aver iniziato a rispondere. A proposito di portate culinarie, si dice che Fiorello stia ancora all'antipasto e che continuerà nella sua presa di posizione ineccepibile, ma certamente imbarazzante per la Rai che non sa come regolarsi. Bloccare il suo uomo d'oro, lasciare che prosegua, o pregare che si senta soddisfatto così? Una decisione non è stata presa. 

Anche perché, oltre alla pubblicità avversa, gli ascolti saranno risibili con l'Italia fuori gioco. E i temi civili che il Quatar considera niente, aggravati da dichiarazioni omofobe irricevibili, fanno sì che si tradisca il contratto di servizio. Una sconfitta strategica e culturale che potrebbe avere gravi conseguenze per una tv pubblica.

I diritti dei Mondiali erano stati comprati dall'Amministratore delegato Rai precedente all'attuale, Fabrizio Salini. Ancora si sperava nella qualificazione dell'Italia. La pratica fu gestita dal direttore dei diritti sportivi, Pier Francesco Forleo, compagno di Elisabetta, la figlia di Mara Venier. Poi la debacle della squadra italiana con Fuortes già subentrato. A questo punto, si poteva tentare una trattativa, spacchettare partite e diritti e venderli ad altri. Se mai questo è stato tentato, non è andato a buon fine. 

Altro elemento dirimente è la collocazione delle partite che il Qatar ha imposto in inverno per motivi di clima casalingo. 

Ma nessuno, allora, si è premurato di controllare che le partite coprissero il Prime Time. E infatti non lo coprono. Mentre in estate il palinsesto è più agile, ora si è in pieno periodo di garanzia, con la pubblicità che costa più cara ma con l'impossibilità di venderla al meglio perché il fuso orario impedisce appunto di soddisfare tutta la fascia di prima serata. Risultato: si scombussolano inutilmente sia il Day Time, sia il Prime Time. E pensare che Fiorello deve ancor andare in onda a pieno regime, dal 5 dicembre su Rai2 con «Viva Rai2». Se ne vedranno delle belle, questo è solo l'inizio.

Fiorello: «Io e la mia mamma vivi per miracolo. Susanna mi ha guarito». Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 10 Settembre 2022.   

Lo showman: «Ha rischiato di morire di parto e io con lei. Da animatore in un villaggio presi in giro due anziani, ho giurato che non l’avrei fatto mai più» 

«La felicità non è un sentimento assoluto, noi proviamo solo momenti di felicità, “felicità a tratti”, come cantava Tonino Carotone. Certo, se pensi alla carriera, alla riuscita nel lavoro, ai figli meravigliosi, pensi di aver raggiunto la felicità. Ma non è così. Una volta ho fatto un viaggio con mio padre, c’era un caldo afoso, torrido e lui ferma la macchina nei pressi di Acireale e mi dice (accento siciliano): “C’è troppo caldo, ora ci fermiamo e ci facciamo il bagno?” E io: “Ma non si può, non abbiamo il costume”. “Non ti preoccupare ce lo facciamo con le mutande”. Questa sorta di trasgressione mi fece impazzire, ero piccolo, lui mi teneva per mano mi faceva girare in acqua. Ecco, in quel momento ho provato la felicità. Qualcosa del genere ho provato quest’estate con mia figlia Angelica, perché è sempre difficile avere un dialogo con un’adolescente. Io e lei da soli in scooter, poi siamo andati a fare un bagno, guardandoci negli occhi. Se ci penso mi commuovo».

È inevitabile parlare di felicità con Rosario Tindaro Fiorello ; ne ha regalata tanta in tv. Da spettatori sappiano cos’è la felicità non tanto perché ne possediamo il concetto, ma perché a volte ne abbiamo sperimentato la condizione, anzi la conduzione, quella di Fiorello. Quei giri nell’acqua ritornano nelle sue parole, come un’onda della memoria. «Il ricordo più bello della mia infanzia, avrò avuto cinque o sei anni, è la Befana della Guardia di Finanza, ci andavo mano nella mano con mio padre. Ogni anno il comandante della compagnia offriva regali ai figli dei finanzieri: era molto eccitante, non ci dormivo la notte, anche perché erano regali che, all’epoca, non ci saremmo potuto permettere. Era il momento più felice dell’anno, più di Natale. Che poi i regali erano sempre gli stessi: mi sono beccato per tre anni di fila la roulette (sarei dovuto diventare un giocatore d’azzardo) e poi per altri due “L’allegro chirurgo”. Mio padre era l’artista di famiglia, era la nostra autoradio. Quando facevamo dei viaggi, e per viaggi s’intende Augusta-Letoianni, poco meno di 100 km, ma per noi era il Viaggio. Andavamo in vacanza nel paese natio di mio padre dove c’era la casetta della nonna e passavamo tutta l’estate là. Cantava tutte le canzoni di Modugno, deve aver influenzato Beppe. Lui cantava e mia madre gli ripeteva sempre “non camminare in mezzo, mettiti di lato”. Uno cantava, l’altra faceva da navigatore. Mia madre si chiama Rosaria come me: quando stavo per nascere ebbe una complicazione molto grave, i medici la davano per spacciata e io con lei. Miracolo, alla fine ci siamo salvati tutt’e due. Io mi sarei dovuto chiamare Raffaele, come mio nonno, a quel punto mio padre decise di chiamarmi come mia madre. Rosaria Galeano detta Sarina. Con mia mamma c’è un legane molto forte che scaturisce da questo evento. Sarina, che ora ha 87 anni, è la dedizione in persona, ha sempre fatto il suo lavoro quotidiano di madre con grandissimo amore. Per lei mandare fuori i figli pettinati e puliti era un punto d’onore, quello che ci mancava a livello economico non doveva intaccare la nostra dignità. Se io arrivavo con le scarpe infangate lei non le puliva, le faceva diventare nuove. Ancora oggi, tutte le mattine (lei ora vive a Roma), ci prendiamo il caffè assieme, discutiamo di cose, le si è sviluppato un notevole senso dell’umorismo, forse inconsapevole. Per esempio, io comincio ad avere piccoli problemi di memoria. Una mattina le dico “sai mamma comincio ad avere un problema, io non mi ricordo i nomi delle persone”. Pausa: “Ma almeno i cognomi te li ricordi?”. Il tutto con tempi comici perfetti. E poi è una grande cuoca, fa bene le cose semplici, specialità siciliane. “Mamma mi fai due sarde a beccafico”, ma c’è da impazzire dalla bontà. Da piccoli, l’evento era la pasta al forno domenicale. E poi pasta e fagioli, ma quello che noi figli amavamo di più era grattare il resto della pentola, il bruciacchiato che si attaccava sul fondo. C’è una cosa che mi è rimasta nel cuore: la prima volta che mio padre disse: “Hanno aperto una pizzeria” (imitazione del padre). Fino ad allora per noi la pizza era cosa che si faceva in campagna nelle teglie. Eravamo a Riposto, vicino a Catania, la pizzeria si chiamava “Gallo rosso”. Quando assaggiai per la prima volta la pizza dissi “da ora mangerò solo pizza”: ancora oggi è il mio piatto preferito: bianca, con la mozzarella e il prosciutto cotto, non patanegra».

Anche in un’intervista viene fuori l’unicità di Fiorello. Che consiste nel raccontare le cose normali con uno stato d’animo diverso e, soprattutto, nel saper trasmettere a chi lo ascolta questa nuova disposizione. È impossibile tradurre in parole i suoi racconti, perché alla parola scritta manca il suo ritmo, la sua gioiosità, le sue improvvisazioni. Se nomina una persona, subito la imita come se dentro di lui abitasse una moltitudine di personaggi. Sta per accennare al suo lavoro, ma il ricordo è ancora per suo padre.

«Il momento più triste della mia vita è stata la morte di mio padre, aveva solo 59 anni, io ora ne ho 62 pensavo di non farcela a superare i 59. Stava ballando con mia madre, si è assentato un attimo: “Sarina ho dimenticato le sigarette in macchina, torno subito”, e l’hanno trovato morto seduto sul sedile. Io ero all’inizio della mia carriera, a Sanremo con Radio Deejay (non so se l’ho mai detto ma la mia ritrosia per Sanremo nasce da questo evento), chiamavo casa e non mi rispondeva nessuno. Poi ho fatto un giro di parenti e mi dissero che mio padre stava male, di tornare subito (in realtà era già morto). Sono corso nella notte a Pila, in Val d’Aosta, a prendere mio fratello che lavorava lì e insieme siamo tornati in Sicilia per i funerali. Mi dispiace che mio padre non abbia visto nulla di quello che ho fatto, allora ero agli inizi. Il mare di Sanremo mi ricorda sempre le lacrime che quella sera ho versato per mio padre di cui avevo ancora tanto bisogno. Ho pensato pure di smetterla, di non tornare più a Milano, di finirla lì. La famiglia Certo, mi sarebbe piaciuto trasmettergli l’orgoglio per il mio lavoro, per quello che sono riuscito a fare. Da ragazzo pensavo: “Ma un giorno sarò in grado di badare a me stesso, di guadagnare per vivere? Che lavoro farò?”. Nella mia testa il mondo dello spettacolo non esisteva, volevo fare il calciatore. Sono stato molto orgoglioso della prima busta paga che ho preso quando ho cominciato a lavorare nei villaggi turistici: a fine mese mi pagavano, contratto a tempo indeterminato! Mi sono sentito realizzato solo quando sono riuscito a comprare la casa, una casa intestata a me, ad avere il tetto sopra la testa. Oggi però sono anche orgoglioso di essere riuscito a formare la mia famiglia: io, Susanna, Olivia e Angelica. Olivia è figlia del primo marito di Susanna, aveva già tre anni. Con Olivia ho cominciato a fare il padre e ci sono stati anche momenti di scontro. Lei mi diceva: tu non puoi sgridarmi, tu non sei il mio papà naturale. A me venne da risponderle: “Ricordati Olivia io non sono il tuo papà naturale, sono il tuo papà frizzante”. E con una battuta tutto si stemperava».

Se Rosario Tindaro fosse nato a Broadway staremmo qui a parlare di uno dei più grandi talenti dello show business. È capace di incrociare ambiti differenti (tv, radio, web, pubblicità…), è trasversale pur conservando sempre una propria identità, da vero mattatore della scena. Possiede un estro unico nel sollecitare l’attenzione degli spettatori, attraverso la battuta ma anche il corpo, la mimica, il canto, la parola. Conosce anche il valore della riconoscenza.

«Il miglior consiglio in campo professionale l’ho ricevuto da un capo villaggio, Enzo Ulivieri, quando lavoravo come animatore: “Tu non devi più lavorare al bar, tu devi fare l’animazione perché il tuo futuro è questo, tu questo non l’hai ancora capito” (imitazione di Ulivieri). Una sera, facendo dei giochi nell’anfiteatro, presi di mira due persone anziane, marito e moglie. Più li prendevo in giro, più la gente rideva. Ulivieri mi chiamò, io ero tutto contento “hai visto che bella serata?”. “Sì sì — rispose — ma ora prova a pensare se quelle due persone fossero state tuo padre e tua madre”, pausa. Io da quel giorno non mi sono più permesso di prendere in giro persone che non sono in grado di difendersi. Mi piace sempre ricordare Bibi Ballandi perché è la persona che mi ha traghettato dalla prima alla mia seconda vita artistica. C’era la finale del Festivalbar 2000, per via di alcuni guasti tecnici Vittorio Salvetti mi spedì sul palco dell’Arena di Verona. Mi trovo davanti 14.000 persone e per 40 minuti ho dovuto improvvisare. In prima fila c’era Bibi: “Ma tu fai quelle robe lì, perché non le fai in televisione. Vieni in Rai. Tranquillo ci penso io” (imitazione di Ballandi). E ci pensò davvero, tanto che alla prima puntata di “Stasera pago io” mi fece trovare come ospite Dustin Hoffman, il mio attore preferito. Entro nel camerino e vedo questo omino piccolo in un angolo, come se avessi visto Rain Man, mi guarda, mi fa un sorrido da Kramer contro Kramer, mi apre le braccia e mi fa “Fiorello”. Questi non sono come noi, questi si preparano, sapeva chi fossi, mi abbracciò, disse in italiano una serie di parolacce che aveva imparato dalla troupe del film Alfredo Alfredo con Stefania Sandrelli. Oggi non esiste più il divismo, è finita l’aura di Hollywood: gli attori li vediamo ogni giorno sui social, nella loro quotidianità. Poi devo molto a Giampiero Solari che mi ha convinto a fare teatro prima di preparare lo show televisivo: “Tu vai sul palco comincia a improvvisare, a raccontare quello che racconti a noi della tua vita”. Mi fece capire che quando racconti in pubblico delle cose poi ne vengono fuori delle altre. Era una specie di allenamento nei piccoli teatri delle Marche: “Prove tecniche di trasmissione con Fiorello”, non mettevamo neanche i manifesti ma solo semplici locandine. Con un minimo di talento ci devi nascere, poi le cose bisogna affinarle, ma la cosa più importante credo sia l’indole. Io sono sempre stato così, mi piaceva far divertire gli altri, a scuola, da militare».

Alla fine degli anni Ottanta, Bernardo Cherubini, fratello di Jovanotti, lo convince ad abbandonare la professione di eterno vacanziere e a trasferirsi in quel che restava della Milano da bere, promettendo un lavoro nella trasmissione del fratello a Radio Deejay. Fiorello comincia a sfruttare il suo talento vocale nella radio che stava diventando velocemente un punto di riferimento per i giovani, il loro mezzo di espressione privilegiato.

«Ho iniziato con le radio libere negli anni 70, Radio Marte Augusta, il nostro modello era Foxy John (ora è la voce di “Ballando con le stelle, imitazione di Foxy John). Poi Claudio Cecchetto a Milano mi affianca Toni Severo, Amadeus e infine Marco Baldini (“ho preso un toscano che secondo me con te è perfetto”). Il nostro modello era Alto Gradimento di Arbore. La radio è il mezzo che più mi stimola la fantasia, l’immaginazione è tutto, sia per chi la fa che per chi l’ascolta. Per questo non mi piace la radio in tv. Se dovessi dire però dove io rendo al cento per cento è il teatro, quando sono sul palco, non ho l’ossessione degli ascolti mattutini, senti la risata, senti la battuta che è andata a segno. E poi il teatro è la vera fucina per la tv. La quale è molto cambiata, sono cambiati i suoi ritmi: oggi devi accorciare i tempi di una gag altrimenti i giovani non ti seguono più. Il varietà non morto, ma bisogna trovare una nuova chiave di trasformazione. In passato, io, Panariello, Morandi ci abbiamo provato con l’one man show, adesso bisogna trovare un’altra chiave e spero di trovarla io per primo. Adesso va di moda lo spettacolo teatrale ripreso dalle telecamere, ma non mi convince. Va bene per il repertorio delle piattaforme ma per la prima serata dovresti smontare quello spettacolo e renderlo televisivo. A volte sono tentato di dire “ora smetto” però lo dico ormai da troppo tempo. Non sento più quella voglia di “esserci”, però se arriva l’idea mi sveglio... Quando Fabrizio Salini, l’ex dg della Rai, mi propose di lanciare Rai Play, ecco quella è stata un’idea, mi piaceva quell’idea. Adesso mi piacerebbe provarmi in un morning show (dalle 7 del mattino in poi, per me le 7 sono già mezzogiorno), ci stiamo annusando per vedere se su Raiuno si possa fare una cosa così in un orario deputato ad altre cose, il mattino ha l’oro in bocca, visto che ormai l’età ci costringe ad alzarci presto. È un’idea prostatica ma in Italia nessuno l’ha mai tentata».

Ancora la famiglia: più volte Fiorello ha confessato che dopo una vita movimentata da cameriere, dj, cantante e animatore, con Susanna ha conosciuto il cambiamento vero perché lei è la donna che ha portato in casa la stabilità (stanno insieme da 26 anni, contro le previsioni dei loro più cari amici). «Dopo il grandissimo successo del Karaoke, a Milano, non sono riuscito a sostenere il peso di una celebrità esagerata e improvvisa. Ero l’uomo più famoso d’Italia e non ho saputo gestire il peso di quel successo, facilissimo passare dall’altare alla polvere. Quando arrivai quinto al Festival di Sanremo del 1995, dove tutti mi davano per vincitore iniziò la discesa. Tra parentesi, devo dire che vinse Giorgia con la stupenda “E poi”. La festa era finita, dicevano che restavo un animatore da villaggi, feci anche un brutto programma tv “Non dimenticare lo spazzolino da denti”, arrivò puntale la depressione e.. il resto è storia. Susanna ha rimesso il treno sui binari. Ero andato a Roma perché Maurizio Costanzo (imitazione di Costanzo) mi aveva chiamato a “Buona domenica”. Una sera eravamo io, Giovanni Malagò e Max Biaggi, e Malagò ci propose di andare a casa di suoi amici per giocare a “Mercante in fiera”, era il periodo natalizio. Una delle amiche di Malagò era Susanna. Il presidente del Coni è stato Cupido, la freccia dell’amore». Dopo la radio, dopo, la televisione, dopo il teatro, arriva la Rete, arrivano i social media...

«Quando sono apparsi i social ho avuto una sorta di ubriacatura. Facebook non mi piaceva, insieme a Jovanotti e Nicola Savino ci buttammo su Twitter, da mattina a sera. “Il più grande spettacolo dopo il weekend” del 2011 era preceduto dal simbolo del cancelletto, l’hashtag, e Ballandi mi fa “ma perché quel segnetto prima del titolo?”. “Bibi, lascia perdere, è una cosa molto avanti, si usa fra i giovani”. Fra la sua perplessità, riuscii a invitare a Cinecittà più di 400 followers. Da Tweeter arrivò l’Edicola, poi ho usato molto i social durante il lockdown con Jovanotti anche per tenere compagnia alla gente, infine ho sentito il bisogno di staccare, di avere un contatto fisico con la gente e soprattutto di non dover dire la mia su tutto. È come aver smesso di fumare, era diventata una roba compulsiva. Anche perché, nel frattempo, ho provato cosa sia l’odio sui social. A Sanremo ho fatto una battuta sui no vax, ma solo su quelli che credono che con il vaccino ci iniettassero anche un microchip e i potei forti. Di fronte a tanta violenza, a tanta ostilità ho chiuso». Una domanda. Se potesse dire una sola parola oggi, quale sarebbe? «Sorriso. Devo spiegare?» No. Grazie.

Da repubblica.it il 19 giugno 2022.

"Sanremo? La mia avventura al Festival è chiusa. Morta e sepolta per sempre": unico momento semiserio di Fiorello nel turbinio di battute e sketch, prendendo di mira tutti, da Eros Ramazzotti a Fiorella Mannoia, che animano il backstage di 'Gigi Uno come te' lo show di Rai1 che celebra il trentennale di carriera di Gigi D'Alessio, in diretta da Napoli da piazza del Plebiscito. 

"Amadeus è il mio comico preferito", dice Fiorello facendo irruzione nel camerino dell'amico mentre si cambia le scarpe prima di salire sul palco. È Il momento della reunion degli Amarello, la coppia che ha animato Sanremo, a più riprese, per tre anni consecutivi attraversando anche il momento storico più difficile, con la pandemia e l'Ariston deserto. Mentre Amadeus si prepara ad eguagliare Pippo Baudo e Mike Bongiorno con altri due Festival, arrivando a cinque edizioni consecutive, con un contratto già firmato, Fiorello è sempre imprendibile ed imprevedibile.

"Al direttore artistico di Sanremo hanno dato un camerino cabrio, il più piccolo di tutti! Ama è umile. Non usiamo l'aria condizionata, non c'è,  deve morire qui", scherza lo showman mentre l'amico e complice ride. "Il mio camerino si è allagato", spiega il conduttore, riferendosi all'acquazzone pomeridiano che ha ostacolato le prove dello show.

"Chiudiamo la porta?", chiede Niccolò Presta, cercando di proteggere la privacy di Amadeus, artista della scuderia che gestisce con il papà Lucio. "Ma no!", risponde Fiorello rispalancando la porta in mezzo alle risate dei presenti, a partire dalla moglie Susanna. "Facciamo un pò di spettacolo perché c'è tristezza. La gente ne ha bisogno", conclude Fiorello.

Alessandra Comazzi per “la Stampa” il 6 maggio 2022. 

Fiorello e la sua generazione, nata ai tempi del boom economico, i cosiddetti «baby boomers»: che adesso non sono più baby, ma si stanno avviando, più o meno serenamente, verso una vecchiaia combattuta, sopportata, sfidata, subita, dipende dai temperamenti. In una società come la nostra che i giovani li maltratta, bene che vada non li considera, essendo i giovani troppo pochi per contare, quegli altri continuano a risplendere.

Ma lo sanno, che il tempo passa: e allora, o fanno finta di niente; o si prendono in giro, usando la formidabile arma dell'ironia, rivolta prima di tutto verso se stessi. Ed ecco la via scelta da Fiorello. Il suo nuovo spettacolo dal vivo dopo cinque anni, Fiorello presenta Fiorello, scritto con Francesco Bozzi, Pigi Montebelli e Federico Taddia (in questi giorni al teatro Colosseo di Torino) è sempre nuovo e sempre diverso, perché Rosario cambia, improvvisa, «non sono un attore ma atto», e il suo «attare» resta un modello insuperato nell'intrattenimento italiano. 

Quel tipo di lavoro lì, due ore piene, non si fa più, prevale l'estetica del frammento, i segmenti, in tv, sui social, mordi e fuggi, gira e cambia pagina. Mentre Fiorello organizza ancora uno show con un principio e una fine. Una narrazione.

E sono, le sue, proprio le considerazioni di un baby boomer di 62 anni molto ben conservato. «Anche perché sono uscito dai social. Li seguo, li rispetto, ma non intervengo più in prima persona. Tutti hanno diritto a una risposta, tutti vanno considerati, ma non è umanamente possibile. Meglio astenersi». 

Però non si astiene dal prendere in giro TikTok e il suo fantastico passare di palo in frasca, senza soluzione di continuità. Che confusione, sarà perché ti amo. E non lo dico a caso: sulla canzone dei Ricchi e Poveri si innesca un meccanismo di interazione con il pubblico, che canta a squarciagola, nemmeno male, in verità, seguendo la sua direzione.

Pubblico non esentato, d'altronde, dall'ironia dell'uomo. 

Ci interpella. «Alzi la mano chi ha meno di 40 anni».

Pochi.

«Meno di 30».

Pochissimi.

«Meno di 20».

Ancor meno. Ci guarda:

«Siete bellissimi. Una bellissima Rsa». 

Fiorello cita se stesso e il Karaoke degli anni 90, giacca arancione e coda di cavallo, ma non indulge. Essendo un intrattenitore, «cintura nera di karaoke», ma più in generale di animazione e di conoscenza del pubblico, sa che gli spettatori bisogna sempre portarli a chiedere: ancora. E smettere lì, lasciandoli con l'acquolina in bocca. Perché come diceva Eduardo: «È tanto difficile entrare in scena, ma ancora più difficile uscirne».

Quindi lo show è tutta una combinazione di biografia e musica. Sempre collegate con l'attualità. «Da bambino volevo fare il prete, servivo tutte le messe, mi dicevano: "Vieni avanti, pretino", ero il primo aiutante di padre Lofaro, che adesso ha 85 anni e 4 figli». 

Consiglia di non sottovalutarlo, lui conosce anche i compositori classici, Mozart, Beethoven, Chopin e Schubert, di cui lui, ai tempi di padre Lofaro, cantava l'Ave Maria. «Ma perché Schubert non ha fatto anche il Padre Nostro? Aveva avuto tanto successo». Allora risolve, cantando la preghiera sulla musica di Tiziano Ferro e termina con «Ascoltaci o Signore, perché ormai soltanto Lui ci può aiutare in questi tempi di guerra». 

Bravo Fiore, la guerra è un argomento troppo serio per dire altro. 

Attualità e la pandemia, la gioia per la presenza, le mascherine «che non si cambiano più, nascoste come topi morti in tasca». 

Fuori dallo spettacolo, ricorda il suo Sanremo senza pubblico: «Era terribile dire una battuta e non capire se funzionava. Nessun applauso, niente. Una esperienza forte, diciamo».

Non avrebbe fatto meglio Amadeus a lasciare in bellezza, nella gloria degli ascolti?

«Ma no, è il suo mestiere, lui presenta, fa benissimo a continuare. Quello che fa bene a smettere sono io».

Ma adesso che è uscito dai social i giornali di carta li legge ancora?

«Sempre. Sempre mattiniero, vado a prenderli nello stesso posto, la stessa "Edicola Fiore" del programma». 

E l'Eurovision?

«Farà meno successo di Sanremo. Scherzo, eh, c'è qui Coletta - il direttore di Rai1 n. d. r - che fa le prove. Dopo che ha baciato sulla bocca Amadeus, può fare di tutto».

Sostenuto dalla band guidata dal magico Enrico Cremonesi «il veganello», Fiorello gioca con musica e canzoni e personaggi. Canta Figli di puttana di Blanco con la voce di Modugno. Fa la linguaccia di Damiano: «Avete mai visto una foto dei Måneskin con la lingua dentro?». Fa l'hully gully di Edoardo Vianello alla maniera del rapper Ghali. Racconta che la mamma di Ornella Vanoni non le permise di cantare Grande grande grande, che poi interpretò Mina, per l'elementare metafora mascherata.

Imita Mahmood: «È arrivato a Torino, è subito andato al Museo Egizio a trovare i nonni». 

Canta Elvis Presley come fosse Baglioni. Insomma, gioca sulla sua splendida voce e sul suo eclettismo, «io non so cantante ma canto, non sono un ballerino ma ballo, non sono un attore ma atto», per l'appunto. Presentando se stesso, Rosario parla anche di figlie, «era appena finita l'adolescenza di una, arriva quella dell'altra, queste ragazzine allegre e solari fino a un momento prima di entrare in casa, quando si trasformano nella giovane dell'esorcista, testa al contrario e vomito verde». 

Omaggio a Battisti, omaggio a Raffaella Carrà, omaggio a Torino «città degli eventi, dal Salone del libro all'Eurovision, qui capita di tutto. C'è anche il congresso internazionale dei cardiochirurghi, se ci deve venire l'infarto, questo è il posto giusto».

Alessandra Troncana per il “Corriere della Sera” il 3 aprile 2022.  

Primo ordine di fanteria: «Portatelo dal barbiere». Bari, 1982: l'animatore della Valtour è allineato con gli altri soldati semplici nel cortile delle Casermette. Ha la maglietta di Miami beach, la cartolina precetto in mano e i capelli troppo, troppo, lunghi. «L'ho conosciuto così, al 48esimo Reggimento: era già una bomba a orologeria». Autista della Cogeme in pensione dallo scorso agosto, Giuseppe Platto abita a Berlinghetto, in provincia di Brescia, ha una moglie che gli gestisce WhatsApp, un figlio e una foto di lui e Fiorello vestiti da camerieri, con due discutibili giacche rosse e un amaro in mano, con il mignolo alzato: hanno fatto la naia insieme. 

«Prima, 45 giorni di addestramento in Puglia. Poi, nove mesi alla caserma Slataper di Sacile, in Friuli: ci sono arrivato in pullman, con il cappotto giallo che mi aveva prestato perché nella mia valigia di cartone avevo solo abiti estivi. Servivamo in sala». Venerdì sera, dopo 40 anni e un appello sul Giornale di Brescia , i due commilitoni si sono dati baci e abbracci nei camerini e sul palco del Teatro Morato, durante lo show del Fiorello nazionale. «L'ho seguito in tour per anni, messaggiato il suo batterista, tentato di contattarlo in ogni modo. Dopo l'intervista, mi ha chiamato il suo manager: Rosario ti aspetta dietro le quinte. Ci è quasi scappata una lacrima: non ho rivisto l'uomo di spettacolo, ma un amico», racconta Platto.

 L'insegnante di dialetto bresciano di Fiorello - «Lo usava per rimorchiare le commesse siciliane» - è stato uno dei suoi primi spettatori, il suo pungiball - «Quando dormivo mi metteva le saponette sotto al letto: la mattina mi svegliavo in corridoio» -, il compagno delle domeniche in discoteca. «Nel giro di due fine settimana, è diventato l'idolo della pista». 

La vita militare secondo Fiorello: «Non era portato per la fatica (ride, ndr ). Faceva quello che gli saltava in mente. Era amico di tutti, parlava di calcio con i marescialli, imitava chiunque perfettamente». Per gli scherzi, invece, sì: «Sulla mano, al posto del vassoio, mi versava il risotto». Alla fine dell'incontro al Teatro Morato, Platto ha invitato lo showman a Berlinghetto: «Ho gettato l'amo: il mio numero ce l'ha, ora lo aspetto». 

Gloria Bertasi per il “Corriere della Sera” il 28 gennaio 2022.

Condomini contro, con decisioni dell'assemblea impugnate dall'avvocato e rapporti tra dirimpettai a dir poco gelidi. Nodo del contendere, un ascensore da realizzare nella corte del palazzo. Che le assemblee tra vicini di casa possano trasformarsi in un incubo, con le famiglie schierate le une contro le altre non è una novità. 

Ma quando il condominio in questione non è un palazzone di periferia, ma Ca' Bernardo, immobile quattrocentesco con affaccio sul Canal Grande a Venezia, e tra gli inquilini c'è lo showman Rosario Fiorello in persona, l'affaire ascensore assume tutt' altri contorni. Da tempo, chi vive al secondo piano avanza la proposta di realizzare un ascensore: c'è una signora in carrozzina e il meraviglioso edificio gotico per lei è una trappola tra scale, gradini e dislivelli.

Così all'ultima riunione di condominio la scorsa settimana è stato presentato il progetto - a cura dell'architetto Stefano Zorzi e degli artigiani che hanno curato gli ascensori del Fondaco dei Tedeschi a Rialto e oggi al lavoro a San Marco nel restyling delle Procuratie di Generali - che subito ha surriscaldato gli animi. 

«È impensabile realizzare un manufatto del genere in un cortile come il nostro, da tutelare per il suo pregio artistico e culturale non da deturpare con un intervento del genere», la posizione di Gaby Wagner, ex modella, designer e fotografa che con il marito, l'avvocato Jean Marie de Gueldre, occupa un'ala di quel palazzo non distante da campo San Polo, dalla facciata neogotica, due piani nobili e pietra d'Istria.

Proprio qui, in uno dei suoi tanti investimenti immobiliari, ha preso casa Fiorello al terzo e ultimo piano. «Lo sta restaurando per creare due appartamenti, uno sarà venduto», spiegano i vicini di casa. L'ascensore, va da sé, può farne salire il (già alto) valore. «Si può rendere accessibile la casa in un modo più rispettoso», sottolinea Wagner, la cui posizione, però, è rimasta isolata. Tutti hanno infatti votato sì all'intervento, Fiorello compreso. «Il progetto prevede che si inseriscano le corsie del manufatto tra le finestre della mia camera da letto, i disagi saranno notevoli», continua la designer il cui timore è che il manufatto sia usato dagli ospiti dei due appartamenti turistici del secondo piano. 

 In realtà, garantisce Zorzi, «l'ascensore sarà insonorizzato e saranno usati materiali in sintonia con l'edificio: ci sarà una "cabina" nuda il cui armano non sarà a vista». L'impatto dovrebbe cioè essere minimo e, comunque, l'ultima parola sul da farsi spetterà alla soprintendenza il cui parere, come in tutti i centri storici, è vincolante.

«È garante della tutela dei beni culturali», precisa l'assessore comunale all'Urbanistica Massimiliano De Martin. La bagarre su Palazzo Bernardo ha rinfocolato il dibattito sul futuro di Venezia, divisa com' è tra posizioni più conservatrici sulla tutela dei suoi edifici e tra chi invece è più aperto a intervenire in nome della modernità. Un dibattito antico a Venezia (negli anni '70 Le Corbusier non riuscì a realizzare il suo ospedale), ma sempre più attuale oggi che la pandemia ha messo in ginocchio l'economia della città, i cui residenti sono sempre più anziani e diminuiscono di giorno in giorno. 

«Vivere a Venezia comporta molte difficoltà, tra cui il dover fare magari quatto o cinque piani a piedi - dice De Martin -. Se si vogliono raggiungere standard abitativi di qualità, non invasivi e inclusivi, si possono studiare progetti che poi la soprintendenza valuterà tutelando palazzi e monumenti». 

Giuseppe.

Beppe Fiorello in tv con «I cacciatori del cielo»: gli inizi nei villaggi turistici (accanto al fratello Rosario), il debutto come regista, 10 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2023.

Mercoledì 29 marzo alle 21.30 su Rai1 andrà in onda il docu-film sulla storia dell’asso dell’aviazione Francesco Baracca, interpretato dall’attore e regista nato a Catania il 12 marzo 1969

Il docu-film su Francesco Baracca

«Dietro ogni uomo si nasconde una storia che vale la pena raccontare». L’ultima in ordine di tempo nella ricca e variegata carriera di Beppe Fiorello (che in passato ha prestato il volto a numerosi personaggi realmente esistiti come Salvo D'Acquisto, Valentino Mazzola, San Giuseppe Moscati e Domenico Modugno) è quella dell’asso dell’aviazione Francesco Baracca. L’attore lo interpreta nel docu-film «I cacciatori del cielo», in onda su Rai 1 mercoledì 29 marzo alle 21.30. Il progetto, scritto da Pietro Calderoni e Valter Lupo con la collaborazione di Mario Vitale e la consulenza storica di Paolo Varriale, racconta le imprese eroiche, la vita e l’amicizia di quei pionieri del volo che si distinsero per le loro azioni e il loro coraggio durante la Prima Guerra Mondiale e le cui gesta gettarono le basi per la nascita dell’Aeronautica Militare avvenuta il 28 marzo 1923. «Ammetto che conoscevo poco Baracca, il suo nome lo lego soprattutto alle piazze e alle vie che gli sono state intestate - ha detto Beppe Fiorello -. Ho scoperto un personaggio che ha fatto imprese straordinarie, un temerario, un grande pioniere del volo civile e militare. Proprio questo suo aspetto visionario mi ha colpito, il genio e l’ingegno dell’uomo mi hanno sempre affascinato».

Gli inizi nei villaggi turistici (accanto a Rosario)

Fratello minore di Anna, Catena (scrittrice e autrice televisiva) e del famoso showman Rosario, Beppe Fiorello è nato a Catania il 12 marzo 1969. Cresciuto ad Augusta ha iniziato a lavorare accanto a Rosario come tecnico al villaggio turistico Valtur a Brucoli e successivamente in quello di Pila. «Non avevo il sogno di fare l’attore - raccontava nel 2020 al Corriere -. Con il tempo ho capito chiaramente che mi piaceva l’idea di raccontare storie, dovevo capire in che forma, ma quella era la mia vocazione. E il destino va sempre incontro alla vocazione, ognuno di noi ne ha una che prima o poi verrà fuori. Non è un caso che il 90% delle mie storie per il cinema e la tv siano storie vere: ho un’attrazione dettata dalla curiosità di crescere attraverso le storie degli altri».

La nascita di «Fiorellino»

Nel 1994 Beppe Fiorello inizia a lavorare a Radio Deejay con il nome d'arte Fiorellino, al fianco di Marco Baldini, Luca Laurenti e Amadeus. Nello stesso anno debutta in televisione al timone del Karaoke, condotto in precedenza (e portato al successo) dal fratello Rosario. «Di Rosario chiunque avrebbe avuto l’idea chiara di cosa avrebbe fatto, appena nato tutti dicevano: questo bambino mettiamolo subito in televisione - diceva Beppe Fiorello in questa intervista al Corriere -. Lui e mio padre tenevano alta l’asticella dell’umore in famiglia. Io e mia sorella Anna eravamo più pacati, Rosario e Catena invece sono sempre stati più aperti e disinibiti. Eravamo una famiglia dall’umore sempre bello, con i naturali alti e bassi che capitano a tutti. E poi c’era il contorno della famiglia allargata di parenti. La tavola. La tavola era il luogo dove ci si incontrava. Ore e ore a mangiare, ridere, parlare, cantare».

Il debutto al cinema

Il debutto al cinema di Beppe Fiorello risale al 1998: viene scelto dal regista Marco Risi per il film «L'ultimo capodanno». A suggerirgli di tentare il provino è un allora scrittore emergente: Niccolò Ammaniti. «In un bar di Riccione incontrai Niccolò Ammaniti, era un giovane scrittore poco noto - raccontava Fiorello al Corriere -, mi disse di andare a Roma a fare un provino per un film di Marco Risi tratto da un suo racconto. Arrivato a Roma ci sono rimasto».

«Stranizza d’amuri»

Oltre a recitare sul piccolo e grande schermo - nel curriculum di Beppe Fiorello ci sono numerose pellicole e miniserie tra cui «C'era un cinese in coma» di Carlo Verdone, «Baarìa» di Giuseppe Tornatore, «Magnifica presenza» di Ferzan Özpetek, «Benvenuto Presidente!» di Riccardo Milani e «L'oro di Scampia» di Marco Pontecorvo - l’attore è stato produttore e sceneggiatore di film e serie tv. Il 23 marzo 2023 è arrivato nelle sale il suo primo lungometraggio come regista, «Stranizza d’amuri» (che ha anche prodotto), adattamento cinematografico del romanzo «Stranizza» di Valerio la Martire. Si ispira ad un fatto di cronaca degli anni Ottanta, il delitto di Giarre (il film è dedicato alle due vittime, Giorgio Giammona e Antonio Galatola). Il titolo è un omaggio a Franco Battiato.

Quando incontrò Franco Battiato

A proposito di Franco Battiato di recente l’attore ha raccontato a Tv2000, ospite del programma L’Ora solare condotto da Paola Saluzzi: «Franco Battiato è il mio mito. Ho avuto, una mattina presto alle 6, l’onore di incontrarlo per un purissimo caso. Io mi trovavo in Sicilia a Donnalucata ospite a casa di amici. Quella mattina mi sveglio molto presto stranamente; io non sono un mattiniero, ma alle 5 ero già sveglio. Questi nostri amici hanno una casetta proprio a pochi metri dalla bellissima spiaggia di Donnalucata, scendo, faccio piano, non sveglio nessuno e mi vado a fare una bella camminata su questa spiaggia. Molto lontano un puntino piccolino veniva in senso opposto: un’altra persona che passeggiava probabilmente come me e man mano ci avvicinavamo con questo puntino molto piccolo. A un certo punto scopro a pochi metri da me il mito della mia vita, la colonna sonora della mia adolescenza. Era proprio lui e mi dico: adesso come faccio a fermarlo? Lo chiamo maestro? No, avevo letto in qualche intervista che non amava essere chiamato maestro. Lo chiamo Franco? No, magari troppa confidenza. Dico: scusi? Lui si gira, mi riconosce – io non lo davo per scontato – e mi dice: “Beppe, ma che ci fai qua?”. Franco Battiato mi porta a casa, abitava a pochi metri da dove ci siamo incontrati così per caso. Eravamo io e lui da soli, mi dice: “Andiamoci a prendere un caffè”».

L’incidente sul set nel 2004

Nel 2004, mentre stava girando la miniserie sul poliziotto Joe Petrosino (pioniere nella lotta contro il crimine organizzato), l’attore è rimasto coinvolto in un brutto incidente: è caduto da una carrozza trainata da quattro cavalli e ha riportato alcune fratture. È riuscito a salvarsi per miracolo: «Ho rischiato di morire - ha poi raccontato l’attore a Vanity Fair -. La ruota ha creato un’intercapedine nel terreno che ha impedito al cocchio di schiacciarmi».

Cittadino onorario di Polignano a Mare

Beppe Fiorello è cittadino onorario di Polignano a Mare, paese che ha dato i natali a Domenico Modugno. L’attore, cresciuto con la musica del cantautore grazie alla passione del padre Nicola, lo ha interpretato nell’apprezzata miniserie «Volare - La grande storia di Domenico Modugno», diretta nel 2013 da Riccardo Milani. Un ruolo che gli è rimasto nel cuore: a Modugno Fiorello ha anche dedicato uno spettacolo teatrale (trasmesso in tv da Rai 1 nel 2021), «Penso che un sogno così».

Palermo Pride 2022

Lo scorso anno Beppe Fiorello è stato “madrino” del Palermo Pride 2022. L’attore ha poi rivelato, in un’intervista a La Stampa, di aver ricevuto critiche per aver aderito alla manifestazione: «Mi sono sentito dire: “Ma come qualche sera fa eri su Rai Uno a celebrare Padre Pio e poi vai al Pride di Palermo?”. Altri mi hanno detto: “Ci hai deluso”. Sono molto fiero e orgoglioso di avere deluso qualcuno. Bisogna partecipare fisicamente ai movimenti per i diritti, bisogna esserci fisicamente, per questo sono qui».

Vita privata

Il 16 ottobre 2010 Beppe Fiorello ha sposato la sua storica compagna, la stylist Eleonora Pratelli, in una chiesa all'interno del Vaticano. Il loro è stato un vero e proprio colpo di fulmine: dopo essersi conosciuti per lavoro si sono incontrati di nuovo, per caso, su un volo per Los Angeles. La coppia ha avuto due figli: Anita (2003) e Nicola (2005). «Quando è nata mia figlia ero molto spaventato dalla responsabilità di crescere una femmina - raccontava anni fa l’attore a Donna Moderna -. Temevo di diventare troppo geloso, perché lo ero da fidanzato. Ma pian piano sono riuscito a costruire con lei un rapporto di piena fiducia, e dopo l’ho fatto anche col maschio».

Giuseppe Fiorello: «Per anni sono stato terrorizzato dal giudizio degli altri». Renato Franco su il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2023

Nel docu-film «I cacciatori del cielo» l’attore fa rivivere il mito Baracca, eroe della Prima Guerra Mondiale e pioniere del volo. «Fin da piccolo mi piaceva l’idea di salire su un piedistallo e raccontare storie»

«È un film che fa pensare all’oggi, ai giovani che stanno combattendo la guerra in Ucraina, ragazzi che hanno la consapevolezza del loro destino. Che poi in guerra non ci va mai chi la vuole e la scatena, quelli se ne stanno comodamente a casa». Il legame tra passato e presente anche in vicende apparentemente lontane. Giuseppe Fiorello interpreta l’asso dell’aviazione Francesco Baracca nel docu-film I cacciatori del cielo. «Ammetto che conoscevo poco Baracca, il suo nome lo lego soprattutto alle piazze e alle vie che gli sono state intestate — sorride l’attore —. Ho scoperto un personaggio che ha fatto imprese straordinarie, un temerario, un grande pioniere del volo civile e militare. Proprio questo suo aspetto visionario mi ha colpito, il genio e l’ingegno dell’uomo mi hanno sempre affascinato». Volare in fondo è anche sognare. «Il significato del volo è anche metaforico, rimanda alla fantasia. All’epoca poi doveva essere speciale, questi aviatori erano in cielo, completamente scoperti, poco riparati, su aerei che assomigliavano a grandi giocattoli, avevano un contatto fisico con le nuvole, adrenalinico. Diciamolo, erano anche totalmente folli».

Più di 30 vittorie nei combattimenti tra i cieli, Baracca è stato l’esempio di un gruppo di avanguardisti del volo che si distinsero per le loro azioni e il loro coraggio durante la Prima Guerra Mondiale. Ma la sua è anche una storia di amicizia, con Ruggero Piccio (aviatore che poi diventerà il primo capo di Stato maggiore dell’Aeronautica) e con Bartolomeo, il meccanico che si occupava del suo aereo. Il melò è assicurato invece dall’amore per una giovane cantante lirica (spolier, ma tanto lo sappiamo: lui morirà a soli 30 anni in combattimento).

Prodotto da Anele con il Patrocinio di Aeronautica Militare (di cui quest’anno si celebra il centenario), in collaborazione con Rai Documentari, in coproduzione con Luce Cinecittà, il docu-film I cacciatori del cielo andrà in onda mercoledì 29 marzo in prima serata su Rai1. «Sono particolarmente contento che la Rai possa svolgere ancora una volta il suo ruolo di servizio pubblico, raccontando la storia di un’istituzione militare che, da cento anni, garantisce e difende la libertà degli italiani, e restituendo al pubblico, ancora vive e incandescenti, le emozioni e i valori che hanno accompagnato le gesta dei suoi primi eroi, su tutti l’asso dei cieli Francesco Baracca», spiega Fabrizio Zappi, direttore di Rai Documentari. La produttrice (con la sua Anele) Gloria Giorgianni sintetizza così il progetto: «Parliamo di sentimenti umani, di amicizia, di comprensione e sacrificio. C’è la solitudine di un uomo impavido, ma anche il cameratismo di un gruppo di eroi animati da valori importanti. È anche la storia di giovani che avevano una visione — il volo — accompagnata dal desiderio di superare i limiti. E in questo senso passa un messaggio importante: con il coraggio e la determinazione si può arrivare a obbiettivi molto più grandi». Il docu-film mescola la fiction vera e propria con preziosi materiali di repertorio (foto e filmati d’epoca) e l’inserto di animazioni originali che danno al prodotto un impasto di linguaggi diversi.

Baracca si aggiunge alla galleria di personaggi realmente esistiti che Giuseppe Fiorello ha interpretato (tra i tanti, Salvo D’Acquisto, Modugno, il bandito Sante Pollastri): «Sono curioso. Penso che ognuno di noi abbia una storia interessante da raccontare, anche il più insospettabile personaggio di seconda fascia, anche un vicino di casa; è il fascino del mistero delle persone». Un modo anche per imparare: «Ho approfittato del mio lavoro per sapere e capire, per scoprire personaggi e fatti della vita. Esperienze che mi hanno dato tanto».

La vocazione d’attore attiene alle geografie intricate dell’anima. Dal padre ha preso il gusto del narratore: «Io però non avevo dentro l’urgenza dell’attore, però mi piaceva l’idea di salire su un piedistallo e raccontare storie. Mi era chiaro ma sfuggivo da questo pensiero per timidezza». La madre ha lavorato sul pubblico: «Mi ha inculcato il timore del giudizio degli altri». Mica semplice per uno che fa l’attore: «Ho imparato a superarlo, ma per anni sono stato terrorizzato dall’opinione degli altri, ma chi non lo è? Viviamo di giudizio degli altri».

Estratto dell’articolo di Eva Cabras per corriere.it il 28 maggio 2023.

Rupert James Hector Everett è nato il 29 maggio 1959 a Burnham Deepdale, nel Norfolk inglese. La famiglia è altamente benestante e di origini nobili, il padre Anthony Michael Everett è stato un Maggiore dell’esercito, mentre la nonna materna, Opre Vyvyan, era discendente dei baronetti Vyvyan of Trelowarren. 

A 16 anni Rupert lasciò il collegio gestito da monaci benedettini di Andover dove stava studiando per traferirsi a Londra e formarsi alla Royal Central School of Speech and Drama come attore. Il passaggio dal monastero alla città fu radicale, e la vita del ragazzo si fece decisamente non ascetica, con episodi di prostituzione in cambio di droga e soldi. 

Durante i primi anni di visibilità al cinema, Everett tentò anche la carriera come cantante pop, pubblicando “Generation of Loneliness” con il manager degli Wham! Simon Napier-Bell. Il pubblico non fu entusiasta e la svolta musicale si concluse sul nascere, per poi riaccendersi brevemente quando l’attore partecipò ai cori per “American Pie” di Madonna nel 2000.

Nonostante una relazione clandestina con la presentatrice Paula Yates, all’epoca sposata con Bob Geldof, nei primi anni ’90 Everett fece coming out come, ma non si considerò mai parte della comunità LGBTQ+, esprimendo opinioni anche piuttosto reazionarie su matrimoni omosessuali, cancel culture e supporto ormonale per minori trans. 

Parlando del possibile utilizzo di ormoni per minori che si identificano come trans, nel 2016 Everett rivelò che dall’età di sei anni lui stesso si considerava transgender e vestì abiti femminili fino ai 14 anni, quando invece abbracciò l’identità di uomo gay. […] 

Maurizio Crosetti per repubblica.it - Estratti sabato 28 ottobre 2023. 

Sabina Ciuffini era una ragazza del Sessantotto dentro la tivù democristiana. Come la visse?

“A noi giovani, la televisione non interessava: volevamo andare in piazza. Poi mi accadde all’improvviso una cosa che non avevo cercato, e che è rimasta mia per sempre. La gioventù me la sono ripresa dopo, almeno un poco. Da minorenne ero diventata la ragazza più famosa d’Italia e quando la cosa finì, dopo cinque stagioni di Rischiatutto, provai un senso di liberazione. Però oggi sono contenta di non essermi liberata poi così tanto da quel tempo, che è stato profondamente mio”.

Sabina, sono cinquant’anni che le chiediamo della sua minigonna: non si è stancata?

“Ma no! Anche perché, se non è stata una rivoluzione del costume, poco ci è mancato. A Rischiatutto arrivavano lettere di ragazze della provincia italiana, con dentro fotografie insieme ai padri, e loro che dicevano: se la minigonna la mette Sabina, che è educata e seria, papà dice che posso metterla anch’io”. 

Togliamoci il dente, allora: minigonna. A lei chi la fece indossare?

“Ma la Rai, naturalmente. Decidevano tutto loro, purché poi io rimanessi ferma, composta e sorridente. Non dovevo dimenarmi. Sul pavimento mi avevano pure disegnato i segni per i piedi: dovevo stare lì sopra, immobile”. 

A occhio, da quei segni lei è uscita presto.

“Può scommetterci”. 

Ma si diceva della minigonna.

“A un certo punto accadde che campione di Rischiatutto diventò un certo Rolfi, che faceva il sacrestano. Venimmo a sapere che Paolo VI aveva cominciato a seguire il programma perché lo interessava questo tizio, e allora mi misero i pantaloni finché Rolfi non perse il titolo. Però arrivarono altre lettere, di ragazzi, militari, insomma i giovani maschi rivolevano le gambe. Io mi limitavo a eseguire gli ordini”.

(...) 

E cos’era Mike, in tutto questo?

"Un maestro amabile, un soldato. Anche un ingenuo. Come quando s’illuse che la tivù commerciale sarebbe stata un moltiplicatore economico, invece si abbassò paurosamente il livello. Mike Bongiorno era modesto, aveva conosciuto tante delusioni e non pensava soltanto ai quiz. Noi si andava in onda nell’Italia delle Brigate Rosse, tutti ci giudicavano una cosa leggera ma c’era di più”.

Ora useremo un termine orribile: lei è un’icona.

“Lo so, lo capisco dall’affetto di chi ancora mi riconosce per strada e mi accosta con rispetto. Mi sono sempre sentita protetta. La mia vita cambiò di colpo quando mi accorsi che non potevo più viaggiare in pullman: ero diventata davvero famosa, ci guardavano 30 milioni di italiani. Non che ci fosse grande scelta, ammettiamolo. Però eravamo seri, concentrati e attentissimi. Sempre Bernabei assumeva annunciatrici e vallette, poi le mandava alle conferenze di Pasolini”. 

Lei però è uscita abbastanza presto dal video: come mai?

“La scatola magica, come la chiamava Mike, è anche una scatola malefica. Forse non ho saputo coltivare le relazioni, non mi sono tenuta aggrappata a nessuna cordata, oppure avevo poca ambizione. Non ero competitiva, non sgomitavo. In fondo, sono stata un’italiana semplice: forse mi vogliono ancora bene per questo”.

(...)

Oggi la tivù la guarda?

"Mi sembra piena di violenza e volgarità. E poi, fanno parlare chiunque. Con noi era tutta un’altra faccenda, c’erano filtri, selezioni accurate. Ora, quel vociare continuo e scomposto mi pare una tragedia. Che dice, sto facendo la saputella?" 

Un poco, ma si sa che lei avrà per sempre vent’anni.

“Grazie, gentilissimo, ma ormai sono 73. Comunque, non è stato male rimanere fuori dalla scatola: dentro ci ho visto invecchiare male tanta gente che conoscevo. E quasi tutti quelli bravi, prima o poi li hanno fatti fuori. Forse perché nella selezione naturale della vita, i peggiori sono anche i più scaltri, i più svegli”.

Dagospia il 19 luglio 2023. Dall’account Instagram di Sabrina Impacciatore

Sono strabiliata da come alcuni titolisti e direttori di spettabili giornali e magazines possano INVENTARE mie dichiarazioni in prima persona, virgolettate o meno. Cose che io non ho MAI detto. 

E neanche pensato. Si cercano titoli sensazionalistici e pruriginosi che possano far scatenare polemiche da strapazzo. Anche a discapito dei giornalisti che magari hanno fatto una bella intervista come quella di @gloriasatta216. Questo non è giornalismo. Questa non è onestà. Questa non è etica. Questa è spazzatura!!!!

Estratto dell’articolo di Gloria Satta per il Messaggero il 19 luglio 2023.

All'ingresso del suo appartamento romano, a Testaccio, spiccano quattro enormi valigie. Chiuse. «Non le disfo, potrei ripartire in qualunque momento», spiega Sabrina Impacciatore, appena atterrata dal Sudafrica. Viaggio di lavoro top secret: «Le cose stanno accadendo e stanno accadendo ora», aggiunge vibrando dalla commozione e sfiorando più di una volta le lacrime, «sto vivendo la gioia più grande della mia vita».

L'attrice romana, 55 anni, allude alla nomination ai premi Emmy (consegna il 19 settembre a Los Angeles) che si è conquistata per la serie-cult The White Lotus 2 (attualmente on demand su Sky e in streaming su Now) in cui interpreta Valentina, la general manager lesbica di un lussuoso resort di Taormina. 

Gli americani sono impazziti per lei che da mesi è contesa da media, tv e a Los Angeles si è dotata un una squadra di agenti e avvocati incaricati di governare la sua nuova carriera hollywoodiana. 

Una soddisfazione per Sabrina che iniziò giovanissima alla corte di Gianni Boncompagni (come ragazza pon-pon, a Non è la Rai) per poi approdare ai film di Ettore Scola, Mel Gibson e Gabriele Muccino (L'ultimo bacio, A casa tutti bene). E dopo essersi sentita dire a 18 anni che non era abbastanza bella per il cinema.

La nomination è una rivincita?

«No, per carità. Ho il cuore allagato dalla felicità, nessun risentimento per gli italiani che non mi hanno capita. Provo solo riconoscenza per gli americani che sono rimasti stregati dalla mia interpretazione, malgrado avessi solo poche scene, e mi hanno accolta nel loro sistema».

(..)

Si è trasferita a Los Angeles?

«Vivo ormai 6 mesi là e 6 a Roma. Sono stata adottata da una famiglia di amici, i miei vestiti sono rimasti in California. La mia vita si è rivoluzionata, sono nomade». 

In questo momento ha un amore?

«No, ma il mio cuore è ugualmente abitato: mi sento come se fossi innamorata. L'amore non mi è mai mancato e, se viene, c'è posto anche per un uomo. Quello giusto, che non si lasci mettere in fuga dal mio modo di essere che mi mantiene eternamente bambina. Con me non ci si annoia». 

Accusata dal cinema di non essere abbastanza bella, quando ha capito di piacere nella vita?

«Alle elementari, quando i compagni mi lasciavano proposte di matrimonio sul banco. Poi, da adulta, ho capito che il mio sex appeal attirava sia uomini sia donne. Non immagina quante richieste di fare sesso ho ricevuto». 

Quali doti l'hanno portata fino a Hollywood?

«Il talento, che mi venne diagnosticato a 15 anni dal primo insegnante di recitazione e poi confermato da Boncompagni. E la determinazione che non mi ha fatto scoraggiare nemmeno davanti alle tantissime porte in faccia ricevute».

(...)

Estratto dell'articolo di Malcom Pagani per corriere.it domenica 9 luglio 2023.

«Io non faccio l’attrice, io sono un’attrice. [...] Recito e gioco come mi accadeva quando andavo alle scuole elementari. [...] Con il tempo ho capito che recitare per me è una droga». Quella di Sabrina Impacciatore non è una favola, ma la storia di un’ossessione cominciata quattro decenni fa tenendo un diario [...] Può dire di aver realizzato il desiderio nonostante quello che l’assistente di un regista le disse al suo primo provino: «Non potrai mai fare l’attrice perché non sei abbastanza bella». 

Aveva diciotto anni.

«Quel giudizio mi ferì moltissimo, ma la bellezza è la cosa più relativa che esista al mondo. In America vado agli appuntamenti e mi dicono “You are so beautiful”, non è che creda di essere davvero bella per questa ragione». 

La parola bellezza che senso ha?

«Per me è legata alla possibilità di emozionare. Quella è bellezza per me. Ci sono dei volti che sono dei paesaggi: volti che cambiano a seconda della luce. La bellezza di Charlotte Gainsbourg ad esempio è una bellezza assoluta secondo me, è legata anche al suo carisma, a una sorta di mistero che non ti viene rivelato». 

Ha citato l’America. L’ha conquistata contro ogni previsione con una serie tv.

«Un giorno mi telefonano i miei agenti: “Sabrina, devi fare assolutamente questo provino per The White Lotus “. Rispondo impulsivamente: “Ragazzi, non me la sento: sto girando un altro film e sono concentrata sul mio personaggio”. Insistono: “È un progetto pazzesco, vediti almeno la prima stagione”. Quella notte l’ho guardata. E ho fatto l’alba. Sono rimasta folgorata e mi sono detta che dovevo assolutamente prendermi quel ruolo, ma avevo solo una domenica per poter realizzare il self-tape che avrei mandato alla produzione. Ho ripetuto le scene per tutto il giorno, fino alla nausea. A tarda sera non avevo nemmeno mangiato, ma ero stanchissima e dovevo ancora scegliere il meglio delle registrazioni da mandare al regista. In lacrime, stravolta, chiamo una mia amica e la imploro di venire ad aiutarmi».

E l’amica si dimostra tale?

«Lavora in un ristorante e molla tutti all’improvviso per venire da me. L’amicizia per me è il suono del citofono di quella sera. Siamo rimaste in piedi fino alle 4 del mattino per selezionare i provini. Quando poi i miei agenti mi hanno cercata per dirmi che ero stata scelta sono impazzita. Ridevo e piangevo, ma non potevo ridere e non potevo piangere perché ero a teatro. Raggiungo l’uscita e telefono subito a mia madre. Mio padre era venuto a mancare da un mese e lei si è messa a urlare: “Grazie Enea, grazie, grazie!”».

[...]

Ha detto di essere ossessionata dalla recitazione: i suoi genitori l’hanno sostenuta?

«Erano entrambi molto contrari e io li ringrazio. La loro opposizione mi ha permesso di mettere alla prova la mia determinazione. E siccome non potevo pagarmi i corsi di recitazione, da quando avevo 18 anni mi sono data a mille lavori: ho fatto la commessa, la baby-sitter, la venditrice di polizze assicurative. Sono molto orgogliosa del mio percorso, dei miei sacrifici».

[...]

Tra gli incontri che le hanno cambiato la vita ci sono Gianni Boncompagni e quello e Carmelo Bene.

«Studiavo recitazione e una mattina durante le lezioni, venne Carmelo Bene a osservare gli studenti. Un paio di giorni dopo mi chiamò per un’audizione a casa sua. Erano le 3 di pomeriggio: l’emozione di bussare alla sua porta me la ricorderò per sempre. Mi aprì un maggiordomo in livrea e mi disse di accomodarmi in un salottino. L’arrivo del maestro fu preceduto da un rumore impossibile da dimenticare e che ancora oggi mi rimanda ancora a quell’istante». 

Quale rumore?

«Il tintinnio del ghiaccio nel suo bicchiere di whisky. Mi fece domande per un’ora e mezza e poi mi disse: “Adesso entrerà un’altra candidata, ma lei non se ne vada”. Mi fece assistere a tutte le altre audizioni delle ragazze. Le distrusse tutte. Era spietato. Alla fine della giornata mi disse: “Sabrina, lei è l’unica degna di stare accanto a un genio”. Mi ingaggiò per fare una ricerca sul Don Chisciotte che doveva durare tre anni, ma rinunciai perché una manciata di giorni prima di partire per questo progetto, mio padre ebbe due infarti e la mia famiglia crollò nella rovina assoluta. In quell’occasione mi aiutò Boncompagni».

Come?

«Mia madre iniziò a cercare un chirurgo che potesse operarlo, mio padre non poteva lavorare e io ero alla disperata ricerca di aiuto. Così chiamai Gianni, con cui avevo lavorato in passato a Domenica In come ragazza pon-pon. Gli chiesi se poteva aiutarmi a trovare un lavoretto qualsiasi. Fu netto: “Non ho mai raccomandato nessuno in vita mia: il massimo che posso farti avere è un colloquio”. Ne feci tre in Mediaset e fui assunta come segretaria di redazione. Poi un giorno fu lo stesso Boncompagni a dirmi che ero sprecata per lavorare in un ufficio e volle farmi un provino per Non è la Rai. 

Mi inventai dal nulla “la posta di Sabrina”: una cosa banale, ma a suo modo divertente. Le lettere che scrivevo effettivamente facevano ridere perché prendevo in giro i miei difetti fisici e accendevo un faro sui problemi di tutte le adolescenti. Mi diede il via e mi mandò in onda dal giorno dopo senza mai chiedermi in anticipo cosa avrei fatto. Si fidava ciecamente e credeva davvero in me. Venne a casa dei miei per il mio compleanno e mi regalò una collana. I ladri me l’hanno rubata, ma mi sono tenuta comunque stretta la frase che disse ai miei genitori: “Sabrina sarà la nuova Raffaella Carrà”».

[...]

Ha un rimpianto?

«Ho vissuto di sorprese e delusioni, ma non li definirei rimpianti. Mi sarebbe piaciuto interpretare Non ti muovere e ci sono andata vicina, anzi vicinissima. Oggi ne rido, ma al tempo fu un dolore. Avevo letto Non ti muovere di Margaret Mazzantini ed ero rimasta impressionata dal personaggio di Italia, la protagonista, tanto da prendere carta e penna e scrivere a Margaret Mazzantini, l’autrice del libro, ringraziandola per avermi dato l’opportunità di incontrare un personaggio così struggente a figura esemplare, vittima designata della violenza di altri esseri umani. Poi Sergio Castellitto decise di mettere in scena il libro e quando partì il casting per il film fui veramente felice di essere convocata per un provino».

Si giocò le sue possibilità fino in fondo?

«Fino all’ultimo, una per una. Per prepararmi feci cose da matta vivendo per più di due settimane, letteralmente, nei panni di quel personaggio. Smisi di lavarmi i capelli come Italia, comprai i vestiti di scena nei mercatini romani modificandoli e cucendoli per somigliarle, convinsi per strada una donna Rom a vendermi la sua borsa. 

Per quindici giorni ho camminato da zoppa, da sciancata per le vie di Roma, rischiando attenzioni indesiderate e non sempre gentili. Tra l’altro, per prepararmi al ruolo di una donna che aveva subito abusi, inibii completamente la libido dimenticando per mesi la sessualità e il mio incolpevole fidanzato».

[…]

Il provino?

«Andò benissimo: mi telefonò Moira Mazzantini, la mia agente di allora, una persona speciale, e mi disse: “Piccolé, sei stata brava, hai commosso tutti”. Passò qualche settimana e mi ritelefonò. Il tono era cambiato: “Piccolé, ho una brutta notizia. Penelope Cruz ha letto il libro e vuole fare il film”. Ho capito subito che era finita e ho pianto per due mesi».

Poi?

«Mi ha salvata l’ironia: l’ho ribattezzata Penelope Puz. Da allora non sono più stata capace di pensarci senza farmi una bella risata».

Sabrina Impacciatore: «Respinsi Depardieu, oggi vorrei che mi mangiasse. Per anni ho pianto per il naso». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2023

L’attrice: «Il successo a Hollywood? Sto vivendo un sogno. Devo tutto a Boncompagni e Gabriele Muccino. Un mio psicologo, molto rinomato, si innamorò di me»

Questa non è la fiaba del brutto anatroccolo trasformato in cigno. Perché Sabrina Impacciatore ha studiato «come una pazza per tutta la vita», e se i suoi difetti, il nasone, l’altezza, l’hanno fatta soffrire in passato, ora sono i suoi punti di forza, la caratterizzano. Ecco, se fino all’altro ieri era considerata una caratterista, ora è una primattrice ed è entrata a Hollywood dalla porta principale, anche se in America ha fatto una sola serie tv (e non un film per il cinema), popolarissima ma corale, The White Lotus, sulle disfunzioni dei ricchi ospiti di un resort, ma il suo personaggio, e la sua interpretazione sono come un assolo. Dopo una falsa partenza sul suo ruolo, quando le chiediamo della sua receptionist di quel grande resort in Sicilia («No! Sono la general manager»), si offre con sincerità, com’è lei, saltando oltre l’asticella, ipersensibile, emotiva.

Lei è romana.

«I primi sette anni di vita li ho passati al Prenestino, poi siamo andati all’Eur. Papà era un dirigente e azionista della Bosch, responsabile della filiale di elettrodomestici in Sardegna. Lo vedevo poco. Mamma era impiegata statale al ministero delle Finanze».

Prima recita?

«A otto anni, in un Natale in casa. Mi misero il velo azzurro sulla testa. Lo ricordo come un momento epifanico, sentivo l’aura, la potenza. Credevo di essere la Madonna! È come se in quel momento, così bambina, mi fossi detta: questa sarà la tua vita. Più tardi in uno sketch casalingo interpretai un idraulico».

Dalla Vergine Maria a un idraulico.

«Facevo anche Tarzan e sua moglie, e la Perla di Labuan. Ma il pezzo forte era l’idraulico che seduceva un’amica. Ero matta già da ragazzina. A 16 anni a scuola mi offrii volontaria in una compagnia teatrale. Debuttai in un teatro di Trastevere facendo sei personaggi».

Non quelli di Pirandello.

«No, certo. Un giorno accompagnai un’amica a fare un provino: le ragazze pon pon a Domenica In per Gianni Boncompagni, a cui devo tutto. A lui e a Gabriele Muccino. Entrati in uno studio enorme della Dear, mi fece cantare Il cielo in una stanza. Ero a cinque metri da Gianni, mi fermò e disse, oddio mi hai sputato in un occhio. Voleva provocarmi. Gli risposi angosciata, dandogli del lei, mi scusi tanto. Voleva studiare la mia reazione. Ma tutto cominciò quando in un’intervista con Roberto D’Agostino parodiai una canzone di Boncompagni cambiando le parole. Mi prendevo in giro sul mio naso. Gianni disse, ma tu allora sai scrivere canzoni».

Il naso grosso è stato un problema?

«La gobba mi spuntò a 12 anni e non ho mai smesso di piangere fino ai 18, quando in una notte ebbi un incubo. Mi toglievano le bende dopo l’operazione chirurgica e urlavo: chi sei tu? Non mi riconoscevo più. Da lì ho cominciato a prendermi in giro sui miei difetti, il naso, l’altezza. Mamma mi diceva che Bridget Jones l’avevo inventata io».

A scuola la prendevano in giro?

«A scuola, inspiegabilmente, ero una leader. Ricevevo una quantità inimmaginabile di bigliettini, da maschi e femmine, mi volevano sposare tutti».

Poi c’è il cognome. Un’attrice che si chiama Impacciatore...

«Non è stata una passeggiata. Gli inizi da attrice sono stati talmente scoraggianti che mi dicevano che non avrei mai fatto questo lavoro. Alla scuola di recitazione di Cosimo Cinieri un giorno venne un gigante, Carmelo Bene. Dopo la lezione mi convocò a casa sua. Sembrava la casa di Gabriele D’Annunzio, drappeggi barocchi, ninnoli ovunque, tende di velluto, scura, senza luce. Mi aprì il maggiordomo: il maestro sta arrivando. Mi bombardò di domande. Arrivarono altre ragazze e mi fece restare. Cercava la partner per uno spettacolo su Don Chisciotte».

Come andò?

«Alle otto di sera mi disse: sei l’unica degna di stare accanto a un genio. Ma sei pronta a rinunciare a tutta la tua vita? Io potrei svegliarti nel cuore della notte per continuare le prove. Rinunciai perché papà ebbe due infarti. Aveva aperto cinque negozi, se ne dovettero chiudere tre. Ci fu una grave crisi economica in famiglia. Chiamai Gianni Boncompagni, gli chiesi una mano per un lavoro. Mi rispose che non aveva mai raccomandato nessuno ma a Non è la Rai cercavano una segretaria di redazione. Mi misero lì. Dopo sei mesi scrivevo testi, canzoni. Per Gianni e Irene Ghergo, suo luogotenente, ero sprecata, mi fecero un provino e mi ritrovai a fare la posta di Sabrina, dove ricevevo lettere ironiche delle spettatrici (scritte da me) su problemi di estetica. A 18 anni ho vissuto un’altra esperienza importante».

Quale?

«A Roma venne un insegnante dell’Actors Studio di New York, per pagarmi il corso al Teatro Argot feci la donna delle pulizie, passavo l’aspirapolvere, preparavo gli arredi di scena. Cenerentola? Sì, anche se non mi ci sono mai sentita».

Il cinema quando è arrivato?

«Il mio debutto lo divido in tre film. Il primo ciak fu per il film tv Il compagno di Citto Maselli. L’avevo conosciuto ai tempi di Macao, sempre con Boncompagni. Il mio personaggio si chiamava Darla, una ignorantona sarda che diceva di non scendere mai a compromessi. Però faceva sempre un appello a Citto Maselli dicendo che era innamorata di lui, ne era ossessionata. Gianni mi fece uno scherzo terribile, facendo entrare in studio Citto Maselli dopo che dicevo che volevo fare l’amore con lui».

E gli altri due debutti?

«Concorrenza sleale di Ettore Scola, dove c’erano Castellitto e Depardieu. Ero agitata, non dormivo la notte, prendevo il Lexotan. Depardieu mi disse nel suo italiano francesizzato perché prendi la pillùla, tu la sera prima di dormire accarezzati le cosce e pensa a me. In realtà andò oltre. Si prese una cotta per me, Scola cercò di proteggermi. Mi sentivo come una bistecca davanti a un rottweiler. Ero in soggezione, oggi vorrei essere mangiata da lui. Il terzo debutto è L’ultimo bacio di Muccino. Quando lo vidi per la prima volta pensai quanto è figo questo, non sapevo che fosse il regista. È stato uno degli incontri più importanti della mia vita, mi fa sentire amata, mi dà fiducia e voglio renderlo felice. Ora che lavoro in Usa fa il tifo per me. Mi ha urlato al telefono: lo vedi, era solo questione di tempo».

Tornando a Depardieu...

«Non sono la bellona, non voglio presentarmi per quello che non sono ma da ragazzina, in modo inspiegabile, ero quella che rimorchiava di più. Ero corteggiata, desiderata, mai tradita. Sono abitata dalla sindrome di Peter Pan».

In genere prende ai maschi.

«Non ho costruito una famiglia perché sarei ossessionata dall’educare i figli. Sono così. Viscerale, possessiva. Vivo sulle montagne russe».

È facile stare con lei?

«Non si è mai lamentato nessuno. Un mio psicologo, molto rinomato, si innamorò di me. Un trauma. Mi disse, dandomi del lei, ringrazi che ci sono le sedie sennò l’avrei sbattuta per terra; aggiunse che Boncompagni per me rappresentava il padre e per risolvere il problema edipico dovevo andare a letto con lui. Lui era una figura autorevole, avevo 25 anni, ero infantile, ingenua, insomma non lo denunciai».

Se le diciamo «Non ti muovere»?

«Eh, quanto mi ero preparata a quel provino per Sergio Castellitto. Non mi aveva riconosciuta da quanto mi ero travestita. Camminavo con la gamba sciancata, non mi sono lavata i capelli per due settimane, ero talmente dentro quel personaggio dell’extracomunitaria di borgata che emanavo una energia incredibile. Andai vestita in quel modo dal mio terapista che mi disse: quel ruolo è tuo. La mia agente, Moira Mazzantini, sorella di Margaret che aveva scritto il libro, mi chiamò: piccole’,hai fatto piagne tutti. Il mese dopo mi ritelefonò: piccole’, te devo da’ una brutta notizia, hanno preso Penelope Cruz. Da quel giorno la chiamo Penelope Puz, ma era un’attrice di Hollywood, cosa potevo fare?».

Ora a Hollywood c’è posto per lei. Come l’hanno presa a «The White Lotus»?

«Della prima serie non sapevo nulla, non l’avevo vista, in America spopolò, in Italia fu di nicchia. Il provino è stata una cosa complessa, l’agente mi disse che l’avevano fatto tutte le attrici italiane dai 35 anni in su. Ho visto sei episodi e sono rimasta folgorata. Dopo 48 ore mi chiama l’agente: sono impazziti per te».

Ma è ancora a Los Angeles?

«Chi si muove. Sono qui da quattro mesi. È un posto senza eros e io ne sono sempre a caccia. Ma non avevo mai incontrato persone così meravigliose. Le feste sono solo occasioni di lavoro. Ho incontrato per caso Michelle Pfeiffer, il mio mito Laura Dern, Anne Hathaway, Ana de Armas. Tutte a dirmi: Sabrina, we love you».

Chissà l’invidia in Italia.

«Ho avuto delle delusioni che mi hanno spezzato il cuore, colleghe che consideravo amiche mi hanno trafitto, ma ho avuto anche tanti messaggi belli da persone che non immaginavo, anche da gente di cinema, a cominciare da Claudia Gerini che per me è una sorella».

Lì dove vive?

«Sono fortunata e credo nel destino, il fratello di uno dei produttori mi disse quando sei a Los Angeles vieni da me. Lo dirà tanto per dire, pensavo. Vivo con lui, la fidanzata, sua madre con il compagno psicologo che suona l’ukulele, un attore e un musicista. Siamo una comune».

Sabrina, lei è senza filtri.

«Sì, sono così, non ho difese, non riesco a proteggermi, anche nella vita. Sono innocente, istintiva, egocentrica ma pronta a mettermi nell’ombra in un secondo. E pago un prezzo alto, vibro di ogni cosa. Sono una samurai».

Per tanti anni era comprimaria.

«Io mi sono sempre sentita protagonista, mai comprimaria. Quando vado alle feste di Hollywood una parte di me è incredula, un’altra parte mi dice che quello è il mio posto».

Patrizio Marino per cinemaserietv.it il 15 Gennaio 2023.

Grazie al personaggio di Valentina in The White Lotus, la nostra Sabrina Impacciatore è diventata un’icona della comunità LGTB (anche) negli Stati Uniti. L’attrice italiana, come ha sottolineato in un’intervista, da circa vent’anni è un icona gay in Italia, così come Ambra Angiolini, con cui ha condiviso l’esperienza di Non è la Rai.

 […] ”ho ricevuto moltissime dichiarazioni d’amore da persone diverse: uomini, donne, ragazze, persone transgender. In Italia sono un’icona della comunità LGTBB, la stessa cosa sta succedendo qui, e ne sono molto orgogliosa. Forse in futuro mi fidanzerò con una ragazza“, ha scherzato la Impacciatore.

L’intervistatore, alla fine,  ha chiesto alla Impacciatore se si sente la Lady Gaga italiana […]Ma Sabrina, […] ha rivendicato il suo ruolo ventennale di icona gay in Italia. “È uno strano destino. È successo tipo 20 anni fa […] Sono stata una madrina queer per festival cinematografici queer, gay pride, mi coinvolgono nelle loro celebrazioni. È qualcosa di molto speciale per me. Ma non ho idea di come sia iniziato”

Sabrina ha rivelato che questa connessione con la comunità LGBT è nata ai tempi di Non è la Rai: “Quando avevo 18 anni, ho fatto un importante show televisivo che, col tempo, è diventato un cult. […]Ho scritto e cantato una canzone che la comunità queer amava moltissimo. Mi truccavo moltissimo e indossavo parrucche. Non sono mai stata la ragazza carina che cercava di piacere a tutti, e non volevo esserlo[…] “.

Sabrina ha concluso parlando dei diritti della comunità gay nel nostro paese “In Italia, la sessualità è ancora un grosso problema. […] abbiamo il Vaticano, questo è un grosso problema. […]

Estratto dell’articolo di Roberto Procaccini per liberoquotidiano.it il 15 Gennaio 2023.

[…]Sabrina Impacciatore e Donatella Finocchiaro, star del cinema nostrano, sono state paparazzate […]durante un weekend sull'isola di Ponza. Le due attrici, tra una birra e una chiacchiera, si lasciano andare a baci e abbracci a forte trazione saffica. […]

Francesca D' Angelo per “la Stampa” il 23 Dicembre 2022.

Sabrina Impacciatore quasi non ci crede: «In 20 minuti mi è cambiata la vita». Effettivamente il timing è corretto. Se qui in Italia abbiamo impiegato vent' anni per riconoscere il talento dell'attrice, a Hollywood è bastato vederla nei panni di Valentina, l'albergatrice «molto bitch» della serie evento The White Lotus (in Italia su Sky e in streaming su Now). Un paio di inquadrature, la battuta folgorante su Peppa Pig e in un attimo è diventata una star: su TikTok #sabrinaimpacciatore supera i 5,5 milioni di visualizzazioni, TvLine l'ha eletta «performer of the week», i paragoni con Lady Gaga si sprecano, Jimmy Kimmel l'ha invitata nel suo ambito late show e perfino il suo intercalare «allora» è diventato virale.

Da star, qual è la prima soddisfazione che si è tolta?

«In realtà sono ancora molto frastornata perché sono tornata in Italia dopo due mesi lì. Che è come tornare dal Metaverso». 

Non ci credo: avrà fatto almeno una pazzia.

«Ok. Allora. Prima di tornare qui mi hanno organizzato una festa, in un mega ristorante di Hollywood, e Adam Dimarco (Albie nella serie, ndr) ha comprato una torta bellissima, con su scritto "Allora". Per ringraziarli ho iniziato a fare uno speech lunghissimo, molto emotivo, e mentre parlavo e piangevo a un certo punto ho afferrato la torta e l'ho spiaccicata in faccia a Jennifer Coolidge e poi agli altri. Li ho inseguiti tutti, come nei film horror! Loro però avevano anche una torta di riserva e quella è finita in faccia a me». 

Lei ha detto di sentirsi come Cenerentola o Alice nel paese delle meraviglie. Per l'Italia però è anche un "panda": sa che è l'unica attrice donna (l'unica! ) ad aver svoltato dopo i 50 anni?

«Su questo l'Italia potrebbe migliorare. Io ho fatto un solo progetto in America: The White Lotus. Uno solo! Eppure la mia interpretazione non è sfuggita a nessuno: bam, di colpo sono esplosa! E dire che io sono un'attrice di lungo corso che non recita ma vive sempre i personaggi che interpreta: queste cose le ho fatte anche in altri film italiani. Dal 2000! A questo punto uno delle domande se le fa». 

Che risposte si è data?

«Non molto simpatiche...(ride, ndr). Diciamo che quando una persona ha un pregiudizio non è in grado di vedere. Lo scollamento però è solo a livello industriale: la gente in Italia mi amava anche prima, fin dai tempi della tv mi fermavano per strada complimentandosi». 

Che tipo di pregiudizio pensa di aver scontato?

«Mi sa tutti: la provenienza televisiva, la mia bellezza meno canonica... Ora però, di colpo, sono diventata brava e bella, per il mondo intero. Ma anche qui: la bellezza per un'attrice che cos' è? È la sua anima, non l'aspetto da modella». 

Sente di avere un debito d'onore verso Peppa Pig?

«Ma lo sa che all'inizio, sul set, mica avevano capito la battuta? Nessuno conosceva il cartone quindi quando Tanya (Jennifer Coolidge) mi ha chiesto: "Chi sembro?" e io ho improvvisato "Peppa Pig!", Jennifer pensava le stessi dando del maiale! Sono subito corsa a cercare la foto sul cellulare, per spiegare che era una serie». 

Da Jimmy Kimmel la sua ospitata ha fatto più visualizzazioni di quella dell'altra ospite, Margot Robbie. Anche da lui ha improvvisato?

«Solo l'aneddoto della torta "razzista" White at heart era concordato. Per il resto io funziono meglio se improvviso, quindi non volevo sapere prima le domande. Comunque le 24 ore precedenti sono state di panico assoluto».

E dire che all'inizio temeva che il personaggio fosse troppo odioso per essere amato. A fare la differenza è stata la storyline amorosa di Valentina?

«Quando ho letto che viveva un conflitto con se stessa, per via della sua sessualità, mi sono sentita investita di una responsabilità più grande, perché in Italia essere gay è ancora un problema, per tantissime persone. Gli omosessuali vengono insultati e picchiati per strada. Da qui, la mia scelta di dare una chiave emotiva al personaggio, che sulla carta era invece molto più freddo: ho proposto l'idea al regista Mike White durante l'audizione e lui ne è rimasto entusiasta. Ci tenevo infatti tantissimo che Valentina fosse compresa e mostrasse che l'amore è amore. Punto». 

È orgogliosa di essere diventata un'icona queer?

«Molto. Io non ho figli: questo è il mio modo di figliare, di sentirmi utile e di dare un senso amorevole alla mia vita». 

A questo punto, si trasferirà in America?

«Amo l'Italia che resta la mia terra, ma ora che ho assaggiato Hollywood e mi sono affacciata sul mondo, sarebbe un po' complicato pensare a progetti solo nazionali. Inoltre lì, in America, sono felice. C'è un'atmosfera frizzante di possibilità che qui in Italia manca: da noi si respira un'aria di rassegnazione, là invece di sogno. Quando dico "mi piacerebbe fare quest' idea", qui mi guardano come se fossi pazza, oltreoceano si entusiasmano. Cerco comunque di restare con i piedi per terra: ora ho una fama planetaria, mi scrivono dalla Nuova Zelanda al Sudafrica, ma so che si tratta solo di un momento. Spero solo di non tornare nella zucca...». 

Da dove viene tutto questo pessimismo?

«Parlo da persona ustionata. Ho sofferto talmente tanto che, pur senza smettere di sognare, cerco di essere cauta». 

Si mormora che sarà a Sanremo 2023: è così?

«Non che io sappia». 

Nel caso, occhio a non inciampare nel vestito...

«Guardi, lo scivolone a Sanremo 2018 è stato uno dei traumi della mia esistenza, anche se la gente mi ha poi amato per quella gaffe. Mi scrivevano "Sei una di noi! ". Però io, ancora oggi, ho il terrore degli orli: anche sul set di The White Lotus li facevo controllare tutti».

La simpatia virale. Sabrina Impacciatore spopola in America: ‘White Lotus”, l’intervista a Jimmy Kimmel, la torta e la battuta su Peppa Pig. Elena Del Mastro su Il Riformista il 16 Dicembre 2022

Dopo la sua partecipazione nel cast di White Lotus, pluripremiata serie americana ambientata per la sua seconda serie a Taormina, Sabrina Impacciatore sta letteralmente spopolando in America. Sui social sono diventati virali i meme di un’intervista al Jimmy Kimmel Show, popolare show televisivo di Los Angeles. E da allora tutti pazzi per Sabrina Impacciatore: con la sua simpatia ha conquistato il cuore degli americani.

L’attrice romana, 54 anni, è tra le protagoniste della serie White Lotus andata in onda su HBO in America e su Sky (e Now) in Italia, acclamatissima negli Stati Uniti dove lo show ha raggiunto picchi d’ascolto in concomitanza con il finale che in Italia arriva lunedì 19 dicembre. Impacciatore interpreta una fragile ma inflessibile manager d’hotel, Valentina, che dovrà affrontare una serie di crisi umane e professionali. In 9 minuti di intervista ha colpito il cuore di tutti.

È incredibile per me essere qui. É come un sogno che si avvera, i miei amici in Italia stanno impazzendo”, ha subito detto Sabrina a Jimmy Kimmel. “Sono felicissima di essere qui ma questo è il mio peggior profilo, possiamo fare tutta l’intervista storta?”, ha detto al presentatore. Sin da subito ha raccontato una serie di aneddoti divertentissimi. Jimmy, che ha svelato la sua provenienza ischitana per parte di madre, le ha chiesto di ripercorrere gli inizia della sua carriera e lei ha svelato: “Quando avevo otto anni ho scritto nel mio diario ‘Un giorno sarò un’attrice e la mia vita sarà un film’. E infatti lo è. Non ho specificato il genere”.

Ha raccontato anche della sorpresa che voleva fare in occasione del suo compleanno al regista e showrunner della serie Mike White. Erano sul set a Taormina quando ha fatto preparare una torta al pasticcere che prevedeva una bandiera italiana e una americana e una scritta. Poiché lei è una gran fan del film di David Lynch ha voluto parafrasare il titolo Wild at heart con il nome del regista e ha fatto scrivere dall’ignaro pasticcere ‘White at heart’. Sabrina ha raccontato che era così orgogliosa di questa torta ma l’atmosfera attorno a lei era glaciale. Così quando lei ha invitato la crew dicendo: “Hey, ragazzi. Facciamo una foto insieme!” nessuno ha accettato. Così ha fatto uno scatto da sola un po’ triste e ancora inconsapevole della gaffe. Poi un collega le si è avvicinato e le ha detto: “Questa è una torta razzista». Di lì le risate con l’intervistatore per il suo candore e la rassicurazione: «Per questa volta va bene”.

Sabrina Impacciatore è diventata un’icona negli Usa tanto che tutti i salotti televisivi se la stanno contendendo. A renderla ancora più simpatica a tutti è stata anche la battuta improvvisata sul set della fiction. In una scena già diventata cult, Sabrina Impacciatore ha improvvisato un dialogo esilarante con l’attrice. “Chi sono?”, domanda Jennifer Coolidge nei panni di Tanya, tutta vestita di rosa, a Sabrina Impacciatore. “Peppa Pig”, risponde lei mentre la immortala con il telefonino. “Sono Monica Vitti”, risponde l’altra. E giù di risate.

Sabrina Impacciatore ha iniziato la sua carriera giovanissima tra le ragazze di “Non è la Rai” dove spiccava tra le centinaia di ragazzine per la sua verve comica, poi a Macao. Poi sono arrivati i film e il grande cinema. Ha recitato diretta tra gli altri da Gabriele Muccino, Ettore Scola, Paolo Virzì e Giovanni Veronesi. Ora il suo successo è arrivato anche oltre oceano grazie alla fortunata serie tv targata HBO. Dopo aver vinto a settembre dieci Emmy Award su venti nomination per la stagione ambientata alle Hawaii ora White Lotus corre anche ai Golden Globe dove ha preso quattro nomination.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Estratto da ltempo.it il 31 maggio 2023.

Carta canta, Sabrina Salerno è tutta naturale. La cantante e showgirl è tornata a smentire voci su presunti ritocchini estetici al seno, e lo ha fatto postando sul suo profilo Twitter il referto di un medico che li esclude categoricamente: "'Conclusioni: la storia clinica, gli esami pregressi e l'obiettività attuale, escludono in maniera assoluta la presenza di impianti mammari (protesi)'. Spero, con questa ennesima perizia, di aver messo la parola FINE ad una fake news che mi perseguita da più di 30anni", scrive la cantante di Boys in un post.

Nel messaggio compare la "perizia" redatta dal dottor Giorgio Berna, chirurgo plastico dell'ospedale di Treviso, datata 29 maggio 2023. Nel documento il medico spiega che la visita è "finalizzata ad escludere la presenza di protesi mammarie" e riporta la storia clinica della paziente, descrivendo l'anatomia del seno di Salerno, per poi giungere alla conclusione senza appello: "La storia clinica, gli esami pregressi e l'obiettività attuale, escludono in maniera assoluta la presenza di impianti mammari. (protesi)".

(…)

Dagospia il 24 giugno 2023. Da I Lunatici – Radio2

Sabrina Salerno è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea DI Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 tra l'1.20 e le 2.30 circa. 

Sabrina Salerno ha  raccontato: "Sono lunatica, perché cambio spesso d'umore. Che periodo è? Un po' faticoso ma sotto il profilo lavorativo soddisfacente. Sono soddisfatta, tra poco andrà in onda su Rai 2 'Non sono una signora', presentato da Alba Parietti, io sarò in giuria. Un programma molto divertente. Fatico perché la settimana scorsa è successo un po' di tutto, umanamente parlando, per alcune mie amiche. Che è successo con la storia del seno rifatto? Non parlo di queste scemenze, io mi sono dovuta difendere. Non voglio più parlarne. E' stata una cosa molto trash e molto triste, tra virgolette, perché poi le tristezze sono altre cose. Dovevo mettere i puntini sulle i".

Sulla sua carriera: "Ci sono stati tanti momenti brutti e tanti momenti difficili. Sicuramente per quanto mi riguarda i momenti di grande successo sono stati quelli più difficili. Questo è un lavoro provvisorio, che ti fa sempre sentire una sorta di incertezza cosmica. L'equilibrio viene fuori nei momenti difficili della vita, questa è stata la mia risorsa. Il successo per me è arrivato improvviso e veloce, avevo diciassette anni. Il vero successo è arrivato prima in Spagna che in Italia. Non pensavo che essere numero uno in classifica con 'Boys' potesse significare tutte queste cose.  Non ho mai rischiato di perdere la testa e il contatto con la realtà. Sono molto razionale, sono cresciuta abbastanza da sola, con una famiglia slegata e alternativa. Perdere la testa per il successo sarebbe stato troppo prevedibile, venendo da un percorso di vita molto faticoso e alternativo, ho saputo gestire la situazione".

Sul rapporto con gli anni che passano: "Il tempo passa per tutti, meglio lo accetti e meglio è. Faccio a pugni con il tempo che passa, dei giorni me ne frego, altri meno. In realtà il tempo che passa fa notare determinati passaggi della vita. 

Ti porta a fare alcuni resoconti e a pensare che forse la cosa migliore è quella di vivere alla giornata. Io ad esempio sono terrorizzata all'idea di morire. La morte mi spaventa. Ultimamente sono successe tante cose, ho perso delle persone così, all'improvviso, il compagno di una mia amica è scomparso in un mese. Mi dispiacerebbe lasciare questo mondo. E il problema è che non credo in un'altra cosa. Vorrei andare in un'altra dimensione, vorrei che la mia anima proseguisse il viaggio. Ma mi chiedo: e se non ci fosse niente? Questa idea di niente mi spaventa da morire".

Sulla parità di genere: "E' lontanissima. Una donna deve fare il triplo della fatica rispetto a un uomo. In tutti gli ambienti. Sento chirurghe, avvocatesse, tutte mi dicono la stessa cosa. E' una gran fatica". 

Sugli uomini: "Non ci voglio credere che impazziscono per me. E' una cosa effimera, di facciata, non ho mai pensato e non penso che gli uomini impazziscano per me. E' una cosa dalla quale prendo un grandissimo distacco".

Su cosa avrebbe fatto se non avesse lavorato nel mondo dello spettacolo: "Forse avrei fatto quello che ha fatto mia sorella, che è diventata psicologa. La prima idea era fare l'interprete parlamentare, parlo molte lingue, inglese, francese, spagnolo, ho studiato russo. Ma studiare tutto ciò che riguarda la mente umana e i comportamenti mi ha sempre affascinato".

Estratto dell'articolo di Francesca Scorcucchi per il “Corriere della Sera” il 30 giugno 2023. 

Samuel L. Jackson bazzica i set da 51 anni e ha un primato: è l’attore i cui film hanno incassato di più in assoluto. Più di Tom Cruise, più di Brad Pitt o George Clooney. […] Uno dei personaggi a cui è più affezionato è Nick Fury, l’agente segreto creato da Stan Lee per Marvel Comics. […] L’ultima ora, con Secret Invasion , la serie tv […] su Disney+.[…]

Jackson è una potenza a Hollywood. Il suo primo grande successo fu Jungle Fever , di Spike Lee. Era il 1992 e la giuria di Cannes, dove venne presentato, rimase così impressionata da creare per lui il premio al migliore attore non protagonista, mai consegnato prima sulla Croisette. Interpretava un tossicodipendente e la sua interpretazione fu corroborata dall’esperienza diretta. Solo due settimane prima usciva da una clinica per la disintossicazione. Glielo aveva imposto la moglie, dopo averlo trovato svenuto nella loro cucina di New York: «Mi disse ora vai e ti ripulisci.

Non lottai, ero stanchissimo anch’io».

Samuel L. Jackson e LaTanya Richardson Jackson sono sposati da quarantatré anni, un vero record per gli standard di Hollywood. «Non so se sono un romantico. Spendere tanti soldi significa che lo sono?». Jackson ama regalare alla moglie soprattutto viaggi in Italia. Tornano quasi tutti gli anni. […] Ama spendere soldi anche comprando armi, ne ha una collezione e ha una sua opinione sul rapporto degli americani con fucili e pistole.

«La proprietà di un’arma è una questione di responsabilità. È come avere un bambino, una volta che ce l’hai è tuo dovere prendertene cura, ma non tutti lo sanno fare. Quindi diventa una questione di educazione e di capacità di tenere le armi fuori dalla portata di gente che non sa prendersi queste responsabilità. Le persone mentalmente disturbate per esempio. Quindi è vero, negli Stati Uniti ci dovrebbe essere un miglior controllo, dovrebbe esserci un registro, ma la lobby delle armi è forte ed è difficile da battere».

 Ma negli Usa c’è anche un’altra questione, quella razziale. Nato nel 1948, l’attore ha attraversato la storia americana, dal segregazionismo all’elezione del primo presidente nero, passando per i movimenti per i diritti civili degli anni Sessanta, di cui era un attivo membro negli anni del college. Ha chiamato la sua casa di produzione Uppity, ovvero spocchia, perché quando era un bambino il nonno gli raccomandava di non fissare i bianchi negli occhi perché avrebbero potuto interpretare quello sguardo come un segno di arroganza.

«Quando sono arrivato ad un certo livello nella mia professione, quando non ho avuto più timore si stare dritto e guardare la gente negli occhi, quando ho imparato a parlare chiaro, la gente ha cominciato a dire che mi stavo montando la testa e così ho chiamato la mia compagnia Uppity, mi è sembrato un nome più che appropriato».

Sandy Marton: «Dopo People from Ibiza sono diventato un mostro di sex appeal. Ho speso tutto in viaggi e feste». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 15 Febbraio 2023.

La star della musica anni ‘80: «Ho scritto poche canzoni? Preferivo stare a Ibiza a fare il figo. Non vado in discoteca da 15 anni»

Sandy Marton, 63 anni

Claudio Cecchetto raccontava così, al Corriere , come scoprì Sandy Marton, il ragazzo che, negli anni ’80, spopolò cantando People from Ibiza: «Lo vidi in discoteca e pensai: questo piacerà alle donne perché è così bello che piace anche a me. Allora, lo chiamai alla consolle, dissi “vi presento un amico”. Sandy è uscito e ho sentito un “oooh”: io ero scomparso e c’era solo lui».

Sandy, se lo ricorda quel momento?

«Sicuro, rimasi scioccato. Ma non era una discoteca, era una festa di Antonio De Mita».

Il deputato?

«Quello di Napoli. Io neanche sapevo dov’ero, credo si festeggiasse il compleanno della figlia, ero arrivato da Milano con amici. Avevo 23 anni, i capelli biondi lunghi fino al sedere. Tutte le donne fecero ooh e si chiesero: chi è questo qua?».

E chi era?

«Un giovane croato cresciuto con la nonna studiando di tutto: mamma, per non farmi fare cavolate e tenermi impegnato, m’ iscriveva a tutti i corsi possibili. Ho studiato piano, solfeggio, e inglese in Inghilterra. Poi, a 16 anni, ero andato a studiare negli Stati Uniti. A 18, ero tornato e, appena passata la dogana, i soldati mi hanno preso e mi hanno messo direttamente in una prigione militare».

Che aveva fatto?

«Cosa non avevo fatto? Il servizio militare. Dopo due giorni, ricevo una visita, pensavo fosse mamma che veniva a liberarmi, invece, era il barbiere che mi rasò i capelli a zero. Mi mandarono a fare la leva, mi salvò unirmi alla banda dell’esercito. Dopo, andai a Milano a studiare design all’Istituto Marangoni».

La biografia corrente racconta che suo padre era console jugoslavo in Italia.

«Ma no. Era il presidente dell’unica azienda che produceva carne in Jugoslavia, ma l’accusarono di essere al servizio del capitalismo e di aver sponsorizzato una rivolta a Zagabria. Non so se era vero, ma dovette scappare e non l’ho più visto. In realtà, non l’avevo mai visto».

Così mi confonde le idee.

«Ne ero il figlio naturale, lui era sposato con una donna che non era mia madre. L’ho incontrato solo una volta, a 15 anni. Dissi: mamma, andiamo via, è un idiota. E non lo vedemmo più».

Quando arrivano le donne nella sua vita?

«Da ragazzo, non ero molto sveglio, mi sono svegliato verso i ventidue, ventitrè, ma ero timido e avevo capito che le donne non vogliono i timidi».

Quella sera da De Mita la timidezza era passata?

«No, lì avevo preso coscienza del problema, ma la timidezza sparì solo a 26 anni».

Siamo nel 1985. People from Ibiza è dell’84.

«Infatti, dopo, sono diventato un mostro di sex appeal».

E come successe?

«Avevo avuto una gran donna che me l’aveva fatto capire: Alba Parietti».

Quanto siete stati fidanzati?

«Non siamo stati fidanzati. Fu, come si dice? Un flirt».

Come nasce la canzone che l’ha reso famoso?

«Claudio vide che piacevo e disse: facciamogli fare qualcosa. Mi battezzò Mister Basic e mi fece cantare Ok Run, che andò più o meno bene. Al che, gli dissi: provo a scrivere io un pezzo. Mi chiudo in casa e, per tre mesi, mi vergogno di cantare. Poi, scrivo cinque o sei brani, ma lui: sono belli, però la gente non balla questa roba. Mi arrabbiai e pensai: ora ti faccio vedere io».

Torna a casa e scrive People from Ibiza?

«La scrissi in un pomeriggio. Partii copiando una sequenza jazz del violinista Jean-Luc Ponty e un arrangiamento di Yuki Sakamoto, da Merry Christmas Mr Lawrence. Funzionava e chiesi a Claudio se potevo parlare di Ibiza. E lui: cos’è Ibiza?».

Lei come e perché conosceva quell’isola?

«Me ne aveva parlato un pizzaiolo. Andai a vederla e, invece di sette giorni, rimasi sei mesi. Quando finirono le 400 mila lire che avevo in tasca, vendetti il mio orologio di Cartier. Quando andai via, piangevo. Lì mi sentivo e mi sento a casa. In quegli anni, Ibiza era incredibile: Nina Hagen, la cantante punk, usciva portandosi un ragazzino al guinzaglio, era il suo fidanzato; Xavier Cugat, il compositore di colonne sonore, usciva con una Rolls Royce bianca e una chauffeur di colore vestita di nero. C’erano più personaggi che persone normali».

Cosa succede quando esce il pezzo?

«Che faccio il primo Festivalbar, poi accompagno un amico in piazza Duomo, vengo circondato da 500 ragazze e dobbiamo nasconderci in una farmacia. Alla terza sera di festival, arrivai nudo in camerino: la folla di fan mi aveva spogliato. Fu un successo mondiale. Conoscere Claudio fu un gran colpo di fortuna».

Sbaglio a pensare che diventò ricchissimo?

«No, ma ho speso tutto varie volte. In viaggi e feste. Ho fatto costantemente quel cavolo che mi pareva. Tipo: un giorno decido di vivere a Parigi. Arrivo, prendo una carta platino in banca, esco, vedo un concessionario Harley Davidson e compro le due moto più care. Ho fatto molti soldi anche fuori dalla musica».

Era socio, a Ibiza, del ristorante Dos Lunas e poi?

«Ci venivano Bjorn Borg e Loredana Bertè, George Michael, i principi di Monaco. E a Parigi e Madrid avevo una catena di ristoranti, La Vaca Argentina, che ho venduto a Nestlé. Ho rispeso tutto, ma vivo bene, ho case che affitto, faccio serate, prendo i diritti d’autore».

Ha speso anche in droghe?

«In tutte quelle che c’erano, tranne l’eroina. Adesso non più, ora, vivo in pace con me stesso».

Perché, a parte poche canzoni, non ha più scritto?

«Perché preferivo stare a Ibiza a fare il figo».

Come vive lì?

«In una casa con la vista sulle saline e Formentera. La vista è tremendamente importante: quando ti svegli qui, non puoi deprimerti. Ogni giorno, cammino in spiaggia, faccio pugilato. Da 15 anni, non vado più in discoteca. Ho una vita da pensionato».

L’amore l’ha trovato?

«Mi sono innamorato due volte, per quattro e per nove anni, ma sono stato lasciato. Le mie ex non hanno voluto capire che, a volte, ho bisogno di stare da solo».

Non le secca essere identificato con una sola canzone?

«Scherza? Io sono felice di aver avuto quel successo e felice di averlo lasciato».

Sandy Marton: «Mi scoprì Cecchetto a casa di De Mita». Den Harrow: «Non cantavo, ci mettevo solo l’immagine»: parlano i reduci della Disco anni 8°. Renato Franco su Il Corriere della Sera il 7 Febbraio 2023.

«Milioni di dischi venduti, soldi, donne e poi... la rovina». Ma forse non è finita. Gazebo: «Ho venduto 8 milioni di copie ma il successo è durato poco. Però all’ultimo concerto di quest’anno erano in 38 mila». Johnson Righeira: «Ho sperperato tutto»

Sandy Marton ai tempi dei suoi successi negli Anni Ottanta. Oggi ha 63 anni

Una curiosità legata a Sanremo: Sandy Marton, scoperto come racconta da Claudio Cecchetto, fece la sua prima comparsa in pubblico come ballerino del «Gioca Jouer» nel Festival del 1981. L’anno successivo tornò a Sanremo presentato da Cecchetto come ‘Steve Mustafa’, a capo di un corpo di ballo che accompagnava il suo nuovo singolo «Ska Chou Chou». Arrivò al successo come Sandy Marton nel 1984 con il brano «People from Ibiza».

Sulle ceneri degli Anni di Piombo nasce il cinepanettone: in queste due immagini — da una parte il ragazzo piegato sulle gambe, passamontagna e pistola in pugno; dall’altra gli yuppie che vestono griffato — c’è la sintesi iconografica del passaggio dagli Anni 70 agli Anni 80 con le grandi manifestazioni di piazza che si spostano sempre più frequentemente in discoteca. Fine dell’impegno. Vincono il consumismo, la superficialità, l’edonismo: soldi, carriera, look e aerobica sono i punti cardinali di una nuova epoca. La parabola di Ronald Reagan è esemplare: da attore a presidente degli Stati Uniti. Roberto D’Agostino scriveva: «Oggi, in piena civiltà dell’immagine, si è imposto un nuovo concetto, un nuovo effetto speciale, quello dell’apparire. Ognuno cerca di esibire quel mosaico di informazioni visive chiamato look. Attraverso un look l’uomo può evadere dall’universo ripetitivo della quotidianità dove ognuno assomiglia a chiunque altro, per scacciare l’ossessione più insopportabile di questi Anni 80: essere perdenti, non riscuotere il successo sociale, cadere nel cono d’ombra del banale quotidiano». È la Milano da bere e da ballare. L’italo dance vive una stagione irripetibile, successi clamorosi che in un decennio diventano meteore. Poi come un fiume carsico tutto ritorna a galla, il revival riporta popolarità a gente dimenticata.

I nomi sono esotici: Righeira, Gazebo, Ryan Paris, Sandy Marton, Den Harrow. Sandy Marton oggi ha 63 anni e vive a Ibiza, l’isola che l’ha fatto conoscere in tutto il mondo, chi se non lui poteva essere People from Ibiza ? «Sono arrivato a Milano all’inizio degli Anni 80 per studiare design — racconta in un italiano dalle ascendenze balcaniche (è nato a Zagabria) —, non cercavo di essere una rockstar: è stato tutto una grande sorpresa e una grande figata». La svolta ha il nome di Claudio Cecchetto: «Era Capodanno, ero a una festa a casa di De Mita, c’era un salone enorme e a un certo punto sono entrato nella cabina dove Claudio faceva il dj. Non voglio fare il figo ma tutte le donne si sono girate a guardarmi. Claudio mi osserva e mi fa: e tu chi cazzo sei? Avevo 20 anni, ero sbarbato, avevo i capelli lunghi e da lì è cominciato tutto. Il segreto si chiama culo». Il successo lo travolge per la prima volta in piazza Duomo a Milano: «Ero con un amico croato, ci hanno assaltato un centinaio di ragazze, non capivo nemmeno quello che succedeva, mi sono chiuso in una farmacia per due ore senza poter uscire, lì ho capito che era accaduto qualcosa di incredibile».

Tanta musica, tantissime donne. Quante?

«Tutte quelle che ho potuto. Non tanto le fan, piu che altro mi broccolavo le collaboratrici, le conduttrici...». A un certo punto è sparito, ma la sua parabola è un’eccezione rispetto ad altre meteore di successo di quell’epoca: «Ho fatto tre hit e ogni volta ne chiedevano una nuova, mi sembrava di lavorare in banca. Io sono così, sono fuori di testa, nessuno l’avrebbe fatto di mollare di botto ma io ero annoiato. Sono andato a Parigi dove ho speso tutti i soldi, per questo non ricordo volentieri gli Anni 90...».

La spesa più folle?

«Ho fatto milioni di cazzate... appena arrivato a Parigi ho comprato la Harley-Davidson più cara che c’era». Ibiza l’aveva scoperta in tempi non sospetti: «Un amico pizzaiolo mi diceva sempre: devi andare a Ibiza! Io non sapevo nemmeno dov’era. Avevo 400 mila lire in tasca e sono rimasto lì 6 mesi. Oggi vivo qua e sto da Dio, sono come un “pensionista”, poi faccio serate o ospitate tv. Non mi sono sposato ma ho qualche amica...».

Paul Mazzolini (anche lui 63 anni) tutti lo conoscono come Gazebo e per I Like Chopin , 8 milioni di copie vendute. La cantano ancora oggi tutti, da Tokyo a Rio: «Senza nemmeno fare gavetta a 20 anni mi sono ritrovato proiettato al successo, il primo disco subito in vetta. È stato un decennio fantastico, la voglia di scrollarsi di dosso i problemi e cercare di vivere in modo più superficiale, più ludico». Una popolarità imprevista e inaspettata: «Io da piccolo volevo fare il chitarrista in una band, non avevo intenzione di fare il frontman, ma puntualmente ogni gruppo a cui mi proponevo mi bocciava come chitarrista e mi promuoveva come leader. L’ironia della mia vita è che sono un chitarrista fallito e un cantante per caso... Da adolescente ero un rockettaro sovrappeso, capelli lunghi, il classico improbabile per le ragazzine. Poi mi sono ritrovato a interpretare il personaggio dei miei testi, con un’immagine alla Grande Gatsby, circondato da un pubblico di sbarbatine che mi mandavano montagne di lettere».

Il boom e poi il calo: «Io ho smesso di avere quell’enorme successo già dal secondo album, che era molto meno commerciale. Per noi artisti di quell’epoca gli Anni 90 sono stati come l’AntiCristo, tutto quello che veniva da noi era demodé, faceva schifo, la dance soppiantata dalla house, il rock patinato sostituito dal grunge... io avevo uno studio di registrazione e in quegli anni ho fatto la gavetta che non avevo fatto prima». Dopo il buio di nuovo la luce: «Festival e concerti, la risposta del pubblico è tornata grande». A Düsseldorf settimana scorsa c’erano 38 mila a cantare il suo ritornello. Un rimpianto? L’ironia non gli manca... «Se avessi saputo di chiamarmi Gazebo per il resto della mia vita ci avrei pensato due volte...».

Il quasi 70enne Fabio Roscioli è Ryan Paris, la sua hit «Dolce Vita»: «Lo sapevo che avrebbe spaccato, la ascoltai, tornai a casa e feci un salto. A mia mamma dissi: canterò una canzone che venderà un milione di copie. Invece ne ha venduti più di cinque... Di quel periodo ricordo le litigate con la fidanzata, una volta la portai in Spagna e mi ritrovò in camerino con 50 donne». Per lui come per tutti i 90 sono la peste: «Sono stati anni duri, un periodo nero economicamente. Poi è ricominciata. Oggi faccio concerti in Spagna, Francia, Germania».

Cosa le manca degli 80?

«Niente. Lavoro più di prima, a parte in Italia dove nessuno è mai profeta. All’estero grazie a Dolce Vita sono considerato una superstar: c’è gente che si è sposata con la mia canzone, coppie che hanno chiamato i figli Ryan come me. È meraviglioso. Ogni volta che la canto volo, ancora adesso».

Stefano Righi e Stefano Rota. Così due sconosciuti, ma famosissimi come Johnson e Michael Righeira, la coppia che con due canzoni — Vamos a la playa e L’estate sta finendo — ha vissuto una parabola eterna durata due sole stagioni. Ricorda Johnson Righeira: «Vamos a la playa era sì una canzone da spiaggia ma postatomica, immaginava uno scenario apocalittico fatto di bombe, radiazioni, mare contaminato. I fratelli La Bionda divennero i nostri produttori, ci presero sotto la loro ala e intuirono il potenziale del brano. La mia versione però era molto più dark, new wave, molto cupa, l’idea era il contrasto tra l’andare in spiaggia e le bombe che esplodevano; loro la resero molto più solare, tanto che del testo non si è parlato per molti anni, nessuno ci ha fatto caso, è stato oscurato dalla melodia».

Come ha vissuto quello schiaffo improvviso di popolarità?

«Con estrema incoscienza: sono passato dal non avere una lira a poter prendere aerei e taxi senza pensarci, potevo scegliere gli alberghi più belli, vivevo nei residence. Ho buttato via un sacco di soldi. Non ho la minima idea di quanto ho sperperato, anche perché non so neanche quello che ho guadagnato». Oggi lui continua a fare serate, ma nel frattempo la coppia è scoppiata: «Con Stefano c’è stato un progressivo allontanamento culminato in una lite che ha sancito la separazione. Da tempo non ci sentiamo più».

Stefano Zandri, oggi 60 anni, fotografato negli Anni 80 quando è diventato Den Harrow: «Quando ballavo intorno a me la gente si metteva in cerchio a guardarmi»

Vuoi mettere l’efficacia british dello pseudonimo Den Harrow rispetto all’autoctono Stefano Zandri (60 anni) da Nova Milanese e cresciuto a Bresso?: «La musica è arrivata per caso. Ero un brutto anatroccolo che da adolescente si è trasformato in un bel ragazzino, frequentavo le discoteche e quando ballavo intorno a me la gente si metteva in cerchio a guardarmi». La sua storia è incredibile perché ha successo con canzoni (Mad Desire, Future Brain, Don’t Break My Heart ...) che non canta lui: «Negli Anni 80 funzionava così, c’erano personaggi che prestavano solo l’immagine. Era la prassi, io avevo 19 anni ed ero facilmente “corruttibile”. A 30 anni mi ritrovai con brani cantati da 7 voci diverse senza che nessuno se ne fosse accorto». A un certo punto decide di dire basta: «Ero frustrato, mi sentivo di prendere per il culo la gente». Finisce che rimane senza soldi e parte per l’America. Poi insieme agli Anni 80 torna in auge pure lui. Da tempo vive a Malaga: «Faccio tantissime serate, ma oggi posso anche permettermi di non lavorare».

Un decennio passato e ritornato, che nessuno di loro però sembra rimpiangere. A Sandy Marton la popolarità degli Anni 80 non manca: «Ricordo una sera in discoteca: dal palco al camerino c’erano 30 metri e 6.000 ragazzine: mi hanno strappato tutto in un secondo, sono arrivato completamente nudo in camerino. Va bene qualche anno, ma quella pazzia non mi manca in assoluto. Oggi le mie fan sono le mamme e le nonne...».

Da ilnapolista.it sabato 14 ottobre 2023.

Libero intervista oggi Sandra Milo, 90 anni portati con brio, per ripercorrere una parte del suo amore con Fellini che la chiamava Sandrocchia 

«A lui piaceva chiamarmi in quel modo perché diceva che Sandrocchia sapeva di croccante. Ha presente le mandorle con lo zucchero che quando te le metti in bocca scricchiolano? Non so perché quando mi vedeva gli venisse in mente il croccante, però così nacque Sandrocchia. Col tempo cambiò da Sandrocchia a Sandrina, perché era subentrata una forma di tenerezza» 

A suo giudizio, il rapporto che Fellini aveva con la moglie, Giulietta Masina, era paragonabile col vostro rapporto?

«No. Erano sentimenti diversi. Lui amava molto Giulietta. Federico era una persona straordinaria, buonissima, generosa. Era uno che amava veramente la gente. Forse è stato frainteso ai suoi contemporanei, per il fatto che lui era un disegnatore del Marc’Aurelio e rappresentava figure femminili esagerate con grandi seni e grossi sederi. Ma lo faceva perché quello era un giornale satirico. In realtà era una persona molto delicata spiritualmente, un uomo speciale» 

Su Bettino Craxi

«Bettino era un uomo straordinario. Aveva una fede profonda e amava moltissimo l’Italia. Non ho mai sentito nessuno parlare del proprio Paese con l’entusiasmo e l’amore che ci metteva Craxi. Poi era anche un uomo affascinante e ho avuto una storia con lui perché mi piaceva molto. Anche io credo non gli dispiacessi (ride). Così ci siamo amati per un paio d’anni»

Estratto dell'articolo di Fulvio Paloscia per repubblica.it il 17 maggio 2023.

A 90 anni, per Sandra Milo fermarsi sarebbe come sentirsi perduta. Dopo il successo di Quelle brave ragazze, il format Sky che l'ha vista protagonista di un viaggio spericolato insieme a Marisa Laurito e Mara Maionchi, ora tocca a Che bella storia la vita, un film superindipendnete (il 17 maggio al Buondelmonti di Impruneta, il 18 al Boito di Greve, il 19 all'Olimpia di Tavarnelle  e il 29 all'Accademia di Pontassieve) realizzato dal regista fiorentino Alessandro Sarti.  

(…)

Il suo primo matrimonio fu a 15 anni, con tanto di dispensa del Papa. Oggi sarebbe impensabile.

"Allora credevamo molto nella necessità della forza maschile. Dopo la guerra, mia madre si illuse che quando mio padre sarebbe tornato dalla prigionia, tutto si sarebbe sistemato. Ma non fu così. Tornò sì a Viareggio, ma per lasciare quasi subito l'Italia e trasferirsi in Francia, com'era avvenuto con il padre di mia madre, fuggito a Marsiglia.

La storia si era ripetuta. Io non voglio dare giudizi sul mio passato, ma credo di aver pensato che quel ragazzo più grande di me - aveva di 24 anni - avrebbe potuto sostituire il padre assente. Ma qualcosa non andò. Persi il mio primo figlio al settimo mese, ma io quel bambino lo sento ancora, è come se fosse cresciuto con me. Per una donna, abortire è sempre una tragedia, che sia una scelta o il destino". 

Alla fine degli anni Sessanta, decise di lasciare il cinema per seguire la famiglia.

"Il cinema non mi ha mai abbandonato, sono io che ho abbandonato lui. La prima volta fu nel 1961 dopo le contestazioni a Venezia per Vanina Vanini di Rossellini: l'anno prima dovevo vincere la Coppa Volpi, poi dall'altare alla cenere. Di punto in bianco non mi voleva più nessuno.

Ma io sono una guerriera, non accetto ciò che è ingiusto se non quello che viene dal cielo, che non si giudica mai. Penso alla mia storia con Moris Ergas, ad esempio...Con lui avevo convissuto, non mi ero sposata. Quando ci separammo, portò via con sé mia figlia in Grecia, solo che la legge di allora non tutelava le madri di figli nati fuori dal matrimonio. 

E io non potevo certo tornare con lui, avevo troppa paura perché mi aveva picchiata, e ancora ne porto le conseguenze. Scrissi una lettera a Pietro Nenni, che il segretario dei socialisti - il mio partito da sempre- fece pubblicare in prima pagina su L'Avanti: gli chiesi una legge per tutti quei bambini senza diritti, cittadini a metà". 

E Nenni le rispose?

"Di più. Mise ai voti la riforma del diritto familiare e mi scrisse una bellissima lettera: "come tutte le leggi, è un compromesso, ma pur sempre una legge"".

(…)

Ha mai sentito la sua bellezza come un ingombro?

"Alla mia bellezza non posso che essere grata, perché se non fossi stata così, non avrei fatto quello che ho fatto. Anzi, già a 50 anni avevo paura di perderla e mi sono sottoposta a un lifting. Ero felice, era come se mi sentissi salva. Niente di invasivo, seguito negli anni da qualche punturina. Poi con il Covid ho smesso. Certo, come ogni cosa anche nella bellezza c'è il rovescio della medaglia". 

(…)

Il #metoo?

"Come posso pensarne bene? È troppo comodo denunciare le molestie dopo aver usufruito dei vantaggi determinati da una certa situazione. Il rifiuto andava opposto subito: se accetti di andare in camera da letto di un produttore o di un regista, cosa ti aspetti? Il desiderio del maschio si è espresso sempre così. E che questo non sia il modo giusto, da parte delle donne, di liberarsi è testimoniato dal fatto che oggi gli uomini hanno paura di loro". 

Lei rispose con un sonoro no alla fuga d'amore con Fellini in America. Si è mai pentita?

"Io nella vita non ho mai voluto rimorsi. Ma ne ho provato un leggero per Federico, perché una proposta del genere significava solo uno cosa: aveva un grande bisogno di me. E, visto che l'amavo così tanto, avrei potuto aiutarlo. Ma fu più forte la paura di involgarire il nostro sentimento nelle piccole meschinità quotidiane. Oggi amo ancora Federico allo stesso modo. Di amori così forti ce n'è solo uno nella vita. E quello per Fellini mi aiutata a crescere".

L'Italia certo non era pronta ad un adulterio così conclamato. Eppure lei è andata avanti.

"Non ero io che possedevo l'amore, ma era l'amore a possedere me. Giulietta Masina era mia amica, come tutte le donne nate a marzo (anche io lo sono) era un po' strega, dotata di un forte intuito. Era cosciente di aver sposato un uomo speciale, ed era impensabile che una donna per Fellini fosse per sempre l'unica. Sono convinta che la fedeltà non esista proprio, altrimenti la preghiera del Padre Nostro non conterrebbe la frase "non ci indurre in tentazione". Io non sono mai stata gelosa di lui. Mi faceva piacere quando Federico, avido di nuove conoscenze, mi raccontava le sue frequentazioni femminili, perché mi metteva sullo stesso suo piano, mi diceva cose che in realtà gli servivano a far chiarezza prima di tutto con se stesso. Federico aveva una certezza: che la bugia è sempre, in ogni occasione, una mancanza di rispetto".

Estratto da corrieredellosport.it il 10 aprile 2023.

Critiche a non finire per il discorso che Sandra Milo ha tenuto a Domenica In nella puntata […] di Pasqua. La novantenne ha parlato delle violenze subite da Milo Ergas, ex compagno nonché padre di sua figlia Debora.

 "Una volta, stavo filmando un film al Pincio e stavo nella roulotte. Lui è entrato, in un momento di follia mi ha buttato per terra, […] mi ha preso a calci nella testa e mi ricordo che io pregavo: “Dio mio, fammi morire subito, non resisto più”.

Dopo se ne è andato, perché la produzione aveva sentito tutti questi rumori. Mi hanno preso, io ero per terra sanguinante, avevo la mascella rotta, il naso rotto, le orecchie completamente sfasciate.

 Mi hanno portato all’ospedale a fare le analisi al cranio perché pensavano che fosse rotto, per fortuna non è stato così. Però ho perso completamente l’uso delle orecchie. Uno è distrutto per sempre, perché me l’ha sfracellato. L’altro l’hanno ricostruito e ci sento, però con un orecchio solo".

Mara Venier, dopo aver ascoltato attentamente il racconto […], ha chiesto alla sua ospite se c'è stata una denuncia per quanto accaduto. "Vabbè, è andata così", ha replicato amareggiata la bionda attrice. 

 […] La conduttrice ha ribadito l'importanza della denuncia ma la Milo ha continuato: “Non sanno come reagire e reagiscono con la violenza”. Perentoria la Venier: “Devono andare in galera!". La Milo non ha cambiato idea: “Non cambia, non si ottiene niente. Sono migliaia di anni che l’uomo è così. Ricordati che il primo assassino della storia è stato Caino”.

Sandra Milo e la violenza subita: “Non serve a niente denunciare”. E’ polemica. Federica Bandirali per corriere.it il 10 aprile 2023.

L’attrice, festeggiata negli studi di Mara Venier, ha raccontato di una violenza subita nel 1981 dall’allora compagno Milo Ergas. “Bisogna educare i figli” ha detto la 90 enne mentre la conduttrice ribadiva l’importanza della denuncia in questi casi

Sandra Milo choc a “Domenica In” del 9 aprile: la novantenne ha parlato a Mara Venier delle violenze subite da Milo Ergas, ex compagno nonché padre di sua figlia Debora. "Una volta, stavo filmando un film al Pincio e stavo nella roulotte. Lui è entrato, in un momento di follia mi ha buttato per terra, mi ha preso a calci nella testa e mi ricordo che io pregavo: “Dio mio, fammi morire subito, non resisto più”. Il dettaglio delle violenze è andato avanti nel corso della trasmissione: “La produzione aveva sentito tutti questi rumori e lui se n’era andato. Mi hanno preso, io ero per terra sanguinante, avevo la mascella rotta, il naso rotto, le orecchie completamente sfasciate. Mi hanno portato all’ospedale a fare le analisi al cranio perché pensavano che fosse rotto, per fortuna non è stato così. Però ho perso completamente l’uso delle orecchie. Uno è distrutto per sempre, perché me l’ha sfracellato. L’altro l’hanno ricostruito e ci sento, però con un orecchio solo".

Incredula e attonita di fronte a quanto aveva appena sentito, Mara Venier, padrona di casa della domenica pomeriggio di Rai Uno, ha chiesto alla sua ospite se aveva denunciato Ergas e l’accaduto. "Vabbè, è andata così" la risposta della Milo che è comunque stata sollecitata da Venier sull’importanza di denunciare le violenze. Ed ecco la risposta della Milo, che ha spiazzato il pubblico e i social. “Devono andare in galera” ha detto Venier. La risposta dell’attrice novantenne: “Non cambia, non si ottiene niente. Sono migliaia di anni che l’uomo è così. Ricordati che il primo assassino della storia è stato Caino”.

Sandra Milo: «Ero poverissima, mi sposai a 15 anni, per altri 17 amai Fellini. Sono una peccatrice: ma a me Dio fece un miracolo». Teresa Ciabatti su Il Corriere della Sera l’8 Aprile 2023

Sandra Milo ha compiuto 90 anni. Racconta di quando Fellini l’ha baciata la prima volta, in un camerino a Cinecittà (ed è svenuta). E del miracolo di sua figlia, Azzurra: «Era morta, una suora la rianimò»

Attrice di film quali Il generale della Rovere e 8 e 1/2 , musa di Federico Fellini, simbolo femminista, quattro mariti, tre figli, Sandra Milo ha appena compiuto novant’anni e continua a essere riferimento di donne e ragazze. Perché oggi più che mai quel tipo di femminile, in apparenza spensierato, nella sostanza mai pietoso, coraggiosissimo, rappresenta un esempio di forza, una condizione per rivendicare il proprio spazio. Ecco cosa insegna Sandra Milo alle ragazze: siate libere, non abbiate paura. Nemmeno della morte. «A un certo punto morirò anch’io» dice.

La paura più grande?

«Non ha fatto in tempo ad arrivare che è subito svanita. Da bambina, tra bombardamenti e violenze, la possibilità di morire era quotidiana: non si poteva avere paura».

Paure minori?

«Quelle personali, da giovane: di non farcela, di non trovarmi, quando insomma non sai chi sei e vai per tentativi».

Tentativi a vuoto?

«Ho cercato ogni volta di ragionare sull’origine dell’incertezza».

Trovata?

«A volte dopo molti anni».

Una scoperta tardiva?

«L’inutilità del senso di colpa».

«HO 90 ANNI MA NON HO PAURA DI MORIRE, A UN CERTO PUNTO TOCCHERA’ ANCHE A ME. DA BAMBINA SONO CRESCIUTA SOTTO LE BOMBE, LA MORTE ERA SEMPRE VICINA»

Il senso di colpa di Sandra Milo?

«Per mia madre».

Ovvero?

«Ho sempre vissuto con nonna e mamma, me le sono portate a vivere con me col primo, e col secondo marito.»

Motivo?

«Istinto materno. L’istinto materno è verso i piccoli e verso i grandi».

Mamma e nonna a casa.

«Toscane, linguacciute, erano parecchio ingombranti. Il primo marito, Ergas, mi diceva: “o me, o loro”».

Risposta?

«”Non posso lasciarle”. Al che lui se ne andava, stava fuori un mese, e tornava».

Lei ha accudito nonna e mamma fino alla fine?

«Sono morte con me, mia nonna a 85 anni. Mia madre a 55. Aveva un cancro che la paralizzava a letto, muoveva solo le mani. Io ero incinta di Deborah, e giravo 8e1/2 . Il giorno lavoravo, la notte stavo con lei. Rientravo dal set, e le facevo i massaggi alla gambe per alleviare il dolore».

«FELLINI? E’ FINITA DOPO 17 ANNI, LUI VOLEVA ANDARE VIA CON ME MA IO HO DETTO DI NO. AVEVO PAURA CHE SI FOSSE PENTITO E CHE L’AMORE SAREBBE STATO ROVINATO»

Passava?

«Per un po’, quindi ricominciava, allora lei mi chiedeva: “aiutami a morire”. Io non volevo, cercavo di convincerla, le spiegavo che avrebbero potuto arrestarmi».

Un giorno.

«Davanti a tanta sofferenza, ho preso coraggio».

Ricordi di quel momento?

«Stringevo la sua mano, volevo che non si sentisse sola. Ma lei dice: “esci, che il tuo amore non mi fa andare via”».

Per molto tempo, con suo padre in guerra, la famiglia è stata al femminile: lei, sua sorella, mamma, e nonna. Un ricordo d’infanzia?

«Sfollate in un paesino toscano, Ruota, non avevamo niente, ma niente per davvero, neanche da mangiare. A valle c’era questo campo di grano maturo che nessuno aveva raccolto perché minato dai tedeschi. D’un tratto mia mamma e altre due mamme di bambini decidono di andare. Prendono forbici, sacchi e vanno».

Lei bambina?

«Avevo otto anni, sapevo che potevano non tornare indietro». Come lo sapeva? «In casa ne parlavano liberamente. Al tempo si parlava della morte davanti ai bambini. Così io mi infilo sotto le coperte. Chiudo forte gli occhi».

E?

«Mia madre torna. Torna coi sacconi pieni di spighe».

Sandra Milo sul set di 8½ (Federico Fellini, 1963) insieme con Marcello Mastroianni, che interpreta la parte di un regista in crisi creativa

Quando Sandra Milo capisce di essere bella?

«Fin da bambina sapevo di piacere. A tredici anni i soldati americani mi regalavano cioccolato e biscotti».

Gli americani?

«Mi fidanzo con un americano che aveva l’Harley Davidson, una moto che in Italia nessuno aveva mai visto».

Quindi?

«Noi vivevamo a Viareggio, sempre poverissime, come del resto tante altre famiglie intorno a noi, nel palazzo, nel quartiere. Così a mamma che mi guardava dalla finestra salire su questa grande moto, viene un’idea: rubare la moto».

A quel punto?

«Lei e la vicina vengono da me a chiedere di far salire il soldato in casa, tenerlo occupato».

Obbedisce?

«Lo faccio salire, metto la musica, mentre giù in strada mamma e la vicina portano via la moto a spinta».

Finita la serata?

«Appena l’americano scende e vede che la moto non c’è più chiama la polizia, la Military Police che cerca la moto ovunque».

Trovata?

«L’avevano nascosta bene».

Come se ne sbarazzano?

«Nel momento in cui nessuno la cercava più, mia madre e la vicina vanno a riprenderla e la rivendono al mercato nero».

Altri ricordi di quel tempo?

«Molte donne avevano avuto figli dai soldati neri. Alcune erano state violentate, altre si erano date per fame. Succedeva allora che ai bambini che nascevano ossigenassero i capelli sperando che i mariti, una volta rientrati dalla guerra, non si accorgessero che non erano figli loro. Il quartiere era pieno di questi bambini bellissimi: neri, dai capelli biondi biondi, quasi bianchi.»

Reazioni dei mariti?

«C’era molta comprensione».

A quindici anni Sandra Milo si sposa.

«Rimango incinta ma a sette mesi perdo il bambino. Torno da mia madre. Per un lungo periodo sto male, non mi alzo dal letto. Mi danno la morfina. Poi un giorno di primavera, mi alzo e chiedo alla nonna di farmi un vestito. Lei stacca una tenda di casa con cui mi cuce il vestito».

E?

«Ecco, quel giorno: io esco col vestito, e per strada tutti si girano a guardarmi. È lì che capisco di essere bella. E capisco di essere tornata alla vita, e che davanti a me c’è ancora tantissimo».

Sandra Milo tra Giulietta Masina (a sinistra) e Federico Fellini all’aeroporto di Roma Fiumicino: era il 1964. L’attrice ebbe una relazione di 17 anni con il regista

Quel giorno nasce Sandra Milo?

«Quello, e altri giorni».

Da Viareggio a Milano.

«Mi fidanzo con un ragazzo più grande, trent’anni lui, sedici io. Lui mi porta a Milano dove lavoro come modella. In seguito mi trasferisco a Roma per fare l’attrice. Ero minorenne, facevo tutto quello che non si poteva fare, stare con un uomo grande, guidare. Ero felice. Volevo vivere».

Federico Fellini.

«A Roma, insieme al mio secondo marito, Ergas, conosco Federico e Giulietta. Ci frequentiamo. Loro invitano a cena noi, noi loro. Ci facciamo regali. Giulietta mi regala una lampada di cristallo che ho ancora. Per un anniversario di matrimonio io regalo loro un albero. Degli omini lo portano apposta da Pistoia, e glielo piantano in giardino, a Fregene. C’è stato un momento in cui tutti gli invitati della festa guardavano l’albero».

Guardando piantare l’albero, i pensieri di Sandra Milo?

«Mi chiedevo: il giorno che sarà altissimo, dove sarà il mio amore?»

L’albero è cresciuto?

«Federico e Giulietta hanno cambiato due case a Fregene. E nessuno di noi è più andato a vedere l’albero».

L’amore invece?

«Io m’innamoro di Federico subito, lui no».

Sandra Milo insieme con la figlia Debora, allora 10 mesi, nella villa del produttore greco Moris Ergas, che diventerà il suo secondo marito: era il 1963

Primo bacio?

«A Cinecittà, in un camerino. Lui mi bacia e io svengo. Lui dice: “ma che bambocciona, una come te, svenire per un bacio”».

E lei?

«Vagli a dire che io di baci ne avevo tanti, tantissimi anche a vuoto, e che l’emozione era per il suo».

Non lo dice?

«Con lui non avevo coraggio. Molte cose me lo sono tenute dentro».

Per esempio?

«In diciassette anni non abbiamo mai dormito insieme. Ci vedevamo di giorno, in genere nel suo studio. Nei vari studi che ha cambiato c’era sempre una stanza vuota con le tende alle finestre e la moquette per terra. E io pensavo che sarebbe stato bello se lì ci fosse stato un letto, se fosse diventata una stanza. Un po’ gliel’ho fatto capire: “qui ci starebbe bene un letto”, ho detto una volta».

Conseguenza?

«La stanza è rimasta vuota».

La fine?

«La fine della storia non è stata la fine del sentimento. Dopo diciassette anni di amore clandestino lui mi propone di lasciare tutto, e andarcene noi due in America».

In senso orario: Cesare Rodighiero. Fu il primo marito di Sandra Milo: lo sposò a 15 anni; Moris Ergas. Il produttore greco fu il secondo marito, padre di Debora. Ottavio De Lollis. Da lui Sandra Milo ebbe altri due figli, Azzurra e Ciro ; Jorge Ordonez, il colonnello cubano è stato il quarto (finto) marito dell’attrice

Ma?

«Io dico di no».

Motivo?

«Per paura che più avanti se ne pentisse. Il terrore che il nostro amore si potesse rovinare. Immaginavo: se un giorno guardandomi a casa mi dice “sei ingrassata”, oppure “spendi troppo”. Non l’avrei sopportato».

Rinuncia a lui per non sciupare l’amore?

«Per quanto io dica che sia stata questa la ragione, lo dico da anni, oggi capisco che sotto sotto c’era anche altro, istinto di vendetta, piccola rivalsa».

«SONO UNA PECCATRICE MA DIO FECE A ME UN MIRACOLO. AZZURRA, MIA FIGLIA, ERA MORTA SUBITO DOPO LA NASCITA. UNA SUORA RIUSCI’ A RIANIMARLA»

Pentita?

«Forse lui mi stava chiedendo aiuto come artista, aveva bisogno di una vita nuova per scrivere cose nuove, e io non l’ho aiutato».

Intanto, in quei diciassette anni?

«Prima di tutto c’è stata la battaglia per ottenere mia figlia».

Nel senso?

«Alla nascita di Debora, io non avevo ancora l’annullamento dal primo marito. Sul certificato di nascita lei è figlia di Moris Ergas e “di madre che non vuole essere nominata”».

Quanto faceva male?

«Seppure la bambina fosse con me, ogni istante con me, tra le mie braccia, nella mia testa rimaneva quel “di madre che non vuole essere nominata”».

La fine del matrimonio con Ergas?

«Un giorno lui viene sul set, nella mia roulotte, e mi picchia. Mi butta a terra e mi riempie di calci. Naso rotto, mascella rotta, orecchie - da uno ho perso completamente l’udito, dall’altro l’ho riacquistato in parte, ma comunque nella vita mi è bastato, mi sono arrangiata».

Chi la trova?

«Qualcuno della produzione. Mi trovano per terra, piena di sangue, e mi portano in clinica. In clinica però non potevano prendermi, bisognava accertarsi che non ci fossero fratture al cranio. Di nascosto perciò, imbacuccata, mi portano al Pronto Soccorso. Mi fanno passare dai sotterranei perché non mi vedesse nessuno. Dalla radiografia scopriamo che il cranio è intatto, così mi riportano in clinica dove mi ricoverano per qualche settimana».

Quelle settimane.

«Ricordo di aver incaricato la clinica di chiedere a casa di mandare una camicia da notte. Ergas non l’ha mandata. Me l’hanno data le suore».

Il tempo successivo?

«Ergas fa sparire mia figlia. Io faccio di tutto per andare a riprenderla. Ho attraversato il deserto del Sinai. Quindi i processi, 44 processi per riavere mia figlia».

Chi è Sandra Milo?

«Per la religione una peccatrice. Per la legge una persona condannabile. Eppure Dio mi ha fatto il miracolo. Ci penso spesso: Dio il miracolo lo ha fatto proprio a me».

Il miracolo?

«Mia figlia Azzurra è nata di sette mesi. Nasce viva, e muore subito. La dichiarano morta. Chiudono questa creatura piccolissima in una copertina, lo ricordo bene. Dopodiché arriva una suora, Suor Costantina che chiede al professore di darle la bambina, lui la caccia, lei rimane, finché il professore non gliela dà».

Allora?

«In una stanza, Suor Costantina pratica la respirazione bocca a bocca, il massaggio cardiaco. E prega. Prega Madre Maria Pia Mastena. Prega, prega, senonché la bambina ha un sussulto, piange».

Il dopo?

«Azzurra sta tre mesi in ospedale. Io me la vado a vedere ogni giorno: piccolissima laggiù, nell’incubatrice».

Alla fine?

«Passati tre mesi non ce la faccio più, urlo ai dottori che me la devono dare. Pesava un chilo e sette. Un dottore buono capisce che sì, toccava a me. Me la danno. Per un anno non mi sono mai separata da lei. Nel tempo l’ho osservata, avevo paura che non camminasse, che qualcosa in lei non andasse».

Invece?

«Suor Costantina mi dice: “tranquilla, il miracolo Dio te lo ha fatto per intero”».

Un momento emozionante della crescita di Azzurra?

«I primi passi. Non erano solo passi quelli, significavano molto di più».

Il miracolo per intero?

«Che sia stato un miracolo non sono io a dirlo. C’è stata una commissione che lo ha preso in esame. Nel 2005 in Vaticano è avvenuta la beatificazione di Madre Mastena, sono arrivate le suorine dell’ordine da ogni parte del mondo. Azzurra era in prima fila».

Sandra Milo?

«Io peccatrice in disparte, su un lato». Si sente peccatrice? «Intanto non credo all’inferno». Oltre la morte? «C’è il paradiso. Io mi vedo lì». Motivo? «Ho cercato di fare del mio meglio».

E?

«A volte ci sono riuscita».

Sandra Milo: «Craxi era molto timido ma sessualmente ero pazza di lui». Storia di Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 17 gennaio 2022.

Bella e sfacciata come sempre, Sandra Milo ammette: «Ho avuto molti uomini : Craxi era molto timido ma sessualmente ero pazza di lui». In una lunga intervista rilasciata in esclusiva a F, settimanale di Cairo Editore, l’attrice (90 anni, l’11 marzo) racconta di aver amato davvero un solo uomo nella sua vita ma di non aver mai saputo resistere alle tentazioni perché i maschi le sono sempre piaciuti. «Craxi? Mi piaceva molto. Era un uomo intelligente, colto, curioso ma anche di una timidezza che pochi conoscevano: mi ha presa con le parole prima che fisicamente, mi parlava anche a letto, durante l’amore. E io, sessualmente, sono stata pazza di lui. Per un paio di anni ci siamo frequentati in segreto ma poi l’ho lasciato per il terrore che mio marito, Ottavio De Lollis, lo scoprisse: era geloso, da lui ho preso un sacco di botte».

Estratto dell’articolo di Giulia Cazzaniga per “la Verità” il 16 gennaio 2023.

[…] Sandra Milo […]

 […] Tra le sue passioni c'è sempre stata anche la politica.

«Da quando ero giovanissima, sì, dopo la guerra. Ho iniziato a leggere molto, soprattutto per capire dove avevamo sbagliato: nella mia famiglia erano tutti fascisti, come la stragrande maggioranza degli italiani, e hanno pagato un prezzo carissimo. […]».

 Lei però virò dalla parte opposta

«[…] Non riesco però ancora a essere indifferente al fatto che ci siano tante diseguaglianze su lavoro, case, ricchezze. Per questo sono di sinistra, per quanto possa avere senso dirlo oggi».

 Di Giorgia Meloni quindi che mi dice?

«No beh, a me lei invece piace moltissimo».

 Perché?

«Le ideologie ormai sono superate. È simpatica, sorride ed è importante. Vedo poi che non si sottrae e parla con tutti. […]».

 […] Una delle chiacchiere più insistenti che la riguardò fu sulla passione con Bettino Craxi. Ne ha parlato pubblicamente. Cosa la affascinò?

«Una fede socialista assoluta, autentica, e il grande amore che aveva per l'Italia. Ne parlava come di una persona amatissima. […]». […]

Il politico più affascinante nel Parlamento attuale?

«[…] A me piacevano […] Togliatti e Berlinguer. O Pietro Nenni, che mi rispose con una lettera su L'Avanti quando denunciai pubblicamente che il mio compagno di allora aveva portato mia figlia in Grecia. Io non ero tutelata dalla legge perché non ero sposata».

 Come andò a finire?

«Mi rispose che stavano riformando il diritto famigliare. Quella situazione, comunque, si risolse. Ma mi feci settimane in clinica, ricoverata perché il mio compagno mi aveva picchiata dopo una lite. […]».

Oggi manca l'anima?

«[…] Forse l'ultimo politico con l'anima è Umberto Bossi. […]».

 […] Bella e intelligente. Fu questo il segreto del suo successo?

«Ma guardi che al tempo mio non era consentito di essere belle e con un cervello. Si fingeva di esser stupide. Compiacevamo gli uomini. Una donna intelligente crea problemi ai maschi».

 Tutto cambiato?

«Sì, ma rendendo molto difficili i rapporti. Oggi lei affronta il maschio con una presunta superiorità, perché ha la necessità di trattare alla pari. E lui si spaventa. Ho l'impressione che le ragazze di oggi non siano affatto felici».

Sandra Milo contraria alla parità di genere?

«Ma no, osservo semplicemente quel che accade. Le donne sono state improvvisamente private dell'amore che cercano, di cui continuano ad avere bisogno perché è la cosa più bella della vita ed è difficile vivere senza. Gli uomini però desiderano sempre la coccola e la consolazione che ricordano della madre, il compiacimento di cui si sono nutriti da appena nati. Non riescono ad amare se hanno paura della donna».

 Un equilibrio si troverà?

«Lo spero. Questa è una generazione smarrita e sfortunata. Che priva le donne di una soddisfazione sentimentale».

 A leggere le dichiarazioni delle attrici di queste settimane, le donne sono anche vittime. Che ne pensa del Me too nostrano, lei che quel mondo lo conosce molto bene?

«Non capisco che senso abbia denunciare quando si sono accettati compromessi. Perché farlo dopo anni? A che serve? La vita si regge sulla regola dello scambio, non prendiamoci in giro».

 Sta dicendo che non c'è nulla di cui stupirsi? Anche lei ha vissuto situazioni sgradevoli?

«Le donne le vivono in uffici e negozi, non solo ai provini per il cinema. Si può dire: non lo accetto. Ma se ci stai, ci stai. Alle costrizioni io non ci credo. Si tratta di scelte. Non giudico nessuno: se accetti, bene, se non accetti, altrettanto bene. L'importante è decidersi nella vita».

Le risulta che ancora si scambi sesso per una parte?

«A me non chiedono più nulla perché ho 90 anni (ride). Ma non credo onestamente che sia cambiato molto. Magari i registi al posto che chiederlo alle attrici lo chiedono agli attori, ma certe cose fan talmente parte dell'essere umano che il mio pensiero è questo. […]».

Barbara Costa per Dagospia sabato 5 agosto 2023.

Le hanno legato un preservativo al cancello. Le hanno rigato la macchina. Le hanno online rubato una foto per metterla su un manifesto di un filmaccio che mai ha girato. Tutti atti vandalici con altri denunciati alla polizia, che io non minimizzo e però lo penso: Saretta, è tutta invidia! Invidia, astio, impotenza di chi Sara sui social e sui siti porno se la vede, e gli piace, ma è un avvilito e frustrato e sfigato. Mica è da tutti avere il coraggio di questa ragazza, Sara Diamante, 22 anni, nel porno da un anno, e una che ha fatto tutto da sola! 

Da sola lo ha deciso, da sola ha agito, e risoluta ha messo i suoi davanti al fatto compiuto: cari genitori, io mollo Medicina, e mi metto a fare porno! E pure la stripper! Non che i suoi abbiano fatto i salti di gioia, tutt’altro, non la approvano, e però, dopo il coccolone iniziale, pare abbiano in parte accettato la scelta alternativa e radicale della figliola. 

Sara Diamante è una ragazza nata a Milano ma che ci tiene ed è fiera delle sue origini meridionali: lei è figlia di un siciliano e di una napoletana. Sara vive in provincia di Pavia in un paesino di nemmeno 3000 abitanti, paesino che del suo ingresso nel porno, più precisamente su OnlyFans, se ne è accorto e prima di subito: dove credete che passi il suo tempo la gente sia in città che nei piccoli centri di provincia, se non smanacciando sui siti hot? 

Il bello è che Sara non si è fermata a OnlyFans: ha contattato una agenzia, da sola è volata in Francia a girare la sua prima scena porno, alla quale sono seguite altre 4, per poi passare a pornare sui set di Budapest e di Praga, città che il porno in Europa se lo comandano. 

Se date un’occhiata ai porno free che di Sara trovate ad esempio su Pornhub, notate che Sara sì, parla perfettamente inglese e in tale lingua di regola gode, ma fate caso ai suoi video in cui si sc*pa in italiano! Lingua che Pornhub accuratamente sottolinea. E c’è un video di Sara, in italiano, in cui si fa la doccia e si masturba l’ano, in profondità, dove vale sostare e risostare… 

Sara Diamante è già stata "attenzionata" da uno dei nomi del porno che più conta, "Brazzers": è lei, proprio lei, colei che fa un threesome con una ragazza e il pornostar numero uno in Spagna, Jordi El Niño Polla, uno che in Europa risulta tra i pornostar più apprezzati: eh sì, pure se c’ha i denti storti (ma… non se li era raddrizzati???) e pure, anzi, soprattutto per il suo fisico emaciato su cui la sua mazza campeggia più grossa e imponente di come in realtà è!

Sara ha lavorato per "Pink’O Club", e per "BJRaw", e cioè per lo studios USA del nostro Romeo Mancini (l’hanno girato a Milano), e per uno e più rami di "LegalPorno", dove Sara riesce e bene nell’A2M (posizione e movimento porno estremo, invitante in porno opera l’ano e la bocca in quest’ordine e/o invertito). Ed è di Sara da poco uscita la sua primissima mini-orgia, girata per "Immoral Live" e che la fa sovrana e padrona di un four-some campestre, tra doppie e squirto traboccante, schizzato a valanga. 

Lo devo ammettere: pensavo che Saretta (mi viene da chiamarla così non solo per la giovane età e per il viso grazioso, vezzoso, ma perché, lo vedete, Sara è piccolina, 157 cm x 50 kg, con un lato b grooosso, muscoloso, naturale, e versato nell’anal, per cui i suoi fan vanno in porno sollucchero), che vi stavo dicendo, ah sì, devo fare mea pornissima colpa: da gossip girante in rete, ritenevo Sara una tra le tante attricette hot che più che pornare parlano postano parlano postano, e porno nulla concludono.

Invece lei si sta dando da fare, è determinata, vuol riuscire, e ha ogni numero per farlo. E però, sarebbe gustoso che ci dicesse, primo, chi è quel calciatore ora non più in serie A che in videochiamata le si è… palesato “in perizoma rosso di pizzo e calze a rete” e, secondo, chi è quel “noto politico di centro-destra col governo Meloni salito in alto” che non di recente a Milano ha rimorchiato Sara e hanno fatto sesso, e politico “che a letto mi ha chiesto le peggio cose” ??? P*rcate degne di un set hard! E Sara non faceva ancora l’hard! Ma bravo! Non è che questo politico è sposato e ha figli?

La tv, il porno, il bipolarismo e la rinascita: Sara Tommasi si racconta. Novella Toloni il 12 Settembre 2023 su Il Giornale.

Dall'Egitto, dove oggi vive con il marito, Sara Tommasi ha parlato del suo passato e della sua rinascita e alla vittima dello stupro di Palermo rivolge un messaggio: "Ce la farai, aggrappati ai tuoi cari, rinascerai"

Sara Tommasi ha un curriculum di tutto rispetto. Una laurea in Economia presso l'Università Bocconi di Milano e un lungo elenco di partecipazioni a programmi televisivi tra conduzioni, reality e teatro. Eppure, quando parli di lei tutti ricordano solo – o quasi - il periodo più buio della sua vita, quello degli eccessi, delle droghe e del porno. Come se tutto fosse cominciato in quel momento drammatico della sua vita del quale, fino a un anno fa, non voleva parlare. Invece quel momento è stato uno spartiacque tra il prima e il dopo e oggi, a undici anni di distanza, lei è felice e serena e la sua voce squillante, dall’altra parte del telefono mentre la raggiungiamo telefonicamente per l’intervista, lo conferma.

Vivi in Egitto, sei sposata. Che momento stai vivendo oggi?

Sto vivendo un momento molto bello. Io e mio marito abbiamo scelto di vivere in Egitto, a Sharm el-Sheikh, al Resort Domina Coral Bay. Qui è un posto magnifico. A me piace moltissimo e qui mi sento bene.

I primi dieci anni della tua carriera sono stati un vortice: tanta tv, teatro, reality. Ti sentivi bene o la malattia c'era già?

Stavo bene e lavoravo molto fino a quando, improvvisamente, mi sono sentita poco bene. Era il 2012. Conducevo un programma e mia madre si accorse di questa mia défaillance. Però, quando mi diagnosticarono il disturbo bipolare, io non lo accettai. Non mi sentivo così male, non la vedevo come una malattia così grave e quindi iniziai a fare il contrario di quello che avrei dovuto fare. Non mi curavo, scappavo di casa perché mia madre voleva sottopormi a dei ricoveri perché la situazione degenerava e il mio disagio aumentava. Invece di assumermi le mie responsabilità, stavo fuori tanto tempo e poi mi sono imbattuta in questi personaggi, che non avevano nulla a che fare con me e che mi hanno completamente distrutto l'immagine.

Da quel momento inizia il tuo periodo più buio: gli eccessi, la droga, il porno. Cosa ricordi di quel periodo?

Mi ricordo un po' di cose, ma non ho dei ricordi molto precisi. Ricordo bene la fase nella quale rigettavo la malattia, dove non mi curavo e scappavo, dormivo in albergo. Poi ho iniziato ad assumere droghe perché mi sentivo in una fase molto “up”. Pensavo che ci fosse una congiura contro di me, che mi volessero togliere il lavoro, che tutti esageravano sulla mia salute. Perché nel frattempo, dopo essermi sentita poco bene, mi ero ripresa e quindi mi sentivo carica. A quel punto mi sono fidata di certi personaggi, che dicevano che stavo bene e invece mi hanno raggirata. Come la ragazza violentata a Palermo, che si fidava delle persone che aveva intorno e invece è stata vittima di un vero e proprio raggiro.

I fatti di Palermo ti hanno particolarmente toccato. Hai commentato anche su Instagram la vicenda.

Sì, molto. La pena è più per la vittima che, in qualche modo, ha un "fine pena mai", un ergastolo a vita, perché sarà quasi sempre giudicata e sottoposta a critiche nonostante non c'entri niente e sia solo una vittima delle circostanze. Un po' come è successo a me che, nonostante fossi la vittima, ho subito tante critiche e sono stata esposta ai pregiudizi. A lei vorrei mandare un messaggio. A lei dico che ci si può riprendere da questi momenti negativi della vita perché ci sarà sempre qualcuno che la sosterrà, come è successo a me. Gli affetti più cari ci saranno sempre. Si deve aggrappare alle cose positive, agli affetti più cari, a chi le vuole bene e affidarsi agli specialisti, che la aiuteranno a superare il trauma. Voglio dirle che si può rinascere.

Antonio, il marito di Sara interviene sull’argomento.

Mandare un messaggio positivo alla ragazza di Palermo e alle altre vittime di abusi è importante. Sentire le storie di queste ragazze mi fa male, perché l'ho vissuto in prima persona. Sara, quando l'ho conosciuta, era devastata. La prima cosa che viene loro spontanea è quella di buttarsi giù, pensano che la loro vita sia finita, pensano al suicidio, invece non è così. Questo è importante da dire. Io l'ho visto con mia moglie: è possibile rinascere. Quel fatto brutto resta nel passato e ti rafforza e poi si va avanti. Sara c’è riuscita e ora sono io che mi appoggio a lei.

Tornando a quel periodo buio, nessuno ti ha teso la mano?

La mia famiglia in primis, mia madre, ma anche alcuni personaggi che in quel momento parlavano della mia situazione. Mi ricordo che Selvaggia Lucarelli fece un appello nel periodo in cui io frequentavo questo personaggio fuori dalle righe e infatti mi aiutò molto, perché riuscii a tornare a casa, a riprendere la lucidità e a ricominciare le cure. Ma anche altri personaggi come Rocco Siffredi e questo mi ha aiutato a riprendermi, a ritrovare attimi di lucidità, e a capire che stavo andando alla deriva.

Nel post, nel quale parli della ragazza di Palermo, dici: "Ci sono voluti anni per affrontare quei ricordi". Ti sei fatta aiutare da un terapista?

Assolutamente, sì. Da più terapisti e mi hanno aiutata molto perché mi hanno fatto riprendere il contatto con la realtà, con i veri valori, con la mia vita e mi hanno fatto prendere consapevolezza del fatto che ero malata e che dovevo curarmi. La situazione ora si è stabilizzata e oggi prendo pochissimi farmaci. Lo psicologo mi ha aiutato molto, mi ha fatto capire che era positivo per me avere una famiglia, l'importanza degli affetti sicuri e stabili, di un lavoro altrettanto stabile. Mi ha fatto capire che potevo essere una persona normale con una vita felice e normale come quella che ho adesso.

Di recente hai parlato anche di Maria Sofia Federico, che dalla tv (Il Collegio) si è avvicinata al mondo dell'hard a soli 17 anni.

Ho rivisto me, anche se nel mio caso c'era una malattia di mezzo, mentre nel suo caso sembra essere consapevole di quello che fa. Rocco Siffredi ha detto che è nel pieno delle sue facoltà mentali e lui mi sembra una persona saggia. Maria Sofia sembra avere fatto la sua scelta ma mi ha comunque toccato la sua vicenda. Suo padre mi ha contattato, via mail, voleva parlare di sua figlia, ma non me la sono sentita. È una questione molto delicata e affrontarla è difficile. Comunque lo contatterò.

Tornando agli anni bui, qual è stata la svolta positiva? Come ne sei uscita?

Mia madre ha dovuto agire con determinazione con un ricovero forzato. Sono entrata in clinica e sono stata molto male. Non ero abituata a stare rinchiusa, è stato un periodo molto brutto ma l'amore della mia famiglia mi ha permesso di riprendermi e sono riuscita a uscire dall'ospedale e a ritornare a casa.

L'incontro che ti ha cambiato la vita è quello con Antonio Orso, prima tuo manager oggi anche marito.

Averlo incontrato è stato un momento di svolta. Ci siamo conosciuti tramite amici in comune, che ci hanno presentato. Abbiamo cominciato a frequentarci per motivi di lavoro, perché lui è un agente e io ne stavo cercando uno. E’ scattata subito la scintilla e dopo qualche mese di corteggiamento abbiamo iniziato una convivenza. L'anno successivo (era il 2021) mi ha chiesto di sposarlo e ci siamo detti "sì".

Il tuo libro, "Ricomincio da Sara" edito Herkulesbooks e uscito nel 2021, è stato un po' la tua rinascita?

In parte. Era arrivata la proposta da Herkulesbooks di scrivere un libro sulla mia vita, ma ancora non mi sentivo pronta a parlare del mio passato come ho fatto ora e quindi ho parlato un po' della mia infanzia, della mia carriera televisiva ma non del periodo buio. Ho comunque lasciato una pagina bianca, lasciando intendere che c'è stato un episodio negativo della mia anima del quale non volevo parlare, ma che era punto di partenza per ripartire da Sara con forza. E oggi posso dirmi fiera di esserne uscita.

Adesso cosa sogni per il tuo futuro?

In cantiere c'è un docu-film sulla mia vita, spero si concretizzi e che serva da monito a ragazze che hanno vissuto momenti bui come il mio e che sia da monito contro la droga e le cattive

Estratto dell’articolo di Valerio Salviani per leggo.it il 13 luglio 2023.

Dopo il buio, la luce. Sara Tommasi a 42 anni è nata una seconda volta. Adesso, superato il baratro della dipendenza dalle sostanze stupefacenti e di una forma acuta di bipolarismo, vive felice tra Italia ed Egitto. 

Al suo fianco, inseparabile, il marito e manager Antonio Orso. Ma una vicenda italiana le ha fatto ripensare a quel passato da cui è riuscita a scappare. È la storia di Maria Sofia Federico, la diciottenne che dopo l’esperienza in tv a “Il Collegio”, si è fatta ammaliare dal mondo del porno ed è entrata nella “Rocco Siffredi Academy”. 

«Ho seguito attentamente il suo caso insieme a mio marito, ci siamo resi conto quanto fosse simile al mio - prova a spiegare lentamente Sara Tommasi - Ma c’è da fare una differenza: io ero gravemente malata di bipolarismo e facevo uso di stupefacenti. La storia di Maria Sofia Federico sembra invece essere una scelta libera».

Cosa ha pensato vedendo il papà che ha provato a fermarla?

«Mi ha ricordato subito mia mamma. Lei fece di tutto per fermarmi, voleva evitare che facessi quel grandissimo errore». 

Per qualcuno Rocco Siffredi si sarebbe approfittato della ragazza. Lei la pensa così?

«Non penso che Rocco se ne sia approfittato, anche perché quando successe a me lui prese le mie parti e si rese conto che stavo male ed ero plagiata. Evidentemente su Maria Sofia Federico ha valutato bene e ha capito che la sua era una scelta libera. Mi piacerebbe mandarle un messaggio attraverso Leggo. Posso?». 

Certo.

«Sono completamente contraria alla sua scelta, vorrei dirle di fermarsi perché è un errore che si porterà avanti tutta la vita. Perché da certe cose, purtroppo, non si torna più indietro». […]

In Italia l’abbiamo rivista di recente a ‘Le Iene’. Ci pensa a un ritorno nello showbiz?

«Mi manca assolutamente, sarei ipocrita a dire il contrario. 

Ai tempi d’oro è stato tutto meraviglioso, me lo ricordo molto bene».

Ritorno? E dove?

«Mi piacerebbe tornare in una veste ironica, magari a “Le Iene” o “Paperissima”. Vorrei realizzare un docu-film sulla mia vita che sia da monito a tutte le ragazze che si affacciano al mondo dello spettacolo». 

Con chi lavorerebbe oggi, se potesse scegliere?

«Mi piacerebbe lavorare con Enrico Papi, una persona positiva e ironica, e con la Gialappa’s, con cui in passato ho già lavorato». 

L’Italia, non solo in tv, è cambiata molto.

«Sì, certamente e per fortuna»

Per esempio?

«Per esempio Giorgia Meloni. Mi piace moltissimo, apprezzo le sue idee di riforma. Vedere una donna al governo è molto bello. Mi piace che si dia spazio alle donne». 

E Elly Schlein?

«Penso sia stata scelta in quanto donna, come antagonista della Meloni. Non mi dispiace ma mi sembra una forzatura imposta dal partito» […]

Estratto dell'articolo di Emil Gargalli per bestmovie.it il 18 giugno 2023.

Scarlett Johansson, uno dei maggiori volti del cinema moderno, è tornata nuovamente a parlare della sessualizzazione che, in quanto attrice, avrebbe subito nel corso della sua carriera negli ambienti hollywoodiani. 

In una recente intervista la star trentottenne è tornata ad affrontare l’argomento, rimarcando come le sue forme e la sua avvenenza ad un certo punto della sua carriera abbiano iniziato a rivelarsi come un vero e proprio ostacolo più che altro. La Johansson a proposito ha ribadito: «Il mio corpo da bomba sexy rischiava di rovinarmi. Mi sfuggivano i film migliori, continuavano ad arrivarmi tutti ruoli alla Marilyn Monroe, ma non era ciò che volevo».

L’attrice avrebbe iniziato a prendere coscienza della situazione con il processo di casting di due film ben precisi, ovvero Iron Man 2 del 2010 e Gravity, il capolavoro di Alfonso Cuarón del 2013.

«Mi sentivo incasellata in un cliché dal quale era davvero molto difficile tirarsi fuori. Ho girato film come ‘La verità è che non gli piaci abbastanza’ che continuavano ad alimentare quel tipo di narrazione. Mi sono vista offrire tutti i ruoli possibili basati sullo stereotipo di Marilyn Monroe, cosa non desideravo affatto. E quando sono stata scartata per due film, ai quali tenevo moltissimo, mi sono sentita persa… Avevo desiderato talmente quel ruolo che iniziai a chiedere a me stessa: ‘Sono arrivata al capolinea della creatività? Sarà ancora questo il lavoro giusto per me?’»

Scarlett Johansson una volta ottenuta la parte di Natasha Romanoff si impegnò al massimo per mostrare quanto potesse calarsi nel ruolo. È infatti noto che per la preparazione alla parte si sottopose ad un estenuante sessione di allenamenti di stampo militare, accompagnati da una dieta ferrea che l’ha costretta per mesi a quasi 12 ore di digiuno giornaliere.

[…]

Dylan Penn: «L’attore che preferisco? Mio papà Sean. Che fortuna recitare con lui». Faceva la modella e consegnava pizze. Lavorava in un’agenzia di pubblicità e studiava cinema. Obiettivo: la regia. Poi «la casualità perfetta», ossia la possibilità d’interpretare un ruolo in un film con suo padre (e con suo fratello). Storia di una figlia d’arte. Claudia Catalli su L'Espresso il 7 Agosto 2023

Neanche chi è figlio di due degli attori più richiesti e apprezzati di Hollywood - Sean Penn e Robin Wright - è al riparo dal dolore, dal tormento e dalle dipendenze. Lo sa bene Dylan Penn, 32 anni, primogenita della coppia sposata dal 1996 al 2010, che deve il nome alla loro passione per Bob Dylan. Sognava di fare regia, studiava cinema alla University of Southern California, è finita a recitare in famiglia, con suo padre in “Una vita in fuga” e col fratello Hopper in “Signs of Love”, dove interpretava una madre single alcolizzata, nella periferia americana governata dalla violenza. Un ruolo che l’ha colpita nel profondo perché, racconta l’attrice, salvarsi non è mai scontato per nessuno. Figuriamoci a Hollywood.

Come si prepara ad affrontare personaggi così complessi, con gravi dipendenze e scene madri multiple?

«Cerco di mettermi nei loro panni, penso come debba essere crescere senza una madre, con un padre assente, senza nessuno che si prenda cura di te. Non sono madre, non sono alcolizzata, ma conosco persone che lo sono state. Per “Signs of love” ho pensato a loro, credo che se avessi un figlio e una dipendenza simile finirei nello stesso modo».

Quando dice che “conosce persone” così, cosa intende?

«Sono cresciuta attorno a persone con problemi di dipendenza. Non parlo di persone della mia famiglia, ma di amici di famiglia, gente del mondo dello spettacolo».

Ha trovato liberatorio interpretare la “cattiva ragazza”, che dice parolacce, beve e incasina la sua vita e quella di chi la circonda?

«Totalmente. Interpretare una ragazza completamente diversa da quella che sono, calarmi in una vita altra, tutta da esplorare, è il motivo principale per il quale faccio questo mestiere».

Com’è dividere il set con Hopper, suo fratello?

«Avevamo già lavorato insieme nel film di papà “Una vita in fuga”, ma era stato molto diverso. Qui abbiamo diviso scene emotivamente forti ed era bello poter contare su di lui per affrontare quelle situazioni decisamente non facili. Trovo Hopper un attore incredibile per la sua verità e la vulnerabilità che esprime. Nella vita è un ragazzo molto umile, ma sul set brilla e sono fiera di vedere il suo talento crescere anno dopo anno».

Litigate molto anche fuori dal set?

«Litigavamo più quando eravamo ragazzini, magari per avere più attenzione dai nostri genitori, cose che del resto fanno tutti i bambini del mondo. La verità è che lavorare con la famiglia rimescola tutte le carte emotive».

Ovvero?

«Sfiora corde già toccate dalla vita vera. Quando ci vedete mandarci a quel paese, o abbracciarci forte, non so fino a che punto io e Hopper stiamo veramente “recitando”. Tra me e Hopper c’è un rapporto forte e sincero: siamo migliori amici oltre che fratelli, ed è normale, inevitabile, che la nostra storia e la nostra memoria personale riaffiorino sul set. La nostra chimica evidente funziona anche per questo motivo».

E con suo padre Sean come si trova a lavorare?

«Il sogno di chiunque è lavorare con il proprio attore preferito. Nel mio caso coincideva con mio padre. Sono molto vicina a lui, ci vogliamo davvero molto bene e siamo molto simili. Dividere il set con lui mi ha consentito di conoscere degli aspetti diversi che non immaginavo, ho scoperto un professionista estremamente generoso, collaborativo e aperto ai suggerimenti da parte di tutti. Con me è stato di grande sostegno, ero super tesa ed emozionata - insomma, stavo per recitare con Sean Penn! Era un mio grande sogno, è diventato realtà ed è stato catartico, terapeutico e indimenticabile». 

Ma è vero che è successo per caso?

«Verissimo, inizialmente lui doveva soltanto dirigere, doveva esserci un altro protagonista al suo posto (secondo alcuni rumors, Casey Affleck, ndr). Le cose poi sono andate diversamente per una serie di motivi fortuiti, e alla fine ho avuto la fortuna di recitare con lui: è stato come seguire una masterclass di recitazione. Ancora oggi quando ci penso la chiamo “la casualità perfetta” della mia vita, scattata al momento e al posto giusto».

Sente mai la pressione di essere la figlia di due attori così stimati nel mondo cinematografico?

«Cerco di non pensarci, non mi metto a confronto con loro. Sono di carattere indipendente, il ruolo della “figlia di” mi è sempre stato stretto, anche perché non sono cresciuta desiderando di fare l’attrice, tutt’altro. Ero a New York in un’agenzia di pubblicità, mi annoiavo, sognavo il cinema e lo studiavo all’università. Mi mantenevo facendo la modella di giorno e consegnando pizze la sera, ma il mio obiettivo era quello di arrivare alla regia».

I suoi genitori erano d’accordo?

«Macché, mi hanno detto subito chiaro: “Se proprio vuoi fare la regista devi prima capire che cosa provano gli attori sul set, o sarai una regista terribile”. Così ho iniziato a recitare (Dylan Penn ha debuttato nel 2015 in “Condemned”, ndr) consapevole di essere diversissima da loro e sperando di avere ereditato un barlume del loro talento».

Parliamo della sua generazione: che cosa hanno e che cosa manca ai suoi coetanei?

«Abbiamo la libertà di essere e amare chi vogliamo, superando ogni definizione, differenza e limite di genere. Ci manca però la gentilezza e il prenderci cura gli uni degli altri: se ne parla tanto, a me sembra che siamo una generazione di individualisti, soli e isolati. Eppure ci servirebbe così tanto fare rete».

Selen: «I miei 15 anni di castità dopo aver smesso con l’hard. Siffredi? Mi diede una frustata così forte che dovettero fermare la scena». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2023.

Parla l’attrice Luce Caponegro: «Sto scrivendo un libro. Non rifarei la pornostar, mio figlio lo scoprì a scuola»

«Non parleremo solo del passato, me lo promette? Perché io sono Selen ma sono anche Luce». E da 24 anni, quando ha lasciato il porno dov’è stata una regina accanto a Moana Pozzi, Selen non c’è più. Premi e film li tiene nel suo garage. Luce è una donna complessa che ha intrecciato gli opposti, la carnalità e la ricerca spirituale. Due mondi che hanno in comune l’energia. «A 15 anni ero una seguace di Sai Baba, il guru indiano, nessuno sapeva chi fosse».

Partiamo dal suo vero cognome. Lei all’anagrafe è Luce Caponegro, ed è un po’ sconveniente chiamarsi così nell’era del politically correct.

«Il mio cognome non mi piace. Poi ci ho fatto pace. Ma avrei voluto chiamarmi Luce d’Amore. Così si chiamava un amico pittore di mio padre. Quando mi sono riconciliata con papà (vengo da un contesto borghese e i miei erano molto ostili sulla mia scelta dell’hard), mi diede un quadro che il suo amico pittore aveva regalato a me da bambina. Era il ritratto di Artemide, la dea della luna crescente. Mi somigliava. Guardavo quel dipinto e mi dicevo, come vorrei essere lei. Selene in greco è la personificazione della luna piena; rappresenta la parte più oscura che dovevo cercare dentro di me. Io sono Luce e luna. Penso che bisogna perdersi per ritrovarsi, quando accetti di poterti perdere è lì che ti ritrovi. Quando scelsi Selen come nome d’arte non sapevo di Artemide. Mi sono detta, lo vedi che il destino esiste?».

In quale fase è della sua vita?

«Sono in una fase di equilibrio. Dopo quindici anni di castità, in cui ho fatto unicamente la mamma di mio figlio Gabriele che considero il dono più grande ricevuto nella vita, mi sento libera di tornare a fare l’amore, anche se può non nascere dal sentimento ma da un’intesa di simpatia e di intelletto. C’era una componente di esibizionismo nel fare sesso davanti a una cinepresa? Sì, certo, ma ho vissuto di estremi. In realtà sono timida, da quando ho smesso mi concedo pochissimo, non è facile venire a letto con me, ho uomini che mi hanno corteggiata per anni. Ma sono orgogliosa di quello che mi ha detto di recente una donna, e cioè che emano sensualità anche se porto un maglione a collo alto. Quando mi sono riallineata con me stessa, ho deciso che dovevo entrare in una nuova fase della mia vita».

Dunque?

«Mi stanno arrivando tante proposte. Tornerò a lavorare nello spettacolo, penso a un programma di estetica e benessere dove mi piacerebbe diventare una moderna Rosanna Lambertucci; penso a un talk in cui faccio delle interviste a tavola, si potrebbe intitolare A cena con Luce; penso anche a un programma di eros e cucina. Poi ho due desideri».

Quali?

«Mi piacerebbe che il cinema mi chiamasse per una parte non sexy, non mi sentirei più a mio agio. E vorrei partecipare a Ballando con le stelle. Ci sono percorsi, nella vita di una persona, obbligatori e necessari. Io mi sono sempre sentita una esploratrice della vita, una ricercatrice, e la mia prima ricerca è stata nei confronti della sessualità».

Cosa cercava dietro il piacere fisico?

«Volevo sentirmi più libera attraverso il sesso ma avevo anche una profonda curiosità del potere dell’erotismo; volevo superare i miei limiti. Come dice Oscar Wilde, per superare una tentazione bisogna abbandonarsi. Sto scrivendo per Cairo editore la mia autobiografia, sono a due terzi, mancano i capitoli che la gente si aspetta, quelli sull’hard, li voglio scrivere però ho delle reticenze nel mettermi a nudo, faccio fatica, avevo chiuso con quel mondo, devo ripensare cose a cui non vorrei più pensare».

Che madre è?

«Molto presente. Gabriele non è geloso di me, anche perché sa di essere il numero uno, anzi mi spinge a fidanzarmi. Ha saputo del mio passato dagli amichetti delle elementari. Tornato a casa mi chiese, mamma, hai mai commesso errori? Gli ho risposto che fumavo e mi ha guardato con un po’ di delusione per la bugia. C’era rimasto male ma poi mi disse, bambino com’era, che da giovani si commettono degli errori, aggiunse che mi voleva bene come sono e ci abbracciammo forte».

Perché ha smesso con l’hard?

«Perché era cambiato il mio modo di vivere la sessualità, mi era diventato impossibile fare sesso con uno sconosciuto, dovevo rispettare me stessa come donna. Se avessi continuato sarebbe stata solo una gratificazione economica e una scelta auto referenziale. Mi sono resa conto che stava diventando una gabbia che non mi rappresentava più. Sarei diventata la macchietta di me stessa. Dovevo andare oltre. Tutto il mondo dell’hard, produttori, registi, agenti, hanno cercato di trattenermi. Era scappata la gallina dalle uova d’oro. Così hanno assemblato i miei venti film, ne hanno fatto un collage in modo tale che sembra ne abbia girati molti ma molti di più. Quando ho smesso, nel 1999, fu una scelta scomoda, mi sono rimessa in gioco non sapendo se avrei trovato un altro lavoro».

Come fu accolta nel mondo dello spettacolo?

«C’è voluto coraggio perché ero circondata dai pregiudizi. Era come il peccato originale. Si sentivano tutti autorizzati a provarci. Sembrava un pedaggio obbligato. Per anni ho pensato che fosse una pratica rivolta a me, poi è scoppiato lo scandalo Weinstein e il Me Too ha scoperchiato il vaso di Pandora. Quando dieci anni fa (dopo tanti corsi e formazioni) ho aperto il mio centro estetico, alcune donne dicevano, chissà cosa succederà lì dentro. È anche lo scotto della provincia. Ma con tante altre donne ho creato una sorellanza, mi chiamano dottoressa, dopo essermi presa cura degli uomini ho riversato le mie energie sulle donne. Concepisco il lavoro come una missione. Per riuscire ho dovuto sgobbare dieci volte più delle altre donne».

La scelta della pornografia è una macchia indelebile anche per quanto riguarda l’amore vero, i sentimenti?

«Ti lascia un segno come lo può lasciare la velina di Striscia la notizia che quando lascia quel programma verrà sempre chiamata l’ex velina. E così di me dicono l’ex pornostar. Ma io negli ultimi 24 anni ho fatto tante altre cose a teatro e in tv. Tanti uomini in cui credevo mi hanno truffata, ho avuto uomini sbagliati, la mia risposta è che l’universo non mi vuole fidanzata o sposata. Mi vedo come una sacerdotessa che deve dispensare benefici e far star bene gli altri».

L’attrice Euridice Axen porta a teatro uno spettacolo su Moana Pozzi di Ruggero Cappuccio.

«Moana era la mia rivale. Euridice sostiene che la vera donna oggetto è la casalinga? Non sono d’accordo, la casalinga può essere stanca, esausta... Le donne oggetto sono quelle col velo in Iran e quelle che non possono studiare in Afghanistan».

I suoi primi passi?

«Appena maggiorenne ho lasciato tutto ciò che avevo, compresi i vestiti. Ho viaggiato, India, Pakistan. Autostop e sacchi a pelo. Ho cominciato a lavorare giovanissima nel mondo dello spettacolo. Tutto è cominciato in un lido di Ravenna, la mia città. In una spiaggia naturista un talent scout mi propose di fare un servizio per Playboy. Mi sono vista bellissima quando non pensavo di esserlo».

Rocco Siffredi non è il suo migliore amico: dice che lei gli ha chiesto di fare l’amore in tre, insieme col suo ex marito, che ha rinnegato il porno sputando sul piatto in cui ha mangiato, che però continua a farsi chiamare Selen…

«La storia dell’amore a tre l’ha inventata per screditarmi. Io mi faccio chiamare come mi piace, sono Luce e sono Selen, che è il mio nome più noto, non tutti mi conoscono col nome di battesimo. Siccome parliamo di spettacolo e di comunicazione, per essere più incisiva devo raggiungere il numero più ampio di persone. Luce e Selen, lo ripeto, sono la stessa persona».

Rocco ama le donne?

«Non le ama e non le odia: le utilizza. Con lui ho fatto il mio secondo film. La sera prima di girare, dato che eravamo giovani e con gli ormoni a mille, abbiamo fatto l’amore. Non è andata bene, lui dopo aveva delle scene e non voleva stancarsi. La sera a cena, davanti alla troupe ho detto, speriamo che domani andrai meglio. In quel film ero una ricca signora che andava a cavallo, lui era il mio maggiordomo. Gli chiedevo di preparare il bagno al rientro della mia cavalcata, Rocco prese il frustino con cui doveva accarezzarmi e mi diede una frustata così forte che dovettero fermare la scena. Quell’episodio mi traumatizzò. Non ho più voluto lavorare con lui».

Il porno è alimentato da tante ragazze dell’Est Europa.

«Mentre io ho fatto una scelta non dettata dagli aspetti economici, loro erano trattate male, venivano da povertà e miseria, arrivavano come se fossero su tanti furgoni, sul set io avevo l’adrenalina a mille e loro invece prima di fare sesso avevano un atteggiamento menefreghista, masticavano il chewing-gum, si ritoccavano il rossetto, si limavano le unghie. C’era chi con quei soldi si pagava l’università. Ma era come se il loro corpo fosse scollegato dalla mente».

Cos’è la trasgressione oggi per lei?

«È andare al ristorante e ordinare tutto quello che mi piace e non fa niente se mi fa male, oppure ricavarmi del tempo per me stessa».

Luce, se potesse tornare indietro...

«Non lo rifarei, che non è rinnegare ma una raggiunta consapevolezza di poter arrivare a quella stessa libertà in modo più leggero, ma sempre nella sfera sessuale. Avrei fatto calendari, cose così, come fanno qualsiasi show girl o influencer».

Estratto dell’articolo di Niccolò Fantini per mowmag.com il 22 febbraio 2023.

Selen torna a fare polemica su Rocco Siffredi, che però risponde. […] La storia racconta da Selen, infatti, sarebbe inesatta e avrebbe fatto storcere il naso a più di un cultore della Storia del Cinema per adulti in Italia. Ecco cosa non torna

[…] Sul Corriere della Sera, Selen afferma: «Rocco e le donne? Non le ama e non le odia: le utilizza. Con lui ho fatto il mio secondo film. La sera prima di girare, dato che eravamo giovani e con gli ormoni a mille, abbiamo fatto l’amore. Non è andata bene, lui dopo aveva delle scene e non voleva stancarsi. La sera a cena, davanti alla troupe ho detto, speriamo che domani andrai meglio. In quel film ero una ricca signora che andava a cavallo, lui era il mio maggiordomo. Gli chiedevo di preparare il bagno al rientro della mia cavalcata, Rocco prese il frustino con cui doveva accarezzarmi e mi diede una frustata così forte che dovettero fermare la scena. Quell’episodio mi traumatizzò. Non ho più voluto lavorare con lui».

Basta un click al computer, per controllare sui "movie database" del Web le diverse informazioni. Da ciò che risulta Selen aveva già girato 7 diversi film a luci rosse, ma insieme a Rocco Siffredi è accreditata per aver girato solo due pellicole.

La scena che ricorda nell'intervista si trova nel lungometraggio del 1993: "Selen pulendra in calore". Una scena di "dominazione", che in realtà non riguarda una frustata immotivata bensì è una serie e la scena è appositamente scritta in tal modo. Infatti nel classico preambolo al sesso, come si usava quando i film venivano impressi su pellicola e al fine di non sciuparne i costossissimi fotogrammi numerati, la scena veniva descritta nei minimi dettagli all'interno della sceneggiatura ben prima del ciack.

Nel film in questione è esattamente nei ruoli che ha descritto Selen oggi sul quotidiano, ma chiunque può visionare coi propri occhi che si tratta di una scena apposita e con molteplici frustate: durante la svestizione Selen viene prima accarezzata col frustino dal Rocco-maggiordomo e successivamente l'attrice si gira al fine di consentire la punizione col frustino sul proprio lato B.

Ovviamente si tratta di una finzione cinematografica, all'interno di un set e nei fotogrammi si nota il rallentamento dei colpi al momento del contatto col il sedere di Selen, che è anche evidenziato da primi piani d'antan. La scena dura parecchi minuti e, prima del sesso, il maggiordomo Rocco Siffredi spalma anche tutto il corpo di Selen con degli oli e dei profumi.

Ma in realtà loro due sono gli attori sullo schermo di un Cinema: la scena di Rocco e Selen è infatti intervallata nel montaggio con la scena reale che si svolge all'interno della sala cinematografica a luci rosse: una coppia eccitata tra gli spettatori del film, corre in bagno a consumare un rapido amplesso. Cinema d'altri tempi.

Mentre l'altra scena dove i due sono accreditati insieme come attori è un triangolo con un'altra attrice hard dell'epoca, in "Selen Superporca", che è un titolo successivo e uscito sui VHS a cavallo del 1993-1994.

Per chiarire la questione, MOW ha interpellato il leggendario Rocco Siffredi, che ci ha regalato (come sempre): stasera lancia un clamoroso appello pubblico a La Zanzara, su Radio24, proprio nei riguardi di Selen.

Rocco a MOW ha raccontato in esclusiva il sogno proibito di uno spettacolo speciale, quasi una masterclass della Siffredi Academy, ma con i valori della Golden Age del Cinema a luci rosse in Italia: "per riportare la rivoluzione che il Porno portò allora che è il sesso vero, quello degli anni 90, non quello che c'è adesso - racconta Siffredi in esclusiva a MOW - Giuro, sarebbe un sogno per me: ritornare tutte in voga, per fare qualcosa di fantastico. Lo dico a prescindere dal film, che magari oggi non vogliono più fare, ma per l'orgoglio degli anni '90: quante s**e abbiamo fatto fare in giro? Ma perché vergognarsi oggi di questo? Io vedo sul palco: Cicciolina, mano nella mano con Eva (Henger), mano nella mano con Selen, poi Marina Lothar, poi Lilli Carati, Rossan Doll.... ma ci siamo dimeticati di quante s**e ci hanno regalato?"

Barbara Costa per Dagospia l’11 dicembre 2023.

Ho fatto di tutto: orge, triangoli, sabba, amori saffici”. E questo prima del porno! A parlare così era Selen, quando era pornostar, ma che dico pornostar, pornodiva! È Selen lontana anni luce da come la conosciamo oggi, dalla Selen che è oggi, la Selen che son – quanti? – mesi, anni, che ci promette un’autobiografia, il titolo c’è ("Da Bambina Sognavo di Volare"), l’editore pure (Cairo), il capitolo – o più d’uno? – che riguarda i suoi 8 anni nel porno pare – dice l’autrice – stenti a completarsi.

L’aiuto io, anzi no, la aiutano e alquanto Andrea Di Quarto e Michele Giordano, i quali nel 1996 hanno intervistato Selen, a casa sua, col marito suo di allora. Intervista che è perla tra le perle del porno che fu, in Italia, dagli albori ai '90, narrato nel tomone "Moana e Le Altre", alla carlona riedito (DiGi ed., e che caz*o sono tutti quei refusi?).

 E che ci dice Selen quando ancora il porno le piaceva e sul porno italiano e mondiale vi regnava? I '90 sono stati i suoi anni, dopo la morte di Moana Pozzi c’era lei, c’era Selen, un corpo pazzesco, ambiziosa come nessuna, e fiera di ciò che di porno faceva. Selen nel 1996 ha 29 anni, è sposata con Fabio con cui è fidanzata da quando di anni ne aveva 15, convive con lui appena compiuti 18.

Selen non sceglie il porno per soldi, il contrario: “Io vengo da una famiglia molto benestante, diciamo pure ricca”, evidenzia Selen, “papà è un noto industriale. Io già da ragazzina ero una ribelle, e non mi piaceva il mio ambiente familiare, mi metteva a disagio: sto meglio con gente di tutt’altra estrazione sociale, come Fabio. Io e lui ci siamo uniti a un gruppo di Indiani Metropolitani, con cui abbiamo girato il mondo. Siamo stati ovunque, una vita che m’ha portato a esplorare un sacco di conoscenze, sesso compreso. E ho fatto di tutto”.

Ma Selen come entra nel porno? Tornati in Italia, “con Fabio e la tribù siamo andati a vivere in montagna. Una sera in discoteca raccolsi un successo enorme ballando sul cubo. Il proprietario mi mise sotto contratto” (ehi, ma… non era stata scoperta da un talent scout di Playboy?), “Fabio è diventato mio manager, poi siamo stati contattati dal regista hard Eugenio De Lorenzi per "Orgia di Compleanno", porno dove c’era dentro anche Luana Borgia, pure lei al debutto. Ho accettato”.

Selen da subito ottiene gran attenzione. La chiama il regista Alex Perry, per "Scandalose Signore di Provincia": “Il primo salto di qualità, ma quello definitivo è stato con Mario Salieri”, che dirige Selen in "Sceneggiata Napoletana", innalzandola a pornostar. E Selen, prima di cimentarsi con Salieri, va a lezione con un insegnante dell’Actors’ Studio! Salieri è cineasta d’autore, ma pure l’unico “a offrire certe cifre: diciamo pure che per le cifre che prendono le altre attrici italiane… io non rispondo al telefono!”.

Selen diviene celebre a livello internazionale, e i suoi genitori per la vergogna lasciano l’Italia: “Sono andati a vivere a Parigi, per loro sfortuna, io lì sono famosissima, e pertanto sono tornati indietro”. Selen è pornostar tra le pornostar e può pretendere contratti stellari con clausole particolari: “Io non giro porno con neri, con travestiti, né con animali. E non faccio pissing. Io lavoro nell’hard perché mi piace e le cose che sessualmente non mi attraggono io le rifiuto. I neri sono una di queste: nessun razzismo”. Ed ecco la domanda clou: “La storia che Selen è l’unica che sui set gode davvero non è una favola?”, “È tutto vero”, giura Selen, “io con l’attore instauro un gioco erotico già giorni prima di girare. Spesso facciamo sesso fin nella mia camera d’albergo. Con me nessuno ha toppato mai”.

Nessun rimpianto? A Selen pornodiva il porno e il suo ambiente “piace, intendiamoci, io sono l’unica italiana inserita nel circuito del grande hard. Io frequento i festival più prestigiosi, io giro in posti meravigliosi, ville, piscine, limousine, aerei pagati, io faccio sesso con attori e attrici stupendi… niente male, no? All’opposto c’è chi raccoglie l’eredità del postribolo... vedi queste attrici porno brutte, ignoranti, e sporche dentro e fuori. Quelle sì che ti fanno vergognare”.

 La Selen del 1996 ha progetti in TV, purtroppo è “saltato tutto”, e perché? “Vuole proprio che glielo dica? Volevano che scendessi a compromessi: fai le vacanze con me, i giorni della trasmissione dormi con me… Io faccio porno, non le marchette!”.

Questa era la Selen di tanto tempo fa. Dopo tre anni da questa intervista, molla il porno, e del porno non vuole più parlare. Di certo questo mio pezzo – e la riedizione del librone da cui questi stralci di sue dichiarazioni sono tratti – non le farà piacere. Ma è una realtà innegabile: Selen nel porno ha lasciato un vuoto non colmato, con milioni di fan tuttora in lutto. Nessuna italiana nel porno ha più avuto la genuinità di Selen, né allora, né oggi che il porno è tutt’altra roba. Inutile che Selen sbuffi che imperterriti, a ogni intervista, le chiedano del porno. Lei dopo il porno ha fatto “19 anni di TV”, sicuro, ha fatto altro cinema, ha fatto la dj. Ha totalmente mutato pensiero, vita. Ma nel porno è indimenticata.

Barbara Costa per Dagospia l'11 giugno 2023.

Ma Rocco Siffredi non doveva sbaraccare tutto? E smetterla una volta e per sempre, col porno? E invece è ancora porno-arzillo ma non solo, si allarga, assume segretarie! E che femmine! Perverse, audaci e dissolute, femmine a cui non basta mai, e soprattutto a una, mmmmmm, che amazzone! Selva Lapiedra è brasiliana, di etnia amerinda, nata e cresciuta fino ai sette anni “in un paesino dell’Amazzonia nella giungla”, ci svela, “un paradiso mowgliano”, di nuovo parole sue, da cui i genitori l’hanno tolta trasferendosi in Spagna.

Questo porno astro nascente di “caldo caramello” – il complimento più in voga nelle porno-chat, dove i bravi porno-fan non si fanno contagiare da perbenismi e vi aggiungono “esplosiva samba di caz*i” e ubriachi di lei non sanno decidersi a staccare la vista dalle sue natiche, ma pure da ogni lembo del suo fisico all natural, e però concordano, che non si tinga più i suoi riccioli di rosso – ha 25 anni, ed è attiva nel porno dal settembre 2022. 

Selva (nome d’arte, in onore dei suoi impetuosi natali, anche se all’inizio aveva optato Merida) Lapiedra (cognome d’arte, è una scoperta del manager Ramiro Lapiedra, fa parte del suo clan) in questi mesi di porno set ha cavalcato a fondo peni i più grossi e furiosi. Decisasi per il porno – faceva tutt’altro, si occupava di fotografia – Selva s’è trasferita a Budapest, qui sperimentandosi in porno produzioni ardue, crude. 

Come porno debutto, ha scelto di ingegnarsi tra più maschi (più "aste"): l’ha trovato abbastanza complicato, ma l’ha risolto così bene che ha già in carnet prove anali e performance gonzo d’attrito. In aggiunta, ha superato un Pierre Woodman Casting X che, per i porno criticoni, sottolineo trattasi di casting "finti", in cui una attrice è "finto" provinata, e "finto" distrutta in amplessi duali e con penetrazioni lancinanti, divampanti di durezza calibrata e in precedenza concordata. 

Selva Lapiedra è stata presa da Rocco Siffredi per un episodio della sua recente serie "Rocco’s Perverted Secretaries", e ditemi se la fanciulla non ottiene buoni voti nei pornografici spermatici incroci con Mark Chapman, veterano deciso e imperioso. “Quelle realizzate da Rocco”, ci annuncia Selva, “sono le prime mini orge della mia vita!”. E non le sono dispiaciute. Per niente.

Ma se la preferite meno porno strong, virate a qualche lesbo, di Selva, ad esempio quelli girati con l’incantevole Tiffany Tatum (ma quanto attrae la pelle di Tiffany? 'sta ninfa sa solo porno potenziarsi). Non sono pervenute scene con Rocco e il suo inesausto maxi pene fuori e dentro e dappertutto sul corpo di Selva. Non ancora. Io ve l’ho scritto. Più volte. Al di Rocco (ennesimo) annuncio di porno ritiro, non ci credo!!! Negli USA lo aspettano. Con un esercito di nuove attrici da fargli "assaggiare", mettiamola così!!!

E che non vedono l’ora!!! Pure Selva Lapiedra non vede l’ora. Di fare porno e di darci sotto, caparbia, misurandosi col sesso il più cruento. Le piace. Vuole scatenarsi a feticismi: l’ha capito "a letto" col collega Marcello Bravo, poi con la moglie di quest’ultimo, Little Caprice. Un’ulteriore orgasmica conferma l’ha ottenuta facendosi stordire da membro, bocca e sperma di Vince Karter. Selva Lapiedra non torna indietro. Nel porno vuole restarci e presto arriveranno suoi nuovi video. Più anal, schizzi sul viso, in gola, più gole profonde. È una promessa. La sua agenda scoppia di porno riprese.

L'antiquariato, la Ferrari bianca e il ristorante. Serena Grandi: "Con i libri tutti possono sognare". Isa Grassano il 12 Giugno 2023 su Il Giornale.

L'attrice cult degli anni 80 oggi impegnata nella scrittura di romanzi racconta il suo rapporto con il successo e il denaro in esclusiva a Il Giornale.it. Tra alti e bassi, che non esita a riconoscere, la sua forza sta nell'ottimismo e nella sua indomita passione per la vita 

Serena Grandi, attrice e scrittrice 

“Non sono mai stata una formichina, ho sempre avuto le mani bucate. Ho sempre pensato che quello che guadagnavo era così bello ed era bello spenderlo. Quelli che sono ricchi veramente sono coloro che hanno saputo risparmiare, io invece sono l’esatto opposto”. Serena Grandi, star del cinema italiano degli anni Ottanta e ora dedita alla scrittura, ha un rapporto molto controverso con il denaro, definendosi più cicala. Nella sua biografia Serena a tutti i costi (Giraldi Editore) scrive che le attrici, all’epoca, dovevano seguire la regola delle tre esse: sesso, soldi, successo.

Quanto sono importanti i soldi per lei?

“Sono così importanti che non li ho mai tenuti. Sin dall’inizio. Al solo pensiero che avrei avuto un compenso per un lavoro, l’avevo già speso (ride, ndr). Mi viene in mente mia madre, come scrivo anche in una delle lettere che compongono il libro, quando diceva che non si è mai troppo ricche, né troppo magre. Aveva ragione."

Cosa ha acquistato con il guadagno del primo lavoro importante? 

“Ricordo la gioia del primo stipendio, anche se ovviamente ne ho lasciato un po’ a casa, alla mamma per contribuire anche io alle spese. Poi appena ho avuto la possibilità ho acquistato un piccolo appartamento a Roma proprio di fronte a quello dove abitavo e l’ho affittato. Volevo avere la possibilità di avere la finestra della mia abitazione – una casa che mi era stata assegnata da un ente statale, allora abitavo ancora da sola e ne avevo i requisiti - che guardava quella di proprietà messa in affitto e mi sentivo gratificata. Cominciavo a mettere a frutto i sacrifici." 

L’oggetto a lei più caro? 

“Un bracciale in oro regalatomi da quello che poi divenne mio marito, Beppe Ercole, con i diamanti a comporre la scritta: "Sono pazzo di te". Quella dichiarazione fu una sorpresa e un’emozione. Allora ero una fan di ogni accessorio prezioso. Ancora lo conservo gelosamente e, ogni volta che lo indosso, mi riporta a Venezia, quando lo indossai per la mia prima volta alla Mostra del Cinema. Molti altri gioielli, invece, che negli anni mio marito mi aveva regalato, li ho, nel tempo, cambiati o venduti. Del resto non è che tutta la vita sei sempre la star, a volte cambiano le necessità e tornano utili”.

Non regalatemi fiori, ma Cartier, questo il suo motto. Ha ricevuto molti regali?

“Ho sempre sostenuto che i fiori appassiscono, i gioielli restano. E di regali ne ho avuti diversi. Una borsettina d’oro, sempre da mio marito, in occasione dell’uscita del film Miranda, diretto da Tinto Brass, uno dei miei primi grandi ruoli da protagonista. Aveva la M di Miranda tempestata di brillanti. Uno sfarzo. Ricordo che la indossavo il giorno del nostro matrimonio, su un elegante tailleur nero, e vuoi per la fretta, vuoi per l’emozione, la lasciai sul taxi, ma per fortuna il tassista me la riportò. Pure Silvio Berlusconi, una volta mi fece arrivare, dopo una puntata in uno dei suoi programmi in tv, un bracciale con molto bello brillanti e un bigliettino di complimenti. Onestamente non ho mai saputo se è stato lui direttamente o un’idea del suo entourage. E poi una volta addirittura una Ferrari bianca – la trovai infiocchettata sotto casa - da un personaggio che meglio non citare. Io poi ero già sposata, e ho prontamente rispedito la macchina al mittente." 

Qual è il suo rapporto con l’arte, investe in opere d'arte? 

“Amo l’arte e in passato ho comprati molti quadri, soprattutto nel periodo in cui ho avuto un piccolo negozio di antiquariato e li ho sempre portati in tutte le case che ho cambiato. Sono soprattutto firmati da artisti danesi. E poi ho diverse gouache napoletane, quadri dipinti con acquerelli. Certo mi sarebbe piaciuto avere uno Schifano, o qualcuno dei macchiaioli della scuola napoletana”. 

Si occupa direttamente lei dei suoi affari? 

“Ho un agente che si occupa di un certo tipo di fatturazione. Per gli affari ci penso da sola e infatti ho sempre sbagliato (ride ancora, ndr). Un tempo ero seguita ma oggi il lavoro è molto calato, gli scrittori non guadagnano molto. Anzichè scegliere di dedicarmi alla scrittura avrei dovuto optare per altro di più fruttuoso."

È appassionata di Borsa e temi finanziari? 

“Assolutamente no. Se mi arriva una lettera con dei numeri, che poi di solito è una lettera di una banca, già mi sento male. Odio tutto quello che è legato ai numeri e ho sempre avuto un’invidia verso chi giocava in Borsa, tipo una mia cugina che riusciva a guadagnare bene. Non so nemmeno cosa siano le criptovalute, per me è parlare arabo e ovviamente ho declinato l’offerta quando mi hanno proposto di investire. Resto un’artista."

Nel suo romanzo L’Uomo venuto da Po ricorre spesso il tema del lavoro. C’è qualche riferimento ad attività personali? 

“La storia ovviamente è romanzata e per quel che mi riguarda sia comprando case che piccoli negozi di antiquariato ho sempre ricavato il giusto, meno bene mi è andata con il ristorante a Rimini. Lì è stato puntare sul nero ed è uscito il rosso. Un negozio lo gestisci perché sei stata sposata con uno del mestiere, per il ristorante devi essere del mestiere. Ecco perché ho toppato." 

Come sono cambiati i cachet degli artisti? 

“I tempi sono cambiati. Una volta si gestiva tutto con gli esercenti del cinema e le grandi produzioni avevano a che fare con loro. Oggi non capisci più se lavori per una piattaforma o sei sostenuta da mille brand. Le paghe sono totalmente diverse. Non credo che più di tanto girino soldi e certo ho sempre la sensazione di non guadagnare abbastanza, ma di adeguarmi." 

Sta lavorando a un nuovo romanzo, i suoi personaggi sono ricchi? 

“Sì molto ricchi. La mia fantasia si sbizzarrisce per la ricchezza dell’arredamento, del lavoro. Ho descritto la casa in Provence della protagonista, ma non sveliamo cosa fa, con mobili Biedermeier, cuscini di raso rossi, lenzuola di seta, ceramiche preziose, peonie fresche ogni mattina. Insomma il meglio che ci sia e mi sto divertendo molto. Almeno tra le pagine possiamo sognare tutti."

Estratto dell’articolo di leggo.it il 14 gennaio 2023.

 […] Si è concluso con una assoluzione il processo a carico di Serena Grandi, l'attrice 64enne che doveva rispondere di insolvenza fraudolenta. 

 Serena Grandi assolta, il fatto non sussiste

Era finita a processo davanti al Tribunale di Arezzo dopo un soggiorno in un b&b di lusso nel 2018 al termine del quale i proprietari lamentavano il conto non pagato e danni alla struttura. L'attrice era stata nella casa insieme al compagno aretino di allora, scrive il «Corriere di Arezzo» dando la notizia dell'assoluzione. «Il fatto non sussiste» ha sentenziato il giudice Antonio Dami per la protagonista di Miranda, Monella e tanti altri film che l'hanno resa sex symbol. 

Dagospia il 23 marzo 2023. Da Un Giorno da Pecora

Compie 65 anni (anche se si confonde e dice di averne uno di più) ma se ne sente 28. La festeggiata in questione è Serena Grandi, celebre attrice e sex symbol italiana, che oggi è stata ospite di Un Giorno da Pecora, la trasmissione di Rai Radio1 condotta da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Che in apertura di intervista le hanno fatto gli auguri chiedendole: quanti anni compie? “66, ma ne sento 28. Sto vivendo una nuova fase della vita, come autrice di libri crime”.

 Lei è nata nel 1958 però. Quindi compie 65 anni, non 66. “Avete ragione, ma ormai non ci capisco più niente, in effetti è una notizia straordinaria quella che mi date!”, ha scherzato a Rai Radio1 Serena Grandi. Oggi è innamorata? “Sono innamorato dell’amore. Uscirei solo col criminologo Garofalo, con cui parlerei di crimine”. E’ vero che ha avuto centinaia di uomini? “Si, se guardo il mio database è così”.

Chi le è rimasto più nel cuore? “Magari si seccherà ma nel mio cuore è rimasto Adriano Panatta. Quando l’ho conosciuto io aveva 30 anni, era un figo pazzesco. Era simpatico, trasgressivo, molto meglio di Berrettini, che mi pare un po’ ‘moscio’…”

 Tra gli sportivi chi altro ricorda con piacere? “Giorgio Chinaglia. Grandissimo fico, peccato però che aveva un solo problema”. Quale? “Alzava il gomito, e quando lo faceva era duro condividere alcune cose”.

Quanto c’è di vero nel  suo ‘no’ a Gianni Agnelli? “Lui era giovane ma per lui sarei stata una delle tante. Io non sono una delle tante, nemmeno per Agnelli. L’unico che non mi ha fatto sentire così davvero è stato mio marito, scomparso dieci anni fa”. Conobbe anche Silvio Berlusconi “Non credo gli piacessi - ha detto a Un Giorno da Pecora - forse ne aveva altre, fatto sta con me non ci ha mai provato.

 Ai tempi ero sposata e un uomo serio non ci prova in questi casi. Comunque firmai un contratto con lui per tre film e lui mi disse che sarei diventata una star del cinema”. Domenica Tinto Brass compie 90 anni. Cosa gli augura? “Che resti com’è sempre stato, il vero cinema me lo ha insegnato lui”.

Serena Grandi: "Ho avuto 100 uomini, Panatta il più figo di tutti". Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 23 marzo 2023.

L’attrice, che il 23 marzo ha compito 65 anni, ha risposto alle domande (anche) sull’amore di Giorgio Lauro e Geppi Cucciari in radio. Non sono mancate confessioni su Berlusconi e Gianni Agnelli

Nel giorno del suo 65 esimo compleanno Serena Grandi è stata ospite di 'Un Giorno da Pecora', la trasmissione di Rai Radio1 condotta da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Alla domanda dei conduttori se oggi è innamorata lei ha risposto ''Sono innamorato dell’amore. Uscirei solo col criminologo Garofalo, con cui parlerei di crimine''. Un botta e risposta sull’amore culminato nella domanda :”E’ vero che ha avuto centinaia di uomini? ''Si, se guardo il mio database è così'', ha ammesso l'attrice. Chi le è rimasto più nel cuore? ''Magari si seccherà ma nel mio cuore è rimasto Adriano Panatta - ha rivelato - Quando l’ho conosciuto io aveva 30 anni, era un figo pazzesco. Era simpatico, trasgressivo, molto meglio di Berrettini, che mi pare un pò 'moscio'''.

E poi un riferimento a quella voce di gossip con l’Avvocato Agnelli: ''Lui era giovane ma per lui sarei stata una delle tante. Io non sono una delle tante, nemmeno per Agnelli - ha raccontato la Grandi - L’unico che non mi ha fatto sentire così davvero è stato mio marito, scomparso dieci anni fa''. Infine una domanda anche su Silvio Berlusconi: ''Non credo gli piacessi - ha ammesso - Comunque firmai un contratto con lui per tre film e lui mi disse che sarei diventata una star del cinema''.

Sergio Caputo e i 40 anni di «Un sabato italiano»: «Ero un art director con l’hobby della musica, ma in quelle canzoni si rivedono tutti». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera l’1 aprile 2023

Il cantautore e chitarrista festeggia l’anniversario con un tour per big band: «Ai miei concerti anche adolescenti e famiglie»

Quarant’anni fa «Un sabato italiano» fotografava il momento di passaggio fra gioventù ed età adulta con un indefinibile mix di leggerezza e malinconia, raccontando le notti inframmezzate da birre, amicizie, amori e sigarette. Sergio Caputo, in quell’aprile 1983, era lontano dall’immaginare che il suo primo album sarebbe diventato un classico della musica italiana, tanto da portarlo ora a festeggiare l’anniversario con un tour con big band, in cui suonerà tutto l’album più altri successi, che parte il 12 aprile dal teatro Lirico di Milano (data zero il giorno prima a Genova, poi 26 aprile a Roma e 28 a Napoli): «È un evento importante per me. Non so se ci sarà un cinquantennale, non so se sarò vivo né se sarò in grado, anche se me lo auguro. Questo lo vedo come uno show in evoluzione che continuerà ad andare avanti. Potrebbe diventare un musical o qualsiasi altra cosa».

Quando è nato «Un sabato italiano» faceva tutt’altro lavoro: «Ero un promettente art director di una grossa agenzia pubblicitaria, ma avevo questo hobby della musica che stava prendendo il sopravvento — racconta —. Facevo una vita spericolata, un po’ da vampiro. Di giorno lavoravo su progetti importanti e di notte giravo tra i locali in cui si suonava, dal jazz al punk, assorbendo tutto».

L’età permetteva di non pensare al sonno perso: «Dormivo dalle 18.30 alle 23, mettendomi la sveglia. Poi con gli amici decidevamo l’itinerario della serata». In quegli anni «si respirava il sollievo dopo i conflitti e le paure degli anni 70», ricorda: «Ne è nato un album basato su emozioni elementari, sull’impazienza di vivere il futuro unita alla paura di buttarsi nel mare aperto. È un momento difficile da identificare, ma comune a tutti, senza agganci di circostanze o di tempo». Per questo, secondo Caputo, che oggi di anni ne ha 68, il disco non è mai invecchiato: «L’unico modo in cui mi spiego che un album degli anni 80 sia ancora attuale è che parla di cose che tutti possiamo provare».

Ai suoi concerti, il cantautore e chitarrista romano accoglie ormai diverse generazioni: «Ci sono adolescenti che sanno tutte le parole a memoria e anche intere famiglie. Non me lo sarei mai aspettato». Caputo non immaginava neanche che avrebbe fatto il musicista per tutta la vita, con una solida carriera nel jazz: «Di indole sono timido e schivo, ma sul palco divento un’altra persona: mi scatta quella marcia in più che non pensavo di avere e poi quando scendo dal palco ricordo molto poco dei concerti, come se fossi stato in un’altra dimensione». Proprio la sua indole l’ha portato a vivere prevalentemente all’estero, prima negli Stati Uniti, per 12 anni, e ora in Francia: «Sono più sereno a stare in un posto dove non vengo identificato. Anche se qualche anno fa, con la mia famiglia, siamo scampati per miracolo a un attentato molto grosso, preferisco non dire quale».

Le sue notti, rispetto agli anni 80, sono diventate meno spericolate: «Non potrei più fare la vita di quel periodo, né lo vorrei. Continuo a cantarla perché è rimasta nel tempo, ma adesso dopo i concerti mi piace fermarmi nel bar dell’hotel per bere qualcosa e stare un attimo con la band e non vado sicuramente in giro per locali. Loro invece sì». Caputo si tiene lontano anche dalla scena musicale odierna: «Non conosco i nuovi artisti, vivendo all’estero non seguo granché, ma è sotto gli occhi di tutti che c’è molta musica usa e getta — dice —. Come fai a prendere sul serio canzoni che hanno magari dieci autori? Non so quante ce ne ricorderemo fra 10 anni. Io qui in Francia ascolto la radio e sento le canzoni vere, quelle che hanno passato l’esame di maturità del pubblico».

Anche per questo ha venduto il suo catalogo, così come hanno fatto tanti grossi cantautori internazionali: «Ho ceduto quel che era di mia proprietà dal 2008 in poi. Così gli album verranno gestiti meglio di come avrei potuto fare io e ho la certezza che mi sopravviveranno».

Sergio Castellitto: «Quando è nata mia figlia sono corso in ospedale vestito da prete, per fortuna mi hanno fatto entrare».  Ginevra Barbetti su Il Corriere della Sera il 13 Gennaio 2023.

L'attore porta in scena Zorro, un testo scritto dalla moglie Margaret Mazzantini, al Puccini di Firenze 

È la seconda volta che Sergio Castellitto porta in scena un testo scritto dalla moglie Margaret Mazzantini. Dopo Manola, romanzo visionario che racconta gli opposti archetipi della femminilità, nel 2004 arriva Zorro, eremita sul marciapiede, vagabondo per circostanze della vita, in scena al Teatro Puccini di Firenze, domani (ore 21) e domenica (ore 16.45) «È storia di un uomo “normale” come la società lo definirebbe» spiega l’attore, regista dello spettacolo: «che a un tratto, per circostanze della vita, perde tutto quello che gli appartiene, tra beni affettivi e materiali. Gli resta però addosso la dignità, che è cosa più preziosa». 

La strada come una cartina tornasole del mondo: per certi versi un punto d’osservazione privilegiato. 

«Paradossale, ma vero. Il suo sguardo è disincantato, la sua lettura a voce alta non ha nulla da perdere, come il giudizio che ne deriva. Serve coraggio per vivere, in certi casi ancora di più, quando devi chiedere aiuto e metterti dalla parte degli ultimi. La dignità è un fatto interiore, un sentimento profondo e personale che non ti garantisce di certo la società civile, nemmeno col rispetto ligio delle sue regole. È «il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me», come scriveva Kant, e come la intendono i grandi filosofi». 

Nella solitudine di Zorro c’è una grande libertà. 

«Libertà che a me, uomo cosiddetto “normale” e sicuramente privilegiato, non è concessa. Poi c’è la preziosità del tempo, di uno spazio senza cornice. In un passaggio del testo, dice: «Per me la vita è un giorno dall’alba al tramonto» ogni giorno un’esistenza, una vita che scorre tra il sole e la luna. Oltre la metafora poetica, dietro c’è senz’altro l’ombra della solitudine, del dolore, della sconfitta, ma il testo, a tratti quasi clownesco nella sua genialità, riesce a farlo sempre svincolare dalla tristezza». 

Dice anche che l’amore è nel silenzio, nel pensiero. 

«In quello spazio dove la forma segue le onde del mare, prende increspature, acquista forza. Apparentemente siamo tutti liberi, ma in realtà guardiamo fuori mentre restiamo chiusi in una gabbia di relazioni, rapporti, doveri». 

Zorro è libero nel dire quello che pensa, sempre. 

«Ed è tanto, se non tutto. Nella tradizione teatrale classica la verità la dice il matto, il clown. La dice solo chi può permettersi di dirla. Noi “cormorani”, come ci chiama lui, siamo costretti costantemente a dissimularla, nasconderla, metterla sotto codice. Il suo “osservatorio” è disincantato, e si scioglie con naturalezza nel raccontarsi. È un testo quasi allegro, nella sua drammaticità, leggero». 

Ci sono delle assonanze tra il mestiere dell’artista, del suo errare alla ricerca di un senso, e quella del nostro eremita? 

«Rispondo prendendo a prestito un concetto che Margaret mi ripete spesso: Noi attori siamo dei clochard che ce l’hanno fatta. Siamo dei girovaghi, è vero che c’è un’erranza nella nostra essenza. Ogni giorno salendo sul palco scriviamo una pagina nuova, bianca, di fronte a spettatori nuovi, umanità ed energie diverse». 

La scenografia vera di questo spettacolo sono le parole. 

«E le immagini che quelle parole compongono. Proprio per questo non ho voluto mettere in piedi una scena troppo articolata. Ci sono oggetti simbolici: un tavolo, una panchina, un lampadario. Attraverso questi segni il pubblico ha la libertà di comporsi il proprio racconto immaginario. Il teatro è un posto in cui tu infili la mano e tiri fuori quello che ti serve».

Quella di quest’anno è una riedizione dello spettacolo che ha portato in scena vent’anni fa: cos’è cambiato nella sua costruzione? 

«Resta forte il tema della solitudine, il timore di perdere improvvisamente tutto. E non mi riferisco solo ai beni materiali, parlo di vicinanze affettive e alla sicurezza che portano. Zorro si trova solo, ma rafforza il legame con se stesso, il vero patrimonio che ognuno di noi dovrebbe preservare. Direi che nello spettacolo tutto è rimasto com’era. Purtroppo temo sia fuori dalla porta del teatro che le cose sono peggiorate». 

A lei è mai venuta voglia di disancorarsi dal quotidiano?

«Faccio un mestiere che mi permette di nascondermi sempre dietro le vite degli altri. È un lavoro di fantasia e immaginazione, che gli altri mestieri non prevedono. Per questo sono un privilegiato, ma spesso anch’io ho avvertito la voglia irrefrenabile di allontanarmi dai doveri». 

Tanti i ruoli che ha interpretato, figure significative che hanno raccontato l’Italia. 

«La gioia è nell’offrire delle storie, esserne il testimone, raccontarle a chi c’era e a chi deve ancora sentirle. Il riscontro per la fiction su Carlo Alberto Dalla Chiesa è stato molto positivo, anche da parte delle nuove generazioni. È un buon segno, significa che c’è voglia di sapere, bisogno di conoscere. Questo tipo di successo per me vale il doppio». 

Restiamo sulle nuove generazioni, coi suoi figli: Pietro con le sue opere prime, tra regia e scrittura, ha avuto un bel successo. Maria esce col suo primo romanzo. Poi Anna, Cesare. Insomma, la poliedricità è il risultato dell’avere una bella stoffa. 

«Gli abbiamo dato una grande libertà, e mi pare che questa carta se la stiano giocando in modo consapevole, responsabile e creativo. Il loro percorso è molto diverso dal nostro, per ovvi motivi generazionali e di vissuto. Siamo felici, soprattutto di non avere figli replicanti di quanto abbiamo fatto, o stiamo facendo, noi. Ci lega un amore profondo, e spesso sono io a imparare». 

Qual è l’ultima cosa che ha imparato? 

«Certi modi d’avvicinarmi alla vita». 

E lei com’era a trent’anni? 

«Ansioso, nevrotico, costantemente preoccupato e in allarme. Poi per fortuna è andata bene, e ho dimenticato quegli stati d’animo in salita, ma continuo a costruire». 

È vero che quando è nata Maria è dovuto correre in ospedale vestito da prete? 

«Stavo girando Don Milani e avevo addosso una tunica con dei pantaloni. Quando mi chiamarono dicendomi che mia moglie stava per partorire, sono partito com’ero, vestito da prete. Una volta arrivato urlai: «Sono io il padre!», per fortuna mi hanno fatto entrare».

Sergio Rubini e il viaggio dalla Puglia alla Scandinavia: «In Norvegia da Tina. Lei mi lasciò i collant nel letto e sua madre mi cacciò». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera venerdì 11 agosto 2023.

L’attore negli Anni 70 solo adolescente affrontò la lunga tratta: «Avevo 17 anni, la conobbi e mi cambio per sempre». Si sono amati, rincorsi, perduti e ritrovati, fino all’addio 

In un viaggio in treno per l’Europa, Sergio Rubini conobbe una ragazza norvegese. Macinando chilometri su chilometri, si sono amati, rincorsi, perduti, ritrovati, fino all’addio. Con l’amico d’infanzia Nardino, con cui condivide i ricordi d’infanzia negli Anni 70 a Grumo Appula, nella Puglia più retriva e agricola, entrò in uno scompartimento dove c’erano quattro ragazze. Loro due erano allampanati e di carnagione scura.

Che anni erano?

«Gli anni del Nord Europa, del mito delle bionde svedesi, delle donne libere, della libertà sessuale. Nello scompartimento c’erano due ragazze italiane e due straniere. Io e Nardino familiarizzammo con le italiane che erano state ospiti da lei, Tina Hartvig, la prima donna che ho amato nella mia vita. Donna, insomma… Aveva 17 anni. Bionda, mi sembrava bellissima».

E la puntò.

«Le ronzavo intorno come un moscone. Mi invitò ad andare a casa sua, con una libertà impensabile per una minorenne italiana. Quando ripartii, pensavo non le importasse nulla di me. Però Tina accompagnandomi alla stazione si mise a piangere. La bombardai di lettere d’amore che lei corrispondeva. Io dovevo frequentare il secondo anno di Accademia d’arte drammatica, lei andava al liceo. Senonché zio Mario, il fratello di mio padre, mi diede 100 mila lire che mi permisero di tornare in ottobre ospite da Tina in Norvegia. Lei mi insegnò l’inglese, mi dava le parole. Passammo giorni felici. Presto avvenne un dramma».

Quale?

«Io, ragazzo del Sud, invitato da lei a casa sua, davo per scontato che i suoi genitori sapessero tutto di noi. Avevano una villa su due piani, in un parco. Tina è figlia di uno psichiatra e di una esponente del partito conservatore. I genitori vivevano al piano superiore. Ho vissuto lì dieci giorni. Quando andavo a dormire, sgattaiolavo dal letto e mi infilavo in quello della stanza di Tina. La mattina uscivano tutti. Restavo in quello spazio enorme pieno di vetri, in mezzo alla neve e agli stambecchi che ghermivano le bacche, in una casa sempre riscaldata, con una colazione norvegese enorme, pesce, aringhe, metteva dischi bellissimi mentre se ne stava in pantaloncini corti. Volevo ufficializzare il fidanzamento. Nella mia terra in una situazione del genere si dice fidanzati in casa».

Invece?

«Chiedevo, ma lo sanno i tuoi, gliel’hai detto? Non lo sapevano. Una mattina, svegliandomi, mi accorsi che lei aveva lasciato i collant nel mio letto. Volutamente non li tolsi. La madre a casa prese la figlia ed esclamò, rigida, ferma, senza fare sceneggiate, ho trovato cose tue dappertutto. Non aggiunse altro. La sera riandai nella stanza di Tina come se nulla fosse successo. La casa era di legno, sentii un trambusto al piano di sopra, Tina pregò di andarmene, scappa scappa. Non ci fu il tempo, per le scale vedevo i piedi di sua madre, sentivo lo scricchiolio sul legno».

Una scena alla Hitchcock.

«Mi misi tra le tende trasparenti a guardare nudo verso la notte ghiacciata norvegese. In una lingua per me incomprensibile, sentivo sua madre urlare, ma urlava come possono urlare i norvegesi, senza enfasi mediterranea, le uniche parole che capivo erano Sergio e Italia. Poi la madre si rivolse a me e mi disse in italiano, finito, basta. E mi fece il segno di andarmene. Il padre non si fece mai vedere in quella serata drammatica. Con Tina continuammo a scriverci e a dichiararci amore eterno. La madre aveva lavato a mille gradi le lenzuola. Ebbe un chiarimento con la sua famiglia. Così decise di non venire più in Italia e che era opportuno lasciarmi. Lo fece, mi lasciò. Provai un grande dolore. Avevo mitizzato una storia durata molto poco, ma era fatta di lettere, di un episodio violento con la sua famiglia, di fatti che cementano tantissimo. Mi ha reso inquieto in tutti gli altri rapporti sentimentali. Ero convinto che il più grande amore l’avevo già vissuto. Subito dopo mi misi con Mita Medici, che era un po’ più grande di me ed era una leggenda, una delle ragazze del Piper. Andai a vivere a casa sua. Sulla segreteria telefonica di casa trovai un messaggio di Tina, non so come riuscì ad avere il numero».

Cosa le diceva?

«Che di passaggio a Roma, aveva due ore libere in attesa della coincidenza. Mi precipitai alla stazione. Tina era tutta vestita di bianco, circondata da bambini rom che le gironzolavano intorno. Era il richiamo della foresta. Prima però dissi a Mita, con cui stavo provando uno spettacolo, quello che era accaduto: mi rimetto con Tina e non tornerò più da te. Andammo a vivere in un alberghetto, disse che mi aveva mollato perché le era stata distrutta la sua vita familiare, lei non era ancora maggiorenne… Avevo fatto un casino totale con quei collant. Però lei mi amava, e anche io».

Lei era un giovane attore pieno di sogni, l’incontro con Fellini ancora lontano.

«Ero entusiasta di aver ricominciato la storia con lei dopo quattro anni. Un giorno ripartì per la Norvegia, le promisi che sarei andato a vivere con lei. Era diventata attrice, lavorava al Teatro Nazionale di Oslo. Aveva un suo appartamento, decisi che l’avrei raggiunta. Avrei potuto fare delle regie. La seguii mentre recitava a Finnmark, tra valanghe di neve, oppure a Kautokeino, in Lapponia, dove gli uomini portano strani gonnellini e ti muovi in mezzo alle slitte con le renne. Sentivo il bisogno di telefonare ai miei genitori che mi dissero, stiamo andando in chiesa a festeggiare 25 anni di matrimonio. Mi immalinconii. La nostra storia si guastò perché voleva restare in Norvegia».

Certo Tina non era una persona facile.

«Era problematica, aveva il vizio di alzare le mani, io mi proteggevo ma quando si comincia o quella cosa la stoppi o diventa organica alla relazione. Tina mi lasciò e impazzii, mi aveva già lasciato 5 anni prima. Mi telefonò e disse, non sono sicura che la nostra storia sia completamente finita. Forse dovremmo rivederci, ma da amici, non a casa mia. Mollai uno spettacolo, tutte le mie energie erano rivolte a lei. Ma è maledettamente difficile rivedere la donna con cui sei stato così bene insieme e camminare mano nella mano, mentre lei mi riaccompagnava alla pensione dove avrei soggiornato».

Lei tornò in Norvegia e...

«Dopo un viaggio lungo e complicato, non c’era nessuno ad aspettarmi. Sento Din Don, il signor Rubini è atteso al banco informazioni. C’era una lettera di Tina, tornatene in Italia, non mi cercare. Non avevo un soldo, non sapevo dove andare a dormire. Mi recai alla stazione di polizia nel minuscolo aeroporto di Stavanger con quella lettera e dissi, una vostra connazionale mi ha dato il benservito in questo modo, non ho soldi, cosa devo fare? Mi chiusero nella sala d’aspetto, in tasca avevo una moneta da cinque corone che non bastavano per chiamare l’Italia. Chiamai il padre di Tina, lo psichiatra, tua figlia mi ha mollato in modo terribile, siete degli stronzi, mi sfogai fino a quando cadde la linea perché le cinque corone non bastavano più. Sistemai lo zaino e piegandolo a mo’ di cuscino trovai nella tasca 100 mila lire che non sapevo di avere».

E cosa fece?

«Non me ne fregò nulla. Restai lì, a dormire in sala d’aspetto. Tornato in Italia, usai quei soldi per due biglietti di un concerto, invitai il mio amico Nardino a sentire con me Sting, nel suo esordio da solista dopo i Police. Una serata memorabile».

Estratto dell’articolo di Franco Giubilei per lo Specchio – la Stampa il 29 maggio 2023.

Negli Anni 80 reinventò la comicità in tv nel solco del varietà italiano - sketch mai oltre i limiti e soubrette scollatissime - Sergio Vastano rappresenta il volto meridionale del

calabrese alla Bocconi: «Una versione milanese di Ricci del personaggio che facevo a Roma e che a metà Anni 80 avevo ricavato dai tanti studenti calabresi fuori sede

iscritti alla Sapienza», ricorda l’attore.  […] 

Sposato in seconde nozze da quindici anni, settant’anni, Vastano vive a Torino con la

moglie. Nel suo tempo libero c’è sempre la lettura […] «Ho seguito sempre molto il jazz, Miles Davis su tutti, dal be-bop in poi. Una volta presentai un suo concerto, dovevo dire due parole, ma lui sul palco non c’era... Doveva suonare con una super band con Chick Corea, ma non arrivava. Sapevo che andava pazzo per i vestiti di Versace e lui dov’era andato? Al negozio di Versace...

Il gruppo suonava già e lui non si faceva vedere, quando a un certo punto si sono sentite due note di tromba: era Davis che, nascosto dietro gli amplificatori, si annunciava. Il pubblico sentì e andò in visibilio, Miles si presentò sul palco con un “chiodo” rosso di Versace tutto chiodato, bellissimo». 

Da casa sua all’università al Teatro Ateneo, dov’era iscritto a Lingue e letteratura moderna, era un andirivieni che, nel 1985, dall’avanguardia lo portò a un piccolo monologo sull’universitario calabrese. Grazie a Andy Luotto, la scenetta in forma di provino prese la strada di Milano, dove si faceva Drive In: «Tornato dal militare, mi trovai con Faletti sul set di questo filmetto, Grunt, e c’era anche Giorgio Faletti che mi chiese di fare il calabrese […] 

Nell’88 partecipa a Sanremo con i Figli di Bubba insieme a Di Cioccio e Pagani della Pfm e intanto continua col teatro. Ma i programmi di Ricci di allora, oltre ad accontentare il vasto pubblico di Drive In, miravano anche a una tv più irriverente e sperimentale, come in Lupo solitario. 

Con Matrioska e Moana che sfilava completamente nuda cominciarono i problemi: «Berlusconi era incazzato con Ricci, glielo chiuse, e Ricci per risposta chiuse tutto». 

A Drive invece «non c’era niente di improvvisato, al contrario di quanto facevano comici come Teocoli e Boldi, che andavano molto sull’improvvisazione».

A Striscia la Notizia Vastano fa coppia proprio con Teocoli: «Ci avvicinavamo al bancone di Striscia uno da destra e uno di sinistra, ma una volta Teo mi dà una spinta e mi fa cadere, solo che cadendo mi sono aggrappato alla sua caviglia e ho tirato giù anche lui, e la cosa è andata in onda... Era abituato a Boldi, che non reagiva mai, così ci è rimasto male». […]

Sergio Volpini, l’Ottusangolo: «Ho sofferto di gelotofobia, c’erano 20 milioni di persone che mi urlavano “imbecille”». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 25 Febbraio 2023

L’ex partecipante del primo Grande Fratello: «Oggi ho una scuola di surf e aiuto i ragazzi disabili in spiaggia». La fine dell’innocenza: «Pietro Taricone era un amico vero, dopo la sua morte nessuno di noi è stato più lo stesso»

Ma perché Ottusangolo?

«Bisognerebbe entrare nei paradossi di Marco Santin: aveva visto questo ragazzo che diceva una cosa con un suo senso, ma in modo talmente astratto da sembrare ottuso».

Grazie alla Gialappa’s è esistito perfino l’«Angolo di seduzione dell’Ottusangolo».

«Ma avevo scritto un manuale di seduzione, prima di fare il Grande Fratello!».

E gliel’avevano pubblicato?

«No. Avevo letto a 16 anni Il desiderio femminile di Françoise Dolto. Però la cosa che più mi era servita per comprendere le donne era stata Cioè, le ultime due pagine delle lettere: studiandole e analizzandole, avevo scoperto cosa volevano le donne».

Sergio Volpini a suo modo è entrato nella storia della televisione. Era il 14 settembre 2000. Carlo Azeglio Ciampi viveva al Quirinale con la signora Franca, la Lazio si preparava al campionato con lo scudetto sulla maglia, Bill Clinton stava per passare il testimone a George W. Bush e a Cinecittà dieci sconosciuti si rinchiudevano nelle «segrete» del primo Grande Fratello italiano. A guardarli entrare furono in 5 milioni; share del 25%. All’ultima puntata, 99 giorni dopo, sedici milioni: share al 60%, miracolo che oggi riesce solo ad Amadeus.

Com’era dentro la Casa?

«Terribile».

Addirittura?

«Tutti sottovalutano che in giardino avevamo 10 galline».

Capirai.

«Erano nell’unico spazio a disposizione all’aperto, dov’era la piscina, dove stendevamo i panni, dove facevamo ginnastica... Io e Pietro (Taricone, ndr) eravamo i due sportivi del gruppo e avevamo bisogno di più proteine. Un giorno nel confessionale minacciai che se non ci davano le proteine avrei ucciso una gallina. Magicamente arrivarono due orate in più, che cucinammo di notte, mentre gli altri dormivano».

Lei andò al funerale di Taricone. Fu l’unico.

«Frequentavo la sua casa, avevo dormito lì tante volte. Conoscevo Kasia, la figlia...».

Dov’era quando ricevette la notizia dell’incidente?

«Stavo rientrando dalla Spagna. Mi chiamò una giornalista, ero sotto choc. Poi trovai decine di telefonate perse da Mediaset. Quel lutto ha cambiato l’atteggiamento di tutti noi ex concorrenti. Una mancanza così ti crea smarrimento: Pietro era il nostro alfiere, sembrava arrivato al grado di consapevolezza massima prima di tutti noi».

Mi faccia un esempio.

«A gennaio 2001, a trasmissione appena finita, il suo nome era già arrivato in America, il mio al massimo a Trieste. Ebbene, si intrufolò in camera mia come un ladro per affrontare il discorso di quanto il successo dipendesse da noi o dal sistema».

Rocco Casalino?

«Ha sempre avuto una capacità e una voglia di battersi in pubblico che io neanche se mi avessero dato diecimila euro. Lo incoraggiavo come un ring sul pugile, dai tempi di Buona Domenica».

Quando gli ha mandato l’ultimo messaggio?

«Cinque mesi fa. Ci limitiamo a semplici commenti sull’attualità. Se fa una cosa bella gli faccio i complimenti, come quando fece incontrare Conte con Severino».

Marina La Rosa?

«Lei la sento sempre, è una delle poche che conosce i miei peggiori segreti».

Una storia l’avete avuta?

«Manco una cosetta. Quando sei molto amico di qualcuno ci sono momenti in cui un pensierino lo fai: i nostri, però, non hanno mai coinciso».

Avete una chat di gruppo?

«Sì, IlGf1, ma la Beta ogni volta gli cambia nome. Oltre a noi, con Rocco che va e viene, ci sono persone che ruotavano intorno al programma».

C’è anche Daria Bignardi, che lo aveva condotto?

«Lei no. Però c’è Liorni, che faceva l’inviato. È nato tutto quando abbiamo fatto la prima vera reunion, nel 2019».

Ricorda qualche assurdità?

«A un sondaggio ero diventato il personaggio tv più popolare, dopo Canalis e Cortellesi. A Trastevere uscii a fumare su un balconcino e la gente si ammassò sotto. Mia madre smistava pacchi di lettere con pupazzetti, proposte di nozze, dichiarazioni d’amore».

Scrivevano anche uomini?

«C’erano gli sportivi, che mi vedevano come uno di loro. E poi i maschi complessi, timidi, solitari. Comunque quel tipo di popolarità è volgare, nessuno degli ex concorrenti vuole più averci a che fare».

Però è tornato nel 2020, al GF Vip, con altri tre ex.

«Stavo lavorando nel Bahrein, per una piattaforma di import export. Venivo da quattro anni intensi in Perù: da un lato la bellezza di togliersi la cravatta alle 16 e indossare la muta per fare windsurf sotto casa, dall’altro gli incontri con gli imprenditori che tenevano la pistola sul tavolo. Mi propongono il GF Vip di Signorini e rispondo di no. Insistono e ci vado».

Pentito?

«No. Temevo che potesse distruggere la mia immagine al lavoro. Ma mi sono accorto di quanto oggi tutto passi in fretta».

Ha il rimpianto di non aver spaccato nello spettacolo?

«No. Se dopo vent’anni ti ricordi ancora di me, qualcosina l’ho data. Di più non potevo. Il bello è essere riuscito a rientrare nella normalità».

Quando ha tirato il freno?

«Nel 2007, avevo un’agenzia di comunicazione e ho visto il giudizio degli altri su di me come artista. Non potevo continuare a fare ospitate».

Ha raccontato di aver sofferto di gelotofobia, la paura di essere derisi.

«Se 20 milioni di persone ti urlano che sei un imbecille, il dubbio ti viene».

È fidanzato?

«Sì, da sei anni con Giorgia. Vive in Veneto, ha dieci anni meno di me. Non sapeva nulla del mio passato».

Si è laureato da poco.

«In Filosofia, nel 2021. E sto prendendo la magistrale in Storia, ho appena dato Donne del cristianesimo: 30 e lode».

Ha una scuola di surf a Numana. Ci lavora d’estate.

«Con i miei ragazzi ci occupiamo anche di gestire una spiaggia attrezzata per persone con disabilità. D’inverno, invece, seguo il commerciale di diverse aziende».

Nel Piacentino aveva aperto «L’angolo dell’Ottusangolo».

«Lasciamo stare: una delle tante fregature prese».

La peggiore?

«Non voglio dare soddisfazione a chi me l’ha rifilata. Posso però raccontare di aver versato tante tasse per fatture mai pagate».

(ANSA mercoledì 8 novembre 2023) - Per la prima volta Sharon Stone, intervistata durante lo show 'Let's Talk Off Camera' con Kelly Ripa, ha rivelato di essere stata molestata sessualmente da un ex capo della Sony Pictures. L'episodio risale agli anni '80, quando era ancora gli inizi di carriera. All'epoca dei fatti, la Sony Pictures, fondata nel 1987, aveva come presidenti Peter Guber e Jon Peters, a quest'ultimo nel 2011 un giudice impose il pagamento di un risarcimento di 3,3 milioni di dollari dopo che un'ex assistente lo accusò di molestie sessuali.

La Stone ha raccontato di aver incontrato il capo della Sony nel suo ufficio. Dopo essersi accomodata su un divano, l'uomo, il cui nome non viene rivelato, cominciò a farle delle lusinghe, poi avvicinandosi sempre di più e le sventolò il pene letteralmente in faccia. "Ero molto giovane - ha detto l'attrice - come di solito faccio quando sono nervosa, mi misi a ridere. Allo stesso tempo però anche a piangere e non riuscivo a smettere perché ero in un momento isterico. Lui non sapeva cosa fare, si richiuse i pantaloni e uscì da una porta dietro la sua scrivania".

Nel frattempo la Stone, non sapendo a sua volta cosa fare, rimase lì finché una segretaria non le mostrò l'uscita. Nell'intervista ha anche sottolineato che si trattava degli anni '80 ed erano cose che accadevano. Nel gennaio del 2018, in pieno #MeToo, le fu chiesto se fosse stata vittima di molestie o aggressioni sessuali. All'epoca non entrò nello specifico, tuttavia la sua risposta lasciò poco spazio alla fantasia. "Sono nel settore da 40 anni - commentò - riesci ad immaginare com'era? Ne ho viste di tutte".

Estratto da “il Giornale” il 18 maggio 2023.

Vite intrecciate. Quella di Michael Douglas, che l’altra sera al Festival è stato premiato con la Palma d’oro onoraria, incrocia Cannes in più punti. «Mio padre incontrò qui mia madre adottiva. Divorziò da mamma Diana che avevo sei o sette anni ma hanno mantenuto sempre ottimi rapporti. Gli stessi che ho poi avuto con la sua seconda moglie Ann». Ma la Croisette fa rima anche con la Sindrome cinese che lo portò in Costa azzurra agli esordi della sua carriera e, più recentemente, con Dietro i candelabri, il film dedicato alla vita di Liberace, il pianista morto alla stessa età che aveva Douglas quando recitò nei suoi panni. 

Eppure la sua carriera fa rima con sesso e combattimenti, «due estremi che generalmente bilanciano una sceneggiatura. Nel primo occorre preparare la partner femminile dicendo in anticipo quali saranno le mosse fatte. Devo però ammettere che con Sharon Stone e Glenn Close ho avuto l’impressione che una vita sensuale fosse difficilissima». I litigi restano spesso all’ordine del giorno e La guerra dei Roses insegna. Rievoca la famosa scena del lampadario e conclude fin troppo lapidario: «Un buon film». Sesso. Amore. Divorzio e molti soldi. Le strade portano tra gli squali della finanza a Wall Street. 

(...)

Estratto da ansa.it il 18 maggio 2023. 

La famiglia prima di tutto, il rapporto con il patriarca Kirk, pioniere di Hollywood che è morto tre anni fa quasi centenario, e poi il suo impegno contro la diffusione delle armi da salotto, il rapporto con le giovani generazioni, la figlia ventenne Carys Zeta, gli incontri magici di una carriera con due Oscar (il primo da produttore per Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman e il secondo da protagonista di Wall Street di Oliver Stone), tantissimi premi e da ieri sera anche la Palma d'oro onoraria. 

Michael Douglas, 78 anni, scampato ad un cancro alla gola, curato in passato per dipendenza sessuale (senza dimenticare quelle per alcol e droga), volto della Hollywood degli anni '80 con grandi successi al botteghino, ha l'età dei bilanci e degli aneddoti, come i tanti che ha raccontato nella masterclass al festival di Cannes accolto dagli applausi.

Come quella volta, era il 1992, in cui "scioccammo la platea di Cannes con la premiere di Basic Instinct. Adesso forse il film di Paul Verhoeven passerebbe quasi inosservato allora fu uno scandalo passato agli annali. Mi ricordo le facce degli spettatori con tutte quelle esplicite scene di sesso, con Sharon Stone e Jeanne Tripplehorn sugli schermi giganti. Seguì una cena con tutti in imbarazzo. Ma poi non ci fu moglie francese che non convinse il marito ad andare al cinema".

Un altro ricordo legato a Cannes è più recente per Dietro i candelabri, in cui Douglas è un gigante nell'interpretazione del pianista Liberace. "Avevo fatto cicli di chemio per contrastare il cancro che mi aveva preso alla gola e alla lingua. Lo script era meraviglioso ma quando si trattò di cominciare la preparazione con Steven Soderbergh fu chiaro che anche senza dirmelo ero uno scheletro. Così fu rimandato per quando mi fossi ripreso. E' uno dei film che preferisco", racconta e anche qui aggiunge l'aneddoto: "quel fantastico attore di Matt Damon interpretava il mio amante. Avevamo una scena di sesso, mi si avvicinò e gli sussurrai: 'non ho niente in contrario'". Le scene di sesso a quanto pare sono una costante, ricorda anche quelle di Attrazione fatale ad esempio, "non sono confortevoli. Per Basic Instinct ci fu anche l'intimate coach sul set, Sharon fu pazzesca, bisogna immaginare quei momenti come danza, come coreografia, la mano prima di qua, le labbra di là...".

(…)

Estratto dell’articolo di Novella Toloni per ilgiornale.it il 12 marzo 2023.

C'è un retroscena inedito legato al film cult Basic Instinct, che ha reso celebre Sharon Stone in tutto il mondo. La pellicola del 1992, diretta da Paul Verhoeven, ha rappresentato il punto di svolta nella carriera dell'attrice americana e la famosa scena sexy dell'interrogatorio è stato il passaggio principale.

 Da una parte l'ha resa una icona, ma dall'altra l'ha penalizzata nella vita privata. A causa di quella scena, infatti, la Stone ha perso la custodia del figlio Roan, il primo dei tre bambini adottati dalla diva americana.

[…] Nella lunga chiacchierata Sharone Stone ha ricordato l'uscita della pellicola girata con Michael Douglas come un momento cruciale. Alla premiazione dei Golden Globe, dove compariva tra i candidati al premio per l'interpretazione proprio in Basic Instinct, in sala risero quando il suo nome venne letto sul palco insieme a quello di altre attrici in lizza per la statuetta.

 "È stato orribile. Ero umiliata. Qualcuno ha idea di quanto sia stato difficile recitare quella parte? Quanto sia stato straziante e spaventoso?", ha rivelato la diva di Hollywood, proseguendo: "Cercare di portare avanti questo film complesso che stava rompendo tutti i confini e contro cui tutti protestavano. Ho fatto il provino per mesi e hanno offerto a altre tredici persone la parte e ora state ridendo di me. Volevo solo scomparire". […]

Per Sharon Stone Basic Instinct è stato croce e delizia. Il successo la travolse, facendola diventare una delle attrici più richieste e pagate d'America, ma dieci anni dopo quel film è stato l'ago della bilancia nella causa di separazione dal primo marito Phil Bronstein. "Sai che tua madre fa i film sexy? Fu la domanda del giudice a mio figlio di 4 anni", ha raccontato l'attrice, ritornando con la mente al 2004 quando il tribunale gli revocò l'affidamento del bambino:

"Persi la custodia di mio figlio per quella domanda. Fu un abuso da parte del sistema che mi ha screditato come genitore. Mi spezzò il cuore, letteralmente". A causa dello choc, infatti, l'attrice venne ricoverata in ospedale per problemi cardiaci.

Il fallimento della banca Usa. Sharon Stone vittima del crack Silicon Valley Bank: “Ho perso metà dei miei soldi”. Redazione su Il Riformista il 19 Marzo 2023

In lacrime nel ricordare la prematura scomparsa del fratello Patrick, morto lo scorso mese per un attacco di cuore, ma in lacrime anche per esser finita tra le vittime del crac della Silicon Valley Bank, perdendo la metà del suo patrimonio.

Lo ha ammesso l’iconica attrice di Hollywood Sharon Stone, indimenticabile ‘femme fatale’ in “Basic Instinct”, durante la cerimonia del Women’s Cancer Research Fund’s An Unforgettable Evening a Los Angeles che l’ha visto ricevere il Courage Award.

I lost half my money to this banking thing”, ha detto alla platea l’attrice 65enne, parlando genericamente dunque di “faccenda delle banche”, con un evidente riferimento proprio al fallimento dell’istituto di credito californiano specializzato nel supporto delle aziende tech.

Ho portato un paio di appunti stasera. In genere parlo a braccio, come ben sapete…”, ha esordito Stone, commossa. Quindi, entrata nel vivo del racconto, la star di Hollywood ha confessato: “Dal punto di vista tecnico sono un’idiota, ma posso firmare un assegno. E in questo momento, anche questo è un atto di coraggio perché so cosa sta succedendo. Io stessa ho perso metà dei miei soldi per questa faccenda delle banche. Ma nonostante questo sono qui”.

Non è un momento facile per nessuno di noi“, ha aggiunto la star facendo riferimento al periodo di lutto che sta affrontando in famiglia dopo la scomparsa del fratello Patrick, padre a sua volta del piccolo River, spentosi lo scorso anno a 11 mesi di vita a causa di un’insufficienza multiorgano.

Poi la star del cinema è ritornata a farsi coraggio e a trasmetterlo a chi l’ascoltava: “Non sto chiedendo a nessun politico di dirmi cosa posso e non posso fare. Come posso e non posso vivere, e qual è o non è il valore della mia vita. Quindi alzati. Alzati e dì quanto vali. Io ti sfido. Questo è il coraggio”.

Sul palco della sala da ballo del Four Seasons di Los Angeles, dove è stata invitata per ritirare il riconoscimento, ovviamente Sharon Stone ha parlato anche della sua battaglia personale, i tumori benigni al seno che le erano stati rimossi nel 2001, prima di affrontare la chirurgia plastica ricostruttiva: “Queste mammografie non sono divertenti“, ha detto, incoraggiando il suo pubblico a monitorare la propria salute e sottoporsi a esami regolari. Lo scorso novembre, l’attrice ha annunciato che i medici avevano trovato un altro tumore benigno, questa volta all’utero.

Estratto di Barbara Di Castro per notizie.com il 25 Gennaio 2023.

Shakira è riuscita a dare una svolta economica, inaspettata, al suo tradimento. Con il brano ‘Music Sessions #53’  la cantante ha conquistato le hit internazionali ottenendo un esito monetario a più zeri. […] Shakira non solo ha dato sfogo alla sua rabbia e delusione in musica, ma è riuscita a monetizzare questo stato di animo: la sua canzone, secondo alcuni dati, ha guadagnato in pochi giorni più di 2.500.000 dollari.

 El Programa de Ana Rosa, format tv molto popolare in Spagna ha riferito che la canzone di Shakira contro il calciatore ha monetizzato in pochi giorni una cifra inaspettata. […] “In questi quattro giorni, Shakira ha intascato più di 2.500.000 dollari”. Secondo alcuni rumors Shakira sarebbe prossima a fare ulteriori passi contro il calciatore del Barcellona che attualmente sembra voler cogliere tutti i vantaggi dalla situazione.

 Shakira criticata dal web: “Sei troppo rancorosa”

Piquè infatti non si è fatto intimorire dalle accuse che la cantante gli ha rivolto. Ha approfittato della situazione e si è mostrato con i due marchi che Shakira ha citato nel testo del suo brano: un Casio e una Twingo. Inoltre Piquè avrebbe ottenuto nuovi sponsor per la realizzazione del suo progetto Kings League. Insomma il calciatore avrebbe accolto in modo positivo le accuse dell’ex e non sarebbe affatto scosso da tanto clamore mediatico.

Da corrieredellosport.it il 24 gennaio 2023.

'Music Session #53' di Shakira ha scoperchiato il vaso di Pandora sulla relazione tra la cantante, Gerard Piqué e il resto della famiglia dell'ex calciatore. Nella canzone la popstar accusa apertamente l'ex compagno e la nuova fidanzata Clara Chia Marti ma non è mancata una strofa piena di risentimento nei confronti dell'ex suocera Montserrat Bernabeu, che per tanti anni ha avuto come vicina di casa. Su Twitter è tornato a galla un vecchio video che oggi assume tutto un altro significato alla luce degli ultimi avvenimenti.

Shakira e il pessimo rapporto con la madre di Piqué

Nel filmato si vedono le due donne che litigano per strada, proprio davanti all'ex difensore del Barcellona, con Montserrat che prima tocca con fare aggressivo il volto dell'ex nuora e poi la invita a tacere. A indignare è anche l'espressione compiaciuta dello sportivo, che non fa nulla per difendere la madre dei suoi figli Milan e Sasha. Secondo i fan Shakira ha sofferto parecchio durante i dodici anni accanto a Piqué. "Quanto hai sopportato per amore", hanno scritto diversi utenti, riferendosi pure ai presunti ripetuti tradimenti dell'ex giocatore. "Sei uscita troppo tardi da quell'inferno", ha commentato qualcun altro.

Estratto dell'articolo di Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 16 gennaio 2023.

[...]

Shakira è uno scricciolo di un metro e mezzo. In Sud Africa incontrò un gigante di un metro e 95, giovane titolare della squadra campione del mondo: Gerard Piqué. Si innamorarono.

Ora lui l'ha lasciata per una studentessa di 22 anni. E Shakira si vendica con la canzone più ascoltata del momento: «Io ne valgo due di ventiduenni!». Ma la frase-chiave è un'altra: «Mi hai resa più dura/ la donna non piange, la donna fattura». Una volgarità? No; una rivendicazione di indipendenza, anche economica. Finito il tempo in cui la prima moglie soffriva in silenzio dopo essere stata lasciata per una ragazza. Adesso la donna reagisce.

[...]

Piqué può consolarsi in un solo modo: se una separazione ha prodotto una canzone così (che non è la prima, ma la terza), forse Shakira lo ama ancora. In ogni caso, su una cosa siamo tutti d'accordo: una lupa non può stare con un principiante.

Estratto dell'articolo di Salvatore Riggio per corriere.it il 17 gennaio 2022.

 Tra un Casio e una Twingo, spunta un retroscena piccante sul tradimento di Piqué. […]. Il tradimento sarebbe iniziato molto tempo prima di quanto raccontano le cronache ufficiali del gossip. Shakira avrebbe visto in casa propria la nuova fiamma del compagno, la 23enne Clara Chia Marti, già nell’agosto 2021, molto prima di scoprire la tresca. In sostanza, Piqué approfittava delle sue assenze con i figli per ospitare a casa la 23enne originaria di Barcellona[…].

A testimoniare tutto è spuntato di recente un video di quando l’ex difensore, nell’agosto 2021, era in diretta su Twitch col famoso streamer spagnolo Ibai Llanos. A un certo punto si vede brevemente sulla destra una ragazza bionda, che poi, a grande velocità, si eclissa andandosene e mostrando le spalle alle telecamere. Qualcuno si è accorto della presenza di Clara e l’ha collegata a quanto sarebbe poi accaduto da lì a un anno.

Una triste novità che si è rivelata un’altra mazzata per Shakira, sempre più furiosa. Una fonte vicina alla cantante colombiana ha raccontato come sia «devastata nell’apprendere che questa donna si sentiva chiaramente a casa sua nell’abitazione che lei e Piqué condividevano con i loro figli. Loro erano ancora insieme in quel momento. È devastante per lei apprendere che questa relazione andava avanti da molto più tempo di quanto immaginasse». […]

Shakira, il video di Piqué con la fidanzata in casa quando stavano ancora assieme. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023.

Clara Marti, la nuova fidanzata di Piqué, era nella casa che il calciatore condivideva con Shakira quando lei non c’era. La testimonianza in un video dell’agosto 2021 spuntato di recente

Tra un Casio e una Twingo, spunta un retroscena piccante sul tradimento di Piqué. Vicenda che ha fatto naufragare la storia d’amore decennale con Shakira. Non c’è solo la marmellata preferita della cantante colombiana che finiva troppo presto — non tanto amata dall’ex difensore di Barcellona e Spagna —, ma anche altro. Il tradimento sarebbe iniziato molto tempo prima di quanto raccontano le cronache ufficiali del gossip. Shakira avrebbe visto in casa propria la nuova fiamma del compagno, la 23enne Clara Chia Marti, già nell’agosto 2021, molto prima di scoprire la tresca. In sostanza, Piqué approfittava delle sue assenze con i figli per ospitare a casa la 23enne originaria di Barcellona, che oggi si occupa dell’organizzazione di eventi nella società d’investimento del calciatore, la Kosmos.

A testimoniare tutto è spuntato di recente un video di quando l’ex difensore, nell’agosto 2021, era in diretta su Twitch col famoso streamer spagnolo Ibai Llanos. A un certo punto si vede brevemente sulla destra una ragazza bionda, che poi, a grande velocità, si eclissa andandosene e mostrando le spalle alle telecamere. Qualcuno si è accorto della presenza di Clara e l’ha collegata a quanto sarebbe poi accaduto da lì a un anno.

Una triste novità che si è rivelata un’altra mazzata per Shakira, sempre più furiosa. Una fonte vicina alla cantante colombiana ha raccontato come sia «devastata nell’apprendere che questa donna si sentiva chiaramente a casa sua nell’abitazione che lei e Piqué condividevano con i loro figli. Loro erano ancora insieme in quel momento. È devastante per lei apprendere che questa relazione andava avanti da molto più tempo di quanto immaginasse».

La stessa Shakira, nel post di Capodanno sui social, si era sfogata: «Sebbene le nostre ferite continuino a essere aperte in questo nuovo anno, il tempo ha le mani del chirurgo. Anche se qualcuno ci ha tradito, dobbiamo continuare a fidarci. Di fronte al disprezzo, continuare a valorizzarci. Perché ci sono più persone buone che cattive. Più persone empatiche che indolenti. Sono meno quelli che se ne vanno e più quelli che restano al nostro fianco. Le nostre lacrime non sono uno spreco, annaffiano il terreno dove nascerà il futuro e ci rendono più umani, così in mezzo al crepacuore possiamo continuare ad amare».

Estratto dell’articolo di Maria Laura Rodotà per “la Stampa” il 14 gennaio 2023.

«Chi non ti vuole non ti merita», dicevano le nonne empatiche. «Una lupa come me non è per uno scimmione come te», canta da due giorni Shakira. Ha preso il blando mantra per ragazze disertate e lo ha rivisitato fino a farne del revenge pop. Ovvero un brano in cui si vendica dell'ex compagno, è aggressiva e pure femminista capitalista: canta «Las mujeres ya no lloran, las mujeres facturan». «Le donne non piangono più, le donne fatturano», lei di sicuro.

 […] E può puntare su un buon prodotto, la sua sincera arrabbiatura con uno famoso come lei, Gerard Piqué. Ex difensore del Barcellona, ex compagno di Shakira per dieci anni, ora fidanzato con una ventitreenne (Clara Chia Marti) […]

  Canta Shakira «Sono diventata più grande di te e per questo stai con una come te» e si pensa alluda all'età mentale, e dispiace che se la prenda pure con lei. […]

 Shakira non ha il talento di Beyoncé che racconta il tradimento di suo marito nella bellissima Lemonade. Non ha la maniacalità da serial killer post-disneyana di Miley Cyrus[…]. Ma Shakira è nazionalpopolare, anzi globalpopolare.

 Lei è colombiana famosa ovunque e ha cantato la canzone delle Olimpiadi in Sudafrica (Waka Waka) e ha fatto due figli con un divo del calcio. E, come una moglie da commedia di Almodóvar, è finita a cantare «Mi ha lasciato con mia suocera come vicina di casa, i media alla mia porta e indebitata col ministero del Tesoro» […]

E come un'influencer che potrebbe essere sua figlia, […] Con la sua storia di donna lasciata per una più giovane ha sostituito Harry Windsor e la sua autobiografia nelle chiacchiere online.

 […] Shakira si è dimostrata una buona capitalista, capace di investire in un abbandono coniugale con accollo di suocera, e guadagnarci molto. Come femminista fa discutere, di certo cade con tutte le scarpe nel più classico trappolone maschile. In cui l'uomo si propone come massimo, necessario, legittimante obiettivo e riesce ad avere potere su due o più donne che spesso stanno malissimo. 

Per questo Shakira se la prende con Clara Chia e per tutto il brano le dà della sgallettata. La chiama «il mio rimpiazzo», e comunica a Piqué che ha «scambiato una Ferrari con una Twingo, un Rolex con un Casio», e le ammiratrici anziane si rendono conto che ha un'età, pure lei, 45 anni, il fisico è da ventenne ma il riferimento all'orologio Casio la tradisce.

 Però sono veri, in Shakira e altre, l'arrabbiatura, e l'avvilimento. Provocati, più che dal testosterone, dall'insicurezza maschile. Nelle relazioni e sul lavoro. E alla fine, anche se è sgangherato e pure un po' misogino, il revenge pop femminile è anche una questione di pari opportunità. […]

Estratto dell’articolo di corriere.it il 15 Gennaio 2023.

Pochi giorni fa,Shakira ha scosso il mondo dei social media e delle altre piattaforme digitali con il lancio di «Music Sessions Vol. 53» , il nuovo brano realizzato con il produttore Bizarrap […] contiene espliciti riferimenti alla relazione fallita con Gerard Piqué («Hai cambiato un Rolex con un Casio, una Ferrari con una Twingo»), e menziona anche Clara Chía Martí, attuale fidanzata dell’ex calciatore catalano.

Ieri, venerdì 13 gennaio, è arrivata la risposta di Piqué. L’ex calciatore del Barcellona è apparso nel video live della Kings League, l’evento sportivo che conduce insieme al creatore di contenuti Ibai Llanos, con un orologio Casio al polso destro, e in più, ne ha consegnata un altro a ciascuno dei presidenti delle altre squadre in gara.

Piqué ha annunciato un accordo con la multinazionale nipponica per la sponsorizzazione della Kings League e ha fatto espresso riferimento alle frecciate scagliategli dall’ex moglie, […]. «Questo orologio è per la vita» ha detto Piqué in una chiara allusione alla rottura con la madre dei suoi figli e agli attacchi della cantante contro di lui e la sua attuale compagna. […]

Shakira, Piqué guida una Twingo: è la nuova risposta alla canzone della ex. Storia di Salvatore Riggio su Corriere della Sera il 15 gennaio 2023.

Se in Italia Francesco Totti e Ilary Blasi si punzecchiano a colpi di rolex e borse di marca, in Spagna è scontro aperto tra Gerard Piqué e Shakira. Tutto si consuma tra un Casio e una Twingo.

Che sono poi le due parole utilizzate dalla cantante colombiana per definire la nuova fiamma dell’ex compagno, la 23enne originaria di Barcellona, Clara Chia Marti, nel suo nuovo brano. Continuano così le frecciatine tra Shakira e l’ex difensore catalano, dopo la fine della loro storia d’amore durata più di 10 anni e dalle quale sono nati due bambini, Milan e Sasha.

Video correlato: Piqué su una Twingo, la nuova risposta in video all'ex Shakira (Corriere Tv)

Piqué ha deciso di colpire una seconda volta con l’arma dell’ironia (in Spagna sottolineano come sia stato ben consigliato dai suoi legali). Così se prima ha annunciato l’accordo fra la Kings League, la competizione creata da lui (si tratta di un torneo di calcio in cui amatori e vecchie glorie del calcio spagnolo e mondiale si sfidano in partite con regole strane e colpi di scena come la presenza di un calciatore mascherato), e la Casio mostrando l’orologio al braccio e aggiungendo «questo orologio è per la vita», adesso è andato oltre.

Ha voluto replicare anche a un altro verso della canzone («hai scambiato una Ferrari con una Twingo»), presentandosi nel quartier generale della Kings League proprio al volante di una Renault Twingo bianca. Dimostrando di sapersi destreggiare in mezzo alla furia di Shakira, delusa e arrabbiata per il tradimento subito. Certo, anche per la canzone della colombiana è un’ottima pubblicità. Che cosa si inventeranno la prossima volta?

Estratto dell’articolo di Andrea Silenzi per “la Repubblica” il 15 Gennaio 2023.

[…]. Il caso che ha tenuto banco negli ultimi giorni è quello di Shakira, popstar globale, che ha trasformato la fine del suo rapporto con il calciatore del Barcellona Gerard Piqué in una "revenge song" […] ”Hai scambiato un Rolex con un Casio", recita l'artista colombiana. Per tutta risposta, Piqué, durante una diretta su Twitch ha mostrato l'orologio Casio che aveva al polso e ha scherzato: «Questo Casio è per la vita».

 Nel rap, gli scambi di invettive attraverso i testi dei brani si chiamano dissing e fanno da sempre parte del gioco. Ma se fino a poco tempo fa le vendette verbali nel pop erano una rarità, negli ultimi tempi sembrano diventate la norma. Prendete Taylor Swift, […], che nel 2021 ha inciso una nuova versione del brano All too well in cui fa riferimenti alla sua relazione con l'attore Jake Gyllenhal […] Miley Cyrus che sembra avere ancora in conto in sospeso con il suo ex Liam Hemsworth […] nel brano Flowers . […]la furia di Beyoncé nei confronti del marito Jay-Z per il tradimento con una "Becky with the good hair" è diventato il tema portante dell'album Lemonade del 2016. […]

Ma non è solo l'amore la dinamo di certe invettive. Se può apparire normale un litigio tra rapper scatenato da Eminem nei confronti di Snoop Dog […] molto più sorprendente fu ascoltare pubblicamente i profondi rancori che divisero Lennon e Mc-Cartney dopo la fine dei Beatles. Lennon prese assai male una intervista di Paul nel 1971, dove il suo ex amico si prendeva tutto il merito dell'album Sgt. Pepper. 

Oltretutto Lennon pensò di leggere tra le righe anche una critica al suo rapporto con Yoko. La risposta fu affidata alla violentissima How do you sleep : […] ”Come dormi? Come dormi la notte?". Un caso di scuola, ma avvolto nel mistero, fu quello di You' re so vain di Carly Simon: chi era il "piacione" così dileggiato nel pezzo? Tante le ipotesi, dall'ex marito James Taylor (l'unico escluso dalla cantante) a Kris Kristofferson: il bersaglio più probabile era Warren Beatty. […]

Quando le ex si vendicano con la musica: cosa sono le "revenge song". L'ultima canzone di Shakira contro l'ex Piqué è solo uno dei tanti esempi di revenge song, il fenomeno musicale che vede i testi delle artiste riempirsi di frecciate e provocazioni contro gli ex. Novella Toloni il 19 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Da Shakira a Miley Cyrus, da Beyonce a Taylor Swift. Guai a fare infuriare una ex, soprattutto se è una cantante. Il passo da una hit a una revenge song è breve. Anzi brevissimo. Mettere in musica (e perché no in rima) tradimenti, bugie e questioni personali sembra essere di gran moda ultimamente, ma il fenomeno delle revenge song ha radici ben più lontane dell'ultimo brano, nel quale Shakira ne ha cantate quattro all'ex compagno, Gerard Piquè.

Taylor Swift

Il "la" al trend della vendetta musicale lo ha dato Taylor Swift, che nel corso della sua lunga carriera si è vendicata di fidanzati, manager, amici e addirittura colleghi (ne sanno qualcosa Katy Perry e Kanye West) scrivendo canzoni e interi album prendo di mira chi l'aveva ferita. Da a "Picture to Burn" (2006) in cui canta: "Sono solo seduta qui, pianificando la mia vendetta. Non c'è niente che mi impedisca di uscire con tutti i tuoi migliori amici". A "All Too Well" (2012), nella quale la cantante si vendicava dei tradimenti dell'ex Jake Gyllenhaal, punzecchiandolo sulla sua età: "Le tue amanti avranno sempre la mia età"). Fino a "Bad Blood" (2015) e "Look What You Made Me Do" (2017) scritte rispettivamente contro Katy Perry, Kim Kardashian e l'ex marito. Insomma, Taylor Swift ha fatto delle revenge song un suo marchio di fabbrica (non per niente è stata sopranominata la Queen of Revenge Pop), arrivando addirittura a dedicare un intero album - "Midnights" - al tema della vendetta.

Beyoncé

Anche la popstar Beyonce ha dedicato un album all'argomento, ma nel suo caso lo sfogo contro il marito Jay Z, è servito a metabolizzare e superare la crisi, visto che la coppia è sopravvissuta a "Lemonade". Nell'album del 2016, Beyonce si è presa gioco del rapper, colpevole di averla tradita in più di una occasione, in un viaggio catartico attraverso i testi di brani come "Déjà Vu", "Ring the Alarm" e "Irreplaceable", in cui sfogava tutta la sua rabbia. Celebre il video di "Hold up", nel quale la cantante americana veste i panni di una donna tradita, che sfacia l'auto del compagno fedifrago con una mazza da baseball.

"Fa sentire insignificanti...". Nuova stoccata di Shakira all'ex Piquè

Selena Gomez

Tra le popstar più rancorose, che hanno fatto delle revenge song un loro cavallo di battaglia, c'è anche Selena Gomez. E il destinatario della vendetta in rima è stato l'ex fidanzatino Justin Bieber. In "Lose you to love" (2019), l'artista accusa la popstar di averla presa in giro e di averla ridotta uno straccio: "Mi hai promesso il mondo e io ci sono cascata. In due mesi ci hai sostituito, come se fosse facile. Mi hai fatto pensare di essermelo meritato. Avevo bisogno di odiarti per amarmi. E ora è un addio per noi". Ma anche in "Look At Her Now" (2020) Selena ne ha cantate quattro a Justin: "Quando lui ebbe un'altra. Oh, Dio, quando l'ha scoperto... Certamente lei era triste. Ma ora è contenta di aver schivato un proiettile".

Miley Cyrus

Sono almeno due le canzoni "cattivelle" che Miley Cyrus ha dedicato all'ex marito, Liam Hemsworth. Subito dopo il loro divorzio, la cantante pubblicò "Slide Away", brano nel quale la cantante americana suggerica all'attore: "Vai avanti, non abbiamo più 17 anni. Non sono più quella di una volta". Una frase legata alla lunga relazione decennale della coppia. È nell'ultima canzone pubblicata dal titolo "Flowers", però, che Miley ha sparato a zero contro l'ex: "Adesso i fiori posso comprarmeli da sola. Posso parlare con me stessa per ore, dire cose che non capiresti, e prendermi per mano da sola quando vado a ballare".

Shakira

Shakira, dunque, è solo l'ultima delle cantanti che ha scelto la via della vendetta per trasformare la rabbia del tradimento in una rivincita personale. Prima con "Te felicito", uscita nell'aprile 2022, quando la loro rottura non era stata ancora ufficializzata, poi con "Monotonia". Ma in entrambi i brani, la colombiana non c'era andata giù pesante come nell'ultima hit da record, "Music Sessions Vol. 53", dove canta: "Io valgo due di 22. Hai scambiato una Ferrari con una Twingo. Hai scambiato un Rolex con un Casio... Allena un po' anche il cervello". E se la vendetta è un piatto che va consumato freddo, vuoi mettere pubblicare una canzone e vederla diventare una hit mondiale, che rimarrà nella storia della musica? Satisfaction, cantavano i Rolling Stones.

Chi è Clara Chia Marti, la modella che ha portato alla rottura tra Piqué e Shakira. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 15 Gennaio 2023.

La ragazza è di Barcellona, ha 23 anni e fa la modella. Si sono conosciuti nell'ufficio di Piqué, il colpo di fulmine è stato immediato. La loro relazione, all’inizio clandestina, ha poi spinto alla separazione l’ex calciatore e la cantante

Da una Ferrari a una Twingo, da un Rolex a un Causio. La canzone di Shakira contro Gerard Piqué e la sua nuova fiamma spopola sul web. La ragazza in questione è Clara Chia Marti, 23enne originaria di Barcellona. È lei la nuova compagna dell’ex difensore blaugrana e della Nazionale spagnola, che ha dato l’addio al calcio nel novembre scorso e che ha visto naufragare, nel giugno 2022, la decennale storia d’amore con Shakira, madre dei suoi due figli, Milan e Sasha.

Clara Chia Marti ha risposto ai versi di Shakira con una storia su Instagram , che è stata però cancellata subito dopo la pubblicazione. Il contenuto? Una faccina che sbadigliava, senza frasi di commento. È finita recentemente nell’occhio del ciclone per la relazione con Piqué. E la cantante colombiana non è stata tenera nei suoi confronti, sommergendola di frecciatine e dandole appunto della «Twingo».

I media spagnoli hanno cercato di indagare nella sua vita privata. La 23enne ha studiato comunicazione d’impresa e pubblicità all’Università e fa la modella di professione. Come si sono conosciuti? Nell’ufficio di Piqué, mentre lavorava all’organizzazione di alcuni eventi per la società di proprietà del calciatore, la Kosmos Global Holding SL. Il colpo di fulmine tra i due è stato immediato. La loro relazione clandestina è stata mantenuta sotto silenzio, come ha rivelato il Sun. Anzi, molti amici in comune li hanno aiutati in questa missione: «Hanno cancellato gli account sui social media di Clara in modo che le persone non potessero trovare le sue foto». Da semplice relazione clandestina, è diventata una storia seria, tanto appunto da spingere alla separazione Piqué e Shakira.

Che hanno anche dovuto affrontare la questione dell’affidamento dei due figli. La cantante voleva tornare a Miami, negli Stati Uniti. A questa decisione si era opposto l’ex difensore, che poi si è invece arreso. Ed ecco la canzone. Shakira non ha avuto problemi a dedicare versi pungenti alla nuova coppia: «Ero troppo per te ed è per questo che stai con qualcuno proprio come te» . O ancora: «Io valgo quanto due 22enni». Oltre ai già noti «Hai scambiato una Ferrari con una Twingo», «Hai scambiato un Rolex con un Casio». Ormai tra i due ex è scontro vero.

COS’È SUCCESSO

Shakira-Piqué, la canzone con 18 stoccate e la replica

Su consiglio dei suoi legali, pare, Piqué ha scelto l’arma dell’ironia e ha approfittato di una diretta su Twitch riguardante il suo nuovo progetto sportivo, la Kings League (si tratta di un torneo di calcio in cui amatori e vecchie glorie del calcio spagnolo e mondiale si sfidano in partite con regole strane e colpi di scena come la presenza di un calciatore mascherato), per replicare col sorriso sulle labbra. Così dopo pochi minuti dall’inizio della diretta, l’ex calciatore ha fatto il primo annuncio. Che non riguardava affatto la Kings League, ma era una risposta sarcastica a Shakira. «La Kings League ha raggiunto un accordo con Casio, perché abbiamo tanti countdown e tanti orologi. Questo orologio è per la vita». Sarà felice Clara Chia Marti.

Simona Izzo: «Ricky Tognazzi mi ha salvato da una depressione bipolare, Costanzo? Poco importante. Venditti mi ha tradita e non ci parliamo più». Storia di Alessandra Arachi il 4 Dicembre 2023 su Il Corriere della Sera.

S è arrivata a settant’anni: e adesso? «Adesso dico benedette primavere».

Più felice di prima? «Assolutamente. Ho sofferto tanto, sono stata molto infelice. Una depressione bipolare che mi ha fatto passare metà della mia vita a letto. Per fortuna ho trovato Ricky».

Ricky Tognazzi,. Da quanto tempo? «Trentotto anni. È l’unica persona al mondo che ha sempre sopportato la variabilità del mio umore. È gentile, accudente, non è facile trovare un uomo accudente».

Come ha accompagnato i suoi malesseri? «Quando ero depressa e stavo a letto tutti, a cominciare da mia madre, mi avevano sempre esortato ad alzarmi. Ricky invece si sdraiava nel letto insieme a me. Ma ha sopportato anche le mie fasi maniacali: volevo scrivere, fare, lavorare, viaggiare. E lui mi accompagnava».

Come vi siete conosciuti? «Era il 1986 e dovevo fare il mio primo film. Si intitolava “Parole e baci”, un tv movie al quale lavoravo con la mia gemella Rossella. È stato Berlusconi che mi ha fatto fare questo film».

E Ricky come arriva? «L’ho scelto per recitare nel film. Mi ricordava mio figlio, aveva lo stesso sguardo di mio figlio Francesco. Mi sono innamorata di Ricky all’istante, un colpo di fulmine».

E lui? «Ci ha messo un po’di più. Aveva anche una storia in atto con Flavia con la quale adesso io mi diverto molto, lavoriamo anche insieme, lei è una segretaria di edizione. Io invece ai tempi di quel film ero libera. Avevo divorziato da Antonio, chiuso una storia con Maurizio».

Antonio, ovvero Antonello Venditti, il padre di Francesco? «Sì».

E perché lo chiama Antonio? «Perché non gli si addicono i vezzeggiativi».

Non avete buoni rapporti? « Non abbiamo rapporti. Abbiamo discusso fortemente per il compleanno dei quarant’anni di mio figlio. Oggi ne ha quarantasette. Io penso che il compleanno di un figlio vada condiviso, Antonio invece voleva fare la festa da solo».

Perché? «Chissà. Forse ha del rancore. O più probabilmente un senso di colpa. Diciamo che è assolutamente colpa sua se la nostra storia è finita».

Un tradimento? «Sì. Aveva un’altra che poi ha lasciato dopo che noi due ci eravamo lasciati. Molti mariti fanno così. Maurizio è arrivato subito dopo».

«Sì. Lui non lo annovero tra gli uomini della mia vita. Quelli sono soltanto mio figlio, Ricky, Antonio, e poi mio padre».

E perché non Maurizio? «Non è stata così incisiva la nostra storia. Lui è tra le persone della mia vita che ho conosciuto e a cui ho voluto bene».

Niente di più? «Diciamo che io e Maurizio ci siamo dati una mano a vicenda. Non riesco a parlare di una vera e propria relazione sentimentale. Io venivo da una separazione, lui era in un momento difficile della sua vita. Infatti nel librino non lo cito nemmeno».

Quale librino? «Si intitola: “Quattro sorelle, otto matrimoni, nove divorzi”. Ovvero la storia di noi sorelle: io, Rossella, Giuppy, Fiamma. Con la prefazione di Ricky».

Otto matrimoni, nove divorzi: i conti non tornano. «È un titolo giocoso. Anche l’editore, Fabbri, ha obiettato che i conti aritmetici non erano giusti».

E lei cosa ha risposto? «Avvisi Tognazzi che deve stare attento che per far tornare conti posso divorziare da lui».

Dopo questo librino che progetti ha? «Raccontare in un film la storia di Francesca Morvillo, la moglie di Giovanni Falcone. Lo specifico sempre quando parlo di lei, in troppi non sanno chi sia».

Vuole fare questo film così non lo deve più specificare? «Esattamente. Era una gran donna Francesca, una magistrata del tribunale dei minori che era arrivata alla Corte dei conti di Palermo».

Poi ha seguito Giovanni Falcone a Roma. «Una grande storia d’amore la loro. L’ho scritta ispirata da un libro di Felice Cavallaro, che si intitola appunto “Francesca”. Con lui abbiamo pure rivisto la sceneggiatura. Particolarmente d’aiuto anche Alfredo, il fratello di Francesca».

Ha già in mente una protagonista? «Ci sto riflettendo. C’è un po’ di tempo, cominceremo a girare nel 2024. Sicuramente sarà una donna siciliana».

Nemmeno un’idea di massima? «Sto pensando a Donatella Finocchiaro, ha statura e fascino. Morvillo era bella, aveva una bellezza autorevole, non leziosa. Per lei ho scritto una storia fatta di silenzi perché la Sicilia è una terra dove le parole non si sprecano. E per me che scrivo tanto, che sono logorroica, è stato un grande sforzo raccontare in modo diverso questo personaggio femminile».

A proposito di donne, voi siete una famiglia al femminile. E anche suo figlio Francesco ha dato il suo con due femmine su quattro figli. «Adoro i miei nipoti. Mi viene da dire, con un scherzoso paradosso, che se avessi saputo che i nipoti erano così belli li avrei fatti prima di mio figlio».

Sua nipote Alice adesso è fidanzata con una ragazza. «Sì, con Serena. Vivono una storia bellissima».

Questa unione ha creato qualche problema in famiglia? «Ma no. Non c’è mai stato alcun conflitto. Alice lo ha detto al padre, con grande serenità. E anche al nonno ed è stata accolta da tutta la famiglia».

E lei come ha reagito alla notizia? «Sono stata la prima a sapere che Alice si era innamorata di una donna e quindi che era bisessuale. Ho vissuto questa confidenza come un omaggio alla nostra intimità».

Alice bisessuale? Prima c’era stato un fidanzato nella sua vita? «Sì, era il nipote di Gabriella Ferri, un ragazzo dolce, molto interessante, un direttore d’orchestra, Alice e Gabriele andavano insieme a scuola al Virgilio».

È una nonna soddisfatta? «Molto».

Estratto da liberoquotidiano.it sabato 12 agosto 2023.

Simona Izzo e Ricky Tognazzi hanno aperto la loro casa alle telecamere del Tgunomattina Estate. Il cosiddetto “angolo del caffè” è stato dedicato ai due artisti, che hanno raccontato alcuni aneddoti riguardanti la loro vita privata. A partire da quello legato al primo incontro, che non è stato propriamente indimenticabile.

“Ci siamo incontrati sul set del film ‘Parole e baci’ - ha ricordato Simona Izzo - e lui non riusciva a baciarmi bene. Mia sorella ha dovuto fare 23 ciak per ottenere una scena fatta bene”. Scena che hanno poi dovuto ripetere, dato che un bacio soltanto non bastava per tenere fede al nome della pellicola: “Quando ho detto a Ricky: ‘Dobbiamo darci un altro bacio’, lui ha lasciato il set”. Insomma, il primo incontro è stato indimenticabile, anche se non nel migliore dei modi. […]

Il frigorifero, Favignana e l'istruzione. Simona Izzo: "Sulle donne c'è un pregiudizio". L'attrice, scrittrice e doppiatrice racconta in esclusiva a IlGiornale.it il suo rapporto con il denaro. Si definise un po' "cicala", e poi lo usa per far star bene chi ama. E sugli investimenti pensa che...Roberta Damiata il 5 Giugno 2023 su Il Giornale.

Attrice, regista e scrittrice. Una donna sempre in movimento Simona Izzo: “Non c’è mai stato un giorno che non mi sia rimboccata le maniche”, racconta nella nostra intervista esclusiva, e sui soldi, per educazione ed esperienza di vita, ha un’idea precisa. Per lei il denaro: "Ha sempre un prezzo. Avere successo, essere una persona nota e forse fortunata - spiega - ha un rovescio della medaglia che molti non immaginano."

Che rapporto ha con il denaro?

“Sono cresciuta con una nonna che diceva che i soldi sono solo carta sporca, e devi spenderli e liberartene il prima possibile. Una donna un po’ "cicala" che pur essendo del secolo scorso, ha sempre lavorato tanto, facendo la maestra e crescendo 8 figli. Poi mio padre, un artista, un libero professionista che non sapeva mai se alla fine del mese poteva comprare quel vestito che a noi figlie piaceva tanto, o se dovevamo aspettare quello successivo. Per questo il mio rapporto con il denaro è strumentale, penso serva a dare gioia e a far stare bene le persone, me compresa.”

Per cosa lo usa principalmente?

“Alla mia età sono fiera di aver supportato i miei quattro nipoti dal punto di vista scolastico, perché insieme a Ricky (Tognazzi), che è il vice nonno, ci siamo assunti questa responsabilità. Parlano tutti correttamente inglese e certe volte non riesco proprio a comprenderli tanto sono bravi. In questo senso il denaro per me è stato un’arma, qualcosa che mi è servito per fare delle cose importanti per le persone che amo. Però non esiste pane senza pene.”

Che vuol dire?

"Il mio lavoro è basato principalmente su di me, sulla speculazione che faccio nei miei confronti. Creare un'opera non è sempre facile e non sempre si hanno riscontri. Ho impiegati molti anni per scrivere film che ho poi realizzato, ma molte volte non ci sono riuscita, perché convincere un produttore a mettere dei soldi su un progetto non è semplice. Anche se ho avuto popolarità, anche se qualcuno mi ritiene una persona fortunata, la mia fortuna la devo realizzare ogni giorno." 

Il successo economico di un uomo è uguale a quello di una donna?

"Chi ha successo, in un modo o nell’altro, fa fatica. C’è sempre un giudizio molto pesante, soprattutto per quanto riguarda il lavoro delle donne. Eppure noi siamo state quelle che durante la guerra, con gli uomini al fronte, abbiamo mandato avanti l’economia. Ho un grandissimo rispetto per il lavoro maschile, ma soprattutto per quello femminile, perché deve conciliare la famiglia con la professione. Ancora oggi nei confronti delle donne c'è un pregiudizio. Quando arriviamo sul set, Ricky lo salutano chiamandolo ‘maestro’, a me invece: ‘dottoressa’. Non ho mai capito perché, ma va bene così."

Si ricorda la prima volta che ha guadagnato dei soldi?

“Avevo sei anni e dovevo doppiare un bambino nel film di Vittorio De Sica Il Giudizio universale. Quando sono arrivata con mia madre e ho visto che si trattava di dare la voce ad un maschio, mi sono rifiutata e volevo andare via. De Sica mi ha spiegato che fino ad 11 anni maschi e femmine hanno lo stesso timbro di voce, ma io ero irremovibile. Mentre stavo uscendo, il ‘maestro’ mi ha messo in tasca qualche caramella, e in quel momento ho capito che nel lavoro, che poi i miei chiamavano ‘studio’ perché a quell’età stavo imparando il doppiaggio, c’era una contropartita, così decisi di farlo."

Alla fine ha avuto la parte.

"Però l'idea di aver ceduto, mi fece scoppiare a piangere, ma andai comunque avanti perché avevo dato la mia parola. De Sica fece registrare quel pianto e alla fine mi disse profeticamente che avrei fatto quel lavoro, perché non solo avevo capito la fatica, ma anche ‘la controparte’ che ne derivava. È stata quella la prima volta che ho compreso che il mio lavoro, la mia persona, il mio corpo e la mia sensibilità, mi avrebbero potuto far vivere.”

Cosa ha comprato con quei soldi?

“All’epoca nulla, li metteva da parte mia madre dicendo che sarebbero serviti per gli studi. Sono cresciuta proprio con l’idea che lavoro significava anche studio, andare avanti, migliorare, per questo non ho mai voluto vicino a me uomini ricchi, casomai ho scelto compagni che lo sarebbero poi diventati. I primi guadagni che ho poi gestito, sono arrivati a 18 anni, e ci ho comprato un frigorifero a rate. Avrei potuto prendere una macchina, vestiti o scarpe, ma ho pensato che quell'elettrodomestico mi sarebbe servito in futuro, quando fossi andata via da casa dei miei genitori. Avevo già l’idea della cura, del riporre il cibo, di famiglia e moglie, anche se ancora non lo ero.”

Quale è stata la spesa più folle che ha fatto nella vita?

“Una casa sull’isola di Favignana dove pensavo sarei andata a vivere. Poi non l’ho fatto, ma la casa è sempre lì, in uno dei posti più belli del mondo. È scavata nel tufo con 10mila metri quadri di giardino con affaccio sul mare. L’abbiamo presa io e Ricky, intestandola ai figli, con un mutuo che stiamo ancora pagando e non sappiamo quando finirà. Anche in questo caso, il denaro è stato usato per qualcosa che ha fatto bene alla mia vita e quella delle persone che amo.”

A parte la casa, ha fatto qualche altra forma di investimento per il futuro?

“Ho fatto studiare i miei nipoti. Non ho mai avuto soldi a sufficienza per poterli investire, e non ho voluto farlo. Continuo a sentirmi più cicala che formica. Preferisco investire sulle persone, come mi ha insegnato la mia famiglia, soprattutto per farle studiare. Poi sopravviverò con la pensione, e con quello che riuscirò a fare.”

Cristina Lacava per iodonna.it il 15 Gennaio 2023.

Un’altra vacanza esclusiva in un resort a cinque stelle, dove approdano coppie giovani e glam apparentemente innamorate, nonni-papà-figli in cerca delle proprie radici, miliardarie di mezz’età irrisolte con assistenti inquiete, mentre da lontano una ragazza, Simona Tabasco, osserva. Il contesto è sfavillante, le suite immense, le Teste di Moro in ceramica di Caltagirone in mostra sulle credenze, l’Etna sullo sfondo e il mare davanti. La seconda stagione di The White Lotus, premiatissima serie Hbo in onda in esclusiva su Sky e in streming solo su Now, lascia le Hawaii e sbarca a Taormina. Anche qui, come nella prima stagione, si comincia con il morto, anzi, più di uno: la turista americana con viso e corpo da Barbie si butta in acqua e all’improvviso vede emergere dalle onde dei corpi.

Da lì si torna indietro con il flashback a quando al The White Lotus – in realtà il San Domenico Palace – arrivano sbarcando da un battello i nostri protagonisti: tra loro Jennifer Coolidge, unica già presente nella prima  stagione (vincitrice di uno dei 10 Emmy conquistati dalla serie), nelle colorate vesti della ricca Tanya con marito al seguito, e F. Murray Abraham, arzillo vecchietto con il figlio produttore e il nipote neolaureato. Ad attenderli, oltre alla direttrice dell’albergo Sabrina Impacciatore, due ragazze del posto che si tengono prudentemente in un angolo per non farsi vedere: un’aspirante cantante (Beatrice Grannò) e Lucia, bella, disinvolta, «una che sceglie di fare del proprio corpo quello che vuole» dice Simona Tabasco, 28 anni, che la interpreta.

 Per l’attrice napoletana, che abbiamo visto nei panni della dottoressa Elisa Russo al fianco di Luca Argentero nelle due stagioni di Doc – Nelle tue mani, e in quelle della poliziotta Alex in I bastardi di Pizzofalcone (ora è sul set della quarta stagione), The White Lotus 2 è stata l’occasione di entrare in una grande produzione americana con un personaggio sfaccettato, in evoluzione, per niente scontato. Proprio come lei.

Ci parli della “sua” Lucia. Chi è?

Una donna libera e consapevole che vuole prendersi la vita a morsi, che immagina di conoscere gli uomini e di dominarli per farne quello che vuole, che crede di poter decidere per se stessa e il suo futuro. Ma ha anche un lato ingenuo, nascosto, e nel corso delle puntate avrà un percorso di crescita per niente scontato. Fidatevi, vi sorprenderà.

 Sul set di The White Lotus 2 era una delle tre attrici italiane in un cast anglosassone. Che effetto le ha fatto?

Gli americani sono stati straordinari, mi hanno fatto sempre sentire a mio agio, sono aperti a tutti, non escludono mai nessuno. Hanno un bel modo di lavorare. Mi hanno festeggiata per il compleanno e non me l’aspettavo proprio!

Con Beatrice Grannò avete girato insieme le due stagioni di Doc. Com’è stato ritrovarvi in The White Lotus 2?

Con Beatrice ci conosciamo da dieci anni, dai tempi del Centro Sperimentale di Cinematografia. Siamo state contattate mentre facevamo Doc. Credo che il regista Mike White, lo stesso della prima stagione, abbia voluto proprio sfruttare l’alchimia che c’è tra di noi.

 Ha sempre pensato di fare l’attrice?

No, in realtà volevo fare la fashion stylist. Mi ha sempre appassionato la moda e chissà che prima o poi non capiti l’occasione. Mio padre è grafico pubblicitario, mi ha insegnato l’alfabeto disegnando. Il mio fratello gemello, Marco, lavora in una casa discografica. Abbiamo tutti in famiglia un lato artistico e i nostri genitori ci hanno sempre lasciato liberi di fare e di sognare. Il cinema è entrato per caso nella mia vita al Giffoni Film Festival, dove ho girato dei piccoli cortometraggi.

Quando è diventato un lavoro?

La svolta è stata la serie È arrivata la felicità. Però non me la sento oggi di precludermi altre strade. Ho 28 anni, penso che si possa cambiare, oggi ci sono più possibilità, nuove professioni da intraprendere. Non posso dire: farò questo o quello tutta la vita, è troppo presto.

 Per esempio, che cosa le piacerebbe fare?

Uno dei mie sogni è iscrivermi al corso di laurea in Beni Culturali. Amo l ‘arte, soprattutto quella contemporanea ma non solo. Il mio pittore preferito è il fiammingo Hyeronimus Bosch, vissuto alla fine del Quattrocento.

Bosch rappresentava mondi di angeli e diavoli, streghe e mostri. Inquietante e affascinante, non trova?

Proprio per questo mi attira, come mi attirano i personaggi grotteschi dei film di Fellini. E sa con quale regista mi piacerebbe lavorare?

 Ci provo: Sorrentino?

Lui certo, ma il mio preferito è il David Fincher di Seven. Adoro le storie cariche di suspense, le realtà nascoste, i personaggi con una doppia faccia.

Come i suoi? Lucia di The White Lotus 2 ha una sua evoluzione che non ci vuole spoilerare. Elisa di Doc è una dura in corsia, ma nei rapporti con gli uomini è quantomeno confusa: nella seconda stagione intrattiene una relazione ambigua e virtuale addirittura con un sacerdote.

Ho un viso volitivo, mi cercano spesso per interpretare ragazze determinate. Ma queste “mie” donne non hanno mai una o due sole dimensioni. Sono sfaccettate, hanno da raccontare qualcosa di scomodo, anche disturbante. Hanno lati d ‘ombra. Riguardo a Lucia, non si sa che strada prenderà.

 Sfaccettate e anche sexy. Lucia non nasconde la sua femminilità. In quanto a lei, l’abbiamo ammirata nel suo nude look luccicante alla Mostra del Cinema di Venezia. Quanto conta la bellezza per lei?

Non è il motivo che mi spinge a fare questo lavoro. Non mi interessa mettermi davanti a una telecamera e mostrarmi. La bellezza non è apparenza, è come ci si sente con se stessi. E non è detto che una bella ragazza debba aver per forza un uomo accanto.

Ci vuole dire che non è più fidanzata con il musicista Rodrigo D’Erasmo, il violinista degli Afterhours?

Diciamo che oggi sono felicemente concentrata sul mio lavoro. Certo, mi auguro prima o poi di trovare qualcuno con cui condividere la mia vita, ma sono davvero impegnata come attrice. Sono appena tornata dalla première a Los Angeles di The White Lotus 2, è stato fantastico.

Simona Ventura: «Fazio? Una grossa perdita per la Rai. Dopo l’aggressione a mio figlio le priorità sono cambiate».  Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 03 Giugno 2023.

La conduttrice: «Amo le donne ma sono state anche le mie più grandi nemiche. Non vado da Barbara D’Urso perchè non voglio e perché non mi invita. Ma non sono escludente» 

Cerca di dire una parola a tutti, Simona Ventura. Alla gente accalcata alle transenne, in cerca di un seflie (ma c’è anche qualche nostalgico al Festival della Tv di Dogliani, che chiede anche un autografo). «Mi piace molto stare in mezzo alla gente, mi dà energia. Se no cambi mestiere: non te lo ordina il medico di fare tv. È un grande privilegio avere delle persone che ti seguono e che ti vogliono bene». Ed è anche per questo, forse, che a margine dell’incontro chiede al pubblico che l’ha seguita se c’è qualche domanda in più, oltre alla cavalcata con cui si è raccontata in un’ora di conversazione. «Rispondo a tutto», anticipa. Pronti, via. Una signora le chiede se è dispiaciuta per «la dipartita di Fazio». «Per fortuna non è una dipartita — risponde —. Di certo mi è molto dispiaciuto: sono amica di Fazio e lo ringrazio per opportunità che mi ha dato quest’anno. Dovevo andare ospite da lui una volta al mese, dopodiché ci sono andata tutto l’anno. Ma si fanno delle scelte: io mi sono rivista. Nel 2011 ho fatto la stessa scelta, decidendo di andare a Sky. Posso dire che a me dispiace: è una grossa perdita per la Rai. Lui andrà al Nove, una nuova vita, una nuova esperienza. E uno bravo così farà bene anche al Nove. Lo seguiremo».

Di nuove vite, in effetti, ne ha avute parecchie anche la conduttrice. Che però, dal palco, indica solo uno spartiacque: «L’aggressione a mio figlio per me ha rappresentato una svolta. Ho avuto la fortuna che continuasse a vivere dopo 11 coltellate e per me tutto ora ha un valore diverso». Televisione compresa: «Sento che posso tornare a fare delle cose in tv, posso ancora dire la mia ma piano piano... arriviamo... non voglio dire non ci hanno visti arrivare perché ci hanno visto benissimo». Una citazione che si riferisce, forse, ai momenti più complicati della vita professionale della conduttrice. «Sono fortunata e molto grintosa nell’aver perseguito le cose volevo fare ma anche nel saper gestire quando le cose andavano male. Non ho mollato. Crederci sempre, arrendersi mai, resta ancora il mio motto».

Una carriera che inizia da lontano: «Ho cominciato in una piccola tv locale, Rete Canavese. Questo mestiere mi piaceva ma non era il mio lavoro primario. Io studiavo per fare la professoressa di ginnastica. Poi ho iniziato a fare i concorsi di bellezza e in uno ho incontrato Paola Ferrari, la giornalista. Mi disse: “Io vado in una nuova realtà che si chiama Odeon tv, ti lascerei il mio posto a Telenova”. Ho cominciato a lavorare nel calcio così: mi sono resa conto che fare la valletta non mi piaceva per niente e che a Roma non c’erano volti femminili che parlassero di calcio in maniera tecnica, così ho cominciato. Posso dire di aver sempre cercato di anticipare e riempire gli spazi». Fino a raggiungere la Domenica Sportiva: «Un mio sogno di bambina. Volevo il posto di Maria Teresa Ruta. Con lei ridiamo sempre di questa cosa».

Non è stato sempre semplice, «ma ricevere molte porte in faccia fa benissimo, ti tempra. All’inizio sono andata sulla quantità: se bussi cento porte una si aprirà. È difficile farlo capire ai ragazzi di oggi: non vogliono sentir parlare di cadere e rialzarsi. Il fallimento non è contemplato ed è sbagliato. Io credo che ci migliori: impari a nuotare in tutti i mari». Ama le donne, «lavoro con Paola (Perego) da anni e siamo state confermate: credo siamo le prime a lavorare tra donne dai tempi di Carrà e Mina, ci vogliamo un gran bene. Ho lanciato negli anni moltissime donne e ho dato loro tanto spazio: certo, le mie più nemiche sono state le donne ma altre donne sono anche quelle che mi hanno salvato nei momenti peggiori». Una persona le chiede come mai non sia mai stata ospite di Barbara D’Urso: non l’ha mai invitata o non è mai voluta andare? «Ognuna delle due risposte va bene. Ma una cosa posso dirla, io non sono mai stata escludente, casomai lo sono gli altri».

Ricorda gli anni della sua «Isola dei Famosi», un fenomeno che ha cambiato in parte il modo di fare reality: «I casting duravano un anno, in tanti si fermavano e non lavoravano pur di partecipare. Non non c’era copione, bisognava avere la forza di non leggere il gobbo e io non lo facevo mai. Questa cosa mi divertiva moltissimo. Ma ho sempre preferito avere nel cast persone o già famose o che lo fossero state. Quando hanno iniziato ad arrivare da noi le persone comuni non ho più voluto fare i reality. Ho visto tante storie tristi di chi è stato travolto dalla televisione».

Parla poi del futuro della televisione, un «futuro che è già iniziato: ormai ognuno si fa il suo palinsesto, anche se la televisione generalista è viva e lotta insieme a noi. Tiene una grande compagnia, sopratutto per le persone della terza età». Ripensa a quella che guardava lei, da ragazzina: «Ero fan di Happy Days: una volta mia sorella, che ha dieci anni meno di me, è caduta dal seggiolone perché dovevo guardala ma ero incantata dalla tv. Poi guardavo Tele Torino International, la tv privata da cui poi nacque Canale 5. C’era un giovanissimo Pietro Chiambretti che andava al mercato e prendeva borsettate in testa dalle donne per le domande che faceva loro. Poi ricordo che di notte partiva Lo spogliarello delle casalinghe: la gente doveva rispondere a domande di cultura generale, se vinceva lei toglieva un capo, altrimenti lo rimetteva. Una notte sono andata in cucina a bere e ho visto mio padre ipnotizzato. Poi guardo fuori dalla finestra e nei palazzi davanti a casa nostra, a Chivasso, c’erano tutti i televisori accesi, sembrava Capodanno».

Nel suo futuro non immagina più di dirigere qualche rete: «Tutti i dirigenti diventano vecchissimi e io non voglio invecchiare. Mi piace questa cosa della regia e poi sono diventata editrice oltre che produttrice dei miei programmi... tra un po’ posso anche lasciare il lavoro che ho fatto finora a dei ragazzi giovani che se lo meritano». Intravede una sua erede? «No», risponde netta. «Quando ho avuto successo, negli anni 2000, le mie eredi le chiamavano le sventurate... io penso non sia stato fatto un lavoro di scouting, una scuola, non si sono forgiate nuove persone. Ci si è molto soffermati sulla superficialità. La gavetta è la base di ogni cosa e non tutte le ragazze che sono in tv l’hanno fatta».

Per il futuro non ha sogni, dice: «Ho avuto tutto. Non ho rimpianti e non ho rimorsi, che è la cosa più importante per me. È stata dura eh». Nessuno nessuno? «Forse un rimpianto ce l’ho: non aver potuto seguire con Quelli che il calcio lo scudetto del Napoli. Un sogno? Lo scudetto del Torino. Tra dieci anni mi piacerebbe avere una casettina al mare e fare la nonna». Come mamma, oltre che fortunata si sente soddisfatta: «Quando ho lasciato la Rai per andare a Sky l’ho fatto per seguire i miei figli, che erano adolescenti. Lavoravo a un ritmo impressionate e dovevo rallentare così il primo treno passato l’ho preso al volo e ho fatto bene. È stata una mia scelta andare via dalla Rai in quel momento per seguire più da vicino i miei figli. Ora nessuno dei tre vuole fare tv e questo mi rasserena. Sono orgogliosa del lavoro che è stato fatto con loro».

Simona Ventura e Giovanni Terzi: «Ci sposiamo: c’è una data», «Un mese prima di conoscerla era morta la mia prima moglie: mi ha salvato». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 21 Marzo 2023.

La conduttrice e il giornalista: «La nuova data la comunicheremo solo a ridosso». Lui: «L’ho intervistata in pubblico e mi sono emozionato». Lei: «È un uomo risolto, non è in competizione con me»

Simona, ha poi letto «Eroi quotidiani», il libro di Giovanni da cui è partito tutto?

«No, ormai per scaramanzia».

Giovanni: «In compenso lo ha letto sua madre. Ha detto che era un po’ pesantino...».

Simona Ventura e Giovanni Terzi si tengono per mano sul divano della loro casa a Milano, in zona Rai. Forse lei è un po’ sulle spine, perché avrà pure i super poteri (non a caso la chiamano Super Simo), ma quando parlano di felicità lo fanno con il pudore di chi sa che non è scontata (ed è molto invidiata). Galeotto fu il famoso libro di Terzi: lui glielo regalò con dedica a una cena da amici nell’ottobre di cinque anni fa, lei il giorno dopo gli mandò un messaggio sul telefonino (che aveva chiesto a un’amica) dicendo che aveva cominciato a leggerlo e lo trovava intenso (non era vero, ma questo glielo confessò dopo). Terzi rispose: «Sei un tesoro». E lei: «Insomma. Dipende». Erano le 18.57: l’amore inespresso in un minuto.

Giovanni, com’è intervistare la propria compagna?

«È successo una volta su Libero e altre due in pubblico, a Levanto e a Rimini. Ero emozionato e lei, per mettermi a mio agio, disse che sudavo...»

Simona: «...come un cinghiale in riserva. Era una battuta!».

Quando vi sposate? Lo dite ogni anno...

Giovanni: «Avevamo definito le date tre volte. La prima, scoppiò il Covid. La seconda, ci fu la nuova ondata. L’anno scorso la guerra. Ora abbiamo definito una data nostra, per noi significativa, e la comunicheremo solo a ridosso».

Sarà a Milano?

Simona: «No, non qui».

I testimoni già scelti?

Giovanni: «Per me sarà il mio amico del cuore Marco Di Terlizzi, che ha fondato con il professor Alessandro Frigiola la fondazione Bambini cardiopatici nel mondo».

Simona: «Io ne parlo con Paola (Perego, ndr). Lei è forte dei 25 anni di rapporto con Lucio (Presta, ndr) e mi può dare dei consigli».

Chi è più geloso?

Simona: «Io non penso di esserlo. Ma se mi salta la mosca al naso allora lo divento».

Giovanni: «Io pure. Capisco dalle attenzioni che le riservano gli altri se c’è un interesse verso la donna meravigliosa che è».

Simona: «Diciamo che io magari faccio finta di niente».

Non siete gelosi nemmeno dei vostri ex?

Giovanni: «Ho un buon rapporto con tutti i suoi, sono persone simpatiche, e poi se Simona li ha amati un motivo ci sarà. Soltanto nei confronti di una persona non ho alcuna simpatia: chi le ha fatto male non può starmi simpatico».

Simona: «Io con l’ex moglie, Silvia, ho un ottimo rapporto, siamo molto amiche».

Lei, Simona, ha confessato di essersi riavvicinata ai suoi genitori e a sua sorella grazie a Giovanni. Possibile?

«Sì, è vero. Esiste un tipo di violenza che è psicologica ed è quella che ti fa terra bruciata intorno. Devo anche dire che ho sempre sognato una famiglia allargata e adesso ce l’ho grazie a Giovanni».

Tre figli per Simona (Niccolò, Giacomo e Caterina), due per Giovanni (Lodovico e Giulio), due cani: com’è stata l’integrazione?

Simona: «Quello tra i cani è l’unico innesto non riuscito: ha vinto il mio, Ugo, noto anche come The Killer Dog; Rocco lo abbiamo dovuto mandare in campagna. Quanto ai ragazzi, per loro è stato un po’ più difficile: i miei mi avevano vista soffrire ed erano preoccupati. Ma adesso siamo veramente felici: la nostra è una tribù dove nessuno rimane indietro; più che una casa, la nostra è una comune!».

Avete raccontato che vi siete salvati la vita a vicenda.

Giovanni: «Un mese prima di conoscere Simona è morta la mia prima moglie, la mamma di Lodovico. Arrivavo da dei fallimenti giganteschi. Io che sono astemio mi scolai a canna una bottiglia di vino. Mi sentii male e dissi: spero di non risvegliarmi. Poco dopo è arrivata lei».

Simona: «Io mi ero finalmente liberata da una relazione, ero tornata single ed erano rimaste le macerie. In quel momento è arrivato lui».

Litigate?

Giovanni: «Per cavolate».

Per esempio?

Simona: «Quando butta per terra le cose vicino al letto. Diciamo che è un po’ disordinato, mentre io sono la bella lavanderina».

E un pregio di Giovanni?

«È protettivo».

Giovanni: «E bello».

Simona: «Sì, anche bello».

Tocca a Giovanni: pregi e difetti di Simona?

«È un po’ permalosetta. Provi a farle una critica».

Non ci penso nemmeno.

«Mentre i suoi grandi pregi sono la generosità e la capacità di amare».

Simona ha detto che lei, Giovanni, è una quercia.

«E Simona è l’acqua che innaffia la quercia».

Avete appena presentato in Senato il sito sui diritti umani «The Globalistnews.it» e avete realizzato insieme i docufilm firmati da Simona: «Le 7 giornate di Bergamo» e «Marco inedito», sugli ultimi cento giorni di Marco Pannella.

Simona: «Giovanni è un uomo risolto, non è in competizione con me. Ha una soluzione per tutto».

Giovanni: «Del Globalistnews lei è editore e io direttore. Per me lavorare insieme significa averla ogni istante della mia vita vicino. Il 29 marzo saremo al Parlamento europeo a Bruxelles per proiettare Marco inedito davanti alla presidente Metsola».

I momenti più belli?

Giovanni: «Quelli tranquilli, quando siamo soli, in silenzio e facciamo cose semplici come guardare i tramonti».

Simona: «Uno molto felice è stato a Venezia, per Le 7 giornate di Bergamo».

Che regali vi fate?

Simona: «Utili. Ho molto apprezzato un Bimby, lui un computer».

Giovanni: «Ha preso una Vespa del 1962, che è di tutti e due. Ma i veri regali sono le attenzioni di tutti i giorni, come quando arriva a casa e mi porta 6 magliette di Cos».

Chi prepara il caffè la mattina?

Giovanni: «Io».

Qualche parola del vostro lessico famigliare?

Simona: «Patatino, patatina...».

Giovanni: «Adesso ho coniato Polpetta. O Papera, perché la mattina quando si sveglia è un leone e la sera una paperetta».

Per quale attività del passato del vostro partner provate più ammirazione?

Giovanni: «Quello che sintetizza il suo coraggio e talento è il Festival di Sanremo del 2004, perché era lei contro tutti, l’unico boicottato dalla discografia. A lei arrivano solo cose che deve costruire da zero».

Simona: «Avevo accettato perché sono quei treni che passano una volta. E comunque alla fine venne pure Celentano: la Rai fece una bella trattativa».

E lei Simona se guarda le cose fatte da Giovanni?

«Di sicuro la più importante è stata l’attività di assessore con Letizia Moratti sindaco di Milano. Quando usciamo se lo ricordano tutti».

Le nozze alle porte. Ma l’anello di fidanzamento c’è?

Giovanni: «Più di uno».

Come va la salute?

Giovanni: «Ho la dermatomiosite amiopatica. Ormai il 40 per cento dei miei polmoni è compromesso: i nostri sforzi sono per evitare che peggiori».

Insieme nella buona e nella cattiva sorte.

Simona: «Proprio così. Ho preso un rottame!».

Simone Cristicchi, lezione alla sinistra: "Migranti, mi accusano di fascismo?" Lucia Esposito su Libero Quotidiano il 03 maggio 2023

Simone Cristicchi, lezione alla sinistra: "Migranti, mi accusano di fascismo?"

Nel 2007 si presenta sul palco di Sanremo e canta l’amore dei matti, quello di Antonio («un pianoforte con un tasto rotto, l’accordo dissonante di un’orchestra di ubriachi») per Margherita, anche lei rinchiusa in un manicomio. Un amore impossibile come la vita dei malati di mente che per quelli normali «sono solo spazzatura». Simone Cristicchi all’inizio ci era sembrato anche lui un po’ matto a irrompere nel regno delle canzonette con un testo così difficile, ma Ti regalerò una rosa è una canzone così potente che infrange tutti i cliché e vince il Festival. Nel 2013 lo stesso Cristicchi porta a teatro uno spettacolo dal titolo Magazzino 18. Parla dell’esodo giuliano-dalmata, una tragedia strappata dai libri di storia che se ne stava confinata in un angolino remoto dell’Italia orientale. Simone prende quella scheggia di storia e ce la conficca nella testa e nel cuore. Da qualche giorno Cristicchi è in libreria con Lo chiederemo agli alberi, (Baldini e Castoldi, 18 euro), un albo illustrato che nasce da una delle sue canzoni che sono insieme spirito e materia, poesia e preghiera. «Con i disegni dell’autore», si legge in copertina. E così, sfogliando il libro si scopre il Cristicchi disegnatore dal tratto leggero ed essenziale ma anche attraverso il segno grafico l’artista riesce a risvegliare sensi sepolti sotto strati di polvere di noncuranza. Non lascia indifferenti.

Da piccolo voleva fare l’archeologo, ma oltre a scrivere, cantare, recitare, sa anche disegnare.

«Avevo abbandonato il disegno a 16 anni, avevo fatto una sorta di indigestione. In quegli anni avevo scoperto la chitarra e cominciai a cantare.

Durante il primo periodo di quarantena mi è tornata la voglia di disegnare, grazie a Elisabetta Sgarbi ho realizzato una mostra anche con i lavori di quando ero ragazzo...».

Il suo maestro è stato Jacovitti, mica poco...

«Sì. Lo adoravo, compravo tutto di lui. Un giorno mi decido, prendo l’elenco del telefono e trovo il suo numero. Jacovitti Benito Franco... Gli telefono, prendo un appuntamento e gli porto i miei disegni. Lui mi rispedisce al mittente. “Non mi serve una fotocopiatrice umana”, mi dice. E così mi ha insegnato a trovare un mio stile che è quello che vedete nel libro».

Impareremo dagli alberi è una canzone che le maestre insegnano ai bambini alle elementari. Dice: “Chiederemo agli alberi come si fa a restare immobili fra temporali e fulmini, invincibili. Risponderanno gli alberi che le radici sono qui...”. Come nasce questa canzone?

«Dopo un lungo periodo di contemplazione e silenzio, tra pellegrinaggi negli eremi francescani e soggiorni selvatici in baite sperdute del Trentino. Ho passato un periodo con le “Sorelle Allodole”, nell’Eremo francescano di Campello sul Clitunno. L’allodola è l’uccellino più amato da San Francesco».

Nel testo ci sono anche loro, le allodole. “Chiederò alle allodole come restare umile..."

«L’allodola vive con poche briciole, eppure canta dall’alba al tramonto...Insegna l’umiltà».

Musica, teatro, disegno. Qual è la sua casa, quella in cui si esprime pienamente?

«Il teatro è la mia isola felice».

Sul palco porta anche la Storia. Ha scritto con Ariele Vincenti Marocchinate, uno spettacolo che racconta delle migliaia di donne stuprate e uccise nella primavera del ’44 dai soldati africani in Ciociaria.

«Credo che il ruolo di un artista sia quello di provocare, risarcire la memoria di chi non ha avuto giustizia. In Marocchinate il protagonista è un pastore ciociaro che ha vissuto sulla propria pelle questa tragedia che è stata rimossa, come quella dell’esodo».

Come ha saputo dei profughi istriani?

«Da piccolo passavo davanti al villaggio giuliano-dalmata di Roma e credevo che giuliano fosse un nome e dalmata un cognome, poi ho letto un libro Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani. Sono andato a Trieste, al Magazzino 18, che allora non era aperto al pubblico. Ho visto con i miei occhi tutti gli oggetti, tutta quella vita strappata agli esuli. Una volta uscito, ho promesso che avrei raccontato, denunciato. Lo faccio da dieci anni, decine di migliaia di persone sono venute a sentire, a vedere, a capire».

Per questa scelta è stato accusato di fascismo.

«Prima di andare in scena ho fatto leggere il copione a diversi storici, a chi ne sa più di me. Una volta avuto il lasciapassare, sono andato avanti per la mia strada. Lo scopo del mio spettacolo non è soffiare sulla brace del conflitto tra fascisti e comunisti, ma raccontare il dramma di quegli italiani che hanno perso la loro terra... Vede, è diverso dai migranti».

Ci spieghi.

«Pensiamo agli emigranti che lasciavano Palermo, Napoli, Milano e cercavano fortuna altrove. Loro sapevano che se fossero tornati avrebbero ritrovato la loro terra. Gli esuli, invece, sono stati sradicati, il loro mondo non tornerà più per una Storia che ha cambiato forma».

C’è qualcosa o qualcuno che l’ha colpita di più?

«La storia di Marinella Filipaz morta di freddo nel campo profughi di Trieste. Sa quando? Nel 1954, quando la guerra era finita da un pezzo e l’Italia si preparava al boom. Sa quante madri si sono impiccate, quanti vecchi sono morti di crepacuore?».

Recentemente ha scatenato molte polemiche anche il suo post contro la maternità surrogata.

«Ho solo riferito quello che ho visto in Kosovo. Ho raccontato di Jelena, una ragazza che è una “roda”, una cicogna. Ha prestato il suo utero a chi non poteva avere figli. Anzi, ha venduto, noleggiato, affittato il proprio utero, perché nel mondo ricco, eterosessuale ed omosessuale, il figlio è un diritto che se non si ottiene per grazia, fortuna e natura, si compra con il danaro. Jelena guadagna 5mila euro. Io le ho viste le ragazze dopo il parto, sono distrutte. Sa da chi ho ricevuto più critiche per aver difeso le donne?»

No.

«Dalle donne».

È stato mai ghettizzato per le sue opinioni? Sente la cappa del politicamente corretto?

«Ho un solo padrone: il mio pubblico. Per questo ho una grande libertà. Penso che l’arte debba risvegliare le coscienze anche andando controcorrente. Molti, invece, sono asserviti al potere. Fabrizio De André diceva che l’artista deve essere la una spina nel fianco del potere».

Cristicchi è quella spina che punge e a volte fa anche male. È la scossa che ci obbliga a guardare dove non vogliamo, che ci mette davanti quell’orrore che preferiamo non vedere. Ma come in «Lo chiederemo agli alberi», sa anche indicarci la strada della bellezza che troppo spesso smarriamo. 

Simone Cristicchi: «Io, illuminato da una teoria opposta a quella cristiana. Con i giovani parlo di Dio».  Caterina Ruggi d'Aragona su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2023.

Il cantautore dedicato un concerto a Battiato: «È stato l’unico a portare la musica all’origine primordiale, recuperandone il ruolo liturgico»

Franco Battiato riporta a casa Simone Cristicchi e Amara. Il concerto di stasera (ore 21.15) al Politeama Pratese – prima tappa dell’anno per la tournée teatrale Torneremo ancora. Concerto mistico per Battiato – evoca per l’una l’odore della casa natìa, per l’altro il calore di un luogo familiare. Perché nonostante sia nato a Roma, Simone Cristicchi ha trovato in Toscana una terra adottiva. «Firenze è la città in cui mi sono esibito per la prima volta: avevo 18 anni quando, alle 2 di notte, salii sul palco dell’Eskimo Club per intonare miei inediti. In generale, quando oltrepasso il confine tra Lazio e Toscana sento una strana sensazione di benessere. Battiato direbbe che in una delle mie vite precedenti sono stato toscano», dice il cantautore. La sua compagna di viaggio, Amara, invece è nata a Prato. «Sarà un’emozione impagabile portare davanti alle amiche dell’adolescenza e alla carrellata di parenti il concerto dedicato al maestro», commenta la cantautrice che vanta prestigiose collaborazioni (in primis con Fiorella Mannoia). «Il nostro — dice a proposito di Cristicchi — è stato l’incontro tra due anime che si riconoscono, perché condividono la stessa dimensione esistenziale ed artistica». «Non ci aspettavamo di riscontrare così tanto successo da avere sold out in quasi tutte le date», aggiunge Cristicchi.

Come è nato il tributo mistico a Battiato? 

«Quando Amanda e io abbiamo cominciato a prendere il testimone del repertorio mistico e spirituale di un così grande artista ci siamo preparati a una disfatta. C’è voluta una buona dose di coraggio. È stata una bellissima sorpresa trovare l’affetto di migliaia di orfani di Battiato, che conoscono i brani con cui ha cercato di elevare lo spirito: da L’ombra della Luce, una preghiera universale, a Torneremo ancora, suo ultimo brano inciso. Tante persone “in ricerca” si connettono con noi a una frequenza ben precisa, che non è quella dell’intrattenimento, e costruiscono il concerto assieme a noi. Con il risultato di una commozione generale sulle note di un artista che è riuscito a toccare le corde più profonde».

 Cosa sente in comune con Battiato?

 «L’attitudine verso la sacralità della musica. Forse Battiato è stato l’unico a riportare la musica alla sua origine primordiale, recuperandone il ruolo liturgico. Amara e io abbiamo ritrovato in Battiato il prolungamento della nostra ricerca spirituale. E sentiamo la responsabilità dell’artista nei confronti di un pubblico che spesso vuole farsi indicare la strada da seguire. Perciò, abbiamo deciso di inserire nel concerto canti sacri legati a tradizioni diverse — dai mantra ai canti ortodossi in aramaico o le sonorità orientali a cui Battiato era molto legato — che creano effetti benefici in chi canta e in chi ascolta». 

Lei quando ha iniziato il percorso spirituale? 

«Nel 2015, quando con Il secondo figlio di Dio ho raccontato in teatro la vicenda umana e spirituale di Davide Lazzaretti, profeta del Monte Amiata vissuto alla fine dell’‘800 ad Arcidosso. Una figura carismatica che aveva creato una comunità socialista ante litteram ma fu scomunicato e ucciso perché dichiarato eretico. Io mi sono imbattuto in lui quando ho creato il Coro dei minatori a Santa Fiora, sull’Amiata. E sono stato illuminato dalla sua teoria, opposta a quella cristiana: non un Dio che si incarna, ma l’uomo che attraverso le sue facoltà riesce a divinizzarsi. Lì dove Lazzaretti edificò il suo eremo, sul monte Labbro, ho percepito un’energia spirituale verso la quale ero molto scettico, che poi ho ritrovato in luoghi diversi, come il monastero dei monaci Visoki Decani in Kosovo, dove ho avuto il piacere di soggiornare in immersione totale con la natura. Il silenzio può esse un grande nemico, che ti mette a confronto con mostri e ombre; ma se impari ad ascoltarlo è rivelatorio». 

Cosa pensa di Papa Francesco? 

«È una figura di forte spiritualità, rivoluzionaria per la storia della chiesa. Ho avuto la fortuna di incontrarlo due volte, nel 2019, per pochi minuti. Purtroppo ultimamente lo vedo stanco e affaticato». 

E Papa Ratzinger? 

«Mi sarebbe piaciuto tanto incontrare anche lui. Penso sia stato fondamentale, ingiustamente criticato da tanti». 

Riesce a parlare di Dio con i giovani? 

«Sì. Noto una fortissima propensione all’ascolto. Quando vado nelle scuole, mi pongo come uno di loro, mettendo in mostra le mie fragilità, e cerco di smontare luoghi comuni come quello del successo social. I giovani sono sempre sorprendenti. Un giorno, durante una matinée teatrale per le scuole, notai tante luci dei cellulari. Poi mi arrivò una lettera dagli studenti: si scusavano per i loro professori che si erano distratti durante lo spettacolo». 

I suoi figli fanno catechismo? 

«No, sono ancora piccoli. Ci sarà tempo per interrogarsi insieme sul divino. Per ora cerco di stimolare la loro curiosità». 

Cosa le sta dando la collaborazione con Amara?

 «Armonia perfetta. Io ho avuto pochissime collaborazioni. Con Amara è nata prima una bellissima amicizia, poi una comunione musicale, sul terreno di una grande stima reciproca. Sul palco si crea magia, anche perché la sua voce femminile fuori dal comune, graffiante e profonda, incontra la mia voce esile, quasi fanciullesca». 

Tornerà a Sanremo? 

«Perché no. Ho scritto tantissimi brani nuovi: mi piacerebbe pubblicarli entro l’anno, a 10 anni di distanza dall’ultimo album».

Syusy Blady: «Io e Patrizio Roversi? Lui era quello intelligente, io la cretina. A un certo punto mi sono “dimessa” da moglie». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera sabato 16 settembre 2023.

L’attrice e performer si racconta a tutto tondo, soffermandosi sulla sua relazione

La voce è quella squillante e allegra di sempre, che negli anni ha accompagnato milioni di telespettatori in giro per il mondo. E, anche adesso, nemmeno a dirlo, Syusy Blady è di ritorno da un viaggio: «Ho scoperto che a ottobre chiuderà per ristrutturazione il Pergamon Museum di Berlino: alcune aree non saranno visitabili fino al 2030, non potevo aspettare tanto». 

Un tempo ci mostrava queste sue avventure in tv. Oggi?

«Mi sono spostata molto sul web. A breve però riprenderà a uscire la rivista di turismo che curo con Patrizio (Roversi, ndr ), Turisti per caso - Slow tour e nel mentre su Canale Italia conduciamo il Tg del turismo. Ho scritto libri e appena chiuso uno speciale su Cuba, che ho girato in camper. Vedremo dove uscirà». 

Le manca la tv generalista?

«La domanda che mi fa la gente, ogni giorno, è: quando tornate in tv? L’ultimo progetto in Rai risale a un paio di anni fa, si chiamava In viaggio con la zia ed è stata un’esperienza bellissima, che aveva funzionato bene ma che non ci hanno fatto ripetere. Su Rete4 avevo poi fatto una cosa molto carina, un viaggio per l’Italia con mia figlia Zoe con una macchina elettrica...». 

E poi?

«La televisione è molto c ambiata, il racconto è univoco e non c’è spazio per qualcosa di diverso. Ci siamo appiattiti. E io mi sono anche stufata di propormi. Qualche anno fa avevo pronto uno speciale sulla Cina che avevo visitato con dei fisici del Cern e un direttore di Rai3, non troppo lungimirante, mi disse: “No, la Cina non interessa”. Per questo mi butto sul web dove posso portare avanti anche il mio lavoro sul tema dei misteri, che mi appassionano molto. Sul sito nomadizziamoci.it vado giù bella pesa». 

(…)

Quindi la chiamata della tv e il grande successo, con «Lupo solitario».

«Un progetto molto forte, scritto da me con Patrizio, Davide Parenti e Antonio Ricci.

Sì, perché io come Syusy sembro sempre la cretina del gruppo ma sono ogni volta anche autrice delle cose che poi si sono viste in onda». 

E chi è quindi Syusy Blady?

«Un alter ego, assolutamente. Fa tutto quello non farebbe mai Maurizia (Giusti, il suo vero nome, ndr ), che è una seria, che ragiona molto e anche abbastanza critica rispetto alle cose. Syusy è decisamente più leggera, proprio per il suo animo da clown». 

Davvero pensa che Syusy sembri la cretina del gruppo?

«Eh, sì. Anche se trovo bellissimo potersi nascondere dietro una maschera. Patrizio però per tutti era quello intelligente, i meriti andavano a lui, era percepito come la mente. Per questo funzionava con Syusy. Fino a quando mi sono detta: “Basta, mi dimetto da moglie”». 

Vi siete separati diversi anni fa. Ma come sono i rapporti oggi?

«Noi restiamo dei grandi compagni di avventure. Il mio animo entusiasta, che ha sempre voglia di sperimentare, sta bene con il suo più concreto. E ci sta bene da sempre, da quando eravamo due ventenni in colonia a fare animazione. Patrizio resta il mio parente più prossimo». 

Non c’è mai stata la tentazione di tornare assieme?

«Con “quando tornate in tv” è l’altra domanda che mi fanno tutti. La risposta è che la vita è fatta di tanti momenti e sperimentazioni. Ora vanno bene le cose così come sono. 

E significa che se c’è una persona a cui chiedere una cosa, è lui. E il suo resta l’unico numero di telefono che so a memoria. È vero, siamo particolari; non è il concetto classico del: stiamo insieme, non stiamo insieme. No. È un’altra cosa, anche difficile da spiegare.

 Stiamo spesso insieme, lavoriamo assieme, abbiamo una società ma ognuno ha una sua personalità che vuole esprimere a suo modo... un po’ come facevamo nei nostri reportage di viaggi, in cui Patrizio era da una parte e io da un’altra. Si può fare anche così». 

Nel 2002 ha posato per un calendario sexy. Perché?

«Perché era molto bello, proponeva un concetto di bellezza non bellezza. Una volta superato il fatto che non rientri in certi canoni e ti accetti come sei, c’è la svolta. Io poi, tutto sommato, miglioro con l’età ( oggi ha 71 anni, ndr ). Mi sono sempre accettata, sempre piaciuta e anche presa in giro, ritenendomi esattamente quello che ero». 

È nata da questa idea la sua «tap model»?

«Il messaggio è che l’ideale di te stesso devi essere tu. Non serve rincorrerne altri, farsi i labbroni o altro. Questa cosa dell’accettarsi diventa automaticamente attraente». 

La sensualità è un’altra sua caratteristica, non crede?

«Si ma sempre per alleggerire e mandare quel messaggio. È vero che poi ricevevo molti messaggi di uomini interessati e la cosa mi stupiva: Patrizio più che esserne geloso si rammaricava del fatto di vedermi in guepiere sul set e ritrovarmi un attimo dopo a casa col pigiamone. Il vero problema è che la trasgressione oggi è diventata banalità, ormai la fanno tutti». 

Tra i tanti personaggi che ha conosciuto, chi le è rimasto nel cuore?

«Con Franco Battiato abbiamo avuto occasione di confrontarci diverse volte sui temi antropologici che ci interessavano. Siamo stati insieme a Kathmandu, abbiamo spesso parlato del rapporto tra vita e morte. Momenti preziosi. Poi ricordo con piacere una bellissima puntata di Velisti per caso con Gerry Scotti e suo figlio: oltre ad essere molto simpatico, si adattava in ogni condizione, senza fare storie. Con quello spirito da clown che sento di condividere»

Sofì e Luì, i «Me contro Te» coppia idolo dei bimbi: «Io lo trovavo sdolcinato». «L’ho conquistata con le ripetizioni di chimica». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera l’11 Gennaio 2023.

La coppia da 6,4 milioni di follower. «Il primo anno fissammo l’obiettivo a 10 mila iscritti: ne arrivarono 300 mila. Se fosse andata male, oggi saremmo un farmacista e una pediatra. Ora vorremmo sposarci ma coinvolgendo i fan»

Sofia Scalia e Luigi Calagna, 25 e 30 anni, noti come «Mw contro Te»

Maglietta bianca e jeans, faccia da bravi ragazzi, Sofia Scalia e Luigi Calagna sono appena tornati da una vacanza ai Caraibi per festeggiare dieci di anni di fidanzamento, non pochi, specie perché lei ha 25 anni, lui 30. «È assurdo, sembra ieri che ci siamo conosciuti», dice lui. «È incredibile: se sentissi dire da altri nostri coetanei che stanno insieme da 10 anni, resterei con la bocca spalancata per ore», gli fa eco lei. Se non avete figli o nipoti fra i sei e i dieci anni, i loro nomi non vi diranno niente. I bambini li conoscono come Sofì e Luì o come i Me contro Te. Hanno 6.400.000 follower su YouTube. Il loro primo film, nel 2020, La Vendetta del Signor S, ha incassato nove e milioni e mezzo di euro, secondo solo a Checco Zalone. L’anno dopo, il Mistero della scuola incantata era primo al box office. Il 19 gennaio esce il quarto film: Me contro Te - Missione Giungla , di Gianluca Leuzzi, prodotto da Colorado e Warner. Su Prime video, intanto, è in onda la serie La famiglia reale. Poi, ci sono le canzoni, un tour che ha già riempito i palazzetti e che riparte l’11 febbraio da Ancona, otto città, 16 date. Quindi, ci sono i libri (tredici), i fumetti, gli zaini, le felpe... La loro è un’industria dell’intrattenimento. E quando chiedete a un bambino se conosce una coppia di giovani fidanzati, vi risponderà Sofì e Luì.

Qual è la data del fidanzamento?

Sofì: «Il 26 dicembre 2012. Ci frequentavamo da mesi, ma quello è il giorno del primo bacio».

Luì: «La prima volta, ci siamo visti da suo cugino. Per me, fu colpo di fulmine. Per lei no».

Sofì: «Non l’avevo proprio notato. Poi, lui ha aperto Facebook apposta per comunicare con me, ma non sapeva usarlo: mi scriveva messaggi privati nella bacheca pubblica, tipo lettere o dediche di canzoni. Lo trovavo sdolcinato, non mi piaceva. Dopodiché, avevo un’interrogazione difficile di chimica e, siccome lui studiava Farmacia, gli ho chiesto aiuto».

Luì: «Mi presentai come il super eroe della chimica».

Sofì: «Fu bravo: presi nove. Da lì, l’ho conosciuto meglio e ho capito che era giusto per me. E che non era sdolcinato: la sua era solo una strategia. Sbagliata».

Primo video?

Luì. «Nel 2014. Ero appassionato di YouTube ed eravamo sempre quelli che intrattenevano gli amici. Era estate, avevamo tanto tempo libero. Il primo non l’ha visto nessuno, ma ci siamo divertiti».

Sofì: «L’idea era girare sempre sfide, giochi. Da qui: Me contro Te».

Luì: «Dopo quattro mesi, avevamo mille iscritti: ci siamo detti che non avevamo mille conoscenti e che stava succedendo qualcosa».

Sofì: «Ci siamo promessi che, se avessimo raggiunto diecimila iscritti in un anno, avremmo continuato, altrimenti, avremmo smesso: era impegnativo e noi studiavamo».

Luì: «Invece, in un anno, ne avevamo trecentomila».

Chi erano Sofì e Luì prima di quel giorno, che cosa sognavano?

Luì: «In un mondo alternativo, oggi sarei un farmacista con un hobby: farei video, foto, suonerei la chitarra».

Sofì: «Io sarei una pediatra».

Luì: «Per noi, non esisteva neanche l’idea di lasciare Partinico, o la Sicilia. Vivevamo in un posto lontano da tutto dove eravamo considerati due pazzi che facevano video strani. Abbiamo cominciato senza studiare nulla. Abbiamo intercettato i kids, ma non era voluto».

Che cosa vi ha conquistato uno dell’altro?

Sofì: «Il suo lato da artista: il tempo con lui scorreva veloce, mi faceva divertire».

Luì: «La bellezza. Dopo, la sua dolcezza, la sua empatia. E, soprattutto, l’ho trovata simpaticissima».

La convivenza che passo è stato?

Luì: «Naturale. Per la prima serie tv di Disney Channel, le riprese erano a Milano».

Sofì: «Erano tre anni che stavamo insieme da mattina a sera per i video, lui pranzava e cenava da me. Ora abbiamo casa a Milano e, per diversi mesi all’anno, stiamo a Roma per girare i film».

Casa vostra ha i colori delle caramelle come nei vostri video?

Sofì: «All’inizio sì. Ora, abbiamo delle stanze colorate che servono da set e le stanze dove viviamo hanno colori tenui, rilassanti».

Com’è fatta la vostra giornata?

Luì: «Me contro Te è il 99% della nostra vita. La mattina, registriamo il video del giorno. Il pomeriggio lo dedichiamo alla creatività dei video seguenti e a quel megauniverso fatto di musica, libri, film, giocattoli e ora anche App. Dopodiché, cena e poi ci guardiamo un film o una serie, o vediamo gli amici».

Sofì: «Lavoriamo sempre, ma non è un peso. Ci scherziamo su: è come dedicarsi di continuo a un hobby».

Nei video vi fate spesso scherzi. Ve ne fate anche nella vita?

Sofì: «Ci casca sempre quando gli faccio credere che ho perso qualcosa di suo: tiene moltissimo alle sue cose, ci mette le iniziali, così io non le prendo. Lui impazzisce: non vuole che prenda le sue cose, figuriamoci se le perdo».

Luì: «È che io sono molto ordinato. Lei meno e, quando entra nella mia sfera degli oggetti, mi crea disagio».

Momenti di crisi, ripensamenti, tentazioni: quanti ne avete avuti?

Luì: «Mai, mai, mai. Neanche una crisi piccola».

Sofì: «Io quando sento gli altri parlare di crisi neanche capisco: a noi, non è mai successo».

Un anno fa, al Grand Hotel Tremezzo sul lago di Como, c’è stata la proposta di matrimonio. Le nozze ci saranno?

Sofì: «Ci piacerebbe un sacco. Doveva essere quest’anno, poi tra serie, film, tour, non siamo riusciti».

Luì: «Lo consideriamo come un altro film: dobbiamo stupire e vorremmo coinvolgere i fan. Ma se troviamo un incastro, lo facciamo quest’anno».

Prima che in video, la mano gliel’ha chiesta anche in privato?

Luì: «Sì, a cena, ma senza anello. Le ho proposto di fare il video della proposta, il che già valeva come proposta».

Quante volte al giorno vi dite «ti amo»?

Luì: «Un paio».

Sofì: «Ma non è tanto il dire, è il fare che conta. Per esempio, io sono dormigliona e lui mi porta tutti i giorni la colazione a letto».

Topolino e Minnie non si sono mai baciati e neanche voi, nei vostri video, vi siete mai scambiati affettuosità: è una regola dell’intrattenimento per bambini?

Luì: «È nella nostra natura: in pubblico, siamo pudichi».

Volete dei bambini?

Luì: «Ne abbiamo milioni digitali, ma ne vorremmo di veri anche in questo momento».

Avete già guadagnato abbastanza per vivere di rendita?

Luì: «Abbiamo reinvestito nei vari progetti e comprato casa a Milano. Siamo fortunati, lavoriamo senza pensare prima ai soldi, ma alla libertà di fare quello che ci piace».

Come sarà «Missione Giungla»?

Luì: «Il quarto capitolo della saga si apre a nuovi personaggi: andiamo nella giungla a fermare una nuova cattiva, Viperiana, che vuole distruggere la natura. Dobbiamo salvare la natura e il nostro amico Pongo: una bella metafora dei nostri tempi».

Come vi immaginate da grandi?

Sofì: «Mi sa che siamo già grandi».

Luì: «L’età ci è sfuggita di mano. Ma vorremmo continuare in questa direzione e, soprattutto, rimanere uniti e felici».

La Separazione.

Paolo.

Sonia.

La Separazione.

Estratto dell'articolo di liberoquotidiano.it l'8 giugno 2023.

Fa discutere la scelta di Sonia Bruganelli e Paolo Bonolis di annunciare la loro separazione attraverso un'intervista. Ed ecco che non poteva mancare il commento al vetriolo di Selvaggia Lucarelli. 

"Il falò di confronto tra Bonolis e Bruganelli non me lo aspettavo", ha cinguettato su Twitter la giurata di Ballando con le Stelle, citando indirettamente Temptation Island, programma di Canale Cinque in cui i fidanzati in crisi decidono di confrontarsi innanzi al celebre falò orchestrato da Filippo Bisciglia.

[…] Eppure stando a un'indiscrezione di Fabrizio Corona dietro l'addio ci sarebbe altro, un tradimento. "Tipo - fa sapere su Instagram l'ex re dei paparazzi -, quasi 20 anni fa Paolo Bonolis è stato tradito da sua moglie con un suo collega intimissimo e in un modo clamoroso". Nessun nome, ma il presunto scoop è sicuramente destinato a far parlare.

Dagospia il 6 giugno 2023. "BANALIS", FREGNACCIA SARA’ LEI! - COME DAGO-RIVELATO IL 12 APRILE, PAOLO BONOLIS E SONIA BRUGANELLI ANNUNCIANO LA SEPARAZIONE. AL NOSTRO SCOOP I DUE SMENTIRONO CON TONI COATTI: “SITO DE FREGNACCE”, “FATEVI I CAZZI VOSTRI”. EPPURE, DOPO NEANCHE DUE MESI SONO COSTRETTI A CALARE LE BRAGHE E A LAVARLE IN PUBBLICO CON UN’INTERVISTA LECCATA E LACCATA A “VANITY FAIR” - COME GIA’ AVVENNE PER TOTTI E ILARY BLASI, ANCHE LORO “TANATI” DA DAGOSPIA NELLA CRISI CONIUGALE E ALTRETTANTO POLLI NEL TENTARE DI NEGARE L’EVIDENZA, ANCHE IN QUESTO CASO LA SMENTITA SI RITORCE CONTRO CHI LA FA - MORALE DELLA FAVA: DAGOSPIA AVEVA RAGIONE, LORO TORTO. A CHI TOCCA, NUN SE ‘NGRUGNA!

SONIA BRUGANELLI E PAOLO BONOLIS 'SMENTISCONO' LA SEPARAZIONE - 12 APRILE 2023

Com’è dolce il sapore della verità. Si aggrappa alle papille gustative e resta lì, a inebriare tutto il palato. Lo assaporiamo con dedizione certosina. Poco a poco. A regalarci questa esperienza sensoriale, dopo Totti e Ilary Blasi, sono stati Sonia Bruganelli e Paolo Bonolis. 

I due hanno annunciato la loro separazione. Un segreto di Pulcinella “rivelato” tramite intervista leccata e laccata a “Vanity Fair”. Notizia che i lettori di questo disgraziato sito avevano potuto compulsare già il 12 aprile.

I due, che avrebbero dovuto rilasciare l’intervista in esclusiva a “Verissimo”, forse spiazzati dal nostro scoop, reagirono maldestramente. Diffusero un video di smentita, mentre erano ammollo in piscina, in cui, oltre a non smentire nulla, si lasciarono andare a commenti velenosi su Dagospia. Il banalis Bonolis bofonchiò: “Sito di fregnacce”. E in un travaso di bile esondò: “Fatevi i cazzi vostri”. Che teneri i due ex piccioncini: beccati con una fava di troppo, si agitarono oltre il consentito con una protervia da lesà maesta.

Ma il tempo è galantuomo, a volte birbantello, e serve sempre il conto. Non solo la nostra indiscrezione era fondata ma la smentita posticcia che Bonolis e Bruganelli ci inflissero ora si ritorce loro contro, lasciandogli sul groppone una figuraccia epocale. La stessa che costò la faccia a Francesco Totti e Ilary Blasi, anche loro “tanati” da Dagospia nella crisi coniugale e altrettanto polli da negare l’evidenza (Er Pupone sbiascicò un indimenticabile “Fecche news”).

Nell’intervista a “Vanity Fair”, parlando dell’indiscrezione di Dagospia, Sonia Bruganelli sfida il grottesco con un’arzigogolata spiegazione che vira verso il ridicolo: “Per fortuna Paolo ha trovato l’ironia per reagire. Abbiamo deciso di smentire per riprenderci quello che era nostro. Va bene essere giudicati perché siamo personaggi pubblici, ma potevamo anche essere separati da tempo e non volerlo dire”. 

E Bonolis raddoppia la scemenza: “Era una notizia che avremmo dovuto dare noi per primi a chi di dovere. Ma nel fascinoso mondo di Pettegolandia la gente si attacca vampirescamente alle vite degli altri ignorando sentimenti, affetti, figli”. Sentite anche voi il rumore delle unghie sugli specchi? Noi, nitidamente.

Tante parole per non ammettere di aver fatto una cappellata, con tutte quelle cretinate propalate nel video. Non fanno neanche mea culpa, e “Vanity” non osa chiederla, per quella caduta di stile con cui Bonolis, facendo il gigione, sentenziò: “Siamo molto in difficoltà perché mo’ che facciamo? Ci separiamo in modo da non smentire questo importantissimo sito di informazione che guida la vita di tutti i nostri giorni, con le sue notizie proprio fondamentali per il nostro quotidiano? Oppure non ci separiamo e mandiamo a quel punto sul lastrico il sito perché è un sito de fregnacce?”. Una spremuta di livore.

Beccato con le mani nella marmellata, e speriamo solo in quella, Bonolis avrebbe potuto ammettere i fatti e incassare da signore. Invece parlò di “mandare sul lastrico” Dagospia, definito “sito de fregnacce”. Morale della fava: noi avevamo ragione, lui ha fatto una figura di palta. Anche perché nell’intervista a “Vanity”, Sonia Bruganelli, non manca di far notare che la rottura l’ha voluta lei e per ragioni chiarissime: “Non riuscivo più a vivere con entusiasmo alcune delle cose che fanno parte di un rapporto di coppia. Da quando è morto mio padre, poi, ho proiettato il legame che avevo con lui su Paolo, il quale così è diventato un amico, un confidente”. Praticamente un paggetto da camera da letto. Chissà se le pettinava anche i capelli la sera o si limitava a spennellarle lo smalto all’alluce. 

Caro Paolino “Banalis”, a te che piace il romanesco, possiamo offrire un consolatorio “Stacce”. La ruota di Dagospia gira e a chi tocca, nun se ‘ngrugna.

Mario Manca per vanityfair.it il 6 giugno 2023. 

Nessuno sa perché nasce un amore, ma tutti vorrebbero sapere perché finisce». Sonia Bruganelli e Paolo Bonolis sono seduti l’uno di fronte all’altra. Lei ascolta lui, anche se la decisione di parlare per la prima volta dell’epilogo della loro storia e dell’inizio di una nuova vita insieme – no, non è una contraddizione, lo scoprirete – è stata più di Sonia che di Paolo, il quale ci scherza su: «Mi hanno detto che dovevo venì, e sono venuto».

«Siamo separati, eppure siamo più uniti che mai. Continueremo a esserlo per la nostra famiglia, tra di noi. Il sentimento è forte, però non è più quello che ci ha avvicinati». 

Da quando siete separati?

Sonia: «Non è una questione di date, di tempo. Siamo genitori, continueremo a fare le vacanze insieme, manterremo le stesse dinamiche. È questa la notizia. Non ci sono di mezzo terze persone o amanti».

Paolo: «Magari poi arrivano...».

S: «A quel punto non saranno più amanti. Per i nostri figli siamo mamma e papà da sempre, non cambia niente. Manca solo il rapporto fisico».

P: «Che però è divertente».

S: «Si può fare anche quando ci si separa».

P: «Sarebbe diverso». 

Che cosa non funzionava più nel vostro rapporto?

P: «Per un certo periodo Sonia ha avuto difficoltà a stare in una situazione che non era più la sua. Si è sforzata, e per questo le devo fare i complimenti, finché è stato inutile continuare. Ci siamo confrontati, mi ha spiegato, ho capito. Non si può pretendere che una persona viva diversamente da ciò che sente di essere. Con un briciolo di civiltà e di buona coscienza si accoglie il cambiamento. Le cose accadono, l’importante è andare avanti perché non si può tornare indietro».

Le ha fatto male?

P: «Ero dispiaciuto, ovvio. Però non è pensabile che la vita degli altri debba per forza corrispondere sotto ogni aspetto alla tua. Se prende altre traiettorie e ha altri obiettivi, vanno considerati, soprattutto se parliamo di una persona alla quale si vuole bene». 

È stato difficile accettarlo?

P: «Non è stato facile».

Sonia sposta lo sgabello per guardare Paolo dritto negli occhi: «Non me le ha mai dette queste cose, voglio sentirle bene».

P: «Hai voglia che le ho dette! Per quanto si sia preso un impegno e si cerchi di adoperarsi affinché

quell’impegno prosegua, se le forze interiori sono superiori a quelle esterne vanno assecondate, altrimenti proseguire può essere peggio che interrompere».

Sonia, scusi, che cosa si è rotto esattamente?

S: «Non riuscivo più a vivere con entusiasmo alcune delle cose che fanno parte di un rapporto di coppia. Da quando è morto mio padre, poi, ho proiettato il legame che avevo con lui su Paolo, il quale così è diventato un amico, un confidente. Quando ci siamo fidanzati io avevo 23 anni, non ero ancora laureata, lui era un uomo. Soltanto con il tempo e di fronte a certe circostanze abbiamo preso coscienza delle nostre differenze. Per esempio, Paolo è sempre stato molto romantico e molto passionale, al contrario di me che non lo sono affatto». 

I vostri figli – Silvia, 20 anni, Davide, 19, e Adele, 15 – si saranno accorti di quello che stava succedendo...

S: «In realtà no, perché Paolo è un padre e un marito meraviglioso. La cosa che mi ha sempre colpito di lui è la libertà che non ha mai tolto agli altri. L’ha insegnata ai nostri ragazzi, che sono cresciuti vedendoci attraversare litigi e difficoltà senza che il rispetto e l’amore venissero meno».

Non avete paura che possano comunque soffrire?

S: «Sono gli altri, dall’esterno, che possono farli soffrire». 

State parlando dell’indiscrezione, pubblicata da Dagospia il 12 aprile, della vostra (allora eventuale) separazione?

S: «Per fortuna Paolo ha trovato l’ironia per reagire. Abbiamo girato un video per smentire la notizia».

P: «Del resto l’ironia è l’unico antibiotico all’esistenza, smorza l’impatto violento di certe cose». 

Perché avete scelto di smentire?

S: «Per riprenderci quello che era nostro. Va bene essere giudicati perché siamo personaggi pubblici, ma potevamo anche essere separati da tempo e non volerlo dire».

P: «Era una notizia che avremmo dovuto dare noi per primi a chi di dovere. Ma nel fascinoso mondo di Pettegolandia la gente si attacca vampirescamente alle vite degli altri ignorando sentimenti, affetti, figli». 

Qualcuno, proprio dopo il vostro video, ha scritto: «Hanno smentito per ragioni economiche».

S: «Non vuole pagarmi gli alimenti (ride, ndr)».

P: «Ha mangiato abbastanza. Lo diceva Woody Allen: quell’uomo sta morendo di fame per eccesso di alimenti».

S: «Hanno scritto cose che non esistono. Non ci saranno avvocati, alimenti, niente di tutto questo». 

Nel settembre del 2022, lei, Sonia, ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera in cui spiegava la scelta di vivere in due palazzi distinti ma comunicanti.

S: «Quando si è liberata la casa accanto alla nostra ho capito che poteva essere comodo avere degli spazi separati. Per me, però, vale ancora quello che dice la canzone di Califano: “Non escludo il ritorno”». 

Paolo, ha sentito?

P: «Califano è morto. L’amore è complesso, si trasforma, non è solo “daje de tacco e daje de punta”. Spero di ritrovarlo il prima possibile».

S: «Ah, quindi se torno ti trovo occupato?».

P: «È probabile, ma tu bussa lo stesso». 

Potreste essere gelosi l’una dell’altro?

P: «Mi auguro di no, sarebbe grottesco. Nel momento in cui privi una persona di alcune cose necessarie per vivere, ci sta che se le vada a procacciare per la sua sopravvivenza. Non puoi pretendere che muoia».

S: «Potrei non essere gelosa di una più giovane e attraente di me, perché ci sono parti di Paolo che sento saranno mie per sempre: 26 anni di vita insieme sono irripetibili».

P: «Poi è impossibile mettere delle definizioni a quello che sarà. Spero solo che non ci siano odi, rancori, interferenze nelle scelte altrui. Quando si mette un punto, si inizia un nuovo capoverso. E nessuno del capoverso precedente può pretendere l’esatta coniugazione dei verbi e la declinazione delle parole». 

Paolo, il suo primo matrimonio è finito per via di un tradimento.

P: «Sì, il mio. Ero giovane, feci delle fesserie. Sono sempre stato sincero e anche un po’ stupido: confessai, ma per la mia ex moglie era un ostacolo insuperabile». 

Sonia, quali sono le parti di Paolo che vorrebbe tenere per sé?

S: «Le braccia che stringono e le spalle che proteggono». 

Ricordate il vostro primo bacio?

S: «Sotto il portone di casa mia, abitavo con i miei. Prima che citofonassi...».

P: «Vado pazzo per i citofoni». 

E l’ultimo bacio?

S: «Ci salutiamo e ci diamo il buongiorno baciandoci ancora adesso. L’ultimo bacio passionale, però, non me lo ricordo».

P: «I baci vanno e vengono». 

L’istante più bello che avete condiviso?

S: «La nascita dei figli».

P: «Senza dubbio». 

Scene dal vostro matrimonio nel 2002?

S: «Ero incinta di Silvia, al terzo mese, avevo una nausea pazzesca e la paura di sentirmi male. Quando sono arrivata nella chiesa sconsacrata di Caracalla, c’era mio padre, ma Paolo mi ha preso e sono entrata direttamente con lui. La cerimonia è durata sì e no cinque minuti».

P: «Ci ha sposato Walter Veltroni, allora sindaco: evidentemente dopo aveva da fare».

S: «Il rinfresco è stato a casa, trenta persone, una cosa intima: era venuto a mancare da poco il padre di Paolo». 

Avete presto iniziato a lavorare insieme. Mai messo in conto che sarebbe stato più difficile nell’eventualità di una separazione?

P: «L’azienda di Sonia funziona molto bene, sono tutti bravi. Si può collaborare anche quando le cose cambiano. Però non credo di lavorare ancora a lungo. Sono 44 anni che faccio questo mestiere. C’è un processo naturale, definibile biologicamente come “orchite”, che mi porta a pensare altrimenti della mia vita. Voglio dare al futuro un sapore diverso rispetto a quello che ho vissuto fino a ora». 

Non le mancherebbe la tv?

P: «No, altrimenti diventerei bulimico, professionalmente ed esistenzialmente. Probabilmente continuerò per un altro paio d’anni, poi diventerebbe pesante senza l’entusiasmo». 

Qualcuno ha parlato di un possibile ritorno in Rai al posto di Fabio Fazio.

P: «Fabio è un bravissimo professionista, ma non c’entro niente con lui. Ha fatto Che tempo che fa, una trasmissione molto bella. Mi sono tolto quella soddisfazione con Il senso della vita. Non bisogna percorrere i sentieri altrui: ognuno segue il proprio, anche perché alla fine i sentieri finiscono sempre da qualche parte».

Sonia, per il suo futuro esclude altre partecipazioni televisive?

S: «Sicuramente continuerò a fare la produttrice, è quello che mi riesce meglio. Semmai dovesse arrivare qualche proposta divertente in cui sia richiesta la mia voce fuori dal coro, la valuterò». 

Come si finisce a non litigare per borse e Rolex?

S: «Ho le mie borse e i miei Rolex».

P: «Preferisco altre cose nella vita».

Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli annunciano la separazione. Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 06 giugno 2023

L’annuncio della coppia in una intervista su Vanity Fair: «Siamo separati, eppure siamo più uniti che mai. Continueremo a esserlo per la nostra famiglia, tra di noi. Il sentimento è forte, però non è più quello che ci ha avvicinati» 

Uniti nel lasciarsi. Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli hanno voluto comunicare, insieme, che il loro matrimonio è finito. Ma — se no sarebbe facile — non il loro amore. Per farlo, dopo mesi di voci non solo non confermate ma pesantemente smentite (il riferimento è all’anticipazione dello scorso aprile del sito Dagospia), i due si sono seduti uno di fronte all’altro e hanno raccontato a Vanity Fair che sì, «siamo separati. Eppure siamo più uniti che mai. Continueremo a esserlo per la nostra famiglia, tra di noi. Il sentimento è forte, però non è più quello che ci ha avvicinati».

Nulla si distrugge, tutto si trasforma, una legge della fisica che varrebbe anche per questa coppia che, dopo 25 anni, arriva non tanto a ridefinire la loro unione (sono loro stessi a suggerire: «potevamo anche essere separati da tempo e non volerlo dire») ma a rendere pubblico questo nuovo assetto. Mesi fa Bruganelli aveva detto al Corriere della Sera di vivere in case separate. Oggi argomenta: «Siamo genitori, continueremo a fare le vacanze insieme, manterremo le stesse dinamiche. È questa la notizia. Non ci sono di mezzo terze persone o amanti».

«Magari poi arrivano...», commenta Bonolis, deputato anche in questa occasione a sdrammatizzare una conversazione non facile. Specie perché, si capisce, la scelta di sperarsi non è stata sua: «Per un certo periodo Sonia ha avuto difficoltà a stare in una situazione che non era più la sua — racconta —. Si è sforzata, e per questo le devo fare i complimenti, finché è stato inutile continuare. Ci siamo confrontati, mi ha spiegato, ho capito. Non si può pretendere che una persona viva diversamente da ciò che sente di essere. Con un briciolo di civiltà e di buona coscienza si accoglie il cambiamento. Le cose accadono, l’importante è andare avanti perché non si può tornare indietro». Accettarlo, aggiunge, «non è stato facile.. Ero dispiaciuto, ovvio. Però non è pensabile che la vita degli altri debba per forza corrispondere sotto ogni aspetto alla tua. Se prende altre traiettorie e ha altri obiettivi, vanno considerati, soprattutto se parliamo di una persona alla quale si vuole bene».

Bruganelli si è quindi addentrata nelle cause che hanno portato alla rottura: «Non riuscivo più a vivere con entusiasmo alcune delle cose che fanno parte di un rapporto di coppia. Da quando è morto mio padre, poi, ho proiettato il legame che avevo con lui su Paolo, il quale così è diventato un amico, un confidente». Del resto, spiega, «quando ci siamo fidanzati io avevo 23 anni, non ero ancora laureata, lui era un uomo». E conduceva Tira e molla. Aveva notato gli occhi blu di Bruganelli mentre lei registrava una televendita e aveva fatto in modo di farla tornare. Quindi, si era dichiarato, vincendo una certa resistenza iniziale da parte di lei. Tempo dell’ultima puntata del quiz, erano fidanzati ufficialmente e, nel 2002, sono diventati marito e moglie.

«Soltanto con il tempo e di fronte a certe circostanze abbiamo preso coscienza delle nostre differenze», dice adesso lei, spiegando che dietro questa separazione «non ci saranno avvocati, alimenti, niente di tutto questo». Non solo. «Per me vale ancora quello che dice la canzone di Califano: “Non escludo il ritorno”». Un assist che Bonolis non vuole cogliere: «Califano è morto. L’amore è complesso, si trasforma... Spero di ritrovarlo il prima possibile». «Ah, quindi se torno ti trovo occupato?», domanda lei. «È probabile, ma tu bussa lo stesso».

Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli, è finita: «Ci siamo separati, ma siamo più uniti che mai».  Francesco Canino su Panorama il 06 Giugno 2023

Dopo vent'anni, il matrimonio è al capolinea. Storia di un addio annunciato (da Dagospia), smentito e poi ufficilizzato. "Nel fascinoso mondo di Pettegolandia la gente si attacca vampirescamente alle vite degli altri ignorando sentimenti, affetti, figli", attacca il conduttore. Che ora medita l'addio alla tv

Storia di un addio annunciato (da Dagospia), smentito e poi ufficializzato. Anche se il copione è molto simile, questa volta Francesco Totti e Ilary Blasi non c'entrano. I protagonisti della separazione che infiamma il gossip preestivo sono Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli: ventuno anni dopo il matrimonio, celebrato nel 2002, le nozze tra il conduttore e la produttrice sono al capolinea. Ma non c'è il rischio che i due litighino per orologi e borsette deluxe. «Ho le mie borse e i miei Rolex», precisa lei. «Preferisco altre cose nella vita», stuzzica lui, chiudendo la lunga intervista a Vanity Fair con la qualche ufficializzano la fine della loro storia d'amore durata ventisei. Con una premessa: «Non ci sono di mezzo terze persone o amanti». E nemmeno avvocati e battaglie per gli alimenti. Niente divorzio show alla Totti-Blasi, insomma, almeno per ora. Ma è comunque un addio destinato a far parlare. Del resto, se ne parla da mesi tra frasi sibilline, provocazioni, rivelazioni (come quando spiegarono che avrebbero vissuto in due appartamenti separati ma comunicanti). Fino al boom di Dagospia, datato 12 aprile, quando il sito di Roberto D'Agostino rivela che quegli scricchiolii insistenti nascondevano in realtà l'imminente separazione. Notizia condita di dettagli (come quello sull'imminente intervista rivelatrice a Verissimo) che poche ore dopo Bonolis e la Bruganelli smentiscono categoricamente, buttandola sull'ironia impastata di irritazione). «Fatevi sempre la vita degli altri. Bravi! Ad oggi non c’è una conferma o una smentita, non c’è niente. Sono indeciso se mandarli sul lastrico o separarci, il destino parlerà. Fatevi i cazzi vostri», disse il conduttore via social. Due mesi dopo, lui e la (quasi ex) moglie spiegano il senso di quella smentita con la voglia di dettare i tempi della comunicazione: «Era una notizia che avremmo dovuto dare noi per primi a chi di dovere. Ma nel fascinoso mondo di Pettegolandia la gente si attacca vampirescamente alle vite degli altri ignorando sentimenti, affetti, figli». Di figli ne hanno tre - Silvia, 20 anni, Davide, 19, e Adele, 15 - e, secondo la Bruganelli non si sono accorti di quello che stava succedendo tra i genitori: «Perché Paolo è un padre e un marito meraviglioso. La cosa che mi ha sempre colpito di lui è la libertà che non ha mai tolto agli altri. L’ha insegnata ai nostri ragazzi, che sono cresciuti vedendoci attraversare litigi e difficoltà senza che il rispetto e l’amore venissero meno».

«Nessuno sa perché nasce un amore, ma tutti vorrebbero sapere perché finisce». Sonia Bruganelli (@soniabrugi) e Paolo Bonolis (@sonopaolobonolis) ci spiegano perché è finito il loro in esclusiva sul nuovo numero di Vanity Fair (e al link in bio), parlando per la prima volta della loro separazione, che non ha coinvolto «né amanti né avvocati». Nel corso dell’intervista la coppia, sposatasi nel 2002, parla di tutto: dei figli che hanno voluto tutelare, ma anche delle voci sulla fine del loro matrimonio che hanno voluto smentire per comunicare la notizia come ritenevano più opportuno; dalla volontà di continuare a lavorare insieme ai baci e alle carezze che si scambiano ancora oggi, spiegandoci che la fine della relazione non è la fine del sentimento che li ha uniti e che, nel corso del tempo, si è trasformato in qualcos’altro.

Ma che cosa ha innescato la crisi? Niente amanti o terzi incomodi, ribadiscono. Qualcosa si è rotto quando la Bruganelli, svela Bonolis, «ha avuto difficoltà a stare in una situazione che non era più la sua. Si è sforzata, e per questo le devo fare i complimenti, finché è stato inutile continuare. Ci siamo confrontati, mi ha spiegato, ho capito. Non si può pretendere che una persona viva diversamente da ciò che sente di essere. Con un briciolo di civiltà e di buona coscienza si accoglie il cambiamento. Le cose accadono, l’importante è andare avanti perché non si può tornare indietro». Qualche dettaglio in più lo aggiunge lei: «Non riuscivo più a vivere con entusiasmo alcune delle cose che fanno parte di un rapporto di coppia. Da quando è morto mio padre, poi, ho proiettato il legame che avevo con lui su Paolo, il quale così è diventato un amico, un confidente. Quando ci siamo fidanzati io avevo 23 anni, non ero ancora laureata, lui era un uomo. Soltanto con il tempo e di fronte a certe circostanze abbiamo preso coscienza delle nostre differenze». Scene da fine di un matrimonio, ma senza strascichi polemici, almeno nelle intenzioni di entrambi. Tanto che l'obiettivo è quella di continuare a lavorare assieme (lei è una produttrice e ha una società che si occupa di casting televisivi e collabora anche con i programmi di Bonolis, compreso Ciao Darwin, che tornerà in autunno). «Si può collaborare anche quando le cose cambiano», ammette Bonolis. Che poi ribadisce quanto detto pochi giorni fa al Festival della tv, a Dogliani: l'obiettivo del conduttore è quello di lasciare la tv. «Non credo di lavorare ancora a lungo. Sono 44 anni che faccio questo mestiere. C’è un processo naturale, definibile biologicamente come “orchite”, che mi porta a pensare altrimenti della mia vita. Voglio dare al futuro un sapore diverso rispetto a quello che ho vissuto fino a ora». Ma da qui a due anni, tutto può succedere.

Bonolis "tradito dalla moglie con un collega famoso": la bomba di Corona. Libero Quotidiano il 07 giugno 2023

Non passano molte ore dall'annuncio, che Fabrizio Corona diffonde uno scoop sulla separazione tra Sonia Bruganelli e Paolo Bonolis. Attraverso il suo canale Telegram l'ex re dei paparazzi fa sapere di possedere retroscena mai svelato prima. "Io - esordisce - vi racconterò la verità e i retroscena dello showbiz". Ed ecco quello che riguarda il conduttore e l'ex consorte: "Tipo, quasi 20 anni fa Paolo Bonolis è stato tradito da sua moglie con un suo collega intimissimo e in un modo clamoroso".  

Corona mantiene il massimo riserbo sul nome del presunto amante, ma l'indiscrezione è sicuramente destinata a far parlare. "Questo nuovo modo di essere politicamente corretti mi fa schifo", continua riferendosi anche ad altri noti personaggi: "Dagospia ha dato la notizia della separazione mesi fa. E loro (Sonia e Paolo, ndr) per non perdere esclusiva, hanno denunciato il sito ed hanno negato tutto".

Un gesto che ha riportato alla memoria il divorzio di Francesco Totti e Ilary Blasi. "Proprio - precisa - come avevano negato Totti e Blasi. Ormai si cerca di anticipare i giornali di gossip e di gestire le notizie per vendere esclusive e guadagnare sulle relazioni. Una volta c'ero io a farlo, oggi hanno imparato a farlo loro, nella loro ipocrisia. Per due spicci. Ma presto - conclude - tornerò io e in questo canale vi dirò la verità".  

Bruganelli, dopo l'addio a Bonolis fa impazzire i rosiconi: "Il nostro già ingente patrimonio". Libero Quotidiano il 07 giugno 2023

Sonia Bruganelli e Paolo Bonolis si sono lasciati. Dopo 26 anni di matrimonio la coppia ha deciso di annunciare il suo addio in un'intervista che li vede insieme in copertina. Una scelta parecchio criticata, ma che l'imprenditrice difende a spada tratta. In molti hanno sospettato che dietro il colloquio a Vanity Fair ci fosse un tornaconto economico. Nulla di più falso per l'ex opinionista del Grande Fratello Vip. 

"Nessun euro si è aggiunto al nostro già ingente patrimonio", ha scritto in una sua storia di Instagram. Storia risultata da tanti "indelicata" visto che ha vantato "l'ingente patrimonio" di cui dispone. Eppure per la Bruganelli non è la prima volta. Tante le critiche piovute dopo le sue foto in jet privato o le sue uscite sui soldi.

Sulle colonne del settimanale la Bruganelli e Bonolis hanno spiegato i motivi del loro addio. "Non riuscivo più a vivere con entusiasmo alcune delle cose che fanno parte di un rapporto di coppia" ha spiegato lei mentre il conduttore ha aggiunto: "Ha avuto difficoltà a stare in una situazione che non era più la sua". I due, nonostante abbiano scelto di separarsi, non discuteranno di questioni economiche: "Non ci saranno avvocati, alimenti, niente di tutto questo". 

Paolo.

Paolo Bonolis compie 62 anni: la prozia venerabile, il primo incontro con Luca Laurenti, 10 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 14 Giugno 2023 

Aneddoti e curiosità poco note sul conduttore di Avanti Un Altro, nato a Roma il 14 giugno 1961

Sindaco di Roma? No grazie

«È un lavoro a cui mi sono dedicato per 44 anni: sento che nell’ultimo scampolo della mia vita voglio concentrarmi su altro. Starò in video ancora per poco». Qualche giorno fa Paolo Bonolis ha fatto questo annuncio al pubblico del Festival della Tv di Dogliani. Il popolare conduttore, tra i volti più amati della televisione italiana, proprio oggi compie 62 anni. Nel corso dello stesso incontro ha rivelato un altro aneddoto che lo riguarda. In passato infatti gli hanno chiesto di fare il sindaco di Roma (città in cui è nato il 14 giugno 1961). «La mia risposta fu: “ma che vi siete bevuti”. No, per l’amore del cielo. La politica non mi interessa».

La telefonata di Mike Bongiorno

Figlio unico di una famiglia semplice - suo padre Silvio trasportava burro ai mercati generali mentre sua madre Luciana era segretaria in un'impresa di costruzioni - Paolo Bonolis è nato e cresciuto a Roma. A proposito dei suoi inizi il conduttore, ospite del Festival della Tv, ha raccontato cosa accadde quando a casa sua telefonò Mike Bongiorno. «Avevo iniziato a fare tv da poco e come volto giovane dovevo condurre una serata al fianco di un veterano come Mike Bongiorno, che una sera chiamò a casa. Rispose papà: “Chi è?”. “Sono Mike Bongiorno, c’è Paolo?”, “Ma vaffan...”. E mise giù. A casa mia non si poteva proprio pensare che una sera chiamasse Mike Bongiorno».

Adele Bonolis, la prozia venerabile

«Zia ha fatto quello che ha fatto perché aveva cultura e fede. È lei che mi ha ispirato a incuriosirmi nella vita». Qualche anno fa la prozia del conduttore, Adele Bonolis (1909 – 1980), è stata dichiarata venerabile da papa Francesco. Si tratta del primo passo verso la canonizzazione. Figlia di un’agiata famiglia milanese, insegnante di religione al liceo classico Berchet, Adele Bonolis in vita si è adoperata per il recupero e il reinserimento nella società di persone in difficoltà (come ex carcerati, malati psichiatrici ed ex prostitute).

Era balbuziente

Nel 2010 Paolo Bonolis è entrato nel Guinness dei Primati per il maggior numero di parole di senso compiuto pronunciate in un minuto (332 in 60 secondi). Pensare che da bambino il conduttore balbettava, così tanto che gli insegnanti dovevano interrogarlo per iscritto. Poi alle scuole medie, grazie ad una recita, ha scoperto che doveva concentrarsi su una sola frase per volta e pian piano è riuscito a risolvere il problema.

Il successo con Bim Bum Bam

Paolo Bonolis esordisce nel 1980 in Rai, a 19 anni: conduce il programma per ragazzi 3, 2, 1... contatto!. Nel 1982 la svolta: passa a Italia 1, rete all’epoca appena nata, e guida insieme a Licia Colò (nel 1985 al suo posto arriva Manuela Blanchard Beillard) Bim Bum Bam, di cui scrive anche i testi con Giancarlo Muratori. «Ero un ragazzino, ma mi sono reso conto che le cose funzionano bene quando racconti qualcosa che ti appartiene, nel momento in cui ti domandi cosa vuole vedere la gente invece stai partendo con il piede sbagliato» ha raccontato in un’intervista al Corriere. Il programma, un contenitore rivolto ai bambini con sketch e cartoni animati, ha un grande successo grazie all’alchimia che scatta tra i protagonisti e il simpatico pupazzo Uan, che ribattezza il conduttore «Piolo».

Quando ha incontrato Luca Laurenti

Il sodalizio artistico di Paolo Bonolis con Luca Laurenti, al suo fianco in moltissimi programmi (solo per citarne alcuni: Tira & Molla, Ciao Darwin, Chi ha incastrato Peter Pan?, Striscia la notizia, Music, Avanti un altro!), è iniziato nel 1991: i due erano nel cast di Urka, trasmissione per ragazzi di Italia 1. Il loro primo incontro fu un po’ particolare: «Cercavamo qualcuno che cantasse - ha raccontato anni fa Bonolis in un’intervista a Verissimo - Ad un certo punto entrò questo ragazzo con una busta di plastica del supermercato. Cantò un pezzo di Stevie Wonder molto difficile e rimanemmo sorpresi, lo prendemmo subito».

Ha condotto Sanremo

Paolo Bonolis è salito sul palco dell’Ariston in qualità di direttore artistico e conduttore del Festival di Sanremo per ben due volte: la prima nel 2005 (edizione caratterizzata da ascolti record e vinta da Francesco Renga con «Angelo») e la seconda nel 2009 (trionfò Marco Carta con «La forza mia» tra i Big e Arisa con «Sincerità» tra le Nuove Proposte). «Mi è piaciuto tantissimo cambiarlo. Volli grandi ospiti: venne Mike Tyson, Will Smith e pure Hugh Grant... un rompic... micidiale. Diceva no a tutto. Sul palco mi sono divertito a percularlo. Gli chiesi come mai l’inglese avesse la propensione a far salire il gatto sul tavolo - the cat is on the table - quando noi in Italia tendiamo a dargli un calcio e farlo scendere».

Il primo matrimonio

Paolo Bonolis è stato sposato per 5 anni, dal 1983 al 1988, con la psicologa statunitense Diane Zoeller, da cui ha avuto due figli Stefano e Martina. «Se ne è andata perché l’avevo tradita - ha raccontato Bonolis di recente -. Ero un ragazzo e lei aveva bisogno di tornare dalla sua famiglia. Ho imparato a rinunciare per tutelare i miei figli che erano piccoli, anzi una doveva ancora nascere. I sentimenti sono più importanti delle parole, se vuoi bene devi sapere fare un passo indietro».

La separazione da Sonia Bruganelli

In passato Paolo Bonolis ha vissuto una storia d’amore con la showgirl Laura Freddi, conosciuta a Non è la Rai. In seguito alla rottura nel 1997 si è legato all’imprenditrice e produttrice televisiva Sonia Bruganelli. La coppia è convolata a nozze nel 2002, e presto sono arrivati altri tre figli: Silvia, Davide e Adele. La scorsa settimana, un po’ a sorpresa (anche se qualche mese fa qualche indiscrezione era trapelata su Dagospia), è arrivato l’annuncio della separazione. «Siamo separati. Eppure siamo più uniti che mai - hanno dichiarato Paolo e Sonia a Vanity Fair -. Continueremo a esserlo per la nostra famiglia, tra di noi. Il sentimento è forte, però non è più quello che ci ha avvicinati».

Attore in «Commediasexi»

Nel 2006 Paolo Bonolis ha recitato in «Commediasexi», film di Alessandro D'Alatri, nei panni dell’onorevole Massimo Bonfili. In seguito non si è fatto mancare cameo in altre produzioni: è apparso nella serie tv «Romolo + Giuly: La guerra mondiale italiana» (2018), nel videoclip della canzone «Senza pensieri» di Fabio Rovazzi (2019) e nel film «Tom & Jerry» di Tim Story (2021).

Paolo Bonolis: «Lascerò presto la tv, voglio fare altro. No alla politica, a Berlusconi dissi: “Non ho votato per lei”». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 4 giugno 2023.

Bonolis: «Sono da 44 anni sul piccolo schermo, voglio concentrarmi su altro, tipo i miei figli». E sul palco ricorda i suoi no a Berlusconi («Mi voleva come portavoce di Forza Italia, presero Cecchi Paone») e a Freddie Mercury («Lo incontrai in un ristorante, capii che con me non voleva solo parlare»)

Lo aveva detto e lo conferma. Paolo Bonolis si sta «avviando» a lasciare la tv. «È un lavoro a cui mi sono dedicato per 44 anni: sento che nell’ultimo scampolo della mia vita voglio concentrarmi su altro. Starò in video ancora per poco». 

Ma il pubblico del Festival della Tv sembra proprio non volergli credere. In gran forma, il conduttore ha divertito la platea con ricordi e riflessioni: «Ho cominciato facendo tv per i bambini, poi per i ragazzi, poi per gli adulti: mi manca “Frontiere dello spirito” e ho chiuso il ciclo perfettamente». 

Gli viene chiesto di condividere un ricordo sulla tv, anche drammatico: «Un ricordo per me drammatico è che ho un altro anno di contratto», scherza, non si sa fino a che punto. Considera i suoi maestri Corrado e Vianello: «Sentivo per radio la Corrida quando andavo a Ostia con mamma e papà. Vianello lo incontrai la prima volta una sera ai Telegatti. Ero andato in bagno, facevo pipì all’orinatoio quando mi venne vicino lui, a fare la stessa cosa. Mi guardò e mi disse: “Oooh, Bonolis, che piacere... ma adesso non sarà il caso di stringerci la mano”». 

Come loro dice di essersi «divertito a giocare sulle peculiarità delle persone. A una puntata di Avanti un altro si è presentata una signora che si era molto adoperata sul suo viso: aveva labbra enormi, era tutta tirata. Forse fui sgarbato, ma le dissi: “Buona sera signora, lei chi era?”. Perché prima doveva essere proprio un’altra persona». 

L’ironia era di famiglia: «Papà scaricava il burro al mercato generale. Avevo iniziato a fare tv da poco e come volto giovane dovevo condurre una serata al fianco di un veterano come Mike Bongiorno, che una sera chiamò a casa. Rispose papà: “Chi è?”. “Sono Mike Bongiorno, c’è Paolo?”, “Ma vaffan...”. E mise giù. A casa mia non si poteva proprio pensare che una sera chiamasse Mike Bongiorno». 

Eppure fu suo padre e quel pragmatismo romano a convincerlo a fare televisione: «Quando gli dissi che mi pagavano un milione al mese mi disse che o ci andavo o mi ci mandava lui a calci nel sedere». Oggi lo diverte «il disimpegno: mi piace che la gente che guarda quello che faccio lo viva come un’oasi di serenità. Amo far ridere e rendermi conto che la realtà la prendiamo troppo seriamente. L’ironia è un antibiotico all’esistenza formidabile: smussa gli angoli dei problemi». 

Ricorda Sanremo. «Mi è piaciuto tantissimo cambiarlo. Volli grandi ospiti: venne Mike Tyson, Will Smith e pure Hugh Grant... un rompic... micidiale. Diceva no a tutto. Sul palco mi sono divertito a percularlo. Gli chiesi come mai l’inglese avesse la propensione a far salire il gatto sul tavolo - the cat is on the table - quando noi in Italia tendiamo a dargli un calcio e farlo scendere». 

Se deve darsi un merito è che in tv «non ho mai avuto paura di fare quello che sentivo di fare». E anche a telecamere spente pare, visto il suo no a Berlusconi: «Venni convocato a Palazzo Grazioli dal presidente. Mi ero detto: ma che vogliono da me? C’era anche Letta al tavolo, mangiava solo una mela. A un certo punto Berlusconi mi dice: “Bonolis, ho avuto per lei un’idea importante: lei sarà il portavoce di Forza Italia”. Gli risposi: “Presidente, non è per cattiveria, ma io manco l’ho votata”».

La prese bene. «Massì, quello ride sempre, che gli frega, ci ha provato. Presero Cecchi Paone». 

Tra i suoi rifiuti, anche quello a Freddy Mercury: «Avevo 23, 24 anni e nel ristorante dove cenavo entrò a un certo punto sua maestà Freddie Mercury. Mi si è seduto vicino e si è messo a parlare... solo che dopo un po’ ho capito che non voleva solo parlare. Al mio no, quando gli ho spiegato che lo adoravo ma che a livello ormonale eravamo un po’ distanti, si è fatto una risata. Mi chiese comunque il mio indirizzo e un anno e mezzo dopo mi fece arrivare a casa due biglietti per il concerto di Wembley. Andai». 

Tornando alla tv, liquida la polemica attorno alla Rai come «le solite schermaglie: ci sono ogni volta che c’è un cambio politico. I partiti sono ormai delle aziende che giocano a delegittimare gli altri, un gioco un po’ noioso». 

A lui chiesero anche di fare il sindaco di Roma, svela. «La mia risposta fu: “ma che vi siete bevuti”. No, per l’amore del cielo. La politica non mi interessa».

Paolo Bonolis sbugiardato: "Lascio la tv"? Ecco cosa diceva nel 1998. Libero Quotidiano il 08 giugno 2023

La notizia di un imminente ritiro dalla tv per Paolo Bonolis ha messo in allerta tutti i suoi fan. Il conduttore di programmi Mediaset di successo come Ciao Darwin o Avanti un altro ha rivelato, intervistato di recente al Festival Dogliani, che si sta "avviando" a lasciare il piccolo schermo: "È un lavoro a cui mi sono dedicato per 44 anni: sento che nell’ultimo scampolo della mia vita voglio concentrarmi su altro. Starò in video ancora per poco". 

Peccato, però, che abbia detto le stesse identiche parole anche nel 1998, cioè ben 25 anni fa, in un'intervista a Repubblica riportata a galla dal giornalista Antonello Piroso. Quest'ultimo, pubblicando l'articolo del '98 sul suo profilo Twitter, ha scritto: "Lascerà presto la tv. Però il primo annuncio del genere lo fece nel 1998 ('onoro quest’ultimo contratto e poi mi ritiro'). Certe volte basta avere un po’ di buona memoria, e andare in archivio a controllare". Nell'intervista ripescata da Piroso, Bonolis motivava la sua scelta così "Sono stato molto fortunato. Sono capitato in una serie di convergenze favorevoli. Ma ormai faccio questo lavoro da 17 anni. E bisogna invece avere sempre freschezza". Di certo dal 1998 a oggi un po' di cose sono cambiate e dunque è possibile che questa volta Bonolis intenda davvero lasciare la televisione dopo tanti anni di lavoro. Per sapere come andrà a finire non resta che attendere.

Qui l'articolo di Repubblica del 1998 

Basta, lascio la tv. Che fa uno che vince la lotteria? Smette di lavorare. Appunto: è quel che vuol fare Paolo Bonolis. Alla lotteria della televisione ha "vinto" un contratto da 12 miliardi tre anni fa e altri 18 quest' anno. In cambio dovrà lavorare ancora tre stagioni per Mediaset. Ma poi - annuncia a sorpresa - basta con la tv. Una decisione "posdatata", che confessa in un camerino di Cinecittà dove intanto ogni giorno continua a sfornare due puntate di "Tira e Molla", macinando vagonate di pubblicità. E ammette che il successo è stato solo fortuna e azzarda che da grande vorrebbe fare ben altro mestiere... Diciotto miliardi: Maradona sa giocare al pallone, Schumacher sa guidare la macchina. Ma a lei perché hanno dato tutti quei soldi? Cosa sa fare? "Poco. Metto molta energia e cerco di destrutturare il quiz". Destrutturare? Ci dia un aiutino... "Diciamo che lo rivolto come un pedalino". Infatti, una volta per partecipare a un quiz bisognava sapere le risposte. Con lei meno si sa e più si vince... "Il divertimento è stare al telefono con uno che non sa dov' è l' Australia. Lo spettacolo è questo". Lo spettacolo dell' ignoranza? "No, perché nessuno vuole dimostrare di essere più intelligente degli altri. Facciamo tutti la stessa cosa: nei miei giochi il delta del pubblico è largo". Destrutturare, il delta... A vedere "Tira e molla" chi se lo aspetterebbe mai che lei parla così... "Voglio dire che a vedere "Tira e molla" ci sono tutti: quelli che non sanno rispondere alle domande e quelli che ridono di questo. Ormai non è più un quiz è una situation comedy con i personaggi che ritornano: io, la Sellerona, Laurenti, e nessuno si prende sul serio". La solita operazione, come la Corrida: illude gli ingenui e cattura contemporanemante quelli che ridono di loro. Assopigliatutto: non c' è più bisogno di alternative... "L' alternativa c' è". Quale? "Legga, vada al cinema, faccia quello che vuole. La tv non è un obbligo, è una proposta. Il giorno in cui si accenderà da sola allora forse avrà ragione lei. Evitiamo di considerare la televisione come qualcosa da cui non si può prescindere. Bisogna muoversi, andare verso le cose che la tv ci porta in casa, sentire gli odori e i sapori del mondo". E perché non lo fa lei? "Invece ho già deciso di farlo". Cioé? "Smettere, ridurre sempre di più la presenza in video. Certo, questo lavoro a me piace molto, ma ora penso che questo sarà il mio ultimo contratto con la tv. L' onoro per le tre stagioni che restano, ma apparendo molto meno. E poi mi ritiro". Perché? "Sono stato molto fortunato. Sono capitato in una serie di convergenze favorevoli. Ma ormai faccio questo lavoro da 17 anni. E bisogna invece avere sempre freschezza. Poi non voglio fare il direttore di niente. Non m' interessa diventare altro da quello che sono: così come non m' interessa di apparire sudato!". Parentesi: ma perché suda in quel modo? "Ho fatto di tutto, la mia truccatrice ha i geloni per il ghiaccio che mi mette sulla fronte. Sono andato pure dal dottore che mi ha detto: beato lei, fa benissimo alla salute. E siccome la salute è la cosa più importante, continuerò a sudare e fare le ranocchie sotto le ascelle". A proposito: cos' è la volgarità? "è la mancanza di rispetto, puoi dire una cosa bieca senza essere volgare, e parlare a modo ma esserlo". Faccia un esempio televisivo dell' uno e dell' altro caso". "No. Non voglio essere volgare". Torniamo al microfono appeso al chiodo. Che farà poi? "Mi piacerebbe scrivere. Intanto leggo molto e cerco di mettere ordine in quel che ho pensato per 37 anni. Ma non voglio scrivere ora, approfitterei della mia popolarità. Lo farò dopo, quando sarò meno famoso". Dalle televendite alla letteratura... "Io lo so che faccio il giullare. Ma so anche quanto può piacermi un libro di Schnitzler. So che offro disimpegno, doppisensi e belle figliole. La verità è che anche i migliori intellettuali qualche volta la sera a cena si mettono a cantare "daglie de punta e daglie de tacco...". Io do de tacco e de punta per tutta la giornata e la sera leggo libri". Perciò parla a raffica? Tiene il motore accelerato perché se rallenta si spegne? "Perché se rallento si scopre tutto! No, vado veloce per dare l' idea che ci sia qualcosa d' imprevedibile che sta per arrivare. Perché lo spettatore senta che se non gli piace quel che c' è in quel momento, di lì a poco arriverà qualcos' altro". Un modo per riempire il vuoto: è per lo stesso motivo che urla come un ossesso? "No, urlo perché sono sordo all' orecchio destro". Potrebbe spiegarlo a quelli che la copiano, come Greco e Conti, che ci spaccano i timpani pensando che il suo sia uno stile vincente? "Mi impegno a farlo". Lei annuncia che se ne andrà, ma intanto prepara il prossimo varietà del sabato di Canale 5. "Sarà una cosa che farà o il 3 o il 30 per cento di ascolti. Ci sarà la gente che ragionerà su se stessa. Sarà un' analisi semiseria sull' umanità di fine millennio". E scusate se è poco... "Vabbé, levi il serio e pure il semi. Cercheremo di fare una cosa divertente. Si doveva chiamare "Darwin"". E poi? "Abbiamo pensato che doveva almeno finire con una vocale. Comunque è un' idea che a Costanzo piace molto". Costanzo: lui lavora 7 giorni alla settimana, Frizzi il sabato e pure la domenica... Secondo lei perché loro non sono tentati dall' uscire di scena? "Non lo so: perché gli va di farlo?...". O perché, anche volendo, dal video non si scende più... "Certo, il pubblico che ti dà la sensazione di un potere enorme. In qualunque momento della giornata. Anche quando vai a fare un certificato. Ma a me, lo ripeto, il potere non interessa".

di GUALTIERO PEIRCE 12 marzo 1998 sez.

Estratto dell'articolo di Alessandro Ferrucci per “il Fatto Quotidiano” del 27 gennaio 2019 

[...] Dicevamo, si diverte meno.

“È fisiologico: quello che era affascinante, con gli anni diventa abitudine, consuetudine e cresce la stanchezza fisica. Recupero con maggiore fatica rispetto a vent’anni fa” 

Non sente il brivido della telecamera?

“Non sento la necessità morbosa di esserci, tanto che tra un paio di anni vorrei fermarmi, perché non sono più contemporaneo”. [...]

Estratto di Ilaria Costabile per fanpage.it il 5 giugno 2023.

Ospite al Festival della televisione di Dogliani, Paolo Bonolis si è raccontato attraversando anni di lavoro […] e rivelando di avere altri progetti che, però, contemplano nuove strade: "È un lavoro a cui mi sono dedicato per 44 anni: sento che nell’ultimo scampolo della mia vita voglio concentrarmi su altro. Starò in video ancora per poco".  

Paolo Bonolis, in effetti, ha attraversato varie fasi del fare televisione, finendo per diventare uno dei volti più amati dal pubblico e di questi passaggi il conduttore ne ride: "Ho cominciato facendo tv per i bambini, poi per i ragazzi, poi per gli adulti: mi manca “Frontiere dello spirito” e ho chiuso il ciclo perfettamente". 

I suoi maestri, da sempre sono stati Corrado e Raimondo Vianello, con cui ricorda anche il primo esilarante incontro: Sentivo per radio la Corrida quando andavo a Ostia con mamma e papà. Vianello lo incontrai la prima volta una sera ai Telegatti. Ero andato in bagno, facevo pipì all’orinatoio quando mi venne vicino lui, a fare la stessa cosa. Mi guardò e mi disse: “Oooh, Bonolis, che piacere… ma adesso non sarà il caso di stringerci la mano". 

[…] Eppure c'è stato un momento in cui Bonolis sarebbe potuto diventare il nuovo volto di Forza Italia, su espressa richiesta di Silvio Berlusconi, ma il conduttore ha sempre rifuggito la politica: Venni convocato a Palazzo Grazioli dal presidente. Mi ero detto: ma che vogliono da me? C’era anche Letta al tavolo, mangiava solo una mela. A un certo punto Berlusconi mi dice: “Bonolis, ho avuto per lei un’idea importante: lei sarà il portavoce di Forza Italia”. Gli risposi: “Presidente, non è per cattiveria, ma io manco l’ho votata”. 

Il Cavaliere, a quanto pare, non la prese male: "Massì, quello ride sempre, che gli frega, ci ha provato. Presero Cecchi Paone". D'altronde, parlando di quanto sta accadendo in Rai dal punto di vista politico, non nasconde il suo disappunto in merito alla cosiddetta lottizzazione: Le solite schermaglie: ci sono ogni volta che c’è un cambio politico. I partiti sono ormai delle aziende che giocano a delegittimare gli altri, un gioco un po’ noioso. [...]

Paolo Bonolis, il trash logora chi ce l’ha: «Lavorerò ancora per poco, basta tv». Beatrice Dondi su L'Espresso il 5 giugno 2023.

Il conduttore al festival di Dogliani annuncia un suo possibile abbandono. «Non bisogna stare per forza in televisione». D’altronde convivere con il piccolo circo dei suoi programmi può essere impegnativo. Persino per lui, che è il più bravo di tutti

Ci sono quelli che lavorano e poi ci sono quelli che lavorano in televisione, si dice spesso. Senza pensare che anche il conduttore in alcuni casi in particolare possa essere un mestiere decisamente usurante.

E ne deve sapere qualcosa Paolo Bonolis, che dopo quarant’anni di carriera si è lasciato andare dal palco del Festival della Tv di Dogliani a un morbido sfogo: «Non ho bisogno di stare per forza in televisione, si sta bene anche altrove», lasciando intendere un suo prossimo abbandono del piccolo schermo. E poi: «Penso ancora di lavorare per poco tempo, poi vorrei dedicarmi alla mia vita». E non si fa una gran fatica a comprendere che un quotidiano passato da tempo immemore immerso nel trash dilagante, dentro studi riempiti con la pala di personaggi ai limiti del buon gusto, lo iettatore, la bomber, l’alieno, la vecchia, l’uomo fitness e tutti gli altri mostri con cui convive nel piccolo circo dei suoi programmi, alla lunga possa essere a dir poco impegnativo.

Perché lui, il conduttore Mediaset che ha sulla carta tutto quanto si potrebbe desiderare, simpatia, prontezza di spirito, battuta fulminante, energia positiva, parlantina fluida, sorriso ironico e via dicendo, ha deciso per qualche strano motivo di dedicare anima, corpo e microfoni a questo tipo di televisione, quasi fosse una sfida alle sue stesse doti.

Bonolis, che è stato capace di cominciare una carriera parlando con un pelouche, l’uomo in grado di riempire i vuoti, occupare lo studio, ricordare a memoria e ripetere a macchinetta senza sbagliare neppure una virgola, si è speso tra pisellini e uccelli volanti, pance e doppi sensi, giochi di petto e varia anatomia in un siparietto infinito.

Oggi Paolo Bonolis lo invitano tutti. Ogni programma richiede una sua incursione, ma più è tirato per la giacca più si incista in quella parte da folletto che rimesta nel basso. Neppure le sirene della domenica sera sembrano averlo incantato.

«Io al posto di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”? Non lo ritengo fattibile. Non perché temo ingerenze ma perché sto bene dove sto e mi diverto ancora a fare quello che faccio». Ma con la prospettiva di poter prendere aria, per poter dire: avanti un altro.

Giampiero Mughini per Dagospia il 5 giugno 2023.

Caro Dago, leggo sui giornali che Paolo Bonolis ha lasciato intendere che è arrivato al capolinea di quella tv popolare che lui giostra da oltre quarant'anni e che da qui a poco farà "altro". 

Purtroppo ho avuto Paolo di fronte poche volte nella mia vita, tre o quattro volte in un set televisivo, una volta in occasione di un qualche festival dove eravamo stati invitati entrambi, una volta in una strada romana dove lui stava camminando sul marciapiede di fronte e mi salutò con una qual certa simpatia che mi sorprese, dato che io raramente sto simpatico a qualcuno. E ho detto purtroppo perché sento che Paolo e io abbiamo parecchio in comune (spero che lui non se ne offenderà), a cominciare dalla passione per i bei libri.

Il fatto è per l'appunto che una cosa è la televisione popolare in cui Paolo è maestro, un'altra cosa è la persona di Paolo. Del resto chi mastica poco di televisione non sa di quanta sapienza è fatta la conduzione della tv popolare. Chi ha visto in azione Mike Bongiorno sa che non sbagliava una mossa, un tempo televisivo, un gesto. Se sbagliava a pronunziare un nome, è perché lo faceva apposta. 

Alla prima puntata di una trasmissione in cui sono stato più volte suo ospite, mi chiamò "Mughetti" : figuratevi se non lo fece apposta.

Quanto a Corrado, mi ricordo della sua partecipazione a una puntata del Maurizio Costanzo show di oltre trent'anni fa in cui non disse una parola che fosse una, il suo lavoro stette per due ore nel mutare espressione ogni volta che uno degli ospiti faceva il suo nome o si riferiva a lui. Tanto che Maurizio alla fine della puntata gli diede atto di quella sua particolare maestria professionale. Di quel suo silenzio geniale. 

Così pure vedo che in molti parlano con sufficienza di come Barbara D'Urso conduce da anni le sue seguitissime trasmissioni. Ebbene non sanno quello che dicono, Barbara è bravissima nel tenere in pugno quelle trasmissioni, nel rivolgersi al suo pubblico che quello è, nel lasciar trapelare i suoi ospiti che quello sono. Raramente mi sono sentito a mio agio, televisivamente parlando, come durante le sue puntate di una sua trasmissione cui ho partecipato.

Non dirò poi di Sua Maestà Milly Carlucci, perché fin troppo banale esaltarne le qualità di una trasmissione che durava quattro ore a botta. Voi vedete il risultato finale di quelle trasmissioni. E dunque non sapete che dietro ognuna di quelle puntate ci sono tre o quattro giorni di prove durante ognuna delle quali Milly controlla ogni minimo particolare dalle quindici a mezzanotte. Ogni minimo particolare. Questa è la televisione popolare, signori. Portate rispetto.

Torno a Paolo, che di quella televisione è stato per decenni un signore incontrastato. Non è che io lo abbia visto all'opera così tante volte perchè non rientro nel pubblico di quelle trasmissioni, o meglio ancora perchè guardo poco la televisione. Quelle poche volte che ho visto o sbirciato o ascoltato Paolo, sempre ho ammirato la sua misura, i suoi tempi che non tolgono spazio ai concorrenti, la sua ironia non iattante, quella sua aria sorniona di chi ti sta dicendo che vuole semplicemente farti passare il tempo e niente di più.

Di chi ti sta dicendo che la televisione non è una cosa seria, ci mancherebbe. E non è che te lo stia dicendo a parole, te lo sta dicendo con la sfumatura di un sorriso, te lo sta dicendo con il linguaggio degli occhi, te lo sta dicendo col silenzio. Perché in un'epoca i cui tutti schiamazzano e straparlano, che c'è di più espressivo e toccante del silenzio? Grazie, Paolo. Fossi uno che comanda in televisione, appena lascerai la televisione popolare ti affiderei una trasmissione sui bei libri. Eccome se fatta da te funzionerebbe.

Dagonews il 13 aprile 2023.

È arrivata al capolinea la storia tra Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli. Dopo 25 anni insieme e 3 figli, è finito l’amore ma non la stima e l’affetto. I due hanno passato le vacanze di Pasqua insieme al mare e daranno la comunicazione ufficiale della loro rottura, con ogni probabilità, a “Verissimo” da Silvia Toffanin nel fine settimana.

 Le avvisaglie della fine della loro storia d’amore erano già palesi nelle recenti interviste rilasciate dalla Bruganelli: “Io e Paolo Bonolis viviamo in case separate. Non siamo una cosa sola ma due entità diverse che hanno scelto di vivere insieme e, ora che i figli sono più grandi, possono anche permettersi di riprendere in parte i propri spazi. Non ho mai sentito di esistere in funzione di un uomo…”

Dago-risposta il 13 aprile 2023.

Chi conosce bene i media sa che certe smentite sono come aria fritta, “flatus vocis” come direbbe Roscellino di Compiègne. Un gorgoglìo di frasi vuote che non serve a nulla ma alza cortine fumogene, depista, crea confusione. I lettori più smaliziati di Dagospia hanno imparato a riconoscere l’automatismo in cui inciampano vip e svippati a cui viene tolto il velo dell’ipocrisia: una volta beccati con le manine nella marmellata reagiscono in modo scomposto, smentiscono le notizie che li riguardano, magari con toni piccati, incassano il plauso di follower e portaborsette fino al punto in cui inesorabilmente perdono la faccia quando non riescono più ad occultare la verità.

 Il campionario di fenomeni inciampati nel trappolone è vasto. Il caso più eclatante è quello di Francesco Totti e Ilary Blasi. Dagospia rivelò la fine del loro matrimonio e invece di confermare o, al limite, tacere, i due si scapicollarono a smentire. Er Pupone parlò di “fecche news” e la Blasi andò a “Verissimo”, dalla sua amica Toffanin, a frignare contro i media che avevano “fatto una grande figura di merda”. Come è finita, lo sappiamo. Abbiamo assistito a siparietti simili sul caso Prati-gate, nella separazione tra Claudio Amendola e Francesca Neri, nella crisi amorosa tra Michelle Hunziker e Tomaso Trussardi fino al triangolo delle corna tra Alessia Marcuzzi, Stefano De Martino e Belen Rodriguez. Lo cantava già Caterina Caselli nel 1966: “La verità mi fa male”. Meglio buttarla in caciara.

A questo riflesso pavloviano hanno aderito anche Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli dopo la Dago-notizia sulla loro crisi coniugale.

I due amabili coniugi, in evidente travaso di bile, replicano all’indiscrezione (ma non la smentiscono chiaramente) con un video in cui appaiono insieme, a mollo in piscina. Nella gag, che si trasforma presto in una gag-ata un po’ scialba, Bonolis gigioneggia: “Siamo molto in difficoltà perché mo’ che facciamo? Ci separiamo in modo da non smentire questo importantissimo sito di informazione che guida la vita di tutti i nostri giorni, con le sue notizie proprio fondamentali per il nostro quotidiano? Oppure non ci separiamo e mandiamo a quel punto sul lastrico il sito perché è un sito de fregnacce?”. E la Bruganelli lo corregge: “Non è un sito di fregnacce, ogni tanto…”.

Povero Paolino “Banalis”, se non avesse smarrito l’ironia un decennio fa, avrebbe reagito in modo sagace e invece gli scappa la frizione in modo maldestro: “Sito de fregnacce”. Un giudizio così tranchant da far pensare che il conduttore sia esperto del ramo. Anzi, del tronco.

 Il suo livore esonda: “Fatevi i cazzi vostri”. Deve aver magnato pesante o gli è andato di traverso qualche cornetto alla crema di troppo al punto da aver dimenticato che un personaggio pubblico vive esposto all’interesse dei media. E non solo sui suoi successi ma anche sui suoi eccessi. Amori, bollori, afrori, torpori: tutto è offerto al Grand Guignol della celebrità. Dolori e corna incluse, voscenza permettendo.

 Se la notizia sulla crisi coniugale è solo una “fecche news”, per citare le spavalderie di Totti, lo dirà il tempo. Una coppia che resiste al logorìo della vita moderna, con venti anni di matrimonio alle spalle e tre figli, è da applausi. E poi, saremo anche delle “serpi” (copyright Travaglio) ma ci risparmieremmo volentieri una nuova “Guerra dei Roses” con patrimoni da dividere, assegni di mantenimento, ville da spartire, rolex trafugati e borse prese in ostaggio.

 Che poi quando una coppia scoppia finisce per tirare fuori il peggio da sé, e pure da noi.

Chi si ama, chi si appartiene e non cerca fornicate oltre i confini del talamo, non teme crisi. I migliori auguri per un radioso futuro insieme.

Noi, vi rimiriamo da lontano.

Seduti sulla sponda del fiume.

Dagospia il 13 aprile 2023. LA 'SMENTITA' DI SONIA BRUGANELLI E PAOLO BONOLIS 7

TRASCRIZIONE DEL VIDEO DI “SMENTITA” DI SONIA BRUGANELLI E PAOLO BONOLIS

 Paolo Bonolis: Eccoci, eccoci qua

 Sonia Bruganelli: Che volevi dire?

 PB: “Siamo in difficolta, perché m’ha fatto vedere che è uscita ‘sta cosa”.

 SB: “Su Biccy.it e su Dagospia è uscito che ci vogliamo separare, che ci stiamo separando, o che ci siamo separati, non lo so”

 PB: “Nun se sa, comunque sia, adesso siamo molto in difficoltà perché mo’ che facciamo? Ci separiamo in modo da non smentire questo importantissimo sito di informazione che guida la vita di tutti i nostri giorni, con le sue notizie proprio fondamentali per il nostro quotidiano? Oppure non ci separiamo e mandiamo a quel punto sul lastrico il sito perché è un sito de fregnacce? Eh, qui è un problema”

SB: “Non è un sito de fregnacce, ogni tanto …”

PB: “Se non lo facciamo è un sito de fregnacce, scusa…”

SB: “Ah certo, certo”

PB: “E so fregnacce. A questo punto ,che facciamo? C’è un dilemma morale”

SB: “Vabbè, pensiamoci, anche perché ce l’hanno detto adesso, così su due piedi”

PB: “Facce pija n’attimo”

SB: “Dovremmo parlarne pure coi figli, con la famiglia, magari prima”

PB: “Magari prima che dicessero le fregna…ehm le importantissime informazioni che ci regalano questi siti”.

SB: “No, le informazioni”

PB:  “Non perdetevi mai le informazioni di questi siti. Fatevi sempre la vita degli altri, bravi!”

SB: “Comunque, a oggi non c’è una conferma, non c’è una smentita”.

PB: “Però ce mettono fretta”

SB: “Non c’è niente”

PB: “Io so’ indeciso, tra mandarli sul lastrico…”

SB: “O separarci”

PB:  “Mah”

SB: “Vabbè…”

PB: “l destino parlerà. magari devi annà a verissimo a di sta cosa”

SB: “Io veramente andavo co adele a Verissimo  però mo vediamo, non credo lo voglia dire lei”

PB: “Adele, manco lo sa, pora stella”

SB: “Ancora certo, lo sanno loro ma non lo sanno i nostri”

PB:  “MI piacerebbe chiudere come chiusi a Domenica In”

SB: “No vabbè non chiudere niente, salutiamo”

PB: “Fatevi i c…. “

SB: “vostri!”

Paolo Bonolis: «Prima il benessere dei figli, poi i diritti dei genitori». Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 10 Marzo 2023.

Si toglie la giacca e rimane in t-shirt nera quasi per confondersi con i ragazzi e le ragazze che lo ascoltano nell’aula di Giurisprudenza della Sapienza: «Anche io ho studiato Legge come voi. Ma solo un anno», dice Paolo Bonolis alla vicedirettrice del Corriere, Fiorenza Sarzanini. È ospite della prima giornata di Obiettivo 5 dove parla della sua paternità multipla e di famiglie super allargate. Tra diritti e responsabilità dei genitori, anche davanti a una separazione.

Lei ha divorziato dalla sua prima moglie.

«Eravamo molto giovani. È americana, e quando è finita è tornata negli Stati Uniti».

L’ha lasciata andare rinunciando a vedere quotidianamente i suoi figli?

«Ve la devo dire tutta? Se ne è andata perché l’avevo tradita. Ero un ragazzo e lei aveva bisogno di tornare dalla sua famiglia. Ho imparato a rinunciare per tutelare i miei figli che erano piccoli, anzi una doveva ancora nascere. I sentimenti sono più importanti delle parole, se vuoi bene devi sapere fare un passo indietro».

C’è un consiglio che si sente di dare alle coppie che si separano?

«Bisogna mettere in primo piano i diritti dei bambini che non hanno scelto di esserci. Niente vendette attraverso i piccoli o si rischia l’infanticidio sentimentale. Con la mia ex moglie condividiamo alcuni valori e questo ci ha aiutato a non farci la guerra».

Come funziona il rapporto tra i due figli più grandi e i tre avuti con Sonia Bruganelli?

«Sono legati, si vogliono molto bene».

Ora non è solo padre, ma anche nonno.

«Sì, ho due nipoti. A Natale siamo andati in America a conoscere il figlio di Stefano. È bellissimo, è nato di 5 chili, sembrava un abbacchio. Mio figlio e mia nuora erano disperati perché piangeva sempre. Per forza, gli ho detto, questo è affamato. Voi lo nutrite secondo l’età, ma va nutrito secondo il peso. A Capodanno l’abbiamo tenuto io e Sonia e ha dormito come un angioletto».

Sonia.

La fedeltà, il matrimonio, le case diverse: la moglie di Bonolis rompe il silenzio. Sonia Bruganelli è tornata a parlare del rapporto con il marito, Paolo Bonolis, e della scelta di vivere in due case separate: "Non ho mai sentito di esistere in funzione di un uomo". Novella Toloni il 26 gennaio 2023 su Il Giornale.

Siamo tutti curiosi della vita degli altri. E il pubblico sembra essere particolarmente morboso nel volere analizzare la vita di coppia di Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli. Il conduttore e l'imprenditrice hanno confessato di essere andati a vivere in due appartamenti diversi (ma contigui) e di essersi presi i propri spazi per ridare slancio al rapporto. Senza divorzi e senza addii. Ma la scelta ha fatto storcere il naso a molti e sui social, a fasi alterne, l'argomento torna sul piatto della discussione.

A puntare di nuovo l'attenzione sul tema vite separate senza divorzio è stato il settimanale F, al quale la moglie di Bonolis ha concesso un'intervista intima, nella quale la Bruganelli è tornata a parlare e nel farlo l'opinionista del Grande fratello vip ha voluto fare una precisazione importante.

Il rapporto con Paolo Bonolis

Sonia Bruganelli non ha mai avuto motivo di essere gelosa del marito: "Paolo è il tipo che, fuori dal lavoro, fa capire alle altre con un solo sguardo che non hanno possibilità, ti tiene distante dieci metri". Eppure, dopo due figli e un matrimonio lungo vent'anni, lei sente l'esigenza di fare valere il suo essere donna indipendente prima che moglie: "Anche se sono sempre stata in coppia, non ho mai sentito di esistere in funzione di un uomo. Se un giorno non dovessi stare più con Paolo, rimarrò comunque quella che va a trovare i suoi figli, Stefano e Martina, e i miei nipoti, perché li considero tali, a prescindere da lui".

"Non faccio come lei...". Sonia Bruganelli punge la Ferragni

E se fino a oggi ha scherzato sul fatto di avere due appartamenti e di dormire in camere separate, ora al settimanale F Sonia Bruganelli ha messo in chiaro la sua visione di donna moderna. Bonolis aveva già glissato, rispedendo al mittente le domande curiose dei più ("fatevi i ca... vostri"), Sonia invece ha deciso di ripetersi: "Noi non siamo una cosa sola ma due entità diverse che hanno scelto di vivere insieme, di creare una famiglia e che, ora che i figli sono più grandi, possono anche permettersi di riprendere in parte i propri spazi". Che non significa necessariamente divorziare o lasciarsi, ma godere a pieno del tempo assieme e di quello personale. Con stima e rispetto reciproco condividendo ancora una visione comune di vita insieme ma ognuno con i propri spazi.

Estratto dell’articolo di Andrea Scarpa per “Il Messaggero” il 15 Gennaio 2023.

È nota più o meno a tutti per essere la moglie di Paolo Bonolis, ma negli ultimi due anni si è imposta anche come opinionista di Grande Fratello Vip […] Si chiama Sonia Bruganelli, è romana, ha 48 anni, tre figli […]

 […] Una che vuole provocare.

«Sì, certo. Non mi va di omologarmi. Non recito la solita parte della brava donna perfettina e gne-gne. Da produttrice tv so che bisogna dare un valore aggiunto ai programmi, quindi da Signorini non faccio altro che assecondare la mia natura e dire quello che penso. Evitando il politicamente corretto».

 È contraria?

«Lo detesto. A me piace chi si sporca le mani e va oltre i luoghi comuni. Comunque sono stronza solo con chi se lo merita. A Orietta Berti, per esempio, non farei mai uno sgarbo».

Ad Adriana Volpe, invece, ha fatto di tutto.

«Il nostro dualismo doveva essere divertente, ma lei lo ha preso molto seriamente. Era diventata una cosa personale. E più lei mi stuzzicava, tirandomi fuori il peggio, più io reagivo attaccando».

 Lei come ha iniziato?

«Da giovanissima. Facendo la modella per i fotoromanzi e le telepromozioni […]».

Anche dopo il successo con GF Vip è sempre e soltanto la moglie di?

«Penso di sì. […] La tv non fa sconti: se non funzioni sei fuori. Da giovane […] grazie a Paolo entrai nella redazione di Ciao Darwin».

 […] Grazie a lui ce l'ha fatta.

«A lui e a me, che ho aperto un'azienda e riesco a tenerla in piedi. Se non avessi offerto a Mediaset produzioni di successo mi avrebbero già salutato».

 […] La società Sdl l'ha aperta nel 2005 con Lucio Presta - agente di Bonolis, Amadeus, Clerici e tanti altri - che tre anni fa ha venduto la sua quota, giusto?

«Sì. È subentrato Paolo al suo posto. Lucio mi ha insegnato tutto, io però sono cresciuta e ho voluto prendermi i meriti - anche economici - di quello che faccio. Così ci siamo divisi. Lui il primo anno non voleva, forse temeva di passare agli occhi di Mediaset come quello che un po' si sganciava, poi ci siamo messi d'accordo».

 […] Se Amadeus la chiamasse per Sanremo?

«Impossibile. Il suo agente è Presta... Insieme, se fossimo riusciti a smussare i nostri caratteri, avremmo potuto essere una potenza. Non ce l'abbiamo fatta».

 L'equivoco più ricorrente e fastidioso su di lei qual è?

«Che io faccia shopping sfrenato per fare rosicare tutti. Non è vero. Sui social metto le cose che mi piacciono per divertirmi, non la vita vera. Non ostento, gioco con quello che mi aiuta a superare tanti dolori. Di sicuro non metto le cose serie che faccio. Non sono come Chiara Ferragni, che convoca conferenze stampa».

[…] Quanto guadagna?

«Al massimo quanto un calciatore di Serie B, anche se poi spendo i soldi di Paolo e i miei li accumulo. Scherzo. Ahahahahaha...».  […] «[…] temo la vecchiaia come la morte, nonostante i tanti segnali ricevuti. Deve sapere che io fin da piccola faccio sogni premonitori. […]».

 Di recente ha raccontato che vent' anni fa dopo la nascita della sua prima figlia, Silvia, per via dei danni neurologici e motori subiti dopo un intervento al cuore, ha avuto paura di non sentirsi all'altezza del compito di madre: è vero che ha fatto anche pensieri molto più brutti?

«Sì. I peggiori. Avevo 27 anni e quando mi dissero che la mia prima figlia avrebbe potuto condurre una vita terribile mi sono chiesta che cosa potessi fare. Ammazzarmi e darle la mia vita non avrebbe risolto i suoi problemi, allora mi sono detta: devo sperare che lei combatta per sempre o che trovi una serenità da un'altra parte? Ecco, io quello l'ho pensato. Poi per fortuna siamo andati avanti. […]».

 […] Lei e Bonolis poco fa avete detto che vivrete in case separate, anche se sullo stesso piano: vi siete sistemati?

«Non ancora. Comunque continueremo a stare insieme».

 Tempo fa lei ha detto che potete stare anche tanto tempo senza vedervi. Per caso siete - come Luca Laurenti e sua moglie - una coppia aperta?

«Non scherziamo. Una cosa è non essere gelosi e possessivi, un'altra è la coppia aperta».

 In passato ha detto di aver votato Berlusconi: alle ultime elezioni ha scelto una donna come Giorgia Meloni?

«No. Sempre Berlusconi».

 E quando suo marito disse di no a Berlusconi, che gli offriva di fare il portavoce di Forza Italia, lei che cosa gli disse?

«Niente, ma non è vero che non l'aveva mai votato. All'epoca sosteneva Fini».

 Se non fosse illegale che cosa farebbe?

«Romperei le vetrine di Hermès e Dior e ruberei tutte le borse. Che meraviglia».

Estratto dell’articolo di Arianna Ascione per corriere.it mercoledì 20 settembre 2023. 

Il nome d’arte

La svolta, per la carriera di Sophia Loren, arrivò nel 1951: quell’anno incontrò il produttore Carlo Ponti, che - dopo averla notata ad un concorso di bellezza, dove lei era ospite - le offrì un contratto di sette anni. In questo periodo l’attrice sul set iniziò ad usare nomi d'arte, facendosi prima chiamare Sofia Lazzaro poi Sophia Loren (su suggerimento del produttore Goffredo Lombardo, che prese spunto dal nome dell'attrice Märta Torén). 

L’amore con Carlo Ponti

Sophia Loren incontrò il produttore cinematografico Carlo Ponti per la prima volta nel 1950, a 16 anni. Qualche anno dopo tra i due sbocciò l’amore. All’epoca Ponti era ancora sposato (dal 1946) con Giuliana Fiastri, dalla quale aveva avuto due figli. Nel 1956 il produttore si recò in Messico, per ottenere il divorzio, e il 17 settembre 1957 sposò Sophia Loren per procura.

Poi, dopo il matrimonio, non rientrò in Italia per evitare l'accusa di bigamia (in Italia all’epoca il divorzio non era consentito). Quando nel 1960 Ponti e Loren fecero ritorno nel nostro Paese i due negarono di essersi sposati. Soltanto nel 1962 il produttore ottenne l’annullamento delle sue nozze precedenti. 

Ottenuto il divorzio nel 1965 in Francia il 9 aprile 1966 finalmente la coppia potè convolare a nozze. Carlo Ponti e Sophia Loren sono stati sposati fino alla morte di lui, avvenuta il 9 gennaio 2007. Hanno avuto due figli: Carlo Jr. (nato a Ginevra nel 1968 e cresciuto negli Stati Uniti, oggi direttore d'orchestra) ed Edoardo (nato a Ginevra nel 1973, oggi regista, sceneggiatore e produttore cinematografico). 

L’arresto nel 1982

«Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Così commentava nel 2013 Sophia Loren ricordando il suo clamoroso arresto nel 1982: per la sua dichiarazione dei redditi del 1974 (presentata con il marito Carlo Ponti) l’attrice finì 17 giorni nel carcere di Caserta, accusata di evasione fiscale. L’attrice in seguito presentò ricorso e nel 2013 la Corte di Cassazione le diede ragione: non sarebbe dovuta andare in carcere

Talento patria e sacrificio: così Sophia Loren ha scritto la storia. È una delle pochissime attrici in Italia a essere diventata una star internazionale: un'italiana verace che risveglia l’orgoglio patriottico. Massimo Balsamo su Il Giornale l’11 Gennaio 2023

Due premi Oscar (uno onorario), un Leone d’oro, cinque Golden Globe, una Coppa Volpi. E ancora: un Prix a Cannes, un Orso d’oro alla Carriera alla Berlinale, un Grammy Award. Infine la stella sulla Walk of Fame. Ha fatto parecchia strada Sophia Loren, dalla fanciullezza tra i bombardamenti della Seconda guerra mondiale alla conquista di Hollywood. Dalle difficoltà economiche e la fame al successo internazionale. Da comparsa alla prima fila. In altre parole un’icona.

Un cammino tortuoso

Niente è stato facile per Sophia Loren, o meglio Sofia Costanza Brigida Villani Scicolone prima del successo. Oggi l’attrice rappresenta il cinema, ma gli ostacoli da superare sono stati tanti. L’infanzia non è stata clemente. Lei, priva di padre, taciturna e introversa tra mille impedimenti, alle prese con delicate esperienze familiari e scolastiche. Una bimba magra, presa in giro per la sua macilenza con soprannomi come “Sofia Stuzzicadenti” e “Stecchino”.

Il suo carattere si è forgiato con i disagi vissuti in tenera età. Ha vissuto un’epoca in cui si era poco bambini a causa della guerra e delle sue violenze. Sognare è stato fondamentale, l’immaginazione come via d’uscita dal dolore. Prima i concorsi di bellezza – nel 1950 venne eletta Miss Eleganza a Miss Italia - poi le prime esperienze tra fotoromanzi e pellicole cinematografiche come comparsa o comunque con ruoli marginali.

La svolta

La svolta per Sophia Loren risale al 1951, anno dell’incontro con il futuro marito Carlo Ponti in un locale di Colle Oppio. Il produttore aveva già alle spalle una serie di successi – basti pensare a “Piccolo mondo antico”, tratto dal romanzo di Fogazzaro, che lanciò Alida von Altenburger – e fu lui a spianare la strada alla giovane aspirante attrice. Bellezza, semplicità, portamento. Ma non solo. Sophia Loren è riuscita a entrare nell’Olimpo della settima arte grazie a uno straordinario cammino di conoscenza, di sacrificio. E via, dalle particine (“Tototarzan” e “Un giorno in pretura” tra gli altri) fino a “Due notti con Cleopatra” al fianco di Alberto Sordi.

Il legame con Vittorio De Sica

Sophia Loren ha collaborato con grandi registi e con grandi attori, ma uno dei legami più importanti fu quello con Vittorio De Sica. Da “L’oro di Napoli” a “Ieri, oggi, domani”, passando per “Matrimonio all’italiana”, fino all’indimenticabile “La ciociara”. Quest’ultimo un successo clamoroso: l’interpretazione le valse il Premio Oscar, la Palma d’oro al festival di Cannes, il Bafta, il David di Donatello e il Nastro d’argento.

Una performance eccezionale, frutto del rapporto quasi filiale instaurato con De Sica, tra i padri del neorealismo e autore di ammalianti commedie all’italiana. "Dal primo giorno De Sica divenne la mia scuola, il mio maestro, il mio mentore, il mio tutto", uno dei tanti omaggi della Loren. Fu lui a spingerla ad abbandonarsi al suo talento, a sfruttare pienamente le sue potenzialità, a tastare territori mai esplorati. Un rapporto di complicità totale, di sorriso dolce, di affidamento.

Sophia e Marcello

Un altro binomio di successo è stato quello che ha legato Sophia Loren a Marcello Mastroianni. Coniugi, amanti e così via: tanti i ruoli interpretati sul grande schermo. Un’unica ricorrenza: la rara alchimia, il feeling speciale. Come due bambini nel momento del gioco, una magia. “Ho girato con lui tante di quelle storie che posso dire che vent’anni della mia vita li ho trascorsi lavorando accanto a lui”, ha ricordato la Loren. Un rapporto speciale, senza mai sfociare nell’amore: un’amicizia particolare, unica.

Tra le sequenze indimenticabili, sicuramente la scena cult di “Ieri, oggi, domani” (Oscar al miglior film straniero nel 1965): lo spogliarello di Sophia Loren (nei panni della squillo Mara) sotto gli occhi del famelico Mastroianni (il bolognese Augusto) sulle note di “Abat-jour (Salomè)” di Henry Wright.

Icona eterna

Grandi interpretazioni, premi, applausi. Il percorso di Sophia Loren ha rappresentato non solo la realizzazione del sogno di diventare attrice, ma anche il compimento dell’utopia di diventare la più grande attrice. La sua è stata la storia di una ragazza come tante, che ha tentato la fortuna, riuscendo a raggiungere la vetta. Dopo il primo premio Oscar, l’America ha visto in lei l’eroina italiana. Non poteva essere altrimenti: Hollywood non aveva un’attrice come lei. Bella, sexy, esotica. Caratteristiche uniche all’epoca, Il suo trionfo risvegliò l’orgoglio patriottico e ancora oggi è ricordato come emblema della qualità del cinema nostrano.

Ma c’è un dettaglio che non può passare inosservato. La grande, grandissima personalità di Sophia Loren. Nei momenti difficili come in quelli felici, non ha mai tradito se stessa. Ha tenuto la barra dritta, sempre. Non si è rifatta il naso nonostante le bocciature ai primi casting, non ha seguito i trend dello star system, ha mantenuto la sua visione su trucco, acconciatura e vestiti, ha lottato per coniugare lavoro e famiglia.

E come dimenticare, ancora, l’enorme professionalità: dal primo all’ultimo film, si è sempre messa al servizio del regista. L'ultima apparizione risale al 2020, nel dimenticabile "La vita davanti a sé" del figlio Edoardo Ponti: anche a 86 anni ha dimostrato di dominare la macchina da presa meglio di tutti. Eterna.

Stanley Tucci: «Un grande attore non imita nessuno. È la versione migliore di se stesso». Il rischio di conflitto atomico, il potere delle multinazionali. Nella nuova serie “Citadel” Tucci interpreta uno 007 esperto di informatica. E sulle piattaforme di streaming: «Sono una svolta democratica: offrono uno spazio alla diversità». Claudia Catalli su L'Espresso Sera il 30 Maggio 2023

«Per diventare un grande attore non bisogna mai imitare nessuno, solo essere la versione migliore di se stessi: è l’unico modo per avere una lunga carriera». Se lo dice Stanley Tucci c’è da credergli, quarant’anni di carriera non hanno mai incrinato l’attenzione e la stima del pubblico nei suoi confronti. Attore, regista, scrittore ed esperto di arte culinaria, oltre ad aver condiviso la sua passione per il cibo e la cucina italiana prima con il documentario “Searching for Italy”, poi con il libro “Ci vuole gusto. La mia vita attraverso il cibo”, ha saputo infilare uno dopo l’altro una serie di ruoli di rilievo.

Alla performance da Oscar nei panni del maniaco stupratore e assassino di “Amabili Resti” e a quella memorabile del modaiolo braccio destro di Meryl Streep di “Il diavolo veste Prada” hanno fatto seguito il convincente ruolo di avvocato delle vittime di abusi sessuali de “Il caso Spotlight” e il commovente scrittore malato di Alzheimer di “Supernova”. Ora Tucci è pronto a mostrare in oltre duecento Paesi il suo nuovo personaggio, Bernard Orlick, superspia esperta di informatica nella nuova serie “Citadel”, disponibile su Prime Video. Una storia sul mondo dello spionaggio costata quasi 300 milioni di dollari, firmata dai fratelli Russo del Marvel Cinematic Universe. 

Mr. Tucci, chi è il suo Bernard?

«Tre personaggi in uno: è il supervisore che gestisce gli agenti speciali, è un agente speciale lui stesso ed è anche un super esperto di informatica e tecnologia. In genere queste tre figure sono distinte nei tradizionali film di spionaggio, il bello di questa serie è aver sparigliato le carte fino a risultare spiazzante: guardandola non saprete mai bene chi è chi, o perché faccia certe cose».

Si è divertito a fare una sorta di James Bond?

«Bond mi è sempre piaciuto e mi sarebbe anche piaciuto interpretarlo, non lo nego. In generale mi divertono i film di spionaggio anche da spettatore, così ricchi di azione e suspense, li guardo spesso anche con i miei figli (cinque: Isabel Concetta, Matteo Oliver, Nicolo Robert, Camilla e Emilia Giovanna, ndr)».

Si mangiava bene sul set?

«Insomma».

Allora la serie deve essere stata proprio scritta bene per averla convinta.

«Lo è, ho accettato proprio per la complessità della sceneggiatura e il fatto che i personaggi fossero pluridimensionali e lontani da ogni rischio caricaturale. Ennesima dimostrazione che il mondo dell’intrattenimento sta cambiando in meglio».

In meglio, dice?

«Certo, lo streaming ha consentito di ampliare orizzonti e possibilità, dando uno spazio sempre maggiore alla diversità».

Con “maggiore” intende “più di quanto fatto finora”?

«Intendo più di sempre, lo streaming è una svolta storica: consente a molte più persone di realizzare film e farli vedere ovunque nel mondo, oppure di interpretarli e farsi vedere. Faccio un esempio pratico: quando si faceva un film fino a qualche tempo fa capitava di rado di vedere una donna protagonista, le poche volte che accadeva se il film non andava bene al botteghino dopo poco i progetti simili venivano accantonati e “ciao ciao”(lo dice in italiano, ndr), chissà quando se ne sarebbe riparlato».

Però, parla bene l’italiano.

«Non benissimo, ma l’amore che ho per il vostro Paese lo sento fin dentro le ossa, me l’ha trasmesso mio padre».

Dicevamo: erano pochi quelli che osavano scommettere sulle donne a Hollywood, oggi sono molti di più.

«Prima era visto come un rischio troppo grande, temevano di fallire scegliendo una donna per protagonista. Per fortuna oggi è diverso, lo streaming consente anche di tentare e ritentare: se qualcosa non funziona ci sono tempi, modi e possibilità per riprovare, e riprovare ancora».

Sta dicendo che lo streaming rappresenta un’apertura democratica a quelle che fino a poco tempo fa venivano considerate delle minoranze?

«Parlo per esperienza diretta. In America c’è sempre stato un grosso pregiudizio contro gli italoamericani o gli americani che come me avessero origini italiane. Fino a qualche tempo fa Hollywood ci proponeva solo ruoli da criminali e malavitosi, certi pregiudizi secolari sono duri da smontare, lo stesso è accaduto a Hollywood a tanti altri gruppi etnici. Oggi finalmente è tutto diverso: vedo sempre più donne, persone di colore e artisti provenienti da culture diverse trovare spazio per realizzare quello che da anni sognavano di fare. Siamo parte di un processo innovativo, sono cambiate più cose negli ultimi cinque anni che negli ultimi cento».

Non solo nel mondo dell’intrattenimento. Citadel è un’agenzia indipendente di spionaggio che mira a tutelare i cittadini di tutto il mondo, in un salto brutale alla vita reale pensa che le istituzioni oggi tendano a fare altrettanto?

«Stiamo assistendo a un momento di collusione tra le grandi multinazionali e i governi, il fine è sempre lo stesso, accumulare sempre più soldi e potere. Ne è esempio lampante quello che sta facendo la Russia, e non è neanche una novità. Se non erro fu Eisenhower che disse che bisognava stare molto attenti all’establishment dell’industria militare. Detto da lui, che non soltanto era presidente degli Stati Uniti ma anche un generale… Evidentemente sapeva ciò di cui parlava. Però oggi siamo andati veramente troppo oltre».

Nella serie si parla anche di minaccia atomica, nella realtà quanto crede sia verosimile?

«Viviamo un momento di grande conflitto, ne abbiamo parlato anche con i produttori della serie, in Ucraina viene combattuta una guerra per procura tra super potenze che dispongono di armi nucleari e i Fratelli Russo sostengono che siamo più vicini oggi a una guerra nucleare di quanto lo siamo mai stati negli ultimi decenni. Mi sento di concordare, anche se c’è da aver paura, viviamo tempi davvero spaventosi».

Che cosa si augura?

«La mia speranza è che alla fine prevalga il meglio, quel meglio che è dentro tutti quanti noi».

E che cosa si prepara per non pensarci?

«Una bella parmigiana di melanzane».

Stefania Orlando: «Facevo l’agente immobiliare. Frizzi mi metteva soggezione. Due divorzi? Sto bene single». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 18 Giugno 2023. 

La showgirl: «Ad Andrea Roncato vorrò sempre bene. A 16 anni ero timida, alta, magra e insicura. Giocavo a calcio con i maschi nel giardino condominiale, mi mettevano sempre in porta» 

Che ci andò a fare alla scuola di portamento per signorine?

«Mi ci iscrisse papà. Avevo sedici anni, ero timidissima, magrissima e altissima rispetto alle mie compagne di classe. Insicura perché mi sentivo diversa, camminavo tutta ingobbita per sembrare più bassa. E giocavo a calcio con i maschi nel giardino condominiale, mi mettevano sempre in porta. Al corso cercarono di insegnarmi ad essere più femminile. E finalmente trovai tante altre “stampellone” come me».

Soldi ben spesi, visto com’è andata. Da lì, con il suo nuovo aggraziato passo da modella, ha imboccato subito la via dello spettacolo?

«No, a 18 sono andata a vivere da sola. Per sei anni ho fatto l’agente immobiliare. Un giorno ho venduto casa a un signore che lavorava all’ufficio casting della Fininvest, allora Mediaset si chiamava così. Mi convinse a fare un provino per la Corrida di Corrado».

E fu presa?

«Per quello no. Alla fine confermarono Antonella Elia. Però fui scelta come valletta di Sì o no, un programma di mezzogiorno con Claudio Lippi di cui Corrado era autore. Mi presentai con il mio tailleurino tra centinaia di bellissime ragazze. Lui mi chiese: “Che ci fai qui? Hai un lavoro serio, tienitelo stretto».

Come dargli torto.

«E io: “Ha ragione, grazie, allora vado”. Ma il pomeriggio mi arrivò la telefonata di una segretaria: “Torni qui per le misure dei costumi”. “Ma sono stata scartata”. “E’ lei Stefania Orlando?”. “Sì”. “E allora l’abbiamo presa”».

Il miglior consiglio che le diede Corrado?

«Quando il regista Stefano Vicario, a fine programma, faceva dei primi piani su di me, per l’imbarazzo invece di sorridere mi venivano delle smorfie. Corrado mi disse: «Il sorriso arriva dagli occhi, non dalla bocca”. Sacrosanto».

Valletta di Fabrizio Frizzi a “Scommettiamo che...?” nel 1994.

«All’inizio avevo un certo timore reverenziale per lui, poi dieci anni dopo abbiamo condotto insieme Piazza Italia su Raidue. Persona straordinaria. Ogni giorno mi chiedeva: “Come stai?” e gli importava davvero. Per uno speciale su Sanremo mi portò a prendere lezioni di canto dal suo maestro di musica e le pagò lui».

L’altra valletta era Adriana Volpe. Amiche, nemiche o finte amiche?

«Amiche vere, pure oggi. Anche se da giovani si vive una sorta di competizione immotivata. Io però ero sempre convinta che fossero tutte più belle e brave di me».

Nella lunga guerra Volpe contro Giancarlo Magalli, lei con chi sta?

«A momenti ha avuto ragione Adriana, a momenti Giancarlo, con cui, voglio ribadirlo, io non ho mai avuto nessun problema, anzi. Ho sempre amato la sua ironia pungente, era un numero 1 e lo è ancora. Forse con lei ha esagerato con certe frasi. Mi dispiace che non siano mai riusciti a risolvere la situazione».

Magalli disse che anche lei è stata “vittima” di Adriana.

«Non ho mai capito che volesse dire, non mi sento vittima né di Adriana né di nessun altro».

E aggiunse che «Stefania è brava, mi dispiace vederla fare le pubblicità dci materassi».

«Sono testimonial da vent’anni della stessa ditta, per me sono quasi famiglia. Un lavoro dignitosissimo, non devo difenderlo e non mi sento affatto sminuita».

La figuraccia della sua carriera.

«Ce ne sono tante. La prima che mi viene in mente è quella durante il gioco del camioncino a I fatti vostri. Un telespettatore al telefono doveva scegliere una busta con un premio misterioso in denaro. Disse di essere un non vedente, ma io non sentii. E gli offrii un televisore in cambio dei soldi. «Non lo voglio, non mi interessa”. E io imperterrita: “Ma come? Una bella tv a colori!”. “Come le ho detto, sono cieco”. Oddio che mortificazione. L’unica mia scusante è che a volte l’audio è migliore da casa che in studio».

Incidenti durante i balletti?

«Balletti? E quali? Posso fare tutto nella vita ma non ballare. Sono un pezzo di legno, un tronco, completamente scoordinata. Per questo vorrei fare un appello a Milly Carlucci: “Ti prego, prendimi a Ballando con le Stelle, magari finalmente imparo qualcosa, mi sciolgo. E voi intanto vi fate un sacco di risate”. No davvero, io e la danza siamo due entità separate».

Cosa hai messo nel frappè?/Sono già pazza di te/Sento prendermi la scossa/non farò la prima mossa (“Frappè”, 2012), rime sue.

«Non scrivo canzoni per guadagnare, solo per mettere in musica dei pensieri. Tutti scrivono libri, io almeno questo ve l’ho evitato».

La canzone della vita?

«La favola mia di Renato Zero. Lo amo. Sono una sorcina da sempre. Ci conosciamo da tanto, lui è carinissimo. Ma quando ci parlo mi agito, torno la bambina timida che ero, mi cambia addirittura il tono della voce».

Del GfVip 2020 quanti amici sono rimasti?

«Anche se ci vediamo poco, su tutti Tommaso Zorzi, Elisabetta Gregoraci e Giulia Salemi».

Diario sentimentale. Nel 1997 ha sposato Andrea Roncato. Dopo due anni è finita. Cosa vuole ricordare e cosa è meglio dimenticare?

«Non mi piace dimenticare, ogni esperienza serve per crescere. Di Andrea conservo comunque un bel ricordo, mi ha insegnato molto, professionalmente, nel modo generoso e familiare di approcciarsi al pubblico. Poi nella vita le cose si trasformano, però gli vorrò sempre bene».

Roncato, parlando di lei, ci ha detto: «La signora se n’è andata, capita. Aveva un altro, Paolo Macedonio, punto. Ci sono rimasto male sì, ma nemmeno più di tanto».

«Sono cose anacronistiche che non interessano più a nessuno».

Altro matrimonio nel 2019, con Simone Gianlorenzi. E altro divorzio, nel 2022».

«Ci siamo sposati dopo 12 anni di fidanzamento e lo siamo rimasti per 3. É stato un grande amore. Purtroppo anche i grandi amori finiscono. E, come canta Ornella Vanoni “bisogna imparare ad amarsi in questa vita/bisogna imparare a lasciarsi quando è finita”, quando il sentimento si trasforma».

Da che se n’è accorta?

«Non si può spiegare, è difficile, bisogna trovarcisi e viverlo, per capire. Però sono contenta che siamo riusciti a chiudere con armonia, dignità e affetto, senza livori, senza rancori».

Una bella botta lo stesso.

«All’inizio ti senti persa e smarrita, poi assapori un gusto nuovo. Cerchi di trovare il bello nel brutto. Cominci a vivere non più in condivisione, senza il noi davanti, ma solo l’io. Hai una pagina nuova tutta da scrivere».

Non pare mica tanto afflitta.

«Ma sa che c’è? Che la mia nuova vita da single mi piace. Del resto non ho mai avuto paura della solitudine, anzi, anche in coppia ho bisogno di prendermi i miei spazi e i miei tempi. La verità è che se da piccole non ci intortassero con la favola del fantomatico principe azzurro che corre a salvarci sul cavallo bianco, noi donne scopriremmo subito che possiamo salvarci da sole e che siamo complete anche così».

L’amore è stato come se lo immaginava da ragazzina?

«Mah, amore è un concetto personale, anche l’amicizia a suo modo lo è, anche l’affetto per gli animali è molto appagante. L’amore può darti forza o indebolirti, è un’incognita. Al momento non ci penso e non lo cerco, poi magari arriva».

Quale categoria di uomini è felice di non aver incontrato?

«Il narcisista patologico, sono stata fortunata. Quello che ti fa sentire sbagliata, inutile. Chi ti ama invece deve farti sentire una regina, più forte e più bella. Come quando ti alzi al mattino con il sorriso e non sai nemmeno tu perché».

Cosa ha imparato negli anni?

«Che è inutile passare ore ed ore ad aspettare una telefonata che non arriva. Se un uomo ti vuole, ti cerca. Se non lo fa, allora, come insegna il libro/film: “La verità è che non gli piaci abbastanza”. Ed è proprio così».

E lei com’è stata, sempre perfetta?

«Magari tante volte sono stata str...a anche io, senza accorgermene».

Ha mai tradito?

«Sì, quando ero più piccola, ti piaceva un altro e ti ci mettevi. Ma da adulta sono monogama. E comunque se tradisci è perché con quella persona non ci stai più bene».

La mitica chihuahua Margot, dopo la separazione da Simone, con chi è rimasta?

«Con me, ovvio. Era già mia da prima. Purtroppo è morta due settimane fa, stretta tra le mie braccia. Eravamo inseparabili, non la dimenticherò mai. A luglio avrebbe compiuto 19 anni».

La migliore amica tra le colleghe varie?

«Da qualche anno ho un legame stretto con Anna Pettinelli, donna determinata, indipendente, forte. E poi Milena Miconi, Matilde Brandi, Manila Nazzaro. Ci vediamo per cene e aperitivi, ci sosteniamo, c’è grande sintonia».

Oltre a Rita Dalla Chiesa.

«La stimo da sempre, quando ho bisogno di un consiglio chiedo a lei. Ci siamo conosciute nel 1997 a I fatti vostri. Al mio matrimonio con Simone ha eseguito il rito della sabbia».

E in che consiste?

«Era una cerimonia civile, sulla spiaggia. Ci sono due ampolle di sabbia di colori diversi che vengono versate in una terza, mescolandosi. Simboleggiano l’indissolubilità».

Qualcosa non deve aver funzionato.

(Ride). «Beh, però è stato emozionante».

La bellezza come l’ha vissuta?

«Non mi sono mai sentita bella, sono rimasta insicura, oggi mi accetto molto di più, non sono una che perde troppo tempo con massaggi e trattamenti, mi limito all’Abc. Il tempo è democratico, passa per tutti. Se ho l’ansia? Ni. Inoltre quando non hai un uomo accanto è più facile, non ti stressi a pensare se guarda le altre e se sono più giovani».

Stefania Rocca: «Insegniamo ai nostri figli maschi che il tempo della caccia è finito». Stefania Rocca è a teatro con Chicago e sul set di Vita da Carlo. E a primavera torna sul palco con La madre di Eva di cui è regista. «Ho sempre scelto ruoli che raccontavano una minoranza» dice. Per una questione di giustizia. Che intende passare ai suoi figli. MICHAELA K. BELLISARIO su IoDonna.it sabato 2 dicembre 2023.

Stefania Rocca se ne accorge nel momento stesso in cui pronuncia la frase. Si illumina e, forse, in quel momento si sintetizza tutta l’intervista. Stiamo parlando di cultura patriarcale, di Chicago, il musical di cui è assoluta protagonista con Chiara Noschese (che è anche regista) dove balla, canta e recita, del film della sua amica Paola Cortellesi C’è ancora domani («Un lavoro importante che, attraverso una storia di ieri, racconta l’oggi») e della propensione all’essere multitasking.

Lei, in particolare, ha due figli adolescenti da seguire insieme alla sua carriera di attrice e regista. «Faccio avanti e indietro con Milano» confessa praticamente con il trolley in mano in partenza per Roma. «I ragazzi sono abbastanza indipendenti ormai e poi mi aiuta Carlo (il marito, l’imprenditore Carlo Capasa, presidente della Camera nazionale della moda, ndr )».

A quel punto Stefania Rocca si blocca per un secondo. E mi fissa seria con i suoi occhi azzurri. «Ho detto “mi aiuta” quando lui in realtà fa solo quello che ogni padre dovrebbe fare. Nel senso che ci dividiamo i compiti in funzione dei nostri impegni, non è che “mi aiuta”. Anche noi donne sbagliamo con le parole. Siamo talmente dentro a questo codice culturale che ripetiamo certe frasi senza rendercene conto».

È un momento di grande impegno per Stefania Rocca

È un momento di grande impegno professionale per l’attrice torinese. Oltre alla tournée in corso di Chicago (musical che ha superato Mamma mia! ed è ora a Roma al teatro Brancaccio fino al 10 dicembre), sta lavorando alla nuova serie di Vita da Carlo con Carlo Verdone (la seconda stagione è in corso dall’8 settembre su Paramount Plus).

Nell’aprile 2024 tornerà, invece, in palcoscenico prima a Trieste, poi a Milano e Roma, come regista, per La madre di Eva tratto dal libro di Silvia Ferreri, finalista al Premio Strega 2018, incentrato sul percorso di transizione di un ragazzo nato in un corpo femminile.

In effetti, Chicago e La madre di Eva sono opere che mettono al centro la donna.

Con distinguo fondamentali, però. Mentre nel musical si gioca sul rovesciamento dei ruoli, con le donne nel ruolo di carnefice contro la supremazia maschile – e dove è l’uomo a essere braccato per una volta – nella pièce teatrale si fa leva su credenze, pregiudizi e paure che non fanno comunicare la madre con la figlia Eva. Perché, poi, siamo sempre lì: la madre deve essere perfetta, come vuole la nostra società patriarcale. Resta chiusa nel suo ruolo e fatica ad aprire il cuore, l’unica cosa che poi conta davvero.

Perché è rimasta colpita dal libro?

Volevo approfondire, capire se avevo veramente tutti gli strumenti prima di esprimere una mia opinione. Volevo esplorare una serie di temi legati ai diritti, all’inclusione e a quella capacità di vedere una persona indipendentemente da sesso, ceto sociale, religione o colore della pelle. E portare a galla quei pregiudizi che derivano da una certa educazione che non guarda alle persone, ma le incasella in ruoli predefiniti.

Volevo approfondire il percorso di chi deve imparare a riconoscere se stesso, essere riconosciuto, ma anche il conflitto ge nerazionale tra madre e figlio. Volevo provare una strada per risolvere quel gap. Tra le altre cose credo che questo abbattimento di certi confini sia iniziato con la generazione delle nostre madri, che ha lottato per il diritto all’aborto, al divorzio, questa è una semplice evoluzione.

Stefania Rocca: «Chicago è attuale»

In Chicago ci sono, invece, tutti i temi femminili. A cominciare dal #MeToo. Perché un musical a questo punto della carriera?

Era incentrato sulle donne e avevo voglia di cimentarmi come performer stavolta. Chicago – se vogliamo guardarlo in prospettiva – è un po’ l’emblema di questo momento storico… ma un secolo prima. Racconta di come le donne negli anni Venti a un certo punto si ribellino contro la prepotenza maschile. Le due protagoniste uccidono i loro amanti e in carcere trovano la loro riscossa, grazie anche a un avvocato furbo che le porta alla ribalta sui giornali e ad allearsi.

In una società dove la giustizia è ormai un circo, uno show, anche l’omicidio può diventare una forma di intrattenimento e portare alla ribalta due assassine rendendole vere dive. Forse fa “sorridere”, era un secolo fa, eppure siamo ancora qua, in una società maschilista e divisiva dove i media possono osannare o distruggere a loro piacimento. Dove il titolo è più importante del contenuto e dove la vittima può diventare facilmente un carnefice e viceversa. Dove c’è una continua ricerca d’identità.

In questo momento, peraltro, i diritti Lgbtq+ sembrano più a rischio…

Proprio per questo bisogna parlare, discutere, aprirsi ancora di più.

L’altro giorno riflettevo sul fatto che, forse anche inconsciamente, ho sempre scelto ruoli che raccontavano una minoranza, persone che venivano escluse per un motivo o per l’altro. Penso alla serie tv Una grande famiglia. Il mio personaggio è quello che fa fatica a essere inserito nei soliti clichè, o a Resurrezione dei fratelli Taviani, o Edda Ciano e il comunista. Forse non è un caso.

Sono una ribelle nata. Lo sono sempre stata, lo sono ancora adesso e lo sarò.

Raccontare chi siamo e da dove veniamo è fondamentale ed è l’operazione culturale che ha fatto con il suo film Paola Cortellesi, in un’epoca storica in cui siamo più o meno tutti anestetizzati da ogni cosa.

Stefania Rocca in “Chicago”

Anche lei ha esordito alla regia come la Cortellesi e Kasia Smutniak (con il documentario Mur, ndr ). La vede come una casualità o un’esigenza femminile di questo tempo?

Stiamo tirando fuori la voce. Oggi noi siamo quella generazione di mezzo di donne, madri e lavoratrici, che sta ancora cercando di sdoganare tutta una serie di questioni rimaste aperte. A partire dai sensi di colpa creati da domande come “chi si occupa dei ragazzi quando non ci sei?”, “perché lavori così tanto?”…

L’emancipazione femminile, sia a livello sociale che normativo, ha mascherato discriminazioni di genere continuando ad alimentare pregiudizi e stereotipi che danneggiano la dignità individuale e sociale fino ad arrivare a forme estreme di aggressione. La violenza è una violazione dei diritti umani.

Bisogna lavorare su credenze condivise e generalizzate, attorno ai ruoli differenti che spetterebbero a uomini o donne nella vita di tutti i giorni e che portano a confondere la dimensione biologica (sesso) con quella sociale (genere).

«Con i miei figli parlo di femminicidi»

Parla ai suoi figli della violenza di genere, mai così attuale?

Moltissimo. Mi interrogo anche sulle amiche e compagne di classe. Di recente sui social ho visto delle interviste in cui si chiedeva a una serie di adolescenti se avrebbero “concesso” alle loro fidanzatine di andare in discoteca. Ho fatto vedere le risposte ai miei figli (Leone Ariele, nato nel 2007, e Zeno, nato nel 2009, ndr).

A un certo punto un sedicenne dice: “Se lei mi chiede il permesso, forse sì”. Perché alcune ragazze giustificano certi comportamenti? Credo sia importante cambiare questo atteggiamento, passato di generazione in generazione, che rende normali condotte inaccettabili. Forse non serve solo parlarne in famiglia, è proprio una questione culturale. Come madre quali soluzioni vede? Intanto insegniamo ai nostri figli maschi che il tempo della caccia è finito, nelle scuole e in famiglia. E basta con l’idea che i nostri ragazzi siano perfetti e abbiano sempre ragione.

La culla di bambagia in cui li avvolgiamo non consente loro di affrontare in maniera corretta i rifiuti o i fallimenti. O di fare in autonomia le proprie scelte. E poi bisognerebbe prestare più attenzione alle parole, alla nostra storia, riflettere su certi comportamenti. Facciamo in modo che una ragazza, una donna, anche quella più timida o insicura, anche quella caratterialmente più fragile e indifesa, non debba vivere nella paura costante o peggio nella vergogna di non essersi saputa opporre a una situazione non gradita. Non è giusto chiedersi preventivamente se ci sia un rischio nell’accettare un invito a cena o a ballare o a bere un drink in compagnia di un gruppo di amici. Non bisognerebbe dover evitare un bicchiere di vino per paura di essere drogate e molestate. O pensare che essere ubriache possa equivalere a essere consenzienti.

Parliamo ora di amore vero, dell’amore con… Carlo Verdone in Vita da Carlo. Cosa ci può anticipare?

Ci saranno situazioni divertenti. Il mio personaggio si evolve e molte situazioni si rovesciano.

Non sarò più solo la donna che cerca di far divertire Carlo, succederà qualcosa di inaspettato nell’evoluzione del mio carattere e del rapporto con lui. In questa serie poi Sofia, il mio personaggio, passa molto tempo con Sandra, l’ex moglie.

Solidarietà femminile? Chissà! Dico solo che mi diverte moltissimo lavorare con Monica Guerritore.

Un’attrice che ho sempre ammirato, da quando ho iniziato a muovere i primi passi nello spettacolo.

Tornando alla domanda iniziale: come gestisce il tempo tra figli, marito e carriera?

Con disponibilità e confronto. E poi il tempo non esiste, è un codice dettato dall’uomo per regolarsi.

La mia giornata viene scandita dal giorno e dalla notte. Di sera lavoro in teatro e al mattino con Carlo Verdone.

Quando sono libera torno felice dai miei ragazzi, cercando di non essere la classica madre chioccia. E poi loro sanno che ci sono sempre. iO Donna

Stefania Rocca: «Sono la madre di Eva, voglio abbattere il muro del pregiudizio». L’Actors Studio, i primi passi con “Nirvana” di Gabriele Salvatores. Il teatro, la tv, e ora di nuovo a Milano con uno spettacolo che mette in scena un dialogo tra una donna e il figlio che affronta un percorso di transizione. “Affronto le tematiche transgender, nuove per il teatro italiano”. Francesca De Sanctis su L’espresso 13 Febbraio 2023.

Sono trascorsi già 25 anni da quando Stefania Rocca interpretò per il cinema Naima, la ragazza dai capelli blu di “Nirvana”, il film di Gabriele Salvatores. Da allora, se c'è una cosa che non è mai cambiata è la sua instancabile curiosità, che l'ha portata ad interpretare ruoli diversissimi sul grande schermo, ma anche in teatro e in tv, e perfino a recitare in lingua inglese e francese (da “Mary” e “Go Go Tales” di Abel Ferrara a “Le Candidate” di Niels Arestrup), ma anche in tedesco (“Stauffenberg” di Jo Baier). «È vero – dice – sono sempre stata molto curiosa e aperta al mondo. Sarà per questo che passo dal teatro al cinema e poi di nuovo al teatro, e alla televisione, al canto e poi ancora al cinema. Mi piace mescolare, contaminare la vita, cambiare prospettiva». Ne parliamo con lei.

Rocca, partiamo da un progetto che le sta molto a cuore: “La madre di Eva”, spettacolo teatrale di cui curerà anche adattamento e regia, pronto a debuttare il 28 febbraio al Teatro Lirico Giorgio Gaber di Milano (repliche 1 e 2 marzo, con Bryan Celotto e Simon Sisti Ajmone ). Cosa racconterà?

«“La madre di Eva” è uno spettacolo tratto da un libro di Silvia Ferreri, una lettura che mi ha molto colpita (“La madre di Eva”, Neo, 2017). È la storia di una madre che, in un monologo senza risposte, parla a colei che considera una figlia tra le mura di una clinica di Belgrado, mentre al di là di una porta Alessandro sta intraprendendo un percorso di transizione. Ho adattato il testo trasformandolo in un dialogo fra madre e figlio che si scontrano sul terreno affettivo mettendo a confronto due generazioni. Alessandro vuole diventare semplicemente ciò che è, ma è in contrasto con la madre. Essere genitori non è un mestiere facile, ma neanche essere figli lo è. Cerco di raccontare tutto questo in uno spettacolo multimediale, che mescola arte visiva, cinema, teatro, in cui affronto le tematiche transgender, nuove per il teatro italiano».

I temi della “diversity”, dell'uguaglianza di genere alle diversità etniche, le sono sempre state a cuore. Pensa che se ne parli poco?

«Sono sempre stata molto sensibile al tema delle discriminazioni e al rispetto della libertà. I soprusi mi fanno paura e vanno combattuti. Nel mio lavoro i personaggi che mi hanno attratto di più sono sempre stati quelli che, racchiusi nella solitudine, raccontavano la loro diversità e tutto quello che ne consegue. Mi viene in mente Emilia ne “La bestia nel cuore” (Cristina Comencini), cieca e lesbica, o anche Naima in “Nirvana” (Gabriele Salvatores), senza memoria e senza strumenti per socializzare. Nello spettacolo che ho diretto anni fa, “Preghiera in mare”, esploravo la fatica fisica ed emotiva di uno straniero in viaggio. Oggi mi chiedo, attraverso “La madre di Eva”, cosa vuol dire desiderare tanto un figlio o abortire o decidere di rinunciare per sempre a diventare madre? Si può decidere? Cercherò delle risposte insieme al pubblico per abbattere il muro di egoismo, ottusità, pregiudizio».

Crede che con l'attuale governo siano più a rischio i diritti delle donne (penso all'aborto) o della comunità Lgbt?

«Io spero che non vengano toccati diritti acquisiti. Su molte questioni siamo già indietro. È proprio questa preoccupazione che mi fa tirare fuori le unghie. Penso che il nostro compito – parlo degli artisti, del mondo della cultura - sia quello di affrontare anche tematiche controverse e scottanti, per una maggiore consapevolezza e sensibilizzazione verso le differenze che ci circondano».

Ma la passione per la recitazione come è nata?

«Dalla voglia di comunicare, di scoprire nuovi mondi, nuove emozioni. Dalla voglia di rimanere libera, come da bambina, di trasformarmi in uno, nessuno, centomila. Ovviamente da bambini si dicono tante cose e anche io ogni anno lanciavo l’idea di una professione diversa. Ma dopo essermi immaginata negli anni in ruoli differenti ho capito che volevo e cercavo fantasia, mi piaceva proiettarmi in mondi irreali e in realtà diverse dalla mia».

Scavando nella sua memoria, c'è un momento particolare in cui ha deciso di intraprendere questa strada?

«Facevo teatro a scuola, ma siccome avevo chiacchierato troppo con la mia compagna di banco fui messa in castigo e per punizione non mi fu permesso di recitare nel saggio finale. E così il desiderio di salire su quel palcoscenico è diventato sempre più forte. Naturalmente mio padre non voleva che io diventassi attrice. Ma non potevo non tentare. Ho provato a rifugiarmi nei libri, a fantasticare, ma avevo bisogno di fisicità. Per questo alla fine ho deciso: io ci provo!».

Lei ha recitato anche in “Inside Out” di Rob Tregenza, prodotto da Jean Luc-Godard. Che ricordo ha di lui?

«Che uomo, che artista! Stavo facendo l’Actor Studio a New York e mi presero per un film girato da Rob Tregenza e prodotto da Jean Luc-Godard, “Inside /out”, un film muto. Dopo due settimane senza parlare sul set, eravamo otto attori chiusi dentro una casa nel Maryland, lontano da tutti e con 50 centimetri di neve, gli chiedemmo di poter aggiungere qualche frase. Lui restò in silenzio. Il giorno dopo ci disse che “per vedere bisogna guardare le cose, non dirle”. Poi, dopo la nostra insistenza, ci consentì di scrivere un piccolo monologo per il nostro personaggio, pensare dove e come avremmo voluto farlo. Così ognuno di noi girò il suo monologo, ma nel film non ce n'era uno! La cena di fine film fu un altro film. Nessuno di noi parlava per la tristezza di aver finito quella esperienza meravigliosa e lui a capotavola ci guardava con il suo tipico sguardo di chi guarda ma già conosce. Un grande».

Come sceglie le storie da interpretare?

«Sempre in maniera molto istintiva, senza strategia. Mi piace molto raccontare le donne dai colori diversi: romantiche e sognatrici come Laura nella serie tv “Tutti pazzi per amore”, anticonformiste come Edda Ciano in “Edda Ciano e il comunista”, unpolitically correct, spietate, ciniche come Katia Bellini in “Sono tornato” o Agnès in “L’envahisseur” di Nicolas Provost».

A proposito di belle storie ha recitato anche nel film di Franco Nero, “L'uomo che disegnò Dio”, dal 2 marzo nelle sale, al fianco di Kevin Spacey e Faye Dunaway. Con loro come è andata?

«Direi benissimo. Intorno a me avevo grandi attori. Ho passato cene ad ascoltare i loro racconti di esperienze vissute. Ho una lista di libri e film da rivedere, ora con occhi diversi, potendo collegarli ai vari aneddoti. Il film poi è molto delicato. La vicenda di Emanuele, il protagonista, si ispira ad una storia vera accaduta a Torino. Emanuele è un non vedente che ha un talento: disegnare i volti delle persone sentendo le loro voci».

Mattia Pagliarulo per Dagospia il 17 giugno 2023.

Peli sulla lingua? Zero. Silvia Rocca, classe 1968, è un’ex modella e dj italiana. Sorella della famosa attrice Stefania e dell’immobiliarista Francesca, raggiunge l’apice del successo nel 2003, quando conduce su Antenna 3 Spicy Tg, a cui seguono diverse ospitate in programmi tv targati Mediaset e nel reality La Fattoria. Ora, dall’Australia, torna a parlare di sé, della politica e della sua famiglia. E non ce n’è per nessuno. 

D: Hai iniziato a sfilare giovanissima, tra Milano, Parigi e New York per i brand più importanti: Armani, Versace, Ferrè, Rocco Barocco. Com’è iniziata la tua carriera di modella e che ricordi hai?

R: La mia carriera è iniziata facendo la modella a piccoli concorsi di provincia e per piccoli brand, poi camminando per strada, un certo Bevilacqua, titolare di un’agenzia di Firenze mi ha adocchiato e mi ha chiesto se volevo fare Miss Italia. Ho vinto le prime selezioni e poi ho partecipato a The Look of the Year, concorso di moda e bellezza internazionale, e sono arrivata prima. Grazie a questo titolo sono stata notata da Versace, che mi ha ingaggiato per una sua sfilata, poi sono susseguiti Krizia e molti altri e da lì la mia carriera di modella è spiccata, calcando le passerelle più importanti del mondo per gli stilisti più prestigiosi. 

D: Oltre a ciò, non tutti sanno che hai una laurea in psicologia, che hai scritto dei libri e che hai frequentato la Accademy School, parlacene.

R: Mentre lavoravo come modella non sono mai stata con le mani in mano, ho sempre pensato a un piano B. Studiavo per diventare psicologa, a Padova, con indirizzo criminologia. In seguito, sempre all’interno del mio ambito di studi, ho scritto dei libri, dei thriller misti a sesso e avventura, sai i libri senza sesso e senza amore diventano un po’ noiosi. 

D: Poi il successo. Nel 2003 tutti hanno parlato di te per il programma Spicy Tg, in onda su Antenna 3, in cui tu completamente nuda intervistavi personaggi di spicco di politica e attualità. A chi è venuta questa geniale idea?

R: La geniale idea è venuta a me, poi Vittorio Feltri mi ha aiutato a svilupparla. Peccato aver guadagnato solo uno stipendio da questo progetto, se vendevo le royalty avrei guadagnato decisamente di più. E così ho ideato e condotto questo Tg piccante completamente nuda. Tutti i telespettatori mi hanno vista come mamma mi ha fatta. 

D: Hai posato anche per dei calendari senza veli e hai fatto vari tour in Italia e non solo

come topless deejay. Rifaresti queste esperienze oggi?

R: Adesso come adesso no, potrei rischiare di fare il bottom out, anche se devo dire che il fisico regge bene, specialmente il lato B… è sempre stato il mio punto forte, da vera sportiva! 

D: Da un po’ di anni vivi ad Adelaide, in Australia, dove ti sei sposata, separata e hai avuto una figlia di nome Jade. Da quanti anni sei lì e che lavoro fai?

R: Abito qui da sette, otto anni. Vorrei tornare in Italia ma sono bloccata perché il mio ex non firma il passaporto per la mia bambina, ho provato di tutto ma non è facile. Ho fatto la deejay, ho lavorato con dei bambini disabili insegnando loro a parlare e a muoversi, e per fare ciò ho studiato anche la lingua dei segni. 

D: A distanza di 20 anni esatti, te la sentiresti di riproporre una nuova edizione di Spicy Tg invece?

R: Bah, ti dico la verità… no, non lo rifarei più a meno che il compenso non sia alto, non ho più l’età per queste cose. 

D: Tempo fa hai dichiarato pubblicamente la tua antipatia per Matteo Renzi, aggiungendo che non gliela avresti mai data, sei ancora di questa idea?

R: Certo, Matteo Renzi non mi è mai piaciuto e continua a non piacermi. 

D: Come vedi la politica in Italia e che differenza c’è tra quella italiana e quella australiana secondo te?

R: La differenza è enorme. L’Australia è molto rigida, ma i soldi che si spendono nelle tasse si vedono. In Italia i soldi che spendi nelle tasse non si vedono, infatti i risultati sono quelli che vediamo. In Australia non accadrebbe mai ciò che è successo in Emilia Romagna, e neppure cadono i ponti.

Io sono di destra e ho sempre detto di esserlo, anche quando non andava di moda dirlo. Mi piace molto Giorgia Meloni perché è una che mette in riga tutti, e l’ho votata come italiana all’estero. Le donne, in politica e non solo, hanno più capacità rispetto agli uomini. Gli uomini pensano con la terza gamba, le donne usano il cervello. In passato mi sono candidata con Forza Italia. 

D: Pensi di tornare un giorno a vivere in Italia e cercare di rientrare nel mondo dello spettacolo? Se sì, cosa ti piacerebbe fare?

R: Sì, lo spero. Una cosa che mi piacerebbe fare è il reality L’Isola dei Famosi, perché mi piace la spiaggia, il mare, la libertà, l’avventura. Oppure Pechino Express, il mio sogno sarebbe quello di gareggiare con mia figlia.

D: Non gareggeresti a Pechino Express con una delle tue due sorelle?

D: In passato hai avuto rapporti altalenanti con loro, parlo dell’attrice Stefania e l’immobiliarista Francesca. Oggi i vostri rapporti sono più sereni?

R: No grazie, non parteciperei con loro. Siccome sono in Australia, le mie sorelle mi hanno escluso da tutto, compresa la salute dei miei genitori e dove si trovano, pensa che non so se sono in casa loro, in una RSA, ospiti a casa di una delle mie sorelle, mi tengono all’oscuro di tutto. Ho dovuto richiedere le cartelle cliniche dei miei genitori tramite avvocato.

Ci sono anche dei movimenti anomali dal conto corrente di mio padre che sempre con il mio legale sto appurando, vedremo… vorrei tanto sapere perché fanno tutto di nascosto, sono sempre figlia anch’io e come tale ho la legittima. Dovrei scrivere un libro dal titolo Missing, alla ricerca dei genitori che mi hanno nascosto. 

Le mie sorelle dicono che sono una cogliona perché non mi prendo cura di loro, ma sanno benissimo che sono bloccata in Australia e che non è colpa mia. La mia unica colpa è stata quella sposare chi ho sposato, ma con questa scusa io sono la pecora nera. 

D: Tua sorella Stefania ha avuto molto successo nel mondo del cinema e nonostante tu abbia frequentato scuole di recitazione e abbia una preparazione solida non sei mai riuscita a sfondare. Come mai?

R: Perché non ho trovato quello che mi sfondava, che era importante (ride). Scherzo ovviamente. 

D: Intendi che non hai trovato nessuno disposto a investire su di te, che ti supportasse?

R: Non ho santi in paradiso, non ho appoggi politici e non sono raccomandata.

D: A chi senti di dire grazie, Silvia?

R: A mia madre, che mi ha dato la vita. In realtà grazie solo a me e a Dio

Estratto dell’articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” il 2 luglio 2023.

Con Stefania Sandrelli non esistono interviste. L’attrice ti spalanca le porte del suo mondo vivo […] 

Parlando di cinema le torna il sorriso?

«[…] È un peccato che i film fatichino così tanto, restino in sala un solo giorno… Le piattaforme per me sono una cosa nuova. In L’estate più calda interpreto un ruolo inedito, divertente, una signora che si occupa di dare da mangiare a dei lama, custodire e controllare ragazzi e ragazze che s’innamorano, sono in questa baraonda siciliana, un po’ ai margini. […] Era la mia prima piattaforma. Poi è arrivata la seconda, un ruolo più nutrito, con Christian De Sica, di cui non dico nulla».

E poi c’è “Partenope”, il film di Paolo Sorrentino. Quando vi siete conosciuti?

«Abbiamo girato una scena in Questione di cuore di Francesca Archibugi, c’erano anche Virzì, Luchetti e Verdone. Poi ci siamo incrociati a cena e conosciuti meglio.

In ognuno dei suoi bellissimi film ho trovato momenti magici. […] Ricordo che ero ospite per un premio in un albergo, sapevo che il giorno dopo in quella stanza ci sarebbe stato Harvey Keitel. 

Gli ho lasciato una lettera per dirgli che non lo avevo mai visto intenso e commovente come in Youth. Paolo è venuto a casa mia per parlarmi del ruolo, quello di una donna della mia età, qualcosa di speciale che mi commuove, specie nel lungo monologo. Mi ha mandato tre versioni del copione, divorate sempre più velocemente. Un film bellissimo, realisticamente surreale, che sposo in pieno».

Racconta la storia di una donna, nata nel 1950, intrecciata con quella di Napoli.

«Per ora nella città abbiamo girato solo le scene ambientate durante la festa per lo scudetto. Ho il terrore dei petardi, della folla, sono una fifona. Ricordo un set con Monicelli in Africa, mi rifiutai perfino di andare in un quartiere. Ma è stato bello vedere una città così piena di gioia. Ho sempre avuto una sensibilità napoletana, sono quelle le canzoni che ho nel cuore e canto ancora. E poi, sarò prosaica, ma le sfogliatelle? Tre volte ho giurato di portarle a casa ma c’erano chilometri di fila in pasticceria, alla stazione. […] Il film attraversa tante epoche, ci sono file di costumi pazzeschi. In uno degli uffici ho fatto l’audizione, Paolo mi ha detto “mi hai emozionato”. […]».

Che punto è?

«Penso tanto al mio cinema, che oggi sento moribondo. Ma anche a me stessa, a chi sono e a chi sono stata. Con Giovanni siamo legati, parliamo tanto. Gli ho detto: quando a volte urlo, strepito, combatto, anche con questo condominio — non è la mia natura e non voglio farlo più — è perché non sopporto che mi si manchi di rispetto. Dal lontano 1961, dal mio primo film, Divorzio all’italiana per cui son venuta a Roma a fare il provino, sono andata avanti come una donna sola, lo sono sempre stata. I film mi hanno formato, dato consapevolezza: ho capito che questo rispetto lo esigo da tutti perché me l’ha dato il cinema». 

È una donna sola che ha attraversato 60 anni di cinema.

«Quando è scoppiato il MeToo ho pensato che la mia vita parla da sola. Non sono mai scesa nelle piazze, ma la mia vita è quella di una donna femminista e anche di più. Anche quando mi sono denudata, l’ho sempre fatto per una causa, nella Chiave c’era un disegno di emancipazione della protagonista. Credo nella verità delle testimonianze, appoggio le donne che denunciano, avrei fatto lo stesso. Ma a me non è mai toccato. Nessuno mi ha mai mancato di rispetto […]  […]».

Accorsi. Le mie ansie. Storia di Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 30 gennaio 2023.

Le regole surreali, segrete, spesso ignote che governano il rapporto tra gli agenti di cinema e i loro clienti, attori e registi. Per fare gli agenti, bisogna essere dei disperati o amare disperatamente il cinema. Un mestiere senza regole né orari. Un corpo a corpo, un ring fatto di nevrosi, paure, manìe, ossessioni. Stefano Accorsi venerdì fa sé stesso in uno dei due ultimi episodi (nell’altro c’è Corrado Guzzanti) di Call My Agent, serie in onda su Sky (e Now) diretta da Luca Ribuoli e scritta da Lisa Nur Sultan.

Nell’episodio dice che può fare sia Romeo che Giulietta. Quanto le somiglia quello Stefano lì?

«Ero così fino a 10 anni fa, quando sono tornato in Italia dalla Francia. L’ho vissuta quell’ansia. Ero andato a Parigi perché a Roma mi proponevano 40 copioni insieme, avevo bisogno di un distacco, non ero più lucido. Mi rappresentava Dominique Besnehard, produttore della serie originale francese che si intitola Dieci percento (la percentuale degli agenti), e nell’episodio appare in un cameo. Tornai in Italia, al punto di partenza, mi mancava quell’adrenalina, il buon caffè, la famiglia… Zalone in Quo vado? descrive bene la semplicità della vita dopo che si era trasferito in Norvegia, una dimensione estranea».

Un treno su cui non è mai salito?

«È successo due volte con Marco Bellocchio, e mi è spiaciuto molto perché è un autore vero, un uomo curioso in costante ricerca: La balia, dove il ruolo non mi sembrava indispensabile e fu un mio errore di valutazione, e Buongiorno, notte, dove l’occasione si spense da sola».

Ha avuto progetti che si sono sovrapposti?

«Mi proposero nello stesso momento L’ultimo bacio di Gabriele Muccino e Le fate ignoranti di Ferzan Özpetek. Ero disperato, volevo farli entrambi. Pensavo di scegliere il ruolo più distante da me, per Ferzan, e volevo anche l’altro. Gabriele me ne disse di ogni. Facendo arrabbiare tutti, riuscii ad anticipare e posticipare i due progetti».

I suoi primi passi?

«L’esordio fu a 20 anni per Pupi Avati. Il mio book fotografico erano degli scatti al mare di quando facevo il bagnino. Ho avuto la mia gavetta. Venivo dalla piccola borghesia provincia emiliana, papà tipografo, mamma segretaria in una scuola pubblica. Il lavoro era quella cosa lì, venivo da una famiglia normale. Il cinema è stato un salto nel buio, non avevo nessun tipo di conoscenza. A Roma a 24 anni ho avuto le mie notti brave, ma non era quello che volevo, mi ha salvato il mio pratico istinto emiliano».

Cos’era il cinema per lei da adolescente?

«Era un modo per inventarmi film nella mia testa. Amavo Sergio Leone, i suoi western inventati in Spagna, e poi eroi e antieroi che lo sono loro malgrado. Se penso a un suo celebre film, il buono non è buono fino in fondo, il brutto è cattivo e il cattivo ha una sua sensibilità».

In «Call My Agent», gli agenti sono dei signorsì, non contraddicono mai il cliente, attore o regista. Ma in passato Giovanna Cau con Mastroianni poteva essere feroce, e così Carol Levi con i suoi.

«Ci sono quelli in balìa degli attori, io ho la fortuna di lavorare con Moira Mazzantini che ha grande esperienza e se ti dice non si può fare non si fa. Sono tante le componenti emotive, magari un attore non lavora, o subisce pressioni, o i progetti non si incastrano, o promette e non sa dire di no. Il messaggio di questa serie è di non prendersi troppo sul serio».

Quale altro episodio le è piaciuto?

«Il monologo di Paolo Sorrentino sull’inutile entusiasmo dei genitori per i figli a scuola è molto brillante».

Lei che padre è?

«Ho quattro figli, dai 2 ai 16 anni, tre vivono a Milano con me e mia moglie, autrice in tv, sono innamorato, con lei sto bene. Parliamo di tante cose extra cinema, che mi aiutano e nutrono la mia immaginazione. Mi piace la quotidianità con la famiglia, mi piace correre, allenarmi. Ho 51 anni, lavorare sempre in giro un po’ comincia a pesarmi».

Quindi rallenta?

«Esce il film Ipersonnia su Prime, poi avrò la serie Un amore con Micaela Ramazzotti, Azul a teatro e…».

Lo vede che ci ricasca?

«Esploro tutto. E ho sempre amato ridere e scherzare, solo che non viene fuori tanto, perché ti appiccicano delle etichette che non è facile scrollarsi di dosso. Hai una tale pressione: non è facile».

E allora chiama l’agente.

«Nel weekend la chiamo soltanto per le urgenze. In ogni caso, crescendo si trova un equilibrio».

Da corriere.it mercoledì 2 agosto 2023.

«Io sono contro qualsiasi guerra, credo che la guerra per procura in Ucraina sia iniziata molto prima, con la violazione degli accordi di Minsk. La mia sensazione è che la Nato sia fuori controllo, la Nato dovrebbe iniziare a parlare di diplomazia e l’avrebbe dovuto fare già mesi fa quando gli Stati Uniti rifiutarono un avvio dei negoziati». Così la star statunitense e militante pacifista ed ambientalista Susan Sarandon, premiata con la Colonna d’Oro alla Carriera al Magna Graecia Film Festival, in conferenza stampa.

«Credo che la guerra non riguardi l'Ucraina ma riguardi la Russia, è un tentativo di indebolire la Russia per i suoi rapporti con la Cina - sottolinea l'attrice -. Il mio cuore è terribilmente spezzato e sofferente nell'assistere alle devastazioni e alle morti che si stanno verificando sia in Ucraina che in Russia. Bisogna iniziare a lavorare con la diplomazia per cercare di porre fine a questa guerra, fine che di certo non si può ottenere utilizzando le bombe al grappolo che sono contro le convenzioni di Ginevra», conclude la star di «Thelma e Loiuse» tra gli applausi del pubblico in sala.

Estratto dell’articolo di Paolo Scotti per “il Giornale” giovedì 3 agosto 2023.

[…]  A guastare l'entusiasmo per l'incontro con Susan Sarandon, ieri ospite del Magna Graecia Film Festival di Catanzaro (dove ha ricevuto la Colonna d'Oro alla Carriera) ha provveduto l'ormai famoso sciopero degli attori di Hollywood. 

Sempre affabile e generosa di sé, la magistrale interprete di Thelma & Louise, premio Oscar per Dead Man Walking, si è fatta stavolta precedere dal rigorosissimo diktat cui lei, insieme a colleghi come Meryl Streep, George Clooney o Charlize Theron, inflessibilmente si attiene: vietato girare film, vietato promuoverli, vietato anche semplicemente parlarne, siano essi presenti, passati o futuri.

[…] 

Lo sciopero di Hollywood contro l'intelligenza artificiale, e per le retribuzioni eque, ormai dilaga.

«È giunto ad un punto di svolta. Bob Iger, amministratore della Disney, ha detto: “Resistiamo finché le persone perderanno la casa o moriranno di fama”. Il business del cinema è cambiato; i nostri contratti no. Il che non riguarda solo gli attori, ma larghi strati della società americana: il divario fra ricchi e poveri è ormai enorme. Per avere l'assistenza sanitaria un attore deve guadagnare almeno 26 mila dollari. Ma l'87 per cento di noi non li raggiunge. Non pensate a chi è famoso come me; ma ai moltissimi che lavorano in ruoli minori. Dunque oggi chi è al top deve mostrare solidarietà con tutti gli altri».

A preoccuparvi è anche il possibile «effetto Frankenstein» nell'uso dell'intelligenza artificiale.

«Ma anche la sua infondatezza etica. In pratica gli studios vorrebbero sostituire comparse o attori di piccoli ruoli con la scansione della loro immagine. E quindi utilizzarla a proprio piacimento, per sempre, senza più pagarla. Un furto inaccettabile Secondo me l'AI andrebbe utilizzata per sostituire gli amministratori delegati, mestiere per cui tanta immaginazione non è affatto necessaria» […] 

Hollywood ha una lunga tradizione di «appasionarie» per i diritti civili come lei: Katharine Hepburn, Bette Davis, Jane Fonda. Qualcuna di queste l'ha forse ispirata, specialmente quand'era ai suoi inizi?

«A Hollywood non conta la politica: conta il denaro. E per un attore l'unico modo per ostacolare questo sistema è invecchiare, ingrassare, o girare film che siano dei flop. Oggi, che le major sono concentrate sul controllo dei contenuti, di grande ispirazione per me sono state Jane Fonda e Vanessa Redgrave.

Ma ai miei inizi, ammetto, non mi vedevo come un'attrice che potesse esporsi e sfidare lo status quo».

[…] 

Non possiamo parlare di film, allora parliamo di registi. Per esempio dell'unico italiano con cui abbia lavorato: Mario Monicelli, nel 1971, per La mortadella.

«Posso essere sincero? Sul set parlavano tutti in italiano, nessuno mi rivolgeva la parola. Così sono rimasta all'oscuro di tutto. Non sapevo neanche chi fosse il regista. Sapevo chi fosse Sophia Loren, la protagonista».

Tuttavia lei ha vissuto per qualche anno a Roma, ed è molto legata al nostro Paese.

«Da tanto cerco di avere la cittadinanza italiana: ma sono troppo vecchia. Quando uscì la legge che la concedeva per via materna (mio nonno era siciliano) avevo già due anni. Ora ne ho 76. Eppure bevo il caffè all'italiana, mangio la pasta, ho fatto una figlia con un italiano (il regista Franco Amurri, ndr)... Cos'altro posso fare per diventare finalmente una di voi?».

Estratto dell'articolo di Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera” venerdì 7 luglio 2023. 

Susanna Messaggio è una bellissima donna di sessant’anni che ci accoglie nel suo studio, nel centro di Milano, in pantaloncini e maglietta, capelli raccolti e pochissimo trucco. Il sorriso è lo stesso da decenni. È familiare.

(...)

E così decollò la sua carriera da top model.

«Che impressione vedere i manifesti con la mia immagine, in Italia e all’estero. Jeans famosi, una linea di intimo famosissima che ha “vestito” anche Michelle Hunziker. Però io ho sempre continuato a studiare. Oggi ho tre lauree: Lingue, Psicopedagogia e Arte, oltre a numerosi master». 

E poi la tv. Come andò?

«Ero nella sede Rai di Milano per portare traduzioni dal tedesco con cui mi mantenevo agli studi, quando in ascensore mi vide Anna Tortora, che mi disse “è lei”. Poi arrivò Enzo, suo fratello, che ripeté: “è lei”. Mi dissero che ero perfetta come telefonista a Portobello e mi fecero fare una prova. Io però dissi che c’era un errore, perché ero lì per delle traduzioni. Nessun errore, dissero e così cominciai la carriera al mitico Centralone.

Guadagnavo 200 mila lire a puntata». 

Tortora divenne un caso, oggi simbolo degli errori giudiziari.

«Un simbolo tragico. Quando tornò in tv dopo la lunga parentesi dolorosa, ci abbracciò e ci disse: “Non fatevi mai schiacciare da nessuno”».

Nel 1983 lei affiancò Cecchetto nella conduzione di «Popcorn».

«Sapevo l’inglese e questo colpì Claudio. E colpì anche Mike Bongiorno, che si considerava americano». 

Mike. Un lunghissimo sodalizio, da «Bis» a «Telemike». Che tipo era?

«Proprio come lo vedevate sugli schermi. Difficile ma generoso, puntiglioso e pieno di calore. Voleva giocare a tennis con noi e soprattutto voleva vincere. Una sera “il signor No” (lo sceneggiatore Ludovico Peregrini, ndr ) mi supplicò di lasciarlo vincere sennò non si andava più a casa. Mi ricordo quando portava Leonardo, il più piccolo, in studio: quante volte l’ho tenuto in braccio. Quando poi il ragazzo crebbe e andò a Londra Mike si disperava perché faceva rumore nelle feste in casa con gli amici. Si confidava spesso con me, mi ha sempre rispettata».

E intanto lei continuava a studiare. È vero che è diventata anche giornalista?

«Sì, ma oggi sono solo pubblicista. Riconsegnai la tessera quando mi proposero un celebre spot di pannolini per bambini con un famoso ippopotamo, Pippo. Mi offrivano tanti tanti soldi, capisce».

Pippo, che ricordi...

«Lo sa che dentro quel pupazzo c’erano gli operai disoccupati della Fiat? Lo spot si girava a Torino, loro animavano il fantoccio dall’interno». 

Si guadagnava tanto con la pubblicità?

«Erano altri tempi. Si guadagnava con gli spot ma anche con le copertine di Vestro e Postalmarket, sapesse quante ne ho fatte. Mike però mi incitava a studiare, “devi prendere trenta”, mi diceva. Lui voleva una figlia femmina a tutti i costi, perché aveva avuto tre maschi. Forse un poco sono stata sua figlia». 

Anche Mondaini e Vianello l’hanno «adottata»?

«Due persone meravigliose, sensibili e intelligenti. Raimondo quando mi vedeva mi sussurrava con divertita complicità: “Abbracciami, così Sandra si ingelosisce”. Quando lui morì, Mondaini precipitò in un abisso. Andai a salutarla e lei mi disse: “Tra due o tre mesi me ne vado anche io”. E così fu. La vede quella catenina sul tavolo? Me l’ha regalata lei. E quel sasso a forma di cuore? È di Mike».

(...) 

Susanna, nella sua vita c’è stato anche un evento tragico, la morte di sua figlia Alice di appena otto mesi. Ne vuole parlare?

«Quell’evento ha sconvolto la mia vita. Alice era una bella bambina all’apparenza sana, ma poi scoprirono un grave problema cardiocircolatorio.

Era la mia prima figlia, quando morì mi fermai. Avevo vinto anche un dottorato in Psicopedagogia, ma non me la sentii di continuare». 

Però poi la vita ripartì...

«Due anni dopo rimasi incinta di Martina, che oggi ha 25 anni, è specializzata in Scienze e Tecnologie agro-alimentari e un giorno mi ha fatto piangere: è tornata a casa e si è scoperta la nuca, dove aveva fatto tatuare la lettera “A” di Alice».

(...) 

Susanna, perché ha lasciato la tv?

«Ma non l’ho mai lasciata. Oggi collaboro con numerose trasmissioni come autrice e come consulente, con la mia agenzia, Messaggio Consulting, ci siamo specializzati in salute e benessere e diamo il nostro contributo. Ho dieci dipendenti e oltre a questo insegno all’università, per esempio nel Dipartimento di Moda, Arte e Benessere della “Bocconi”. Scrivo su numerose riviste e mi occupo anche di arte, la mia grande passione. A proposito di restare in forma: percorro chilometri al giorno per Milano nelle mie riunioni con i clienti. Altro che diete da fame!».

Susanna Messaggio compie 60 anni: telefonista a Portobello, le due lauree, la vita privata, 7 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 30 Gennaio 2023.

Volto molto amato dal pubblico televisivo - storica valletta di Mike Bongiorno - è nata a Milano il 30 gennaio 1963

Gli inizi

Storica valletta di Mike Bongiorno, volto amatissimo dal pubblico televisivo, Susanna Messaggio proprio oggi compie 60 anni. Nata a Milano il 30 gennaio 1963 ha mosso i suoi primi passi in televisione giovanissima. «Il primo che mi ha notata è stato Cino Tortorella, avevo 15 anni e mezzo - ha raccontato nel 2018 a La Vita In Diretta -. Ero andata con la scuola a partecipare ad una trasmissione e lui continuava ad inquadrarmi. Mi fece chiamare in regia (mi accompagnò la mia prof) e disse: “Questa ragazza ha un viso da attrice, facciamole fare insieme a mio figlio un programma per bambini”». La showgirl si ritrovò così a condurre la sua prima trasmissione, Classe di ferro (il cui autore era il figlio del «mago Zurlì»). Il debutto a La bustarella, accanto ad Ettore Andella su Antennatre, invece risale al 1979, e nel 1982 Messaggio approda a Portobello, storico programma di Enzo Tortora, come telefonista.

Valletta di Mike Bongiorno

Passata a Mediaset negli anni Ottanta Susanna Messaggio affianca Mike Bongiorno in più occasioni, a Telemike, Superflash e Bis. «Era protettivo, per me era come un padre - ha raccontato Messaggio pochi giorni fa ospite di Nei tuoi panni -. Mentre studiavo mi diceva “se non prendi sempre 30 non ti faccio continuare a lavorare”. Neanche mio padre me lo diceva!».

Laureata in lingue

Negli anni del successo Susanna Messaggio non ha mai abbandonato gli studi e si è laureata in lingue. «Non ho mai pensato che la televisione fosse un lavoro - ha rivelato sempre a La Vita In Diretta -, ho sempre pensato fosse una cosa casuale, un momento. Nel frattempo volevo studiare, ero puntata sulla carriera universitaria».

La seconda laurea

Nel 1996 Susanna Messaggio ha conseguito una seconda laurea, in pedagogia. In qualità di psicopedagogista ha a lungo collaborato con l'Università Statale di Milano. Nel 2000 ha aperto una sua società di comunicazione e negli anni ha scritto su numerose testate nazionali, occupandosi soprattutto di temi legati alla salute, al benessere e alle problematiche dell'infanzia.

Al cinema

Forse non tutti sanno che nel 1985 Susanna Messaggio ha recitato in un piccolo ruolo nel film «Lui è peggio di me» di Enrico Oldoini con Renato Pozzetto e Adriano Celentano (era la ragazza all’autonoleggio). Ha fatto una piccola parte - Elisabetta 'Betty' Casati - anche in «Italian Fast Food» di Lodovico Gasparini (1986).

Ha condotto il Festivalbar

Tra le esperienze televisive di Susanna Messaggio c’è la conduzione del Festivalbar (1985-1987, 1989-1991). Parlando sempre di programmi musicali ha condotto anche Azzurro (1985-1987, 1991-1992).

Vita privata

Susanna Messaggio si è sposata tre volte. La prima quando era molto giovane: «Allora non si poteva andare con un ragazzo liberamente, avevi bisogno di farti sposare, era tutto molto diverso - ha raccontato lo scorso anno a Oggi è un altro giorno -. Dopo la maturità è venuto a prendermi, mi ha portata al confine austriaco dove abitava lui e ci siamo sposati». Con il secondo marito, negli anni Novanta, ha vissuto un grande dolore: la perdita della prima figlia, Alice. «La mia prima figlia Alice è morta a pochi mesi di vita per un problema cardiocircolatorio - ha detto ospite della trasmissione Vieni da me nel 2019 -. Io all'epoca studiavo medicina. Ho smesso e ho iniziato psicologia perché volevo aiutare le donne che avevano vissuto il mio stesso dramma». Qualche anno più tardi Messaggio è diventata nuovamente mamma: nel 1992 è nata Martina. Nel 2005 la showgirl è convolata a nozze per la terza volta, con Giorgio Olivieri, da cui ha avuto un figlio, Jacopo.

Estratto dell’articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” il 4 giugno 2023.

Sydne Rome è un’Alice di 72 anni che nella vita non ha conosciuto solo meraviglie. Massa di capelli, le gambe magre in un paio di leggins e scarpe da ginnastica, è stata una pioniera dell’aerobica e si vede. 

[…]. Il cinema nella sua vita c’è ancora. Un ruolo piccolo nel film di Pupi Avati, La quattordicesima domenica del tempo ordinario , e alla Mostra di Venezia (probabilmente) con The palace , il nuovo film di Roman Polanski.

Con Avati ha fatto molti film.

«Mi chiama spesso, mi racconta tormenti e disagi. È adorabile. Sul set faccio una scena, aveva il terrore che avessi difficoltà con l’italiano, è andata benissimo». 

E con Polanski?

«Mi chiamano dall’ufficio casting per un provino. vado a Gstaad, in Svizzera. È come entrare nella macchina del tempo. Roman: “Da quanto non lavoravamo insieme?”, io: “Mezzo secolo”. L’avevo rivisto al matrimonio con Emmanuelle Seigner. È sempre lo stesso, ma con i capelli bianchi».

Nel 1972 “Che?” l’ha lanciata.

«Polanski è stato il pigmalione, mi ha cambiato l’esistenza. Da mesi cercava la protagonista nel mondo. Io avevo fatto un provino, quattro mesi dopo mi chiamano: domani ti passiamo a prendere per andare a Cinecittà. Rifaccio la stessa scena del provino, stavolta con Marcello Mastroianni. Menomale che ricordavo le battute». 

Nel film Mastroianni aveva scene bizzarre, seminudo in pelliccia...

«Marcello era l’attore per l’attore. Fare ruoli così era la sua carne. Ogni scena per lui era serissima, con lui e Polanski non si scherzava. Roman era severo, ogni giorno avevo paura di essere cacciata dal set, di non essere all’altezza. Fuori dal set Marcello era un orsacchiotto. Professionista e adorabile, tutt’altro che seduttore».

Il film di cui è più fiera?

«Just a gigolo con David Bowie. Quando l’ho conosciuto era famoso, ma non in Italia. Mi accorsi subito che era speciale. Eravamo tutti attratti da lui, aveva una dolcezza e una sincerità che non ti aspetti. Ci siamo incontrati per parlare del film, era molto umile.

Non dava importanza ai soldi, contava solo la sua arte, il rapporto con se stesso, i suoi cambiamenti». 

Il ricordo più bello insieme?

«Il più bello non lo posso raccontare. Le racconto di una cena insieme, alla prima di L’uomo che cadde sulla terra ,a un ristorante giapponese […]. Abbiamo parlato fino a notte fonda, era certo di essersi reincarnato da un giapponese […]. Era ironico e profondo, bello, efebico, un folletto. Dopo il film le strade si sono divise. Lui era concentrato sul suo talento, era meraviglioso ma non un compagno di vita». 

Tra i colleghi chi preferisce?

«Mi piacciono gli attori che fuori dal set amano essere invisibili. Come Donald Pleasence. E Terence Hill, che è un grande attore ma vorrebbe scomparire». 

[…] La sua storia con Iglesias?

«Le racconto un’avventura. Io giravo a Barcellona, lui cantava a Beirut. Avevamo iniziato questa storia a distanza, volevamo vederci. “Vieni?”. Io dovevo andare in Argentina a cantare, con tutto il baule di abiti da sera parto per la Grecia. 

Erano tempi in cui potevi arrivare all’aeroporto, comprare un biglietto e partire. In Grecia mi dicono che non ho il visto, mi mettono su un aereo per la Siria, che era in guerra col Libano. In volo conosco un medico arabo, Fuat, che andava a un congresso di agopuntura. Atterriamo in Siria, io in completo pantalone bianco Armani, tutta bionda.

Lì vestivano tutti di nero, Fuat dice che è mio marito, prendiamo un taxi con otto polli e tre galline e andiamo all’hotel Le meridien, catena francese e dunque neutrale. Solo il giorno dopo realizzo in che guaio ci siamo cacciati. Lui trova un passaggio in un furgone che consegnava giornali, ci avvolgiamo in tappeti, mi faccio portare nel più costoso hotel di Beirut. Chiamo l’agente di Julio: “Ti mando una macchina ma mettiti sdraiata, che se ti intercettano ti lapidano”. Finalmente, tremante, arrivo: Julio quando mi vede casca per terra».

Il migliore amico nello spettacolo?

«Don Lurio […]». 

[…] La migliore amica?

«Romina Power. Siamo amiche da trent’anni, ci siamo conosciute in piscina. Lei aveva problemi, io un amico avvocato. Abbiamo un passato simile, non abbiamo spocchia, parliamo di tutto, il che rende facile l’amicizia». 

[…] Suo marito Roberto Bernabei è il medico personale del Papa.

«Per la nostra famiglia è motivo di orgoglio. Siamo felici che la bravura e culturadi Roberto siano state abbracciate da Papa Francesco, che non ho mai incontrato. Si tratta di un ruolo di segretezza. La cosa è diventata pubblica solo perché mio marito è figlio di Ettore Bernabei. Del Papa mi ha detto “è di una semplicità disarmante e sincera”». […]

Estratto dell'articolo di corriere.it sabato 9 settembre 2023.

Papa Francesco ha ricevuto stamane in udienza in Vaticano l’attore e regista americano Sylvester Stallone. Dell’udienza papale al celebre interprete di successi planetari come Rocky e Rambo dà notizia il Bollettino della Sala stampa della Santa Sede.

Stallone è arrivato in Vaticano assieme alla famiglia, […] 

Bergoglio ha confidato all’attore di origine italiana: «Siamo cresciuti con i vostri film». Uno scambio di battute divertenti a cui Sly ha risposto a tono: «Pronto... boxiamo?».

Stallone si trova nel nostro Paese perché assieme al fratello Frank, noto musicista, ha ricevuto la cittadinanza onoraria a Gioia del Colle (Bari), paese originario della sua famiglia.

Dalla Puglia agli Usa: ecco la genealogia della famiglia di Stallone. Viaggio alla scoperta degli antenati dell’attore statunitense, originari della provincia di Bari: scatta la diatriba tra Palo del Colle e Gioia. Il 6 settembre Sylvester ritirerà la cittadinanza onoraria. GRAZIANA CAPURSO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Settembre 2023

Le origini del gigante del cinema americano, Sylvester Stallone, stanno tenendo banco in queste ore: la star di Hollywood il 6 settembre sarà a Gioia del Colle (sua città d'origine) insieme al fratello Frank Jr. per ritirare la cittadinanza onoraria del paesino in provincia di Bari. Un evento unico nel suo genere che ha catalizzato l'attenzione di tutti i fan dell'attore provenienti da ogni angolo della Puglia e non solo.

Una storia, quella della famiglia Stallone, che affascina tutti gli emigrati pugliesi. In occasione del conferimento della cittadinanza onoraria spopolano sul web teorie e diatribe, soprattutto tra i cittadini di Gioia del Colle e quelli di Palo del Colle che si contendono il primato di terra natia dell'attore americano. 

A tal proposito, grazie a uno studio effettuato dal genealogista, Alessandro Lavopa, vi mostriamo con documenti alla mano la vera genealogia della famiglia Stallone, accompagnata da un breve video reportage realizzato dal regista Gianni Torres che anni fa ha realizzato un docufilm a casa degli Stallone in America, ripercorrendo la loro vita tra Gioia e Hollywood con una serie di interviste al padre di Sylvester e ai suoi parenti.

In particolare la ricerca di Lavopa (reperibile al seguente link) ricostruisce in maniera esatta le radici del celebre volto di Rocky Balboa: «Si leggono ancora tante inesattezze circa gli avi di Stallone - spiega Lavopa - ad esempio persiste ancora l'affermazione senza alcun fondamento che gli Stallone provenissero dalla Sicilia (presente anche sulla pagina italiana di Wikipedia dedicata all'attore). Come invece sappiamo gli Stallone sono di Gioia del Colle (lì sono nati e da lì sono emigrati verso gli USA il padre e il nonno di Sylvester), mentre prima ancora provenivano da Palo del Colle», sottolinea lo studioso.

«Tra le altre cose inedite riportate nella ricerca - conclude Lavopa - c'è la figura dell'antenato Silvestro Stallone (nonno del nonno del nonno di Sylvester), nato a Palo nel lontano 1742. Un nome che ha quindi attraversato i secoli, le generazioni e anche gli oceani».

Un viaggio nelle radici che esalta i curiosi e i fan e che non fa altro che rendere ancora più pugliese un personaggio così importante dello starsystem. 

Sylvester Stallone e suo fratello Frank Jr. a Gioia del Colle ricevono la cittadinanza onoraria: la diretta. L'evento alla presenza delle autorità: c'è anche il governatore Michele Emiliano. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 6 Settembre 2023

Tutto pronto per l'arrivo di Sylvester Stallone e di suo fratello Frank Jr. a Gioia del Colle, paese d'origine della famiglia della celebrità di Hollywood. Il nostro Rock Balboa è stato invitato dall'amministrazione comunale per ritirare la cittadinanza onoraria di Gioia del Colle. Un evento unico e irripetibile che seguiamo in diretta.

Presenti alla cerimonia la famiglia Stallone al gran completo. tutte le autorità locali e il governatore della Puglia Michele Emiliano.

Ai due fratelli Stallone è stata consegnata la cittadinanza onoraria. Sylvester accolto da uno scroscio di applausi e accompagnato dalle urla dei fan che urlavano «Rocky Rocky», ha dichiarato: «Sono così fiero delle mie origini».

Bagno di folla per la celebrità americana: con lui l'intera famiglia Stallone, il fratello Frank e sua moglie Jennifer Flavin, oltre alle figlie. La family ha reso omaggio alle proprie radici visitando il locale dove, un secolo fa, nonno Silvestro svolgeva la professione di barbiere. Gli Stallone hanno fatto tappa anche al civico 49 vicino piazza XX Settembre, luogo dove un tempo i nonni Silvestro Stallone e Pulcheria Nicastri, vivevano.

Anche da qui i due fratelli, affacciati dal balcone appartenuto ai loro avi, insieme al sindaco di Gioia del Colle Giovanni Mastrangelo, hanno salutato il pubblico, esibendo uno striscione con la scritta: «Forza Bari».

Immancabile l'urlo di Rocky «Adrianaaaa» lanciato al pubblico in delirio quando Sylvester è salito sul palco per ricevere la cittadinanza onoraria di Gioia del Colle dal primo cittadino del paese del Barese. 

Sylvester Stallone apre la sua casa e racconta la famiglia. MARZIA GANDOLFI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 luglio 2023  

Sempre in competizione col vecchio rivale, Sylvester Stallone apre la porta di casa e rilancia la sfida. Dopo Arnold, serie Netflix consacrata alla star che ripercorre i grandi capitoli dell’epopea Schwarzenegger, tocca a Stallone salire sul ring per raccontarsi tra aneddoti e mirabilia. Se Schwarzy sceglie la frontalità e la solitudine per dire le luci e le ombre della sua carriera, Sly, reduce dal successo di Tulsa King, si aggrappa alla sua famiglia, la moglie e le tre figlie, che fanno corona tra brushing et felicità domestica. Otto episodi accomodati nel salone di Mr. Stallone, più impegnato a inibire i pretendenti delle sue eredi che a raccontarci il suo mito.

Lo stile è quello di un’interminabile story Instagram, vana, artificiosa e con un obiettivo facile da indovinare: promuovere la prole e provare a farne una, due e tre star. Marciando sui tacchi alti delle sorelle Kardashian, Sophie, Sistine e Scarlett confessano una vita da Stallone guardandosi bene dal graffiare l’immagine paterna. TheFamily Stallone è un reality inchiodato a una trama rigida, che non prevede scosse, a parte quelle scritte a tavolino per generare suspense e finte trepidazioni al celebre papà. Senza un briciolo di follia, figuriamoci di autoironia, la soapopera si conclude a Filadelfia con un ‘Rocky Day’ in famiglia che la figlia minore metterà a rischio il tempo di uno psicodramma senza drammi. Tutto andrà liscio. A immagine della loro narrazione, gli Stallone sono un lungo fiume tranquillo dove il massimo che può capitare è una rottura amorosa o un’unghia spezzata. Vince Schwarzy per K.O. e sincerità.

Benvenuti a Casa Stallone: «Sono un padre geloso e paranoico. Gli amici? Pochi, in realtà non piaccio a nessuno». Renato Franco su Il Corriere Della Sera il 27 maggio 2023.

Su Paramount+ «The Family Stallone» in cui Sly apre (un po’) le porte della sua super villa di Los Angeles. «Non ci vedrete mai in camera da letto, quello resta per noi». La moglie: «È un uomo amorevole, l’ho conosciuto che io avevo 20 anni e lui 42. Non è stato sempre facile dividerlo con i fan» 

La famiglia Stallone nella casa di Los Angeles: da sinistra Sophia Rose, 26 anni, Sistine Rose, 24, Sylvester, 76, Jennifer Flavin, 54 anni, e l’ultimogenita Scarlet Rose, 20

«Non importa quanto forte si colpisce, ma quanto forte ti colpiscono. E conta andare avanti». La metafora della boxe, quella su cui grazie a Rocky ha costruito la sua fortuna di attore (e conseguente patrimonio da centinaia di milioni di dollari). Sylvester Stallone, 76 anni portati con molta ironia e altrettanto lifting, ha deciso di uscire dalla parte (di attore) e mostrarsi per quello che è, nella vita di tutti i giorni. Lui, la moglie Jennifer Flavin e le tre figlie — Sophia (26 anni), Sistine (24) e Scarlet (20), tutte con la «S» iniziale, marchio di fabbrica di Sly. Sono loro i protagonisti di The Family Stallone , il docu-reality disponibile su Paramount+ dove vediamo l’ex Rambo pulire con una spazzola la coda del gatto, come un Ferragnez qualsiasi (per rimanere alla nostra royal couple) o abbassandosi al livello di una Kardashian qualunque, le cinque sorelle che hanno fatto carriera diventando famose in quanto celebri.

Ha passato la vita sui set, lontano da casa per intere settimane: come gestisce i suoi sensi di colpa per assenze così prolungate dalla famiglia?

«In passato sono stato tanto fuori casa, 100 giorni, a volte anche 130 giorni. Me ne pento, mi dispiace. Credo che molti attori si sentano in colpa per aver trascorso così tanto tempo lontano dalle loro famiglie senza essersi mai goduti il piacere di vedere i propri figli crescere e sbocciare».

Sullo schermo lei ha sempre portato la figura dell’eroe hollywoodiano, il maschio alfa invincibile. Senza i guantoni di Rocky e la mitragliatrice di Rambo , che tipo di padre è?

«Sono un padre molto, molto attento alla sicurezza, protettivo, in altre parole vivo nella paranoia di quello che può succedere là fuori; sono sempre preoccupato per l’incolumità delle mie figlie, anche adesso che sono maggiorenni. Se hanno un appuntamento le chiamo: “Non sei ancora a casa? Dove sei?”. Sa, come un buon padre italiano! Ma non devo dirlo a lei...».

Una figlia interviene e lo stoppa: «Mi chiama quando sono fuori e inizia a martellarmi: “Dove sei? A cena con degli amici? Dove? Quali amici? Quante persone? Per noi è molto difficile avere un partner. Molti ragazzi poi si intimidiscono quando sentono che tuo padre è Sylvester Stallone... ci sono anche quelli che si presentano con un copione: ma vuoi uscire con me o con mio padre?». Il fiato sul collo, ma non solo: «Papà ci ha fatto interessare allo sport, ci ha mostrato il lato artistico, ci ha fatto dipingere, ci ha fatto uscire dai nostri gusci quando eravamo ragazzine timide e spaventate. E il senso dell’umorismo lo abbiamo preso da lui. È anche testardo, se gli proponi un’idea tornerà il giorno dopo dicendo che è stata una sua idea...».

È davvero così geloso delle sue figlie?

«Oh sì! Di sicuro, è un mondo duro là fuori, fa paura e sai che i ragazzi che usciranno con loro sono dei maschi... Il mio motto è: lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Non pensarci troppo».

Padre latitante, è stato così anche con sua moglie?

«Sono stato molto egoista a comportarmi come fanno le star del cinema. Non l’ho davvero capita e ascoltata fino a circa un’ora fa...». Eccolo il senso dell’umorismo.

È vero che vede sempre gli stessi pochi amici?

Ride ancora: «Sì, perché non piaccio a nessuno».

Che errori sente di aver fatto con la sua famiglia?

«Quanto dura l’intervista? Posso dire che nella vita di tutti i giorni so essere un po’ impaziente, a volte un po’ insensibile. E poi sono rumoroso, teatrale, con la mia voce che sembra uscita da un cantante d’opera». 

Sentiamo l’opinione di sua moglie...

«Sa, conosco Sly da oltre 35 anni, lo conosco da quando avevo 20 anni. Per me è stato difficile condividerlo con il mondo per un sacco di anni, senza avere abbastanza tempo l’uno per l’altra. Non puoi camminare per strada come fa una coppia normale, o andare in un hotel e sdraiarti in piscina, o goderti una vacanza, perché sai che arriveranno un sacco di persone intorno a chiedere autografi, foto, selfie. Quindi è stato difficile doverlo condividere sempre con i fan. Poi come diceva lui era spesso in giro per i suoi film, è stata dura non vederlo per lunghi periodi di tempo».

Come è Sly fuori dal set?

«Ha il cuore grandissimo, è così incredibilmente amorevole. Se fai parte della sua squadra morirà per te. Farebbe qualsiasi cosa per me, per le ragazze e per la nostra vita insieme. È davvero super leale. E poi è l’uomo più divertente che conosca, questa è la parte migliore di Sly: mi fa ridere sempre, ridiamo dal mattino fino a quando andiamo a letto. Non prendiamo mai le cose troppo seriamente, penso che sia un bene non essere super seri nella vita».

A guardarlo è un reality dalla verità ingentilita, come succede sui social dove si lascia filtrare solo il lato migliore. Sembra essere una scelta precisa, è così Mr Stallone?

«Certe cose appartengano solo alla famiglia, altre è bello condividerle con il pubblico. Dunque non ci vedrete in camera da letto e se ci capita di passare una brutta giornata non abbiamo voglia di mostrarla al mondo intero. Alla fine questo è un reality che deve divertire, le cose troppo personali le teniamo per noi».

Ecco perché non c’è spazio per la crisi che i due hanno attraversato poco tempo fa, crisi nata per questioni di business: Jennifer era imbufalita perché il marito «stava intenzionalmente sprecando i beni coniugali»; Sylvester era arrivato a cancellare i due tatuaggi che si era fatto per certificare sulla pelle il suo amore per la moglie. Il divorzio sembrava cosa fatta, poi nel giro di poche settimane è tutto rientrato, l’amore (o il business, visto le cifre in ballo della separazione) ha trionfato. «È stato come un risveglio. Ho capito che la cosa più importante di tutte è la mia famiglia», aveva detto qualche tempo fa.

Una carriera cinematografica ricchissima, ma anche una biografia sentimentale da film perché Sly non si è fatto mancare nulla, tradimenti (fatti e subiti), figli veri e supposti, uno — Sage Stallone — tragicamente morto a soli 36 anni, una collezione di flirt con modelle da copertina, da Naomi Campbell a Janice Dickinson, da Tamara Beckwith a Angie Everhart. Collezionista di flirt ma anche di matrimoni (per ora è arrivato a tre). Il primo risale al 1974 quando sposò l’attrice Sasha Czack, sua collega ai tempi del Baronet, dove Stallone vendeva i biglietti del teatro. Finisce 10 anni dopo anche perché nel frattempo Sly ha una relazione con l’attrice e cantante Susan Anton. Inquieto, mai soddisfatto, sempre alla ricerca di qualcosa. Con Brigitte Nielsen è subito colpo di fulmine ma altrettanto velocemente arrivano i titoli di coda: i due si sposano nel giro di cinque mesi nel 1985, ma due anni dopo le carte del divorzio sono già state firmate. 

Seguono anni spensierati, alla continua ricerca della felicità in coppia, ma la stabilità la trova solo in tante relazioni diverse fino a quando in un ristorante di Beverly Hills conosce l’ennesima modella, Jennifer Flavin: lui aveva 42 anni, lei appena 20. Ma la differenza d’età non è un problema, i problemi sono altri: dopo circa sei anni di relazione, nel marzo 1994, lui la lascia con una lunga lettera inviata via FedEx («una lettera così sciatta», disse lei sconsolata per la pochezza dei contenuti). In mezzo c’era il solito tradimento, questa volta con la modella Janice Dickinson. Ma non basta: perché lei è incinta e il figlio è di Sly. L’attore decide di assumersi le sue responsabilità (del tradimento e del bambino) e lascia Jennifer. Nasce Savannah Stallone ma nascono anche i primi dubbi sulla paternità, perché la modella nel frattempo stava frequentando altri due uomini. Stallone chiede il test del dna e scopre che quella che ha creduto essere sua figlia per sei mesi, in realtà è figlia di un altro. A questo punto torna da Jen in ginocchio: lei lo perdona e nel 1997 si sposano.

Happy End, come piace a Hollywood, un posto dove per i duri come lui c’è sempre posto: «Da Ercole in poi abbiamo sempre avuto bisogno di uomini eroi, di guerrieri — aveva detto in un’intervista —. Non c’entra niente il gender o altre faccende intellettuali. Per me gli eroi sono ancora Charles Bronson e Clint Eastwood. Il maschio, l’alfa man. È un modello che mi piace, cui aspiro. Questo non vuol dire essere misogino o intollerante, non c’entra niente. Ma diventare un guerriero è il sogno di ogni ragazzo, da sempre. È la nostra cultura: la società ha bisogno di eroi, e il cinema è la macchina che li fabbrica».

Luca Bergamin per il “Corriere della Sera” - Estratti il 3 settembre 2023. 

(…)

Da 26 anni presenta Geo . È considerata la conduttrice più dolce della televisione.

«È una dolcezza che nasconde un’anima di acciaio. Sono una persona molto forte, altrimenti non avrei saputo conservare una conduzione per 26 anni, tutti i giorni. Senza equilibrio, una donna affettiva e sensibile come me non avrebbe potuto superare tante vicissitudini della vita. Sono assai cocciuta». 

Chi la conosce sostiene che Sagramola è autentica: sullo schermo come nella vita.

«Da 32 anni vado in video per comunicare. Ho una natura schiva, la classica ragazza da ultimo banco di scuola: stare defilata ti protegge e ti dà uno sguardo sulle cose che accadono in prima fila. Ha aiutato anche la scuola di Mixer . (…) 

Lei è un po’ argentina, pur se non è nata in Sudamerica.

«Mia mamma ci ha vissuto per vent’anni, poi è arrivata in Italia e ha conosciuto mio padre, ufficiale di cavalleria. Si sono sposati, hanno avuto quattro figli. Io sono una boomer . Si sono separati quando avevo 11 anni: lei ha iniziato a lavorare come fotografa, vivendo la propria dimensione umana e femminile in un periodo complicato per le donne sole ed emancipate». 

Aveva il sogno di diventare infermiera e missionaria.

«Sì, poi è subentrata la passione per la filosofia, la letteratura, l’antropologia. Ho avuto un compagno viaggiatore che mi ha fatto innamorare dell’Asia, soprattutto l’India; così mi sono aperta a una dimensione di curiosità, conoscenza e osservazione delle persone: mescolarmi, entrare nelle case, capire le culture, stare nei posti. Nulla di più lontano dalla comfort zone dei viaggi di oggi. 

La prima volta a Varanasi, sulla riva del Gange, all’alba mi trovai di fronte a una povertà immensa, alla disperazione più totale che noi occidentali stentiamo ancora a comprendere». 

Poi toccò all’Africa, anche in compagnia di Gabriele Muccino.

«Ho girato tanti reportage insieme ad Amref Italia, iniziando con largo anticipo a raccontare il rapporto dell’essere umano con la dimensione naturale. La mia tesi di laurea è stata in Kenya sul popolo pastorale dei Turkana. Parlando con loro compresi che erano vittime inconsapevoli di un modello di sviluppo lontano nel tempo, non sapevano nulla di gas serra, non mi capivano. Gabriele filmava i cortometraggi per Mixer e i lanci per Professione Natura. Insieme abbiamo girato il mondo dalla Tanzania alla Patagonia, vivendo autentiche epifanie in paradisi incontaminati.

A Geo, grazie anche ai bravissimi documentaristi che collaborano con noi, affrontiamo il tema del nostro modo di stare al mondo, il rapporto tra economia, energie sostenibili, alimentazione, agricoltura». 

Come si salva la Terra dai gas serra?

«Non certo con la tecnologia. Questo modello produttivo è iper consumistico, siamo arrivati a un punto limite che ha creato un’estrema disuguaglianza sociale. Alla crescita va unito il benessere sociale di tutti e la cura. Prima della raccolta differenziata, bisogna non essere predatori, bulimici nel consumo: meno hai e più sei libero di esprimere quello che hai dentro». 

Lei si comporta davvero così a casa sua?

«Uso i vestiti vecchi, nel camerino gli abiti stanno lì anche da quindici anni, li trasformo con la costumista, li rovesciamo. Per me acquisto solo capi classici, che durano nel tempo. Faccio la spesa in quattro posti diversi: oggi nutrirsi bene è un lavoro. Per la frutta e verdura vado al mercato rionale: conosco tutti, discutiamo dei prezzi. Leggo gli ingredienti sull’etichetta, evito cose raffinate, cerco di privilegiare lo sfuso. In questo greenwashing imperante, ci mettono un attimo a spacciarti una cosa per un’altra». 

Ha sposato un argentino che fa Dolce di cognome.

«Diego è l’approdo alla soglia dei 40 anni in un momento in cui ero convinta che non sarei più stata in grado di costruire una vita stabile. Non nutrivo aspettative, mi sentivo assolutamente libera, con lui è venuto tutto semplice. L’avevo conosciuto quando avevo 15 anni e andai a trovare i miei cugini argentini. Trascorremmo un dicembre insieme al mare, ma non ci fu nemmeno un bacio. Lo rividi nel 1997 e pensai: affascinante, ma abita lontano. Dopo la crisi del 2001 si trasferì a Madrid, la distanza si era ridotta, mio cugino Paulo ha fatto da Cupido». 

Vostra figlia si chiama Petra, la spiaggia di Patmos su cui affaccia la locanda.

«Sulla baia di questa isola c’è un enorme sasso che si chiama così: un luogo di eremitaggio per i monaci, lo dipingo spesso nei miei acquerelli. A Diego è venuta in mente l’idea di forza e bellezza che c’è nella pietra. Unito al cognome Dolce è un poesia». 

Tra un anno ne compirà sessanta. Che effetto le fa?

«I numeri tondi fanno sempre impressione. Io ho scelto di invecchiare in modo naturale, in un dialogo continuo col corpo che cambia. Accetto le rughe e non ricorro a interventi estetici. Feci due punturine a quarant’anni. Diego disse che prima se le sarebbe fatte anche lui, e poi mi avrebbe lasciato». 

(...) 

Magari a Mediaset? Tanti stanno lasciando la Rai.

«Ho visto avvicendarsi in Rai tante direzioni e governi, ogni volta c’è chi sale e scende, va e resta. La Rai è patrimonio culturale di talenti, spiace sempre perderne. Conta il servizio pubblico. Il pluralismo resterà e la Rai non diventerà monocolore».

Estratto dell'articolo di Mattia Marzi per “il Messaggero” domenica 19 novembre 2023. 

Un album, SOS, che nel corso dell'ultimo anno ha trascorso dieci settimane al primo posto della Billboard 200, la classifica ufficiale dei dischi più venduti negli Stati Uniti (record per un'artista femminile in questo decennio), totalizzando su Spotify oltre 6 miliardi di stream e vincendo 13 Dischi di platino a livello mondiale. Un palmarès, quello di SZA, che comprende già un Grammy Award […] un American Music Award, cinque Bet Awards, due Billboard Music Awards, tre Mtv Video Music Awards […]

Duetti con artisti del calibro di Justin Timberlake, Kendrick Lamar, The Weeknd, Justin Bieber e Drake (è il suo ex compagno). Se non avete ancora avuto modo di imbattervi nel talento di SZA, vero nome Solána Imani Rowe, 34enne cantautrice considerata la stella più brillante della nuova black music americana, avete tempo ancora fino al 4 febbraio prossimo, quando a Los Angeles si svolgerà la cerimonia di consegna dei Grammy Awards 2024, gli "Oscar" della musica. A un anno dall'uscita dell'album dei record che l'ha catapultata in testa alle classifiche, SZA - si legge "siza" […] - rischia di essere la vera sorpresa dell'evento.

 In parte lo è già. Sì, perché è lei a guidare la classifica relativa agli artisti che hanno ottenuto il maggior numero di nomination ai premi più ambiti del music business mondiale: nove in tutto. Chissà come l'ha presa Taylor Swift, […] la reginetta del pop si è dovuta accontentare "solo" di sei nomination. Gli scontri diretti tra le due si consumeranno in alcune delle categorie più importanti, come quella per Registrazione dell'anno, Canzone dell'anno […] e Album dell'anno […]

Swift farebbe bene a temere SZA, perché SOS è stato uno degli album più acclamati dalla critica americana e dagli addetti ai lavori (quelli che poi votano) tra i dischi usciti nell'ultima stagione grazie alle sue sonorità r&b che strizzano l'occhio alle atmosfere della musica black statunitense dei primi Anni Duemila. […] 

«Non so se inseguire lo status di superstar sia sostenibile per me», ha confessato a Billboard lei, che dopo il riuscitissimo esordio con CTRL del 2017 aveva smesso di fare dischi «perché odio l'aspetto burocratico legato all'uscita di un progetto: è stressante». Da adolescente portava il velo e ha raccontato di essere stata vittima di offese dopo l'attentato terroristico dell'11 settembre. Oggi incarna il black power al femminile, che nelle sue canzoni invita le ragazze ad armarsi di coraggio e sui social non manca di giocarsi la carta della sensualità.

Per comprendere la sua influenza: nel 2019 il marchio di cosmetici Sephora, dopo una denuncia social dell'artista, chiuse tutti i suoi oltre 400 negozi negli Usa per una giornata di corsi di formazione dei dipendenti sulla diversità. SZA aveva accusato un commesso di discriminazione razziale nei suoi confronti, raccontando che mentre era in un negozio della catena a Calabasas, in California, un membro dello staff aveva chiamato la sicurezza perché pensava che stesse rubando dei prodotti. 

In Kill Bill, 1,4 miliardi di ascolti, omaggio a Quentin Tarantino, immagina di uccidere un ex infedele (per alcuni lo stesso Drake). Billboard, la "Bibbia" del music biz americano, le ha assegnato a marzo il premio come Donna dell'anno, in passato andato a Madonna, Lady Gaga e alla stessa Taylor Swift, […]

Estratto da repubblica.it mercoledì 6 dicembre 2023. 

È Taylor Swift la Persona dell'anno di Time. Lo ha annunciato il magazine americano in diretta su X e sulla Nbc. Ha battuto Putin, Xi Jinping e Barbie. "Scegliere la persona dell'anno, qualcuno che rappresenti gli otto miliardi di persone del pianeta, non è compito facile, soprattutto in questo momento. Abbiamo scelto la gioia, qualcuno che nel 2023 ha portato la luce nel mondo", ha detto il direttore di Time Sam Jacobs.

Time ha accompagnato la scelta della Persona dell'anno con tre copertine che ritraggono Swift - una con il gatto Benjamin Button accovacciato sulle spalle - e con un'intervista, la prima in anni della 33enne cantante finora riservatissima nei rapporti con i media.

"I successi di Swift come artista - dal punto di vista culturale, critico e commerciale - sono così numerosi che raccontarli sembra quasi fuori luogo", ha scritto la rivista. "Come pop star, siede in compagnia di Elvis Presley, Michael Jackson e Madonna; come cantautrice, è stata paragonata a Bob Dylan, Paul McCartney e Joni Mitchell. Come donna d'affari, ha costruito un impero del valore, secondo alcune stime, di oltre 1 miliardo di dollari. E come celebrità - che a forza di essere una donna viene esaminata attentamente per tutto, con chi esce e ciò che indossa - da tempo attira un'attenzione costante e sa come usarla. Ma quest'anno qualcosa è cambiato. Discutere dei suoi movimenti era come parlare di politica o del tempo: una lingua parlata così ampiamente da non aver bisogno di contesto. È diventata la protagonista del mondo", aggiunge. "Questo è stato l'anno in cui ha perfezionato la sua arte, non solo con la musica, ma anche nella sua posizione di maestra narratrice dell'era moderna", sottolinea la rivista.

Per la scelta del personaggio a cui, ogni anno, la prestigiosa rivista statunitense dedica la copertina, c’erano anche – oltre ai leader russo e cinese – altri personaggi della scena internazionale come re Carlo Terzo, il capo della Fed Jerome Powell, il ceo di OpenAI Sam Altman e i magistrati che stanno mettendo sotto processo l'ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

[…]

La cantante Taylor Swift è la «Persona dell'anno» secondo il Time. Batte Barbie, Putin e Xi Jinping. Ma non è il solo traguardo: premiata anche da People e da Forbes, nella cui top 5 compare anche Giorgia Meloni. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Dicembre 2023.

ÈTaylor Swift la Persona dell’anno di Time. Lo ha annunciato il magazine americano in diretta su X e sulla Nbc. Ha battuto Putin, Xi Jinping e Barbie.

Ma non è il solo record della cantante: finalista per la copertina della Persona dell’anno di Time, Taylor Swift si è piazzata in testa alla hit parade di People delle persone più interessanti dell’anno.

La popstar ha incassato anche un maxi-risultato con Forbes: quinta worldwide tra le donne più potenti del pianeta dietro alla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, la presidente della Bce Christine Lagarde, la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris e al quarto posto la premier italiana Giorgia Meloni.

«Con un tour mondiale che ha rotto i record, la capacità di muovere le economie e una fortuna stimata a 1,1 miliardi di dollari, la 33enne cantante merita un posto tra le donne più potenti del globo», scrive Forbes di Taylor che, secondo People,

è più in controllo che mai in un anno che finora è stato per lei una sfilza di primati.

NELLA TOP 5 DI FORBES FIGURA ANCHE GIORGIA MELONI

Giorgia Meloni è al quarto posto della classifica di Forbes delle donne più influenti del pianeta per il 2023. La premier italiana si è guadagnata il piazzamento dietro la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, la presidente della Bce Christine Lagarde e la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris. Completa la top 5 la popstar Taylor Swift.

Forbes nota che nei primi mesi dell’anno i ranghi delle donne più potenti del mondo si è assottigliato con l’addio al loro ruolo di leader di Sanna Marin, Jacinda Ardern e Nicola Sturgeon rispettivamente in Finlandia, Nuova Zelanda e Scozia, mentre Susan Wojcicki ha lasciato la guida di YouTube e Martina Merz il conglomerato tedesco Thyssenkrupp: ciascuna sostituita da un uomo.

Allo stesso tempo il «triumvirato» Taylor Swift, Beyoncé e Barbie ha generato miliardi di dollari di spese dei consumatori: la loro influenza è stata così importante che il capo della Fed Jerome Powell ne ha parlato in luglio in una conferenza stampa.

Di conseguenza Forbes ha messo la Swift al quinto posto, assegnando a Beyoncè il n. 36 e mettendo Barbie a quota cento: la posizione assegnata ogni anno a una figura che non rappresenta una immagine tradizionale di potere e tuttavia è servita ad definire l’anno.

"Taylor Swift persona dell'anno per "Time"". Paolo Giordano su Il Giornale il 7 Dicembre 2023.

Se l'è giocata fino alla fine con Putin, Xi Jinping e Barbie. Ma poi ha vinto lei, Taylor Swift, che è diventata la «Persona dell'anno» per il prestigioso Time ed è quindi il personaggio più significativo dell'annata che sta per chiudersi. «Abbiamo scelto la gioia, qualcuno che nel 2023 ha portato la luce nel mondo» ha spiegato il direttore Sam Jacobs ed è difficile dargli torto anche perché per lei è la seconda volta: nel 2017 finì sulla stessa copertina insieme ad altre icone dell'allora popolarissimo MeToo.

Nel frattempo ha accumulato valanghe di copie vendute e «stream», al punto che ora viaggia oltre le 200milioni tra album e singoli, roba che l'ha traghettata di diritto nella lista degli artisti con maggiori vendite planetarie nell'era digitale. Dopotutto, questa popstar che tra una settimana compie 34 anni è davvero «huge» come dicono i suoi fans, è gigantesca sia per popolarità mondiale che per fatturato. Tanto per capirci, la compagnia di ricerche online QuestionPro ha confermato che «se fosse un'economia, sarebbe più grande di 50 paesi nel mondo» e infatti il suo ultimo tour ha un bilancio che nemmeno una multinazionale: oltre un miliardo di dollari di incassi previsti per 146 concerti ovviamente spettacolari, ovviamente sold out, ovviamente seguitissimi anche dai social. Per non parlare del film concerto The Eras Tour registrato dal 3 al 9 agosto 2023 al SoFi Stadium di Inglewood (Los Angeles) che negli States ha incassato oltre cento milioni di dollari nella prima settimana e 123 nel resto del mondo.

Insomma, un fenomeno come pochi, un fenomeno che il regista del film concorrente Oppenheimer, Christopher Nolan, ha elogiato perché Taylor Swift è sostanzialmente manager di se stessa e si è prodotta in proprio il film senza affidarsi a qualche major. Una indole ribelle ma razionale che il pubblico ama, specialmente quello giovane o giovanissimo. Volete capire quanto la ama? È bastata una sua storia Instagram nella quale invitava al voto per le presidenziali a fare la differenza. È stato un appello al voto, non un appello a votare questo o quel candidato. Risultato: subito dopo il sito Vote.org ha registrato una media di 13mila nuovi utenti ogni trenta minuti. Sono i cosiddetti Swifties, cioè i fan di Taylor Swift che ormai sono legioni sterminate e totalmente fedeli specialmente nel mondo anglosassone.

Tra noi italiani, Taylor Alison Swift nata a West Reading in Pennsylvania, è famosa ma non famosissima nonostante il 13 e il 14 luglio la aspetti San Siro per due degli eventi già più attesi della stagione. Non è famosissima perché per qualche misteriosa ragione - o più semplicemente per scelta ragionata - non è ancora entrata nel nostro immaginario collettivo. Ma è lì lì per entrarci. Il «Modello Taylor Siwft» è così vincente da diventare materia di studio alla Arizona State University: il corso si intitola «Psicologia di Taylor Swift - argomenti avanzati di psicologia sociale». Già psicologia. Al di là delle canzoni, che possono piacere o no, è tutto il cosiddetto contorno a diventare più significativo giorno dopo giorno. La docente Alexandra Wormley spiega che «il corso utilizza fondamentalmente Taylor Swift come esempio semestrale di diversi fenomeni: pettegolezzi, relazioni, vendetta». Sono categorie gigantesche. Ad esempio la vendetta è stato il tema portante di Reputation, il disco uscito dopo il bailamme di insulti tra lei, Kim Kardashian e Kayne West. Il disco della vendetta, ovviamente stravenduto. «Gli studenti lo sanno, ma sanno perché ci piace la vendetta? Sanno come mettiamo in atto la vendetta? La psicologia sociale può dircelo». Insomma una popstar come materia di studio all'università. Ecco perché Time la piazza in copertina preferendola al dittatore russo o a quello cinese e persino alla bambola più famosa di sempre. Taylor Swift è una fotografia che va ben oltre le classifiche pop per entrare in quelle sociali e persino politiche. È la prima ma non sarà l'unica, vista la tendenza. Paolo Giordano

Estratto dell’articolo di open.online venerdì 4 agosto 2023.

Taylor Swift? Ha origini cilentane e vorrebbe venire in Italia a «vedere i luoghi delle sue radici». Già, le radici della cantautrice e attrice statunitense che riempie gli stadi di tutto il mondo, protagonista assoluta dello showbiz mondiale, si trovano anche a Castelnuovo Cilento, un piccolo paese di 3.000 abitanti, in provincia di Salerno. 

Ma come si è arrivati a questa scoperta? Come raccontato dall’editore Giuseppe Galzerano sulle pagine de Il Correre del Mezzogiorno, «tutto è iniziato quattro-cinque anni fa, stavo facendo una ricerca sulla storia di un anarchico italiano ucciso dalla polizia americana e a un certo punto, consultando alcuni giornali statunitensi, mi apparve una notizia degli anni Venti del secolo scorso da Castelnuovo Cilento: si trattava della morte di una certa Rosa Baldi, i cui figli stavano in America [...]».

E incrociando dati e notizie, Galzerano riesce a entrare in contatto con i discendenti di un signore di nome Victor Baldi, residenti a Philadelphia, che in cambio inviano all’editore una foto in cui venivano ritratti proprio Rosa Baldi e Vito Baldi, con in braccio il figlio. Chi era quel bambino? Si trattava di Carmine Carlo Antonio Baldi, «che partì da Castelnuovo Cilento per New York appena quattordicenne nel 1876, con soli 14 centesimi in tasca», racconta ancora Galzerano.

Camine Baldi sposa LuisaEurindine Sorbenheimer, sorella di un famoso avvocato del foro di Philadelphia, da cui ha sette figli, tra cui Rosa, nata nel 1920, e che si è sposata con il tenente colonnello Archie Dean Swift. La coppia ha avuto tre figli: Archie III, Douglas e Scott, ossia il padre di Taylor Swift. Insomma, risalendo all’albero genealogico si scopre che Taylor Swift ha un trisavolo in Cilento. 

[...] L’occasione per tornare alle origini c’è, dato che Taylor Swift sarà in tour in Italia nel 2024, con due date sold out allo stadio San Siro di Milano. 

Estratto dell'articolo di repubblica.it venerdì 4 agosto 2023.

Una vera pop star: bella, brava e molto generosa, soprattutto con le persone che le permettono, attraverso il loro lavoro di portare in giro per l’America, e poi per il mondo, dato che è un tour internazionale, i materiali del suo tour. […] Secondo quanto si legge sul sito della Cnn, la cantante ha regalato un bonus da 100mila dollari ad ognuno dei camionisti impegnati nel suo tour internazionale Era’s. Oltre ai camionisti il bonus ammonta ad un totale di oltre 55 milioni di dollari per ogni genere di persona che lavora nel suo show, dagli addetti alle scenografie alle ballerine. 

[…] Per il 2019 Forbes stima il suo patrimonio a 360 milioni di dollari. Nel 2021 Forbes stima 550 milioni di dollari. A giugno 2023, la stima è di 740 milioni di dollari.

Secondo Michael Scherkenbach, fondatore della società di camion con sede in Colorado Shomotion trucking company, il tour di Taylor Swift impiega due service per un totale di circa 50 persone. Un bonus solitamente varia dai 5mila ai 10mila dollari. "Si tratta di una cifra che ti cambia la vita - ha detto parlando del bonus - queste persone passano la vita su strada. Dormono di giorno e lavorano tutta la notte. È un lavoro estenuante. Lasciano le famiglie, figli piccoli, per settimane. Per il tour di Taylor sono via da 24 settimane".

[…]

Tananai, il tassista non lo riconosce e lui filma tutto: il dialogo esilarante.  Alice Antico su Il Tempo il 02 marzo 2023

Qualcosa di veramente inedito è accaduto ieri al cantante Tananai, che ha postato l’accadimento con un video su Instagram. Un viaggio in taxi insolito, il suo: Tananai era seduto nei sedili dietro di un taxi milanese quando, durante la corsa, passa alla radio “Tango”, l'inedito con il quale il cantante ha partecipato al 73esimo Festival della canzone italiana, posizionandosi quinto.

Tananai, quindi, chiede al tassista di alzare il volume e, solo a quel punto, comprende che il tassista non lo aveva assolutamente riconosciuto. Così Alberto Cotta Ramusino, questo il nome dell’artista all’anagrafe, da il via ad un dialogo molto. Tananai chiede all’autista se la canzone che stanno ascoltando in radio gli piace e, quando l'uomo gli risponde "sì", soddisfatto esclama: "Mi fa piacere, abbiamo gli stessi gusti".

 "Hai visto Sanremo?" chiede poi il guidatore all’artista per fare conversazione e Tananai, non riuscendo più a fingere, non solo gli dice di sì, che lui era sul palco e che è proprio il "Tananai della canzone". L’autista incredulo afferma “Ma davvero sei te?”. Il siparietto continua con il tassista che poi gli domanda se è il nipote di Biagio Antonacci, ma Alberto gli spiega che è una cosa che si sono inventati e che anzi lui neanche sa chi sia "sto Antonacci". La domanda su Antonacci è particolarmente divertente perché spesso è stato scambiato per il figlio di Antonacci, Paolo, che è co-autore di “Tango”.

Il video, diventato virale in poche ore, termina con il tassista che gli chiede una foto insieme e si scusa perché non lo aveva "proprio riconosciuto".

Tananai: «Vivevo in un loft senza porte e senza finestre, ora piaccio alla Vanoni. Il primo Sanremo? Sono stato superficiale». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2023.

In un anno il cantante è passato da ultimo a quinto al Festival di Sanremo con Tango: «Twitto scemenze e battute a cui rido solo io»

Tananai: Gli ultimi saranno al massimo i quinti. La parabola sanremese di Tananai (nome d’arte di Alberto Cotta Ramusino, 27 anni) si discosta da quella evangelica: «Però ho quasi tenuto fede alla mia storia. Sono stato l’ultimo dei primi cinque. Ma non mi permetto di contestare Gesù, ho sbagliato io». L’ironia, oltre alla musica, è la cifra del suo modo di stare sul palco e nella vita.

Si è definito un cazzaro...

«In effetti è così. Non riesco a prendermi troppo sul serio, nella vita di tutti i giorni mi piace scherzare su tutto, faccio battute che fanno ridere solo me, twitto scemenze».

L’anno scorso a Sanremo con «Sesso occasionale» arrivò ultimo, ora quinto con «Tango». Era così scarso un anno fa?

«Non mi sentivo scarso, mi sentivo più inconsapevole, meno pronto, sono stato un filino più superficiale... anzi senza un filino... sono stato molto superficiale nella preparazione del Festival 2022. Nell’ultimo anno con le esperienze che ho accumulato ho capito che ci tengo a rispettare il mio pubblico e chi mi ascolta, cerco di prendere più seriamente il lavoro in sé. Ma non mi sento di colpo bravo».

Ha preso anche lezioni di canto per migliorare le stecche dell’anno scorso...

Ride. «Posso dirle una cosa? Prendevo lezioni anche prima eh... Solo che non mi applicavo abbastanza. Il vero anno da fuoriclasse l’ha passato il mio vocal coach Maurizio Zappatini; l’anno scorso gli dicevano: ma questo che lavoro fa? Adesso invece lo dipingono come un fenomeno. Lo devo ringraziare per avere continuato a lavorare con me anche dopo la figuraccia di Sesso occasionale».

Gli incontri da ricordare nel backstage di questo Festival?

«Troppi. Mi hanno fatto piacere tanti gesti. Ho incrociato Ranieri che mi salutato come se fossimo grandi amici; ho pensato: che figo si ricorda di me. Ci siamo abbracciati e abbiamo fatto due chiacchiere».

Chi altro?

«Appena sono sceso dal palco il mio manager mi ha chiesto dell’esibizione e io: sì figo, ma Bianconi dei Baustelle mi ha detto che gli piace il mio pezzo. E poi Ornella Vanoni che mi è passata di fianco e con quella sua voce mi ha sussurrato: tu mi piaci ragazzo, sei molto interessante...».

In duetto ha portato «Vorrei cantare come Biagio». È la sua massima aspirazione? Non è che Antonacci sia proprio un modello di bel canto...

«Chissenefrega. Avere una carriera come la sua è un’aspirazione. La canzone di Cristicchi è ironica, però per fare dell’ironia bisogna partire da un fondo di verità. E Biagio è un mito, mi affascina, il suo personaggio è sensuale come la sua musica».

Mai perso la testa come Blanco a Sanremo?

«Me lo sono quasi perso, stavo andando a dormire e mi son chiesto che cavolo stava succedendo. È un ragazzo, ha chiesto scusa e deve finire lì. A me da ragazzino capitava di prendermela soprattutto con me stesso, ero una testa calda, molto irrequieto, sono sempre stato il mio primo giudice inflessibile».

Studiava architettura e poi?

«Mi sono reso conto che non era la mia strada. Vedevo compagni di corso che vivevano per quello, o quasi; erano molto più interessati, motivati, a fuoco di me; sul cellulare avevano come sfondo il Moma o creazioni di Alvar Aalto, io tenevo la foto del deejay Flume. Diciamo che ho smesso per rispetto verso gli architetti...».

Papà medico con uno studio dentistico a Cusano Milanino, la mamma che lavora con lui e si occupa della gestione dello studio.

«Non so davvero come non siano usciti di testa in tutti questi anni, tutti i giorni insieme, a casa e al lavoro».

I suoi genitori cosa prevedevano per lei?

«La priorità per loro è sempre stata la voglia di vedermi soddisfatto, realizzato e felice. Ma si sono preoccupati eccome per la mia scelta. Da piccolo mi chiamavano martello pneumatico perché se avevo qualcosa in testa facevo di tutto per raggiungerla, continuavo a battere per quel traguardo. Con il tempo si sono resi conto che la mia priorità era la musica e ho la fortuna di avere genitori abbastanza sensibili per capire che se hai questo fuoco dentro non alimentarlo provocherebbe frustrazione. Quindi meglio mangiare pane e fagioli che essere triste a vita. Io poi sono un tipo molto sensibile, sento tanto la tristezza quanto la felicità, vivo le emozioni in modo intenso. Al di là di quello che può essere sembrato il Sanremo dell’anno scorso ho sempre cercato di fare musica con serietà, dedizione e passione. Capivano che non ero uno scappato di casa».

Ha detto che è un mammone...

«Ma certo, da buon italiano... voglio tanto, tanto bene a mia madre, è una grande donna, mi ha cresciuto con moltissimo affetto, è il mio esempio femminile».

Cosa le ha insegnato?

«La gentilezza. A trattare tutti nel modo più corretto e educato possibile».

E il papà?

«Mi ha trasmesso la passione per il bello. È sempre stato interessato all’arte figurativa e fin da piccoli andavamo a visitare tante città d’arte. Tu pensi: che rottura di palle i musei e invece poi capisci quanto è utile e bello».

La scemenza più grande che ha fatto?

«Ho l’imbarazzo della scelta, e molte è meglio se non le racconto. Diciamo la volta che ero a Valencia, sono uscito senza telefonino, poi ho conosciuto delle persone, sono stato con loro, mi sono perso, sono arrivato in una città vicina, ho dormito in stazione. Il giorno dopo con tanto tempo e tanta pazienza ho capito dove dovevo andare...».

Sembra di capire che abbia omesso i dettagli più interessanti... Una critica che l’ha ferita particolarmente?

«Non ero abituato alla pioggia di critiche che un’esposizione come quella di Sanremo si porta dietro. L’anno scorso mi hanno fatto molto male i tanti commenti che leggevo, non per i contenuti, ma soprattutto per la quantità di persone che mi stroncava, così arrabbiate solo perché avevo stonato».

Il primo regalo che si è fatto con il successo?

«Non ho particolari passioni materiali, non mi interessano né i vestiti né le macchine. L’unico lusso che mi sono concesso è una casa normale in affitto. Prima abitavo in una caverna senza porte e senza finestre, ora sto in un’abitazione che ha tutte le cose al suo posto».

Come era arrivato nella caverna?

«Era l’unico posto a Milano dove si spendeva poco di affitto, ma era un macello. Un loft diviso in quattro con amici nella mia stessa situazione. Le pareti di cartongesso separavano le camere, la tende facevano da porta, le finestre queste sconosciute».

Ci vuole orecchio. Io non sono quello che volete che io sia. Terence Blanchard su L'Inkiesta l'11 Settembre 2023

Il musicista Terence Blanchard spiega che non perché non si può definire l’identità di un musicista da ciò che ha composto in passato

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di Big Ideas del New York Times. Si può comprare, qui sullo store, con spese di spedizione incluse, oppure in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia.

«Terence Blanchard? Ah, adesso sta facendo jazz?». Al mio agente è stata rivolta questa domanda qualche anno fa, in un incontro a colazione all’Hilton Midtown di New York, tra un bagel e un caffè nemmeno troppo buono. Questo avveniva nelle prime settimane di gennaio, quando gli organizzatori dei programmi dei più importanti festival internazionali fanno visita a New York, che in quella parte dell’anno ospita centinaia di spettacoli in occasione del Winter Jazzfest e del Globalfest. Più o meno nello stesso periodo si tengono anche numerose conferenze internazionali sui temi legati al booking di spettacoli musicali e teatrali. In quei giorni, la città brulica di possibilità e anticipa ciò che potrebbe apparire nei locali di tutto il mondo nei mesi e negli anni a venire. La domanda «Adesso sta facendo jazz?» non voleva essere incoraggiante e non intendeva essere l’avvio di una discussione sui miei nuovi progetti. Era una critica che uno dei “guardiani della cultura” che decideva le partecipazioni ai festival europei stava rivolgendo a me, alle mie esibizioni passate e al mio approccio alla composizione musicale.

Benché si trovasse in città per ascoltare gli sconosciuti-che-presto-sarebbero-stati-famosi e per negoziare con i loro agenti finché i compensi di questi musicisti erano ancora bassi, il Signor Programmatore di Festival stava rimproverando quel tal Terence Blanchard, che era giustamente lontano dalle scene. E insinuava – parlando con il mio agente, nientemeno! – che non avrei mai suonato il tipo di jazz che lui poteva prendere in considerazione per i suoi festival.

A quel tempo la mia ultima pubblicazione era l’album Breathless del 2015, che aveva l’ambizione di essere diverso e provocatorio. Volevo espandere il dialogo sulla razza e sulle relazioni razziali, espandendo, nel contempo, anche le mie composizioni e le mie performance. Se si affronta quel disco con l’ingombro dell’intera storia della musica che grava sulle proprie aspettative, probabilmente non sembrerà essere all’altezza, proprio come accadde con In a Silent Way e Bitches Brew di Miles Davis che confusero i critici: questi ultimi non ascoltarono ciò che si aspettavano di ascoltare e conclusero che quello che Davis stava suonando non fosse jazz, perché non suonava come le sue cose precedenti. Un brano di Breathless, che si intitola See Me As I Am, nasce da questo sentimento: non approcciate me o il mio lavoro con idee preconcette.

Il fatto è che io ho suonato con alcuni dei più grandi, tra cui Art Blakey, che è il leader dei Jazz Messengers ed è uno dei più influenti batteristi della nostra epoca. E spesso condivido il palco con Herbie Hancock, che continua a ridefinire che cosa il jazz possa essere. Dal 2015 ho anche tenuto centinaia di concerti in tutto il mondo con la mia band elettrica, l’E-Collective. Ho scritto qualche decina di colonne sonore per film, due delle quali sono state nominate agli Oscar. L’E-Collective ha pubblicato tre album, l’ultimo dei quali è Absence, una lettera d’amore al sassofonista (ed eccezionale compositore) Wayne Shorter creata con il Turtle Island Quartet, che è un quartetto d’archi. Non bastasse, ho composto anche due opere, alcuni brani classici e dei pezzi per la danza.

Se avessi voluto andare sul sicuro, non avrei fondato l’E-Collective e sicuramente non avrei aggiunto un quartetto d’archi nel nostro ultimo disco. Ma ho bisogno di evolvermi; devo essere in grado di esprimere la mia verità, qualunque essa sia, nella mia musica e nelle mie performance. E questo è anche l’obiettivo di “See Me as I Am”, la mia residenza in corso al Lincoln Center. Può essere un trampolino di lancio, un punto di ispirazione perché le persone che desiderano vedere se stesse e la loro cultura sul palco possano dire senza fronzoli la loro verità. Blakey diceva spesso a me e agli altri membri dei Jazz Messengers: «Non dovete porvi “al di sopra” del pubblico, ma non dovete nemmeno porvi “al di sotto” delle persone che vi ascoltano. Rivolgetevi direttamente a loro». E niente più della verità può raggiungere in modo più diretto l’anima altrui.

È vero che quando un musicista jazz decide di voler fare la colonna sonora di un film o di comporre un’opera lirica, alcune persone non lo accetteranno o non sapranno che farsene. Ma perché alcuni “guardiani della cultura” privi di volto possono definire quanto valgo e chi sono quando invece dovrei essere io a farlo? Ora, analizzando il motivo per cui ho subito dei rifiuti, mi chiedo se questo sia avvenuto perché la mia musica non suona “familiare” o non è facile da metabolizzare. Ma se la mia musica risulta troppo insolita, quali altri artisti vengono trascurati a causa del loro approccio al loro lavoro? Che cosa merita l’attenzione del pubblico? Chi corre il rischio di essere cancellato?

Se si pongono queste stesse domande nell’ambito della musica classica, ad esempio, le risposte sono ancora più desolanti. Per centotrentotto anni, il teatro Metropolitan ha chiuso le sue porte alle opere composte da musicisti neri. Quando un giornalista mi disse che la mia Fire Shut Up In My Bones era la prima opera composta da un nero che fosse mai stata messa in scena al Met, pensai che si stesse sbagliando. Abbiamo ricontrollato. Centotrentotto anni. Cinque generazioni.

I direttori d’orchestra di musica classica, almeno quelli più importanti, si soffermano raramente a considerare se Igor’ Stravinskij, Erik Satie, Alban Berg o John Cage – che sono tutti stati, ciascuno a suo modo, dei compositori d’avanguardia – siano degni di essere inseriti in un programma di musica “classica”. A settant’anni, Steve Reich, “il più grande compositore americano vivente”, è stato onorato con una serie di concerti, della durata di un mese, alla Brooklyn Academy of Music, al Lincoln Center e alla Carnegie Hall. Ma tutti questi uomini, da Stravinskij a Reich, sono bianchi. Che cosa rende il loro posto nel canone classico più significativo di quello di William Grant Still, che è noto da tempo come il “decano dei compositori afroamericani”?

Nell’estate precedente alla mia prima al Met, ho assistito a una rappresentazione dell’atto unico Highway 1, U.S.A. di Still messo in scena dall’Opera Theater di St. Louis. Quando fu composta, negli anni Quaranta, quell’opera era forte, incantevole, appassionata, unica e senz’altro all’avanguardia. Armonicamente, rendeva omaggio al canzoniere americano e alla tradizione delle progressioni armoniche del jazz. Ritmicamente, nasceva dall’esperienza dei neri in America. E, per quanto concerne la melodia, si muoveva a cavallo tra il blues, il jazz e la musica gospel.

Still fu prolifico e scrisse più di centocinquanta lavori, tra cui sinfonie, balletti, opere liriche, brani corali, canzoni d’arte, composizioni di musica da camera e pezzi per strumenti solisti, senza contare i suoi numerosi arrangiamenti per colonne sonore di film muti. Fu anche rifiutato tre volte dal Met. Sapere questo e sperimentare la bellezza della sua opera mi ha sconvolto di felicità e ha ferito il mio cuore. Forse sono stato il primo compositore nero ad aver avuto una prima al Met, ma non sono stato il primo ad avere le carte in regola per poterlo fare.

Ma i “guardiani della cultura” dell’epoca di Still hanno valutato le sue capacità guardandolo per come era e per come avrebbe potuto essere, oppure lo hanno considerato solo in base al colore della pelle e alla razza? Credo che la risposta a questa domanda l’abbia data Still stesso che, quando veniva definito il “decano dei compositori afroamericani”, chiedeva: «Ma perché, allora, Aaron Copland non viene definito il “decano dei compositori bianchi?”».

Still non è stato un caso isolato. Ce ne sono stati altri in molti ambiti diversi (e ancora ce ne sono). Dopo centotrentotto anni di esclusione, il mio successo al Met non dovrebbe essere un simbolo, ma piuttosto un nuovo inizio: guardatemi per quello che sono e non in base a ciò che voi volete che io sia, perché quella persona io non la conosco. Non posso capire chi sono o che cosa sia la mia musica da nessun altro punto di vista che non sia il mio.

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Teresa Mannino: «Per un amante ho rischiato di perdere la parte in un film. Clooney? Meglio Camilleri». La comica: «Sono cresciuta con una scimmia in giardino». Dalla Sicilia: «Appena arrivata a Milano ho fatto l’assistente elettricista». Il vezzo: «Al debutto sono sempre molto impreparata». Zelig: «Ho passato tanti anni a divertirmi come una matta». Elvira Serra su Il Corriere della Sera l’87 Gennaio 2023.

“Milanesi non si nasce si diventa. Basta seguire due tre accorgimenti: Intanto per essere milanese devi essere allergico. A qualsiasi cosa, non ha importanza. Di solito al polline. Ma poi dico io a Milano non c’è un albero però è piena di polline. A ciuffetti, ma dove lo pigliano? Secondo me lo sparando di notte con in cannoni della neve.

Poi quando ti danno una notizia eclatante, io prima dicevo: “mizzichina vero?” invece adesso dico: “ma dai? Ma pensa te! È una roba...” (…) Un’altra cosa che mi piace di voi è che usate molto l’inglese.. voi avete la ‘vision’, la ‘location’, la ‘convetion’ noi abbiamo solo la ‘disoccupation’.

La cosa difficile che ancora non sono riuscita ad imitare bene è la vostra camminata, perché voi non camminate normalmente, correte. Non so come fate, ogni tre passi ne saltate uno, non lo so. Tutti che corrono, come se da un momento all’altro si dovesse fermare la musica e dovessero cercare la sedia.

Ma la cosa che mi piace di più è come evitate gli appuntamenti.

Siete dei geni!

‘A che ora ci vediamo?’

‘alle 18:55?’

‘Facciamo alle 19?’

‘No, che dopo c'è un sacco di cose da fare’

Invece noi meridionali ci diamo gli appuntamenti, come facciamo?

‘A che ora ci vediamo?’

‘Di Pomeriggio’ più elastici. (…)

Però devo dire che la cosa più importante che ho imparato a Milano è che se sei da solo, se non hai amici, se tutti corrono, se nessuno ti considera. Non è solitudine, è indipendenza”

Da uno degli sketch più famosi di Teresa Mannino  

 

 

 

«Cari milanesi, vivete con ritmi da microonde: tutto in due minuti» Teresa Mannino racconta la sua filosofia della risata: «Sono siciliana, che fatica per abituarmi...» su Il Corriere della Sera il 14 gennaio 2010.

L’aspetto e la leggerezza di una Winx abbinati alla parlata e all’astuzia palermitana la rendono irresistibile. Di monologo in monologo, Teresa Mannino scala la vetta della comicità. Conduttrice per tre stagioni di Zelig Off, dal 19 gennaio torna mattatrice sul palco dello Zelig televisivo condotto dalla coppia Bisio-Incontrada (non a caso la banda di Gino & Michele e Giancarlo Bozzo l’ha voluta in apertura). Intanto, domani e sabato, Teresa (Maria Teresa all’anagrafe) si allena sul palco storico di Zelig Cabaret di viale Monza. Perché a Teresa piace l’improvvisazione, talento raro anche tra i comici. Spiega: «Noi siciliani siamo costretti a improvvisare per sopravvivere. Mi piace la chiacchiera informale con il pubblico, non ho mai una scaletta, decido di volta in volta in base alla risposta del pubblico. Racconto le mie vicissitudini di siciliana a Milano e le mie avventure di neomamma».

Com’è vivere da siciliano a Milano?

«Se sei siciliano già sei etnico. In realtà è piacevole, a parte la fatica di abituarsi ai vostri ritmi "da microonde". A ogni cosa puoi dedicare al massimo due minuti».

E poi c’è sua figlia Giuditta...

«Ne sono follemente innamorata e se mi osservo da fuori vedo il mio rimbecillimento. La tengo in braccio tutto il giorno e alla fine ho bisogno del fisioterapista. Non hai più tempo per niente. Lei fa il bagnetto ogni tre ore, io ogni tre giorni, lei mangia ogni tre ore, io ogni tre giorni ».

Ma lei quanto pesa?

«46 chilogrammi per un metro e 67 cm di altezza. Sono veramente magra anche se mangio come una scorfana».

Christian De Sica dice che le donne belle non possono essere comiche...

«Chiariamo: io sono diventata carina da quando faccio tv. Prima sono sempre stata considerata un cesso, essendo molto magra, con un nasone e senza tette. Sono telegenica. Però Monica Vitti e Sofia Loren ci hanno dimostrato che una comica non deve per forza essere brutta. Certo poi c’è Tina Pica».

Quote rosa nella comicità?

«Più comiche ci saranno, più il Paese sarà evoluto. Prima l’uomo diceva alla donna "stai zitta", poi "parla quando lo dico io", adesso "puoi parlare e anche attaccare il potere costituito". È una conquista».

Chi le piace tra i colleghi?

«Ci sono comici tecnicamente bravi che però non fanno ridere. Pochi sanno unire le due caratteristiche. A parte Troisi e Benigni che adoro per l’intelligenza e la profondità, tra i colleghi mi piacciono Brignano, che guardo su YouTube, e Checco Zalone, sempre diverso perché improvvisa ».

E con suo marito Luigi come va?

«Luigi era quello di prima. Era mio marito ma mi sono separata, una storia stupenda, siamo rimasti amici. Ma di milanesi doc non ne voglio più. Il mio fidanzato attuale è il papà di Giuditta. È mezzo terrone, mentalità milanese ma emotivamente meridionale, l’ideale. Un papà premuroso, ma è andato in crisi con i termini tecnici».

Il lessico infantile?

«I tiralatte, la fisiologica. Gli ho detto "Amore mi prendi il pagliaccetto", e lui a girar per casa, "Amore non lo trovo". Cercava un pupazzo non un pigiamino. E io: "Amore è quello color glicine". Gli unici colori che gli uomini conoscono sono quelli delle squadre di calcio, nero, blu, rosso... ».

A proposito di colori, ha mise sgargiantissime...

«Per me salire sul palco è come andare a una festa. Ma per la vita di tutti i giorni attingo all’eleganza sobria delle milanesi».

Le piacciono le donne milanesi?

«Non esibiscono la griffe come napoletane e romane. Ma spesso sacrificano la femminilità per inseguire l’atteggiamento carrieristico. Parità non significa uguaglianza, l’ideale è diversi ma con gli stessi diritti».

In privato il comico è triste, lei?

«La comicità nasce dalla follia o dalla simpatia. Quella che viene dalla follia può portare alla malinconia, mentre la simpatia, l’empatia con gli altri, che è il mio caso, di solito corrisponde a un carattere solare. Sono una persona non un personaggio».

In radio il suo sceneggiato «Mi chiamo Bru» è stato un successo. Scelga: tv, radio o cinema?

«Adoro la radio, puoi essere te stesso fino in fondo. La tv per fortuna non l’ho mai fatta, a parte Zelig, che è teatro. Al cinema ho fatto qualcosa. Oltre al film Meno male che ci sei con la Gerini, Boldi mi ha richiamato per il nuovo film. Mi piacerebbe fare un film con Sergio Rubini, adoro il suo modo di raccontare il Sud».

Si è pentita di qualcosa?

«Faccio tutto con molta coscienza e sono molto decisa. Bianco, nero, la lampada mettetela là!»

Un momento di panico?

«Sul palco no. Semmai dico "mi sono scordata tutto, di che cosa volete parlare?". Nella vita, invece. È più facile stare sul palco che nella vita».

Maria Teresa Veneziani 14 gennaio 2010

Michela Tamburrino per “la Stampa” l’11 gennaio 2023.

Quando gli ascolti premiano la qualità è un doppio successo: Il nostro generale su Rai1, vince la serata con 3.957.000 spettatori e il 19,9% di share. La serie, coprodotta da Rai Fiction-Stand By Me, prodotta da Simona Ercolani per la regia di Lucio Pellegrini e Andrea Jublin, scritta da Monica Zapelli e Peppe Fiore, si concentra sulla storia del Nucleo speciale antiterrorismo creato dal Generale Dalla Chiesa negli anni '70 per combattere le Brigate Rosse.

 E in questa storia ha un ruolo determinante Dora Fabbo, la prima moglie amatissima del generale Dalla Chiesa, morta d'infarto a soli 52 anni. Ad interpretarla è Teresa Saponangelo, tra le più richieste del momento tra cinema, tv e teatro.

 Infatti la troviamo tra una prova e l'altra del suo prossimo lavoro, l'operetta Il segreto del talento, scritta da Valeria Parrella, debutto il 26 gennaio a Napoli. Saponangelo, lei conosce il segreto del talento?

«È un interrogativo aperto. Non sai mai se lo incontrerai, è intangibile ma riconoscibile, è vero e semplice come l'amore, è autentico e misterioso.

 Non si capisce se è estemporaneo e folle o metodico e disciplinato. Per quanto mi riguarda io sono sempre alla ricerca dei colori forti, anche se oggi godo di una certa continuità, devo ammettere che sono stati i "no" a segnare il mio percorso. I no che determinano i generi, gli ambienti».

 Poi è arrivato Sorrentino con È stata la mano di Dio. E nulla è più stato come prima.

«Sorrentino arriva su una strada tracciata, ha fatto sì che il mio lavoro fosse messo sotto gli occhi di tutti. Concordavano gli elementi cardine: bellissimo ruolo, grande film, ottima produzione e distribuzione. Se uno solo di questi fattori viene a mancare, il grande successo manca».

Le è accaduto?

«Altri film bellissimi cui ho partecipato non hanno avuto la stessa risonanza, penso a Il buco in testa o Tutto l'amore che c'è. Mi sarebbe piaciuto se questa tempesta perfetta fosse arrivata 15 anni fa».

 Ci sono colleghe a cui pensa quando cita gli elementi cardine?

«Penso a Isabella Ragonese, a Claudia Pandolfi, a Sabrina Ferilli. Penso a Paolo Virzì che ha lanciato grandi nomi. La concomitanza di eventi per me è arrivata ora, con un autore, Sorrentino, seguito anche dalle nuove generazioni. Come lui solo Garrone».

 Con nuove generazioni intende gli adolescenti?

«Certo, i quindicenni. Mio figlio si vanta di me perché ho fatto un film con Sorrentino.

E questo perché i suoi amici lo conoscono. E loro solo adesso mi salutano».

 Che effetto le fa essere diventata interprete di riferimento?

«Tanto interesse mi inorgoglisce e mi restituisce forza. Mi permette di compiere delle scelte, anche di osare lavorando in onestà. Un po' mi fa anche sorridere. Il grande regista Antonio Capuano mi ha insegnato che anche gli inciampi sono scelte, che ti devi mettere in gioco e se smetti di cambiare, invecchi. Devi uscire fuori dai margini, sperimentare e in questo il teatro è insostituibile. Spielberg iniziava sempre ringraziando il pubblico in sala».

 Torniamo a Dora Dalla Chiesa. Costruire un personaggio vero è complicato. Sappiamo che lei si è molto affidata alla figlia Rita Dalla Chiesa.

«In una battuta illuminante, la figlia Simona dice: "Capire quale è il proprio posto è difficile". Lei era discretissima, donna presente, affettuosa senza smancerie, mai troppo calda ma solida. Adorata dal marito, l'unica con cui si confidava. Mi è servito molto parlare con Rita che ha aggiunto spaccati familiari che non conoscevamo capaci di restituire il senso di unione. Mia nonna paterna era così, donne di un tempo al confine con la modernità. Vigili, all'ascolto grazie alle spinte progressiste dei figli, sapendoli assecondare».

 Lei è single al momento?

Estratto dell’articolo di Massimo Galanto per ilmessaggero.it sabato 23 settembre 2023.

[…] Teo Mammucari racconta con trasporto il suo nuovo capitolo professionale, che dal 21 ottobre lo porterà a Ballando con le stelle, su Rai1. […] 

Cosa vorrebbe fare?

«A 59 anni voglio sperimentare. Ascolti alla mano, non ho sbagliato neanche un programma su Mediaset. Se pensassi solo ai soldi, sarei rimasto a Tu sì que vales e a Le Iene». «[…] Le Iene mi sono divertito, ma mi son ritrovato a fare i lanci di servizi. Essere pagato per fare questo non mi sta bene».

È vero che ha litigato con il capo de” Le Iene”, Davide Parenti?

«No».  

Lei ha un carattere forte. 

«Dice? Io ho carattere. Non rompo le scatole, sono uno vero. Non ho mai litigato con nessuno né a Tu sì que vales né a Le Iene». 

Parenti, interpellato sul suo addio al programma, spiegò: “Non voglio nuocere a nessuno e sto zitto”. 

«Ripeto: non ho litigato con Parenti, che invece ha litigato con tutti i conduttori de Le Iene. […] Quando sono andato via non l’ha presa bene. Di me diceva che ero il più bravo mai avuto». 

[…]

Da giurato di “Tu sì que vales” a concorrente di “Ballando”. Un passo indietro? 

«Il passo indietro lo fa chi lavora nello stesso posto da sempre perché non sa fare altro. Sei anni di Tu sì que vales in mezzo a De Filippi e Scotti - a cui sarò sempre grato - sono stati la consacrazione della mia carriera. Ma, amici di Mediaset, qual era l’alternativa?». 

Si spieghi.

«Mi dicevano: se fai Tu sì que vales anche quest’anno, ti diamo Le Iene. Ma Le Iene di oggi non hanno più bisogno di me. Allora ho chiesto a Mediaset: “Posso fare un programma mio?”». 

Risposta? 

«Mi hanno chiesto di fargli uno sconto economico». 

Prego? 

«Uno sconto rispetto ai soldi che dovevo prendere. “Ma come, non dobbiamo parlare del programma?”. Non è questione di soldi, ma se non ti danno un programma ti dovrebbero spiegare perché. Soprattutto se gente come Enrico Papi continua ad avere spazio anche senza risultati. Io perché non vengo considerato? Pier Silvio Berlusconi alla presentazione dei palinsesti ha detto: “Tra le novità c’è che Gerry Scotti farà...”. […] “La Ruota della Fortuna”. Mi si è gelato il sangue. È uno scherzo? Se al popolino vogliamo dare la solita pappa per 30 anni va bene, ma non si chieda a un artista come me perché cambia».

Problemi con Pier Silvio? 

«Nessuno. L’ho visto una volta, è stato nobile e cortese. Gli devo solo dire grazie. Glielo sto dicendo da due ore: non ho mai avuto problemi, mai un litigio in studio in 25 anni di carriera».

[…]

E dopo “Ballando”? 

«Proporrò cose mie, spero di trovare ulteriori spazi su Rai1 o Rai2». 

Pochi giorni dopo il suo addio a Mediaset è morto Silvio Berlusconi. 

«Un uomo dall’intelligenza unica, lo ringrazio tutti i giorni. Ha creato un impero. Ma oggi il futuro sono il Grande Fratello e La Ruota della Fortuna. Capisce?».

Estratto dell’articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” il 10 maggio 2023. 

Più bella cosa non c’è. Non è Eros Ramazzotti ma il titolo dello spettacolo che segna il ritorno a teatro di Teo Mammucari, 58 anni da quasi trent’anni sulle scene, un terzo dei quali trascorsi nel gruppo de Le Iene. 

«Ho lasciato Le Iene e mi hanno detto che ero matto ma in realtà avevo solo altre esigenze come quella di riprendere il racconto e il confronto col pubblico a teatro interrotto per vent’anni dalla televisione. 

Non si tratta assolutamente di un ripiego ma di una scelta artistica fatta mentre in tv conducevo la più vista trasmissione di Italia 1 e Tu si que vales su Canale 5. Ho chiesto a Italia 1 di darmi un programma tutto mio. Ho presentato un progetto. Mi hanno detto che stanno valutando. Quando saranno pronti, la porta è aperta da entrambi i lati. Però se per me non ci sono spazi per fare cose nuove, preferisco rinunciare anche a quelle vecchie e tornare a fare teatro».

[…] Cosa c’è a teatro che in tv le è mancato?

«La tv è il paese dei balocchi. La gente è pagata per battere le mani. Mi sono sempre chiesto ad esempio a cosa serva lo scaldapubblico. Ci penso io a scaldare il pubblico! A teatro invece pagano per venirti a vedere.  […]». 

Però da Le Iene è sparito davvero all’improvviso dopo molti anni. Ci vuole raccontare quello che è successo?

«Ho iniziato 25 anni fa come inviato. Feci un anno di successo come intervistatore, poi chiesi almeno cento euro di aumento perché non ci rientravo con le spese. Mi dissero no e arrivò Giovanni Benincasa che mi propose un programma da fare con un pigiama addosso. Lì nacque Libero. Che io portai a Mediaset ma loro mi dissero che non erano interessati. Poi ricordo che ne parlai con Carlo Freccero, allora direttore di RaiDue e mi disse una frase che mi riempì di gioia il cuore: sono schiavo della tua potenza. 

Così feci Libero per due stagioni e fu un grande successo da cui capii che dovevo seguire sempre il mio destino. Altri colleghi come la Cortellesi, Siani e Max Giusti che hanno fatto le edizioni successive non hanno avuto lo stesso successo perché serviva quel tipo di umorismo che definiscono cinico anche se io non mi sento cinico, ma solo un attore.

Poi sono tornato a fare il conduttore a Le Iene per cinque anni. Chiesi Belen Rodriguez che secondo me era la persona giusta e non sbagliai. Però poi mi sono reso conto che stavo facendo da dieci anni i lanci e che stavo perdendo l’entusiasmo ed era ora, sia pure con molto dispiacere, di lasciare spazio a chi aveva più entusiasmo di me». 

Quindi nessun contratto firmato di puntata in puntata e nessuna lite con Davide Parenti?

«Davide Parenti ha litigato con tutti i conduttori che esistono. Non lo dico io ma i giornali. Io però non ho litigato con lui. Il contratto per l’edizione di quest’anno non lo avevo in realtà ancora firmato, per cui colsi l’occasione e quella mancanza di entusiasmo che sentii per andare a parlargli. 

È chiaro che sentirselo dire così non piace a nessuno. Però era giusto lasciare a chi in quel momento aveva più entusiasmo di me che sta facendo molto bene. Auguro loro di provare tutte le emozioni che Le Iene hanno dato a me. È un programma che ti lascia molto in ogni puntata in termini di esperienze e di racconto. Perché poi alla fine a Le Iene il successo dipende dagli inviati».

Quindi dove la vedremo?

«Dove mi offriranno la possibilità di fare un programma mio e di continuare a fare teatro. Le persone me lo chiedono e io chiedo a Mediaset chi c’è più adatto di me a Italia 1? In questo momento la rete sta puntando su altri nomi ma credo che alla fine l’onestà di pensiero paghi. Io se spengo la tv non resto a casa a fare la lana».

Teo Mammuccari a "Le Iene": «Quando ti separi devi pensare ai figli». Federica Bandirali su Il Corriere della Sera l’11 gennaio 2023

Il conduttore del programma di Italia1 racconta, in un monologo, il suo punto di vista dopo la separazione. E ha lanciato un appello ai papà nelle sue stesse condizioni: “Non cercate rivincite”.

Teo Mammuccari, conduttore de "Le Iene", si è lasciato andare a un monologo personale, legati anche alla sua situazione dopo la separazione dalla compagna , l’ex velina Thais Wiggers. Mammuccari è padre di una bambina, Julia, che non ha potuto vedere per tre anni: "Quando due persone che hanno un figlio e si separano si soffre sempre - ha detto il conduttore durante la trasmissione su Italia1 -, perché è difficile in quella situazione dare il meglio di sé. Io sono stato travolto, avevo meno sicurezze di lei, perché la mamma è sempre la mamma, ma anche un padre è sempre un padre mi ripetevo, ma non suonava altrettanto bene".

«Bisogna pensare ai figli»

Il volto televisivo (molto amato anche sui social) confessato la sua sofferenza in quella situazione: "Una volta mia figlia mi ha detto: papà è colpa mia, se non ci fossi stata io non avresti avuto questi problemi - ha raccontato davanti alle telecamere -. Eh no, amore mio, no, tu non sei il problema, sei la mia forza. Ecco è lì che ho capito che quando ti separi non devi pensare ai tuoi problemi, devi pensare ai figli, è solo così che puoi essere un buon genitore, io certo di esserlo tutti i giorni, anche grazie alla mamma che dopo quei tre anni in Brasile ha capito che non poteva essere una buona madre negandomi la possibilità di essere un buon padre, non tutti hanno la sua sensibilità, lo capisco, non tutti hanno la mia fortuna". In chiusura, Mammuccari non si è risparmiato e ha lanciato un appello a chi è nella stessa situazione: A tutti i papà voglio dire non cercate rivincite, non pensate ai vostri problemi, pensate ai vostri figli".

Teo Mammucari, il monologo alle 'Iene' sui papà separati: "Non ho visto la mia Julia per tre anni". Giovanni Gagliardi su La Repubblica l’11 Gennaio 2023.

Il conduttore ha parlato delle difficoltà che ha avuto, come padre di una bambina dopo la rottura con la ex velina Thais Souza Wiggers. "A tutti i papà voglio dire: non cercate rivincite, non pensate ai vostri problemi, pensate ai vostri figli"

"Quando due persone che hanno un figlio e si separano si soffre sempre". Ha esordito così Teo Mammucari alle Iene. Lo showman ha lasciato per qualche minuto il ruolo di conduttore del programma ed è diventato protagonista del consueto monologo della trasmissione di Italia1, per parlare della sua vicenda personale di padre separato.

Dal 2006 al 2009 il conduttore è stato legato alla ex velina Thais Souza Wiggers. Dalla loro relazione è nata nel 2008 la piccola Julia. Nel corso del monologo ha raccontato di non aver potuto vedere la bimba per tre anni. Poi, l'appello finale a chi si trova a dover affrontare la stessa situazione: "A tutti i papà voglio dire non cercate rivincite, non pensate ai vostri problemi, pensate ai vostri figli".

Il monologo integrale di Teo Mammuccari

"Dunque, quando due persone che hanno un figlio si separano si soffre sempre, perché è difficile in quella situazione dare il meglio di sé. Io sono stato travolto, avevo meno sicurezze di lei e molte più paure perché 'la mamma è sempre la mamma', ma anche un padre è sempre un padre mi ripetevo, ma non suonava altrettanto bene".

"Non ho visto mia figlia Jiulia per tre anni, era in Brasile con sua mamma, 'la mamma è sempre la mamma' e una volta mi ha detto 'papà è colpa mia se non ci fossi stata io non avresti avuto questi problemi'".

"Eh no, amore mio, no, tu non sei il problema, sei la mia forza. Ecco è lì che ho capito che quando ti separi non devi pensare ai tuoi problemi, devi pensare ai figli, è solo così che puoi essere un buon genitore, io cerco di esserlo tutti i giorni, anche grazie alla mamma che dopo quei tre anni in Brasile ha capito che non poteva essere una buona madre negandomi la possibilità di essere un buon padre, non tutte hanno la sua sensibilità, lo capisco, non tutti hanno la mia fortuna, ma a tutti i papà voglio dire: non cercate rivincite, non pensate ai vostri problemi, pensate ai vostri figli".

Estratto dell'articolo di Andrea Scarpa per “il Messaggero” il 9 gennaio 2023.

 Martedì sera torna a condurre Le Iene con Belén Rodriguez - stessa spiaggia, stesso mare: Italia 1, ore 21.20 - ma in testa Teo Mammucari, 58 anni compiuti il 12 agosto, una figlia 14enne di nome Julia (avuta dall'ex Velina di Striscia la notizia Thais Souza Wiggers, brasiliana, 37), ha tanti altre progetti. Per esempio, un film. (...)

 È vero che ha una nuova fidanzata?

«Sì. È un maresciallo ordinario dell'esercito, una cavallerizza. L'ho conosciuta per strada, poi ci siamo rivisti un mese dopo a Bologna e lì è nato tutto. Stiamo insieme da un anno.

Lei ne ha trenta».

 Ancora?

«Non avrei voluto un'altra così giovane, io stavo corteggiando una della mia età, un'attrice anche conosciuta».

E chi è?

«Non si dice, è sposata. Io cercavo solo una storia di sesso, e poi è arrivata la marescialla...».

 Quanto ha pagato la fama?

«Tanto. Raffaella Carrà, con la quale giocavo a carte a casa sua, mi diceva che le persone si vedono nel momento del successo non del bisogno. E aveva ragione.

A un certo punto la gente intorno a te sparisce e quando ti rivede dice: Non ti ho chiamato perché non ti volevo disturbare. Ma che amico sei se pensi di disturbare?».

 E i parenti?

«Lasciamo stare. È scontato dover aiutare tutti. Devi sempre dare ed essere a disposizione. Diventi un bancomat. E poi ci sono i social, dove tutti possono dire qualsiasi assurdità: Mammucari è cattivo, è cinico, parla male di quello, pippa la cocaina... Una volta in un bar uno sconosciuto mi ha preso per un braccio minacciandomi perché aveva letto chissà cosa. L'ho fatto scappare. Non sono mica Cristiano Malgioglio».

 Cosa c'è voluto per arrivare fin qui?

«Tanto lavoro. Il successo è guadagnare con il lavoro che amo, cosa che mi riusciva anche quando facevo quattro serate al mese in un cabaret. Per me, del resto, la regola del gol di rimpallo è sacra».

 Cioè?

«Bisogna farsi sempre trovare sotto la porta. Una volta, invitato al matrimonio di un caro amico, mi sveglio con la febbre alta e gli dico: Scusa, ma vengo alla cerimonia e poi torno a letto. In chiesa non si respirava dal caldo, durante la cerimonia glielo dico al prete - altrimenti sarei svenuto - e davanti a me si gira Maria De Filippi, che non conoscevo e non sapevo fosse lì, e mi dice: Quanto sei scemo, e si mette a ridere.

 Poi me ne vado a casa e dopo venti minuti lei mi chiama e mi offre di fare Tu Sì Que Vales. Secondo me non mi avrebbe mai preso se non mi avesse visto in quel modo e non avesse visto che sono uno normale che scherza sempre».

Ha raccolto il giusto?

«Non lo so. Di sicuro mi manca un programma tutto mio. Qualcosa come Libero dove poter fare il mattatore».

 E perché non ce l'ha?

«Ormai si fanno solo format già rodati. Non si rischia più».

 È vero che nel 2002 Baudo le promise il Dopofestival di Sanremo e poi lo fece il giornalista Rai Francesco Giorgino?

«Baudo, per me un mito, mi convocò per comunicarmi che l'avrei fatto io. Diamoci la mano, mi disse, e non dirlo a nessuno. Io andai in vacanza alle Mauritius e quando tornai non ci fu verso di parlargli. Sparito. Poi annunciarono Giorgino e Baudo, a chi gli chiedeva di me nelle interviste, diceva: È Mammucari che si è proposto. Ci rimasi malissimo. Mi servì per capire che in questo mondo si chiacchiera tanto».

E lei che fa?

«Io vengo dalla strada. Certe cose non le faccio. Sono cresciuto in collegio. Eravamo quattro figli, i miei si separarono, e non c'erano soldi a sufficienza».

 Cosa salva di quell'esperienza?

«Tutto. Ho toccato il fondo e ho vissuto momenti terribili, ma so che tutta quella sofferenza mi ha aiutato ad accettare il brutto e il bello della vita. Io per i primi 35 anni ho avuto la parte peggiore e dopo la migliore. Ma non mi chieda i particolari perché è roba passata e non mi va di ritornarci».

 La cosa più imbarazzante che le ha detto sua figlia?

«Papà, lo so che devi sopportare tutto questo con mamma per colpa mia... Se non ci fossi stata io tu non avresti avuto questi problemi».

 E lei?

«Che dici, Julia? È vero il contrario. Tu sei stata la mia salvezza. Grazie a te sono padre e senza di te non avrei mai avuto questa crescita come uomo».

 La cazzata della vita?

«Le mie? Tante. Però adesso mi viene in mente l'ex direttore di Rai1 Fabrizio Del Noce. Nel 2008 con Raffaella Carrà e Sergio Japino gli portammo un mio progetto identico a Lol. Lui ci riceve, gli piace, e dice a Raffa: Portami questo Mammucari. E lei: Direttore, è lui. Allora Del Noce esce dal suo ufficio e sparisce. È finita lì».

 A chi deve gratitudine?

 «A chi mi ha ringraziato per quello che faccio e ai miei nemici. Per esempio, ricordo che mio padre, mio zio e mio fratello maggiore mi dicevano: Dove credi di andare? Sei il figlio di un pavimentista, la conosci la canzone uno su mille ce la fa?. Ecco, quelle cattiverie mi hanno dato forza».

 Ha ancora rapporti con loro?

«Non è importante. Con la fama, l'ho detto prima, non sei più una persona, tutto è dovuto».

 Dove vive?

 «Da due anni a Fregene, al mare. La vita voglio godermela e stare con mia figlia, gli amici, la fidanzata. Voglio ridere».

Teo Teocoli. Estratto dell'articolo di Franco Giubilei per “Specchio – La Stampa” il 21 maggio 2023.

Da buon comico nasconde uno sguardo malinconico sulla realtà che affiora non tanto dalla nostalgia per un mondo ormai estinto, quello del “suo” Derby, di Jannacci e Cochi e Renato, della Milan col coeur in man. È più la Milano di oggi ad apparirgli irriconoscibile, vuota di vita la sera in centro e assediata di pullman di visitatori mordi e fuggi di giorno: «Non c’è neanche un cabaret, il Teatro Lirico sembra una gelateria, i cinema sono scomparsi, ci sono le multisala che sono un bordello dove devi prenotare il posto», brontola l’attore. Avendo vissuto gli Anni 60 della minigonna e del musical Hair dove recitava con Loredana Bertè e Renato Zero, quando a fine show restavano nudi sul palco, e poi la Milano da bere con le tv di Berlusconi e le spaghettate con Craxi, il panorama attuale deve sembragli ben più scialbo. 

(...) 

Una passione, il Milan, che condivideva con Enzo Jannacci.

«Andavo tante volte a prenderlo a casa e l’ultima volta che è venuto a vedere una partita portò Paolino, il figlio. I biglietti omaggio me li dava Cesare Maldini, una volta obiettai “Ma questi sono popolari...”, e lui: “Che cazzo, vuoi andare in tribuna d’onore?”». 

Anche Abatantuono faceva parte di quel giro lì.

«Il Derby, lo storico locale del cabaret, era milanista. Andavamo in gruppo allo stadio: quando segnava il Milan e Diego, che era più in basso di noi, si voltava ad esultare, facevamo finta di non conoscerlo». 

Lei però non ha cominciato da attore, faceva il ballerino e ha pure rischiato di entrare nella Pfm come cantante.

«Da ragazzo ero un campioncino di rock’n’roll nel mio quartiere, zona Niguarda, periferia nord di Milano. Saper ballare dava già un vantaggio, perché le ragazze stavano con chi ballava meglio. C’erano i filarini, sesso poco se non eri fidanzato in casa, e anche lì... Poi arrivò l’era Celentano, quando entrai nel Clan, e fu una strage, anche perché io somigliavo molto ad Adriano, e Adriano allora era come Elvis».

E con la musica invece come andò a finire? Il progressive rock non faceva per lei?

«Con la Pfm, che allora si chiamava “I Quelli”, ci fu un’operazione di onestà: all’inizio mi proposi io come cantante e consigliai loro la musica di Wilson Pickett e Otis Redding perché facevano pezzi come Mr. Tambourine man, ma quel che mi fece cambiare idea sulla mia carriera di cantante era che loro, Di Ciocco, Mussida e gli altri, come gruppo miglioravano giorno per giorno, io invece non mi ricordavo le parole, anche perché andavo sempre a donne. Avevo tutte le carte per diventare un cantante, ma fin dalle elementari facevo sempre ridere tutti... Dopo la Pfm andai al Clan di Celentano. Adriano aveva una ragazza, usciva poco di casa ed era molto religioso». 

(...) 

Come andò con Loredana Bertè e Mia Martini, nella sua vita precedente?

«Con Loredana e Renato Zero nel 1969 facevamo a teatro Hair, il musical che portava a libertà e sesso. Alla fine dello spettacolo ci spogliavamo nudi sul palco con le braccia in aria cantando Let the sunshine in, eravamo molto disinibiti. Ogni tanto nella “tribù” della compagnia si formava una coppietta. Con Loredana era cominciata così. Poi una sera alla Bussola venne Mimì (la Martini) e mi disse che Loredana stava male a causa mia. Abbiamo parlato, ci siamo rivisti a Milano ed è stato un periodo molto bello con lei, ascoltavamo molta musica insieme. Una ragazza straordinaria per il suo carattere dolce, ma un po’ sfortunata». 

E Renato Zero?

«Non faceva che comporre canzoni, non ne potevamo più di sentirlo, così una volta lo chiudemmo in un bagno e gli passammo la chitarra dall’alto, in modo che si sfogasse lì».

(...) 

Quale l’incontro che l’ha avviata alla vita da attor comico?

«Dopo Hair, in centro a Milano incontro tre pazzi: Jannacci, Cochi e Renato, che avevano un dolcevita e cercavano di allargarselo a vicenda per rovinarselo. Di Enzo non si capiva niente quando parlava, come sempre, poi una volta mi tenne un’ora al telefono prima che capissi cosa voleva: era una commedia a teatro, Saltimbanchi si muore, con Lino Toffolo. Poi capitai per caso al Derby, dove si ballava, c’era il jazz, comici, musicisti: Enzo, Gaber, Lauzi, Bindi, Paoli. Vivevo di notte, tornavo a casa alle cinque del mattino». 

Massimo Boldi era un altro della compagnia del Derby.

«Ci faceva molto ridere, era scemo... L’ho anche lanciato, io e lui eravamo Stanlio e Ollio, gli ho dato tanti di quei coppini sul collo... Lui poi però ha preferito i film con Christian De Sica». 

Dalla Milano del Derby si è passati abbastanza in fretta alla Milano da bere di Berlusconi, come trovava il Cavaliere?

«Era un brianzolo, e non per scherzo. Sa quelli che venivano di sabato a Milano e si diceva che venivano giù con la piena? Noi eravamo un po’ più spiritosi, lui invece raccontava barzellette. In compenso pagava moltissimo chi lavorava per lui, era molto generoso, non so poi perché avesse tutti questi soldi, non ho mai indagato». 

C’è un episodio in particolare che le è rimasto impresso?

«Una volta ci siamo detti una battuta, lui se l’è presa e mi ha mandato fuori di casa. Voleva farmi fare una cosa che non stava né in cielo né in terra e io gli avevo risposto: “Lei faccia Milano 2 e Milano 3, i quartieri residenziali che costruiva, che l’artista lo faccio io”. Si offese e mi mandò fuori casa. Ero diventato un appestato, ma lui mi voleva nella sua tv perché riconosceva che ero bravo e mi fece richiamare».

Bettino Craxi era amico suo?

«Sì eravamo amici e io ero craxiano, la sera ci trovavamo a cantare L’uselin della comare e poi finiva con una spaghettata, una cenetta». 

La Gialappa’s Band per la prima volta fece ridere del calcio, che fino ad allora era rimasto una specie di santuario: come nacque l’esperienza?

«Loro lavoravano in una radio ed erano aiuto-autori ai tempi di Emilio, il programma che facevo alla Finivest, scrivevano battute di sport. A quel tempo c’era già il personaggio di Peo Pericoli. Santin, uno dei tre, si fracassò il ginocchio e per due anni divenni il terzo uomo della Gialappa. In seguito arrivarono anche Albanese, Aldo Giovanni e Giacomo e altri che hanno fatto strada. Poi io feci Maldini e scelsi Quelli che il calcio di Fazio, il rabbino».

Come “il rabbino”...

«Perché ne ha l’aspetto, così come Pioli è “padre Pioli”, perché sembra il prete che stava una volta all’oratorio». 

Da Pioli al nuovo stadio del Milan è un passo: non le dispiace che demoliscano San Siro, sempre che il progetto di un nuovo impianto venga approvato?

«Che lo demoliscano, non me ne frega un cazzo, tanto a Milano buttano giù tutto e butteranno giù anche lo stadio, come ogni cosa. Piuttosto ho chiesto al sindaco Sala perché a Milano, la città del Derby, non ci sia un cabaret e lui mi ha risposto che non è il suo lavoro. Mi sembra non abbia alcun contatto con la gente, poi magari è bravo, ma parla come un ragioniere».

(...)

Tiberio Timperi: «Mike Bongiorno mi fece felice con una lettera. La tv mi ha deluso». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 21 febbraio 2023.

Il conduttore di «Unomattina: «Non ho tanti amici e avrei voluto dei fratelli. Dovrebbero rifare Agenzia matrimoniale per chi resta single dopo i 50 anni come è successo a me»

«Sono cresciuto con il Libro cuore di De Amicis, con valori un po’ polverosi, odorosi di arsenico e vecchi merletti. Se a questo si aggiunge che amo la giustizia, sono onesto fino all’autolesionismo e anche testardo, ecco che si crea una miscela esplosiva». Quella miscela, in Tiberio Timperi prevede anche un certo cinismo stemperato da una buona dose di ironia e una sensibilità che, però, trasmette anche altro. Un po’ di delusione, ad esempio.

È così?

«Sono molto deluso dal genere umano, sì. Sin da piccolo mi chiamavano Tiberio il vecchio, ma io non sono mai riuscito a fregarmene delle cose sbagliate che vedo, non ce la faccio a buttare tutto alle spalle e far finta di niente».

«Tiberio il vecchio» si nasce o si diventa?

«Tanto dipende dall’educazione che ho ricevuto dai miei genitori: erano molto onesti, dialettici, mi hanno trasmesso certi valori. Sono stato un figlio unico e oggi dico che non mi dispiacerebbe essere chiamato da un notaio e sapere che in realtà non sono solo. Avrei voluto avere dei fratelli, qualcuno a cui chiedere: ti ricordi se ho avuto il morbillo?».

Non avere fratelli l’ha caratterizzata tanto?

«Sono abituato a cavarmela da solo, ma del resto nasciamo soli e moriamo soli. C’è una sorta di ottimismo nero nella consapevolezza che la vita non è giusta e il tempo non è galantuomo».

L’ottimismo un po’ sfugge.

«Allora definiamolo un velo di affettuosa malinconia».

Sente di non essere stato del tutto capito professionalmente?

«Credo di avere un potenziale che non è stato esplorato nella sua totalità. Ma, appunto, capita. Diciamo che ultimamente c’è sempre meno voglia di rischiare ma piuttosto si va sull’usato sicuro. Io so tutto quello che ho fatto».

La sua carriera televisiva prosegue da oltre trent’anni.

«Il merito mi ha portato fino a un certo punto ma poi lì mi sono fermato. La mia incapacità di andare a cena o fare pubbliche relazioni ha pesato. Se mi dicono di fare qualcosa per forza io soffro. Ahimé, amo la montagna».

Come ricorda i suoi inizi?

«Dopo la radio, la mia prima passione, sono approdato a Telemontecarlo mentre in Rai sono arrivato con un provino, cosa impensabile nell’era delle pubbliche relazioni sulle terrazze romane. Tra le cose di cui vado fiero, l’aver lanciato la serata delle cover in Sanremo top: sfido chiunque a dimostrare che non andò così. Poi altri hanno usato l’idea».

La bellezza, per lei, ha avuto un peso?

«Certo. Una volta si privilegiavano persone che oltre ad avere qualcosa da dire proponessero anche un certo garbo e la famosa bella presenza. Io però non mi sono mai sentito bello: fino a una certa età ero piuttosto cicciottello e brufoloso, mi piaceva fare casino in compagnia ma non conquistavo le ragazze facilmente».

Eppure tra i suoi amori c’è anche il sogno di molti, Natasha Hovey.

«Avevo letto una sua intervista in cui diceva che cercava il principe azzurro e faceva un elenco delle sue caratteristiche: mi ci ritrovavo. Dovevo andare al Costanzo Show in una puntata in cui c’era anche lei, ma Fede (era l’epoca del Tg4) non mi diede il via libera. Feci in modo allora di avere il suo numero... che dire, è stato un bel periodo, ho un ricordo bellissimo, di una ragazza dalla dolcezza unica. Ogni volta che rivedo Acqua e sapone penso a noi a Campo de’ Fiori».

Vede che è un romantico?

«Un romantico che strada facendo si è incastrato in una serie di sovrastrutture. Ho dovuto remare e infine sono entrato anche in tempesta: qualche albero è crollato ma sono un sopravvissuto. E quando le cose vanno male, capisci anche quanto vali. Ma mi restano dei graffi nel cuore, non solo sulla pelle».

Il riferimento è al suo doloroso divorzio?

«Da un certo momento in poi la mia vita ha preso un’altra direzione: è stato molto, molto pesante, ma va bene così. Ho altre fortune, come non lavorare: di fatto assecondo solo la mia passione. I miei amici di recente mi hanno detto: Tiberio, tu rispetto a noi hai realizzato i tuoi sogni. È una gran cosa avere chi te lo ricorda. Ho passato 15, 18 anni che avrebbero ucciso chiunque, ma ora ne sono uscito: bruciacchiato, tumefatto, ma ci sono ancora».

Professionalmente chi ha creduto in lei?

«Michele Guardì, Ballandi e Jocelyn, un genio della tv che dovrebbe avere ancora un posto, visto che nel nostro mestiere non si invecchia, ma si acquisisce esperienza. Ho avuto la fortuna di conoscere grandi come Corrado, Rispoli, Raffaella Carrà, con me sempre prodiga di consigli».

Ce ne dica uno.

«Mi disse che in tv non contava quanto parlassi: bastava una battuta, ma detta bene e al momento giusto per fare la differenza».

Ha lavorato anche con Mike Bongiorno.

«Una persona deliziosa, preciso sul lavoro ma anche un signore: quando finimmo di lavorare mi mandò una lettera per dirmi che si era trovato bene con me e mi augurava tanta fortuna. Fu una grande gioia riceverla, sulla sua carta intestata... chi farebbe più oggi una cosa così».

Il suo primo amore, però, è stata la radio.

«In radio gli occhi verdi non servono ma la parlantina sì. Resto convinto che anche in tv chi ha fatto radio abbia una marcia in più. Mi manca moltissimo ma se non me la fanno fare non è colpa mia: non c’è trippa per gatti».

E come mai?

«O non sono simpatico o non appartengo a un certo giro. Ma non credo di aver disimparato. Anzi, nel corso degli anni si ha sempre qualcosa in più da dire, lo dimostra bene Linus che è la Rolls-Royce dei radiofonici».

Non la ritengono simpatico, quindi?

«Sono simpatico ma ho i miei tempi per aprirmi e ormai vanno tutti di fretta... Inoltre porto sempre in dote la mia sincerità e le mie competenza ma a volte servono altre qualità. Ho il difetto di non essere ipocrita, non lubrifico i contatti umani in base alla professione».

Ha pochi amici?

«Quelli di sempre, che per definizione sono pochi. Un ex compagno di banco del liceo, due amiche di infanzia, un mio ex direttore di Telemontecarlo. Direi basta».

Come andava a scuola?

«Una volta i genitori non avevano aspettative sui figli se non che arrivassero ad avere in mano il famoso pezzo di carta della laurea. Io non ho dato loro questa gioia perché a 14 anni ho iniziato a lavorare nelle radio private. A scuola la mia epifania l’ho avuta durante le recite: ero molto bravo e mi dicevano “dovresti fare l’attore”».

Invece è diventato un giornalista.

«Si ma per caso. Aver sempre prodotto contenuti per la radio mi ha aiutato a diventarlo: mi sono laureato sul campo. Comunque mi sono anche divertito come attore, doppiatore, conduttore. Dove ho potuto, mi sono espresso».

E ora?

«Il meglio potrebbe ancora venire? Arrendersi mai, crederci sempre. Certo devi trovare qualcuno che punti su di te. Io continuo ad aspettare, sperando di non essere patetico. Mi piacerebbe veder realizzata una mia idea, anziché assistere al proliferare di format stranieri. Sarebbe bello se a viale Mazzini, anche in uno scantinato, ci fosse una stanza dove tutti noi conduttori potessimo confrontarci. Tra tante cavolate magari uscirebbe anche qualcosa di buono».

Ecco l’ottimismo.

«Ci sono cose in credo anche se vedo una società totalmente rintronata dai social. Una volta si usciva, oggi i ragazzi se ne stanno a casa, non lottano neanche più per avere il motorino perché tanto stanno chiusi in camera. L’immaginazione è stata uccisa: tutto è a disposizione, basta un clic. Ma niente sedimenta».

Lei però è sui social.

«Sì ma non amo lo smartphone, voglio il contatto umano. Sono rimasto quello che faceva casino nel gruppo. Solo che a 58 anni sei più disincantato: hai incassato le delusioni, le scorrettezze e capito che la vita non è giusta. Mio padre lo diceva sempre, peccato averlo capito solo dopo. I padri si capiscono sempre dopo».

È stato davvero così per lei? Sente di aver capito solo dopo suo padre?

«Nel tempo ho realizzato che aveva ragione su tutto. Lui era di quella generazione che non ti erigeva monumenti per le cose buone che facevi. Insomma, non mi ha mai dato grandi soddisfazioni a parole ma dopo la sua morte ho trovato una collezione di suoi ritagli con tutti i giornali che parlavano di me. Non me lo aspettavo».

Cosa direbbe oggi a quel ragazzino con grandi valori che faceva divertire i suoi compagni?

«Gi direi: dovrai attraversare mareggiate e tempeste, ma tranquillo, comunque ne uscirai fuori, le cose andranno di nuovo bene. Ci penso ogni sera a quello che è stato, quando vivo le giornate serene di oggi».

Le piacerebbe innamorarsi di nuovo?

«Dovrebbero rifare Agenzia matrimoniale per quelli che si separano a 50 anni. Lo penso seriamente, perché se succede, a quel punto che fai? Se vai in discoteca potrebbero essere tutti tuoi figli: cosa racconto a una di 25 anni? Sarei ridicolo. Inoltre, nel mio caso, c’è il rischio di essere avvicinato per quello che rappresento: molte sono interessate alla scatola, diventi sospettoso. Spero sempre che la vita mi sorprenda quando meno me lo aspetto ma, in generale, tutti si cercano, pochi si trovano e molti si accontentano: io non ho intenzione di accontentarmi».

Di nuovo il pessimismo?

«Il contrario: vivo solo da una vita proprio perché credo che ci sia un’anima gemella. Scendere a compromessi non fa parte del mio vocabolario: non nel lavoro e nemmeno nella vita privata. Da solo sto bene: se mi devo mettere con una persona devo stare meglio».

Estratto dell'articolo di Chiara Maffioletti per corriere.it mercoledì 11 ottobre 2023.

C’è chi dirige dei film e chi crea dei mondi. Quello di Tim Burton è fatto di licantropi e teschi che sorridono, di cani con le corna, bambole sfregiate e ragazzi con delle lame al posto delle mani. Un mondo di reietti, con i quali, giura il regista, ancora oggi si identifica: «È incredibile come il tempo passi ma alcune cose rimangano le stesse: oggi sono felice, me la cavicchio con la vita, eppure la sensazione di essere ancora quell’adolescente incompreso non mi abbandona».

Incredibile lo è davvero, perché ora quell’adolescente è un regista di 65 anni con i capelli scompigliati e i modi gentili, che ha segnato la cultura pop con storie e personaggi che hanno ribaltato prospettive e punti di vista (inoltre è un outsider fidanzato con la più bella tra le belle, Monica Bellucci. Ma l’argomento è vietato, ndr). Il suo lavoro, poi, è al centro di una mostra itinerante che da oggi fino ad aprile si fonde con la Mole Antonelliana, a Torino.

[…] 

Da Edward mani di forbice a Mercoledì, come sono cambiati i ragazzi?

«Sono molto simili, a modo loro. Mercoledì è un personaggio che mi ha parlato, a cui mi sento affine. Stiamo girando la seconda stagione. Il mio sentirmi vicino a questi soggetti credo dipenda dal fatto che io quei sentimenti è come se li avessi vissuti ieri. Ricordo la pena e il dolore che si prova quando sei a scuola e ti senti solo. Anche se cambi, restano in te, nel del tuo dna».

[…]

E se non fosse diventato un regista?

«Probabilmente sarei diventato un serial killer».

La chiamano tutti «genio». Che effetto le fa?

«Non tutti dai, ci sono un sacco di persone che mi chiamano in un altro modo». 

Eppure stanno anche girando una serie su di lei.

«È vero ma cerco di non curarmene. A casa copro anche gli specchi talmente non mi interessa guardarmi, quindi, anche qui, lascio fare a loro». 

Le dispiace non aver mai vinto un Oscar?

«No, davvero. Non sono materialista, va bene così».

I soggetti dei suoi disegni della mostra sono pipistrelli, scheletri, persone trafitte da punti di sutura. Eppure dalla mostruosità emerge una certa allegria, di fondo.

«Perché le cose che mi hanno spaventato, e da sempre, sono altre: mi spaventava moltissimo alzarmi tutti i giorni e andare a scuola, oppure mi terrificavano alcune persone della mia famiglia: mi rendevano nervoso».

[…]

C’è qualche film che l’ha influenzata particolarmente?

«Sono cresciuto amando gli horror, tipo quelli di Mario Bava. Apprezzo Fellini. I film mi hanno aiutato ad affrontare la vita, psicologicamente: mi hanno spiegato come superare certi momenti». 

Un film che non rifarebbe?

«Non rimpiango nulla. Le cose non straordinarie che ho fatto erano comunque parte di un momento, bene così. Mi sento vicino a tutti i miei film: ognuno era parte di me».

Estratto dell'articolo di Stefano Lorenzetto per il Corriere della Sera il 29 giugno 2023.

Colpito ad aprile 2010 da emorragia cerebrale a Marostica e ricoverato all’ospedale di Vicenza, Tinto Brass voleva buttarsi di sotto, «dal terzo o quarto piano , avrei preceduto di sette mesi Mario Monicelli». 

Era privo di memoria e parola. Ma, a differenza del regista di Amici miei, gli restava accanto una donna che lo amava, Caterina Varzi. E quando l’indomani lei si presentò in camera con un lettore cd e gli fece ascoltare «Le déserteur» di Boris Vian, già scelto come colonna sonora del film Ziva. L’isola che non c’è di cui doveva essere la protagonista, ritrovò ricordi e favella. E rinunciò al suicidio. 

C’è questa solare avvocata calabrese dietro la resurrezione del «meraviglioso cantore del culo» (ipse dixit), che si considera simmetrico erede di Giorgio Baffo, poeta pornografo nella Venezia del Settecento, definito dal critico Guido Almansi «meraviglioso cantore della mona», come racconta in Una passione libera (Marsilio), scritto a quattro mani con la propria musa ispiratrice. Dal 2017 anche moglie. «Non ho mai consumato».

Non posso crederci.

«La conobbi nel 2007. Mi rapì lo sguardo malinconico, sembrava Silvana Mangano. Sono guarito con i suoi spogliarelli alla Kim Basinger, toccavo il suo corpo nudo».

Una luce nel buio.

«Non sapevo di aver girato La chiave , non riconoscevo Stefania Sandrelli, Serena Grandi, Anna Ammirati e Vanessa Redgrave, così eccitabile che nelle scene di sesso con Franco Nero in La vacanza le si gonfiavano le labbra».

Però ricordava Caterina.

«Dipenderà dal fatto che è psicoanalista junghiana, allieva di Aldo Carotenuto, e voleva cercarmi l’anima».

Che però Brass non ha.

«Se mai l’ho avuta, la vendetti tanti anni fa. Le ho detto subito: cara, scordati di frugare nelle mie ossessioni. Per citare Giuseppe Prezzolini, io sono quel pezzetto di carne che mi pende in mezzo alle gambe, e, se si agita abbastanza, mi dà la più piena espressione di me stesso». 

Perciò oggi non è nessuno?

«Ho 90 anni. Ma i sogni erotici non finiscono mai».

Per esistere cercava aiutini?

«Parla del Viagra? Mai!». 

Dicono che quel «pezzetto» fosse la sua guida infallibile.

«Le erezioni sul set sono una mia invenzione. Voi giornalisti ve la siete bevuta».

Come la scrittura per un film offerta a Gianni Agnelli?

«No, quella era verissima. Sembrava molto dotato, a giudicare dalle foto rubate mentre si tuffava dal suo yacht. L’avrei voluto per L’uomo che guarda, tratto da Alberto Moravia. La segretaria era molto divertita: “L’Avvocato la ringrazia, ma è troppo impegnato”. Cercai di scritturare pure Monica Lewinsky, per difenderla dalle maîtresse à penser che la coprivano d’insulti solo perché avrebbero voluto essere al suo posto nella Sala Orale della Casa Bianca». 

(...)

Guarda l’hardcore sul web?

«No, me l’ha mostrato Caterina. Non mi pare una cosa bella da vedere. Manca qualsiasi mediazione estetica».

Su Internet i minori che idea si faranno della donna?

«Di un oggetto, anziché di un soggetto. Ha perso il mistero. S’è conformata ai modelli pecorecci dei social». 

Disse «il De Mita del didietro», copyright Aldo Grasso.

«Da regista di kulossal preferivo il Re Mida del culo».

«Sul piano etico è più onesto della faccia, non inganna», teorizzò in un libro.

«Di qui il mio noto sillogismo aristotelico. Tesi: il culo è lo specchio dell’anima. Antitesi: ognuno ha il culo che si merita. Sintesi: mostrami il culo e ti dirò chi sei».

È fissato con i glutei.

«Fin da quando ero bambino. Spiai mia madre in camera da letto. Indossava una sottoveste che li lasciava intravedere. Rimasi assai turbato». 

A che età scoprì il sesso?

«Avevo 12 anni quando ad Asolo, dov’eravamo sfollati per la guerra, palpai Emilietta, una delle tre governanti».

Piuttosto precoce.

«A 16 scoprii le prostitute. A Venezia c’erano 33 cinema e 33 casini. Passavo da un antro buio all’altro».

(...)

Estratto dell’articolo di Andrea Pasqualetto per corriere.it il 2 aprile 2023.

Tinto Brass, 25 anni fa hanno inventato il Viagra, come l’ha vissuta ?

«Come una rivoluzione. Prima c’erano le punturine ma erano scomode, col Viagra è cambiato tutto allungando la vita sessuale di molti uomini ed eliminando certe ansie».

 […] Ha allungato anche la sua?

«Io fortunatamente non ne ho mai avuto bisogno, almeno fino all’ictus del 2010. Poi per me è cambiato tutto e non avrei comunque potuto prenderla».

 Cosa pensa di questa pillola?

«Sono favorevole all’uso in quanto scelta di libertà. In ogni caso aiuta ad allontanare lo spettro della vecchiaia. Ma non si tratta di un afrodisiaco e non c’entra con l’erotismo perché il motore dell’eros è sempre il desiderio, l’immaginario. Non si può ridurre la sessualità a qualcosa di meccanico. Ci sono molti altri modi di esprimerla, c’è di mezzo la complicità, la fantasia che coinvolge anche altre parti del corpo».

Il viagra nel suo cinema?

«Avrei voluto fare un film grottesco sulla sessualità ai tempi del viagra. Avevo anche scritto la sceneggiatura e doveva titolarsi «Grazie papi». Era una critica al potere, una metafora di un certa politica dove gli uomini di una certa età cercano le ragazzine. Dove basta poco per trasformare l’orgia del potere nel potere dell’orgia. Ma il produttore ebbe paura e non se ne fece nulla. È la mia opera incompiuta».

 Sul set? Per le scene più hard?

«Quando c’erano scene di sesso usavo falli finti, anche perché sono impaziente di natura e quella era la soluzione più rapida. Ne ho un’ampia collezione. Sono tutti conservati in archivio e catalogati da Caterina (Caterina Varzi. la moglie, ndr). Ce ne sono di meravigliosi, a pompetta, abnormi, perfetti per simulare l’atto sessuale. Materiale d’antiquariato, sia chiaro.

Per questa particolarità, all’epoca in Cina ero diventato un’icona del mondo omosessuale. In ogni caso il viagra ha avuto un impatto rivoluzionario più sul cinema porno che su quello erotico, oltre che sui costumi sociali, dove ci sono anche delle ricadute negative. […] Ha reso i rapporti più frettolosi, eliminando il gioco che considero un elemento fondamentale della sfera erotica».

 […] Come sta?

«Ho festeggiato da poco il novantesimo compleanno. Sono qui con Caterina, sereno, senza Viagra».

I 90 anni di Tinto Brass: «Quando morirò le mie ceneri sparse a Venezia. Tutte le mie attrici mi hanno amato, tranne Anna Galiena». Sara D'Ascenzo su Il Corriere della Sera il 23 marzo 2023.

Il compleanno del re del cinema erotico italiano: «La mia prima volta a 16 anni in un casino di Venezia, guardo mia moglie spogliarsi e ancora mi illudo»

«Tinto è pronto, venite». Il mondo del maestro dell’eros, oggi, alla vigilia di un compleanno da ricordare - 90 anni il 26 marzo - è una casa a Isola Farnese, borgo sulla Cassia, a mezz’ora di auto da Roma, che il regista ha diviso per anni con la prima moglie Carla Cipriani - Tinta - scomparsa nel 2006 e dove ora abita con Caterina Varzi, la seconda moglie, ultima musa ispiratrice di un regista che ha fatto crescere generazioni di desideri e che ancora adesso, soprattutto per chi era ragazzo negli anni ‘80 e’90, è una figura mitica, un misto di simpatia, sigaro e mani sul seno, testimone di un’epoca in cui sembrava che col corpo si potesse fare tutto. È lei ad aprire la porta e introdurci dal Maestro. Il caffè, però, lo serve Maria, una giovane studentessa di cinema polacca, alta, bionda, statuaria, che conferma che sì, siamo proprio a casa di Tinto Brass. Nato a Milano, ma già pochi giorni dopo a Venezia, negli ultimi anni Tinto ha fatto i conti con un’emorragia cerebrale, un ictus e due ischemie. Eppure eccolo, seduto nel suo divano, un leggero plaid a coprirgli le gambe immobilizzate e l’immancabile sigaro ad avvolgerlo in una nuvola che lo fa apparire come un fumetto. Del resto, «Il sigaro sta alla sigaretta come il tartufo alla patata», ha scritto proprio Tinto nella sua autobiografia Una passione libera pubblicata da Marsilio nel 2021.

Brass, mi ricordo di lei alla Mostra del Cinema di Venezia del 2005, dove arrivò, non invitato, con una barca piena di donne poco vestite. Qual è il suo rapporto con la Mostra?

«Il pubblico ha sempre amato i miei film e anche alla Mostra venivano a vedermi. Ma il festival mi ha sempre ignorato. Sono troppo condizionati dalla critica e hanno la puzza sotto al naso».

Intere generazioni sono cresciute con i suoi film e tuttora la considerano un mito.. Perché ha ancora senso vedere un suo film?

«Perché sono film caratteristici. Fin dall’inizio sono stati film che cantavano la libertà, con le donne e con il sesso. E questo i giovani me lo riconoscono e nelle mie immagini si riconoscono».

Alcuni dividono la sua carriera in due: prima e dopo la svolta porno. Anche la prima parte della sua filmografia non piaceva ai critici?

«No. Mi hanno sempre considerato un anarchico. Dal primo film in poi, Chi lavora è perduto. Ma i miei film sono sempre andati bene».

Eppure lei ha cominciato nel migliore dei modi cinefili. Alla Cinémathèque française di Langlois.

«Ah, sì. Ho lavorato prima a Parigi con Rossellini. E poi ho cominciato a fare film miei. Il primo l’ho girato a mozziconi perché il produttore non si fidava. Mi diceva: “Gira una settimana, vediamo cosa sai fare”. E quando l’ho montato mi ha detto: “Va bene, gira un’altra settimana”. Ho girato in tutto tre settimane».

Prima di dirigerlo lei, propose la sceneggiatura a Fellini. Come andò l’incontro?

«Fellini aveva saputo di questo progetto e aveva voluto conoscermi. Sono andato da lui al bar Canova di Piazza del Popolo e gli ho raccontato la trama. Lui mi ha detto: “Ah, sì, anche io faccio un film così, ma come fai coi soldi? Non è costoso?”. E io: “Mah, non so, costerà 40 milioni...”. E lui: “Quaranta milioni? Pensavo 4 miliardi! Questo film non si può fare”. E così l’ho fatto io».

La sua prima volta?

«Avevo sedici anni. Al Lido. in spiaggia, mi hanno spiegato la teoria. Poi sono andato in un casino a Venezia. Eravamo in tanti amici, ma poi, quando ci hanno chiesto i documenti gli altri sono scappati e sono rimasto solo io».

E com’è andata?

«È stato bellissimo. Da lì in poi era tutto un casino per me, tanto che ho cominciato a vendere i libri alla Toletta per poterlo pagare».

Quando pensa a Venezia cosa le viene in mente?

«Ho molta nostalgia. Mi ricordo le calli, le botteghe. Mi manca parecchio. Mi ricorda tante cose di me. Vorrei tornarci, chissà».

Quando morirà, dove vorrà essere portato?

«A Venezia, le ceneri sparse in laguna».

Ha due figli, Bonifacio e Beatrice. Che rapporto ha con loro?

«Io ce l’ho buono. La figlia mi ama. Il figlio non lo vedo, ha un altro giro. Andavamo in barca insieme, ma c’era già un rapporto conflittuale».

Lo stesso che lei ha avuto con suo papà.

«L’avevo sentito poco prima che morisse e mi aveva detto: “Dobbiamo parlare”. Ho il rimpianto di non aver fatto in tempo».

È stato fortunato con le donne?

«Sì, assolutamente. Purtroppo non posso più soddisfare tutti i miei desideri con Caterina. Ma lei mi dà ancora tanta speranza e tante illusioni».

Ancora immagina?

«Sì. La guardo mentre si spoglia, come quando da piccolo guardavo le domestiche dal buco della serratura».

Per lei è stato molto importante il nonno pittore, Italico.

«È stato lui a darmi il nome, Tinto. E anche mia nonna, che era russa di Odessa».

Le dico qualche nome di attrice che ha lavorato con lei. Anna Ammirati.

«Bravissima. Ha detto che verrà presto a trovarmi, non mi ha mai rinnegato, mi ha sempre amato».

Stefania Sandrelli.

«Grandissima attrice. Per La Chiave mi proposero Sandrelli che era un po’ dimenticata. Con me è stata bravissima. È venuta poco tempo fa, è stato un pomeriggio emozionante».

Anna Galiena.

«Non mi ha amato. Nel primo giorno di riprese, alla fine della prima scena io le ho messo le mani sul seno, le mi ha fulminato. Il film è andato avanti lo stesso, ma il rapporto non ha funzionato. Eppure era stata lei a proporsi».

Deborah Caprioglio.

«Chi?»

Fa il vago?

«Ho litigato con Tinta per Deborah. Non mi ricordavo il nome. Era molto calorosa e simpatica. E libera, molto libera».

Oggi sarebbe impossibile per lei fare un film. Alla prima scena arriverebbero orde di attiviste. Che ne pensa?

«Male, assolutamente. Non ho mai assolutamente molestato nessuno sul set. Chi ci stava era consenziente, ma sempre fuori dal set. Si prendevano degli impegni per dopo».

L’immagine che lei ha della donna oggi farebbe proprio fatica a emergere.

«Per me sarebbe impossibile girare oggi a queste condizioni. Ma troverei il modo per renderle disponibili». E lo dice fissando il ritratto della moglie che campeggia sul tavolino, di fronte al divano. A seno nudo.

Tinto Brass a 90 anni si racconta: “Ai giovani dico: sperimentate. L’amore è la sola trasgressione che ci resta”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 16 Marzo 2023

Nella vita mi sono sempre buttato, non ho rimpianti. L’ho vissuta come volevo, anche nel lavoro, nonostante gli scontri con la censura”. Inizia così il racconto di una vita intera, raggiunti (quasi) i 90 anni. A raccontare è Tinto Brass, maestro del cinema erotico che spegnerà le 90 candeline il 26 marzo. Sopravvissuto a un’emorragia cerebrale, a un ictus e a due ischemie in una lunga intervista racconta il suo passato, da quando il nonno Italico lo vide disegnare e disse: “Abbiamo un Tintoretto in casa”. E così diventò Tinto.

Nella sua vita non c’è stato solo il cinema. Nel 2010 si presentò alle elezioni con la lista Bonino-Pannella. “Meglio un c**o che una faccia di c**o”, era lo slogan sul manifesto elettorale con un sedere in primo piano, “Che poi è il mio”, ha detto Caterina Varzi, 62 anni, sua moglie dal 2017. È lei che ne sta curando l’archivio e con cui ha scritto una biografia dal titolo Una passione libera (Marsilio). Che cos’è per lui la trasgressione? “Quella vera non esiste più, è diventata una forma di conformismo. L’unica vera trasgressione ormai è l’amore. Io con Caterina l’ho trovato. E posso dirlo: ho avuto culo”.

Della sua infanzia racconta il rapporto tormentato con la famiglia: “Da piccolo non ricevevo abbracci, carezze o baci, forse anche per questo non ho mai rimpianto di non aver recuperato il rapporto con mia madre. Non andai nemmeno al suo funerale. Mentre con mio padre ci fu un tentativo alla fine. Mi disse: ‘Dobbiamo ricominciare a parlare’. Ma poi morì. Ho invece un ricordo più felice dei miei nonni. Mio nonno Italico. Lo vede quel suo quadro lassù, in alto? Ispirò una poesia a un suo caro amico di Venezia…, Ezra Pound, ‘For Italico Brass’”.

Da ragazzo lo strumento principale del suo erotismo erano i film. “Anche se l’autoerotismo non lo scoprii subito. Un amico mi mostrò sulla spiaggia al Lido. ‘Ah – dissi – è così che si fa?'”, racconta. Dei suoi maestri racconta: “Ho imparato tutto da Roberto Rossellini, soprattutto l’arte del montaggio mentre lo aiutavo per il suo documentario sull’India. Se aveva passato una bella notte con Sonali Das Gupta era bravissimo, sennò anche lui era svogliato. Con i maestri della Nouvelle Vague tiravamo tardi in brasserie. Il mio Chi lavora è perduto deve qualcosa a Truffaut, mentre L’urlo più a Godard”.

Ha diretto attori come Alberto Sordi e Monica Vitti. “La Vitti era molto espressiva, ma ancora non sapevo che sarebbe diventata una grande attrice. Fui però io a tirar fuori la sua verve ironica, prima di Monicelli. Sordi era formidabile, avrebbe potuto fare tutto, anche i film erotici. Era in un momento complicato perché voleva fare il regista più che l’attore, mentre io, dopo L’urlo, pensavo di aver dato tutto e volevo smettere. Il disco volante invece lo girai solo perché me lo chiese Silvana Mangano, anche lei nel film. Silvana Mangano… Era molto gentile con me, non posso dire altro perché le grandi non si toccano”. Per un pelo non ha girato l’Arancia Meccanica: “La Paramount me l’aveva proposto, ma rinunciai per L’urlo, e non me ne pento. Il mio vero rimpianto è non aver fatto I Borgia, che doveva far parte della mia trilogia sul Potere insieme a Salon Kitty e Caligola. Avevo anche proposto la parte a Richard Burton, a cui piacque la sceneggiatura. Riteneva però che il ruolo fosse troppo ‘fisico'”.

Per il regista l’Italia di oggi è ancora perbenista e ipocrita. “È tornato il comune senso del pudore, lo si è visto anche a Sanremo. Mi fa ridere che abbiano denunciato per atti osceni quei due (Fedez e Rosa Chemical, ndr)”. Confessa di non avere idea di cosa sia You Porn. “Già nei miei ultimi film avevo però percepito che la società e il pubblico stavano cambiando. E per questo cercai di spingere l’erotismo verso la pornografia d’autore, ma i produttori me lo impedirono”. Ai giovani consiglia “di sperimentare. Di pensare con la propria testa. Di essere autentici”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Tiziana Rivale: la vittoria a Sanremo, la scomparsa (con accuse ai discografici), il successo all’estero, i tweet polemici. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2023.

Dopo il trionfo al Festival nel 1983, quando era un’esordiente, la cantante non ebbe vita facile nel mondo della musica, ma trovò fortuna in altri paesi

Sanremo 1983

Sanremo 1983: una cantante esordiente dalla gran voce vince il Festival. Si tratta di Tiziana Rivale che si aggiudica il primo posto con «Sarà quel che sarà» e conquista un trionfo inaspettato, anche per la casa discografica che aveva stampato poche copie del brano e non aveva in ballo l’uscita di un disco con la cantante. Tiziana Rivale quell’anno guida un podio tutto al femminile: dietro di lei si piazzano Donatella Milani (altra esordiente) e Dori Ghezzi. Ma il 1983 è anche il Sanremo di «Vita spericolata» di Vasco, «L’Italiano» di Toto Cotugno e «Vacanze romane» dei Matia Bazar. Brani che diventano ben presto dei classici della musica italiana e portano più fortuna ai loro interpreti rispetto a quanta ne ebbe la vincitrice.

Le accuse di plagio

Oltre al successo, le polemiche: «Sarà quel che sarà», dopo la vittoria a Sanremo, fu al centro di un turbinio di accuse di plagio. Il ritornello della canzone, in effetti, somiglia a quello di «Up Where We Belong», brano del 1982 cantato da Joe Cocker e Jennifer Warnes che fa parte della colonna sonora del film «Ufficiale gentiluomo». Alla fine non fu intentata nessuna causa. E in compenso nel 1983 «Up Where We Belong» vinse un premio Oscar come miglior canzone.

Chi è Tiziana Rivale

Classe 1958, nata a Formia in provincia di Latina, Tiziana Rivale all’anagrafe si chiama Letizia Oliva. Comincia a cantare a 11 anni, amante del blues e della musica black, fa parte di una band e poi affianca anche Gino Bramieri in un tour comico-musicale che dura tre stagioni. La vittoria a Sanremo è seguita dal suo album di debutto, intitolato proprio «Tiziana Rivale», ma purtroppo il successo della sua canzone non viene replicato con i brani successivi. Di lei, un po’ alla volta, si perdono le tracce fino agli anni recenti.

La carriera all’estero

Dopo un po’ di apparizioni televisive, dopo tour in Italia e all’estero, Tiziana Rivale nel 1988 si trasferisce a Los Angeles dove rimane a vivere fino al 1992. Oltre a dedicarsi alla sua musica, incide colonne sonore e lavora anche come doppiatrice. Negli anni successivi in Italia partecipa a varie trasmissioni tv (è per lungo tempo a fianco di Paolo Limiti), ma sono gli altri paesi che le danno più soddisfazioni: la sua musica vira verso la dance e verso l’inglese e ottiene ampio successo fuori dai nostri confini, soprattutto in Finlandia e in Polonia. Nel 2019 riceve anche il disco d’oro alla carriera in Messico.

Le accuse ai discografici

Come mai la carriera italiana di Tiziana Rivale non decollò dopo Sanremo? «Bisogna chiederlo ai discografici di allora che non sono stati all’altezza della situazione», disse intervistata a «Domenica Live» nel 2018, accusando la casa discografica di non aver investito adeguatamente su di lei. «Se non fossi stata forte mi sarei suicidata», aggiunse l’anno dopo al magazine Spy, tornando sull’argomento. Nel 2019, nonostante il rapporto burrascoso con l’Italia, Rivale è stata una delle concorrenti di «Tale e quale show» su Rai1 (in questa foto veste i panni di Adele). E la sua carriera prosegue.

I tweet controversi

Negli ultimi anni Tiziana Rivale ha fatto parlare di sé anche per i tweet un po’ controversi: prima di partecipare a «Tale e quale show» ha detto la sua su alcuni argomenti, commentando ad esempio il desiderio di Tiziano Ferro di avere dei figli: « I figli vengono partoriti dalle donne, da quando è nata la vita sul pianeta», ha scritto sui social. Un’uscita infelice per esprimere la sua posizione sulla maternità surrogata, seguita da un’altra altrettanto infelice sulla Resistenza: «I partigiani hanno fatto più danni della guerra», avrebbe cinguettato. Ma anche con la pandemia ha scatenato polemiche: «Coronavirus? Ci si preoccupi dell’ebola portato dai clandestini», ha scritto. Il suo account principale è stato sospeso. Ma la cantante è tornata su Twitter con un secondo account.

Tiziano Ferro delude la sinistra arcobaleno. Alberto Busacca su Libero Quotidiano il 04 ottobre 2023

Che delusione, per la sinistra. Tiziano Ferro era il testimonial ideale per attaccare il governo sui diritti e per criticare la solita “destra bigotta” che se ne frega delle famiglie arcobaleno. E invece lui, Tiziano, si è tirato indietro. E la sua storia, dolorosamente privata, non potrà più essere utilizzata da dem e progressisti vari. Il cantante, si sa, è in fase di divorzio dal marito, Victor Allen. E, come succede a tante coppie che scoppiano, bisogna pensare anche (e soprattutto) ai bambini. Che in questo caso sono due: Margherita e Andres. Annunciando la separazione, a metà settembre, Ferro aveva spiegato: «I miei due meravigliosi figli trascorrono la maggior parte del tempo con me. In questo momento non posso lasciarli, e non posso portarli in Italia». Già, «non posso portarli in Italia». Apriti cielo. Questa frase aveva fatto sobbalzare la sinistra e i giornali progressisti...

La Stampa, per dire, era andata all’attacco a testa bassa. Con questo titolo: «Il divorzio di Ferro e i figli arcobaleno senza tutele in Italia». Anche Repubblica aveva preso la stessa strada: «Qui non c’è una legge che protegga i bambini delle coppie omogenitoriali: restano senza diritti del tutto o si vedono riconosciute le tutele solo a metà. Le parole del cantautore accendono di nuovo i riflettori sulle mancanze dell’Italia». E ancora: «Da quando è in carica, il governo ha usato questo tema, delicato e divisivo, come passepartout per attaccare i diritti di molte altre minoranze. Attuando una stretta che ha complicato ancora di più le cose». Insomma, i problemi di Tiziano Ferro sarebbero colpa del governo di Giorgia Meloni...

Ma le cose stanno davvero così? No, assolutamente. E a chiarirlo ci ha pensato lo stesso Ferro, intervistato da Candida Morvillo sul Corriere della Sera. Domanda: come mai non può portare i bambini in Italia? Risposta: «Questa frase ha scatenato gli odiatori seriali e ha dato pane ai cretini, specie considerando che i miei figli erano con me in tour in Italia questa estate. Ora, non poter partire coi bimbi è dovuto non alle leggi italiane, ma a un tecnicismo noioso e fastidioso: avendo un divorzio in corso, non posso lasciare lo Stato della California coi miei figli». Toh, non c’entrano le leggi italiane e non c’entra la Meloni. È solo la sinistra che se la canta e se la suona. Ma alla fine, guarda un po’, stecca sempre... 

Tiziano Ferro: «Credo nell'amore e perciò mi separo. Non voglio far crescere i bimbi tra i conflitti». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera di lunedì 2 ottobre 2023.

Il cantante: «Perché non posso portarli con me in Italia? Le leggi italiane non c'entrano, è colpa delle norme americane. Nel libro rompo un tabù: dico che si può non voler bene ai genitori. Ho avuto un polipo alle corde vocali, poi sparito per miracolo» 

Quando gli chiedo come sta, di colpo gli occhi puntano verso il basso e risucchiano, scurendosi, tutta la luce che c’è. Con Tiziano Ferro , avevamo un appuntamento per parlare del suo primo romanzo, La felicità al principio, in uscita domani per Mondadori, ma non si può fingere che nulla sia accaduto, che una decina di giorni fa non abbia annunciato su Instagram che sta divorziando e che, ora, non sia a Milano ma a casa sua a Los Angeles, perché lì ci sono i suoi due figli, che non può portare con lui in Italia. Finiscono 7 anni di amore, di cui 4 di matrimonio, con lui che, sposandosi con il manager di marketing Victor Allen, diceva «ho sempre creduto nel vero amore, unico, solo, imperfetto, assoluto. Niente di meno, mai». E, adesso, questo è uno di quei momenti in cui una star da venti milioni di dischi venduti nel mondo, duecento canzoni in cinque lingue, successi come Xdono, Sere nere, Rosso relativo, può sembrare un giovane uomo come tanti, alle prese coi problemi di tutti.

Anzitutto, Tiziano, come sta?

«Se dicessi bene, mentirei. C’è di peggio, c’è chi non affronta i problemi e fa scelte all’antica trascinando situazioni che possono diventare tossiche non solo per lui, ma per i figli. Io appartengo a una generazione i cui genitori non si sono lasciati per il “bene dei figli”, ma creando in realtà solo scompensi, facendo respirare infelicità ai bambini. Diciamo che sono in una condizione di speranza verso il futuro, ma non posso certo dire che sia un bel periodo».

Le ho incupito lo sguardo. Quanto è stato difficile dare quell’annuncio? «Affrontare un divorzio non è mai bello, ma il mio è capitato con una tempistica tremenda, la sfiga ha sempre progetti precisi: è una vita che spero di scrivere un romanzo e, ora, la sua pubblicazione si scontra con un cataclisma come questo, che spero non prenda possesso della gioia che devo a me stesso e a chi mi segue. Però, non potevo tenere nascosta la verità: ho sempre vissuto mostrando una sola versione di me stesso, quella vera, e preferisco così piuttosto che inventare scuse e affrontare l’ansia che le cose possano venire fuori senza che le abbia potute spiegare. In questo momento, tuttavia, io che non sono invidioso, ammetto che invidio chi racconta di essersi separato nella pace più assoluta».

Ha scritto che non verrà a promuovere il libro per stare con i suoi bambini. Come mai non può portarli?

«Questa frase ha scatenato gli odiatori seriali e ha dato pane ai cretini, specie considerando che i miei figli erano con me in tour in Italia questa estate. Ora, non poter partire coi bimbi è dovuto non alle leggi italiane, ma a un tecnicismo noioso e fastidioso: avendo un divorzio in corso, non posso lasciare lo Stato della California coi miei figli. Sarei potuto venire da solo, ma avrebbe significato non potermi occupare di loro, che in questo periodo stanno soprattutto con me».

Margherita ha due anni, Andres uno e mezzo, come sono? Come stanno? «L’altro giorno, è venuta a casa un’amica. Parlavamo del divorzio e mi ha detto: “Vedendo te e i bimbi, ho avuto tutte le risposte, mentre corrono e ballano, vedo luce, gioia, felicità”. In questi giorni, Margherita e Andres sono in fissa con Mamma Maria dei Ricchi e Poveri. Colpa mia eh... Ancora ieri, ho rilanciato quel video per mezz’ora mentre loro ballavano, cantavano, saltavano. Li ho guardati e mi sono commosso: ho pensato che il mio atto di fede nel fatto che la mancanza di conflitto produce felicità sta funzionando. Metterlo in pratica è faticoso perché non è quello che ho visto fare nella vita, mi sono buttato alla cieca a fare una cosa che non conosco, ma mi sono fidato dei dottori. Io e Victor ci siamo rivolti a degli specialisti affinché ci aiutassero coi bambini e la prima e unica cosa che ci hanno detto è stata: teneteli lontani dai conflitti».

Che altro ha pensato guardandoli ballare e cantare?

«Che ridono da mattina a sera, giocano, si rincorrono, sono curiosi, interessati a tutto. Ieri, gli ho anche spiegato come le api fanno il miele ed è stato divertente vedere come loro me lo rispiegavano, usando le poche parole che conoscono. Li tratto come futuri adulti, senza sottovalutarli mai e, ovviamente, con la tenerezza e il senso di presidio che si ha con dei bambini. Vivo a loro disposizione senza dimenticarmi del mio bene. Molti genitori se ne dimenticano, non rendendosi conto che la loro infelicità diventa l’infelicità dei loro figli».

Il protagonista del romanzo, Angelo Galassi, si finge morto e si trova a occuparsi di una bambina che, pur non essendo muta, non parla. Come lei, è un cantante di successo che non ha amato il successo, che ha vissuto l’obesità, l’omofobia, la bulimia, la depressione. Ma nel frontespizio, lei avverte «questa non è la mia storia. L’ha scritta il mio angelo mentre vagava nella galassia dell’insonnia». Lei ha un angelo?

«Grazie a Dio, sì. Se no, non saremmo qui a parlare. I punti in comune col protagonista ci sono e ci sono quelli totalmente diversi, grazie a un po’ di intuito, fortuna, coraggio, agli amici, ai dottori, a una serie di angeli in terra o meno. Scrivere fiction è stato meraviglioso perché, per la prima volta, ho fatto il contrario di quello che ho sempre fatto: ho inventato, invece di raccontare la verità in modo brutale. Io e Galassi siamo incorniciati in un contesto simile, al quale però io ho reagito, mentre lui fugge, si nasconde, fa vincere la paura, non risolve le sue dipendenze né il pessimo rapporto coi genitori e con chi lo ha fatto sentire sbagliato. Per me, lui è tutto quello che avrei potuto essere e che non ho voluto essere. Io, per esempio, non mi concederei mai la possibilità che un amore finito diventi un cattivo incantesimo su di me fino a precludermi ogni altro amore».

Oggi, direbbe ancora, come in suo brano, che «l’amore è una cosa semplice»?

«Semplice non vuol dire facile. Vuol dire che le dinamiche dell’amore sono controllate da pochissime regole, non da milioni. L’amore è talmente istintivo che può iniziare e finire e la fine di un amore fa parte della sua semplicità. Per cui, io nell’amore ci credo ancora. Angelo Galassi no, ma io sì». 

E crede ancora anche nell’amore «per sempre»?

«Ci credo così tanto che mi separo. Anche il divorzio fa parte della fede nell’amore. Ho esordito dicendo che non posso dire di stare bene, ma questo non vuol dire che non starò bene in futuro. Se non mi separassi, significherebbe che non do importanza all’amore. Invece, lo tratto come una cosa talmente tanto preziosa che, se non è autentico, se non mi fa bene, non lo voglio. Quanto al “per sempre”, non puoi pensare che l’amore, come l’amicizia, resti lì senza coltivarlo, c’è un mestiere dietro, molto simile a quello dell’artigiano: devi sempre presentarti in bottega, ci sono giorni in cui avrai creatività e giorni in cui non succede nulla, ma devi sempre essere lì a lavorare. L’amore eterno è come l’amicizia eterna: devi fare fatica, solo che l’amore è fatto di dinamiche molto più sottili e molto più fragili».

L’ex di Galassi di cui parlava è un opportunista che approfitta di lui per diventare un rapper famoso, poi sposa una modella e finge la coppia felice pur di avere successo. Chi è nella realtà?

«Nel costruirlo, mi sono divertito, ho sentito il brivido del mestiere di scrittore. In Mondadori, non ci credono che l’ho inventato. Mi dicono: un giorno ce lo dirai chi è». In effetti, questo Bass Ferper sembra un seguitissimo rapper italiano. «Ma no, è il cliché dello youtuber, dell’instagrammer che diventa famoso in un mondo nel quale la fama non è necessariamente legata al talento, è un bugiardo che si adagia nella falsità pubblica con grande naturalezza, che abbraccia quello che gli conviene con spontaneità. L’elenco di quelli che gli somigliano sarebbe lungo. Ma nel corrispettivo della mia vita, un ex così non esiste perché io non ho l’istinto autolesionista di amare uno così: per me, l’amore deve favorire chi sei, non annullarti».

Lei hai mai pensato di sparire, fingersi morto?

«La cosa aberrante per me non è tanto che il mio protagonista si finga morto ma che faccia una cosa che è contro la natura dell’essere umano: rimane in vita, ma si toglie la possibilità di esistere e quindi di fare esperienze e di evolversi. Suicidarsi è orrendo, ma rimanere vivo a guardare la propria morte, in un certo senso, è anche peggio».

Oltre all’angelo, lei conosce anche «la galassia dell’insonnia»?

«Ho scritto di corsa, ho iniziato e non ho mai smesso, in trenta giorni durante i quali, in effetti, la notte non riuscivo a dormire. È successo prima dell’arrivo di Margherita, un’attesa in cui l’insonnia non era tanto legata a paura o paranoia, ma alla curiosità di scoprire come fosse questa bimba. Ho fatto il gioco di immaginarla e l’ho fatta diventare la Sophia del libro. I miei amici non credono che abbia scritto prima di conoscerla: mutismo a parte, l’ho beccata al 400 per cento».

Al 400 per cento in che cosa?

«Margherita non sta zitta un minuto ma, come Sophia è indipendente, ha gusti delineati, ama la musica da morire, sceglie lei i suoi vestiti e non riesco a farle infilare dei pantaloni neanche se la lego al letto, le piace colorare e lo fa con una logica, come quando Sophia dipinge una tazza, con una pazienza innaturale per una bimba. Ha capacità di ascolto, non fa i capricci, se si sbuccia un ginocchio non piange, è una resiliente. Poi, magari, piange per cose dell’anima. E come Sophia, ha un senso di protezione verso di me — per esempio, se lei mangia, devo mangiare anche io — tratta il fratellino come un lattante, anche se ha solo quattro mesi meno di lei. Gli dice cucciolo e lui glielo lascia fare, è completamente compensatorio, lascia essere lei la star, gli piace fare da spettatore a una sorella così brillante, così intrattenitrice». E come pensa di essere riuscito a indovinarla così bene? «Non ne ho idea. In questi giorni, registro l’audio libro ed è la prima volta che rileggo le pagine a distanza di tempo e ce ne sono alcune che, non solo non ricordo di aver scritto, ma proprio mi chiedo: ma come mi è venuta ‘sta cosa? È stato un flusso di coscienza, ricordo l’incapacità di fermarmi. Dopo, l’editor mi ha aiutato a limare, a riempire buchi che non avevo contemplato, per esempio, mi ha chiesto di spiegare con quali soldi Angelo viveva, dato che era tecnicamente morto».

La paternità, nel libro, si rivela terapeutica. Per lei lo è stata in qualche modo?

«Vedere i figli come terapia è una trappola. Sarà che io sono arrivato tardi alla paternità, ma ci sono arrivato concependo il padre come una figura istituzionale. E sono convinto che i genitori non debbano essere i confidenti o gli amici dei figli ma “curatori” a tempo pieno: devono mettersi a loro disposizione, assicurarsi di stare al massimo delle proprie possibilità, e a volte, come può capitare durante una separazione, fare un passo indietro rispetto al loro egoismo, evitando di coinvolgerli nei dissidi degli adulti».

Da romanziere, lei rompe un tabù molto italiano: scrive che non è obbligatorio amare i propri genitori, perché sono loro che avrebbero dovuto insegnarci ad amare e amarli. Lei come insegna l’amore ai suoi bimbi?

«Io penso che se a un bambino non dico che gli voglio bene, se non lo abbraccio, non gli basterà l’intuizione per capire che lo amo. I bambini possono sentirsi non amati anche se li amiamo, invece, per me, dimostrare l’amore è fondamentale. Invece, molti della mia generazione hanno avuto padri e madri incapaci di farli sentire amati e quindi sono cresciuti poco avvezzi ai codici dell’amore. Il mio protagonista si sente colpevole dell’incapacità di amare soprattutto sua madre, ma questo senso di colpa va analizzato col punto di vista del bimbo cresciuto, cioè del figlio di due genitori che hanno fallito nell’insegnargli ad amare. Angelo, a un certo punto, dirà a sua madre: se non so stare accanto a te è perché non me lo hai insegnato, ma non ce l’ho con te, perché tu per prima non hai visto amore nella tua famiglia, nonna non c’era per te...».

A proposito del male che facciamo e ci facciamo, questa è una storia che racconta anche quanto siamo affezionati al dolore, quanto ci piace scaricare il rancore sugli altri.

«Ho usato la fiction per raccontare argomenti che mi riguardano, anche se non ho vissuto certe cose in modo così esasperato. Mia madre non è la madre di Angelo Galassi, però come tanti genitori cresciuti dopo la guerra è convinta che il dolore nobilita l’uomo e che la felicità non è dignitosa. Angelo, che pure non riesce a combattere il dolore come se l’avesse nel Dna, combatte questo preconcetto e di sua madre dice, in modo sarcastico: fosse mai che questa donna si liberasse dai suoi fardelli e corresse il rischio di esser felice... Ah che tragedia... perché, se sei felice, come fai a lamentarti tutto il giorno e a buttare addosso agli altri tanti rancori e tanta infelicità? E come fai, poi, a controllare i tuoi familiari attraverso il senso di colpa?».

Lei si è poi operato alle corde vocali?

«No. Poco prima di iniziare il tour, ho sentito un problema alla voce. In 25 anni, non mi era mai successo, ma lì ne ero certo. Ho detto: qualcosa non va. Sono andato dal medico e lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo: c’era un polipo alle corde vocali. Sapevo che c’era qualcosa perché non riuscivo a essere comodo nelle basse, che per me sono la cosa più facile del mondo. Mi hanno detto che non sarebbe regredito senza un’operazione. Ho scelto di continuare il tour, fare logopedia e di non dire nulla: non mi piace accaparrare benevolenza facendo il piagnone. Però, salivo sul palco con angoscia, col rischio che la voce mancasse di colpo, anche perché, più la sforzi, peggio è. Finito il tour, dopo due mesi di riposo forzato, sono tornato dai medici e il polipo era regredito al punto che non c’era più niente da operare. Praticamente quasi parito. Un mistero».

E ci vede della psicosomatica in questo mistero?

«Al cento per cento. Credo che corpo e testa siano profondamente connessi e la voce esprime quello che vuoi, quello che non vuoi e tace quello che non sai dire. Quello è stato un tour complesso anche perché ero nel mezzo di ciò che ha portato al divorzio. L’ho affrontato con una spada nel cuore. Di sicuro, vivevo l’incapacità di esprimere qualcosa e insieme il bisogno di farlo. Manco a farlo apposta, nel momento in cui questo qualcosa ha preso una forma, seppure brutta e spiacevole, nel momento in cui ho trovato la voce per uscire da quel limbo doloroso, il polipo è regredito».

Se dovesse spiegare, in sintesi, il suo libro che cosa direbbe?

«Che parla di speranze e di seconde possibilità, addirittura di un “morto” che può riuscire a tornare in vita. Parla di persone che cercano la propria voce e di sogni che si realizzano. Parla del fatto che la felicità non ha codici. Parla di difetti, fragilità e cicatrici che ci rendono unici e non vanno rifiutati perché celano bellezza».

Che cosa significa il titolo «La felicità al principio»?

«Ha una lettura doppia o tripla. Può essere letto come “la felicità che sta iniziando” o fa pensare al “principio della felicità”, al fatto che ognuno di noi crea il suo principio perché la sua felicità non deve assomigliare a quella degli altri ma solo a quello che rende contento lui. E ancora: a me piace pensare alla “felicità come principio”, come spirito con il quale vivere. La ricerca della felicità è sempre il mio obiettivo: al principio, c’è la felicità; quello che mi muove è la felicità. Qualunque cosa faccio, e mai come ora posso dirlo, la faccio per cercare di stare bene ed essere felice».

Tiziano Ferro e la via crucis per i figli di coppie gay. Il cantante annuncia il divorzio: “Non potrò portare i bimbi in Italia”. Nel nostro paese due uomini non possono adottare, e se ricorrono alla maternità surrogata il riconoscimento è solo per il genitore biologico. Francesca Spasiano su Il Dubbio il 19 settembre 2023

Questa volta non è soltanto una questione di gossip. Se la notizia del divorzio tra Tiziano Ferro e suo marito Victor Allen continua a rimbalzare in rete è anche perché la loro storia rimette al centro il dibattito su una fetta di diritti che in Italia sono ancora negati. E lo saranno sempre di più, soprattutto alla luce della nuova legge, già approvata alla Camera, che rende la maternità surrogata un reato universale.

«Qualche giorno fa, davanti al mio mare, di fronte al mio monte, il mio uomo e io ci siamo sposati. La cosa è molto più grande di Victor e di me. Riguarda tutti», spiegava la pop star di Latina quattro anni fa, dopo la doppia cerimonia a Los Angeles e a Sabaudia nell’estate 2019. Da allora la coppia ha sempre mantenuto alta la “soglia” della privacy, soprattutto dopo l’annuncio nel febbraio del 2022, quando in famiglia sono arrivate «due meraviglie di 9 e 4 mesi», Margherita e Andres.

Tiziano Ferro diventa papà e vuole gridarlo al mondo, ma sa di doverne parlare con discrezione. «Comprendiamo e accettiamo la curiosità che regna intorno a noi - spiegava - ma vi chiediamo di rispettare la riservatezza» dei due bimbi: saranno loro, quando e se vorranno, a raccontare la loro storia. La stessa riservatezza è stata invocata anche oggi, quando Ferro ha annunciato che il suo matrimonio è finito. Il cantante ha voluto condividere sui social la «dolorosa separazione da Victor», spiegando ai fan che dovrà rinunciare al tour di presentazione del suo primo romanzo, La felicità al principio (Mondadori), per potersi occupare dei figli negli Stati Uniti.

«È un momento delicato, in cui tutta la mia attenzione è concentrata sulla tutela dei miei due meravigliosi figli, che attualmente trascorrono la maggior parte del tempo a casa con me. In questo momento non posso lasciarli e non posso portarli con me in Italia», ha scritto il cantante nel messaggio postato su Instagram. Dal quale, senza azzardare ipotesi, è possibile trarre almeno un’evidenza: in Italia le coppie omogenitoriali e i loro figli non hanno tutele. Soprattutto se quella coppia è composta da due uomini che desiderano diventare papà: nella migliore delle ipotesi, cioè al termine di un percorso di gestazione per altri all’estero con annesso certificato di nascita del bimbo, è su di loro che grava il maggiore “sospetto”. Perché? Facciamo un po’ di ordine.

In Italia due uomini che vogliono un figlio hanno soltanto una scelta: andare via. Adottare è impossibile per una coppia omosessuale (e anche per i single), e la maternità surrogata da noi è già reato: ciò che il centrodestra ora chiede è di perseguire il cittadino italiano anche all’estero. Ma c’è di più.

Nonostante il monito della Consulta, il legislatore fino ad ora non ha trovato una risposta utile a garantire le necessarie tutele ai minori già nati e che nasceranno: a regolare la materia è la giurisprudenza. La cosiddetta stepchild adoption, l’adozione da parte del partner, è stata stralciata dalla legge sulle unioni civili del 2016, come “sacrificio” necessario per ottenerne il via libera al testo. Nel quadro attuale normalmente sono i singoli comuni ad interpretare le norme, a decidere se trascrivere gli atti di nascita formati all’estero, e se riportare sul documento i dati di entrambi genitori, quello biologico e quello “intenzionale”. Se arriva un rifiuto la coppia può ricorrere al tribunale, ma ciò che il giudice deciderà è una lotteria. Lo confermano le decisioni a macchia di leopardo di cui si ha notizia su tutto lo stivale, in uno scenario complicato lo scorso gennaio dallo stop del Viminale ai sindaci.

Il ministero ha imposto la sospensione sulla base di una sentenza della Cassazione dello scorso dicembre, secondo la quale - in caso di maternità surrogata, considerata “contraria all’ordine pubblico” - il genitore di intenzione può ricorrere all’adozione in casi particolari. Un istituto regolato dalla legge numero 184 del 1983, che apre una “corsia” speciale per questi casi, ma solo se il genitore biologico presta il consenso, che a differenza dell’adozione “normale” si può revocare in seguito.

Ecco perché, se il comune si rifiuta di trascrivere il nome di entrambi i genitori sull’atto di nascita, la via è obbligata, ma anche parecchio lunga e accidentata. Che succede se il genitore biologico si ammala, o peggio, muore? Che succede se la coppia si separa? La risposta spesso è affidata alle sentenze, e può variare di volta in volta, fino a generare situazioni paradossali: come nel caso di una bambina nata in Ucraina e rimasta “apolide” fino a 4 anni, quando sulla vicenda si è espressa la Cedu. Un po’ diverso è il caso dei bimbi nati da due mamme tramite fecondazione eterologa: sul punto la giurisprudenza è abbastanza concorde, e le trascrizioni (normalmente) procedono spedite.

«Oggi, se voglio far entrare i miei figli in Italia, so che avrebbero diritto a metà del presidio genitoriale anche se ci sono due persone che possono prendersi cura di loro. Se stanno male, solo io posso andare al pronto soccorso perché Victor non risulta sul passaporto, il che è una cosa aberrante. Al di là dell’essere d’accordo o meno, della morale, di un senso di colpa costruito a tavolino, ho sempre pensato che i miei diritti non tolgono nulla a quelli degli altri. Quando poi questa cosa prende una faccia, che è quella dei tuoi bimbi, è allora che ti ferisce. Per questo non gli ho ancora fatto il passaporto italiano anche se ne hanno diritto, forse lo farò più avanti, o lo faranno loro. Tanto a farli entrare col passaporto italiano avrebbero solo svantaggi, mentre da americani son tranquillo, so che se vengo in tour Victor può prendersi cura di loro… È una cosa che può sembrare stupida, e invece mi fa soffrire da morire», spiegava  Tiziano Ferro in un’intervista a Rolling Stones del 2022. Un riassunto efficace di quanto sia complicato, se non impossibile per due uomini, diventare papà in Italia.

Tiziano Ferro divorzia dal marito Victor Allen: “Momento doloroso, la priorità sono i miei figli”. A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica il 19 Settembre 2023 

In un messaggio social il dolore del cantante che non può portare i piccoli Margherita e Andres in Italia. L’ironia e l’affetto dei fan: “Non saremo mai pronti alle lacrime del suo album post-divorzio” 

Tiziano Ferro divorzia dal marito americano Victor Allen e lo racconta ai fan in un messaggio emotivamente forte in cui esprime il dolore del momento. Soprattutto, Ferro ammette la grande difficoltà nel gestire la separazione con i figli piccoli, Margherita e Andres. Il cantante aveva presentato la nuova famiglia nel febbraio del 2022 quando i bimbi avevano appena 9 e 4 mesi.

“Da qualche tempo è cominciata una dolorosa separazione da Victor - ha scritto il cantante sui social - Recentemente abbiamo avviato le pratiche del divorzio. La popstar ha sposato l'imprenditore americano nel 2019 (in una doppia cerimonia celebrata prima a Los Angeles e poi a Latina, sua città d’origine) e insieme sono diventati genitori di due bambini. Oggi l'annuncio, in tre lingue, a tutti i fan: “Come sempre, che sia gioia o dolore, consegno a voi la mia storia. Perché non saprei fare diversamente, perché mi fido di voi”, ha scritto rivolgendosi ai 2,4 milioni di follower. Pochi giorni fa sempre su Instagram aveva postato le immagini dei due bimbi che giocavano con il messaggio: “Papà prova a leggere le bozze invano”. All’epoca dell’annuncio dell’arrivo nella sua vita dei due figli, Ferro aveva chiesto di rispettare la loro riservatezza: “Comprendiamo e accettiamo la curiosità che regna intorno a noi, ma vi chiediamo di rispettare la riservatezza di Margherita e Andres. Ci prenderemo cura dei nostri figli, proteggendoli e custodendone l'intimità meglio che potremo. Saranno solo e soltanto loro a decidere ‘quando’ - e soprattutto ‘se’ - condividere il racconto della loro vita, è giusto che lo conoscano prima del resto del mondo. È un diritto insindacabile”. Oggi più che mai è ancora quello il suo appello. 

“Non posso portare i miei figli in Italia”

La cosa più difficile per il cantante è naturalmente stare lontano da loro: “È un momento delicato, in cui tutta la mia attenzione è concentrata sulla tutela dei miei due meravigliosi figli, che attualmente trascorrono la maggior parte del tempo a casa con me. In questo momento non posso lasciarli e non posso portarli con me in Italia”. Pochi mesi fa proprio a Repubblica Ferro aveva denunciato quanto l’Italia sia indietro rispetto ai diritti delle coppie omosessuali: “Siamo indietro su tutto, chi vuole adottare ci mette dieci anni, non è questione di gay o non gay. Fratelli di miei amici vanno in Spagna per darsi un’occasione, non penso solo agli omosessuali, ma anche agli eterosessuali. Si rende complessa la vita di persone che comunque faranno quello che vogliono. Gli italiani non li fermi. Ognuno ha diritto alla propria felicità”.

"Per questo, con grande tristezza, sono costretto a disdire gli impegni presi con voi e con Mondadori per presentare il mio primo romanzo: un appuntamento che attendevo da una vita. Voi lo sapete: ho portato avanti un tour contro il parere dei medici. Non avrei mai cancellato quei concerti, non mi sarei mai privato della gioia di ritrovarvi dopo sei anni, di cantare e ballare insieme. Non si tratta di me e della mia salute, si tratta di due bambini piccolissimi e della loro serenità - prosegue il musicista nella nota social - Chiedo immensamente scusa, ma adesso sono loro la mia priorità. Il vostro affetto mi ha sempre sostenuto nelle situazioni difficili e sono certo che accadrà anche stavolta: mi affido al vostro buon cuore. Questo momento buio passerà e torneremo a cantare e a ridere, a parlare del mio libro, della mia vita, della nostra vita. Vi voglio bene”.

Il romanzo e il tour nelle librerie saltato

Il 3 ottobre infatti è atteso il debutto da scrittore di Tiziano Ferro, La felicità al principio.  “È una storia che parla di sogni, di rivalsa e di felicità”, l’ha definito l’artista che debutta come romanziere raccontando la storia del ‘famoso cantante’ Angelo Galassi, che risulta ufficialmente deceduto nel febbraio 2013 in circostanze mai del tutto chiarite. La verità è che negli ultimi dieci anni Galassi ha semplicemente trovato più facile nascondersi tra i grattacieli di New York. Ha nascosto se stesso e i suoi non pochi problemi legati all'alcol, al cibo e a un'identità sessuale incerta. Tutto è filato più o meno liscio finché non si è visto recapitare da una vecchia fiamma di una sola notte una bambina di quattro anni identica a lui, tranne che per un dettaglio: Sophia non parla.

Ferro avrebbe dovuto presentare il libro in varie occasioni con un tour nei teatri di quattro città: Roma, 3 ottobre; Palermo, 9 ottobre; Bologna, 10 ottobre e Milano, 16 ottobre. Che, a questo punto, è costretto a rinviare.

Le reazioni social tra meme, affetto e ironia

Non appena la notizia è arrivata sui social si sono moltiplicati i commenti dei fan o dei detrattori (tra cui alcuni di natura omofoba). Tra coloro però che sono prima di tutto ascoltatori della musica di Tiziano Ferro è scattata un po’ di ironia: “Le lacrime che ci farà versare Tiziano Ferro con il suo album post-divorzio, noi non saremo mai pronti” oppure "Gliel’abbiamo tirata così tanto a Tiziano Ferro che volessimo canzoni strappalacrime post rottura che l’abbiamo fatto divorziare”. C’è anche chi semplicemente scrive: “Mi dispiace per il divorzio di Tiziano Ferro, come se fosse un mio parente”.

Estratto dell'articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” il 19 Giugno 2023.

Per il lancio mondiale della nuova Missione Impossibile Tom Cruise srotola il tappeto rosso — oggi — a Trinità dei Monti. Su quella stessa scalinata nel film il divo si lancia, letteralmente, a bordo di una 500 elettrica gialla, guidando con una mano ammanettata. La scena del lungo inseguimento romano nel traffico di Piazza Venezia, su Via dei Fori Imperiali, al Colosseo (metro compresa) e in Piazza di Spagna, a bordo dell’utilitaria, di una volante e una moto, è uno dei momenti più gustosi di Mission Impossibile — Dead Reckoning parte I, in uscita mondiale il 12 luglio. 

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Il film è una lettera d’amore alla saga da tre miliardi e mezzo di dollari. Si respira aria da gran finale, ma non c’è un addio ufficiale. McQuarrie ha scritto Ghost Protocol, già diretto Rogue Nation e Fallout. Per Cruise, «la vera sfida non è superare gli altri film ma noi stessi. Abbiamo girato due parti per approfondire i personaggi senza rinunciare all’azione». Che resta al centro ed è sempre più impossibile. Il primo giorno di riprese Cruise, sessant’anni, ha compiuto l’acrobazia più pericolosa della carriera, ha guidato una moto giù da una montagna norvegese a 1200 metri dal mare, aprendo il paracadute a 150 metri da terra.

E lo ha ripetuto per sette volte: «Ogni volta che scendevo dalla rampa rischiavo la vita, ma la preparazione serviva a minimizzare il pericolo». Si è allenato per un anno e ha realizzato il sogno d’infanzia: «A otto anni facevo i miei salti, costruivo rampe per saltare con la bici sopra ai bidoni della spazzatura. Negli anni mi sono schiantato tante volte, sangue e denti rotti». […]  «Ma — avverte McQuarrie — l’acrobazia più impossibile la vedrete nella seconda parte, giugno 2024».

Per Tom Cruise il cinema è sfida fisica, l’acrobazia una dichiarazione di intenti: «Quando sono saltato dal dirupo lo abbiamo fatto tutti noi della troupe. Abbiamo creato un nuovo standard». Nei quarant’anni di cinema ha cercato la competenza assoluta, qualunque fosse l’impresa: «Per guadagnare soldi da bambino ho imparato a tagliare bene l’erba, nei miei film a pilotare un aereo, sfrecciare in formula uno, saltare da una montagna. Se potessi passerei ogni giorno di vita sul set. Sfido me stesso ogni giorno, è questa la mia natura».

Estratto dell'articolo di Luca Mastrantonio per “Sette – il Corriere della Sera” sabato 4 novembre 2023. 

Tom Hanks (1956, Concord, California) è apparso per la prima volta in televisione nel 1980, in Henry e Kip della ABC, e al cinema nel 1984 con Splash -Una sirena a Manhattan. Ha vinto due Oscar, per Philadelphia (1994) e per Forrest Gump (1995). La sua raccolta di racconti, Tipi non comuni, è stata pubblicata da Bompiani nel 2017. Nascita di un capolavoro del cinema (Bompiani) è il primo romanzo, accompagnato dai fumetti scritti da Hanks e illustrati da R. Sikoryak 

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Qual è il segreto di questo processo?

«Il fatto che nessuno deve diventare un problema, perché bisogna risolvere problemi di ogni tipo durante la lavorazione di un film». 

Le grandi storie, che sia Quarto potere di Welles o Batman, hanno sempre radici nell'infanzia?

«Tutti i grandi scrittori ei grandi registi che conosco hanno un evento, un incontro o un'immagine misteriosa che impiegano anni per far germogliare».

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Non le piaceva studiare i libri di scuola?

«A leggere un fumetto ti bastano 20minuti, io avevo a disposizione ore e ore, quindi li studiavo. Sono fatti a blocchi, hanno ritmo narrativo, sono come sceneggiature: molto visivi, tante azioni, dialoghi rapidi e le nuvolette che mostrano i pensieri. E poi erano letture in movimento. Sull'autobus la mia mente vagava fuori dal finestrino, il mondo sfrecciava negli scenari di persone in auto, camion, case all'orizzonte, aeroplani nel cielo, montagne in lontananza e la mia mente inventava sempre storie su ciò che vedevo. E quello che vedevo, così come quello che immaginavo, essenzialmente passava attraverso o si rifletteva in un rettangolo di vetro, il finestrino».

Come uno schermo?

«Esatto. I fumetti nell'autobus sono stati la mia prima scuola di cinema. I paesaggi lontani erano un campo lunghissimo, poi poteva spuntarti da vicino l'autista di un camion che sorpassi, lentamente, lo vedi bene perché stai in alto come lui, da vicino, un primo piano, vedi se canta, fuma, beve caffè, da come è vestito, dall'età immagini che vita fa, ti ricorda un insegnante, il tuo patrigno... finito per chiedermi da dove viene? A cosa stai pensando? Dove sta andando?

Com'è la sua vita? Idem da grande, andando da mia madre, se al semaforo si affiancava unmotociclistami chiedevo: da dove viene? Da cosa scappa?».

Uno dei motori del romanzo sono le lettere che zio Bob, che ha combattuto i giapponesi nel Pacifico, scrive a casa. Lei in famiglia ha lettere simili?

«Quando è morto mio padre, a mio fratello maggiore è arrivata una scatola con effetti personali, lui e mio padre erano molto vicini; e c'era anche la posta che mio padre mandava a sua madre quando lui era in guerra, in Marina, da qualche parte nel Pacificomeridionale. Ricordo una vmail, dove V stava per vittoria, una lettera che era microfilmata e poi stampata. La calligrafia era di mio padre, brutta quanto la mia. In quella lettera non ha detto assolutamente nulla. Ma ha anche detto assolutamente tutto della sua esperienza, a parte dove si trovava, che non era permesso dire.

Lo spazio nella lettera era poco. Diceva: “Sono in un posto affollato e un gruppo di ragazzi sta parlando di razzi, astronavi e di andare su Marte”. Per i nemici ha usato la parola “Jap” (dispregiativa, ndr). E poi: «Non credo che farò nessuna di queste cose per un bel po' di tempo». 

Nella lettera c'era il rapporto di mio padre con sua madre, problematico, il rapporto di mio padre con laMarina, il periodo più infelice della sua vita, e la descrizione di quella che chiamiamo stasi: aveva 19 anni, tutta la vita davanti, ma non sapeva per quanto tempo sarebbe dovuto restare lì. Beh, quella lettera è incorniciata nel mio ufficio, la conservo per i miei nipoti e mi ricorda due cose: quanto poco di tutta la tua vita potevi comunicare in uno spazio ristretto, e il potere con cui poche parole possono esprimere il tono e il carattere di una relazione. Un documento straordinario, nonmeno di un libro di 400 pagine». 

Il libro è anche una risposta a quella lettera?

«In un certo senso sì».

[…] 

Tornando al fuoco civile, penso al suo Chuck Noland in Cast Away, quando accende un fuoco. In quel filmc'è un pacco che il naufrago non aprirà mai, anche se è su un'isola deserta: spera di consegnarlo, se tornerà a casa. Cosa c'era dentro?

«Al regista Zemeckis piace dire che c'era un telefono satellitare con pannelli solari... ma così lo usava e lo venivano a salvare... la storia finisce lì. Per me dentro c'è la stessa cosa che c'è nel Falcone Maltese o nel monolite in2001, Odissea nello spazio. Il McGuffin ha la stessa stoffa dei sogni: il contenuto della scatola è più sorprendente e stimolante di qualsiasi cosa specifica. Per me, dentro c'è la vastità dell'ispirazione e della speranza. Ciò di cui abbiamo bisogno. Il cinema.

E poi: il cellulare a noi ha rovinato la vita...». 

In che senso?

«I telefoni hanno distrutto qualsiasi tipo di pasto che condividi con gli altri, il telefono è fatto per attirare la tua attenzione, ti distrae, distrae gli altri...». 

[…] 

Giorni fa lei ha denunciato che hanno usato la sua faccia e la sua voce, alterata dall'intelligenza artificiale, per la pubblicità di uno studio dentale...

«In realtà non c'era nessun studio dentale lì. Stavano usando una mia versione fake per provare a rubare informazioni personali a chi avesse creduto allo spot... Me lo aspettavo, sapevo che prima o poi sarebbe successo. Sono laico e storico, abbiamo già vissuto questi choc... Pensiamo all'aneddoto per cui di fronte a un treno che vedevano proiettato per la prima volta in un caffé francese alcuni spettatori sarebbero usciti dalla sala come se davvero ci fosse un treno in arrivo . O pensiamo a chi per la prima volta ha sentito delle voci uscire dalla radio... L'AI è qualcosa di simile. Internet è una grande piazza cittadina, reale, dove possono andare tutti. A manifestare, comunicare idee, a vendere la propria merce, anche notizie false e rubare. Bisogna stare attenti ai ladri». 

[…]

Ha detto che Philadelphia, film su un avvocato gay che soffre di AIDS, oggi lo dovrebbe interpretare un gay. All'epoca un attore etero serviva a non spaventare il pubblico? Lei vinse un Oscar...

«Erano gli Anni 90 c'era una volontà diffusa di far finta che l'Aids non esistesse, idee di ogni tipo sulla sua origine, le responsabilità... Il film competeva sul mercato e aveva senso che il personaggio fosse fatto da un attore non gay. Oggi è diverso, c'è un tipo di legittimità che dice: perché qualcuno dovrebbe fingere di essere qualcosa che non è per rendere una storia più appetibile? Vale a livello etnico, di genere, sessuale... Siamo tutti bambini grandi adesso, e da un lato significativo, incredibilmente, accettiamo molto di più chi sono le persone e come affrontarle».

Lo scopo di chi recita non è mettersi e metterci nei panni degli altri? La cancel culture contro l'appropriazione culturale rischiando di impedirlo.

«Proviamo con l'arte. Anni fa è stato esposto L'origine del mondo negli Usa, un dipinto così scioccante che alcuni, disgustati, chiedevano fossero rimossi. Altri ribattevano esaltandolo. Io, invece, mi chiedo: cosa può fare di male al mondo di qualcuno una rappresentazione bidimensionale della vagina di una donna?

Certi frammenti di creatività stimolano le passioni, e le passioni non sono giuste al 100% e non sono sbagliate al 100%, ma sono individuali al 100% e animano opinioni. Ci sarà sempre chi dice: come osi raccontare questa storia? C'è dell'estremismo, sì,ma poi il pendolo andrà dall'altra parte, speriamo non troppo. Oggi noi siamo in grado di gestire il mezzo e il messaggio dobbiamo farlo. Io punto al livello intermedio, in cui tutti si calmano e capiscono che una cosa che non piace non va presa come un'offesa. Nei dibattiti sull'appropriazione culturale invece le persone o non prestano attenzione perché stanno urlando troppo o stanno urlando perché nessuno presta attenzione».

Estratto dell’articolo di Walter Veltroni per il “Corriere della Sera” il 7 aprile 2023.

Tommaso Paradiso ha vinto undici dischi d’oro e trentasei di platino. Però è un tipo che sta molto per conto suo.

Ora, dopo una lunga pausa, torna con un singolo dal titolo «Viaggio intorno al sole».

 Con un tour che inizierà a novembre.

«Sono contento. Io sono posseduto dal mio lavoro. È una passione fare tutto: scrivere testi, comporre musica, eseguirla in un disco o dal vivo. È una febbre che mi mangia dentro, quando non c’è. Sinceramente ho difficoltà a relazionarmi con altro che non sia la musica. La vita mi ha consentito di far diventare la mia passione addirittura il mio lavoro. E io le sono grato».

 (...)

 Siamo ossessionati dai numeri, dall’immediato, dal successo di un istante che alimenta la nostra autostima e placa le nostre ansie. Tutto il sistema dei media, specie quello digitale, impone a cadenza regolare un monoargomento che deve impegnare le parole di tutti, ovunque. L’algoritmo è un imbuto nel quale, dalla parte larga, vengono immessi milioni di dati e da quella più stretta esce una sola goccia che deve imporsi e valere per tutti. Il nuovo pane quotidiano ce lo fornisce l’algoritmo, dio e padrone».

(...) Lei ha sofferto di un disagio che ora è molto diffuso, gli attacchi di panico.

«L’ho affrontato, questo problema, con l’analisi. Ed è stato molto utile. Le cose ora vanno meglio. Il primo episodio fu quando avevo diciotto anni, alla fine della scuola. È un momento difficile, per i ragazzi. Ci si separa da molte certezze e da quel momento di attesa e di scoperta che è l’adolescenza e ci si sente proiettati in una dimensione sconosciuta, chiamati a fare sul serio. In classe, lo ricordo ancora, fui impressionato da un quadro del Seicento in cui veniva rappresentato un uomo con il corpo da angelo e la testa da diavolo. Mi mancò il respiro, corsi fuori a cercare aria e acqua da gettarmi sul viso. Da allora ne ho avuti molti di episodi così e una volta sono anche finito in ospedale. Ora sono quasi spariti e comunque l’analisi mi ha dato gli strumenti per razionalizzarli e dominarli».

 Com’era la sua stanza da ragazzo?

«Molta musica, sulle pareti e nell’aria. Ho cominciato a suonare che avevo 17 anni con un gruppo che si chiamava i Kosmoradio. La mia stanza era tappezzata da disegni di John Lennon, da un poster degli Oasis che avevo preso a una discoteca che si chiama “L’Allegretto” e poi una televisione, uno stereo e dei libri.Di scuola, che non potevo rivendere perché li sottolineavo freneticamente, ma anche romanzi classici come Bel Ami o I Promessi sposi , che mi piacevano molto. Tra i contemporanei ho molto amato Underworld di De Lillo».

So che è appassionato della commedia all’italiana.

«Sì, vado matto per tutta quella parte di storia del cinema italiano. Io cerco, nei prodotti dell’immaginario, un riparo, una riconciliazione, vorrei sentirmi protetto. Quei film hanno l’effetto di farmi stare bene. E mi piacciono i colori e i paesaggi di quelle stagioni, mi piace enormemente l’Italia prima che fosse saccheggiata e imbruttita architettonicamente».

 Lei è cresciuto senza padre, che è andato via quando aveva sei mesi, e quindi avendo come riferimento esclusivamente una figura femminile.

«All’inizio non mi accorsi neanche di avere un padre.Per questo sorrido quanto ascolto certi discorsi sulla necessità delle due figure tradizionali come garanzia di una famiglia perfetta. Per me, bambino, era quella formata da mia madre e da me, la famiglia giusta. Mamma, per sopperire all’assenza di una figura maschile, è stata molto severa.

 Talvolta mi incuteva persino terrore, lo faceva per proteggermi, perché poi mi ha sempre ricoperto d’amore e di cura e mi ha sempre lasciato libero di fare la mia strada. Ancora oggi siamo molto legati. Recentemente sono stato a pranzo con lei e a un certo punto, eravamo su una terrazza da cui Roma sembrava ancora più bella, si è messa a piangere. Era semplicemente contenta che fossimo insieme, tutto qui».

Ha mai incontrato suo padre?

«No, non l’ho mai conosciuto. Si è fatto vivo solo una volta, su Instagram. Io avevo messo una frase tratta da un mio brano, “Dr. House”. In foto ero con Carlo Verdone, al quale voglio un gran bene.

 La frase che avevo postato era: “Ma forse cerco solo un padre”. Lui ha scritto sotto “Guarda che un padre tu ce l’hai”. Non ho mai risposto, non voglio farmi del male, non voglio cercare tormento. Non so cosa lui abbia fatto nella vita e il suo volto l’ho visto solo quella volta, quando sono risalito al suo profilo. Non ho provato emozioni. Lo schermo del cellulare raffredda, mette distanza. E poi ora non ho più paura del vuoto».

"Lasciatemi cantare". L'inno di Cutugno compie quarant'anni. "L'italiano" fu lanciata, nel 1983, sul palco di Sanremo ma il successo arrivò dall'estero. Da noi parlare di "spaghetti al dente" non faceva canzone impegnata. Paolo Giordano il 18 Luglio 2023 su Il Giornale.

Intanto l'abbiamo cantata tutti, magari solo un verso, magari per scherzo oppure di nascosto, o magari per riflesso condizionato perché quella melodia e quelle parole sono entrate nel sentire comune di un paio di generazioni. «Lasciatemi cantare perché ne sono fiero, lasciatemi cantare sono un italiano vero». L'italiano di Toto Cutugno compie quarant'anni, fu cantata per la prima volta in gara al Festival di Sanremo e da lì ha seguito il tipico circuito di tanti brani super popular magari snobbati all'inizio ma poi adottati a furor di popolo. A Sanremo, in un Festival azzoppato e obbligato quasi per intero al playback (solo Cutugno, Fiordaliso, Morandi, Amii Stewart e Gianni Nazzaro ci rinunciarono) arrivò quinta per il pubblico e seconda per il Premio della Critica ma è tuttora uno dei brani popolari italiani più conosciuti, tradotti e cantati nel mondo. Perché? Intanto perché ha una melodia vincente e poi perché aderisce (aderiva) al cliché dell'italiano visto dallo straniero, all'idea che si era fatto sin dai film di Germi e di De Sica, degli «italiani brava gente» (come nella storia diretta dal regista De Santis) che amano «gli spaghetti al dente» che davvero per decenni sono stati quelli del «caffè ristretto, le calze nuove nel primo cassetto, con la bandiera in tintoria e una 600 giù di carrozzeria».

Toto Cutugno, che ha appena compiuto 80 anni, aveva avuto la prima intuizione dell'Italiano mentre era in tour all'estero, in Canada, proprio incontrando quegli «italiani veri» che non avevano bisogno di presentarsi perché si presentavano da soli. «Buongiorno Italia che non si spaventa, con la crema da barba alla menta, con un vestito gessato sul blu e la moviola la domenica in tv». Avendo collaborato spesso con Adriano Celentano, l'idea era di confezionare il brano su misura per lui e, a quanto pare, la parola Adriano era anche in una delle prime versioni del testo scritto dal bravo Cristiano Minellono. «Andiamo da Celentano, che stava facendo Il bisbetico domato con la Muti» ha raccontato Cutugno da Fazio qualche anno fa. «Lui ha sentito la canzone e poi ha detto queste semplici parole: Io questa canzone non la farò mai, non ho bisogno di dire che sono un italiano vero. Perché la gente lo sa che sono così». Fine.

Il brano è stato proposto ad altri, persino all'imitatore Gigi Sabani in chiave parodistica, ma niente. Allora Cutugno l'ha cantata al Festival e gli è decisamente andata meglio così visto che il brano ha venduto oltre cento milioni di copie, è stato tradotto in tante lingue compreso l'indiano, il finlandese e il cinese. Naturalmente in Italia il brano fu accolto con quella sorta di snobismo autolesionista che, specialmente in quegli anni, era addirittura feroce. Nell'epoca dei cantautori «impegnati», per piacere alla gente che piace(va) bisognava mostrare un riflesso ideologico anche piccolo così, anche nascosto, anche solo immaginato. Perciò un brano sulla passione per «gli spaghetti al dente» di un popolo «con l'autoradio sempre nella mano destra e un canarino sopra la finestra» era fatto apposta per essere snobbato. Neppure «un partigiano come presidente» (ossia Pertini al massimo della popolarità dopo l'esultanza al Santiago Bernabeu per gli azzurri del Mundial) o il chiarissimo «con troppa America sui manifesti» del testo levarono al brano l'«insopportabile tanfo» piccolo borghese. Roba oggi praticamente incomprensibile, ma allora molto, troppo presente anche nelle valutazioni della critica. Non a caso L'italiano risulta solo il diciottesimo tra i 45 giri più venduti dell'anno (già c'erano ancora i piccoli dischi di vinile che oggi la Generazione Z manco sa cosa siano) e, tutto sommato, il pubblico più giovane, perso tra new romantics, dark e heavy metal, sostanzialmente non adottò questo brano. Tra l'altro, oltre all'immortale Vacanze romane dei Matia Bazar arrivata quarta, in quella edizione di Sanremo c'era pure Vita spericolata di Vasco Rossi che non c'era paragone quanto ad appeal sui ventenni.

Però lentamente L'italiano diventa un prodotto da esportazione e il successo di Toto Cutugno in Russia e nell'Est europeo è un propellente mica male. Insomma, non ci sono soltanto gli italiani all'estero, che impazziscono per quel brano, ci sono anche gli stranieri che cantano L'italiano, magari tradotto, magari storpiato. Qui da noi il successo si calcola più che altro nell'utilizzo diffuso, anche giornalistico, di tanti versi della canzone e nella tenerezza verso quelle parole e quella melodia che basta una nota per riconoscerla.

E adesso? A quarant'anni dalla pubblicazione, di sicuro L'italiano ha avuto meno riconoscimenti di quanto meritasse (anche da Sanremo, a parte Fazio nel 2013 e il coraggioso Francesco Gabbani nel 2020). Ma resta uno dei brani più popolari della nostra musica leggera, la fotografia di un popolo che al cinema poteva essere raccontato così ma nella musica no, nonostante all'estero tanti praticamente lo considerino il nostro inno.

Da ansa.it sabato 8 luglio 2023.

Per celebrarlo nel giorno del suo compleanno un'intera pagina del Corriere della Sera a firma 'La tua famiglia Carosello - Curci' con una foto in cui il cantautore, da giovane, elegantissimo in smoking, sorseggia da un calice di champagne.

"Auguri Toto 80. Artista infinito, autore geniale, carissimo amico" è la scritta che campeggia sulla pagina del quotidiano. 

Tra i messaggi di auguri sui social spiccano quelli di Lorenzo Jovanotti che posta su Instagram un video in cui canta insieme a Toto Cutugno e scrive "BUON COMPLEANNO TOTO!!!

Da repubblica.it sabato 8 luglio 2023. 

Era il 1983 quando, con la sua chitarra, arrivava sul palco del festival di Sanremo e in giacca e cravatta salmone intonava “Lasciatemi cantare con la chitarra in mano...” e la sua popolarità esplodeva in tutto il mondo. Quarant’anni fa Toto Cutugno ampliava il suo successo nel mondo (le tournée all’estero erano fino a quel momento piene di italiani immigrati) trasformandolo con quel brano, che a Sanremo si era piazzato solo quinto in classifica, tra i musicisti italiani più amati all’estero, con una particolare predilezione in Russia.

Oggi Cutugno compie 80 anni, altri quaranta sono passati da quell’esibizione che ha cambiato la sua vita e la sua carriera. Non si trattava certo però del suo primo exploit, il successo lo aveva già portato in tutto il mondo. Nato a Fosdinovo, in provincia di Massa Carrara, figlio di un sottufficiale della marina, il piccolo Salvatore cresce a La Spezia per motivi di lavoro del padre che è colui anche che lo avvicina alla musica. Il padre suona la tromba in una banda e coinvolge anche Toto che prima si applica al tamburo, poi alla batteria infine alla fisarmonica poiché un pianoforte è troppo costoso.

Il primo concorso è a tredici anni poi poco più che ventenne comincia a formare dei gruppi dove è lui l’anima propulsiva: Toto & i Rockers; entra poi sempre come batterista nel gruppo Ghigo e i goghi in cui resterà per un anno, nel 1965 crea Toto e i Tati,  l'attività di batterista gli assicura un contratto con la Carosello Records. Il debutto come cantante è con un nuovo gruppo, gli Albatros con cui partecipa la prima delle quindici volte al festival di Sanremo, un record che condivide con Al Bano, Peppino di Capri, Milva e Anna Oxa.

(…)

Nel 1980 torna a Sanremo da solista con Solo noi, pezzo che si piazza secondo nella Hit parade e nella Top 20 dei singoli più venduti del 1980, anno importante per il musicista che partecipa anche al Festivalbar, continua a sfornare sigle per Mike Bongiorno (Flash), continua a scrivere per Celentano (Un po' artista un po' no) ma si separa anche da Vito Pallavicini, autore di molti testi delle sue canzoni. L'italiano era stata scritta per Celentano ma non volle cantarla, non è che non l'apprezzasse ma non voleva quella frase sull'italiano vero "non ho bisogno di dire che sono un italiano, un italiano vero. Perché la gente lo sa che sono così", aveva detto a Cutugno.

La genesi della canzone Cutugno l'ha raccontata a Fabio Fazio: "Devo dire che questa canzone è nata in Canada. Eravamo a mangiare con i ragazzi, coi miei musicisti, dopo aver fatto il concerto. C’era qualche chitarra perché capitava che poi si suonasse… E io ho detto: ‘Dammi la chitarra un attimo’. Ho fatto un la minore, ho fatto: ‘Lasciatemi cantare…’, così. Poi ho preso un pezzo di carta, ho scritto il rigo musicale e ho scritto le note. Poi sono andato a Milano, vado da Popy Minellono che ha scritto questo capolavoro”. Rivera convinse Cutugno a cantarla a Sanremo, il brano scalò le classifiche europee, tantissime cover di artisti diversi, milioni di dischi.

La carriera ovviamente dopo quel boom prosegue con grandissimo successo, i ritorni a Sanremo negli anni Ottanta, i brani di successo Serenata, Mi piacerebbe, Azzurra malinconia, Emozioni, Le mamme continua a scrivere anche per altri Fausto Leali, Peppino Di Capri, i Ricchi e Poveri, Califano, Fiordaliso.  Alla musica si affianca anche una carriera televisiva, dopo aver firmato varie sigle di trasmissioni popolari dal 1989 al 1992 conduce in RAI la trasmissione Piacere Raiuno. Nel 1990 vince l'Eurovision Song Contest a Zagabria con Insieme: 1992. La vittoria porta la manifestazione a Roma l’anno seguente, come da tradizione ed è lui a presentarlo insieme a Gigliola Cinquetti che l’aveva vinto nel 1964.

Per tutti gli anni Novanta affianca alla produzione musicale la carriera tv: con Raffaella Carrà ne La vela d'oro, con Giorgio Faletti Stasera mi butto... e tre!, dal 1998 conduce varie edizione del programma I fatti vostri su Raidue. Mentre continua instancabile la carriera musicale e televisiva, le tournée in tutto il mondo nel 2007 scopre di avere un tumore alla prostata che rallenta la sua attività ma nel 2008 è già di nuovo sul palco di Sanremo con Pippo Baudo a presentare Un falco chiuso in gabbia, quarto in classifica.

A Sanremo continua a tornare per duetti (con Belen, con Tricarico), Iggy Pop gli dedica una cover di Après, dieci anni fa nel festival di Fazio partecipa insieme al Coro dell'Armata Rossa canta la sua L'italiano e Nel blu dipinto di blu, in omaggio a Modugno. La sua vicinanza alla Russia gli procurerà poi diversi guai, nel 2019 deputati di Kiev chiederanno per lui il divieto di ingresso perché “filo russo”.

Federica Macagnone e Francesco Persili per Dagospia.com - 13 feb 2023  

(…) Un grande classico le frecciate tra giornalisti e cantanti. Resta stracult il botta e risposta tra Luzzatto Fegiz e Toto Cutugno al Dopofestival del 2008. “Hai preso migliaia di dollari in Russia e in tutto il mondo e riesci ancora a stonare a Sanremo”. La replica del cantante: “Stronzate, sei indelicato quando parli di soldi. Quante volte hai chiesto di venire in Russia con me”. E Fegiz: “Migliaia di volte. Mi ci hai mai portato?”

Estratto dell’articolo di Giulia Cazzaniga per “la Verità” lunedì 7 agosto 2023.

[…] Tullio Solenghi […] L’attore genovese, classe 1948, scalda la voce per l’autunno: una nuova sfida lo attende, con l’amico di una vita Massimo Lopez. Dal 2017 a oggi hanno contato più di 300 repliche del loro show scritto per il palcoscenico, ed è venuta l’ora di cambiare e rinnovare. Sta lavorando a un nuovo spettacolo, ma «è ancora tutto un lavori in corso, non posso anticipare nulla». 

Si chiamerà Dove eravamo rimasti e debutterà al Teatro comunale di Ferrara il 10 di novembre. Con Lopez vi aspetta una nuova avventura, e sono più di 40 anni che lavorate insieme.

«Il merito fu di Anna Marchesini, quando ancora lei e io eravamo un duo: mi parlò di lui apprezzando le sue doti straordinarie di imitatore. Le sliding doors della vita: lo avevo già conosciuto qualche anno prima. Gli avevo passato il testimone al Teatro Stabile di Genova per la parte di Berto ne Il fu Mattia Pascal con Giorgio Albertazzi. Iniziai così a immaginare il nostro Trio: la prima avventura insieme fu condividere anche come autori una trasmissione su Radio 2, nel 1982». 

[…] Gli anni dei suoi inizi professionali sono forse irripetibili.

«Gli anni di un ambiente unico, sì: lasciai Genova per Milano. Feci il provino per il Derby e convinsi Gianni Bongiovanni, lo zio di Diego Abatantuono, però poi lavorai al Refettorio di via San Maurilio, un locale che oggi non esiste più. Mi alternavo con un altro genovese: Beppe Grillo. Io facevo il primo tempo, lui il secondo».

E non siete gli unici ad aver sfondato.

«Da Marco Columbro a Zuzzurro e Gaspare, dai Gatti di Vicolo Miracoli alla Smorfia con Troisi, Arena e De Caro, tutti sulla scia dei capi scuola: Villaggio, Pozzetto, Cochi Ponzoni, Jannacci… Eravamo tutti contemporanei e matricole in ascesa, e nessuno avrebbe immaginato il successo che poi ci hanno riconosciuto. Ci è andata bene, sarà che molti di noi avevano talento. Il Trio, poi, nella ricetta del successo ha aggiunto qualche contromano in autostrada…». 

Cioè?

«Dopo gli apprezzamenti che ottenemmo con Domenica In, in Rai volevano affidarci la conduzione del fantastico sabato sera di Rai 1. Tutti ambivano a quella fascia, come è ovvio, e lo chiesero a noi che invece rispondemmo “no, grazie”. Scegliemmo di dedicarci ai Promessi sposi». 

Era il 1990, la parodia dell’opera di Manzoni ebbe un successo strepitoso.

«Andammo controcorrente, e fummo premiati». 

Si arrabbiarono, a viale Mazzini?

«Non la presero bene da subito, quando per “punizione” a fare i nostri Promessi Sposi ci spedirono nella sede di Torino, dove si facevano solo pomeridiane e spettacoli per ragazzi. […] I nostri Promessi sono poi diventati un cult. Quasi 15 milioni di spettatori per la prima puntata. Peccato, in Rai all’inizio non ci capirono. Allora c’era Biagio Agnes direttore generale». 

Avete poi fatto pace con lui?

«Mai più incontrato, a dire il vero. Faccio spesso ironia sulla Rai: le riunioni sono lunghe e laboriose, quando si tratta di discutere di nuovi progetti. Entri con un interlocutore, esci che ce n’è un altro. Glielo assicuro: non è una battuta, accade davvero». 

Anna e Massimo, partner professionali e pure amici, per lei. A pensarci ora, sarebbe stato una persona diversa senza di loro?

«È ed è stata un’amicizia fraterna. Credo di aver vissuto con loro una dimensione famigliare, che per uno come me che ho sempre messo al centro mia moglie e le mie figlie - e oggi i nipoti - può suonare quasi come blasfemo. Anna mi ha insegnato l’abnegazione e la determinazione, e soprattutto la capacità di non lasciarsi condizionare da ciò che ci precedeva in termini artistici. […] Abbiamo dovuto lottare forse più di altri che si lasciavano trascinare dalla corrente. […]».

E Massimo?

«Massimo è sempre stato l’esatto contrario, una sorta di “poeta tra le nuvole”, un Pierrot lunaire, come lo chiamo io. Ho imparato da lui che ogni tanto occorre anche staccare, mollare la presa». 

Rimpianti ne ha?

«[…] L’unica lacuna è forse che non abbiamo mai fatto cinema. Cani e porci un film l’hanno fatto, e anche noi stavamo per…». 

Cosa accadde?

«Avevamo scritto un progetto e facemmo il giro delle sette chiese per trovare chi ci credesse. Con Cecchi Gori andò bene: ricordo il brindisi a casa sua, in pompa magna: “Allora si comincia”, disse baldanzoso. Poi però delegò tutto a Rita Rusic, allora stavano insieme». 

E?

«Nulla, non la abbiamo mai più sentita. Strano, no? Dormo sonni tranquilli lo stesso, glielo assicuro. Ma non abbiamo più brindato, per scaramanzia (ride)». 

Chi le piace tra i comici di oggi?

«Maurizio Crozza, Maurizio Lastrico, di certo». 

[…] «Il genovese abita da sempre una terra meravigliosa ma anche complicata. Faccio sempre l’esempio del contadino padano, che si sveglia, esce di casa, va nel campo accanto e semina. Quello ligure invece per arrivare al campo deve inerpicarsi per terrazze scoscese, perché il territorio è così, complicato. Genova ha poi i vicoli stretti perché si difendeva dall’invasione dei turchi o di chi fosse arrivato dal mare. È una terra, la mia, che ha bisogno di essere protetta da gente coriacea. Forse per questo a volte sembra meno disponibile al sorriso».

Quali altri personaggi la fanno ridere?

«Mi piaceva Daniele Luttazzi, ma non si vede più in giro. E trovo geniali i personaggi di Corrado Guzzanti, quelli degli albori soprattutto. Straordinario». […]

«Figlio di Bono? Sì, ma il vero nepotismo è in politica». Marta Blumi Tripodi su Il Corriere della Sera il 23 Gennaio 2023.

In uscita il 17 febbraio «Cuts & Bruises», nuovo album del gruppo irlandese capitanato da Elijah Hewson. «Se cresci in una casa di musicisti è normale assorbire la passione di famiglia. E farla tua»

A prima vista gli Inhaler, con un album di debutto arrivato ai vertici delle classifiche inglesi, sembrerebbero una qualsiasi promettente band di ventenni. Non fosse per un piccolo particolare: il padre del frontman Elijah Hewson è Bono Vox degli U2, da cui ha ereditato l’inconfondibile timbro e la grande presenza scenica. Il gruppo, però, si è fatto le ossa come tutti gli altri, suonando nei pub delle campagne irlandesi («in piedi sui tavoli, perché non c’era neanche un palco») fino ad aprire il tour degli Arctic Monkeys.

«Se cresci in una casa piena di musicisti, è normale assorbire la passione di famiglia e farla tua — ragiona Elijah —, ma nessuno comprerà mai i tuoi dischi solo perché tuo padre è famoso: devi comunque dimostrare di valere qualcosa». I commenti social sui nepo babies, come chiamano oggi i figli d’arte, non lo feriscono: «Il vero problema è il nepotismo nella finanza e nella politica. In fondo questo è solo intrattenimento».

I fan degli Inhaler, talmente giovani che spesso ignorano addirittura chi siano gli U2, sono d’accordo con lui: cresce l’attesa per «Cuts & Bruises», il secondo album della band, in uscita il 17 febbraio. I tagli e i lividi del titolo sono quelli che si sono procurati cercando di «tornare innanzitutto amici e non solo colleghi: con la fama rischiavamo di perderci. Quando fondi una band a 12 anni non lo fai per conquistare il mondo, ma per la voglia di stare insieme», raccontano.

Cresciuti insieme a scuola, si sentono una squadra: «Se uno di noi si sente troppo sotto pressione, subentrano gli altri». Senza mai esagerare. «Ci siamo imposti la regola di non fare festa tutte le sere e di tornare nel tour bus a decomprimere dopo ogni show. Non vogliamo essere il tipo di rock star che tra vent’anni avrà dimenticato tutto ciò che gli è successo in passato perché era sempre su di giri. Vogliamo fare tesoro di ogni cosa».

Fatture false per giustificare compensi in nero: comico barese Uccio De Santis condannato. Un anno e due mesi di reclusione, pena sospesa. Assolto da due ipotesi di dichiarazione fraudolenta perché il fatto non sussiste. La vicenda contestata dai pm baresi risale agli anni 2012-2017. ISABELLA MASELLI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Settembre 2023

Il Tribunale di Bari ha condannato il noto comico barese Gennaro De Santis, in arte Uccio, a 1 anno e 2 mesi di reclusione (pena sospesa) per il reato di “emersione di base imponibile” e lo ha assolto da due ipotesi di dichiarazione fraudolenta “perché il fatto non sussiste”. La vicenda contestata dai pm baresi risale agli anni 2012-2017.

De Santis – è il reato per il quale è stato condannato - quale titolare della ditta individuale che porta il suo nome, esercente “attività di interpretazione nel campo della recitazione”, a seguito delle richieste effettuate dalla Guardia di Finanza in sede di verifica fiscale, si sarebbe avvalso di documenti falsi, fornendo – hanno accertato le indagini – “dati e notizie non rispondenti al vero”. Nel dettaglio, avrebbe creato “a posteriori, fatture ad hoc, fatte apparire come emesse da altro soggetto economico, la cooperativa Idea comunicazione e spettacolo” della quale era presidente del cda, “allo scopo di legittimare fiscalmente incassi e prestazioni artistiche conclusi in nero”. Non solo: avrebbe creato fatture con l’intestazione della cooperativa Idea “allo scopo di documentare fiscalmente compensi del proprio lavoro autonomo” e anche ricevute false “per rimborso spese, intestate a ignari soci lavoratori della cooperativa, che ne disconoscevano il contenuto e la sottoscrizione”.

Le accuse ritenute insussistenti riguardavano la contestata evasione Irpef nel 2012 e nel 2013 per complessivi 180mila euro. La Procura gli contestava si aver redatto “scritture extracontabili, una sorta di agenda, volte a documentare lavoro autonomo che in gran parte aveva svolto in nero”, facendo poi fatturare il lavoro da lui svolto dalla società cooperativa Idea. Da queste contestazioni Uccio De Santis è stato assolto.

Estratto da rockol.it sabato 8 luglio 2023.

Quelle sei lettere stampate sulla canottiera che indossa nel video che riproduce i riti che esegue al momento di salire sul palco, mostrato sul maxischermo orizzontale che si illumina non appena si spengono le luci dello Stadio Olimpico, prima dell’ingresso con “Sono pazzo di te”, gli ricordano che Ultimo non è un nome d’arte. È semmai un’idea, un concetto, una filosofia. Niccolò Moriconi lo ribadirà anche alla fine dello show, sulle note di “Sogni appesi”, la sua canzone-manifesto: “Da quando ero bambino, solo un obiettivo / dalla parte degli ultimi, per sentirmi primo”, urlerà, con tutta l’adrenalina che ha in corpo, facendosi specchio, immagine riflessa di chi gli sta davanti e intorno.

Quello che ieri sera lo ha visto tornare ad esibirsi nella sua città a un anno dallo show al Circo Massimo è stato il primo di tre concerti - replica stasera e poi ancora lunedì - per i quali gli organizzatori hanno dichiarato altrettanti sold out: 195 mila i biglietti venduti. La favola di Ultimo assume dimensioni sempre più epiche. 

Come in ogni favola, anche in quella di Niccolò-Ultimo ci sono degli antagonisti. Non importa se immaginari o reali. Per Ultimo sono i detrattori. Il primo sassolino dalle scarpe, sul palco dell’Olimpico, se lo leva nel duetto intergenerazionale con Antonello Venditti, che definisce un “padre artistico”, su “Sora Rosa”: “C’ho er core a pezzi pe’ la vergogna / de questa terra che nun m’aiuta mai / de questa gente che te sputa n’faccia / che nun ha mai preso ‘na farce in mano”, canta, in romanesco, portando nei versi di una delle prime canzoni di Venditti l’insolenza e la disillusione di chi è sempre stato ai margini, quella sana rozzezza di chi è nato ai bordi di periferia.

“È una canzone che parla agli ultimi. L’ascoltavo quando avevo 15 anni”, racconta Ultimo, sotto lo sguardo severo di Antonellone, prima di sedersi con le gambe incrociate a guardare il maestro alle prese con la classica “Notte prima degli esami”. 

Su “Canzone stupida”, come al debutto della scorsa settimana a Lignano Sabbiadoro, arriva l’attacco ai giornalisti. È una strategia di posizionamento: andare contro la stampa è comodo, funziona. Soprattutto se tra tutti gli articoli usciti in questi anni sceglie i quattro o i cinque che sono più funzionali al tipo di racconto che vuole costruire. “Canzone stupida, canzone stupida / come te, come quello che scrivi”, sorride, indicando gli articoli riprodotti sul maxischermo.

LA LETTERA DI DAVIDE DESARIO

Davide Desario per leggo.it sabato 8 luglio 2023.

Caro Niccolò, questa è un’altra volta la tua sera. È la sera di tutti i romani che si sentono ultimi e amano Ultimo. Ti amano per come sei. Per le tue canzoni, prima di tutto. Ma anche per il tuo essere così: un po’ chiuso e un po’ sensibile; un po’ gioioso e un po’ triste; un po’ pieno di te e un po’ fragile. Come tutti, in fondo. E forse è questo il segreto del tuo successo, del tuo essere a 27 anni già un punto di riferimento per tantissime persone, donne e uomini, giovani e meno giovani. 

E anche stasera sono tutti qui a cantare, ad ascoltarti, a ballare, a filmarti con i cellulari e a sbatterti sui loro profili Instagram e Tik Tok. È bellissimo. Come fu bellissimo all’Olimpico 4 anni fa e al Circo Massimo lo scorso anno. Per questo Leggo, il giornale gratuito del Paese reale (quello che prende i mezzi pubblici per andare a lavorare, a scuola, all’ospedale), ha deciso di celebrare questo evento realizzando un numero speciale, sempre gratis, dedicato a te. Avremmo voluto farti un’intervista per parlare della tua musica, delle tue emozioni.

Sarebbe stato un altro tuo grande regalo a tutti coloro che ti seguono, ti apprezzano e hanno pagato un biglietto per te. Ma il tuo staff ha detto no. Abbiamo chiesto allora se potevi darci un articolo a tua firma, sempre da dedicare ai tuoi fan, ma hanno detto no. In un estremo tentativo di fare qualcosa di speciale per te e per il tuo pubblico abbiamo chiesto semplicemente una tua fotografia, con la dedica per i lettori di Leggo che avrebbero preso l’inserto. Pensa che bello: una pagina unica che avrebbero potuto attaccare in cameretta, al bar, in ufficio. 

Ma il tuo staff ha detto no. Noi ce l’abbiamo messa tutta lo stesso per realizzare questo numero. E continuiamo a sostenerti ed apprezzarti, così come sei. Quando però resti male per come qualcuno, giornalisti compresi, ti tratta pensa anche a come il tuo entourage, quello che viene pagato da te e dovrebbe fare il tuo bene e consigliarti la cosa migliore, tratta gli altri. Perché siamo tutti ultimi. E tu lo sai meglio di tutti. Daje

Sandra Cesarale per il “Corriere della Sera” il 30 maggio 2023.

«Sento suonare il citofono ma non vedo chi c’è al cancello. Allora mi trasformo in una finta domestica filippina: “Il signore non c’è vuole lasciare detto a me?”. Risposta: “Mi chiamo Anna, sono qui con mio fratello Ciro che domani deve operarsi e voleva salutare Renato per farsi coraggio”. A quel punto ho “congedato” la fantomatica filippina, li ho fatti entrare in casa e non sono più usciti dalla mia vita». 

Era il primo incontro di Renato Zero con la mamma e lo zio di Ultimo (Niccolò Moriconi) che sul Corriere ad Aldo Cazzullo ha raccontato: «Lui Zero e io Ultimo, siamo un po’ parenti». E l’autore del Cielo , in vacanza terminato il tour, racconta la sua versione della storia. «Ho conosciuto Anna che era ancora fidanzata e ho seguito da vicino la famiglia, anche la guarigione di Ciro».

Anna e Ciro erano sorcini?

«Fra tutti e due se la battevano. Il pubblico è fondamentale nella mia vita, è come se fossi sposato con un mare di gente. Dovrei avere il dono dell’ubiquità perché delle volte ho giornate talmente piene di strette di mano e appuntamenti che per concedermi a tutti dovrei essere Nembo Kid. Nella prossima vita sarò dotato di ali supersoniche». 

E con Niccolò?

«Quando era nella fase dei provini, alla ricerca di un produttore discografico, gli ho dato dei consigli. Nelle sue canzoni c’era sostanza. Avevo già prodotto dei giovani, però i risultati non erano mai positivi perché la mia presenza era talmente ingombrante che invece di fargli un regalo gli facevo un torto. L’ho benedetto da lontano, gli ho spedito la mia energia via etere, mi pare che abbia funzionato». 

Si rivede in Ultimo?

«Sono nato in una Roma nobiliare, dove giravano i Torlonia e gli Odescalchi, i grandi signori, un popolo eletto. Quando ci hanno sfrattato per mandarci nella borgata ho capito che mi trovavo meglio. Anche Niccolò arriva dalla periferia, una palestra dove ci si fanno i muscoli veri e si rinforza il talento. A questo ragazzino minuto non veniva prestato grande interesse, è una condizione che ho vissuto pure io, amplificata per un milione, perché mi mostravo con tutto il mio corredino di piume e paillettes: per 24 ore al giorno, ero il cenerentolo che doveva subire osservazioni e apprezzamenti. Credo che anche lui abbia vissuto la stessa ansia e la stessa voglia di riscatto. La sua è la mia seconda vittoria».

Ultimo le aveva chiesto un aiuto per Sanremo Giovani e lei ha rifiutato.

«L’Italia brilla di geni e grandi figure, ma si perde dietro alla raccomandazione, ai mezzucci per guadagnare un posto in classifica. Quando arrivai secondo a Sanremo, mi chiesero che effetto mi facesse. Io: “Secondo Matteo, secondo Luca, nel Vangelo sono arrivati tutti secondi pensa che gran regalo ho ricevuto oggi”. La forza di noi artisti è guadagnarci il pane, convincendo gli altri a sceglierci. Per questo a Ultimo ho detto: “Non ti farei un favore ad aiutarti e non me lo farei nemmeno io”». 

(...) 

Gentile e pure generoso?

«Quando Ciro è venuto da me voleva un raggio di sole. Gli ho aperto la porta perché di fronte a queste cose non mi tiro mai indietro. Anzi me le vado a cercare perché l’indifferenza mi infastidisce».

Cosa fa?

«Scomodo il 62,6% dei miei amici che sono medici, chissà perché. Uno dice: “Tu camperai cent’anni”. No, io gli rompo i co... per gli altri: “Pronto so’ Renato mi devi fare ’sto favore”. Ma quando riesci nell’intento sei più appagato».

Ultimo: «Sono ipocondriaco. Jacqueline? Ci siamo innamorati senza esserci baciati. Mahmood? Ognuno si fa i cavoli suoi». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 28 maggio 2023. 

Il cantante: «Renato Zero si rifiutò di raccomandarmi. I gestacci contro di me a Sanremo? Ci ho sofferto». La scuola: «Sono stato bocciato due volte al liceo e non me ne vanto. Un prof mi diceva: con la musica non si campa» 

Ultimo, qual è il suo primo ricordo?

«La Roma. Abbiamo vinto lo scudetto. Ho solo cinque anni, papà non può portarmi con lui allo stadio; però mi porta a casa una zolla del prato dell’Olimpico, avvolta in una sciarpa giallorossa».

Cosa faceva suo padre?

«Fino al 2010 aveva una società di costruzioni. Non eravamo poveri, il piatto in tavola non è mai mancato, pur vivendo in un quartiere molto popolare, san Basilio, che poi è a un chilometro e mezzo da dove sto adesso. Mi sentivo un privilegiato, ho sempre vissuto questa doppia condizione, e ho imparato molto su entrambi i lati. Continuo a frequentare lo stesso bar, da Stefano. E i miei amici sono sempre gli stessi del parchetto».

Cos’è il parchetto?

«Si chiama parco Paolo Panelli, ma se lo cerca su Google viene fuori “parchetto di Ultimo”. È una cosa che mi rende felice, un giorno mi piacerebbe poterci fare qualcosa. Sono sempre stato un’anima tormentata, quando stavo male passavo i pomeriggi là, con le cuffie e la sigaretta».

Cosa ascoltava nelle cuffie?

«Emozioni di Lucio Battisti; e ogni volta mi chiedevo come mai non riuscivo a fare una canzone così. E Sora Rosa di Venditti: “Che ce ne frega si nun contamo gnente/ se semo sotto li calli della ggente/ Se c’hai un core, tu me poi capì/ se c’hai l’amore, tu me poi seguì”. Quei versi di Antonello erano il modo di resistere alle sofferenze, ai fallimenti».

Quali fallimenti?

«Mi sono presentato tre volte ad Amici, due volte a X Factor, due volte a Sanremo giovani, al tempo di Carlo Conti, e non mi hanno mai preso».

Sette rifiuti.

«Doveva andare così. Eppure cantavo le canzoni che poi sono piaciute a migliaia di ragazzi: Sogni appesi, Giusy, Piccola stella».

Dica pure milioni. Lei ha riempito il Circo Massimo e più volte l’Olimpico, San Siro, il Maradona.

«Conosco tanti artisti bravi che non sono emersi. Io sono stato fortunato a riuscire al momento giusto».

Quando comincia la musica per lei?

«A otto anni. Pianoforte. L’ho studiato per dieci anni, all’inizio con il maestro Santi Scarcella, che saluto. Mio papà Sandro mi spingeva su una strada più protetta, ma mia mamma Anna mi ha sempre incoraggiato. È una sorcina persa, ascoltavamo Renato Zero tutto il giorno. C’è un verso che mi è rimasto impresso: sana ingenuità. Io sono così: sanamente ingenuo».

L’ha poi conosciuto Renato Zero?

«Sì. Quando il fratello di mamma, zio Ciro, ha avuto un grave problema di salute, Renato gli è stato vicino anche se non lo conosceva: andò a trovarlo in ospedale, citofonava a casa per sapere come andava. Così, una delle volte che ho provato ad andare a Sanremo Giovani, ho fatto chiedere a Renato se voleva sentire la canzone».

E lui?

«Mi mandò un sms bellissimo: “Io non posso influire sulla commissione, ma anche se potessi non lo farei. È come quando vedi in vetrina un vestito bellissimo, e lo vuoi a tutti i costi. Con il tempo troverai le risposte”. Non era banale che un grande come lui si occupasse di un pischello come me. Poi con Renato sono salito sul palco. Mi ha presentato così: “Il mio nipotino gode della stessa umiltà dello zio”. In effetti, lui Zero e io Ultimo, siamo un po’ parenti».

Lei in realtà si chiama Niccolò Moriconi. Perché ha scelto di chiamarsi Ultimo?

«Con gli amici del parchetto ci chiamavamo Les Miserables, come il romanzo di Victor Hugo, l’avevamo anche scritto per terra con lo spray. La nostra chat su WhatsApp si chiama i Miserabili. Avevo pensato a Miserabile anche come nome d’arte; ma suonava davvero male. Ultimo invece mi è parso subito perfetto. Un biglietto da visita dettagliatissimo».

In una canzone lei dice di voler usare la sua vita «per crearne una collettiva». Cosa intende?

«Nei concerti guardo le persone negli occhi. Possono avere cinque anni o settanta; ma hanno gli occhi lucidi. Sono assenti e presenti. Sono da un’altra parte, ma sono lì. Ho sempre cercato e cerco la coesione tra generazioni diverse, è il gol della mia vita».

Nel docufilm che sta per uscire, «Vivo coi sogni appesi», si vede lei ragazzino che canta al mercato di Testaccio, davanti a un pubblico non enorme... Come andò?

«Fu un disastro. Mi sembra di sentire ancora l’odore del pesce. Tre file con cinque sedie, quasi tutte vuote. Ricordo una signora di settant’anni che aveva il banco al mercato, due ragazzini di passaggio, e cinque amici che erano lì per me. Le assicuro che è molto più difficile cantare per otto persone che per ottantamila. Chiedevo: potete venire qui davanti? Ma non si muoveva nessuno. Così ho suonato da seduto, per avere il pubblico all’altezza dei miei occhi».

Nel film la si vede anche negli stadi; e sembra che non abbia fatto altro nella vita.

«Il palco è l’unico posto in cui mi sento al sicuro. Ma ogni volta prima di salirci sono convinto di stare per svenire».

È ipocondriaco?

«Sì, nel senso che vorrei avere tutto sotto controllo; ma nessuno può avere tutto sotto controllo. È cominciato quando a sedici anni, per preparare un esame di ammissione a un liceo, mi sono fatto un’intera caffettiera e mi è venuta la tachicardia. Mi sottopongo a due, tre visite alla settimana. Devo ricordarmi di bere più acqua, perché l’ecografia indica che sono sempre disidratato. Ora da tredici giorni ho smesso di fumare. Ma mi sa che ricomincio. So che è sbagliato, ma senza è tremendo».

Ha provato anche le droghe?

«Tutte (Ultimo sorride). Scherzo. Ogni tanto la sera una canna me la faccio, soprattutto in California dove è legale. Mi rilassa. Non dico sia giusto, è meglio non farlo, così come è meglio non bere coca-cola e non mangiare hamburger da McDonald’s. Non ho il mito della marijuana, ma credo che andrebbe legalizzata».

È vero che a sua mamma scrive: tra due anni muoio?

«Glielo dico da tanto tempo ormai... Sto per perdere una scommessa con un medico mio amico: “Se superi i 27 anni, mi porti a cena”. A gennaio ne compio 28, mi sa che dovrò pagare io».

Al liceo è stato bocciato?

«Due volte. Non me ne vanto, mi è dispiaciuto e mi dispiace tuttora. Non avevo capito che quando fai parte di un sistema devi accettarne le regole. Invece andavo a scuola e dopo la prima ora me ne andavo. Avevo un professore di matematica, Mariano, che mi diceva di continuo: Moriconi, con la musica non si campa... Poi ho scoperto che da ragazzo aveva inciso un disco».

Lei giocava a calcio?

«Prima nell’Achillea, una squadra del quartiere Talenti, poi alla Roma Soccer, a Ponte Mammolo. Pensavo di essere forte; invece ero una pippa. Nel calcio serve innanzitutto costanza. E io sono il massimo dell’incostanza».

Nel film parla di anche di uno psichiatra.

«Ho frequentato a lungo uno psichiatra e una psicoterapeuta, Raffaella, le sono molto affezionato. Non c’è nulla di male ad avere un problema; il vero problema è negare di averne. Parli a un medico, ma in realtà stai parlando a te stesso. È importante parlarsi, conoscersi, capire cosa c’è dietro a quello che siamo».

Come ha conosciuto Venditti?

«Dieci anni fa, ho ancora la foto che ci facemmo insieme. Grazie a un finanziere amico di famiglia riuscii a intrufolarmi nel camerino: “Te prego, Antone’, senti ’sto disco...”. Lo rividi a Sanremo nel 2019, lui era ospite, io portavo “I tuoi particolari”, ci siamo trovati a fumare insieme: “Antone’ te ricordi de me?”».

Si ricordava?

«Ovviamente no. Ma per me è stato importante che un grande cantautore avesse accettato di ascoltare la mia musica. Ci sentiamo spesso. Prima di tornare a Sanremo gli ho fatto ascoltare due canzoni inedite: una l’ha scartata, dell’altra mi ha detto: è un capolavoro. Era “Alba”. Una canzone senza ritornello. Non proprio da Sanremo. Ma aveva emozionato Venditti».

«I tuoi particolari» aveva trionfato nel voto popolare, ma la sala stampa fece vincere Mahmood, e lei ci rimase male.

«Sono tornato quest’anno a Sanremo, proprio perché l’avevo lasciato in un modo che non mi era piaciuto, e volevo riappacificarmi con il festival. Non ne avevo certo bisogno per rialzarmi, ero reduce dal Circo Massimo e da quindici stadi, ma volevo esprimere la mia riconoscenza per quel palco e per quello che c’è dietro, per tutto quello che rappresenta».

E si è beccato i gesti dell’ombrello. Come ha preso l’esultanza di parte della sala stampa all’annuncio che non sarebbe salito sul podio?

«Ci sono rimasto male. Soprattutto per loro. Non sono una vittima, me te magno. Fai quel che cavolo vuoi, me ne sbatto, vorrei solo sapere: perché? Perché sei contento se Ultimo arriva quarto? Cosa c’è nella tua testa? Perché esulti, perché mi schernisci con quei gesti?».

Che idea si è fatto?

«Forse perché non sono passato da voi giornalisti. Perché sono arrivato direttamente al pubblico. Perché faccio malvolentieri la promozione dei dischi, questa forse è la prima vera intervista della mia vita, anche perché stiamo parlando da due ore e non mi sembra di star facendo un’intervista. Forse perché vivo per i fatti miei, di carattere sono schivo, solitario, e questa mia lontananza viene interpretata come se me la tirassi. Forse perché ho iniziato con un’etichetta indipendente, poi quando ho visto che il mondo della musica è pieno di personaggi squallidi che si approfittano degli artisti alle prime armi mi sono fatto un’etichetta mia, la Ultimo Records».

Di chi sta parlando?

«Conosco altri giovani nelle mie stesse condizioni: tendi a fidarti, trovi persone che consideri quasi come padri, e solo dopo ti accorgi di aver sbagliato. Per fortuna ho trovato un manager di grande valore e onestà come Max Brigante, e un organizzatore come Clemente Zard, il figlio di David».

Lei è molto amato.

«Sì, tantissimo, ma a volte sono anche bersaglio di un odio senza motivo. Però poi mi do i pizzichi e mi dico: svegliati, sei fortunato, vivi di musica; ed essere Ultimo non significa aver perso».

Con Mahmood che rapporto ha?

«Non abbiamo avuto modo di conoscerci perché ognuno si fa i cavoli suoi, ma non ho nulla contro di lui. Quel momento ci ha visti contrapposti, ma era una diatriba creata da altri».

Ha amici tra i colleghi?

«Fabrizio Moro. Quando nel maggio 2016 mi dissero che gli era piaciuto il mio primo singolo, “Chiave”, e mi invitava ad aprire un suo concerto, uscii per strada, ricordo che pioveva, fu una grande emozione».

Ed Sheeran?

«Con Jacqueline e i miei amici Felix e Gianmarco gli siamo entrati in camerino. È stato molto disponibile, parla un po’ italiano. Una volta mi ha chiamato con Stefano Domenicali, il capo della Formula Uno, per commentare l’ultimo gran premio...».

Goffredo Bettini, grande vecchio della sinistra, ha detto: «Un tempo uno come Ultimo saremmo andati a cercarlo, come negli anni 70 abbiamo fatto con i cantautori».

«Bettini non deve avere rimpianti. Se un partito, qualunque sia, mi avesse cercato, non mi sarei fatto trovare».

Cosa pensa di Giorgia Meloni?

«Non voglio dare giudizi sui leader politici».

Salvini la difese dopo il Sanremo 2019.

«E qualcuno disse che ero schierato con lui. Nulla di tutto questo».

Mi dica almeno se è di destra o di sinistra.

«A me interessano le emozioni, i sentimenti. Poi certo mi interessa anche quel che succede nel mondo. Seguo i talk-show, guardo Propaganda, non conosco Zoro ma mi è simpatico. Faccio robe da vecchio: magari Jacqueline o mamma vogliono vedere un film su Netflix, e io impongo di vedere Mentana. So bene che i confini li ha inventati l’uomo, che noi e i migranti siamo una cosa sola. So bene che dobbiamo batterci contro il cambio climatico, prima che produca altre catastrofi. Ma non mi sembrano cose di destra o di sinistra».

Sono celebri i suoi anelli.

«L’unico che porto sempre è questo: era di mio nonno Raffaele, detto Gigetto, di Avellino. La famiglia di mia mamma è campana, Napoli è la mia seconda città, parlo anche un po’ il dialetto. Ho ancora la nonna paterna, Gina: ha 95 anni, abbiamo un bellissimo rapporto».

Qual è stato il primo tatuaggio?

«Questo sulla spalla destra: il microfono, le cuffie, la tastiera, la scritta “All I need is music”, lo spartito con tre note. Sono tre la. È l’attacco di “Vivere” di Vasco».

Ha conosciuto anche Vasco?

«Abbiamo passato insieme una serata a Los Angeles, a casa sua, ed è stato bellissimo. Strano, quasi irreale. Vasco per me è una sorta di entità. È come se non facesse parte di noi comuni mortali, nonostante sia estremamente comune e mortale. Anch’io, come chi lo ascolta e va ai suoi concerti, sono innamorato di Vasco artista, e per me al mondo non c’è altro: perché la persona ha sempre dei limiti, l’artista non li ha».

L’ha delusa?

«No. Ma il Vasco artista mi basta e mi avanza; il resto non mi interessa. Io stesso sono più sincero nelle canzoni che nella vita. Chi conosce le mie canzoni mi conosce più del mio migliore amico».

È vero che si fidanzò con Claudia, la più bella della classe?

«Chi le ha detto questo? Le ho dedicato le prime canzoni, ma senza trovare il coraggio di dirglielo. Non era la mia fidanzata».

Come fu la sua prima volta?

«Non è bello dirlo, ma non fu importante. Quasi non la ricordo».

Nel film compare un’ex fidanzata, Federica.

«Con lei fu speciale, in una canzone ricordo il 22 settembre, il giorno in cui la portai sulla ruota di Londra...».

Ora sta con Jacqueline, la figlia di Heather Parisi. Come vi siete incontrati?

«Ho visto la foto di una giacca disegnata da lei, con una pezza a forma di chitarra, e le ho scritto: “Vuoi essere la chitarrista del mio prossimo tour?”. Ci siamo dati appuntamento a Trastevere, il quartiere dove è nata. Sono arrivato con uno zainetto e quattro birre. Abbiamo parlato tutta la sera, era tanto che non passavo una sera normale. Il giorno dopo lei partiva per l’America».

E poi?

«Ci eravamo innamorati, senza esserci mai dati un bacio. Ha una naturalezza, una solarità, un modo di essere invisibile ai più. Volevo capire cosa si nascondeva dietro di lei. Così appena è stato possibile l’ho raggiunta in America».

Come ricorda il lockdown?

«Non passava mai; e sembra passato in un lampo. Mi viene da dire “un anno fa”, e penso a cose accadute nel 2019».

Dove l’ha trascorso?

«In una casa in Umbria, a comporre canzoni. Il disco doveva chiamarsi “Il bambino che contava le stelle”, invece l’ho chiamato “Solo”, in copertina le mie mani attorno al mio collo. Alcune delle canzoni che ho scritto allora non le ha ancora sentite nessuno. Del resto anche “Piccola stella”, che ho composto da ragazzo, non l’ho messa nel primo disco: mi pareva banale, una fiaba d’amore, mentre volevo fare una cosa più complessa, da cantautore. Idem nel secondo. Poi nel terzo disco l’ho messa, e oggi è una delle canzoni che il pubblico ama di più».

Cosa trova a Los Angeles?

«Mi piace correre e camminare nel verde, tra le colline e il mare. Ma la mia città perfetta è Londra: bella con un velo di malinconia, imponente e fragile. Poi certo a Roma sto veramente bene. Mi basta. Ho tatuato il Colosseo su un avambraccio e sul collo Fateme canta’».

Milano?

«Ci vado poco. Ma San Siro è un’istituzione. Vorrei che non lo buttassero giù».

Canterà in America?

«Semmai in Spagna, dove Ultimo si dice allo stesso modo» (Niccolò sorride).

Crede in Dio?

«Sono un po’ bipolare, perché sono dell’acquario, sognatore, con ascendente capricorno, piedi per terra. La mia metà acquario pensa che siamo tutti collegati, che le nostre cellule sono fatte a immagine e somiglianza dell’universo. La mia metà capricorno pensa che siamo animali un po’ più intelligenti, capitati qui per caso, e in mezzo c’è il meglio che riusciamo a fare».

Come immagina l’aldilà?

«Giallorosso».

Estratto da Corriere dello Sport il 7 febbraio 2023.

(…) "Scudetto alla Roma o vittoria a Sanremo? Troppo difficile questa domanda. Fatico a rispondere a questa domanda, perché sono molto indeciso. Ed è un0indecisione che mi divide in due".

Giuseppe Fumagalli per “Oggi” il 7 febbraio 2023.

Non esistono più le stagioni e, diciamocelo, anche i campanili non sono messi benissimo. Gli architetti ormai ne fanno volentieri a meno. Anche Roma, che tra Vaticano e centro storico detiene il primato mondiale di campane (ne verrebbero sbatacchiate quotidianamente oltre 1.200), vede sparire dalle periferie il più atavico e italico totem di appartenenza territoriale. Sparisce il campanile, ma nel cuore e nella mente degli uomini resiste il campanilismo.

I suoi rintocchi si odono distinti già alla prima tappa di un viaggio nell’hinterland della Capitale, alla ricerca di storie e notizie sulle origini di Ultimo, al secolo Niccolò Moriconi, indicato tra i favoriti del prossimo Festival di Sanremo. Il cantante ha sempre sostenuto d’essere cresciuto nel quartiere popolare di San Basilio, ma un giovane abitante del rione agita le dita come tergicristalli impazziti.

 «Ultimo non è di qua», interviene. «Lo dice lui che è di San Basilio. E sa perché lo dice? Perché fa più scena dire che si è “nati ai bordi di periferia”, come cantava Ramazzotti, in una zona povera, dove non c’è lavoro, gira la droga, la vita è dura ed “è più facile sognare che guardare in faccia alla realtà”». Un coetaneo aggiunge: «Fabrizio Moro, quello sì è nostro. Ultimo no. Lui è del Giardino Nomentano, dall’altra parte della strada, a un paio di chilometri da qui.

 Un bel quartierino costruito dal padre di Ultimo, ingegnere, con una bella villa dove lui ha abitato finché non è diventato più ricco del babbo suo e se n’è pigliata una più grande e più bella. Sa cos’hanno oggi i ricchi? È che non s’accontentano più di quello che hanno, vogliono fare tutto, pure i poveri. E noi che poveri lo siamo per davvero ci sentiamo un po’ presi in giro».

Davanti alla chiesona di San Basilio, Ludovica, compagna di scuola media di Ultimo, smonta il caso: «Ma che vuol dire stare di quà o di là di una strada?», ragiona. «L’aria di San Basilio la respiri anche al Giardino Nomentano. Niccolò poi. Uno che non ha mai fatto pesare la sua condizione sociale. Tipo tranquillo, rispettoso, mai arrogante, anzi forse un po’ timido. Legatissimo ai suoi amici Adriano e Alessandro che lavorano ancora con lui e sempre pronto a darsi da fare per gli altri.

 Me lo ricordo che già cantava e componeva. Molti, anche a casa sua, lo scoraggiavano ma Giuseppe La Rocca, suo professore di musica, aveva capito che ci sapeva fare. L’ho ancora negli occhi: jeans, maglietta, giacchino di pelle, ciuffo sugli occhi, sorriso buono e gentile. Non era il più bello, ma spaccava. Catturava tutti col suo talento e la sua naturalezza. Scoprire che s’era fidanzato con Claudia, la più bella della scuola, fu un trauma collettivo».

Il ritratto tratteggiato da Ludovica si conferma anche al Caffé del Parco, a due passi da casa Moriconi, e si precisa in modo definitivo qualche chilometro più in là, nel quartiere Bufalotta, davanti al liceo Giordano Bruno. Ultimo ha studiato qui per quattro anni. Il profitto non è stato memorabile (due bocciature). Lui sì. Tra il personale della scuola, baristi, assistenti e docenti lo ricordano tutti. Pino, che terminato il turno in portineria lo accompagnava

(...)

Chi è Jacqueline Luna Di Giacomo, fidanzata di Ultimo, figlia di Heather Parisi, influencer e aspirante attrice. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 28 maggio 2023.

La 23enne, secondogenita della showgirl, è dal 2020 la compagna del cantautore: si è trasferita in America dove ha lanciato un suo brand e sogna la recitazione

Jacqueline Luna Di Giacomo, 23 anni, fidanzata di Ultimo è la secondogenita di Heather Parisi. Se con il cantante ha un bellissimo rapporto — come si legge nell’intervista ad Aldo Cazzullo, non si può dire lo stesso con la madre, che, come ha lasciato intendere più volte, non vede da tempo. 

Ha iniziato una carriera nella moda, come designer, anche se il suo sogno è recitare, emancipandosi però dalla fama della madre che non ha mai sfruttato. «Sto studiando recitazione in America appunto perché qui posso respirare e non essere perseguitata dalla fama di mia madre. Il fatto che tu pensi che stia cerando lei per avere luce fa capire quanto tu possa non conoscermi. Le tue parole non mi toccano, l’unico motivo per cui rispondo è perché hai detto una marea di assurdità», aveva scritto a un utente che le chiedeva conto su Instagram.

Il rapporto con il padre

E sempre sui social, tempo fa, aveva scritto in risposta a un commento: «Pensi che sia felice vedendo tutti gli articoli di giornali riguardanti mia madre? Sono una figlia di 19 anni e ho tutto il diritto di parlare. Accetto le conseguenze in silenzio, ma non mi venire a dire che faccio tutto questo apposta per visibilità». Molto riservata, non ha mai voluto parlare della sua famiglia in televisione, anche se si capisce molto bene che è legatissima al padre, Giovanni Di Giacomo. 

Parlando della madre, aveva smentito il ritratto di una serena famiglia allargata fatto da Parisi a Belve : «Rispetterò per sempre mia madre, nonostante la sua assenza nella mia vita. Ieri sera mi sono sentita mancata di rispetto io, e mi trovo costretta ad ammettere una triste realtà, che personalmente avrei preferito non condividere. Non vedo mia madre da 10 anni», aveva detto. 

Le due dunque non si vedono dal 2013, quando Di Giacomo lasciò Hong Kong, per rientrare a Roma. «Mi dissocio da qualunque cosa sia stata detta — aveva aggiunto —. Lei non sa nulla della mia vita se non via social come voi. Io sono solo Jacqueline Luna, e vorrei un giorno si parlasse di me e per quello che avrò creato io. Per la Jac che lavorerà nel mondo del cinema e per il mio brand».

Ultimo: «La mia sfuriata a Sanremo 2019 per la vittoria mancata? Non ho chiesto scusa, ma sono cambiato». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2023.

Il cantante torna al Festival: «A Sanremo si vince in tanti modi, ma l’importante per me è far arrivare a più persone possibili questa canzone.

Ultimo è seduto a un pianoforte. Le mani sfiorano i tasti. «Il piano è il mio strumento da sempre. Studio ancora. Adesso sono sul mondo delle pentatoniche, il blues, ma ci devo mettere sempre qualcosa di triste». Escono le note di «Alba», la canzone che porterà in gara al Festival.

Se la gioca da favorito. «A Sanremo si vince in tanti modi, ma l’importante per me è far arrivare a più persone possibili questa canzone. Torno al Festival con consapevolezza e con voglia. La mia è stata una scelta istintiva ma allo stesso tempo hanno influito anche i ragionamenti sull’età, sui 26 anni: non è che se fai gli stadi devi dimenticarti certe cose. Sono proprio partito da quel palco e voglio chiudere il cerchio con Sanremo in modo diverso».

Il cantautore romano torna sul luogo del delitto. All’Ariston vinse fra le Nuove proposte nel 2018 con «Il ballo delle incertezze». L’anno dopo nei Big, secondo posto per «I tuoi particolari» e sbottata nella notte perché la sala stampa gli aveva preferito «quel ragazzo lì», l’allora esordiente Mahmood… Cerchio chiuso con tutti, anche con se stesso? «Spero che il mio ritorno sia la risposta più chiara che possa dare. Non ho chiesto scusa in maniera diretta, se intende questo, perché non sono né pentito né fiero. Ho accettato ciò che ho fatto nel bene e nel male perché mi ha portato qui oggi. Ci sono dovuto passare attraverso e ne sono uscito cambiato».

«Alba» è una canzone senza la classica strofa e ritornello, un crescendo, sia musicale che di pathos interpretativo. «Per me “Alba” rappresenta una crescita artistica, che non vuol dire fare meglio o peggio, ma un cambiamento. È una visione introspettiva che si rispecchia nella presenza del battito del mio cuore usato come una batteria. È un dialogo con me stesso che tende ad aprirsi verso un nuovo inizio che è appunto rappresentato dall’alba. Mi faccio domande quasi primordiali sull’essere umano, che succederebbe se fossimo in un certo modo o in altro, per poi arrivare al momento della disillusione. È vero che poeticamente il tramonto offre di più, vedi Baglioni e Venditti, ma l’immagine dell’alba mi è arrivata addosso e mi ha fatto venire quelle domande». In un passaggio canta «spesso odio la vita mia»: 5 anni di carriera, 55 dischi di platino e tour negli stadi come quello della prossima estate con 250 mila biglietti già venduti… «Non sono un ragazzo che siccome fa questi risultati riesce a sanare certi vuoti. Mi sento sempre tormentato e non so da cosa. Dovrei avere una vita mia, penso alla musica 26 ore su 24, ma ho scelto invece di usarla per crearne una collettiva con i concerti che sono una medicina per me». I vuoti si potrebbero riempire, ma verrebbe meno l’ispirazione, ma anche accompagnarti nella fase adulta… «Ho più paura di riempirli e perdere l’ispirazione».

«Alba» è anche il titolo di un disco con 14 nuove tracce che sarà pubblicato il 17 gennaio. Nella scaletta c’è «Joker», ritratto da un punto di vista insolito del cattivo dei fumetti e del cinema. «L’ho scritta dopo aver visto il film che mi ha colpito, non solo per la recitazione di Joaquin Phoenix. Anche se Joker è uno psicopatico non riesco a dargli il 100% delle colpe, c’è anche il mondo intorno. Nel testo mi domando cosa sarebbe successo se il suo coltello avesse incontrato un cuore».

Estratto da repubblica.it il 5 marzo 2023.

Umberto Smaila nasce a Verona nel 1950 da una famiglia di esuli fiumani. Diventa celebre con il gruppo comico “I Gatti di Vicolo Miracoli” con Jerry Calà, Franco Oppini e Nini Salerno nelle notti degli anni ‘70 al mitico Derby di Milano. Approda poi  in tv come conduttore. Con il sexy-quiz a premi “Colpo grosso”, programma anni ‘80 della berlusconiana Italia 7, entra nell’immaginario collettivo: gli spogliarelli delle ragazze cin cin che rimangono a seno nudo fanno il record di ascolti.

 Signor Smaila, con “Colpo grosso” fece infuriare l’allora presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan.

"In America fu quasi un caso di Stato. Mike Bongiorno mi disse: “Hai visto cosa hai combinato?”.

Come mai?

"Il successo di “Colpo grosso” fu strepitoso, quasi inaspettato. Milioni di telespettatori incollati alla tv. Qualcosa arrivò anche negli Stati Uniti tanto che un famoso programma televisivo, il Saturday Night Live mandò una troupe in Italia per riprendere lo spettacolo. A capo della troupe c’era Francis Ford Coppola che voleva comprare i diritti. Il problema è che quando andarono in onda, seppure coprendo i seni delle ragazze con stelline in elettronica, si scatenò un mezzo putiferio. Forse per un certo puritanesimo americano. Ma non ci fu solo Reagan. Anche Gheddafi si arrabbiò".

Colpo grosso” al centro degli equilibri geopolitici.

"Gheddafi arrivò a minacciare di sparare un missile su Lampedusa perché con le parabole le ragazze cin cin erano arrivate anche da loro e a Tripoli la mattina i libici si alzavano stanchi con delle occhiaie così".

A Gorbaciov invece lo show piaceva.

"Mi dissero che si fece spedire a Mosca un po’ di vhs. Magari sono ancora in qualche cassetto del Cremlino".

 (...)

 Gli anni ‘70.

"Si intravedeva già la Milano da bere ma era anche una Milano da sparare. Diego Abatantuono, che allora era il nostro tecnico delle luci, delle volte arrivava tutto trafelato perché era andato a tirare i cubetti di porfido con Autonomia operaia. Agli spettacoli passavano spesso anche i gangster della mala. C’era Francis Turatello insieme a Franco Califano che si beveva l’immancabile drink, i fratelli Tiritiello. Insomma, si rideva tanto ma c’era anche da stare attenti".

 Sono famose anche le sue colonne sonore. Un suo motivo è stato inserito anche da Quentin Tarantino nel film “Jackie Brown”.

"Un bel colpo, un po’ di diritti non fanno mai male. Tarantino mi chiamò anche per ringraziarmi".

 Nella sua carriera ha avuto un ruolo fondamentale Silvio Berlusconi.

"Un amico, punto e basta. Abbiamo avuto un rapporto talmente stretto che è impossibile spingersi a dare qualche giudizio".

Un anno fa si era candidato a Presidente della Repubblica.

"Io lo farei presidente dell’Universo, dentro a una navicella spaziale con la bacchetta magica".

Alle ultime elezioni ha votato per il suo amico?

"Quello che succede dentro alla cabina elettorale è segreto".

Il presidente del Consiglio è Giorgia Meloni. La leader del Pd Elly Schlein. In politica è il momento delle donne?

"Una grandissima cretinata. Se uno è bravo, non c’entra nulla se sia donna o uomo. E comunque alle primarie del Pd preferivo Stefano Bonaccini. Più simpatico, ha una faccia che ricorda Lambrusco e tortellini".

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Estratto dell'articolo di Giuseppe Salvaggiulo per Specchio – la Stampa il 5 giugno 2023. 

Il personaggio è lei, ma la galera l’ho fatta anch’io», dice la figlia Stefania Nobile. Davanti a un aperitivo nella Piazza Grande di Modena, Wanna Marchi viene avvicinata dai ragazzi arrivati a centinaia per ascoltarla al Festival della giustizia penale. Chi chiede un autografo, chi un selfie. Madre e figlia si sentono «riabilitate» dalla serie Netflix, «che ha fatto conoscere la nostra storia ai ventenni».

Regina delle televendite, Wanna Marchi aveva creato con Stefania un impero - 3 miliardi di lire fatturati al mese, con 350mila clienti e 102 dipendenti – ma anche uno stile, un brand. «Lo scioglipancia è il prodotto di cui vado più fiera, perché l’abbiamo venduto ancor prima che esistesse. Il merito è di Stefania. L’idea le venne in autogrill. Si guardò in giro, vide che erano tutti grassi e disse: stasera vendiamo lo scioglipancia. Io rimasi spiazzata: che cos’è? Lei non si scompose: non so, rispose, vendiamolo e poi si vedrà».

La novità piacque, quella sera in tv. «Alle 2 di notte svegliai il nostro medico che faceva i prodotti e gli dissi di creare lo scioglipancia. Ogni confezione costava 100mla lire, arrivammo a venderne 300 milioni di lire al giorno».

Poi la polvere giudiziaria: il processo per associazione a delinquere e truffa con 305mila imputazioni e 142 parti civili, l’arresto, i 2 milioni di euro di risarcimenti, la condanna per entrambe a 9 anni e mezzo di carcere.

«Rimorso per le vittime? No. Chi paga i maghi perché si sente un cornuto non è una vittima. Era giusto che noi pagassimo, ma non 9 anni e mezzo. Una pena sproporzionata. Almeno fosse servita a eliminare i maghi dalla televisione! Invece sono ancora tutti lì. Uno schifo. Solo noi siamo stati eliminate, con Mago do Nascimento». Fuggito in Brasile, che non prevede l’estradizione in Italia. «Gli vogliamo ancora bene, purtroppo non l’abbiamo più visto né sentito. Non è stata ingratitudine la sua, ma paura». 

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Eppure la politica per Wanna Marchi «è una delle poche cose che mi sono pentita di non aver fatto. Craxi mi propose di fare uno spot elettorale in televisione per il Psi. Io non ero socialista, ho votato sempre Pannella finché i giudici non mi hanno tolto i diritti elettorali. Ma Craxi mi stava simpatico e mi avrebbe dato tantissimi soldi. Però pensai che mi sarei inimicata una parte dei consumatori. Sbagliavo, avrebbero comprato comunque da me».

E Berlusconi? «A Mediaset non mi hanno mai voluto, dicevano che ero troppo ingombrante. Ma lui mi chiese di condurre Ok il prezzo è giusto. Rifiutai. Mi disse: è il primo no che ricevo nella mia vita. Io risposi: mi spiace ma lei è giovane, si prepari a riceverne altri. Non me ne sono mai pentita». 

Stefania avvia e vende locali di successo. Prima la champagneria di Milano. Negli ultimi tempi anche a Tirana e Durazzo, «ho fatto scoprire il gin tonic agli albanesi». Anche la madre viaggia spesso con lei, «sono innamorata di quella terra, di quella gente». 

La serie è stata un successo, non solo in Italia: premio a Cannes, presto un’ospitata televisiva a New York. Se ne farà una seconda stagione, poi anche un film. «C’è ancora tanto da raccontare di me. Mi piacerebbe che a interpretare me fosse Martina Stella. Da giovane, ero uguale a lei». E la figlia: «No, per te sarebbe adatta Meryl Streep».

Estratto da ilfattoquotidiano.it mercoledì 15 novembre 2023.

Dopo la quiete è ritornato sotto l’occhio del ciclone. Questa volta non per delle sue azioni dirette, bensì per alcune dichiarazioni che Bilal, l’ex manager-amico di Will Smith, ha riportato alla vlogger Tasha k nel corso di un’intervista. I pesanti gossip riguardano l’attore protagonista di ‘Willy, il principe di Bel-Air’, che sarebbe stato sopreso sul set mentre aveva un rapporto sessuale con il collega Duane Martin ai tempi di registrazione della famosissima serie televisiva […] 

“Ricordo benissimo la scena, – dichiara l’ex assistente di Will – ho aperto la porta del camerino di Duane, che recitava in Willy-Il principe di Bel Air, ed è stato allora che l’ho visto fare sesso con Will. Erano su un divano e io mi sono imbattuto in tutto questo per caso. Will era piegato sopra e Duane era in piedi dietro di lui”. Non si è fatta attendere la risposta del 55enne che, tramite un suo portavoce, ha seccamente smentito la notizia: “Tutta questa storia è stata completamente inventata. Smith sta considerando la possibilità di intraprendere un’azione legale”, riporta TMZ.

Le rivelazioni non sono finite qua perché lo stesso Bilal si è soffermato sul rapporto d’intimità tra il premio Oscar e l’ex moglie Jada Pinkett, dichiarando che: “Se una donna è abituata a certe dimensioni, non puoi pensare di soddisfarla con ciò che tutti definiscono un ‘mignolo’. Jada era una delle attrici più desiderate e per Will sposarla è stata una vittoria. Loro, in realtà, sono separati già da sette anni“. Attendiamo le mosse di Smith.

Will Smith, la separazione e lo schiaffo agli Oscar. "Credevo a uno scherzo". I due sono separati dal 2016 ma per il momento non si parla di divorzio. Le rivelazioni sono arrivate durante un'intervista per il lancio della biografia della moglie di Smith. Carlo Lanna il 14 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Lo schiaffo che Will Smith ha rivolto a Chris Rock durante la cerimonia degli Oscar del 2022 è stata una delle notizie più sensazionali della serata, che ha quasi hanno soppiantato quella che ha interessato il premio di miglior film dell’anno. Quella vicenda, in cui Will Smith scende in campo per difendere l’onore ferito della moglie a causa di una battuta (infelice) del presentatore, ha animato un dibattito molto acceso sui social. Alcuni credono ancora che si sia trattato di uno scherzo, ma, invece, le cose sono andate proprio come abbiamo visto in tv. Di fatti, la carriera di Will Smith è caduta a picco, criticato per quel gesto in diretta e che avrebbe fomentato la diatriba sul rapporto tossico che c’è tra uomo e donna. La vicenda è finita poi in sordina dopo il boom iniziale ma è tornata in auge proprio grazie a Jada Pinkett Smith, moglie dell’attore. La donna è tornata a parlare dello schiaffo a Chris Rock in un’intervista che ha rilasciato a People e in vista dell’uscita della sua (prima) autobiografia. Un libro che, fin da ora, regala tanti gossip piccanti e sconvolgenti sulla sua vita privata. Quello che ha fatto più discutere? A quanto pare Will Smith e Jada sono separati dal 2016, prima di quel "siparietto" agli Oscar del 2022.

Torna in tv il principe di Bel Air: ma il remake non è quello che sembra

"Ci abbiamo provato, abbiamo combattuto ma ora siamo esausti". Così l’attrice si giustifica e racconta il motivo che c’è dietro la separazione da Will Smith. "Avevamo notato una certa distanza tra noi. Penso che fossimo entrambi bloccati nella fantasia su ciò che pensavamo dovesse essere l’altra persona – rivela durante l’intervista -. Avevo promesso però che non ci sarebbe mai stato un motivo per divorziare, che avremmo lavorato su qualunque cosa". Alla fine, però, la situazione ha preso una piega diversa. Sposati dal 1997, sono stati per anni una tra le golden couple di Hollywood ma nonostante la separazione non hanno intenzione di divorziare. Ovviamente, dato che il suo libro arriva in un momento molto particolare, è impossibile non pensare a quello che è successo in tv lo scorso anno, che, di fatto, ha fatto molto discutere sia nel bene che nel male.

"Già durante gli Oscar non stavamo più insieme ma siamo andati alla cerimonia come famiglia – aggiunge -. Lo schiaffo? Credevo fosse una scenetta, non pensavo fosse possibile. Solamente quando lui è tornato a sedere ho capito che era tutto vero. Ancora oggi non mi è chiaro perché si sia arrabbiato così tanto. Speravo che le vecchie tensioni fossero ormai un capitolo chiuso – continua -. Dopo la battuta ho alzato gli occhi al cielo e ho rivolto un pensiero a tutte le persone con condizioni di alopecia molto peggiori delle mie. È stato frustrante".

Estratto dell’articolo di Arianna Finos per repubblica.it mercoledì 6 dicembre 2023.

[…] Ogni intervista con Woody Allen – oggi ha 88 anni - è […] un piacevole incontro. […] 

Per la prima volta, a quota cinquanta film, ne ha girato un film completamente in un'altra lingua. Il francese.

“E’ andata bene, perché puoi capire chi sono i bravi attori se parli in un'altra lingua. E ho già girato in Francia alcune volte. […] L'unica volta che ho avuto un problema è stato quando improvvisavano, cosa che incoraggio a fare: non sapevo cosa stessero dicendo. Ho dovuto chiedere a qualcuno che parlava francese. […]”. 

La grande differenza tra il cinema americano e quello francese?

“Un tempo il cinema francese era molto più avanti, più innovativo e rivoluzionario […] il cinema europeo ha influenzato il cinema americano così profondamente che la differenza oggi è minore”.

Possiamo dire che non smetterà mai di fare cinema?

“Beh, ci sono due fattori coinvolti. Uno è che ho sempre, sempre avuto problemi a raccogliere fondi per i film. E’ davvero una noia raccogliere fondi, andare a pranzare con persone, e poi le telefonate, le riunioni… Se qualcuno chiama e dice “fai un film per la mia società” e vuole darmi i soldi per farlo, allora va benissimo. Ho delle buone idee. Altrimenti leggerò, scriverò libri o scriverò per il teatro. L'altra cosa è che il cinema ha preso una direzione così strana, ora fai un film che viene proiettato due settimane al cinema, poi va in televisione. 

Per tutta la mia vita ho fatto un film per la sala, 500 persone riunite, un’esperienza di gruppo, discussioni con gli amici. E un film restava al cinema per un mese, due mesi, a volte un anno […] Ora […] ci sono molti meno cinema a New York. E vogliono grandi kolossal, non vedi quasi più film europei. Quando ho iniziato, ogni settimana a New York potevi vedere alcuni film di Fellini e De Sica, Antonioni e Godard e Truffaut e Chaplin, Bergman. Ora ti capita un film dall'Iran o dal Messico, due anni dopo un film dalla Cina. Quindi ci pensi bene, prima di lavorare un anno a un film, stare due settimane in strada e poi andare in tv”

Critici e pubblico hanno risposto benissimo a questo film, alla Mostra di Venezia.

“L'Europa è sempre stata una comunità sensibile ai cineasti. Lo stesso vale per la letteratura. Ci sono scrittori americani che sono diventati famosi in Francia prima che negli Stati Uniti. Questo è un incentivo a fare film in Europa, almeno sai che qui avrai un po’ di pubblico. In America, questo film francese […] non so come andrà. 

[…] L’unico settore in cui l'America ha brillato, ha aperto la strada artisticamente per un periodo di tempo, è stato nella pittura: c'è stato un periodo in cui gli artisti americani erano i più innovativi. E poi ovviamente il jazz. Ma non la letteratura, non il cinema, non il teatro. Tutto viene sempre dall'Europa”.

Come vede il cambiamento nel mondo contemporaneo?

“Il mondo è sempre stato un posto pericoloso e deludente. Pensare che avresti a disposizione un pianeta meraviglioso. L’umanità è fatta di alti e bassi e in questo momento penso che siamo in un brutto periodo. Gli Stati Uniti non stanno attraversando un buon periodo né il mondo in generale […] La razza umana non è mai stata all'altezza delle sue buone potenzialità. La storia dell’umanità è triste in generale e in particolare oggi. […].”. 

È per questo che questo film ha un tono piuttosto cupo? A uno dei personaggi succede una cosa terribile, una delle sue storie più tristi dei suoi film.

“Sono sempre stato cupo. Ho sempre avuto una visione triste. Prenda Match Point: l’assassino l'ha fatta franca, ha ucciso e ha continuato a vivere la sua vita con la moglie. In Crimini e misfatti il tizio uccideva l’amante e la faceva franca. Credo che non ci sia nulla di vero nel fatto che la giustizia alla fine vince sempre. […]”. 

Cosa è importante nella vita?

“Cercare di trovarne una ragione, un significato. Ma la realtà è che ti ritrovi nella vita e non ha un senso. Non c'è nessun significato in un'esperienza vuota che finisce male per tutti, automaticamente. E pensi: come posso darmi delle regole? Che motivo posso trovare per dare un senso alla mia vita? Questo è il problema da risolvere”.

[…] “Se si torna indietro, fino all’antica Grecia, erano quelli gli argomenti al centro del pensiero umano: la vita, la morte, l'infedeltà. Le tragedie greche sono tutte imperniate su questioni morali. Così il romanzo russo. […] non sono mai stato interessato ai temi sociali. Non ho mai fatto film su problemi importanti che le persone affrontano ogni giorno, i problemi razziali, l'aborto, l'immigrazione… Tutti quei temi non mi hanno mai interessato. 

[…] Se affronti il tema del razzismo nei confronti dei neri d’America, tocchi una questione che nel corso degli anni ha subito un’evoluzione. Ma la tua relazione con tua moglie, la tua gelosia per il fatto che tua moglie abbia un amante, ecco: quelle cose non sono mai cambiate. La questione che più mi sta a cuore, come dicevo, è: perché siamo qui e perché tutto non ha un senso? Hai una vita, vivi, poi muori. […] Mi vengono sempre poste domande sull'eredità del mio lavoro. L'eredità è così irrilevante…Credo che Beethoven non tragga alcun piacere dal fatto che le sue opere siano ancora eseguite e siano ancora belle”.

Ma non è soddisfatto dei suoi cinquanta film e di tutte le persone che hanno fatto ridere e riflettere?

“Mi va già bene essere vivo. Ho fatto del mio meglio con i doni che ho ricevuto, ma quando morirò l’unico beneficio sarà che i miei figli riceveranno dei soldi dai miei film. Il resto, per me, non ha alcun significato. Se prendono i miei film e li bruciano in un rogo, non lo saprò mai. E se anche tutti li amassero, non lo saprò mai e non mi interesserà mai”. […]

Estratto dell'articolo di Paola Zanuttini per repubblica.it sabato 2 dicembre 2023.

Écrit et dirigé par Woody Allen. Che strano effetto i titoli di testa in francese della versione originale di Coup de chance, cinquantesimo film del regista, presentato a Venezia, come sempre fuori concorso perché lui non crede nella competizione. A 88 anni, Allen ha realizzato un sogno: girare un film francese, interpretato da attori francesi che parlano francese […] Coup de chance, in italiano Un colpo di fortuna, è una storia d’amore, corna e delitto. […] 

È stato un caso o una scelta girare proprio questo film in francese?

«Doveva essere una storia di americani a Parigi, poi ho pensato che questo è forse il mio ultimo film – per questioni di età, ma anche perché sono stanco di cercare finanziamenti – e allora perché non farlo in francese? La Francia mi ha sempre sostenuto. E quando ero giovane, i film importanti venivano tutti dall’Europa: francesi, italiani, svedesi. Hanno influenzato una generazione di cineasti americani e io ho sempre voluto essere un regista europeo». 

[…]

Non possiamo certo tralasciare sesso&tradimento, altro tema ricorrente nel suo cinema.

«Il tradimento è una specie di delitto. Porta a complicazioni e spesso al crimine. Porta a mentire, a false vite, alla doppiezza. E all’omicidio. La maggior parte dei crimini sono commessi o per profitto economico o per amore. O gelosia. A guardare tutti quei documentari di true crime in tv vien fuori che molti omicidi riguardano persone gelose del marito che tradisce o della moglie che tradisce. È affascinante osservarne il processo psicologico. Ed è molto divertente per il pubblico, affascinato da questi documentari come una volta lo era da Delitto e castigo o altri romanzoni».

Ci sono analogie tra Coup de chance e Match Point, ma il sesso tra Lou de Laâge e Niels Schneider è molto più tiepido di quello tra Scarlett Johansson e Jonathan Rhys Meyers.

«Qui non era necessario. È più la storia di una donna che continua a tradire il marito con un’altra persona, e al marito l’idea naturalmente non piace. Così decide – sa, lui è un po’ psicopatico – di sbarazzarsi definitivamente dell’amante». 

[…] Lei assomiglia di più a suo padre o a sua madre?

«Voglio dire, amo i miei genitori, erano fantastici, ma ho ereditato il peggio da entrambi. Qualunque fossero le stranezze di mio padre e i problemi di mia madre li ho presi tutti». 

Nel suo memoir A proposito di niente lei scrive: «Considerando la mia carriera, alcuni diranno che non è stata sempre così fortunata, ma non sanno quante volte è stato il caso a decidere». Ce ne dica un paio.

«Quando ho iniziato, nessuno mi avrebbe dato una chance o i milioni di dollari per fare un film. E proprio quando avevo finito la mia prima sceneggiatura, arrivò una nuova, nuovissima, società cinematografica, la Palomar: non avendo una reputazione, non poteva aspirare a un film o a un regista importante e allora mi ha dato i soldi per Prendi i soldi e scappa. Ha scommesso su di me perché non aveva molte altre possibilità e io costavo poco. Il film è stato un successo e mi ha permesso di avere una carriera cinematografica». 

E la seconda botta di fortuna?

«Ce ne sono state molte di più, ma per Match Point è stata fondamentale. Una settimana prima di girare, Kate Winslet mi chiama e dice che non se la sente di girare il film perché ne ha appena finito un altro ed è stata troppo lontana dai figli. Vuole recuperare. Come opporsi a una richiesta simile, anche se non ho un ripiego? Ma poi, proprio lì c’è Scarlett Johansson che non fa nulla. In due giorni sostituisco Kate con Scarlett e, quando giriamo, tutto è al posto giusto. Se ho bisogno di una giornata di pioggia, piove. Se mi serve una giornata di sole, ecco che splende. Tutto quel che voglio si avvera».

Sfortuna, mai?

«Non vorrei portarmi sfiga da solo, ma ho avuto una vita molto fortunata: genitori affettuosi, ottima salute, uno splendido matrimonio, l’ultimo, che dura da 25 anni». 

[…] Come si evitano i buchi di sceneggiatura e gli ingorghi narrativi?

«Bisogna curare i dettagli, tipo: lo fa uccidere e poi lui scompare e lei non sa dove, pensa che se ne sia andato e che nessuno lo trovi... E poi bisogna essere molto crudeli: la maggior parte dei miei film sono commedie e in fase di montaggio non si possono lasciare cose che non fanno progredire la storia. Una battuta inutile, anche se è meravigliosa, rallenta il film».

Estratto dell'articolo di Lorenzo Nicolao per corriere.it sabato 2 dicembre 2023. 

Il regista spagnolo Xosé Zapata ha realizzato un sogno quando Woody Allen, fra i suoi miti cinematografici, ha accettato di prendere parte al suo cortometraggio animato e di dare così un contributo come voce narrante a «Mr. Fischer’s Chair». Deve averlo convinto la passione per gli scacchi, dal momento che il protagonista del corto sarà il campione americano Bobby Fischer . Eppure, la risposta del quattro volte premio Oscar è stata per Zapata tutt’altro che prevedibile. […] 

Da tempo il regista di La Coruña voleva dedicare un corto al leggendario giocatore di scacchi, ma mai avrebbe immaginato che come voce fuori campo ci sarebbe stato Allen, ora 88enne, e per di più gratuitamente, senza condizioni. Il regista di «Manhattan» e «Io e Annie» si è inoltre offerto nel partecipare al progetto come co-produttore, supervisionando l’intero prodotto. A proposito della sua prima esperienza di riprese con Allen, Zapata ha commentato di essere rimasto colpito dalla sua professionalità. «È arrivato conoscendo già il copione a memoria, non ho dovuto far nulla. Gli ho detto di cambiare quello che avrebbe preferito modificare ma non ha voluto, perché è convinto si debba sempre rispettare il regista». 

[…] Il corto «Mr. Fischer» si sofferma però su un particolare che oggi appare inverosimile e grottesco, ma che all’epoca venne preso molto sul serio: la cosiddetta «manipolazione della sedia».

Subito dopo la vittoria di Fischer, la delegazione moscovita giunta in Islanda sollevò aspre accuse contro di lui, sostenendo che lo scacchista americano avesse compromesso la prestazione di Spassky grazie a radiazioni e sostanze inquinanti collocate nella sua sedia. La denuncia diventò un caso internazionale e valse una perquisizione della polizia nella sala di gioco. Le autorità islandesi, senza esito, smontarono e analizzarono ogni componente della sedia. Una storia oggi ritenuta quasi divertente, ma che in piena Guerra Fredda alimentò non poche tensioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Una storia ritenuta per questo degna di una produzione cinematografica.

Da ilnapolista.it martedì 5 settembre 2023.

Woody Allen difende Luis Rubiales. Il regista 87enne, che fu accusato di abusi sessuali dalla figlia adottiva Dylan Farrow, intervistato dal Mundo in occasione della prima del suo nuovo film “Coup de chance” alla Mostra del Cinema di Venezia, sostiene il boss della Federcalcio spagnola, sospeso dopo aver imposto un bacio alla giocatrice Jenni Hermoso.

Allen dice di non capire: “È difficile immaginare che una persona possa perdere il lavoro ed essere penalizzata in questo modo per un bacio in pubblico. Baciare quella calciatrice è stato un errore, ma non ha bruciato una scuola. Non l’ha rapita e baciata in un vicolo buio. Non l’ha violentata, è stato solo un bacio e lei era un’amica. Cosa c’è che non va?“. 

L’Adn Kronoso racconta che Woody Allen ieri è stato contestato sul red carpet della Mostra del Cinema di Venezia 2023. Una trentina di persone, soprattutto ragazze, assiepate dietro le transenne, hanno accolto il passaggio del regista sul tappeto rosso con urla di contestazione. “Stupratore!”, hanno urlato le contestatrici mentre il regista attraversava il tappeto soffermandosi davanti ai flash dei fotografi. La vigilanza ha poco dopo allontanato il gruppo, che allontanandosi ha gridato anche “Abbasso il patriarcato!”. Woody Allen probabilmente non si è neppure accorto della contestazione perché nel momento in cui avveniva era appena sceso dall’auto è stava parlando con lo staff.

La protesta è legata alle accuse di molestie sessuali dalle quali il regista è stato totalmente scagionato per due volte. A fronte del gruppo di contestatori, Allen è stato accolto con applausi e urla da oltre cinquecento fan che lo attendevano già da un paio d’ore. Tanti anche i giovani che hanno chiesto un autografo al celebre regista che prima di entrare nella Sala Grande per la proiezione del suo film ‘Coupe de Chance’ si è avvicinato per accontentarli. All’ingresso della sala, altre 300 persone circa attendevano il regista per salutarlo prima dell’entrata.

 (LaPresse martedì 5 settembre 2023)  – Woody Allen contestato lunedì sera sul red carpet della Mostra del cinema di Venezia. Un gruppo di persone ha inscenato una protesta al momento dell’arrivo del regista americano. I contestatori dietro le transenne lo hanno accolto al grido di “spegnete i riflettori sugli stupratori” e “il patriarcato non lo vogliamo”, prima di essere allontanati dagli addetti alla sicurezza.

Estratto dell'articolo di Gloria Satta per “il Messaggero” martedì 5 settembre 2023.

La stampa internazionale accoglie Woody Allen con una standing ovation. Gabriele Salvatores lo incrocia e s'inchina al suo passaggio. Lungo il red carpet i fan lo acclamano. E poi spuntano una trentina di ragazze (qualcuna si denuda il seno) che, subito allontanate dalla sicurezza, lo contestano al grido di «Stupratore!», «Abbasso il patriarcato» diffondendo un volantino che rinfaccia alla Biennale di aver invitato il regista, Luc Besson e il film di Roman Polanski accusati di abusi. 

E poco importa che Woody sia stato scagionato da ben due inchieste dall'accusa di aver molestato la figlia adottiva Dylan. Anche in America è stato ostracizzato. «Se sei "cancellato", questa è la cultura da cancellare», ha dichiarato a Variety.

Contestazione a parte, a Venezia il regista, 87 anni, ha conquistato tutti con il suo 50mo film Coup de Chance, girato a Parigi con attori francesi che parlano la loro lingua (Lou de Laâge, Melvil Poupaud, Valerie Lemercier, Niels Schneider) […] 

[…] È vero che "Coup de Chance" sarà il suo ultimo film?

«Non credo. La voglia di lavorare è sempre tanta, le idee ci sono ma è faticoso trovare i finanziamenti. Mi arrivano proposte da tutti i Paesi d'Europa. Aspetto il progetto giusto, girerei un film anche in Islanda».

Tornerebbe ad ambientare una storia nella sua New York?

«Non lo escludo affatto. Ho già un'idea bellissima e, se qualche folle avrà voglia di finanziarmi, sarò felicissimo di girare ancora una volta a Manhattan». 

È cambiato, negli anni, il suo modo di lavorare?

«Il mio obiettivo numero uno è sempre stato lo stesso: non essere noioso. Oggi continuo a seguire la solita routine: mi alzo, faccio qualche esercizio, poi colazione, quindi mi sdraio sul letto per buttare giù a penna quello che poi copierò con la macchina per scrivere. Con il tempo non ho imparato chissà cosa, è sempre questione di ispirazione». 

Preferisce scrivere i personaggi femminili o maschili?

«I ruoli maschili migliori li ho scritti 30 anni fa, quando ero io stesso a interpretarli. I personaggi femminili mi vengono meglio, forse perché le donne hanno avuto molta importanza nella mia vita». 

Lei è stato ostracizzato in America, eppure ha dichiarato a Variety di appoggiare il movimento #MeToo. Perché?

«Ogni movimento che faccia qualcosa di positivo per le donne è una buona cosa. Quando diventa estremo è sciocco. Io potrei essere un modello per il #MeToo: ho sempre creato bei ruoli femminili, ho pagato le donne come gli uomini, ho diretto centinaia di attrici e nessuna si è lamentata».

Che rapporto ha con il destino?

«Mi considero molto fortunato. Ho avuto una vita meravigliosa, un matrimonio fantastico, due figlie, il rispetto e l'ammirazione. Non sono mai stato in ospedale e non mi è successo nulla di tremendo. Spero continui così». 

L'umorismo può servire ad esorcizzare l'idea della morte?

«La morte è una brutta cosa ma non c'è modo di contrastarla né una via di fuga. Basta non pensarci».

Estratto dell'articolo di Masolino D’Amico per “Il Venerdì di Repubblica” il 29 aprile 2023.

Giusto mezzo secolo fa, anno 1973, arrivava in Italia, da Bompiani, il primo libro  di Woody Allen, Saperla lunga. Tradotta non integralmente e con qualche, seppur talentuosa, licenza dall'originale, la raccolta di testi umoristici usciva sulla spinta dei film che avevano fatto scoprire il giovane Allen al pubblico italiano: Prendi i soldi e scappa (1969), Il dittatore dello stato libero di Bananas (1971), Provaci ancora, Sam  (1972) e Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso (1972).

Ora, dalla Nave di Teseo, la raccolta torna, insieme agli altri libri alleniani, in versione completa a cura di Daniele Luttazzi, con una nuova traduzione a partire dal titolo, Rivincite, più fedele all'originale. Nell'introduzione del '73, Umberto Eco parlava di una "ristretta élite" che si considerava quasi unica depositaria delle semisconosciute delizie dei film di Allen. 

[…] 

Chiedo scusa per averla disturbata di mattina. So che la gente di spettacolo non ama mettersi in moto così presto.

"Ma non è vero. Quando si gira un film è tutto un traffico fin dall'alba!".

Non pensavo tanto a chi fa cinema, ma a chi si esibisce dal vivo. Pare sia difficile far ridere prima di pranzo.

"Magari qualcuno ci riesce. Io per la verità non ci vorrei provare". 

Comunque niente cinema, questa è una intervista al Woody Allen scrittore: è vero che è ciò che avrebbe sempre voluto diventare?

"Verissimo. Fin da quando ero piccolo. L'ho sempre fatto tutto il tempo - scrivere - anche prima di andare a scuola. Mi è sempre piaciuto. Anche ieri sera scrivevo, anche stanotte. E stamattina continuerò". 

Cosa scriveva agli inizi?

"Beh, ho sempre scritto di tutto. Storie, barzellette, commedie... a un certo punto, ero ancora giovane, mi specializzai in battute che poi vendevo ai professionisti. Mi veniva facile, e presto cominciai anche a guadagnare bene. Però mi vedevo come uno scrittore serio, di libri veri - anche se alla fine cercavo sempre di essere divertente".

Quindi si può dire che la voglia di divertire abbia influenzato il suo stile? La comicità di solito vuole la sintesi.

"Stile? Io scrivo come mi viene naturale. C'è un ritmo, come nella musica. Però diciamo che se ho uno stile, sì, non è molto adatto alla tragedia, semmai tende alla commedia". 

E al racconto più che al romanzo?

"Sì, ho sempre scritto pezzi brevi. È molto più facile. Non che non abbia tentato anche di scrivere un romanzo. Anni fa ci ho provato, ci lavorai anche parecchio. Ma niente da fare, non veniva. Così ci ho rinunciato. Forse ci riproverò, perché l'idea comunque mi piace. Ma è veramente troppo difficile. Non sono ancora mai riuscito a scrivere un pezzo lungo che mi soddisfi. 

[…] 

La verità è che mi piace lavorare da solo. Lo so, il cinema si fa per forza in tanti. Ma le riprese di un film alla fine durano otto settimane. Tutto il resto del tempo si lavora da soli, ed è la cosa che mi piace di più. Quando sono solo lavoro per me. Non penso a un pubblico, non penso al successo che ne può venire o non venire. Non mi interessa, davvero". 

Lei scrive anche i film.

"Certo. Ma mi riconosco in quello che una volta Tennessee Williams disse in un'intervista: "Io scrivo una commedia, scriverla mi piace. Quando è finita vorrei metterla in un cassetto e cominciarne un'altra, senza passare per il processo di vederla andare in scena". Anche per me il film è finito quando ho finito di scriverlo. Quello che succede dopo può funzionare, ma in un certo senso non migliora ciò che avevo immaginato. Bisogna metterci un sacco di lavoro... lavoro che so fare, intendiamoci, ma non è la parte che mi piace di più. 

D'altro canto, dato che nel passaggio dalla pagina allo schermo avvengono tante cose, è indispensabile che sia io a controllare tutto il procedimento. E se c'è bisogno di fare dei cambiamenti, è meglio che sia io a farli. Ma di solito non cambio nulla se non sono certo che il film possa migliorare. Per questo non scriverei mai un film che poi non possa dirigere io. Con quello che costa fare delle modifiche, non le affiderei a nessun altro".

[…] 

Ha avuto successo? In America, per esempio?

"Mah, ogni tanto so di qualcuno che l'ha apprezzata. Ma a essere sincero non lo so. Non seguo queste cose, non guardo le vendite, non leggo le recensioni. Anche con i film faccio lo stesso: non seguo mai il risultato. Che il tale film piaccia ai tedeschi ma meno agli italiani non mi cambia nulla. Ovviamente mi fa piacere quando qualcuno li approva e me lo dice, però - libro o film - l'importante per me è averli finiti. D'altro canto le reazioni del pubblico di un film posso solo illudermi di conoscerle...". 

[…] 

Posso riferirle un apprezzamento circa la sua autobiografia.  Un suo collega scrittore, Hanif Kureishi, trovandosi in ospedale a Roma nell'impossibilità di muoversi in seguito a un grave incidente, so che si è immensamente divertito ascoltando l'audiolibro da cima a fondo.

"Beh, questo è certo un bel complimento".

E lo scrittore Woody Allen cosa legge?

"Non sono mai stato un grande lettore. In questi giorni sto leggendo un libro, il titolo sinceramente non mi viene in mente, scritto da un collaboratore di Brecht, bravo come Thomas Mann - parla di una famiglia ebrea in Germania  e della nascita del nazifascismo: ma non c'è nessuna isteria da film, c'è invece tutto il senso della lentezza con cui arriva l'orrore. E questo mi appassiona. 

Ma, per tornare alla sua domanda, di grandi libri nella mia vita ne ricordo pochi. Anche di molti tra i classici più illustri posso dire di avere veramente gustato solo qualche brano, qualche passo... Da ragazzo, poi, non leggevo proprio nulla. Quella onnivora era mia sorella. Io divoravo i giornali sportivi. Ancora oggi leggo relativamente poco".

Neppure i fumetti?

"Ah, quelli sì! Da ragazzo ne ero insaziabile. A casa ne avevo una pila alta così. Superman, Batman... ogni settimana non vedevo l'ora che uscisse quello nuovo. I libri veri li ho cominciati a leggere solo a scuola. Hemingway, a diciott'anni, non prima. Le ragazze che corteggiavo, loro sì che leggevano molto... magari cercavo di leggere per mettermi al loro livello. Ma leggere per puro piacere è un'attività che non praticavo". 

E non le andrebbe di scrivere ancora per il teatro?

"Ma lo faccio! Ho già due commedie pronte. Una almeno credo che piacerebbe anche in Italia. Nel frattempo ho anche finito di girare un film in Francia, tutto in francese e con attori francesi. Si chiama Coup de Chance. Mi sono divertito moltissimo. È un film europeo e vorrei farne un altro. Magari in Italia, mi piacerebbe". 

A quale dei suoi film potrebbe assomigliare?

"Forse a Match Point". 

Ottima notizia. Lo vedremo?

"Sì, abbiamo già la distribuzione (in Italia da Lucky Red, ndr)".

E la commedia nuova, quella che potremmo apprezzare anche noi, a quale delle sue assomiglia? Ne ricordo una messa in scena a Roma da Monicelli, in italiano si intitolava Una bomba in ambasciata.

"Don't drink the water! Fu la mia prima commedia. Piena di errori, scritta solo per far ridere. Però piacque. Ora sono molto più bravo. E quest'ultima è molto più complicata". 

Di che parla?

"Di un gruppo di persone a New York... di conflitti tra di loro... per me è interessante guardare quanto persone colte e assennate possono diventare irrazionali". 

Sarà difficile portarla a Broadway?

"Quasi impossibile. I costi lì sono diventati stratosferici, con quello che costa produrre una commedia si potrebbe fare un film. Così, per non rischiare, si producono quasi solo vecchi musical col richiamo di qualche star del cinema. Adesso è solo roba per turisti ricchi...". 

Secondo lei morirà il teatro?

"No, il teatro non morirà affatto, anzi, si rimetterà in piedi e sarà per sempre. Certo, ora come ora, è praticamente paralizzato. Non come il cinema. Parlo dal mio punto di vista, ma per fare cinema basta trovare i soldi, non ce ne vogliono molti, e io li trovo. La cosa triste è che per gli altri, e penso ai giovani, non è così. Loro, almeno in questo momento, sono tagliati fuori...". 

Estratto dell'articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” l’1 gennaio 2023. 

Il Capodanno di Valentina Lodovini sarà «in pigiama, maschera al cetriolo e la trilogia del Il Padrino in tv». 

(...)

Qual è la sua festa preferita?

« L'unica degna di essere celebrata è la Liberazione. Con la consapevolezza che bisogna vigilare sulla libertà ogni giorno. Quando mi sveglio, ovunque mi trovo, il 25 aprile ascolto Pietro Calamandrei e il discorso sulla Costituzione: "La libertà non è una macchina che metti in moto e va avanti da sé". La mancanza di libertà e la lotta per la libertà sono argomenti di un'attualità devastante». 

E le altre?

«Fin da bambina le ho sopportate e rispettate adeguandomi all'allegria degli altri. Capodanno per me è il pigiama party con gli amici a casa mia, loro cucinano - polpette di tonno, la norma - io preparo la scenografia e rassetto. E poi, sotto con Michael Corleone: alle cinque di mattina - con le interruzioni del brindisi - siamo all'inizio del terzo film. Solo una volta gli amici hanno protestato e in alternativa abbiamo visto The young pope ». 

La festa delle donne?

«Anche se è stato per caso, c'è stato un otto marzo memorabile per me e le mie amiche. Era un momento tostissimo per tutte, una di noi aveva avuto un lutto. Ci siamo presentate a Fiumicino, in borsa un maglione e un costume, per prendere il primo volo in partenza economicamente accessibile. Siamo finite ad Amsterdam, una serata da sballo e una di noi che faceva discorsi con i distributori automatici di lattine». 

Cosa le porterà il nuovo anno?

«Non so. Vivendo il presente mi pare di seminare per il futuro. In questi anni difficili sono grata dei miei privilegi, ma preoccupata come cittadina e come zia. Vorrei tornare a viaggiare di più, mi fa stare bene. E mi piace imparare ogni giorno una cosa nuova». 

Che zia è?

«Una che si strapperebbe la pelle per i nipoti. Sono miei amici, imparo da loro, ragioniamo sul futuro, li porto al cinema. I personaggi e i film sono stati incontri che mi hanno cambiato, se ho una coscienza critica è per Francesco Rosi. Sono una zia che toglie loro i cellulari, li fa leggere, li porta ai musei e a volte li obbliga a vedere film. All'inizio del Gattopardo erano scettici, poi si sono ammutoliti e sono stati rapiti. Di Avatar 2 sono io la più entusiasta».

(...)

Gli italiani parlano poco di sesso?

«Sì. Mi sembra che si viva o come peccato, qualcosa di contorto, o in modo pornografico, come se ci fosse solo youporn. Il sesso è natura e linguaggio, sarebbe bello fosse più semplice sfiorarsi. Non conosco le reazioni al film, agli amici è piaciuto, nessuno infastidito. Aspetto le reazioni del mio quartiere: vicini, mercato, tintoria. Dopo l'episodio di Montalbano in cui andavo a letto con il babbo e l'uccidevo ho avuto molte critiche: tre signore mi hanno processato al supermercato. È stato fantastico». 

Che regalo vorrebbe?

«Il coraggio di farmi conoscere. Sono solitaria, mi sento inadeguata, ho paura di non essere amabile. Voglio abbattere questo muro difensivo che mi fa sembrare stronza o snob. È un percorso bello e faticoso. So che la gente ha problemi più grossi. Ma non voglio più vergognarmi, aver paura di una cena con gli amici. Voglio stare in mezzo alla gente anche quando non sono protetta del palco o dal set».

Il set, le nozze saltate, i gossip: la storia d'amore tra Valeria Golino e Riccardo Scamarcio. Valeria Golino e Riccardo Scamarcio sono stati insieme dal 2005 al 2016 ma, pur lasciandosi, la coppia non ha smesso di lavorare insieme e di volersi bene. Novella Toloni il 23 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L'incontro sul set

 Il debutto a Cannes

 I film insieme

 I gossip e la ricerca di riservatezza

 Le nozze mai celebrate

 I primi segnali di crisi

 Il presunto tradimento

 L'addio definitivo

 Il ritorno insieme al cinema

La storia d'amore tra Riccardo Scamarcio e Valeria Golino ha fatto sognare i cinefili. Nonostante la differenza di età, i due attori hanno avuto una lunga relazione fatta di passione, intesa professionale e stima reciproca. Sebbene i due abbiamo preso strade diverse dal punto di vista sentimentale, la coppia oggi è ancora molto legata.

L'incontro sul set

È il 2005. Il regista Fausto Paravidino è alle prese con la scelta del cast per il film "Texas" e seleziona Valeria Golino e Riccardo Scamarcio per il ruolo di protagonisti. Lui ha 26 anni ed è reduce dal successo di "Tre metri sopra il cielo"; lei ha 41 anni ed è un'attrice consacrata che ha appena ricevuto un David di Donatello. Sul set Valeria e Riccardo raccontano la storia di una maestra e di un giovane che si innamorano e, nella realtà, tra loro scoppia davvero la passione. Solo dopo l'uscita del film nelle sale, però, i due attori cominciano a frequentarsi.

Il debutto a Cannes

Golino e Scamarcio cercano di mantenere la loro storia d'amore riservata e attendono quasi due anni prima di ufficializzare la loro relazione con una uscita pubblica. I due attori scelgono la mostra del cinema di Cannes per mostrarsi innamorati sul red carpet. È il 2007 e insieme assistono alla prima del film "Le reve de la nuit d'avant", nel quale Valeria Golino ha recitato.

I film insieme

L'amore tra Valeria Golino e Riccardo Scamarcio non è solo intimità e feeling, ma anche condivisione di una passione, quella per la recitazione. Insieme i due attori girano diversi film nei primi anni di relazione. Così nel 2009 si ritrovano l'uno al fianco dell'altra in "L'uomo nero" di Sergio Rubini, mentre nel 2013 Valeria Golino sceglie il compagno per il suo primo film da regista "Miele".

La coppia Scamarcio Golino convolerà a nozze in Puglia

I gossip e la ricerca di riservatezza

Su di loro, che mantengono un basso profilo, non circolano gossip. Insieme appaiono sempre raggianti sui red carpet di Venezia e Cannes, dove si fanno vedere spesso. Nel 2011, però, escono delle foto di Scamarcio che amoreggia con la collega Clara Ponsot - prima lontani dal set con un bacio, poi in spiaggia di notte - e scoppia lo scandalo. L'attore si giustifica dicendo che "si tratta di lavoro. Non ho tradito Valeria"; ma la vicenda finisce comunque su tutti i giornali di gossip.

Le nozze mai celebrate

Febbraio 2015. A sorpresa, ad Andria, città natale di Riccardo Scamarcio, vengono affisse le pubblicazioni. Valeria Golino e il suo compagno sono pronti a convolare a nozze ma qualcosa di inatteso accade. La notizia viene riportata da tutti i siti e dalle riviste di spettacolo e la coppia si dice "sconcertata" del chiacchiericcio scatenatosi. "La nostra è una decisione intima, non volevamo divulgare la notizia, tutto quello che è successo ci ha veramente travolto", fa sapere Scamarcio e le indiscrezioni parlano della famiglia dell'attore contraria alle nozze, che mai si celebrano.

I primi segnali di crisi

Le riviste di gossip parlano di crisi. A causa delle mancate nozze, Valeria e Riccardo litigano e l'attore viene addirittura paparazzato in compagnia di una misteriosa bionda per le vie di Roma. Sono i primi segnali di una crisi che non avrà ritorno. È estate e si vocifera che l'attrice abbia perso la testa per dell'attore francese Vincent Cassel, conosciuto durante le riprese di un film all'estero, ma la coppia prova ad allontanare i gossip mostrandosi insieme alla cerimonia finale della 72esima mostra del cinema di Venezia. È settembre 2015. I volti scuri e l'atteggiamento distaccato tra i due, però, non offrono un'immagine di coppia felice. Sarà l'ultima volta che Valeria e Riccardo si mostrano in pubblico come fidanzati.

Riccardo Scamarcio pizzicato a Roma in compagnia di una bionda misteriosa

Il presunto tradimento

Febbraio 2016. Dagospia rilancia un vero e proprio scoop che interessa la coppia. "La Golino quattro mesi fa aveva accompagnato alla porta, cacciandolo letteralmente fuori di casa, il suo Riccardino. La ragione? Il pimpante Scamarcio, pare, fosse assai libertino", riferisce il sito di Roberto D'Agostino. Ma in una intervista Valeria Golino smentisce con fermezza: "Quello che leggo è di un malevolo e di una cattiva fede che mi colpisce. È falso, la notizia è falsa".

L'addio definitivo

La coppia non arriva all'estate. A maggio 2016 i due prendono le distanze. Un comunicato ufficiale dell'addio non è mai arrivato, ma Valeria Golino e Riccardo Scamarcio vivono due vite distanti e ormai divise, che non lasciano dubbi sulla rottura. I motivi non si conosceranno mai, anche se l'attrice - di recente - ha rivelato di avere sofferto molto per la separazione. "La delusione sentimentale è stata fortissima, la più grande della mia vita. D’altra parte, più c'è amore e più si soffre. Tutti diamo il peggio di noi stessi in certe circostanze", ha confessato l'attrice al settimanale F, parlando dell'addio.

Il ritorno insieme al cinema

Nonostante la fine della loro storia d'amore, Valeria e Riccardo non hanno mai smesso di volersi bene, lo dimostra il fatto che nel 2018 la coppia torna a recitare insieme nel film "Euforia". L'intesa sul set è quella di un tempo, ma l'amore ormai è svanito. "È stata una cosa estremamente dolorosa, una sconfitta", ha confessato Scamarcio durante le interviste di presentazione del film, diretto proprio dall'ex compagna. Oggi entrambi hanno una nuova relazione. Scamarcio è tornato dalla compagna dalla quale ha avuto una figlia nel 2020, Angharad Wood, mentre Valeria Golino è una storia con Fabio Palombi.

Malcom Pagani su Il Corriere della Sera venerdì 4 agosto 2023.

Un’infanzia «disordinata» segnata dalla separazione dei genitori, lui napoletano lei greca. Poi i problemi alla schiena e il viaggio a Chicago per l’operazione: «Avevo 12 anni e provai a rubare in un grande magazzino, se ne accorsero subito. Mia madre si mise a piangere per la vergogna. Non l’ho più fatto» 

L’attrice Valeria Golino, 57 anni: è nata a Napoli da un germanista e da una pittrice greca. Dopo la separazione dei genitori ha vissuto tra Sorrento e Atene, dove ha cominciato a lavorare come modella di jeans e costumi (foto Fabio Lovino)

Il lavoro di Valeria Golino è «romantico» perché «crea mondi inesistenti». A volte l’invenzione arriva ad occhi aperti, altre in sogno: «e sono delle vere e proprie epifanie». La bellezza delle storie da raccontare, sostiene «sta nella forma» e «gli stessi contenuti, le stesse storie, le stesse infanzie raccontati in modo diverso hanno un valore differente. È il modo in cui racconti le cose che poi le rende preziose». Partito quasi per caso ai confini dei suoi diciotto anni, il viaggio di Valeria ha attraversato i decenni, le stagioni, la curiosità di recitare e dirigere film e serie televisive. Presto vedremo L’arte della gioia , ma osservandola si intuisce che la felicità è come il mare che ha davanti agli occhi: non lo puoi fermare, non lo puoi recintare. «I confini non mi piacciono, ma c’è un’età in cui sono necessari».

Cosa sognava da bambina?

«Forse la stabilità. AI bambini non dispiacciono gli argini, non dispiace che le cose restino un po’ come sono».

Una fortuna che le è toccata?

«Non proprio. Ho vissuto un’infanzia abbastanza disordinata. I miei si separarono presto. Mio padre rimase in Italia e io mio fratello e mia madre andammo a vivere in Grecia. Oggi sono mondi vicinissimi, all’epoca mi sembravano universi lontani».

E di questi universi cosa ricorda?

«Che non volevo crescere. Poi mi è toccato farlo all’improvviso ed è stato come fare un salto nel buio».

L’attrice nei panni di regista dietro la macchina da presa per il film «Miele» (2013)

Cosa c’era nel buio?

«La mia adolescenza, saltata a piedi pari. A quattordici anni, dopo aver combattuto con la scoliosi a lungo decisero di portarmi a Chicago per farmi operare alla schiena. Dopo l’operazione, un’operazione complessa, passai cinque mesi a letto. Saltare la scuola non era poi così male, ma ero in un Paese che non conoscevo, in un mondo completamente diverso da quello a cui ero abituata, in una città bella ma freddissima».

Poco dopo si ritrovò sulle passerelle.

«A lavorare come modella. Una maniera per fingere di essere bella o per liberare finalmente quel corpo che era stato ingabbiato per tanto tempo in busti e gessi. Ero come un bozzolo, ero una larva in un bozzolo».

Cos’altro rammenta del periodo americano?

«Un furto in un grande magazzino. Quando da piccola rubavo i soldi dalla borsa di mia madre non c’erano mai state conseguenze, ma a Chicago mi beccarono con le mani nel sacco. Avevo dodici anni e mezzo ed ero in un grande magazzino con mia madre circondata da oggetti assurdi e inutili che vedevo per prima volta. Me infilai nelle tasche ignorando che lì avessero già i metal detector che facevano bip bip quando passavi. Arrivarono due vigilantes, mia madre per la vergogna iniziò a piangere. Da quel giorno, forse anche per imbarazzo, non ho mai più rubato».

Valeria Golino con Tom Cruise e Dustin Hoffman sul set di Rain Man (regia di Barry Levinson, 1989 - foto United artists/courtesy Everett collection)

Oggi cosa la mette in imbarazzo?

«Definirmi. In assoluto la cosa che mi imbarazza di più. Fare bilanci, dire sono questo e non sono quello, la penso così e non la penso in quest’altro modo. Definirsi è stupido e forse anche un po’ funerario».

Come mai?

«Perché mi piace il dubbio. Per me è il sovrano assoluto. Persone che hanno pochi dubbi ovviamente le conosco anche io, ma evito di frequentarle anche perché con uno senza dubbi la conversazione langue».

Si annoia?

«No, questo no. Quasi mai. Neanche quando non faccio niente. In tutto o quasi trovo qualcosa di interessante, sono in ascolto. Sempre».

Da ragazza era meno indulgente?

«In realtà credo di essere stata spesso molto indulgente che non significa necessariamente sia stata sempre buona. A volte da giovane ho mostrato tolleranza ed empatia con gli altri per smussare i contrasti, altre per quieto vivere. La gentilezza da ragazzi è una forma di poesia: si ricorda cosa scriveva Rimbaud? “Giovinezza oziosa/onniasservita/ per gentilezza ho perduto la mia vita”» .

«IN AMORE SONO ATTRATTA DAL MISTERO, DA CIÒ CHE MI METTE IN PERICOLO. I MASCALZONI? NON SONO MAI COSÌ MASCALZONI...»

Adesso?

«Adesso mi sembra quasi di subire quel sentimento, l’indulgenza e non più di guidarlo come mi capitava in un’altra fase della mia vita. Accetto cose che forse non dovrei accettare e forse mi accontento. Che è un errore, me ne rendo conto, perché so benissimo che non dovrei».

Esiste un opposto dell’accontentarsi?

«Essere invadenti. Entrare a gamba tesa. A volte essere rigidi e imporsi è indispensabile. Le porte vanno aperte anche a costo di non chiedere permesso: concedo l’indulgenza solo a chi non pensa che la gentilezza sia il sinonimo di stupidità».

Invadere invece significa dire la verità?

«Sicuramente. E significa anche costringere l’altro ad ascoltare».

Lei si considera un’inquieta?

«Mi hanno anche premiato, una volta, come inquieta dell’anno. Volendo la posso travestire e darle un altro nome, ma l’irrequietezza fa parte di me fin da quando sono nata e non credo che certe cose possano cambiare. Sono destinata a diventare una vecchia bambina inquieta». (sorride).

I premi non leniscono l’inquietudine? Lei ne ha vinti tanti.

«La prima Coppa Volpi, a Venezia, l’ho vinta a diciannove anni. Ma non riuscii ad essere contenta come avrei voluto. Sapevo di dover essere felice: era ovvio. Me lo chiedeva il contesto, la situazione, le persone che erano con me».

Come mai?

«Forse non avevo ancora capito come affrontare e cosa fare con tutta quella gioia».

E la seconda volta?

«Ho gioito con più pienezza, per me e per tutti quelli che mi volevano bene. Ho fatto mia la lezione di Benicio Del Toro».

Quale lezione?

«Quando vinse l’Oscar gli chiesero se fosse felice e lui disse soltanto: “Sono felice per tutte le persone che mi amano”».

Che difetti pensa di avere Valeria Golino?

«Una generale mancanza di disciplina. Ci combatto da sempre: è un mio grave difetto. Sul set di Rain Man Barry Levinson non mi salutava canonicamente, ma appena mi vedeva invece di dirmi buongiorno sibilava: “disciplina”».

Aveva ragione?

«Completamente. Anche oggi che non ho più ventuno anni e non faccio più solo l’attrice, ma scrivo film e li giro so che la mancanza di disciplina è un ostacolo alla mia creatività».

Come lo supera?

«Vivo di rendita, di esperienza, di intuizioni. Ma mi preparo molto meno di quanto non dovrei e quando lo faccio, lo faccio in maniera disordinata. Un po’ sono migliorata, ma pigrizia e approssimazioni sono lì, il silenzio, sempre in agguato».

Non è un soldatino perché forse un soldatino non voleva diventare.

«Devi fare i conti con ciò che sei. Con la tua natura. Starnazzo, con le mie alucce, e provo a volare. Ma al tempo stesso, come tutti, ho le mie zavorre. Ma non lo dico con lietezza o rassegnazione, lo dico con stizza, perché non c’è niente di peggio che crogiolarsi nei propri difetti».

La regola fondamentale per esserle amico?

«Quelle non scritte: i codici che vanno onorati e che variano da individuo a individuo. Le amicizia vanno curate, innaffiate, accarezzate. Degli amici, se gli vuoi bene, un po’ devi occuparti. E devi saper ridere con loro».

Ridere è importante anche in amore?

«Per me molto meno. Sono attratta da qualcosa di più misterioso, di più nascosto, da qualcosa che mi mette in pericolo».

Le piacciono più i mascalzoni dei bravi ragazzi?

«Al cinema sicuramente».

E nella vita?

«Nella vita i mascalzoni non sono mai così mascalzoni come sembrano all’inizio. C’è sempre un altro dietro ciò che vediamo».

Vale anche per lei?

«C’è bisogno di chiederlo? Anche io sembro tante cose che non sono».

CHI E’ VALERIA GOLINO

LA VITA - Valeria Golino è nata a Napoli 57 anni fa, figlia di un germanista e di una pittrice greca. Quando aveva 11 anni ha vissuto per 5mesi a Chicago, in America, dove era andata permotivi di salute. Dopo la separazione dei genitori ha vissuto tra Sorrento e Atene, dove ha cominciato a lavorare come modella di jeans, costumi da bagno e cosmesi.

LA CARRIERA - Golino è stata scoperta dalla regista Lina Wertmuller, che l’ha voluta sul set nel 1983. L’attrice ha vinto tre David di Donatello (a fronte di 15 candidature), quattro Nastri d’argento, tre Globi d’oro, e tre Ciak d’oro. Per ben due volte è stata premiata con la Coppa Volpi alla migliore attrice a Venezia.

Certi amori non finiscono. Le rose, l'aborto e i guai giudiziari: la storia d'amore tra Valeria Marini e Vittorio Cecchi Gori.

La storia d’amore tra Vittorio Cecchi Gori e Valeria Marini è stata una delle più chiacchierate degli anni 2000. Nonostante l'addio avvenuto prima nel 2003 e poi definitivamente nel 2005, Valeria e Vittorio sono rimasti legati da un grande affetto. Novella Toloni il 9 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Il fascio di rose in camerino

 L'invito a cena

 Gli anni d'oro

 Cecchi Gori nel mirino della giustizia

 L'aborto spontaneo

 La morte di Valeria Cecchi Gori

 L'arresto per il fallimento della Fiorentina

 La crisi e l'addio

 Il ritorno di fiamma

 Cecchi Gori in carcere

 Valeria Marini e Vittorio Cecchi Gori oggi

La storia d’amore tra Vittorio Cecchi Gori e Valeria Marini è stata una delle più chiacchierate degli anni 2000. Nata con un corteggiamento romantico, la relazione ha attraversato momenti belli e altri difficili dovuti ai problemi giudiziari di Cecchi Gori. Sebbene la coppia si sia detta ufficialmente addio nel 2003, il legame tra Valeria e Vittorio non si è mai interrotto del tutto e ancora oggi la coppia è legata da un sincero affetto.

Il fascio di rose in camerino

È il 1999. Valeria Marini è una delle star del Bagaglino ed è reduce dalla co-conduzione del Festival di Sanremo. Pippo Baudo la sceglie per condurre al suo fianco il programma "La canzone del secolo" su Canale 5. Vittorio Cecchi Gori è invece uno dei produttori più vincenti del cinema italiano, è il presidente della Fiorentina e sta divorziando dall'ex moglie Rita Rusic. Incontra Valeria a un evento mondano e ne rimane folgorato, così le fa recapitare in camerino, dopo uno spettacolo teatrale, un fascio di rose enorme. "Mi conquistò", riferirà anni dopo la showgirl sarda, parlando della loro storia.

L'invito a cena

Il fascio di rose che Cecchi Gori fa recapitare a Valeria Marini in camerino porta con sé un messaggio: l'invito a cena. Valeria accetta e incontra il produttore cinematografico nella sua residenza a Palazzo Borghese. Si tratta del loro primo incontro. "Mi invitò a casa sua e mi fece aspettare un'ora perché stava facendo la manicure", racconta la Marini. È l'inizio della loro storia d'amore.

Gli anni d'oro

Tra il 1999 e il 2000 Valeria Marini è richiestissima in televisione e al cinema. Gira due film in Spagna e poi torna a teatro con “L'Angelo Azzurro” di Giuseppe Manfridi. Cecchi Gori produce molti film di successo, tra i quali spiccano "C'era un cinese in coma" di Carlo Verdone, "Tutto l'amore che c'è" di Sergio Rubini e "Zora la vampira" dei Manetti Bros. Valeria e Vittorio appaiono insieme felici e sorridenti a diversi eventi pubblici e si mostrano in televisione ospiti di alcune trasmissioni di attualità, confermando la loro storia.

Cecchi Gori nel mirino della giustizia

Luglio 2001. Vittorio Cecchi Gori riceve un avviso di garanzia per concorso in riciclaggio. La procura di Firenze dispone una serie di perquisizioni negli uffici della sede della Fiorentina e in alcune abitazioni del produttore. Le forze dell'ordine perquisiscono anche l'appartamento di Palazzo Borghese, dove Cecchi Gori vive insieme a Valeria Marini. La showgirl è in casa quando i militari trovano nella cassaforte una grossa quantità di cocaina. Il produttore, però, si giustifica e spiega che si tratta di zafferano. Della perquisizione a Palazzo Borghese la Marina dirà: "Fu una messinscena per rovinarlo".

L'aborto spontaneo

Nonostante i problemi giudiziari Valeria Marini rimane saldamente al fianco di Vittorio. La coppia viene fotografata al teatro Piccolo Eliseo di Roma all'anteprima di "Persone naturali e strafottenti " di Giuseppe Patroni Griffi a gennaio 2002. Ma i mesi successivi sono difficilissimi per la showgirl e il suo compagno. Valeria Marini rimane incinta ma ha un aborto spontaneo dovuto ad alcuni problemi di salute. La coppia rivelerà di avere perso il figlio solo dopo la fine della loro relazione. In quel periodo Valeria torna in tv con la compagnia del Bagaglino: è la primadonna del varietà "Miconsenta" in onda su Canale 5.

La morte di Valeria Cecchi Gori

A marzo Vittorio Cecchi Gori è scosso da un doloroso lutto. La madre Valeria Cecchi Gori muore all'età di 81 anni. La donna era ricoverata in un ospedale romano a seguito di una brutta caduta, ma era malata da tempo. I funerali si svolgono nella chiesa di San Roberto Bellarmino. Vittorio Cecchi Gori è in prima fila assieme alla compagna Valeria. Il periodo buio della coppia prosegue e la Marini e Cecchi Gori vivono un periodo di forte tensione. Valeria perde un altro figlio: "Una sera, dopo l'ennesima lite, ho avuto una tremenda emorragia. Non mi sono neanche fatta ricoverare".

L'arresto per il fallimento della Fiorentina

La discesa verso l'inferno prosegue. A settembre la Fiorentina viene dichiarata fallita e Cecchi Gori è indagato per bancarotta fraudolenta. Le indagini della procura di Firenze stravolgono l'ambiente calcistico e a ottobre 2002 l'imprenditore viene arrestato. Un mese dopo, però, il produttore ottiene gli arresti domiciliari. Valeria Marini, che nel frattempo è impegnata con le riprese del film "La palestra" di Pingitore, continua a sostenere il compagno e lo difende a spada tratta, segno del suo grande amore.

La crisi e l'addio

Nel 2003 la coppia vive una profonda crisi. I guai giudiziari di Cecchi Gori da una parte e la presenza ingombrante dell'ex moglie Rita Rusic mettono in crisi Vittorio e Valeria. L'ultima uscita pubblica di coppia risale a novembre al Festival della commedia di Montecarlo, che la soubrette conduce al fianco di Ezio Greggio. Le riviste parlano di un imminente addio e il motivo sembra essere il Natale. "Vittorio aveva deciso di prendere il volo per i mari caldi con Valeria. Ma Valeria (36 anni), dopo aver accettato di riprendere a lavorare con il teatro Bagaglino, doveva provare e anche nel periodo festivo. Lo spettacolo comincerà il 10 gennaio", riferisce il Corriere dell'epoca. Ma secondo molti la crisi è dovuta al divorzio ancora in sospeso tra Cecchi Gori e la Rusic. Valeria vuole una famiglia e una vita di coppia libera dai fantasmi del passata, così a dicembre 2003 arriva l'annuncio ufficiale da parte dell'ufficio stampa della Marini, Paola Comin: “È stata una storia importante e bellissima, ma anche le cose più belle finiscono".

Il ritorno di fiamma

Ottobre 2004. Valeria Marini e Vittorio Cecchi Gori arrivano insieme alla presentazione del film "In questo mondo di ladri " di Carlo Vanzina. Le riviste di gossip parlano di un ritorno di fiamma e di un lento riavvicinamento tra i due, ma il produttore cinematografico e la showgirl non confermano. La coppia sembra volere recuperare un rapporto che non si è mai davvero chiuso. Nel 2005, però, Valeria denuncia l'ex compagno per minacce e lesioni aggravate da futili motivi dopo alcune liti avvenute e questo segna la definitiva fine dell’amore.

Cecchi Gori in carcere

Nel 2008 Vittorio Cecchi Gori finisce in manette per bancarotta fraudolenta. È la terza volta che il produttore varca le porte della prigione e a 66 anni viene messo in isolamento nel carcere romano di Regina Coeli. "Sono solidale con lui come sempre lo sono stata, anche in altri momenti brutti. Ho mantenuto un bel rapporto di amicizia e se lui ha bisogno di me, di qualunque cosa, io ci sono", dice Valeria Marini, che ormai è la sua ex ma rimane legata a lui da un profondo affetto. Poche settimane dopo, quando Cecchi Gori viene scarcerato, infatti, lei al suo fianco in conferenza stampa a Roma. Ed è ancora al suo fianco a ottobre quando insieme calcano il red carpet prima della proiezione del film: "Chinese Coffee". Ma tra

Valeria Marini e Vittorio Cecchi Gori oggi

Oggi Valeria Marini, che nel 2013 si sposò con l'imprenditore Giovanni Cottone, è tornata a sorridere grazie all'amore di Gerolamo Cangiano, politico e deputato di Fratelli d'Italia, mentre Vittorio Cecchi Gori vive ai Parioli e di recente ha raccontato: "Sono solo, ormai. Ho qualche amica. A 80 anni, ho più bisogno di amicizia". Con Valeria, però, rimane forte l'affetto. Nel 2020, quando Cecchi Gori venne nuovamente arrestato, la Marini era nella casa del Grande Fratello Vip e pianse quando le diedero la notizia. Un segnale di quanto forte sia rimasto il loro legame nonostante l'addio.

Valeria Marini: «Jovanotti mi conquistò dopo una notte sotto le stelle. Cecchi Gori al primo incontro si fece un’ora di manicure». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera l'11 Luglio 2023.

La showgirl: «Con gli uomini troppi errori, ma non ho rimpianti. Pamela Prati mi graffiò per gelosia»

Tra mille baci stellari, ha mai rifilato anche un ceffone altrettanto astrale?

«Mmm... mai. Al massimo baci semplici, che valgono come uno schiaffo».

A proposito, ha ancora la sua bocca tatuata quasi là dove non batte il sole?

«Certo, sono proprio le mie labbra, disegnate da un artista, con due ali di stelle, all’attaccatura del lato B. “Ma che hai combinato?”, mi chiese mia madre Gianna. “Tranquilla, è soltanto hennè”».

E «Wonder», come la chiama lei, le ha creduto?

«Nemmeno per un secondo», ride Valeria Marini, romana di nascita ma orgogliosamente sarda nel cuore (e talvolta nell’inconfondibile accento che riaffiora). Da quando a 7 anni Lolli — così la chiamava l’amato papà Mario («Sei il mio Angelo», lo ha ricordato giorni fa su Instagram) — dopo la separazione dei suoi, si trasferì a Cagliari.

La sua Sardegna di bimba.

«Ho tanti ricordi belli nella tenuta dei nonni materni, era un parco giochi, con conigli e galline e tanti cuginetti con cui giocare».

Isolana vera e pura.

«Nei valori che mi ha insegnato mamma: lealtà, sincerità, generosità. E testardaggine: volere è potere».

Tutto passa, la Valeria nazionale resta.

«Perché in ciò che faccio metto amore e passione, condivido emozioni e il pubblico lo sente. E sono un’ottimista, pure nei momenti difficili, non è che non ne ho avuti. Trasformo le difficoltà in cose belle. Come stamattina. Ho preso una storta al piede, camminavo lenta, allora ne ho approfittato per fare selfie con chiunque. Se mi chiedono una foto non dico di no, una volta così ho perso l’aereo».

Nel 1993 Pingitore la scelse come star del Bagaglino.

«A Ninni devo tanto, non smetto di ringraziarlo. Pamela Prati aveva lasciato la compagnia, lui prese me. Successo incredibile. Sorrisi & Canzoni mi dedicò due copertine di fila. Titolo: “Che bomba!”».

La storia che Pamela l’avrebbe graffiata per ripicca è vera o leggenda?

«No dai, è stato un momento di gelosia, poi ci siamo chiarite e siamo amiche, l’invidia non mi appartiene».

In coppia con Alba Parietti a «Serata mondiale».

«Ci siamo divertite da morire. Un pizzico di sana competizione ci sta. Però mi piace che gli altri abbiano successo. I numeri insieme diventarono cult. Specie la sigla. Io uscivo per prima, poi lei, che fino all’ultimo provava i passi. Ascolti da paura. Un mito, di una bellezza incredibile».

Amici veri tra colleghe/i?

«Antonella Clerici e Simona Ventura. Milly Carlucci. Carlo Conti e Renato Zero, che adoro, siamo vicini di casa, una sera lui e Giorgio Panariello mi hanno cucinato dei favolosi spaghetti mantecati».

Molti dicono: «Valeria ha un gran cuore».

«Davvero? Mi rende felice. Se posso tendo una mano, al mondo c’è posto per tutti».

Pure troppo buona?

«Spesso sì. Sono sincera, cristallina, mi piace regalare amore e felicità. Col tempo ho imparato a dare affetto solo a chi lo merita e mi ricambia».

A cavallo di una mortadella per il film «Bambola» di Bigas Luna, scena stracult.

«Surreale, nessun imbarazzo, buona la prima. Per me è sempre così, pure nell’ ultimo film, Billie’s Magic World, con Alec e William Baldwin. Due grandi. Eppure ero l’unica a non sbagliare le battute».

C’era pure un’anguilla.

«Un’invenzione di Bigas, gli sembrava sexy. Il protagonista maschile Jorge Perugorrìa era perplesso: “No entiendo”. L’anguilla puzzava da morire. Ho girato la scena senza respirare. Però Bambola ha sbancato, battendo Missione impossibile. Al Festival di Venezia, spente le luci, sembrava di stare allo stadio».

Sanremo 1997 con Mike Bongiorno e Chiambretti.

«Mike faceva corsetta e saltelli dietro al palco, per scaldarsi. Severo, con me però fu un amore. Una volta l’ho chiamato “Buongiorno”, che lapsus, non se la prese. Piero era appeso al soffitto vestito da angelo. Per scherzo aveva legato un filo alla coda del mio abito rosso di Dior. Ma l’ha tirato troppo, sotto ero quasi nuda e si è visto».

Baudo e «Domenica In».

«Pippo era ed è l’enciclopedia della tv, un monumento. Preparavo le domande per le interviste e lui me le cambiava tutte, però non me la prendevo. Lui, Mike, Chiambretti, Alberto Sordi, i grandi con cui ho lavorato, erano tutti dei Gemelli, curioso no?».

Il flirt estivo con Jovanotti.

«L’ho conosciuto in un locale di Porto Rotondo, io ragazza immagine, lui dj, eravamo giovanissimi. Meraviglioso, solare, giocoso. Mi ha insegnato a guardare le stelle in cielo nella notte di San Lorenzo. Durò un anno».

Ha raccontato che Jova baciava molto bene.

«Mai detto, però è vero».

E con Alfonso Signorini?

«Amore a prima vista, ma ci sono tanti tipi di amore. Gli voglio un gran bene, mi è stato accanto nei momenti duri, come io con lui».

Vittorio Cecchi Gori la conquistò con un biglietto.

«Mi mandò un enorme fascio di rose ma del biglietto non ricordo. Mi invitò a cena a casa sua. Quando arrivai dovetti aspettarlo un’ora perché si stava facendo la manicure».

Gli è stata vicina nel bene e nel male, aiutandolo, pagando — si dice — persino gli stipendi della Fiorentina.

«Non intendo scendere nel dettaglio. Per me i soldi non hanno valore, se lo meritava. Se avesse seguito i miei consigli sarebbe ancora il Vittorio Cecchi Gori degli Oscar».

La perquisizione all’alba a Palazzo Borghese.

«Menomale che c’ero io, fu una messinscena organizzata per rovinarlo».

Del (non) marito Giovanni Cottone detesta parlare.

«Altra farsa. Ho avuto l’annullamento dalla Sacra Rota in 4 mesi. Per fortuna me ne sono liberata in fretta».

Poi le storie con...

«Non me li nomini».

L’estate scorsa c’era Ed...

«La prego, basta. L’unico a cui voglio tuttora un gran bene è Patrick Baldassarri, che fa parte della mia famiglia».

Non è stata fortunata.

«Dopo Vittorio, per cui ho fatto la crocerossina, troppo presa dal lavoro, ho sbagliato tante scelte, commesso errori di valutazione».

«Però non smetto di sognare», ha detto. Cosa?

«L’amore, la felicità, il sorriso, le cose più belle».

Rimpianti?

«Non ne ho. Preferisco valutare bene gli errori per prendermi le mie rivincite».

Valeria Rossi, cantante di «Tre parole», racconta la sua nuova vita: «Ora suono con piante e agrumi». Rosella Redaelli su Il Corriere della Sera il 26 marzo 2023.

Nel 2001 faceva cantare l'Italia intonando "Sole cuore amore", oggi si racconta: «Dopo la politica torno a scrivere musica con gli studenti di Monza. Il successo fa parte del mio periodo di incoscienza»

Il bergamotto è bipolare perché «emette» suoni acuti e gravi, la limetta dolce è solenne e malinconica, il citrus grandis una perfetta ouverture. Lo spiega Valeria Rossi, la cantante rivelazione del 2001 con il singolo «Tre parole» che fu il tormentone di quell’estate, ma che ancora oggi segna numeri da record con 4 milioni di streaming su Spotify e 5 milioni di visualizzazioni su YouTube. La sua «sala di registrazione» oggi è la splendida serra di agrumi dei Chiaravalli, floricultori da generazioni a Monza e collezionisti di agrumi storici. È qui che con Mattia Chiaravalli, 28 anni, laurea in scienze ambientali, sta lavorando per comporre un database, una sorta di erbario musicale.

Dal palco del Festivalbar ad una serra. Come è cambiata dalla cantante che chiedeva «sole, cuore e amore»? 

«Tre parole è stata una canzone e un successo a cui sono grata, ma quello era il mio periodo di inconsapevolezza, dell’incoscienza. Lo definisco “la parte giovane della mia vita”, ora sono più matura e consapevole, pronta per nuovi progetti».

Come la politica? 

«Lo scorso anno mi sono presentata alle amministrative per una lista di centrosinistra. Da dieci anni vivo a Monza, mi piace il fermento della città, l’impegno di diverse associazioni. Ho voluto dare una mano, ma ho capito subito che non era il mio posto. Non ho nemmeno fatto campagna elettorale». 

Anche il lavoro all’Anagrafe le stava stretto? 

«È stata una bella esperienza che però ho chiuso. Ho una laurea in Giurisprudenza e una in Antropologia. Ad un certo punto durante la pandemia mi sono rimessa a studiare. Ho preparato il concorso, l’ho passato. Ci tengo a dire che nessuno sapeva chi fossi, al colloquio eravamo tutti mascherati. Però ora ho deciso di fare altro, ho bisogno di sentirmi di aiuto agli altri. Ho frequentato i corsi alla scuola d’Agraria del parco, ho imparato a condurre un orto, poi mi sono diplomata e sono diventata progettista degli spazi verdi per il benessere. Credo molto nella connessione con la natura».

Come raccoglie la voce degli agrumi? 

«Con un semplice apparecchio in grado di registrare il potenziale elettrico di ogni pianta e di convertirlo in suono. È sorprendente scoprire temperamento, ritmo, timbro di ogni varietà. Il più classico limone, ad esempio, ha un temperamento giovane, vivaldiano, il chinotto è solenne e wagneriano». 

Hanno voce anche le verdure dell’orto? 

«Assolutamente sì. Abbiamo provato con porri e cavolfiori, sono decisamente più giovani e vivaci degli agrumi». 

Cosa ne fa di questa melodia verde? 

«Sono tornata a scrivere canzoni, ma questa volta in modo corale. Con Mattia abbiamo proposto un progetto di alternanza scuola lavoro a due classi del liceo di Scienze sociali Porta di Monza, ma ci piacerebbe estenderlo ad altre realtà per fare di Monza “la città che canta”». 

I ragazzi l’hanno riconosciuta? 

«Qualcuno sì, ma non ho manie di protagonismo. Abbiamo lavorato insieme. Per due giorni in serra i ragazzi hanno scelto quattro varietà di agrumi, un quartetto di “voci” con cui abbiamo costruito la melodia. Poi ci siamo dedicati al testo, scrivere è sempre stata la parte che preferisco della musica. I ragazzi hanno tirato fuori emozioni, sentimenti, paure che raccontiamo nel brano “Sconosciuti adesso” che andrà presto su Spotify».

 “L’amore non è questo, non è crudeltà. Cercavo nei tuoi occhi la mia felicità”, è il ritornello. Bisserà il successo di “Tre parole”?

 «Chissà. Di certo è un progetto in cui credo, il titolo racconta una generazione che ha iniziato a conoscersi adesso dopo aver vissuto le restrizioni della pandemia». 

Che effetto le fa tornare in sala di registrazione? 

«È stato bello, ma la parte del brano che preferisco è quando sulla mia voce entrano quelle dei ragazzi».

Valeria Solarino: «Quella cena con Springsteen per cui non dormii la notte. Ho più ammiratrici donne». Storia di Elvira Serra  su Il Corriere della Sera il 22 ottobre 2023.

«I primi sono tutti legati a mio nonno materno, Angelo, una delle figure più importanti della mia vita: mi ha insegnato a camminare, ad andare in bicicletta, a scrivere. Era ferroviere e quando mi raccontava del suo lavoro gli brillavano gli occhi. Ai tempi non sapevo ancora cos’avrei fatto, ma sapevo che volevo far qualcosa con quella luce negli occhi».

L’ha trovata nella recitazione. «Andavo tanto a teatro e pensavo che quello degli attori fosse il lavoro più bello del mondo. Ma mi sembrava un sogno troppo grande, come pensare di fare l’astronauta».

E allora perché si presentò all’audizione allo Stabile di Torino? «Mi ero informata sulle scuole nella mia città e avevo scoperto che lì a settembre ci sarebbero stati i provini. Come dialogo preparai l’Antigone e come monologo Ritratto di Signora. Bisognava portare anche una canzone e avevo scelto Il passaggio dei partigiani di Ivano Fossati, perché era molto recitata, ma mi bloccarono prima del ritornello: fu un’umiliazione!».

Però la presero. «Sì, subito! Uscì il mio maestro, Mauro Avogadro, e mi chiese di non fare provini con altre scuole. È stato il giorno più bello della mia vita».

Cosa videro in lei, senza nessuna esperienza? «Una grande passione. Partivo da zero, c’era materiale su cui lavorare».

Le piace di più fare teatro, cinema o fiction per la tv? «Sono modi di recitare e di comunicare diversi. Il teatro è bello proprio grazie al rapporto diretto con il pubblico, il cinema ha il fascino che puoi esprimere un sentimento attraverso lo sguardo. Ora comunque ho trovato un equilibrio che mi piace molto fra i tre».

Il film più bello? «Ladri di biciclette: racconta un’umanità che mi commuove sempre, una realtà che sento vicina, la guerra tra poveri, la dinamica padre figlio. Amo anche i film denuncia come Magdalene».

E «Pretty Woman» non le piace più? «Ma ogni volta che lo trasmettono io e mia cognata ci scriviamo e lo guardiamo! Mi diverte tutta la parte dei vestiti. Mi piace meno il finale, l’idea che ti debba salvare il principe azzurro. Vale pure al contrario: non amo le relazioni in cui uno salva un altro, preferisco lo scambio».

Sul set è stata Anita Garibaldi, Lucia Bosè, Francesca Morvillo e tanti altri personaggi. Quale le ha risuonato di più dentro? «Quello di Angela in Viola di mare. L’ho sentito mio intanto perché sono stata coinvolta fin dalle prime stesure della sceneggiatura. Poi perché era la prima volta che mi confrontavo con una tematica di quel tipo. È il film d’amore per eccellenza che ho fatto: che poi fossero due donne è secondario, erano due persone».

Ha affrontato il tema dell’identità di genere anche in «Gerico Innocenza Rosa», il monologo scritto per lei da Luana Rondinelli, che tornerà all’Ambra Jovinelli il 26 ottobre. «La cosa più bella è che si crea un’empatia fortissima con il personaggio. Non solo chi ha compiuto la transizione, ma anche persone con convinzioni e preconcetti molto strutturati sono venuti a salutarmi con le lacrime agli occhi».

E lei ha mai avuto dubbi sulla sua identità? «No. Mai provato attrazione per una donna».

Ha più ammiratrici o ammiratori? «Più donne. Mi capita di ricevere fiori, regali, e la maggior parte arriva da donne, mentre l’uomo si imbarazza».

A proposito di imbarazzo, è riuscita a conoscere Sophia Loren? Avrebbe voluto invitarla a vedere «Una giornata particolare», che ha interpretato a teatro con Giulio Scarpati. «Ci abbiamo provato. Mi dispiace che nemmeno Ettore Scola sia riuscito a vederlo. Era amico di Giulio, sapeva che lo stavamo portando in scena. Quando lo conobbi disse che ero giustissima per il ruolo e mi propose di usare lo stesso abito indossato dalla Loren nel film. Ma era rischioso portarlo in tournée per tre anni, lo avremmo rovinato. Però mi lusingò molto».

Di Robert De Niro, che ha conosciuto in «Manuale d’amore 3» del suo compagno Giovanni Veronesi, che ricordo ha? «Eravamo in Toscana per le riprese e avevamo il pomeriggio libero. Propose di andare a visitare un borgo. Non osavo chiedergli una foto per non dargli fastidio. E lui a un certo punto, mentre eravamo in un giardino, mi chiese se volevo farne una. Poi me la mandò. Mi aveva colpito».

Il mito? «Bruce Springsteen. Ci siamo conosciuti nel 2010, alla Festa del Cinema di Roma. Da madrina, ebbi il privilegio di essere invitata a una cena dove c’era anche lui. Non ebbi il coraggio di chiedere foto o autografi, ma parlammo per dieci minuti e a un certo punto disse: “Perché noi artisti...”. E in quel “noi” comprendeva anche me. Quella notte, tornata a casa, faticai ad addormentarmi dall’emozione. Io da piccola ho imparato l’inglese studiando le sue canzoni».

La sua preferita? «Bobby Jean».

E invece ha conosciuto i suoi adorati tennisti? «Sì. Il mio mito è Nadal. Un mio amico mi ha fatto avere il cappellino con autografo e dedica. E per il compleanno la maglietta autografata».

Indossa i completini bianchi con il gonnellino? «Solo quando sono allenata. Se riprendo dopo un po’ che ero ferma indosso cose più punitive. Il completino deve valorizzare il tuo stile».

È vero che ha bigiato il set per guardare una semifinale? «No, per tutta la settimana degli Internazionali di Roma! Stavo lavorando a un film e a una serie tv e ho chiesto alla mia agente di dire a una produzione che ero impegnata con l’altra e viceversa».

Ha completato il Grande Slam da spettatrice? «Manca sempre l’Australia. Però sono andata in pellegrinaggio allo Stadio di Melbourne».

Valeria Solarino con il compagno Giovanni Veronesi

Chi è più bravo a tennis, lei o Giovanni? «Lui perché gioca fin da piccolo. Ma se avessi cominciato prima, sarei molto più brava io».

La leggenda narra che la sua passione è nata dalla lettura di «Open». Possibile? «Sì. Dei match che citava non ne avevo visto nemmeno uno. Poi ho conosciuto l’autore, J. R. Moehringer. Gli ho parlato della biografia con così tanta passione che mi ha lasciato la mail e mi ha chiesto di leggere gli altri suoi libri».

Lo sport fa parte della sua vita, giocava a basket. Ma ritorna anche nel lavoro: martedì a Roma presenta «The Cage - Nella gabbia», il film di Massimiliano Zanin in cui interpreta una istruttrice di Mma. «È stato un ruolo complicato. Dovevo suggerire alle ragazze che allenavo le mosse da fare e nominare le tecniche: mi sembrava arabo. Del film mi ha colpito il tema delle gabbie, non solo fisiche, quando viviamo una vita non nostra».

Il ruolo più difficile? «Forse quello di Lucia Bosè, perché dovevo recitare in spagnolo. Quando reciti ti devi lasciar andare, mentre io avevo il pensiero di non dimenticare le battute».

Le dispiace non essere diventata madre? «No, non è mai stato un mio desiderio. Adesso semmai posso pensare di occuparmi di qualcuno. Mi hanno parlato di una forma di tutoraggio per assistere tanti minorenni che arrivano in Italia lasciando i genitori in patria e che hanno bisogno di sostegno per le cose burocratiche, come chiedere i documenti, o per i colloqui a scuola. Loro continuano a stare in istituto».

Il tema della migrazione le sta molto a cuore. «Le persone si spostano per da sempre per cercare una vita migliore. I miei nonni paterni emigrarono in Venezuela, dove sono nata; quelli materni a Torino, dove sono cresciuta».

È appena stata a Lampedusa per i dieci anni dalla tragedia del mare nella quale morirono 368 migranti. «Tramite Amnesty International ho conosciuto tante persone che si occupano di migrazione. Alle 3.15 del 3 ottobre ci siamo ritrovati intorno al Memoriale fatto costruire da Vito, il pescatore che ha salvato 47 persone, e lì hanno cominciato leggere i nomi di tutte le vittime, per la prima volta persone e non numeri».

So che ha un cane. «Paco, un golden retriever tutto bianco».

Vuole più bene a lei o al suo compagno? «Credo che voglia più bene a me. Ha capito che sono il punto di riferimento per tutto quello che è vitale: cibo, cura, medicine e affetto».

Condivide lo sfogo di Pierfrancesco Favino a Venezia sui ruoli che dovrebbero essere affidati agli italiani? «Sono profondamente d’accordo con lui».

Seguendone la logica, nemmeno Monica Bellucci avrebbe dovuto interpretare Maria Callas. «Ma io non vedo l’ora di vedere la Callas di Bellucci! Il discorso di Picchio è che quando un set americano arriva in Italia a girare, non può affidare agli italiani i ruoli marginali. Capisco che il mercato voglia una star, ma bisogna trovare un compromesso».

Chi sono i suoi amici, tra gli attori? «Tutti quelli con i quali ho lavorato, perché durante le riprese si crea una famiglia, a teatro ancora di più. Però dopo è difficile mantenere quel rapporto. Gli amici che frequento, invece, non fanno questo lavoro».

Il ruolo che avrebbe voluto interpretare? «Prima dicevo Nikita: mi piaceva questo film d’azione, ma anche psicologico. Diciamo che per Luc Besson farei qualsiasi cosa. Un altro ruolo meraviglioso è quello di Charlize Theron in Monster: è una sfida potersi trasfigurare così».

Pensa ancora che agli uomini vengano assegnati i ruoli più belli? «In parte. Oggi le cose sono cambiate, anche grazie alla presenza di tante registe donne».

Chiudiamo con leggerezza. Grazie al suo lavoro indossa abiti meravigliosi. Il più bello? «Uno dei più belli, un Cavalli per l’apertura del Festival di Venezia l’anno in cui ero in giuria».

E lo ha tenuto? «Restituito subito, come Cenerentola».

Estratto dell'articolo di ilmessaggero.it venerdì 8 settembre 2023.

Valerio Scanu ha detto sì al suo compagno, Luigi Calcara, ieri giovedì 7 settembre 2023. Il cantante ex di Amici è convolato a nozze in Campidoglio con il suo compagno, Luigi Calcara, 32enne originario di Castelvetrano, in Sicilia, docente di Ingegneria Elettronica all’Università La Sapienza di Roma.  A ufficiare il matrimonio è stata Silvia Berri, delegata del sindaco della Capitale. […] Ad accompagnare entrambi gli uomini sono state le rispettive madri, che hanno camminato con loro fino all’interno del Campidoglio.

[…]  La data scelta per il fatidico sì non è un giorno a caso: si tratta, infatti, del compleanno del padre dello sposo, scomparso nel 2020 dopo aver contratto il Covid. 

Il rito è stato celebrato a Roma, nella Sala Rossa del Campidoglio. I testimoni sono stati i fratelli di entrambi: Fabio, per Luigi, e Alessandro, per Valerio, con le migliori amiche (Valentina, per Scanu, e Raffaella, per Calcara).

A far discutere sono stati soprattutto gli abiti scelti dagli sposi. Mentre Luigi ha optato per un completo blu con panciotto e camicia bianca, molto elegante e raffinato. Valerio ha osato molto di più. Il cantante è giunto in Campidoglio con un look completamente bianco composto da pantaloni, camicia, panciotto e frac. A completare il tutto un sontuoso strascico anch'esso bianco, che ha però tolto una volta arrivati in location. 

[…] La location scelta per il loro matrimonio è stata La Collinetta Eventi un casale tra i Castelli Romani circondato da ulivi e vigneti secolari a soli venti minuti dal centro di Roma. Sui tavoli degli altissimi centrotavola fatti di rose bianche che terminavano con ancora più alti candelabri di cristallo. Gli ospiti per raggiungere i tavoli che erano posizionati nel giardino della location dovevano attraversare un tunnel di lucine. 

Menù e regali erano a tema Costiera, con ceramiche di Vietri sui tavoli e limoni a chiudere le confezioni del cadeau che gli sposi hanno lasciato agli ospiti. Il colore della festa è stato sicuramente il bianco ma con qualche nota di blu. All'uscita dal campidoglio, tra le rose bianche e il riso che tenevano gli ospiti sono stati fatti volare in aria dei palloncini blu, e anche i nastri e i dettagli dei fiori richiamavano i colori del mare. 

Durante il taglio della torta (a più piani) c'è stato alle spalle degli sposi uno spettacolo pirotecnico che faceva da cornice. 

Un parterre di ospiti che ha condiviso le immagini del Sì lo Voglio. Tra questi Paola Saulino che è stata la prima a condividere le commoventi immagini, ma anche Valeria Marini e Laura Freddi erano presenti.

Diverse le Drag Queen, amiche della coppia, che hanno omaggiato gli sposi con degli spettacoli e tra loro anche una strepitosa Orietta Berti. 

Valerio Staffelli compie 60 anni: gli inizi in radio, attore di sit-com con Diego Abatantuono, 7 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera sabato 14 ottobre 2023.

Lo storico inviato di Striscia la Notizia è nato a Milano il 15 ottobre 1963 ed è cresciuto a Sesto San Giovanni

Gli inizi in radio

Compie 60 anni lo storico inviato di Striscia la Notizia Valerio Staffelli. È nato il 15 ottobre 1963 a Milano, ma è cresciuto a «Sesto San Giovanni, città variegata e pericolosa negli anni 70 - raccontava qualche mese fa al Corriere -. Fortunatamente il mio amore per lo sport mi ha sempre tenuto lontano dai guai». Il padre era un commerciante di tessuti, sua madre commerciante di abbigliamento: «Avevano due negozi nella “Stalingrado d’Italia”. Hanno sempre incentivato la mia passione per il mondo dello spettacolo ed è stata proprio mia madre a dare il via alla mia carriera, quando a 14 anni mi presentò al proprietario di una radio privata. È iniziato tutto da lì».

La sit-com con Diego Abatantuono

Dopo aver lavorato alcuni anni per le emittenti radiofoniche Radio Capo Nord Milano, Radio Omega, Teleradio International e Radio Capital nel 1984 Valerio Staffelli ha esordito in tv, nel varietà di Rete 4 Sponsor City. Successivamente ha partecipato alla sit-com Diego 100% (Euro TV) con Diego Abatantuono. I due ancora oggi sono grandi amici: «Diego è mio fratello maggiore, ho passato i primi anni di questo lavoro con lui, prodigo di consigli, è una bella persona dalla testa ai piedi. Ama mangiare e bere bene come me e filosofeggia ironicamente sulle stranezze di chi ci circonda, una serata con lui è sempre top».

Diretto da Gabriele Salvatores

Tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta Valerio Staffelli ha recitato in alcuni film: è stato diretto da Gabriele Salvatores in «Kamikazen - Ultima notte a Milano» (1988) e «Nirvana» (1997). Ha lavorato anche in «I cammelli» di Giuseppe Bertolucci (1988) e in «Ragazzi della notte» di Jerry Calà (1995).

I programmi in tv

Valerio Staffelli ha partecipato, come complice di scherzi a vip e candid camera, a tre edizioni di Scherzi a parte (1992, 1993-1994) e al varietà di Canale 5 condotto da Massimo Lopez e Luca Barbareschi I guastafeste (1996). Nel 2002, insieme a Pupo, Staffelli ha condotto lo show di Italia 1 I gemelli.

Inviato di Striscia la notizia

«In quel periodo c’era un inviato che faceva il pazzerello e se ne era andato, allora dopo due chiacchiere Antonio mi disse: “Ok, proviamo”. Mentre lo salutavo sperando in una chiamata a breve lui aggiunse: “Cosa hai capito? Parti subito per Roma, poi ti dirò cosa faremo”. La mattina del giorno seguente ero sotto casa dell’allora presidente della Rai Enzo Siciliano che quando mi vide non disse una parola, non considerò le mie domande e partì come un fulmine verso viale Mazzini. Unico dettaglio, alquanto doloroso, aveva chiuso la mia mano nella portiera della macchina blindata. Io ululai come un coyote, sino a quando non si fermò e mi restituì l’arto. Questo fu il mio battesimo durante l’edizione di Striscia 1996/97». Dal 1996 Valerio Staffelli è inviato per Striscia la notizia. È conosciuto soprattutto per il suo ruolo di portatore del Tapiro d'Oro, premio del programma satirico. Nella maggior parte dei casi gli “attapirati” accettano il riconoscimento di buon grado, ma in alcuni casi le consegne sono state parecchio movimentate. Come quella nel 2003 a Fabrizio Del Noce, allora direttore di Rai 1, che ruppe all’inviato il setto nasale colpendolo con il microfono. «Dopo 13 anni di processo era ancora convinto di vincere, me lo aveva anche detto una volta quando lo incontrai casualmente in giro per Roma - ha raccontato Staffelli qualche mese fa al Corriere -. Invece ha fatto una figura barbina, perché ha perso la causa».

L’inchiesta sulle borseggiatrici

Quest’anno, sempre per il programma di Antonio Ricci, Valerio Staffelli si è a lungo occupato dell’inchiesta sulle borseggiatrici della metropolitana di Milano. «Finalmente se ne parla - diceva qualche mese fa al Corriere Milano -, in tv, su social e giornali. Perché se in questa società non fai rumore nessuno ti sente, e allora le vittime restano abbandonate a se stesse. Striscia si occupa del “fenomeno borseggiatrici” da 10 anni: continuiamo a ricevere migliaia di segnalazioni da parte di cittadini esasperati: pensionati, studenti, persone extracomunitarie, lavoratori, turisti. Il Tapiro? Va a tutti noi che subiamo un sistema giudiziario che sta alleggerendo il peso delle condanne, mentre chi delinque s’ingegna a praticare nuovi schemi, nuove truffe. E senza querela, ora che è in vigore la legge Cartabia, il reato per furto non è perseguibile d’ufficio. E accade spesso che una borseggiatrice arrestata venga rilasciata dopo tre ore. Una grande frustrazione, un senso di impotenza».

L’amore con Matilde Zarcone

L’amore tra Valerio Staffelli e l’ex showgirl di Buona Domenica Matilde Zarcone va avanti da oltre 30 anni. «Ma che auguri e congratulazioni! - ha detto Staffelli in un’intervista del 2019 a Chi per i 25 anni di matrimonio -. Se trovi la persona giusta alla fine non ti rendi nemmeno conto del tempo che passa: a me non sembra proprio di frequentare sentimentalmente mia moglie da 25 anni come marito più tre anni precedenti di convivenza: 28 anni in totale. A me sembrano passati solo due o tre anni. Visto il fascino che Matilde esercita su di me non mi sono mai accorto del tempo trascorso. Tra noi c'è passione e complicità. Non la amo come il primo giorno ma molto di più». Ecco come è nata la storia d’amore: «Un mio amico calciatore si era invaghito di lei e poiché Matilde abitava sul mio percorso per arrivare in centro a Milano, lui mi chiedeva “Passi a prenderla per favore?”. Lei era serissima, bellissima, ma serissima, molto chiusa, quasi brusca. E io dicevo: “Perché devo andare a prenderla? Non ride mai”. Invece, piano piano lei si è aperta con me e ci siamo innamorati. Così il mio amico è rimasto a bocca asciutta e io ho trovato la donna della mia vita. Abbiamo fatto due figli straordinari: Riccardo e Rebecca». Rebecca oggi è speaker di Radio 105 ed è opinionista social nell’attuale edizione del Grande Fratello.

Valerio Staffelli: «Il Tapiro d’oro più doloroso, quello più difficile, i due rosiconi e le accuse di sessismo per il servizio su Ambra». Renato Franco su il Corriere della Sera il 20 Febbraio 2023.

L’inviato di «Striscia la notizia»: «Il più doloroso quello a Fabrizio Del Noce, allora direttore di Rai1, la frattura del setto nasale fa davvero male. Che brividi giocare a San Siro con Baresi»

Ventisette edizioni da Tapiroforo. La vita-delivery di Valerio Staffelli, milanese, classe 1963, incomincia nel 1997. Lui è il Glovo di Antonio Ricci, l’addetto alla consegna del mammifero sudamericano costruito in resina pitturato di giallo: il Tapiro d’oro. Che, come ha spiegato l’inventore di Striscia la notizia, «è la trasposizione dell’idolatrato Vitello d’oro». Nasce dunque come idolo che, causa crisi delle vocazioni, oggi è venerato in uno dei tanti santuari laici che abbiamo eletto a nostra guida: la televisione.

Il primo tapiro non si scorda mai. A chi l’ha consegnato?

«Vuol ridere? Non me lo ricordo più, forse a Baudo, forse a qualcun altro. Dopo oltre 2000 servizi è facile dimenticarlo...».

Per la cronaca fu a Giancarlo Magalli dopo che i vertici Rai gli negarono la conduzione di «Domenica in». Come arrivò a «Striscia»?

«A remi! La Portaerei della flotta Mediaset era in rada ed io mi sono avvicinato come un guastatore della Marina, sono salito a bordo e mi sono proposto all’Ammiraglio in persona, Antonio Ricci».

Bell’immagine. Più prosaicamente?

«In quel periodo c’era un inviato che faceva il pazzerello e se ne era andato, allora dopo due chiacchiere Antonio mi disse: “Ok, proviamo”. Mentre lo salutavo sperando in una chiamata a breve lui aggiunse: “Cosa hai capito? Parti subito per Roma, poi ti dirò cosa faremo”. La mattina del giorno seguente ero sotto casa dell’allora presidente della Rai Enzo Siciliano che quando mi vide non disse una parola, non considerò le mie domande e partì come un fulmine verso viale Mazzini. Unico dettaglio, alquanto doloroso, aveva chiuso la mia mano nella portiera della macchina blindata. Io ululai come un coyote, sino a quando non si fermò e mi restituì l’arto. Questo fu il mio battesimo durante l’edizione di Striscia 1996/97».

Il Tapiro più difficile?

«A Balotelli in Gran Bretagna. Già la guida a sinistra aveva capovolto le cose, poi lui andava alla velocità della luce con una macchina tutta mimetica, ogni volta che usciva dall’allenamento facevo delle corse pazze per raggiungerlo. Poi però riuscimmo a “premiarlo” in un ristorante cinese di Manchester. Ovviamente con rissa finale, ma non tanto con Mario e i suoi amici, quanto con i cinesi del locale che non avevano capito cosa stesse succedendo».

Il Tapiro più amaro?

«Il più “doloroso” forse, quello a Fabrizio Del Noce, allora direttore di Rai1, la frattura del setto nasale fa davvero male. Un altro è il Tapiro a Scalfaro, scoprimmo che voleva approfittare della sua posizione di politico di rilievo per far avere l’auto blu anche alla figlia. Fece scatenare una rissa spaventosa per evitare il Tapiro, facendo malmenare anche una ragazza della troupe».

Anche Mike Bongiorno non la prese bene...

«Nemmeno Ricci quando seppe che Mike si era arrabbiato e non aveva capito l’ironia della consegna, ma poi quando vide il filmato Antonio mi chiamò ridendo: “Molto divertente”».

Sgarbi si insgarbì...

«Vittorio era una furia, me lo ruppe in testa provocandomi un trauma cranico. Poi un mese dopo lo rividi a Radio24, mi abbracciò e mi disse che era per far spettacolo».

Bel modo di fare spettacolo... Forse era lo stesso slancio che animava Del Noce quando le ruppe il naso con il microfono. Vi siete rivisti?

«Dopo 13 anni di processo era ancora convinto di vincere, me lo aveva anche detto una volta quando lo incontrai casualmente in giro per Roma. Invece ha fatto una figura barbina, perché ha perso la causa».

Anche l’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio fu poco diplomatico...

«Disse alla scorta: “Dategli un po’ di botte così si leva di torno”. Rimanemmo tutti senza parole, sia io sia i suoi uomini, lui non pago replicò l’ordine. Fortunatamente ci fu solo qualche strattonamento».

Tra i calciatori chi il più sportivo e chi il più rosicone nel riceverlo?

«Il più sportivo è stato Ibra, molto ironico. Il più simpatico senza dubbio Antonio Cassano. Il più rosicone Maldini sia da calciatore sia da ex».

E tra i cantanti?

«Gianni Morandi, sempre ironico e gentile; il più rosicone Grignani».

Il più gongolante?

«Di solito il politico, spera di usare il pulpito di Striscia per fare campagna elettorale, ma poi le cose non vanno proprio così».

Belén è più attapirata perché la sua bellezza ed esposizione mediatica aiutano gli ascolti?

«No, è pluridecorata perché ne combina di tutti i colori tra matrimoni, separazioni e gaffes».

Cosa risponde a chi l’aveva accusata di sessismo per il tapiro ad Ambra?

«Vuol dire che non ha visto il servizio. Io ho chiesto ad Ambra cosa fosse successo, non l’ho presa in giro, anzi... Quello che è accaduto dopo la consegna non mi è piaciuto, lei — che aveva scherzato durante il servizio — avrebbe dovuto spiegare e calmare le acque, invece ha lasciato montare la situazione».

Confessi: mai esagerato, mai ecceduto in «molestie» per strada?

«Molestie? Facciamo satira, insinuiamo il dubbio, non arriviamo con la verità in tasca, scherziamo su quello che la gente combina nella vita, tutto qui».

Qualcuno si propone per ricevere il Tapiro?

«La verità è che lo vorrebbero tutti. Una volta Prodi dopo la consegna mi chiese se poteva averne un altro: “Uno per la casa di Bologna e uno per quella di Roma”».

Lei quando si attapira?

«Quando non riesco a fare la consegna».

Chi la mette in difficoltà?

«Mia moglie quando non faccio ciò che vuole. È sempre una bella battaglia, ma stiamo insieme da più di 30 anni».

Mai pensato di cambiare mestiere?

«Difficile trovare qualcosa di così adrenalinico come Striscia, adesso poi che possiamo anche documentare furti e borseggi uniamo l’utile al dilettevole. Quando poi Antonio mi pensionerà, allora mi porrò il problema».

La pagano per ogni Tapiro che consegna o ha un fisso?

«Mi pagano in tapiri oramai da un decennio...».

E invece lei quando avrebbe meritato di ricevere un Tapiro?

«Bella domanda, chieda ai miei figli».

Che adolescente è stato?

«Sono nato a Milano e cresciuto a Sesto San Giovanni, città variegata e pericolosa negli anni 70. Fortunatamente il mio amore per lo sport mi ha sempre tenuto lontano dai guai».

La scuola? Pigro o secchione?

«La frase classica era: Valerio è un ragazzo sveglio ma si applica poco e vuol far ridere i compagni, ma qui non siamo al cabaret».

I suoi genitori cose le hanno insegnato?

«Mio padre era un commerciante di tessuti e mia madre di abbigliamento, avevano due negozi nella “Stalingrado d’Italia”. Hanno sempre incentivato la mia passione per il mondo dello spettacolo ed è stata proprio mia madre a dare il via alla mia carriera, quando a 14 anni mi presentò al proprietario di una radio privata. È iniziato tutto da lì».

Arrivò a «Striscia» nel 1997, a 34 anni: prima cosa faceva?

«Durante la gavetta ero disponibile a tutto: radio private, cinema, televisione. In tv ho lavorato con personaggi come Abatantuono e Smaila con cui poi è nata una bella amicizia».

Com’è Abatantuono?

«Diego è mio fratello maggiore, ho passato i primi anni di questo lavoro con lui, prodigo di consigli, è una bella persona dalla testa ai piedi. Ama mangiare e bere bene come me e filosofeggia ironicamente sulle stranezze di chi ci circonda, una serata con lui è sempre top».

E Antonio Ricci?

«È un mattacchione, uno che ancora si diverte a fare questo mestiere, oltre che un formidabile autore. In 27 stagioni con lui non mi sono mai annoiato».

Con Fiorello fate le vacanze insieme, siete amici, com’è nel privato?

«Rosario è un fuoriclasse, dovremmo vederlo su Rai1 il più possibile, è patrimonio dell’Unesco, va protetto! Nel privato è uno che si sveglia presto come me, in vacanza quando le nostre famiglie dormivano, noi facevamo sport e poi andavamo a fare la spesa al supermercato, come due casalinghe».

Da dove le viene la faccia tosta?

«Dalle mie origini partenopee, sono mezzosangue napoletano, da parte di padre; quella è la ricetta».

Il lusso che si concede?

«Ogni tanto vado a mangiare nei ristoranti stellati con mia moglie».

La cosa più trasgressiva che ha fatto?

«Accettare di vestirmi da donna barbuta per la pubblicità dei 30 anni di Striscia. Antonio pensava che mi imbarazzasse ed invece l’ho sorpreso».

C’è un giorno della sua vita che vorrebbe rivivere?

«Quando ho giocato a San Siro al centenario del Milan, alla destra del mio mito calcistico Franco Baresi, 65.000 persone intorno e in campo solo giocatori che avevano vestito i colori rossoneri. Un altro giorno indimenticabile è stato quando ho girato in moto su pista da solo con Valentino Rossi».

L’incubo?

«Arrivare vicino a un attapirato e non avere il Tapiro nella borsa. Accadde veramente, me la cavai con un consiglio di Ricci che mi disse: “Disegnalo su un foglio, vedrai che andrà bene lo stesso”. E così fu».

Vanessa Gravina: «A scuola mi bullizzavano per la copertina su Vogue. Jerry Calà? Non sapeva il copione». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2023.

L’attrice e regista teatrale, 49 anni: «Ero carina e pure famosa, diventare una piccola star mi ha rovinato l’infanzia»

«Quando la mia immagine comparve sulla copertina di Vogue, i miei compagni di scuola me la fecero trovare sul banco tutta storpiata con vari segnacci: mi disegnarono i baffi, le occhiaie, i brufoli... Avrò avuto 7 o 8 anni e rimasi molto male. Ero un’ingenua e fino a quel momento non sapevo cosa fosse l’invidia. Non è vero che i ragazzini non sono invidiosi, possono essere feroci».

Addirittura feroci?

«Certo! E aggiungo che sono stata spesso bullizzata. Il bullismo non avviene solo nei confronti di persone con problemi fisici, ma anche nei riguardi di chi ha successo... e io ero carina e pure famosa...».

Vanessa Gravina, attrice di cinema, teatro e televisione, non usa mezzi termini. Un’avventura professionale la sua iniziata praticamente appena nata: la sua prima apparizione avviene in una pubblicità di passeggini su Carosello.

«Sì! — ride — avevo solo 6 mesi! E lo spot pubblicitario era firmato dal regista Paolo Taviani!».

Com’è stato possibile?

«Per spiegarlo devo fare una premessa. Sono nata all’ospedale Fatebenefratelli di Milano. Mia madre mi ha raccontato che, quando mi trovavo ancora in culla, la numero 20, insieme a tanti altri neonati, si formava un capannello di gente davanti alla nursery...».

Perché, era già famosa?

«Ovviamente no, ma le persone erano attirate dal fatto che, al contrario degli altri bambini un po’ pelatini, io avevo una massa in testa di capelli corvini e un paio d’occhi verde smeraldo: ero diventata l’attrazione dell’ospedale. Poi mia zia, che aveva un’agenzia pubblicitaria, chiese ai miei genitori se poteva mandare in giro le mie foto e da lì ho cominciato a lavorare come una pazza. Ho fatto campagne pubblicitarie in tv e su tante riviste, compresa Vogue. Per farmi contenta, mi regalavano tanti giocattoli, comprese le adorate Barbie».

Una privilegiata o una stacanovista?

«Un po’ l’una e un po’ l’altra cosa. Certamente fortunata, se penso che il mio debutto sul grande schermo a 11 anni avviene nel film Colpo di fulmine diretto da un regista importante come Marco Risi, dove recitavo a fianco di un attore famoso, Jerry Calà il quale, fra l’altro, non avendo studiato bene il copione, a volte si dimenticava le battute e io, un po’ maestrina, gliele suggerivo! A 12 anni recito nel ruolo della figlia di Gianni Morandi, nella miniserie La voglia di vincere diretta da Vittorio Sindoni... A 13 anni vengo scritturata nella Piovra 4 a fianco di Michele Placido, diretta da Luigi Perelli... e poi, e poi...».

Tanti esordi importanti, per arrivare all’attuale successo sul palcoscenico in «Testimone d’accusa» e sul piccolo schermo nel «Paradiso delle signore». Ma ha avuto il tempo di vivere l’infanzia, l’adolescenza...?

«Un’infanzia un po’ perduta, ed essendo diventata adulta subito non l’ho recuperata. Sì, sono periodi della mia vita che mi sono mancati per il senso di responsabilità che ho sempre nutrito nei confronti del lavoro e poi perché mi piaceva quello che facevo, e mi piace tuttora. Essere una piccola star era complicato: venivo vista come “quella diversa”, che non aveva tempo di giocare, che partiva per i set, e il rapporto con i coetanei è stato molto tosto. Vivevo costantemente in mezzo agli adulti, gente figa, certo, che mi apriva la testa, ma poi tornare nella pipinara dei compagni era dura...».

E veniva bullizzata... Ma non lei non reagiva mai?

«Di solito incassavo, ma non sempre. Ricordo una volta che una ragazzina, evidentemente invidiosa, mentre eravamo nei giardini della scuola durante la ricreazione, prima mi fa le smorfie, poi mi allenta un calcio terribile e scappa. Mi accascio per il dolore, lì per lì non dico niente, ma la vendetta è un piatto che va servito freddo. Qualche giorno dopo, mi capita a tiro e, siccome aveva ricominciato a farmi le boccacce, le sono saltata in testa: un’aggressione talmente forte che mi sono ritrovata un ciuffo dei suoi capelli in mano. Le ho fatto quasi uno scalpo... e non si è più permessa di offendermi».

Nessuna amicizia, nessun affetto a scuola?

«Adoravo una compagna di banco, che mi aveva dato la sua amicizia e non mi sembrava vero essere al centro delle sue gentili attenzioni. Però non so cosa accadde: forse era uscita un’altra copertina con la mia foto oppure stava andando in onda in tv qualcosa dove ero coinvolta... e lei, prima non volle più condividere il banco, poi, nelle gite scolastiche prendeva per mano un’altra bambina. Mi sono sentita un’incompresa, una poveraccia, ne ho sofferto immensamente».

Un’infanzia difficile e con tanti impegni di lavoro... Riusciva a studiare?

«Certo che sì, molto brava in italiano e nelle versioni di latino: le passavo sempre ai compagni. In matematica, una vera schiappa...».

E i compagni la aiutavano?

«Macché... mettevano su certe pile di libri per non farmi allungare l’occhio e copiare il compito in classe...».

Un rapporto difficile con i compagni. Con gli insegnanti andava meglio?

«Ho subito delle discriminazioni anche da loro. Alcuni mi apprezzavano perché capivano il mio impegno nello studio, anche nelle materie che non erano le mie preferite. Altri non tolleravano il mio lavoro extra scolastico. Dicevano: oddio, questa ragazzina ha degli atteggiamenti troppo da adulta... e ho patito delle ingiustizie».

Quali?

«Ne racconto una che non riesco a dimenticare. Alle elementari adoravo la maestra e, durante le lezioni, alzavo sempre la mano quando sapevo rispondere a qualche sua domanda in classe. Proprio quella maestra, che per me era un mito, convocò i miei genitori: disse loro che ero una lecchina nei suoi confronti, che mi agitavo per dimostrare quanto ero brava, che volevo apparire la prima della classe, tutta “io, io, io”... Ci rimasi malissimo».

E non ha più alzato la mano?

«A un certo punto sono cresciuta ed è subentrata l’incoscienza, il menefreghismo».

Tutte queste cattiverie le ha poi concentrate nel personaggio della contessa Adelaide nel «Paradiso delle signore»?

«No! È un personaggio con varie sfaccettature e mi sono ispirata soprattutto a certe nobildonne dell’upper class milanese, che mi è capitato di conoscere e che ho immortalato nella memoria: l’aria di sussiego, l’alterigia, una certa presunzione, il sopracciglio alzato tipo Grimilde, la perfida matrigna di Biancaneve. Un mix condito da grande senso del grottesco e del comico, che mi appartiene per carattere. Impersono Adelaide da cinque anni, ormai la conosco bene».

Non si è stancata di interpretarla?

«No, proprio perché non ha un’unica facciata, cambia costantemente, non è noiosa. Oltretutto, nello sviluppo della trama, per la prima volta mi capita di essere corteggiata e amata da un uomo molto più giovane di me: cosa che non mi è mai capitata nella vita vera, dove mi sono sempre innamorata di uomini a volte molto più grandi di me».

Per caso, si è innamorata anche di Giorgio Strehler con cui ha esordito in teatro, a 17 anni, nello spettacolo da lui diretto, «La donna del mare»?

«In realtà, lui era davvero il più giovane di tutti noi, era un ragazzo, nonostante fosse il più grande d’età. La cosa strana era che mi dava pochissime indicazioni, tanto che pensai: forse gli faccio schifo come recito e preferisce essere accondiscendente. Fu severo solo una volta: io, che sapevo suonare il pianoforte, aprivo la scena proprio eseguendo un brano. Durante le prove, insisteva nel dirmi che, con la mia esibizione, dovevo enfatizzare gli animi degli altri personaggi. Provavo a fare ciò che mi chiedeva ma, non essendo soddisfatto, mi venne vicino e cominciò a incitarmi con una certa violenza. E allora, morta di paura, cominciai a suonare forte, pestando sulla tastiera: ero terrorizzata, lui finalmente ne rimase soddisfatto. Solo col passare degli anni ho capito che, per ottenere certi risultati, occorre essere, se necessario, anche violenti».

Per questo lei ha scelto la boxe come sport?

«Il pugilato non è semplicemente uno sport, è una disciplina con cui l’energia fisica si trasferisce nella mente e, direi, persino nell’anima. È una passione che ti dà il totale controllo di te stesso. E pensare che, la prima volta che mi proposero di praticare la boxe, mi tirai indietro: mi sembrava un’attività troppo fisica, uno sderenamento disumano. Inoltre non amo molto le palestre, dove la gente si pompa i muscoli con i pesi. Con il tempo ho capito che il pugilato poteva aiutarmi a calibrare le mie risorse e, praticandola ormai da anni, mi sono accorta di avere una forza che proviene da una rabbia interiore».

Quale rabbia?

«Durante il mio percorso esistenziale, privato e professionale, ho dovuto tenere a bada molti drammi, storie d’amore private poco fortunate e torti subiti, ma ho incamerato, sono un’incassatrice e sono andata avanti: non mi sento di attribuire colpe a nessuno, sono artefice di tutti i miei sbagli, non credo nella fortuna e nella sfortuna. La boxe è uno sfogo contro le insoddisfazioni e anche i miei difetti, mi insegna a difendermi, attaccando l’avversario calibrando i colpi. Un ottimo meccanismo di confronto».

E come religione ha scelto il buddismo.

«L’ho scelto in un momento particolarmente difficile della mia vita e ho trovato un rifugio: il mantra buddista è una sorta di formula magica, spazza via certe paure, le insicurezze, il terrore dell’abbandono... ti insegna il distacco dalle cose. La vita umana è caduca».

Non avere figli è stata una sua scelta?

«Se metti al mondo un figlio, diventi genitore, quindi una persona responsabile. Ma io, essendo cresciuta molto in fretta, ero già responsabile... di fatto, una genitrice».

Vanessa Gravina: «Niente paragoni, per favore...». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 4 Gennaio 2023.

L’attrice è protagonista dello spettacolo «Testimone d’accusa» dalla commedia di Agatha Christie, nel ruolo che nel celebre film fu interpretato da Marlene Dietrich

«Marlene Dietrich ed io? L’unica cosa che abbiamo in comune è che siamo entrambe nate sotto il segno del Capricorno: autodisciplinate, latentemente folli e molto ambiziose», ride Vanessa Gravina che il 17 gennaio debutta al Teatro Quirino con il primo, in assoluto, allestimento italiano di «Testimone d’accusa», dall’omonima commedia di Agatha Christie, maestra del brivido, con la regia di Geppy Gleijeses e la traduzione di Edoardo Erba. «Ho il non facile compito di ricoprire il ruolo che, nel celebre film del 1957, un cult-movie firmato da Billy Wilder, interpretava proprio la grande attrice tedesca — continua Gravina —. Ovviamente non mi azzardo a cercare dei paragoni con lei, un mito della cinematografia internazionale, sarebbe ridicolo».

Questione di modestia?

«È un fatto oggettivo. Soccomberei al confronto e se mi ci metto a pensare non ne esco... Ciò che mi colpisce in Marlene è il suo essere androgina, quasi mascolina, una femminilità che oserei dire casta, non ostentata, seria rigorosa».

Nello spettacolo, prodotto da Gitiesse, sono coprotagonisti Giulio Corso nel ruolo del marito Leonard Stephen Vole (nel film impersonato da Tyrone Power), e Giorgio Ferrara in quello dell’avvocato sir Wilfrid Robarts (Charles Laughton sul grande schermo). Si tratta di uno dei più importanti drammi giudiziari e la trama è nota. Vole è accusato dell’omicidio di una ricca, anziana vedova, che gli ha lasciato una cospicua eredità, e Robarts accetta di assumerne la difesa in tribunale. Ma se in un primo momento la moglie fornisce un alibi fondamentale al marito, per salvarlo dalla prigione, la situazione ben presto si capovolge per concludersi con un finale a sorpresa.

Un meccanismo infernale?

«Proprio così, che si districa in un crescendo emozionale, battuta dopo battuta. Lo spunto, come spesso accade nelle opere di Christie, parte dalla storia di una donna tradita dal marito più giovane».

Testo autobiografico, giusto?

«Già, l’autrice fu infatti tradita dal primo marito. E La nostra messinscena si basa sul testo teatrale originale della scrittrice, una pièce del 1953, già nata come un autentico mystery. E il mio personaggio ha mantenuto il nome di Romaine e non quello di Christine, poi assunto da Dietrich. L’ambientazione resta quella degli anni Cinquanta, la stessa dell’opera cinematografica che ho visto e rivisto più volte non solo adesso, ma negli anni».

Per confrontarsi?

«Direi il contrario: per distanziarmi, per non farmi condizionare. Sto lavorando in sottrazione e vorrei dare alla donna che interpreto un piglio algido: Romaine è un iceberg, un enigma in un complicato gioco di ribaltamento e di ambiguità che francamente mi ricorda certe opere pirandelliane a proposito dell’essere e dell’apparire».

Lei, Vanessa, oltre agli impegni in palcoscenico, è però dal settembre 2018, la contessa Adelaide di Sant’Erasmo nel «Paradiso delle signore», la serie in onda su Rai1.

«Adelaide è una donna fuori dal tempo. La differenza fondamentale tra lei e Romaine è che la contessa resta rigidamente legata, aderente alle regole della convivenza... mi ricorda un po’ il personaggio di Creonte. Mentre l’altra, la vedo come una sorta di Antigone: infrange le leggi, fino a sacrificare sé stessa».

Non si è stancata di interpretare Adelaide?

«Non nego che la ripetitività seriale comincio ad avvertirla - ammette l’attrice - tuttavia aggiungo che si tratta di un ruolo ben costruito, ben riuscito e poi... per fortuna il teatro mi distrae, proponendomi figure di donne molto diverse, come in questo caso. Quando sarà arrivato il momento di concludere, e sarà ora di finirla, chiuderò il capitolo senza problemi».

Estratto dell’articolo di Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” sabato 18 novembre 2023.

Nei cinque episodi che compongono il ritratto (stavo per scrivere il necrologio o l’eulogio, ma mi sono fermato in tempo) di Vasco Rossi non c’è nulla di spericolato. Il momento più eversivo è detto, non mostrato, ed è questo: «Sono sopravvissuto agli anni Settanta, sono sopravvissuto agli anni Ottanta, sono sopravvissuto agli anni Novanta, scegliendo di costruire una famiglia, e uscendo dallo stupido hotel. La scelta più trasgressiva che potesse fare una rockstar». Chissà i suoi molti fan come saranno impazziti a sentire una simile dichiarazione, accompagnata da note ben note. 

«Vasco Rossi - Il supervissuto» (Netflix), […] è una di quelle miniserie vistate dagli uffici stampa: mai un’incertezza, mai uno scarto, mai un’infrazione come se «l’epopea umana del più grande rocker italiano» fosse molto simile a quella di Gianni Morandi o di Albano Carrisi: l’infanzia a Zocca (quelli di montagna sono ritenuti zoticoni da quelli di pianura, come noi di Cuneo), i primi concorsi musicali, l’esperienza delle radio libere (PuntoRadio, con registrazioni inedite) e, infine, il «Komandante», cioè i concerti oceanici in stadi e parchi di tutta Italia.

Ma non era meglio intervistare Massimiliano Parente, che ha scritto il libro più intelligente su Vasco, al posto di Gaetano Curreri o di Floriano Fini? No, perché i fan non avrebbero gradito. Loro amano la rockstar all’italiana: la trasgressione che si fa normalità, sempre sospesa tra il maledettismo e il crepuscolare, con testi che sembrano usciti da un’agenzia pubblicitaria […]

Marinella Venegoni per laStampa - Estratti martedì 26 settembre 2023. 

(...)

Quando parla di sé come rockstar, il suo tono non è trionfalistico ma allegro e risolto. Vasco Rossi - Il supervissuto che Netflix manderà in onda da domani, è un fior di documentario di raro impatto proprio per la volontà del protagonista di raccontare la sua intera vita dal sofà di una stanza, come se ci fossimo pure noi. Ci sono sequenze brevi di stadi sempre più pieni, pezzi di canzoni, ma mai aggettivi superlativi. Che bella idea, non essere celebrativi. 

Qui siamo fuori dall’hype, da glamour e furbizie del filone biografico prevalente, spesso gonfiato e deludente, dedicato ai big della musica. Vasco si è tenuto accanto, anche qui, coloro che fanno parte della sua vita quotidiana. A partire dal regista Pepsy Romanoff.

Che dice Vasco

La serie è stata girata quando la pandemia stendeva il suo manto minaccioso sulle nostre vite. Si sono chiusi negli archivi, hanno tirato fuori i filmini e le pizze dell’infanzia, hanno girato per le case che Vasco ha frequentato, le finestre che ha aperto e si capiscono dal periodo gli squarci desertici di strade e piazze immutate dove Albachiara scendeva dal pullman. 

«Per una volta volevo raccontare la mia versione. Ho scelto lo schermo invece che il libro, che magari poi arriverà, chissà. Per una volta mi son messo in gioco, parlo in prima persona: dovevo e volevo fare questa esperienza. Mi ritengo un navigato influencer, ma dentro ogni episodio c’è stato un intenso lavorio interiore». 

Zocca e l’infanzia

«Ho passato un’infanzia felice a Zocca, con la mia mamma e la sua amica Ivana. Avevo cantato e vinto il concorso canoro L’usignolo d’oro». Nei filmati, c’è un bel bambino con gli occhi vispissimi. Vasco mostra il palco dell’esibizione: «Vinco e accedo alle finali di Modena, dove se venivi dalla montagna ti consideravano di serie B. Sono cresciuto al Bar Trieste finché non è morto mio padre. A 7 anni mi sono innamorato di Anna Maria, la figlia del proprietario del bar». Si lanciavano segnali, un giorno la vede fredda e le chiede: «È ancora così?». 

E lei: «No». Rivela che «Ho guardato dentro casa tua» in Senza parole, allude all’occhiata buttata dentro la porta aperta da lei che se ne andava.

Nei paesi, la vita è tutta nei bar. «All’Olimpic c’era il juke box. Con i Falchi facevo le canzoni, ero il fighetto del paese». Crescono, lui e gli amici. Quando vengono a sapere che a Milano c’è una radio Fm, vanno a vederla: «Abbiamo subito fondato Punto Radio». Floriano Fini, il suo manager-filosofo, amico d’infanzia: «La prima volta sento una voce cantare “I tuoi occhi sono fari abbaglianti e io ci sono davanti”. Era un bambino di 6-8 anni, era lui». Vasco ricorda poi il papà, camionista e spesso assente: «Mi aveva comprato la macchina prima della patente. Ma è morto poco dopo. L’ultima volta che l’ho visto mi ha montato le doppie finestre nella casa dove andavo a stare». 

La politica

C’è un preambolo illuminante: «Sono sopravvissuto agli Anni 70, alle Brigate Rosse e a Lotta Continua. Io ero un indiano metropolitano che cercava di migliorare se stesso e mi sembravano matti quelli che si chiamavano Potere Operaio. Sono sopravvissuto facendo del rock in italiano e pezzi generazionali. Nei Novanta ho messo su famiglia. Sono sopravvissuto a tre malattie mortali, nel 2015 sono andato in coma e mi hanno preso per un pelo. Però non sono un sopravvissuto ma un supervissuto». 

Il carcere

Il tg dà la notizia dell’arresto: «Sono in un locale, mi portano a casa e dicono: daccela subito altrimenti la troviamo. Erano 20/30 grammi di cocaina, la compravo ogni tanto. Sono stato in carcere 22 giorni ed erano come 22 mesi, 5 giorni di isolamento, l’astinenza. L’unico denunciato dal proprio spacciatore, c’era un mondo che mi voleva fermare e intanto usciva Va bene va bene così. L’ho vissuto con lo spirito dell’esploratore». 

La moglie e il figlio Luca

Laura Smidth parla del primo incontro, a 17 anni, con il futuro marito; era con tre amiche, invitate da Massimo Riva. Lei, dice Vasco: «per dispetto comincia ad insultarmi. E io me ne vado a letto». È così che, tempo dopo, lo sciupafemmine rock si innamora della bionda fanciulla dalle minigonne cortissime: «La prima volta a cena l’ho amata subito alla follia». Ed ecco il figlio Luca, 33 anni, un artista visuale: «Stimo la resilienza di mio padre, nei momenti difficili è andato avanti». 

La canzone-sigla

S’intitola Gli sbaglia che fai l’inedito che fa da sigla alla serie. Spiega Vasco, citando Battiato: «È una canzone sulla condizione umana, alla continua ricerca di un “centro di gravità permanente” che non può esistere e di un senso che non sempre c’è. Tutti gli artisti fanno questo, ti portano in un mondo altro».

Estratto dell'articolo di “la Repubblica” il 21 settembre 2023.

Credete di conoscere Vasco? Forse non è così. C'è una parte segreta del mondo di Vasco Rossi da Zocca, 71 anni, professione rockstar, che pochissimi conoscono. Siamo partiti da qui, dopo aver visto la docuserie di cinque puntate che Netflix gli ha dedicato, Il supervissuto, dal 27 settembre [...] 

Ci siamo chiesti: ma cosa fa Vasco quando scende dal palco? La risposta non è scontata come si potrebbe immaginare e vi invitiamo a leggerla il Venerdì in edicola domani. Ma qualcosa possiamo anticiparvi dicendovi che per scoprire il “Vasco privato” abbiamo provato ad entrare in casa sua. Cosa impossibile in realtà, perché nella casa in cui vive insieme a sua moglie, la mitica Laura Schmidt, non entrano neppure i suoi più fidati collaboratori. Ma siamo riusciti a divertirci e a scoprire tante cose. 

Per la copertina del Venerdì, insieme a Vasco e Laura abbiamo ricreato un set casalingo seguendo le loro indicazioni. Siamo riusciti a convincerli a posare insieme per gli scatti di Luigi Narici. Alla fine Vasco, se non proprio le porte di casa, ci ha aperto quella del cuore. Ci ha parlato del suo amore per Laura e del figlio Luca.

Ma anche degli altri figli, Davide e Lorenzo. Di cosa significa essere figlio di un padre che si chiama Vasco Rossi. Abbiamo parlato di rapporti di coppia, di sesso, droga e, pochissimo, di rock'n'roll. Di libri, buddhismo, del nuovo singolo intitolato, non a caso, Gli sbagli che fai, di guerra e di politica. E di una giornata qualsiasi da Vasco quando non è in tour, di vizi e virtù. […]

Estratto dell’articolo di Luca Valtorta per “il Venerdì – la Repubblica” sabato 23 settembre 2023.

Bologna. Avvertenza per i lettori e le lettrici. Quella che vedete nella foto sotto non è casa Rossi. A casa sua e di sua moglie Laura Schmidt, a Bologna, Vasco non ci ha neanche voluto far avvicinare. Lì il lavoro (e questa intervista è lavoro) non entra. […] 

Alla fine con Vasco ci incontriamo per l’intervista in un caldissimo pomeriggio della settimana scorsa nel suo studio, sempre a Bologna, un ufficio essenziale che non si concede lussi inutili. Come è lui. Insieme a noi c’è tutto il gruppone di Netflix che ha curato la docuserie in cinque episodi che sarà disponibile in streaming dal 27 settembre. Si intitola Il supervissuto, sottotitolo Voglio una vita come la mia, ed è probabilmente l’opera più completa mai realizzata per raccontare la vita di un personaggio unico, in cui ancora oggi si riconoscono diverse generazioni di italiani. Peraltro è anche l’opera in cui, per la prima volta, parlano la moglie di Vasco e il loro figlio Luca. […]

Partiamo dall’inizio. Come è nato il tuo rapporto con Laura?

«La Laura la conosco dall’estate dell’86 quando Massimino Riva una sera arriva a casa mia a Riccione portando con sé queste tre ragazze molto carine ma completamente fuori di testa, con delle minigonne della madonna. Una di queste quando mi vede mi riconosce: “Ah ma tu sei Vasco Rossi, il cantante”. L’altra pure mi guarda un po’ imbambolata. La terza, che per me era la più carina, comincia ad insultarmi: “Ma chi ti credi di essere? Cosa me ne frega a me se sei un cantante...”. […] Quell’angioletto biondo era la Laura. Ai tempi aveva 17 anni. Ma forse è meglio dire 18». 

E fu lì che nacque l’amore?

«Continuavo a pensarci. Sei mesi dopo dico a Massimo, che si era fidanzato con una delle tre, la Valeria: “Perché non inviti quella stronzetta amica sua?”». 

Ti ha insultato di nuovo?

«No. Lì è scoccato l’amore, amore totale. E un’attrazione pazzesca a livello sessuale: aveva delle gambe fantastiche. E un culo fantastico – ma oggi mi sa che non si può più dire: ogni volta che si voltava per prendere il vino io restavo lì, allibito. Abitava ancora a Milano». 

I suoi genitori, contenti?

«Felici! Una sera la porto a casa alle due di notte in taxi e vedo un signore che si avvicina. Pensavo volesse prendere il taxi e faccio per dirgli che serviva ancora a me, invece incazzatissimo mi fa: “Come ti permetti di portare a casa mia figlia a quest’ora? Non farti più vedere e non chiamarla mai più!”».

E tu?

«L’ho chiamata il giorno dopo. Diciamo che l’ho presa e l’ho portata via. Ti prendo e ti porto via, la canzone, è ispirata da lei, dalla Laura. Dopo poco è venuta a vivere con me qui a Bologna. Mi ricordo che doveva fare l’esame di maturità: aveva il tema. E io la sera prima l’ho portata a Parigi perché facevo un concerto per Sos Racisme». 

[…] Rapporto intenso?

«Intensissimo. Ci amavamo, litigavamo, ci menavamo. Ogni tanto facevamo a botte ma era lei che menava più forte. È così ancora oggi, quando la vedo mi mette subito allegria. Poi magari la vorrei strozzare. È come una gatta, di quelle che se ne stanno per conto loro, che se provi a fargli qualcosa, anche di carino, ti tirano fuori gli artigli. Nell’87 l’ho portata con me in tour. Mi ha fatto diventare matto, alla fine le ho dovuto dire che non la volevo lì con me. Ero lì per lavorare, mica in vacanza. Non volevo una Yoko Ono che influenzasse la mia avventura artistica».

E come si è risolto il problema?

«Che lei si è cercata la sua strada: si è iscritta a Scienze politiche, poi faceva la ragazza immagine alle fiere. Finché un giorno la chiamo: “Ma dove sei?”. E lei: “Sssh, devo parlare piano che sono qui in un appostamento”. Era andata da Tom Ponzi e si era messa a fare l’investigatrice privata! L’ho convinta a mollare e allora a quel punto ha deciso che voleva fare la ballerina. E lì ho avuto un’idea: le ho detto che il contratto glielo avrei fatto io, regolare, con stipendio. Poi a poco a poco le cose sono cambiate perché abbiamo deciso di fare un’altra scommessa».

Cioè?

«La cosa più spericolata e trasgressiva per due come noi: quella di mettere su famiglia. Lei voleva un figlio e a quel punto anch’io perché ero stanco di vivere in uno Stupido hotel, come dico in una canzone – le mie canzoni raccontano tutto, anche se magari poi uno ci può vedere dentro quello che vuole: da allora si può dire che tutte le canzoni che ho fatto sono state ispirate dalla Laura. Tranne una». 

Ah sì? Quale?

«Laura, quella che dice “Laura aspetta un figlio per Natale/ Laura aspetta un figlio per errore”».

[…]

Com’è che alla fine vi siete sposati, ormai più di dieci anni fa?

«Abbiamo fatto un patto di sangue, lo dico scherzando ma è una cosa seria. Quando ero ammalato, abbiamo deciso di sposarci per garantirci un futuro senza problemi burocratici. Non volevamo che il matrimonio fosse il contrario della libertà, dell’essersi scelti. Del resto io non l’ho mai tradita». 

Dici davvero?

«Mai. Con la testa mai: secondo me il tradimento è solo quello. Da quando l’ho conosciuta ho amato solo lei. Ci rispettiamo. Non ci controlliamo. Non vado a guardare nella sua borsa. Non vogliamo giocare a poker perché quando poi uno vuole andare a vedere, si sa, può anche perdere. Insieme abbiamo costruito un progetto e insieme lo difendiamo. Anche da noi stessi».

[…] 

Sei un “supervissuto”, come dice il titolo della serie. Ma in che senso?

«Ho avuto dei momenti di crisi tremendi. Non che io oggi voglia morire, però sinceramente ho già vissuto parecchio per i miei gusti e per quello che pensavo. Anche adesso ogni giorno che viene è un giorno in più rispetto a quello che immaginavo. Non pensavo di arrivare a 60 anni, adesso addirittura 70. Ormai potrei andare che son già molto contento (ride): dovesse succedere fate una bella festa, tutti, perché ho fatto una vita della madonna, ho vinto tutte le sfide, ho frequentato tutti i limiti che volevo frequentare. Mi piace frequentare i limiti delle cose».

Dici che la cosa più difficile è stato smettere con le anfetamine.

«Ho dormito per quasi sei mesi, ho passato tutto l’inverno a letto a Zocca, guardando la tv. Mi sono disintossicato, da solo, in casa, ma la dipendenza psicologica è durata anni. Però ci tengo a dire una cosa: io l’eroina non l’ho mai toccata. E infatti sono ancora qua a raccontarlo. […]Non solo non l’ho mai toccata, ma ho sempre detto a tutti i miei amici di non farlo – perché non si può scherzare con quella cosa lì. Massimo (Riva, ndr) finché ha vissuto con me non ne ha mai fatto uso: quando se n’è andato per conto suo ha trovato una specie di corte dei miracoli, degli sfigati di turno. Lì ha iniziato e non ha più smesso. Ai miei figli queste cose gliele ho spiegate bene sempre. Il primo è stato Davide. Quando andavo a Roma e gli facevo il discorso sulle droghe, lui mi guardava e rideva. “Cazzo ridi?”. E lui: “Papà, tu sei Vasco Rossi!”. Ho dovuto combattere anche con l’immagine che aveva di me. Intanto non era vera, e poi proprio perché avendo fatto degli errori a maggior ragione potevo spiegargli meglio di chiunque altro come evitarli. […]». 

[…]

Oggi com’è una giornata tipo del signor Rossi?

«Mi sveglio la mattina alle 9, faccio colazione e poi due ore di palestra o allenamento. Mi piace la cyclette perché pedalo leggendo, magari certi libri che alla sera non capisco tanto, mentre al mattino si capisce tutto. Poi faccio stretching. E ora ho inserito anche venti minuti di meditazione. Ho letto questo Jon Kabat-Zinn, un suo libro che si intitola Riprendere i sensi, mi sembrava una roba da fricchettoni e poi invece quando ho cominciato a leggerlo mi ha veramente incuriosito perché i suoi erano consigli pratici. E così ho iniziato a fare questa meditazione basata sulla respirazione prima dei concerti. Anche se non la capivo, mi aiutava perché concentrandomi sul respiro non pensavo alla paura di salire sul palco. Non sono buddhista, ma questa cosa dello spegnersi del pensiero mi affascina. Un po’ l’avevo scritta in Buoni o cattivi: “Si può spegnere ogni tanto il pensiero/ smettere almeno di crederci per davvero”. […]».

Niente vita mondana: tua moglie non si lamenta?

«Lei è un orso peggio di me. Anche a casa non entra nessuno, mica solo il Venerdì! Invito un paio di amici a cena: dopo il primo lei aveva preparato dei bastoncini Findus. E non avevano ancora finito di mangiare che era già di là a preparare il caffè. Li voleva mandare a casa! (ride). Perciò di solito gli unici che vengono ogni tanto sono i parenti».

[…] 

Sembra che non ci sia un perché neppure in tante cose che succedono oggi in Italia o nel mondo no?

«Guardavo dei documentari su Mussolini e mi chiedevo: ma come facevano a credere a uno del genere? Però anche allora c’erano quelli che si rendevano conto che era un balordo. Ma erano pochi. Stessa cosa oggi. E, ti dico, non credevo di arrivare a vivere un’esperienza del genere. Non è fascismo quello di oggi, è il nuovo, è fascismo 2.0. Oggi sono tutti innamorati della Meloni, quasi lo sono anch’io (ride). Come diceva Gadda, ai tempi tutte le Vispe Terese erano innamorate di Mussolini. Insomma non impariamo mai».

[…]

Nei tuoi concerti a un certo punto inizi a gridare una cosa come “Fanculo la guerra”. Sei stato praticamente l’unico, insieme forse ai Maneskin. A proposito li hai poi incontrati? So che ti piacevano… Il New York Times ha scritto che stanno insegnando il rock agli americani che se lo erano dimenticato.

«È vero, ormai era quasi tutto rap. Loro sono bravi, belli, bella lei...». 

Sui social si sono lamentati perché sotto una foto di Victoria hai scritto “Slurp”.

«Abbiamo appena fatto una maglietta con scritto “Slurp” (ride). L’ho anche messa all’ultimo concerto perché è troppo bella!». 

Qualche vizio ce l’hai ancora allora.

Franco Giubilei per la Stampa giovedì 24 agosto 2023.

«Al concerto di Bologna, Vasco ha visto mia figlia e si è sdraiato sul palco per avvicinarsi il più possibile a salutarla». Come in un cerchio che si chiude, Lorenzo Rossi, il figlio riconosciuto dal Komandante quando era un ragazzo di 14 anni, ha portato la sua bambina di sei anni e mezzo a veder suonare il nonno. Tutto si lega a una canzone, Gabry, forse la più struggente di Vasco, dedicata alla donna da cui il rocker di Zocca ebbe Lorenzo. 

«Da quando ho conosciuto mio padre lui è sempre rimasto in contatto con me, mi ha aiutato a completare gli studi e a darmi degli obiettivi». Trentasette anni, sposato, due figlie, Rossi junior lavora anche lui in campo musicale per i social media di VivaTicket, una delle realtà più grosse per la vendita di biglietti. Oggi può ben dire di far parte di una famiglia allargata che va dalla madre Maria Gabriella “Gabry” Sturani a Vasco, per poi estendersi alla moglie attuale del “Kom” Laura Schmidt e ai due fratellastri Luca e Davide. 

(...)

Lei ha sempre saputo di essere suo figlio?

«Sì, sono cresciuto sapendolo, mia mamma me l’ha detto fin da piccolo. A 14 anni vidi una sua canzone su Mtv e chiesi a mia madre se potessi conoscerlo. Mia madre, che era in contatto con lui, pochi giorni dopo organizzò l’incontro e ci vedemmo nell’ufficio di Vasco a Bologna».

E come fu l’incontro?

«Ricordo che entrò dicendo: “Buongiorno figliolo”. È vero che è un timido, ma quando ti guarda con quegli occhioni color ghiaccio diventi timido anche tu... Io poi vivevo in un paesino di 1.500 persone nel Ferrarese, Masi Torello. Lui era emozionato e lo ero anch’io».

Quello fu il primo passo, poi cosa accadde?

«Forse già dal giorno dopo si pose la questione del riconoscimento da parte sua, il che non era per niente ovvio, ecco perché è stata una bella cosa. Il tempo di fare l’esame del Dna e il riconoscimento è stato avviato».

Il riconoscimento non significa per forza che si crei un rapporto padre-figlio, fra voi come andò?

«Si è creato un rapporto forte, spontaneo, sincero. Vasco è riuscito a darmi tanto. Andavo poco e male a scuola, ero un ragazzo di 14 anni sbandato che era rimasto indietro di tre anni negli studi, ma lui mi ha dato sprone e un obiettivo col metodo del bastone e della carota. Si vedeva che ci teneva a me, mi stava dietro, tutto questo nonostante avesse una sua famiglia. Mi ha dato la possibilità di recuperare gli anni persi a scuola: mi sono diplomato e laureato, in Scienze della Comunicazione. A quell’età è fondamentale una figura che ti dica dove puoi arrivare e lui c’era, con le parole e con i gesti».

Ma cosa le diceva?

«Mi diceva: “Adesso tu devi recuperare il tempo perduto a scuola, intanto diplomiamoci, poi vedremo”». 

Parlava di bastone e carota.

«Faccio un esempio, quando mi diplomai mi chiese cosa volevo come regalo e io gli risposi che mi serviva la lavastoviglie. Lui invece mi regalò una macchina nuova, un’Audi 3 che sostituì la Stilo usata che avevo e che mi aveva regalato sempre lui. Allo stesso tempo mi procurò una casa, ma l’affitto lo pagavo io. Mi ha insegnato anche a gestire i soldi».

Va a vederlo in concerto?

«Quando posso ci vado. Le sue canzoni mi hanno aiutato per ogni situazione. Ce n’è una che ti fa stare meglio se la fidanzata ti lascia, se hai problemi personali o con gli altri. È un pugno nello stomaco che ti aiuta. Inconsapevolmente è stato uno psicologo per me e per molti altri che l’hanno ascoltato».

Sentire Gabry, la canzone scritta per sua madre, che effetto le fa?

«Gabry la canto sorridendo, è una bella emozione anche per me, è dolce ma straziante, con quel grido del soprannome di mia madre, ma forse è più significativa proprio per lei, Gabry».

Sua madre come le parlava di Vasco?

«Me ne ha sempre parlato bene, anche prima del riconoscimento erano in contatto, mio padre le chiedeva di me, come stavo». 

E a Gabry oggi Vasco che effetto fa?

«Mia madre è un’eterna Peter Pan, sarà sempre platonicamente innamorata di Vasco, ma non so veramente che effetto le fa. Ricordo che una volta si è commossa quando al ristorante misero su la sua canzone».

A lei quali canzoni piacciono di più?

«Sally per un periodo, poi Ti taglio la gola, Un gran bel film, Vivere. Una per ogni periodo della vita. C’è un buon rapporto anche coi fan di mio papà: mi stanno vicini da sempre, mi danno un sacco di affetto. Ora il mio sogno è scrivere questa storia, che è una bellissima storia, perché c’è un ragazzo solo e un uomo che ha deciso di essere un bravo papà, a differenza di altri. Se potesse aiutare anche una persona su mille a far sì che un padre voglia bene a suo figlio…». 

Da ilnapolista.it il 24 giugno 2023.

Vasco racconta che sta per uscire un film biografico sulla sua vita.

«Lo abbiamo appena annunciato. Non è un film, ma una docu-serie intitolata Il Supervissuto (in autunno su Netflix, ndr). Solo che a interpretare il protagonista sono io: non uso controfigure (ride). La regia è di Pepsy Romanoff, il mio braccio destro da anni per tutto ciò che riguarda video e film dei miei concerti». 

A Vasco viene chiesto come mai quest’anno non è andato a festeggiare a Sanremo il quarantennale di “Vita spericolata”. Se Amadeus lo ha cercato. Risponde:

«Amadeus e non solo lui: tutti i direttori artistici passati mi hanno cercato negli anni. Io ci sono andato nel 2005: conduceva Paolo Bonolis e io andai per chiudere un cerchio, restituendo il microfono che mi ero messo in tasca nell’82, l’anno di Vado al massimo. A me la tv piace poco. Preferisco i palchi dei concerti: quando salgo sul palco e la musica comincia per me tutto torna. Lì sono veramente presente». 

Cosa manca alla carriera di Vasco?

«Niente. Ho avuto la vita che volevo. Pienamente vissuta. E rifarei tutto daccapo esattamente così: stessi errori, stesse passioni, stesse delusioni, come canto in Se ti potessi dire. Pensavo di morire giovane. E adesso sono qui, supervissuto: vivo ogni giorno come se fosse l’ultimo».

(ANSA il 7 giugno 2023) - "Io sono un provocatore. È questo il ruolo dell'artista: provocare le coscienze per mantenerle sveglie" Vasco Rossi è pronto a salire sul palco dello stadio Dall'Ara di Bologna per la prima delle quattro date che dopo otto anni lo riportano nella sua città d'adozione, "quella dove mi sono formato e dove tutto ha avuto inizio".

La carica ai 40mila della combriccola, come già nelle date zero a Rimini, lo dà con Dillo alla Luna, un invito a guardare in faccia la realtà. "Perché oggi nell'aria c'è una narrazione piuttosto edulcorata di quelli che vogliono raccontare che va tutto bene, perché in realtà si pensa solo al consenso - spiega il Komandante -. I politici dovrebbero occuparsi di risolvere i problemi veri, ma io sento solo favole favole favole".

In T'immagini fa nomi e soprattutto cognomi: "Meloni, Berlusconi, Salvini sono favole, ma anche i comunisti e i 5 stelle sono favole". "Boccio quasi tutti. Si salva solo Pannella, che non c'è più. I politici non fanno gli interessi di questo Paese, ma i loro interessi personali. Adesso c'è una narrazione di grandeur dell'Italia che non è vera. L'Italia non conta niente nel mondo. È una grazia se siamo in Europa”.

Vasco Rossi, le cifre della leggenda: in 40 anni di carriera...Paolo Macarti su Libero Quotidiano il 31 maggio 2023

Pensare che il suo primo concerto nell’anno di grazia 1979, a Bologna, venne organizzato quasi per scherzo. Uno sliding-door tipico del personaggio che sarebbe diventato. Vasco Rossi, quando lo racconta, ci ride sopra ora che dal palco vede un mare di gente e riempie gli stadi quasi fosse un divo del calcio. Il Komandante ricorda così quel momento di 44 anni fa: «Mi disse Bibi Ballandi: “Ti ho organizzato un concerto in Piazza Maggiore, a Bologna, con il gruppo che suona con Lucio Dalla...”. Ok, dissi. Peccato che due giorni prima arrivò la notizia che il gruppo non c’era. A quel punto mettemmo insieme una band al volo, nella cantina di Bibi. Roba da incoscienti, ma andò bene». Tutto iniziò così, con il primo, suggestivo concerto davanti un pubblico di poche decina di persone in quella che non è la sua città di nascita («Sono di Zocca ma Bologna è mia», dice con orgoglio) e che il prossimo 6 giugno ospiterà l’apertura ufficiale del Vasco Live 2023 negli stadi dopo la data-zero di domani, a Rimini. 

DATE AGGIUNTE -Per questo tour i risultati in termini di biglietti venduti sono, al solito, clamorosi e in linea con quelli che sono i prezzi correnti dei concerti: per i concerti di Bologna un tagliando per il prato è stato messo in vendita a69 euro. In un primo momento le date bolognesi erano due (6 e 7 giugno) ma Live Nation, che gestisce il tour, per le richieste assillanti è stata costretta ad aggiungere altre due (11 e 12) prima di affrontare gli appuntamenti allo stadio Olimpico di Roma (16 e 17), i due di Palermo (22 e 23) e i due conclusivi di Salerno (28 e 29). Vasco è anche un uomo da record assoluti se consideriamo che nella sua quarantennale carriera ha tenuto oltre 800 show: è del 2003 il colossale triplo concerto evento a San Siro durante il quale ha totalizzato 225.000 spettatori paganti. Da allora è diventato ilprincipe degli stadi: luoghi più piccoli non potrebbero assiepare i 60-70.000 spettatori che lo vanno a trovare ogni sera. Il suo popolo è un esercito quasi religioso che si muove a comando: c’è ilKomandantein città? Presenti! Si possono fare i calcoli sulle platee immense di spettatori che hanno assistito ai suoi show e continuano a farlo. Considerando che il nostro ha iniziato a cantare a fine anni ’70 e ha proseguito per un decennio in spazi come teatri o palasport al ritmo medio di10 concerti all’anno, per poi passare negli stadi dove non ha quasi mai lasciato una poltroncina vuota, si possono quantificare gli spettatori totali di questi rutilanti 40 anni. Fan più, fan meno, con la calcolatrice alla mano è venuto fuori un dato pazzesco: da quel romantico 1979 a oggi questo uomo ha chiamato a sé oltre 10 milioni di fan. Avete capito bene. Roba daRolling Stones,U2oPaul McCartney.

CAPOLAVORO A MODENA Nel 2017 Vasco ha realizzato quello che è considerato il suo capolavoro in termini statistici: a Modena Park ha radunato 225.179 spettatori, battendo ogni record di presenti in uno show musicale italiano. Fare i conti in tasca a questo incredibile artista è complicato e anche capzioso, quasi impossibile se si considerano i diritti d’autore della SIAE (Vasco ha composto 190 canzoni), i dischi venduti in carriera (45 milioni), i guadagni dal marketing e quelli legati alle altre attività. Ma se aggiungiamo un altro indizio per capire ancora meglio chi è Vasco e come ipnotizzai suoi adepti quando annuncia un tour, ecco un dettaglio incredibile: per le prime due date allo stadio di Bologna, i biglietti sono stati bruciati in quattro ore. Ormai non ci stupiamo più ciò che accade attorno a un concerto del Komandante. Per questo è unico e le sue non sono mai bollicine.

Vasco: «Spero di morire sul palco. Ecco la mia canzone perfetta e quella della svolta». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 12 maggio 2023.

Il cantautore è in partenza per il nuovo tour: «A 71 anni vivo sempre la vita con intensità e adesso penso che in fondo dal futuro non possano più arrivare grandi fregature. Non mi sono mai sentito una rockstar, però senza concerti non posso stare» 

Vasco diventa poesia. In inglese...

«Lo devo a Emilio Mazzoli (il gallerista che ha scoperto Basquiat ndr ), personaggio straordinario con un’apertura mentale incredibile. Vivere sarà una pubblicazione in edizione limitata (in uscita dopo il tour con la prefazione del poeta Nanni Cagnone ndr ) con anche delle grafiche stupende che illustrano testi di canzoni e altri miei scritti».

Siamo alla vigilia del tour estivo, 10 date, negli stadi ovviamente e altrettanto ovviamente sold out, e Vasco Rossi si racconta nel suo quartier generale bolognese sulla via Emilia. «Parto e non torno a casa fino a fine tour: è un lungo viaggio dove si vive in un’altra dimensione con orari precisi e un clima mentale particolare. Ricomincio lo show dell’anno scorso, con una scaletta diversa e anche qualche cambiamento nella band, ma vado dove non suono da tempo, Bologna, Palermo, Salerno, e ripasso da Roma».

Giovane promessa, solito str...o, venerato maestro. In quale delle fasi della carriera teorizzate da Arbasino senti di ricadere?

«Io parto da giovane str...o. Ero una testa di c...o. Dire che sono diventato un poeta è eccessivo. Io faccio canzone d’autore, che chiamo così per distinguerla dalle canzonette degli Anni 60: è un tipo di arte moderna che mette insieme poesia e musica».

«AFFRONTO LA VITA CON UNA CERTA INTENSITÀ, NON CERCO UNA VITA SICURA, PIATTA E TRANQUILLA. NON SAREI IN GRADO DI VIVERLA. MI SENTO SEMPRE UN RAGAZZO DI 15 ANNI. DUE ANNI FA MI SONO LUSSATO UNA SPALLA LANCIANDOMI LUNGO UNA SCALINATA IN MOUNTAIN BIKE» 

La cultura considera la poesia una forma di espressione artistica alta e la canzone bassa...

«A me non piace nemmeno chiamarla musica leggera. È qualcosa di pesante: commuove, convince, sostiene, comunica emozioni forti e potentissime. A scuola la poesia non mi piaceva troppo. C’era questa cosa del doverle imparare a memoria e poi le consideravo cose sempliciotte tipo “la donzelletta vien dalla campagna...”. Ne ho capito il valore dopo aver scoperto i cantautori. De Andrè, il primo, mi ha aperto un mondo. Poi De Gregori e Guccini».

«CON I 70 ANNI SONO ARRIVATO AL PUNTO IN CUI MI DICO “FACCIO QUELLO CHE MI PARE PERCHÉ DAL FUTURO CHE C’È ANCORA NON POSSONO ARRIVARE GRANDI FREGATURE”»

Le canzoni in inglese, senza musica. Che effetto ti fa?

«Sono solo alla quinta lezione di inglese...».

Ma come, passi mesi a Los Angeles!

«Sto sempre con un gruppo di italiani e sono troppo pigro per imparare. Da qualche mese però, durante gli allenamenti del mattino sull’ellittica, mi piazzo il tablet davanti e seguo le lezioni su YouTube... Voglio arrivare a capire i film in lingua originale».

Hai sentito il traguardo dei 70 anni?

«Le cifre tonde colpiscono, ma era stato peggio con i 60. Allora sentii suonare la campana. Come la musica che mettono in chiusura di serata nei locali: puoi rimanere ancora, le luci sono accese e non ti buttano fuori, ma... Con i 70 invece sono arrivato al punto in cui mi dico “faccio quello che mi pare perché dal futuro che c’è ancora non possono arrivare grandi fregature”. Non è una cifra tonda, ma il Covid è stato un momento di crisi perché ho capito che dipendo dall’andare sul palco».

«GRAZIE AL BUDDISMO HO SCOPERTO CHE A FARCI MALE SONO I PENSIERI E LE ASPETTATIVE. HO IMPARATO A LASCIAR ANDARE»

E come sarà se non potrai più fare concerti?

«Spero di morire sul palco... In realtà lavoro su me stesso per cercare un senso indipendentemente dai progetti di lavoro. Devi imparare a vivere il momento, il presente».

Aiuta l’amore per la filosofia?

«Mi piace leggere, sono una persona curiosa. Ho fatto una scuola tecnica, ci hanno insegnato per tre anni ragioneria, una cosa che impari in una settimana con un corso, e nulla di filosofia. E quindi l’ho scoperta da me».

«MIO PADRE È MORTO GIOVANE, NON HA VISTO NULLA DELLA MIA CARRIERA. MIA MADRE INVECE FACEVA ENTRARE I FAN IN CASA» 

E il presente come si cattura?

«Per anni ho provato a fare meditazione. Pensavo di sbagliare perché mi concentravo sul respiro e a un certo punto arrivavano altri pensieri a distrarmi. Leggendo Jon Kabat-Zinn, un esperto di pratiche di consapevolezza, ho capito che quei pensieri ci stanno, basta che non li giudichi e che li lasci andare. Da lì sono passato al buddismo e ho scoperto che a farci soffrire sono i nostri pensieri, i desideri, le aspettative e gli attaccamenti. Se si fosse diffuso il buddismo, invece di altre religioni, sarebbe andata meglio al mondo».

In un’intervista del 1983 dicesti: «Io non diventerò mai vecchio, morirò prima».

«Stavo andando al massimo. Era un periodo di eccessi e di molta creatività. Facevo tutto con l’obiettivo di scrivere canzoni e arrivare al cuore della gente. Vivevo in un capannone nella zona industriale di Bologna, usavo sostanze per stare sveglio due o tre giorni a scrivere canzoni e dormire era come perdere tempo. Ero anche pronto a sacrificare la vita per quello, ma non nel senso che volessi morire o suicidarmi. Mi rendevo conto che stavo esagerando. Ho fatto tutto coscientemente. Non ci sono caduto dentro. Ho vissuto quel viaggio e sono finito contro il muro. Ma non per un incidente stradale».

Che muro?

«Quello del bigottismo ipocrita e della caccia alle streghe che mi ha fatto diventare il capro espiatorio di un periodo in cui si facevano praticamente tutti. Sono stato l’unico al mondo a essere denunciato dal suo fornitore (un infame). Venni arrestato e prima che il pm si degnasse di incontrarmi passai cinque giorni in isolamento. Ho usato quell’esperienza per fare reset».

Il Vasco pericolo pubblico...

«Sembravo scapigliato e fuori di testa, ma ho sempre avuto le idee chiare. Fino a 20 anni pensavo si potesse cambiare il sistema, dopo ho costruito un sistema mio. Mi sono inventato un lavoro come disc jockey con la radio private e poi è partita questa avventura delle canzoni. Ho imparato dai cantautori, ma sono stato il primo, assieme a Nannini e Bennato, a usare il linguaggio del rock in italiano». 

La canzone della svolta?

«Con Ogni volta ho trovato la mia strada nella scrittura dei testi. Era la sintesi del linguaggio: ti dico una cosa, ma nel modo più sintetico possibile. Al contrario di quello che facevano i cantautori. Ho cominciato a scrivere Ogni volta pensando che l’avrei capita solo io. Saltavo tutti i passaggi in mezzo, non raccontavo niente. Quando ho visto che gli altri riempivano quei passaggi con la loro immaginazione ho capito che era una magia straordinaria».

La canzone perfetta?

« Vita spericolata . Sono andato a Sanremo nel 1983 finalmente felice perché cantavo una canzone che mandava tutti a quel paese, soprattutto i benpensanti. Era il mio “andate a farvi fottere, voglio una vita come pare a me”. Era una vita spericolata non nel senso di drogata, anzi la canzone è un inno alla vita. Certo, una vita vissuta rischiando e sbagliando, e di conseguenza imparando».

Ma si può avere una «vita spericolata» a 70 anni?

«Sono sempre lo stesso. Affronto la vita con una certa intensità, non cerco una vita sicura, piatta e tranquilla. Non sarei in grado di viverla. Mi sento sempre un ragazzo di 15 anni. Due anni fa mi sono lussato una spalla lanciandomi lungo una scalinata in mountain bike, non so cosa mi sia venuto in mente... Mio figlio Luca mi ha fatto la predica... la mia testa resta sempre quella». 

«Ma tu sei lì, al mio fianco/ e mi stringi forte la mano/ E tutto sembra più facile/ Con te qui accanto a me». La riconosci?

«No».

Infatti, ho chiesto all’intelligenza artificiale di scrivere una canzone nel tuo stile...

«L’ho fatto anche io (ride di gusto ndr ). E anche in quel caso non mi ci sono visto... Ho detto all’AI che non conosceva bene Vasco e lei mi ha raccontato tutta la mia storia. Che finiva con “ha avuto qualche problema con la giustizia”. Ma vaffa... Poi le ho chiesto di darmi un titolo per un articolo su Vasco: “Eroe del rock italiano: la storia di Vasco Rossi, il ribelle che ha conquistato il cuore della nazione”. Meglio».

Fa paura lo sviluppo di queste tecnologie?

«Un AI che aiuti l’uomo è utile, ma andrebbe regolamentata subito. Dovrebbe partire il Congresso americano, ma le lobby tecnologiche sono potenti. E anche i social andrebbero regolamentati: per aprire un account devi dare nome, cognome e indirizzo. Ci vuole che ognuno sia responsabile. Anche nel campo delle notizie si vive di balle, la post-verità di Trump... un mondo che capisco fin troppo bene e non mi piace».

«PER ME È SEMPRE STATO UN GIOCO FARE LA ROCKSTAR. NON PUOI PENSARE DI FARLO VERAMENTE, A MENO CHE TU NON ABBIA PROBLEMI MENTALI. LA ROCKSTAR LA FAI SUL PALCO, QUANDO SCENDI DEVI TORNARE LA PERSONA CHE SEI, ALTRIMENTI SEI FUORI DI TESTA»

I cantautori Anni 70 raccontavano il noi, oggi si contano i pelucchi nell’ombelico. Tu negli Anni 80 hai raccontato un io plurale o un noi singolare...

«Ero un singolo che parlava di noi... Ho confermato quelle idee istintive negli anni quando con le letture di filosofia ho capito che l’io è un’idea falsa che abbiamo, che quando cominci a distruggere l’ego siamo tutti collegati a un noi. La stessa sensazione che sento sul palco quando canto per una persona».

Anche se sono oltre 200mila come a Modena Park?

«Quando canti per più di 10-15 persone non cambia più. Non conta la quantità».

Un minuto prima di salire sul palco e un minuto dopo l’inizio...

«Per me è sempre stato un gioco fare la rockstar. Non puoi pensare di farlo veramente, a meno che tu non abbia problemi mentali. La rockstar la fai sul palco, quando scendi devi tornare la persona che sei, altrimenti sei fuori di testa. Quando dietro le quinte sento il pubblico che mi chiama penso che stiano chiamando quell’altro. Che infatti arriva sempre. E quando incontro qualcuno che mi riconosce dico “sono qui in rappresentanza del mito”. Gli sguardi mi lasciano allibito, non mi sento all’altezza di quello che vedono le persone e mi imbarazzo. Sono sensibile, sento troppo».

Vasco è fragile?

«La mia fragilità è la timidezza. Mi sono violentato per salire sul palco. Sono al servizio del pubblico, voglio che si divertano loro. Per anni non mi sono divertito anche se ora è l’unico posto dove riesco a essere nel momento, nel presente di cui parlavamo prima».

E come vedi i ragazzi della GenZ? Gli studenti dei licei milanesi hanno scritto una lettera aperta in cui rivendicano il diritto alla fragilità.

«La competizione è potentissima nel mondo del lavoro, è una cosa feroce, non umana. Vedo gli eccessi di questo sistema economico quando sono a Los Angeles, ma credo sia meglio di quello cinese. Questi ragazzi mi fanno tenerezza anche se sono una risorsa, sono pieni di energia. Hanno più possibilità di essere fragili grazie anche a quelle battaglie fatte da noi perché ci fosse comprensione per il diverso, anche se a livello politico non mi sembra che sia andata così bene».

La tua generazione era «senza santi né eroi»...

«Negli Anni 70 avevamo avuto eroi. Tipo Che Guevara. Poi io stesso ho cominciato a ridimensionarli. Pensavo che fosse più facile fare l’eroe che andare a lavorare ogni giorno in fabbrica alla Fiat. Allora diventava meno eroe il Che e più eroe mio padre che lavorava e basta».

Non l’hai visto invecchiare. Se ne è andato nel 1979 a 56 anni...

«Mi spiace che lui non abbia visto nulla della mia carriera, credo sarebbe stato orgoglioso. L’avrebbe vissuta come un riscatto. Doveva volermi bene perché all’inizio non stavo combinando un cazzo con un lavoro, il disc jockey, che lui manco capiva cosa fosse».

«CON ‘BOLLICINE’ VOLEVO FARE PAURA AGLI IPOCRITI. E POI C’ERA LA PRESA IN GIRO DELLA PUBBLICITÀ CHE PER ME È IL MALE ASSOLUTO DELLA SOCIETÀ: CREA BISOGNI CHE NON ESISTONO, CI FA CONSUMARE PIÙ DI QUANTO ABBIAMO BISOGNO»

E mamma?

«Con lei è stato diverso. I fan hanno iniziato ad andare a casa sua, lei li faceva entrare e mi diceva “tranquillo, ti vogliono bene”. E io “mamma, tu mi vuoi bene; loro me ne vogliono fino a che gli piace il disco”. Per fortuna si è presentata solo gente sana e non è successo nulla, ma ad un certo punto dovetti far montare un cancello davanti a casa sua».

Bollicine compie 40 anni. Oggi la Coca Cola vuole essere nelle canzoni, come quella dei Pinguini Tattici Nucleari... Allora un po’ meno...

«Mi piacciono quei ragazzi... Però la Coca Cola ai miei tempi voleva denunciarmi per avergli rovinato l’immagine. Sembrava un’allusione alla droga e ci ho giocato apposta. Dicevo Coca e tutti si aspettavano ...ina. Volevo fare paura agli ipocriti. E poi c’era la presa in giro della pubblicità che per me è il male assoluto della società: crea bisogni che non esistono, ci fa consumare più di quanto abbiamo bisogno, crea modelli che non esistono, frustrazioni dalla proposizione dell’immagine di uomini e donne belle... Berlusconi l’ha sdoganata e ha rimbecillito il Paese con le sue tre televisioni. Il problema è stato che poi è pure entrato in politica».

Temevi che la vittoria del Pds di Occhetto gli avrebbe danneggiato le aziende...

«Io già nel 1975 dicevo ai miei amici comunisti alla radio che bisognava cambiare il nome “comunista”. Mia nonna votava Dc perché con la parola cristiana dentro pensava di guadagnarsi il paradiso. Quando ho visto che il mio voto valeva come il suo ho smesso di andare a votare. Anche la democrazia ha dei limiti. Con la propaganda hanno rimbambito i popoli».

«DUE DONNE AI VERTICI DI GOVERNO E OPPOSIZIONE? UN BEL SEGNALE. SE LE DONNE ANDASSERO AL GOVERNO OVUNQUE SAREBBE MEGLIO; GLI UOMINI HANNO IL TESTOSTERONE E PERDONO LA BROCCA»

Nel 2021 presentando l’ultimo disco avevi parlato di partiti che agitano la paura...

«Non erano ancora arrivati, ma sapevo che sarebbe accaduto e provavo ad avvisare tutti. Adesso sono arrivati».

Questi primi mesi di governo Meloni ti preoccupano?

«Moltissimo. Giorgia è simpatica ma spero che dopo le dichiarazioni da propaganda elettorale prevalgano le posizioni più ragionevoli soprattutto per quello che riguarda i diritti civili. Ma facciamo attenzione, lo dico anche a me stesso di non abbassare la guardia su conquiste faticose e ora messe in discussione. La storia ci insegna che quando qualcosa può andare male... lo farà».

Ti piace che ci siano due donne ai vertici di Governo e opposizione?

«Un bel segnale. Se le donne andassero al governo ovunque sarebbe meglio; gli uomini hanno il testosterone e perdono la brocca... Non pensavo che dopo quel suonato di Kim Jong-un altro come Putin, tra l’altro a capo di una potenza, minacciasse di tirare bombe nucleari».

LA CARRIERA 

VITA - Vasco Rossi è nato a Zocca, in provincia di Modena, il 7 febbraio 1952. Il padre Carlino faceva il camionista, la madre Novella era casalinga: fu lei a iscriverlo a una scuola di musica. A 13 anni vinse il primo concorso, l’anno dopo è entrato nel suo primo gruppo, i Killer. Ha il diploma di ragioneria.

IL DEBUTTO - Nel 1972 si è iscritto a Economia e commercio, facoltà che lascerà due anni dopo per dedicarsi al lavoro di regista e di attore in un piccolo teatro. Nel 1975 fonda Punto Radio, la prima radio libera italiana. Lavora come dj e nel 1978 pubblica il suo primo album. La svolta arriva nel 1981 con il quarto album dal titolo Siamo solo noi

A SANREMO - Nel 1982 partecipa a Sanremo per la prima volta con la canzone Vado al massimo. L’anno successivo torna con Vita spericolata, che arriva al penultimo posto in classifica. Qui sotto il poeta Nanni Cagnone, autore della prefazione al libro in uscita Vivere

Barbara Costa per Dagospia il 30 aprile 2023.

Maurizio Solieri ha due c*glioni stratosferici, che io vorrei tanto misurargli. Perché ce li devi avere stratosferici se, da chitarrista principe e coautore della rockstar numero 1 in Italia (che, per chi fosse appena arrivato da un altro pianeta, annuncio che è Vasco Rossi) lo molli, e per giunta nel bel mezzo di un disco. Perché ce li devi avere stratosferici, se poi ci torni, con Vasco, riconoscendo di aver fatto un’enorme caz*ata. Vasco, se si incaz*a, “si incaz*a a pantera”, e quante volte ti ha licenziato? Due, tre, e comunque, caro Solieri, se mi alzo la gonna/ lo vogliamo vedere/ cosa c’è da fare?/ non ci pensare/ mica sono tua moglie/ non ti faccio soffrire/ ma, prima di tutto, fatteli fare, gli auguri, che sono 70!

E che mai dimostrerai: voi chitarristi rock siete stirpe a parte, magnifica, e sia benedetto il giorno che hai confessato ai tuoi che mai saresti diventato un medico! Fuori dalla genia rocchettara sì, che saresti invecchiato, forse pure male, e ritornando alla mia gonna, dio, se mi hai "trastullato" l’infanzia! 

Quando di sessualità giustamente sai nulla, e in stereo ti sparano "Alzati la Gonna", dal testo che ostenta quanto sopra e peggio, macché, meglio, e grazieeeeee per averla fatta, e meno male che Vasco non se l’è tenuta…! O tu e Riva non gliel’avete data, chi se ne frega, io dico che è sacrosanto montarsi la testa, credersi 'sto caz*o, se con un rockaccio suonato divino vai primo in classifica (e senza operazioni di marketing), e sei un f*go con la chitarra, e le f*ghe ti amano.

Poi non è durata, non è andata, e però a Solieri la f*gaggine – e la f*ga – è rimasta! E tu, che mi leggi, guardati Solieri, oggi, casa e famiglia, testa a posto da due decenni, e poi scordatelo, perché c’è stato un altro Solieri, rock 'n drugs 'n f*ga 'n f*ga, non credo più di Vasco, ma non starei a giurarci… Vediamo: se torno agli anni '80, inizio '90, piena era rock in salsa emiliana, da quale “memorabile maialità” inizio?

Sia chiaro: "Vita Spericolata" non è solamente il titolo di una canzone, e "Vado al Massimo" è uno stile di vita. Sconfinata gratitudine a americani e inglesi che il rock se lo sono inventato, sì, mettendo "voglia" alle groupie italiane. Palpitano in fila fuori dalle roulotte della Steve Rogers Band, la prima band di Vasco. Primo chitarrista: Maurizio Solieri. Se sei un musicista rock, hai donne disposte a tutto. Per te. Che vogliono te. Che vengono via con te. Non aspettano che un tuo cenno. 

E Maurizio Solieri, come non amarlo, lui una volta una, una certa Federica, l’ha strappata a Vasco, e ci sono groupie che di giorno fanno l’avvocato, e altre, signore chiccose maritate bene, ingioiellate, che se gli allunghi le mani… ci stanno! E ti sono riconoscenti. Solieri, come si fa a non amarlo, lui non le manda a dire: “A volte ci infilavamo tutti nello stesso letto” (ma non in quello di Vasco) per incontri orgiastici dove, se la favorita “si porta dietro un’amica brutta, basta questa metterla in mezzo”. Al letto. I fuochi infuriano ai lati.

Casini che sono leggenda. Sesso a tre. Preliminari di striptease. Magistrali. Un musicista rock “pesca sempre” e sempre bene e senza problemi. Cameriere d’hotel. Fidanzate ufficiali. Semi. E no. Insieme. E ci sono groupie che “accontentano tutti”, e solo per un passaggio in macchina. Fanno orale, e mica si fermano lì. La “gnocca di prima” (categoria) sta a Padova. “Le padovane” girano in gruppo. “Pupe molto sexy”. Pupe “sano sesso”. 

Consolatorio, se la serata è andata uno schifo. Sesso carburante, quando in tour proprio non ce la fai più. Sul palco si sale sobri (abbastanza) ma chi l’ha stabilito che non si possa esagerare dopo un concerto…? Cosa volere di più. È come scrive Eve Babitz: ci sono musicisti che suonano le melodie, gli accordi e tutto, e non sanno leggere la musica, non hanno mai "imparato": lo sanno fare e basta. E come lo sa fare Maurizio Solieri! Lui sa far suonare la chitarra in mille modi diversi. Col suo approccio aggressivo. A volumi altissimi.

Il rock è v-i-t-a. È una smania che ti prende, dalla nascita, e, se sei femmina, ti prende al clitoride, e senza non ci sai stare. E la vita rock “è un continuo alternarsi di soddisfazioni e schiaffoni”. Ma sempre meglio dei talent. Ma com’è che lì s’esibiscono quasi tutti con quell’espressione moscia?!?!?! Educatini. Perfettini. Piagnosi. Sostanzialmente non ci dicono niente. Non ce lo possono dire.

Rock 'N' Roll Show. Heaven. Come dimenticarlo? Treno Modena-Milano: “Caz*o, sei bravo, eh! Tu sì che sai suonare la chitarra!”. Solieri e la prima volta con Vasco. Solieri che Vasco l’ha visto piangere, dopo un concerto deprimente. Non era venuto nessuno. Non si cag*vano Vasco, cr*sto s*nto! Maurizio, la fermo qui, ma prima o poi ci spiegherai che t’hanno fatto i Nirvana, e dai, non è vero che in Italia la storia della chitarra rock l’hanno fatta solo Franco Mussida e Alberto Radius. Ci sei TU. “Vacca gli indiani!”, non si muore mai, resurrection, finale, albachiara. 

 Vasco Rossi, quarant'anni di «Bollicine»: un milione di copie vendute, 33 minuti di hit storiche. Andrea Tinti su Il Corriere della Sera il 13 Aprile 2023.

L'album di Vasco festeggia con una special edition: sempre nel 1983 il rocker salì sul palco di Sanremo con «Vita Spericolata»

Le lunghe carriere musicali vivono su dischi che rappresentano vere e proprie svolte ed altri un po' meno epocali. Con Vasco Rossi ci sono diversi dischi che hanno rappresentato una svolta, uno di questi è “Bollicine” che vedeva la luce il 14 aprile 1983. Appena 40 anni fa. 

Più di un milione di copie vendute

Un disco che arrivò nelle case di più di un milione di ascoltatori, tante furono le copie vendute, portando il rock italiano nella zona alta della classifica, dove l’ossigeno si dirada e la respirazione diventa faticosa. “Bollicine” era il sesto album in studio per il Komandante, dalle nostre parti già una leggenda vivente, il secondo per la Carosello Records dopo Vita spericolata, che aveva già fatto capire al grande pubblico di che pasta fosse fatto il signor Vasco Rossi. Per festeggiare questo importante anniversario dal 14 aprile saranno disponibili in pre-order tre formati del nuovo “Bollicine 40° RPlay special edition”, per la precisione in CD, vinile e box in edizione limitata e numerata. Un ritorno in pompa magna per gli otto brani racchiusi nell’album, diventati tutti, per ragioni diverse, dei classici nella carriera del rocker di Zocca. 

Se qualcuno si fosse dimenticato la tracklist, un must recitato a memoria dai fan ad ogni live, eccola: Bollicine, Una canzone per te, Portatemi Dio, Vita spericolata, Deviazioni, Giocala, Ultimo domicilio conosciuto e Mi piaci perché. Si passa così dall’industria pubblicitaria al moralismo, dal perbenismo alla religione, dall’amore alla nostalgia. Con Vita spericolata Vasco ritornò sul palco del Festival di Sanremo e il rock diventò ironico ed esplosivo. L’album dura esattamente 33 minuti e 33 secondi è stato collocato, dalla rivista Rolling Stone Italia, al primo posto in una classifica dei 100 migliori dischi italiani. Un lavoro che segnò una delle svolte per la carriera di Vasco. Se poi possedete la versione picture disc uscita nel 1983, può tornare utile magari per pagare una bolletta. La sua quotazione, dipende dalle condizioni del disco, va dai 250 ai 500 euro. Vasco può tornare utile anche in un momento di crisi economica.

Estratto dell'articolo di Ernesto Assante per repubblica.it il 14 aprile 2023.

Provate a metterle in fila nell’ordine che volete: Vita spericolata, Una canzone per te, Portatemi Dio, Deviazioni, Giocala, Mi piaci perché, Ultimo domicilio conosciuto. Mescolatele nella vostra playlist, tanto il risultato non cambia, ascolterete comunque un album che giusto oggi festeggia quarant’anni di vita, intitolato proprio Bollicine, pubblicato il 14 aprile del 1983.

Sì, stiamo parlando di Vasco Rossi, di quello che per lui era già il sesto album, […] che contribuì a trasformarlo in una mega star. I numeri parlano chiaro, oltre un milione di copie vendute certificano il successo dell’album, ma per tutti è una canzone in particolare a superare anche i numeri di vendita, ovvero Vita spericolata, […].

[…] Se i due dischi precedenti, Siamo solo noi e Vado al massimo, erano già stati in grado di farlo uscire dallo stato di “artista di culto” e portarlo all’attenzione del grande pubblico, Bollicine è obiettivamente l’album della svolta, il disco che con la forza di una solidissima band alle spalle porta Vasco a diventare uno dei punti di riferimento della nuova canzone italiana che negli anni Ottanta raggiungerà il massimo equilibrio tra arte e originalità, tra qualità e successo popolare. Per festeggiare l’anniversario, […]esce Bollicine 40° Rplay special edition, in tre formati, CD, vinile e box in edizione limitata e numerata.

Stefano Mannucci per “il Fatto quotidiano” il 23 Febbraio 2023.

Erano due giganti”.

 I due Lucio, Dalla e Battisti. Nati ottanta anni fa a un giorno di distanza, il 4 e 5 marzo 1943, per un’irripetibile congiunzione astrale, caro Vasco Rossi.

Così profondamente diversi l’uno dall’altro. Mi affascinano entrambi. Hanno segnato in profondità non solo il percorso della nostra musica, ma anche il mio cuore e la mia anima. Però….Però?Io mi sento discepolo… addirittura erede. Anzi, figlio diretto della coppia Mogol-Battisti. Vengo da quel mondo lì.

 Parliamone.

Mi riconosco totalmente in quel modo di scrivere e di interpretare. Battisti ha rivoluzionato la musica italiana: un vero genio non solo dal punto di vista compositivo, ma anche degli arrangiamenti. Vent’anni più avanti rispetto a tutti gli altri.

 Qualcuno lo considerava stonato.

Aveva un timbro espressivo abbastanza improbabile, ma al tempo stesso era potente ed estremamente comunicativo. Non era affatto stonato. La sua eccezionale capacità di raccontare arrivava direttamente al cuore. Poi, vabbè, magari nei concerti non arrivava a riprodurre virtuosismi come nei dischi, quindi a un certo punto smise di esibirsi dal vivo. Chissà: forse per evitare problemi non avrà trovato la maniera e il tempo per impegnarsi anche su quel fronte.

 Lo vide mai sul palco?

Purtroppo no, non ho avuto la fortuna di sentirlo cantare o di conoscerlo personalmente. Mi avrebbe fatto molto piacere, per me era un mito. La prima sua cosa che ascoltai fu Balla Linda: ho 16 anni, resto folgorato. Sembrava una canzoncina, invece era un capolavoro di freschezza e novità.

 Se Battisti fosse vivo oggi, gli proporrebbe un duetto?

No, semplicemente lo abbraccerei, senza dirgli nulla. Gli farei sentire così la gratitudine per tutto quello che mi ha dato e fatto per il nostro patrimonio artistico, per la cultura popolare. Io penso che…

Che?…

che con le mie canzoni, quelle scritte da me, lo omaggi costantemente. Ho sempre cercato di essere un po’… un po’… un POC…o me… come è stato lui!

 Talmente grande, e così italiano che il mercato anglosassone non seppe come accoglierlo.

Lucio era portatore di una proposta italiana originale e all’avanguardia, così ‘oltre’ rispetto alle nostre canzoni tradizionali che il business internazionale non riuscì a farne un prodotto mondiale.

 L’industria della musica era ed è dominata dalla cultura angloamericana uscita dalla seconda guerra mondiale.

Quindi: o canti in inglese, e lui ci ha provato ma non è andata, o quelli che non capiscono l’italiano ti ignorano. A meno che tu non punti verso il pubblico spagnolo o sudamericano.

Anche qui in patria c’era chi lo snobbava.

Negli anni Settanta ascoltare Battisti era considerato da stupidotti: quelli che si consideravano intelligenti si dedicavano solo ai cantautori. Io invece ascoltavo sia Lucio che gli altri, perché erano universi distanti ma straordinari. E non me ne fregava un cazzo di nasconderlo, come facevano i tanti con la puzza sotto al naso che avevano i loro dischi ma facevano finta di no.

 Girava pure la diceria che lui fosse fascista.

Anche per quello prendevano le distanze da Battisti. Una massa di ignoranti. La massa vulgaris. Era l’atteggiamento sprezzante di quei suonati che scendevano in strada a fare la ‘revolucion’!.

 (...)

Passiamo a Dalla. Che venne a bussare alla porta di casa Rossi.

Una sera salì a Zocca accompagnato da Morandi. Ma non per cenare da mia mamma Novella, che era fan di Gianni. Andammo a mangiare all’osteria di un amico comune. Più che altro perché il Lucio bolognese aveva ascoltato Vita spericolata e fatta una battuta: ‘Come hanno fatto questi a scrivere una cosa così bella?’. Si riferiva a me e Tullio Ferro. Secondo me voleva conoscermi anche per vedere se avrei fatto parte della sua ‘parrocchia’.

 La parrocchia?

Noi la chiamiamo così. La sua ‘factory’, dove coinvolse subito il mio Ferro, che scrisse musiche per Dalla. Io non avevo molte cose da condividere con Lucio, in realtà. Eravamo personalità piuttosto differenti, e aldilà della grande stima reciproca non siamo mai andati vicini a una collaborazione.

 Dicono si sentisse solo, e che per questo cercasse legami artistici.

Aveva sempre attorno una vasta comunità di amici, che facevano famiglia con Lucio.

Non ce lo vedevo proprio, da solo. Con tutti era molto chiaro, aperto. Ti faceva capire cosa voleva. Non aveva problemi con nessuno.

 Le scippò Gaetano Curreri. Anzi, divenne una comproprietà. Come la visse?

Io? Benissimo. Pensavo che per Gaetano fosse una grande opportunità. Dalla a quei tempi era la Serie AAA Oro. Giusto che andasse a suonare con lui.

Ma come andò la vicenda?

Curreri mi aveva aiutato a realizzare il mio primo disco, …ma cosa vuoi che sia una canzone…, lo aveva praticamente arrangiato e prodotto insieme a me. Gaetano aveva un’orchestra con cui cantava e suonava nei locali, aveva già un suo percorso prestabilito. Però era consapevole che le orchestre dal vivo fossero sul viale del tramonto. Stavano arrivando i disk-jockey: i gestori dei club, con una sola paga, due piatti e un giradischi risparmiavano un sacco di soldi. Cominciava una nuova era. Così Curreri venne a Zocca e mi diede spunti per il primo disco e per il secondo, Non siamo mica gli americani!. Poi, mentre stavamo registrando il terzo, Colpa d’Alfredo, Dalla gli propose di unirsi a lui. Sinceramente, per me fu una soddisfazione.

Scherzando, ho spesso detto a Gaetano: mi hai abbandonato’. Ma sono andato avanti, eh.

 Come negarlo?

Senza il pianoforte di Gaetano Colpa d’Alfredo venne fuori come l’album più rock di tutti. Lui lo sa.

 Che dire ancora di Dalla?

Che apprezzo la sua voce. Anche Dalla è un genio assoluto. Mi fulminò al primo ascolto. Avevo 15 anni, ero in collegio, ci facevano vedere Sanremo. Apparve lui sul televisore con 4.3.1943. Fu quella volta lì. Al tempo Lucio faceva parte del giro dei cantanti, era stato quello il recinto degli anni Sessanta, fino a poco prima. La cosa incredibile è che sia riuscito a diventare un cantautore, dapprima facendosi aiutare dal poeta Roberto Roversi, in seguito azzardando da solo la scrittura di testi immensamente belli. Un caso unico, nella storia della musica italiana.

 Lei non ha mai valutato un tributo anche a Dalla?

No, non potrei sfidare la sua voce. Omaggerei pure lui con un semplice abbraccio e un grazie, se fosse ancora tra noi. Dalla era un magnifico interprete, con una canna insuperabile. Per ricantare sensatamente le sue cose ci vogliono cantanti che abbiano una solida capacità vocale. Morandi lo ha sempre fatto benissimo, lo ha dimostrato per l’ennesima volta giorni fa a Sanremo. Gianni è un altro grandissimo della scuola anni Sessanta. 

Alla fine, restiamo con la congiunzione galattica dei due Lucio.

Evviva loro, sempre.

Marinella Venegoni per “la Stampa” il 2 Febbraio 2023.

Domani «Vita spericolata» compie 40 anni. Il 3 febbraio 1983, un giovedì, Vasco Rossi sul palco dell'Ariston intonò per la prima volta l'inno a un futuro movimentato, più amico delle notti insonni che non del posto fisso, con il quale mirava a conquistare attenzione dai giovani spettatori di un Festival ancora polveroso ma ansioso di futuro.

 (...)

 Come festeggia i 40 anni, Vasco? E che cosa voleva essere davvero «Vita Spericolata»?

«Dovrei dire a tarallucci e vino, come si fa sempre in questo Paese un po' balzano. Era una canzone nata dalla sbornia di ottimismo probabilmente ingenuo degli Anni Ottanta, che veniva dopo la grande illusione del sogno di poter cambiare il mondo o almeno il sistema che metteva al centro la merce, il profitto, il consumismo, la pubblicità, invece che l'uomo.

Con la sconfitta dei Settanta e il delirio delle Brigate Rosse, s'era infranto tutto. Ma poi: chi non vuole una vita spericolata a 30 anni? Una vita piena di avventura... È una delle canzoni più fraintese della storia dell'umanità, è un inno alla vita vissuta spericolatamente, nel senso di intensamente. È venuta fuori dalla mia anima, avevo alle spalle già anni di canzoni e vita sui palchi. Poi finì nell'album "Bollicine", e dilagarono tutti e due».

 Facciamo un po' di storia.

«Nel 1982, dopo "Vado al massimo", Ravera mi disse che dovevo tornare per riconoscenza. E io: guarda che son venuto a febbraio e ho fatto il matto perché volevo farmi notare. Non posso tornare a fare il matto, perché dopo dovrei andare a lavorare in un circo.

 Continuavo a rifiutare, ma a settembre magicamente, dopo molto tempo a lavorarci, venne fuori il testo per la bellissima musica di Tullio Ferro. Mi nacque la frase "Voglio una vita spericolata" e poi tutto il resto: per me, quando a un artista arriva una canzone così, poi può anche finire lì la carriera. E ho pensato: "Questa qui la voglio cantare a Sanremo, cantare "voglio una vita maleducata": era uno sberleffo a tutta la platea a quei tempi molto ingessata e anche a quelli che guardavano da casa. Una canzone che meritava».

Come ricorda l'ambiente musicale?

«C'erano tutti i cantanti che si preparavano, molto attenti a com'erano vestiti. A me sembrava di essere al cinema, in un mondo diverso dal mio. Loro mi guardavano come fossi venuto da Marte e viceversa, senza offendere nessuno. Tanti li avevo visti in tv da piccolo, avevano preoccupazioni diverse dalle mie e volevo dare una scossa. Ancora mi ricordavo che l'anno prima, dietro le quinte, Romina Power mi aveva lanciato un'occhiata eloquente, come se fossi stato l'ultimo degli umani; e il vincitore Riccardo Fogli mi aveva rincuorato: "Non mollare, prima o poi ce la farai pure tu».

(...)

Fulvia Caprara per “la Stampa” - Estratti il 9 ottobre 2023.

La gente, osserva Vera Gemma, «non ha voglia di capire e nemmeno di vedere». Se qualcuno, a suo tempo, avesse posato lo sguardo su quella ragazzina figlia d'arte, innamorata del padre famoso e bellissimo, e poi su quell'adolescente risoluta, bisognosa di attenzioni, forse le cose sarebbero andate in modo diverso. Tutto sarebbe stato più semplice, però adesso, per la secondogenita di Giuliano Gemma e Natalia Roberti, il sapore della riscossa non sarebbe stato così dolce: «Il paradosso della mia vita è che le cose più difficili mi risultano facili, e viceversa». 

La prova, dopo una stagione di successi internazionali, iniziata alla Mostra di Venezia del 2022 con i due premi Orizzonti, è che Vera, docu-fiction di Tizza Covi e Rainer Frimmel, rappresenta l'Austria, e non l'Italia, nella corsa agli Oscar 2024: «Mi sento come i calciatori della Nazionale che giocano in una squadra diversa da quella del loro Paese».

Sensazione curiosa, in linea, nel caso di Vera Gemma, con il suo profilo da fiera dropout. 

Perché si è sentita diversa?

«Sono sempre stata considerata una tipa strana, da escludere. A scuola non facevo parte di nessun gruppo, sono stata bullizzata, le uniche persone che mi si avvicinavano erano ribelli, con intelligenze speciali. Poi è successo che, con il tempo, abbia imparato ad accettarmi, a essere sincera, naturale, a non rifiutare la mia diversità, ma, anzi, a sottolinearla, a non dire quello che dicono tutti, a non essere politically correct». 

(...) Basta un modo di vestirsi ed ecco che scatta l'etichetta. Io per esempio ho un mio look, mi piacciono i cappelli da cowboy e li metto spesso, se fossi una star americana andrebbe tutto benissimo, ma guai se sei un'attrice italiana. Il modello su cui bisogna allinearsi è un altro». 

Quale?

«Bisogna fare l'attrice intellettuale, tormentata, nevrotica, con i capelli sporchi, i tic, il bisogno di sottolineare l'odio per le interviste, per le ospitate in tv, per lo stare al centro dell'attenzione. Se non si rispetta questo modello si viene giudicate ignoranti. Io, invece, la penso in modo opposto, anche se sono laureata e parlo tre lingue, i tappeti rossi mi piacciono, e penso che questo mestiere sia fatto di generosità, non di voglia di sottrarsi».

Come è stata la sua infanzia?

«Bellissima, fin troppo felice. Si dice che le infanzie infelici siano causa di disagi che durano tutta la vita, per me è stato l'esatto contrario. Sono cresciuta nel momento in cui mio padre era al massimo della popolarità. Davanti alla nostra casa arrivavano pullman di giapponesi che avevano acquistato il pacchetto "viaggio a Roma più visita della casa di Giuliano Gemma", io e mia sorella Giuliana venivamo riempite di regali, c'erano file di turisti che aspettavano autografi. E poi ricordo le visite sui set, Almeria, paella, flamenco, cowboy, e questo padre bellissimo, affettuoso, sempre a cavallo, e le domeniche nella nostra villa... con tutto il cinema italiano che veniva a trovarci». 

E l'adolescenza?

«Ho iniziato ad aver bisogno di sviluppare la mia personalità, di farmi notare, ma avevo un modo sbagliato di attirare l'attenzione, i miei genitori mi rimproveravano, mi sentivo repressa. Crescendo ho anche scoperto falsità e difetti del mondo dello spettacolo. Mio padre lavorava di meno, era nervoso, a casa bisognava stare zitti, tutto questo mi pesava».

Giuliano Gemma è morto a causa di un incidente stradale. Un trauma terribile, come lo ha elaborato?

«Ho pensato tanto a una settimana passata insieme a Los Angeles in cui ho cercato di fargli fare tutte le cose più belle e più divertenti che potevo. Cose che non faceva da anni, siamo andati in giro, ho invitato a cena John Voight, abbiamo visto Sylvester Stallone, gli ho perfino organizzato una serata con la baby-sitter di mio figlio, Lola, che lo aveva colpito. Si era divertito come un pazzo. All'aeroporto, con gli occhi lucidi, mi disse "grazie di tutto". È stata l'ultima volta in cui l'ho visto, ho ancora i brividi a ripensarci».

Un padre molto bello può essere un peso, lei lo ha sentito?

«Mio padre diceva "tu hai un tuo modo di essere bella, sei affascinante, che è molto più importante". Mi ha comunicato auto-stima. Il problema sono state le critiche crudeli, quelle di chi ancora oggi continua a ripetere "eh, però il padre era molto più bello". Ma è colpa mia se sono nata così? Non ho scelto io di essere come sono». 

Come nasce l'amicizia con Asia Argento?

«Sul set del film del padre Tenebre, lei aveva 12 anni, io 16, la snobbavano tutti, era la più piccola del gruppo, io invece pensavo fosse molto intelligente. Ancora oggi mi dice "tu mi hai capita in un momento in un cui non stavo simpatica a nessuno". Leggevamo insieme le poesie di Hermann Hesse e ci commuovevamo».

Lettera di Vera Gemma a Dagospia venerdì 8 settembre 2023.

Caro Dago, ma ti pare normale che nessuno mi faccia lavorare in Italia? Zero, nessuna proposta, faccio fatica persino ad essere invitata in un programma televisivo. Magari avrebbero potuto raccontare il Leone d'Oro vinto lo scorso anno a Venezia (Sezione Orizzonti) come miglior attrice con “Vera”, il film diretto da Tizza Covi e Rainer Frimmel. 

Un film che ha partecipato ai più importanti festival europei (Rekiavic, Rotterdam, Les Arc, etc.) e vinto dieci importanti premi, di cui 4 come migliore attrice. Nel mio piccolo ho portato il nome dell'Italia nel mondo uscendo persino con una critica meravigliosa sul mio lavoro sul “New York Times”, dopo una prima strapiena al Moma, il museo d’arte moderna più importante del mondo. 

Nessuna attrice italiana al momento sta avendo questi risultati all’estero. Me ne dovrei fregare? No, non me ne frego perché sono italiana e non sono famosa per tenere la bocca chiusa. Tutto questo succede perché non intrallazzo, non lecco il culo, non scopo con chi mi può servire. 

Semplicemente mi limito ad essere un'artista mio malgrado (non è mai davvero una scelta ma una condizione con cui si nasce involontariamente). Io non faccio mai vittimismi ma trovo ingiusto da parte del mio paese tappare sempre la bocca a chi avrebbe qualcosa da dire e valorizzare sempre e solo il banale politically correct e l'assenza totale di contenuti. 

Detto questo io non mi sento superiore a nessuno ma di certo neanche inferiore a ciò che da anni mi tocca vedere in giro. Un'assoluta banalità rassicurante e lobotomizzante in modo da mantenere il pubblico rincoglionito - che tra l'altro viene puntualmente sottovalutato ed è sempre meno scemo di quello che gli altri stupidamente pensano.

Vera Gemma

La recensione di Jacques Mandelbaum per “Le Monde” venerdì 8 settembre 2023. 

Tizza Covi, italiana, e Rainer Frimmel, austriaco, si sono conosciuti negli anni '90 all'Università di Arte e Design di Vienna e lavorano insieme dal 1996. Nel 2002 hanno fondato insieme una società di produzione, poi nel 2009 hanno realizzato il loro primo lungometraggio. …. 

La svolta arriva con “Vera” che non ci fa piacere a priori il personaggio, almeno così come ce lo rivela il film. Completamente rifatta sulla cinquantina, bimbo con uno Stetson bianco e lunghi capelli ossigenati, Vera è un'attrice fallita, una demi-monde che va alle feste e posta su Internet i suoi eccessi notturni. Il film sarebbe inutilmente crudele se si accontentasse dell'immagine che questo prologo fa della sua eroina. Ma, accettiamo la scommessa, nessuno spettatore o spettatrice lascerà la sala senza essere fraternamente innamorato di Vera. 

Figlia di un attore molto popolare in Italia – Apollo Giuliano Gemma (1938-2013), protagonista di pepli e spaghetti wester – giura a questo padre un disperato sentimento filiale. A lui deve la vocazione di attrice e questo culto della bellezza che l'ha portata a non sopportare gli oltraggi dell'età. Ed eccola oggi, inerme, davanti alla macchina da presa di Covi e Frimmel, trapiantata in un calvario pasoliniano. 

Il suo vecchio autista – il massimo lusso che si concede dopo aver dilapidato in fretta l'eredità paterna – investe in bicicletta un ragazzino. Il padre Daniel, un sottoproletario romano, minaccia il proprietario del veicolo di denunciarla. Non ne ha bisogno. Vera, devastata dall'incidente, per di più spremuta da un cineasta gigolò che vuole solo i suoi contatti e i suoi soldi, è molto generosa con la famiglia e prova un vero affetto per il piccolo, la cui madre è assente. 

Da cosa nasce cosa e tra lei e Daniel si instaura un rapporto più intimo, ma non sarà certo che sfugga al crudele destino della piccola ricca ragazza condannata a non trovare mai la felicità. Il personaggio ricorda, sotto questo aspetto, quello di Taelor, la figlia di un miliardario texano che Nicolas Peduzzi ha filmato nel suo amaro documentario Southern Belle (2017). 

Ma c'è più dolcezza nel film di Tizza Covi e Rainer Frimmel, tra la parte strettamente documentaristica del film e la favola concertata che la cristallizza. L'ultimo frame è in un bar romano dove si confida con un barista. 

Il viaggio solitario in taxi sulle note della struggente "Dedicato" (1979), di Loredana Berte. L'esilarante casting sulla vita di Schopenhauer in cui fallisce, ma nel quale dimostra al cineasta conoscenza e amore per il cinema. La fuga stravagante con Asia Argento, un'altra figlia di celebrità, sulla tomba del figlio senza nome di Goethe. La semplicità del cuore che avvertiamo in lei sotto l’apparente vanità. Tanti momenti fanno apparire Vera sotto una luce che, sospettiamo, le somiglia di più. 

La sua umanità, la sua profonda intelligenza, la sua lucidità sul mondo e su se stessa, anche la sua intima sofferenza, senza dubbio, ci commuovono, e ancor più ci conquistano. Questa figlia dell'ombra - perché la bellezza e la fama di suo padre l'hanno sempre schiacciata, perché non è mai riuscita a liberarsi dell'idea di non meritarlo - ha così trovato, grazie a questo film, la sua luce.

Estratto dell'articolo di Federico Brunamonti per ilsole24ore.com venerdì 11 agosto 2023. 

La immaginiamo accompagnata in calesse dal suo cocchiere con una scheggia di ferro in testa, Walter, fino alle porte del MoMA. Ad attenderla c’è una ristampa in 4K di uno straordinario screen test di Katharine Hepburn, in costume e nel personaggio di Giovanna d’Arco, l'Amazzone che osava sentire le ‘voci'. Sperimentale, fuori da ogni color. Vera Gemma è la nuova Hepburn/d'Arco di New York.

Il Cinecolor, il Dufaycolor e il Prizmacolor si slacciano all'ombra dei suoi tacchi roventi Jimmy Choo. All'angolo con la Quinta Strada fa il suo ingresso in una sala dove il Bene è tanto: chi è volato dall'Austria, chi da Roma per assistere alla prima americana di Vera di Tizza Covi e Rainer Frimmel, una cometa di film sempre in viaggio, dalla Mostra del Cinema di Venezia (in concorso nella sezione Orizzonti) a 34 festival non-stop in tutto il mondo.

Il MoMA diventa la bottega ideale per vedere i Super8 della famiglia Gemma scorrere a ritmo di Una pistola per Ringo.

[…] È la ‘vita vera' che Vera cerca con la sua “voce da gitana urlante flamenco e pasto caldo”. Come parecchi figli d'arte, vuole bene a bambini impossibili da salvare, perché la mattina dopo già non esistono più. I clown del Circo la danno in tutta fretta in pasto a numeri ad alto rischio. Ma Vera è la prima a sacrificare sé stessa per quel pantheon di meccanici d'auto e attori disperati. Non ha paura.

Il sito aggregatore di recensioni Rotten Tomatoes è a quota 100% per Vera a pochi giorni dal suo atterraggio a New York. In un momento in cui Barbie supera il miliardo di dollari al botteghino, Vera, nel film, ricorda al suo chirurgo che sono passati dieci anni dalle ultime protesi e che vorrebbe degli impianti più grandi: “Ma come? Più grandi di così? Tu sei bionda, alta, magra, sexy. Sembri una Barbie. Una Barbie italiana ma sempre Barbie sei. Fammi vedere con le mani come le vorresti queste tette. Piene, eh? Tirate. Come Dolly Parton. Fantascienza. Più tette che anima”.

È la favola doppiamente animata di Vera Gemma: da un lato il delirio, l'euforia della bellezza e le amiche strippers (da maggio) alla ricerca di un voto sindacale in California, dall'altro il voler esaudire tutti i suoi desideri in una notte. “Ogni volta penso che questo lungo sogno prima o poi finisca” confida. “E invece non finisce mai”. Vera ricorda il carnevale agrodolce de La Strada di Fellini. Gemma come Gelsomina ma senza il saltimbanco-zingaro Zampanò.

“Ho perso mia madre a diciannove anni e mio padre in un incidente stradale all'improvviso. Sono cresciuta con un forte senso della dignità nello sputtanarmi, fino in fondo, come essere umano. Ho sempre avuto pudore nel dolore. Ecco perché credo così tanto negli altri. I miei angeli custodi? Mia madre Natalia e mio padre Giuliano. Mio padre era con me a Venezia quando ritiravo il premio come miglior attrice, ed è qui oggi. Mio padre ci sarà sempre: lui sono io”.

Alberto Dandolo per Dagospia l’1 aprile 2023.

Se mi fate scegliere tra stronza o troia preferisco troia, stronza mi offendo. Tra intellettuale e troia? Troia. Questo leone d’oro mi fa distogliere l’attenzione dal fatto che sia troia, che è la prima cosa che conta”. 

 Inizia a gamba tesa l’intervista di Vera Gemma a La Zanzara su Radio 24 che incalzata dai conduttori poi continua: “Sono venuta qua, a spese mie pagandomi il treno, con la frusta di quando facevo la domatrice per far vedere a Cruciani che lo posso domare”

 “Se mi dicono troia per strada? Se mi dice brutta troia mi incazzo, mentre facciamo sesso invece mi piace. Nel sesso o domino o sono dominata - dichiara Vera Gemma a La Zanzara su Radio 24 - se vuoi esser dominato ti devi sottomettere. Non sono mai single, perché bisogna mirare a una situazione stabile come punto di arrivo, a me piace cambiare. Se uno mi fa innamorare rimango stabile”.

Non ho mai trombato in un treno. Ho fatto quello che ho fatto, semplicemente io lo dico, gli altri no. Non temo il giudizio della gente - prosegue Vera Gemma. Sesso con più persone? No, non mi piace. Una volta con due uomini ma ho manie di protagonismo, non mi son divertita”

 “Dominarli sessualmente? Si mi piace, una volta stavo con un domatore. Era tanto coraggioso in gabbia e nella vita privata voleva essere sodomizzato. Il circo? L’amore che hanno i circensi per gli animali è inimmaginabile, gli animali del circo sono nati al circo, quella è la loro casa, lontano dai loro domatori stanno male. I miei leoni mi amavano”

 “Ho un problema di esaltazione - afferma Vera Gemma a La Zanzara - penso di essere più figa di quello che sono. Con la Marijuana si scopa meglio, eroina si scopa meglio, ecstasy fantastica, cocaina no ma non son mai stata dipendente. Legalizzerei la Maria, le altre no. Ho vissuto sei anni in California dove è legale, non le cerco e non le compro. Ho sempre avuto un rapporto disincantato con le droghe. Chirurgia estetica? Mi sono rifatta le tette una volta, in faccia ho rifatto il naso e punturine”.

Ho preso molta ispirazione dalle transessuali, l’ostentazione della femminilità, se sei sexy se sei donna non sei credibile. Sono a favore dei bordelli - conclude Vera Gemma a La Zanzara - tolgono le ragazze dalla strada. La prostituzione è una forma di generosità, amo le prostitute e a mia volta l’ho fatta. Facevo la spogliarellista a Los Angeles e mi è capitato di accettare dei soldi per il sesso. Lo rifarei? Non è una cosa che cerco, ma è un vizio. Se lo hai fatto, puoi rifarlo.

Vera, figlia di Giuliano Gemma: «In famiglia era proibito ingrassare, meglio diventare dipendenti dell’eroina». Storia di Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 16 marzo 2023.

Non è facile avere genitori famosi, e per Vera è stata dura avere un padre ingombrante e bello come Giuliano Gemma. Vera è cresciuta in una famiglia nella quale, fin da piccola, l’estetica era un valore assoluto, sopra ogni cosa. «Per i miei genitori era una vera e propria ossessione, era proibito ingrassare, meglio allora diventare dipendenti dell’eroina» ha detto l’attrice nel presentare Vera, già alla Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia nella sezione Orizzonti (dove ha vinto per la regia e la miglior attrice) e ora dal 23 marzo nelle sale italiane con Wanted.

Diretto da Tizza Covi e Rainer Frimmel, il film vede protagonista appunto Vera Gemma nei panni di se stessa, una donna non troppo felice, buona, che vive tra provini finiti male, uomini che la sfruttano, shopping di lusso e amicizie piene di affinità, come quella con Asia Argento. Cappello western in testa, Vera sembra avere come unica mission la ricerca della sua identità. Quando il suo autista investe un bambino di otto anni e lo ferisce in una zona periferica di Roma, la donna, piena di sensi di colpa, inizia con lui e suo padre un’intensa relazione. Ma presto si renderà conto che, nonostante tutta la sua buona volontà, c’è sempre qualcuno pronto ad approfittarsi della sua generosità.

A proposito del film, alla domanda: sono veri i provini falliti del film, ha risposto: «Sì certo. C’è di vero che non mi hanno mai presa. C’era sempre un ‘ma’ nei miei provini, qualcosa che non andava». Il film è stato certamente una svolta nella sua vita: «Per la prima volta mi sono messa completamente a nudo, senza nessun pudore e non avendo paura di far vedere che mi metto l’extension e che mi sono rifatta».

E ancora: «Non ho smesso di sognare perché sono una combattente. Ho scoperto che ci sono altri modi per poter essere artista. Sono stata spogliarellista a Los Angeles e domatrice di leoni e tigri. Insomma non mi sono fatta mancare nulla. Sono andata poi all’Isola dei famosi per mostrare di avere coraggio: avevo fame come tutti gli altri, ma non mi sono mai lamentata. Sapevo che quella fame sarebbe finita presto e poi stavo lavorando, mi stavano pagando. Perché allora lamentarsi come facevano tutti?».

Vera Gemma confida che ora «mi sento meno brutta, mi accetto di più e mi accorgo anche di piacere agli uomini. Per tutta la vita ho avuto invece il senso di colpa di non essere bella come mio padre, ma non tutti possono essere all’altezza di un modello ideale».

L’indagine dopo la denuncia dei familiari che sostengono che vennero sottovalutati i continui allarmi sulla pericolosità del fratello Alberto. Proprio ieri ne è stato chiesto il rinvio a giudizio

Si potrebbe aggravare la posizione di quanti sottovalutarono la potenziale pericolosità di Alberto Scagni, il 42enne che il primo maggio dello scorso anno a Genova massacrò con 17 coltellate la sorella Alice, di 34 anni. Due agenti della centrale operativa di Genova e la dottoressa del servizio di Salute mentale sono stati infatti indagati anche per morte come conseguenza di altro reato. Si tratta degli stessi soggetti già indagati, ma per i reati di omissione d’atti d’ufficio e omessa denuncia. In sostanza la nuova ipotesi d’accusa mira a dimostrare che la sottovalutazione dei ripetuti allarmami lanciati dai familiari di Alberto Scagni abbiamo determinato il tragico esito, cioè l’uccisione della sorella.

Una tesi più volte sostenuta dai genitori di Alice Scagni e formalizzata in un esposto depositato lo scorso settembre tramite il loro legale, l’avvocato Fabio Anselmo. Per i genitori, dunque, non si trattò solo di omissioni ma di comportamenti gravissimi da cui derivò la morte della figlia. Nella denuncia, come del resto hanno fatto in diverse interviste, i genitori ricostruiscono la sequenza di violenze ed intimidazioni da parte di Alberto Scagni nei confronti dei genitori stessi e di altri familiari. «Chiari segnali — ha più volte detto la mamma di Alice, Antonella Zarri— che Alberto era ormai una bomba pronta esplodere da un momento all’altro. Un potenziale pericolo che è stato sottovalutato». Prima dell’omicidio Alberto Scagni aveva più volte minacciato i genitori con pressanti richieste di denaro. In piena notte aveva preso a pugni la porta di casa della nonna, tentando poi di dar fuoco all’ingresso dell’abitazione. E anche la sera prima, quando la madre aveva sollecitato l’intervento della polizia si era sentita rispondere che «era festivo e, se voleva, l’indomani poteva presentare una denuncia»

Propio ieri la Procura di Genova ha chiesto il rinvio a giudizio per Alberto Scagni, per omicidio volontario, aggravato dalla premeditazione e dalla crudeltà. L’uomo è stato sottoposto a perizia psichiatrica. Secondo il perito del Gip Scagni è semi-infermo di mente, ma capace di stare in giudizio. Il consulente della Procura lo aveva invece definito pienamente capace. L’udienza preliminare è prevista per il prossimo 4 aprile davanti al giudice Matteo Buffoni. Accanto all’inchiesta principale per l’omicidio di Alice ci sono poi i due filoni che riguardano chi, come sostengono i familiari, ne sottovalutò il pericolo. In una si ipotizza solo l’atteggiamento omissivo delle forze dell’ordine e del Servizio di Salute Mentale, nell’altro l’accusa più grave di morte come conseguenza di altro reato.

Veronica Maya: “Mi godo la vita al di là dei pregiudizi”. Redazione su L'Identità il 7 Giugno 2023

di FRANCESCO URRU

Esordisce come attrice di teatro recitando in svariati musical, da vent’anni tiene compagnia agli italiani in tv in tante trasmissioni ed eventi Rai. Moglie e mamma, ha condotto con dolcezza e garbo Lo Zecchino d’oro e questo le ha permesso di diventare uno dei volti più seguiti della tv.

Hai lavorato come attrice e conduttrice televisiva, a quale delle due attività sei più legata?

Sono due mondi diversi, ma si intersecano; io ho iniziato come attrice teatrale, recentemente ho avuto anche diverse esperienze per il grande schermo con due film con la regia di Mario Parruccini, “Passepartù – Operazione Doppiozero” e “Magari Resto”, però le persone mi conoscono fondamentalmente come presentatrice televisiva. Attraverso l’esperienza acquisita, in ogni lavoro cerco di mettere insieme questi due mondi, in qualche modo, però sono ben consapevole che la mia riconoscibilità e l’affetto del pubblico che ricevo è dovuto al mio lavoro di conduttrice e dai programmi in tv; posso dire che per me quelli più significativi, sono stati Lo Zecchino d’oro che ho condotto per dieci anni e Verdetto finale presentato per altri sei e che veramente mi ha permesso di raggiungere una grande popolarità; non posso non citare per affetto Città del Sud che è stato il mio primo programma su Rai Uno che mi ha consentito di viaggiare in tutto il mondo, visitando 50 paesi.

Qual è la tua caratteristica personale che inserisci nel modo di lavorare, qualcosa che rende al meglio quello che realizzi e ti mette a tuo agio?

L’empatia, quindi cercare di capire il pubblico che ho davanti, il target a cui è riferito il programma e quindi metterci tanta verità, metterci sempre una parte di me, per cui il pubblico che si riconosce perché sente questa autenticità in qualche modo; poi il garbo e sensibilità con il pubblico anche femminile di ogni età in modo da non generare mai fastidio. Certo, piacere a tutti e è quasi impossibile, quindi la mia ambizione è quella di creare garbo, risultare elegante e raggiungibile.

Esiste un tuo sogno segreto privato che vorresti realizzare?

Sono molto risolta, sto bene con me stessa, sto bene con il mio percorso lavorativo, con i tra alti e bassi ma sto bene, ho una famiglia che ho costruito e che mi godo e che vivo al di là dei pregiudizi che magari uno può avere, ma io mi sento una mamma presente, una mamma felice, una donna che ha fatto vent’anni di carriera, che continua a lavorare sempre con grande rispetto. Il mio sogno ecco è poter per continuare in questo balance, ecco, sarebbe già un bel risultato e questo equilibrio c’è in tutti i momenti che fanno parte della mia vita.

Percepisci invidia o solidarietà dai colleghi e dalle colleghe?

Percepisco molta stima e molto affetto da parte di tante persone, anche se nell’arco dei miei vent’anni ci sono state delle persone che magari hanno provato a togliermi qualcosa o mettere qualche ombra su di me. Magari mi hanno temuto per la professionalità o per le mie capacità. Io sono una che non va mai a contrasto, penso di saper gestire molto bene anche questo aspetto. Lavoro, faccio il mio, mai a danno di qualcuno. Tutto quello che ho fatto non l’ho mai tolto a nessuno, mai scippato a nessuno: quello che ho me lo guadagno e me lo sono guadagnato.

Ricordi un episodio lavorativo che ti è rimasto nel cuore?

Sono tanti, perché veramente ho avuto bellissime persone con cui io ho lavorato e condotto: penso a Paolo Conticini, Paolo Belli, Pino Insegno. Abbiamo sempre unito al lavoro anche nei momenti di amicizia, di condivisione. Ripercorrendo il passato, ricordo un momento molto tenero, quando avevo partorito Tancredi, il mio secondo figlio; aveva tre mesi e io conducevo lo Zecchino d’oro, ho cantato una ninna nanna che quindi idealmente è una “ninna mamma” che il bambino canta alla sua mamma; ero seduta per terra, al centro della scena e con me c’era il Piccolo Coro dell’Antoniano di Bologna. Avevo tra le braccia il bambino, lo cullavo mentre cantavo questa ninna mamma con il Piccolo Coro: quello televisivamente è uno dei momenti miei più belli.

La tv di oggi che direzione sta prendendo?

I momenti di grande trash li abbiamo più che superati e già scavalcati, va detto che ci deve essere una netta distinzione dei canali che guardi; devo dire che la Rai offre ancora la possibilità di scelta di programmi di qualità. Chiaro che se poi una persona vuole sintonizzarsi sui reality o altre trasmissioni diverse è una propria scelta. Sicuramente non si può dire che in Rai ci siano programmi trash.

Stai preparando qualcosa di nuovo per quest’anno?

Nel 2023/2024 compio vent’anni in Rai e sto preparando una sorpresa per festeggiare, lavorando ad un bel programma.

Estratto dell'articolo di Mario Manca per vanityfair.it il 4 giugno 2023.

Quando mi lascio scappare di avere il torcicollo, Victoria Cabello si rimbocca subito le maniche: mi consiglia un fisioterapista - lo stesso che ha girato a Martina Colombari una volta tornata da Pechino Express -, mi raccomanda di acquistare al più presto un tappetino per agopressione e, non contenta, mi ordina di prendere un antinfiammatorio dopo cena. 

«Sono come Carlo Verdone. Nei miei contatti ho più medici che amici», scherza Victoria al telefono. È pronta a tornare in televisione in Victoria Cabello - Viaggi Pazzeschi, il nuovo programma in cui è protagonista al fianco dell'amico Paride Vitale in onda su TV8 a partire dal 23 maggio, a sei anni dalla sua ultima esperienza come conduttrice. Nel suo nuovo format, un inedito travel show ideato e prodotto da Banijay Italia, Victoria e Paride sono pronti a preparare di nuovo le valigie e a imbarcarsi in un viaggio che li porterà in sei diverse città, da Helsinki a Marrakech, nelle quali tre italiani che si sono trasferiti lì da tempo proporranno loto delle esperienze insolite, lontane dai convenzionali tour turistici. 

(...)

Secondo lei il pubblico di Rai3 lo seguirà sul Nove?

«Quando cambi rete il pubblico si deve abituare, ma lui ha uno zoccolo duro affezionatissimo, e penso che lo seguirebbe in capo al mondo. Sono da sempre una sua grande estimatrice, considerando anche di essere arrivata a Quelli che il calcio dopo di lui e Simona Ventura, che è stata una apripista a tante donne in tv. È stato un onore proseguire quello che loro due avevano iniziato, anche perché mi sembrava impossibile che avessero chiesto proprio a me di prendere il timone di un programma storico come quello». 

Il suo Quelli che il calcio è stato seguitissimo dalla comunità Lgbtq+.

«È stato un grande risultato portare a un programma Rai così famoso un pubblico nuovo: sono molto orgogliosa di esserci riuscita».

Michela Murgia ha recentemente parlato della sua queer family, ma anche Victoria Cabello ne ha una, e Paride ne fa parte. 

«Michela, che ho avuto la fortuna di conoscere alla presentazione di un libro un po' di anni fa, è una donna di un'intelligenza, di un garbo e di una grazia unici: la sua voglia di celebrare la sua queer family è bellissima, e in questo mi sento senz'altro affine a lei.

Tralasciando il fatto di essere consapevole che senza quello zoccolo duro probabilmente oggi non sarei qui, posso dire che io una queer family l'ho avuta da sempre: come diceva D'Agostino, sono gay dalla vita in su. Sono le persone dalle quali traggo più ispirazione». 

Quando ha iniziato a costruire questa famiglia?

«Da giovanissima. Ho sempre avuto una visione molto aperta rispetto al mondo e alle persone: adesso si parla molto di inclusione e di diversity, ma io le ho sempre praticate a mia insaputa. I diritti sono fondamentali e per tutti, non ho mai fatto distinzione in base all'orientamento sessuale e alla provenienza. Valuto le persone per quelle che sono, anche nel gruppo di lavoro: avere avuto molti autori gay per me è stato un vanto, anche quando me lo facevano notare gli esterni». 

E adesso torna in tv: sente più pressione o euforia?

«La pressione un po' la senti sempre: spero che il programma piaccia e che sia in linea con le aspettative del pubblico. Mi piace sperimentare e mettermi alla prova: a questo giro sentivo l'esigenza di provare a fare qualcosa di nuovo sulla spinta di Pechino. Non avrei certo potuto fare Alberto Angela». 

Poteva scegliere di tornare da sola, invece ha voluto con sé Paride: perché?

«Mi sono detta: con Paride ho fatto alcuni dei viaggi più divertenti e assurdi della mia vita. Quando mi hanno proposto un programma che prevedeva dei viaggi non convenzionali, ho capito che Paride era la persona più giusta: se mi devo trovare in situazioni di merda preferisco viverle con lui. L'idea di vivere il viaggio con il tuo migliore amico è un'altra cosa rispetto a viverlo da sola». 

Mai pensato che partecipare a Pechino Express poteva rappresentare un'occasione per avere un programma tutto suo dopo?

«Sicuramente. Ero stanca di stare a casa a non fare niente: Pechino me lo proponevano da anni e, quando mi sono sentita pronta a farlo, ho anche pensato che poteva essere un grosso rischio. Ho lavorato tanto con la mia psicologa che si è messa d'accordo con Banijay, Costantino della Gherardesca e il mio agente: grazie a quel programma ho vinto le mie paure e ho deciso di affidarmi. Non ero abituata: ho sempre guidato io i miei programmi, ma tornare in tv con una cosa provante dal punto di vista fisico e psicologico mi sembrava la prova del nove. Mi ero detta: se esco viva da qui, vuol dire che posso tornare a fare il mio».

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Nei suoi programmi ha spesso costruito delle vere e proprie famiglie. Penso ad Arisa, a Geppi Cucciari e a Virginia Raffaele. È rimasta in contatto con loro?

«Arisa è molto carina, ogni tanto mi manda qualche messaggio: è una persona vera, e sono molto contenta del successo che ha avuto sia a livello musicale che come intrattenitrice. A Geppi voglio molto bene: abbiamo delle vite incasinate, ma ogni tanto riusciamo a vederci anche con Paride. Virginia, invece, non l'ho più né vista né sentita».

Virginia Raffaele è letteralmente esplosa proprio nei suoi programmi: prima a Victor Victoria e poi a Quelli che il calcio.

«Dopo Victor Victoria è arrivata a Quelli che il calcio con Simona Ventura, ma l'esplosione l'ha avuta quando sono arrivata io: sapevo come sfruttare al meglio le sue qualità, mi sono battuta affinché lei e Ubaldo Pantani non facessero solo i collegamenti ma intervenissero anche in studio. Io e gli autori, poi, abbiamo anche insistito sulla scelta dei suoi personaggi: da Belén alla Minetti. Sono una grande fan di Serena Dandini, che ha scoperto e lanciato tantissimi talenti: io non credo di averli scoperti, ma senza dubbio li ho valorizzati. Il mio talento forse è capire il potenziale di una persona e cercare di darle luce. Mi spiace che nelle interviste di Virginia sembra che non abbia mai lavorato con me».

Ho ripensato a Victor Victoria quando, intervistata da Belve, Concita De Gregorio non si ricordava di aver compilato la sua agenda quotidiana con lei.

«Aveva un'agenda incasinatissima perché all'epoca era direttrice dell'Unità. Ricordo poi anche quella battuta meravigliosa alla Gregoraci su Marx».

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Lei Sanremo lo ha co-condotto nel 2006: ci tornerebbe?

«Certo, ci sarei tornata anche l'anno scorso. Si dice spesso di non tornare sul luogo del delitto, ma io ne uscii in piedi».

Da chi vorrebbe farsi massaggiare i piedi, stavolta? Nel 2006 glieli massaggiò John Travolta.

«Farei qualcosa di diverso: pogherei di nuovo live con la Meloni. All'epoca di Victor Victoria era stata molto disponibile, accettò di fare tutto. Ho avuto meno difficoltà con lei rispetto a tanti del mondo dello spettacolo che dovrebbero fare quello di mestiere».

In tutte le sue ultime interviste scappa sempre una domanda sui figli che non ha avuto: perché arriva?

«Forse perché siamo in Italia e ti insegnano che se non sei sposata e non hai fatto figli non sei completa. Sono molto serena nell'aver fatto questa scelta: poteva anche capitare, ma non è successo. Chissà, forse sarei stata anche una madre egoista, ma non sono dispiaciuta di non averli fatti. Ho tante amiche e mia sorella che li hanno: sono contenta di fare la zia, anche se ammiro tanto le persone che fanno quella scelta, che reputo molto coraggiosa. Forse io non ho tutto questo coraggio».

Ha parlato spesso del rapporto sereno con i suoi ex: possibile che non abbia mai provato un pizzico di gelosia?

«No, quando una storia è finita, è finita. È vero che il risotto al salto è buono anche il giorno dopo, ma quando chiudo, chiudo. Ho degli ex che stanno con delle mie amiche e sono felicissima per loro: se hai voluto bene a una persona, vuoi il suo bene e basta».

E nei rapporti è gelosa?

«La gelosia spesso è frutto di insicurezza: ci saranno stati dei momenti in cui mi sarò sentita minacciata, ma sono cose normali della vita. Mi dispiace solo quando le persone ti danno per scontata, quello sì».

Nella sua ultima intervista a Vanity Fair ha detto che non le sarebbe dispiaciuto un trombamico: si è fatto avanti qualcuno?

«A chi è che dispiacerebbe un trombamico? Non vedo cosa ci sia di male. Se c'è una persona con cui stai bene anche nell'intimità, perché no?».

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Estratto dell'articolo di Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 18 luglio 2023.

Vincenzo Salemme si difende dal caldo nella bella casa al quartiere Prati, a Roma: aria condizionata, crema di caffè e una finestra che incornicia San Pietro, come fosse un quadro. Quasi cinquanta anni di carriera, l’amore del pubblico (di cui non dubita, ma quando parla del successo è quasi imbarazzato), ironico con un fondo di malinconia, 

la prossima stagione sarà protagonista di Natale in casa Cupiello di Eduardo De Filippo (debutta il 21 ottobre a Orvieto, sarà al Diana a Napoli a novembre, poi in giro per l’Italia) e prepara una serata di teatro per la Rai. «Vedremo se sarà una commedia nuova, rotonda, tipo Napoletano? E famme ‘na pizza o “il meglio di”. Non lo sappiamo ancora, dovrebbe essere in aprile. L’anno scorso il teatro in diretta televisiva è andato benissimo, mi fa piacere. Ma non è un’impresa facile».

(...)

Come fu l’incontro con Eduardo?

«Arrivai da Bacoli a Cinecittà, me lo presentò il mio amico Sergio Solli. Eduardo uscì dallo Studio 5, era una pausa della registrazione di Natale in casa Cupiello . Aveva lo scialletto sulle spalle, profumava di lino e un po’ di borotalco. Era gracile, ricordo che gli presi la mano e disse: “Non stringete”. 

“Diretto’” gli dissero, lo chiamavano così, “sto guaglione vorrebbe fare la comparsa”. “No”, rispose lui “facciamogli dire qualche battuta cosi prende la paga da attore e non da comparsa”. Mi aveva visto talmente magro che pensava non mangiassi da chissà quanto tempo». 

Era severo?

«Mi vedeva come un nipote, sentiva che gli volevo bene, avevo una sola ambizione: recitare. Un giorno chiese: “Chi vuole fare i sipari?”. Oggi sono stati inventati quelli elettrici, ma una volta si faceva tutto a mano, e quando c’erano le chiamate finali, per raccogliere gli applausi del pubblico, aprivi e chiudevi. Ero piccolo ma forte, il velluto era spesso, pesante, era una grande fatica. Ammirò il coraggio». 

(...)

Fabio Fazio a “Che tempo che fa” l’aveva ironicamente trasformata nella vittima sacrificale. “Lui ha vinto premi, tu, Vincenzo, no” e via così. Com’è nato quel gioco?

«Non ero mai andato da Fazio, mi chiamò Luca Bottura per invitarmi, ricordo che ero in scena al Manzoni di Milano. Mi stupii, era come se non esistessi, non mi aveva mai chiamato. Arrivai in studio, ci salutammo con Fabio e glielo dissi: “Non mi hai mai invitato prima”. Nacque una gag comica. Così rilanciò: torni? È durata un paio di stagioni, ci siamo divertiti, scherzavamo, il bello è che il pubblico prendeva le mie parti. E anche quando non sono più andato mi fermavano: “L’ho vista da Fazio, che divertente”». 

Ha lavorato con Vanzina, Tornatore, Martone. Ha girato ben tre film (“Sogni d’oro, “Bianca”, “La messa è finita”) con Nanni Moretti: come nacque il rapporto?

«Eravamo entrambi vivaci, ci piaceva giocare a calcio, diventammo amici. Veniva al mio paese, a Bacoli, in famiglia. C’era un’affinità nella visione del mondo, una certa distanza dalle polemiche, dalle risse inutili: ci piaceva il lavoro come divertimento. Poi ci siamo persi, non so perché, la vita è così».

E il legame con Vanzina?

«Unico: era un amico, un gentiluomo. Sui set dei film di Carlo — ne ho girati otto con lui — nelle pause mi addormentavo, tanto ero rilassato. Era un uomo di una cultura incredibile, penso a lui ogni giorno».

Chi la fa ridere?

«Il mio mito sono Stanlio e Ollio, hanno tutto: l’innocenza, la cattiveria, poi erano una vera coppia. Meravigliosi, facevano ridere con nulla, c’è quel film in cui devono trasportare un pianoforte e casca sempre. Un meccanismo a orologeria. Per me sono un gradino sopra Chaplin, che è il top. La commedia è un’arte, pensi a Billy Wilder, ma qui in Italia di maestri ne abbiamo avuti: non dimenticherei Mario Monicelli e Dino Risi». 

Il rapporto col successo?

«Mah. L’ho avuto gradualmente, non me ne accorgo».

Ha il dono della fede?

«Non sono credente né ateo. Solo speranzoso che ci sia qualcosa di meglio di là, a guardarci». 

Da ottobre a marzo sarà nei teatri più importanti con “Natale in casa Cupiello”: ha paura?

«Se avessi paura penserei di potermi misurare con Eduardo, non ci penso proprio. Sono divertito all’idea di rifare la commedia, non tradirò nulla, è un capolavoro. Io sono più giovane, già quello è il grande cambiamento». 

In autunno sarà anche al cinema con la commedia “La guerra dei nonni” di Gianluca Ansanelli. Di cosa parla?

«Con Max Tortora siamo due nonni, io sono quello che sta sempre con i tre nipotini, legatissimo a loro, li coccola, li segue. Lui invece è sempre assente. Ma a un certo punto il nonno giramondo affascinante riappare, li vizia e me li ruba».

Rimpianti?

«Non aver avuto figli. Per colpa mia, e so che non avrei potuto fare altrimenti, visto il mio carattere complicato. Avrei voluto essere diverso. Ma è andata così: un figlio è l’unica cosa che mi manca nella vita».

Mattia Pagliarulo per Dagospia il 28 maggio 2023.

Un tour nazionale e un nuovo album musicale in arrivo. E, perché no, un ritorno a Sanremo nel 2024. L’icona sexy degli anni  ’80 Viola Valentino non lo conferma ma neppure lo smentisce, con le giuste condizioni. Brianzola, classe 1949, la cantante, ex modella, per due volte playmate di Playboy e attrice che ha fatto sognare e peccare più generazioni. 

Ultimamente ha fatto parlare di se per aver sposato, lo scorso anno, il molto più giovane di lei fidanzato. In questa intervista, la sempre affascinante Viola parla a cuore aperto dei suoi successi passati e del suo privato, senza risparmiare qualche frecciatina… 

D. Nel 1979 le femministe accusarono il tuo più noto brano, Comprami, di essere un inno alla prostituzione… invece?

R. Ma quale prostituzione! Le femministe non hanno mai avuto simpatia per questo brano, poi con il tempo hanno capito, spero, che non era un “comprami” inteso come lo si potrebbe intendere. Che si dovrebbe dire allora di Renato Zero con Mi vendo?! Lui si vende e io mi faccio comprare (ride). È la mia canzone, che conosco tutti, è la mia croce e la mia delizia. 

D. Nei primi anni ‘70 il gossip è impazzito per il tradimento del tuo allora marito Riccardo Fogli con la collega Patty Pravo, come lo hai scoperto? Hai mai avuto modo di parlare o vederti con la Pravo dopo il fattaccio?

R. Non lo chiamerei fattaccio, lo chiamerei un amore. Eravamo dei ragazzi e Riccardo si era innamorato di un’altra persona, alla fine non è nemmeno durata questa loro storia. Poi è tornato a casa Lassie, dopo Patty! Io non ho mai conosciuto questa signora. Non ho scoperto io il tradimento, mi è stato confessato da Riccardo con grande onestà. Ripeto, sono cose che si fanno quando si è molto giovani. Capita anche nelle migliori famiglie, il destino è pazzo e io ho subito una scelta del destino. 

D. Il produttore Giancarlo Lucariello, nel tuo momento di maggior successo, ha ritagliato per te un’immagine sexy ma dolce e raffinata, mai eccessiva. Ti rispecchiavi in essa o era una forzatura di copione?

R. Non c’era nessun copione, mi rispecchiavo totalmente in ciò. Sono sempre stata me stessa, sia sul palco sia nella vita. Non ho mai fatto stupidaggini, non mi sono mai esaltata. Raffinata, cerco sempre di esserlo; dolce lo sono di natura, sono un biscottino. Sexy non lo so, per alcuni posso esserlo, per altri no.

D. Nei primi anni ‘80 sei apparsa per ben due volte in copertina sul mensile erotico Playboy, raccontaci di quell’esperienza e se hai provato imbarazzo a posare senza veli.

R. Ma no, nessun imbarazzo. Rispetto a quelle di oggi, erano foto castissime. Io sono nata come modella prima di diventare cantante, quindi ero abituata a posare. A scattare fu uno dei più grandi e raffinati fotografi, Roberto Rocchi. Quando facevo la modella ho fatto foto in biancheria intima e altre di nudo per Ballograf, ma non si vedeva nulla, così come non si è mai visto da nessun’altra parte. Le foto su Playboy erano da casta Susanna, nessuno ha preteso cose più spinte da me, perché io non avrei acconsentito. 

D. Dopo le partecipazioni nel 1982 e nel 1983, rispettivamente con Romantici e con Arriva Arriva, al Festival di Sanremo, nel 1986 sembrava certa la tua scesa in gara con il brano Amore Stella, ma poi fu la Rettore ad essere scelta per interpretarlo. Dopo anni, ci racconti veramente che è successo?

R. Ti racconterei una bugia se ti rispondessi perché non me lo ricordo, quindi meglio non raccontare. Sia io che lei abbiamo cantato Amore Stella, ma non ricordo se prima l’ha fatto lei o prima io. È una reminiscenza volata via. Posso dirti, però, che è un bel brano, che mi piace e che nei miei concerti non lo canto, altrimenti la gente si addormenta. Se la cantata anche Rettore, ché se la chiami Donatella si incazza (ride), non c’è nessun tipo di problema… credo… almeno, per me no! 

(...)

D. Qual è la canzone a cui sei più legata e quella che invece senti meno tua?

R. La canzone a cui sono più legata è Sola del 1982, composta da Maurizio Fabrizio e Vincenzo Spampinato, colonna sonora del film diretto da Bruno Corbucci Delitto sull’autostrada, in cui ho tra l’altro recitato a fianco del grande Tomas Milian. Pensare che quel film non lo volevo nemmeno fare, fu il regista a convincermi dicendo che mi sarei portata dietro questa canzone tutta la vita. E così è stato. Sola è una piccola grande canzone d’amore che mi è rimasta nel cuore. Di brani che non sento miei non ce ne sono, ho le mie preferenze chiaramente. I miei brani mi piacciono tutti, qualcuno più qualcuno meno, fanno parte di me, della mia storia, della mia vita. Io non sono una cantautrice, sono un’interprete. Gli autori che scrivevano per me mi conoscevano e ci frequentavamo, quindi si ispiravano a me e alla mia storia, non mi proponevano brani “inadatti”, c’era collaborazione e scambio di idee.

D. Se penso al tuo 2006 mi vengono in mente due cose: Barbiturici nel the, l’ultima canzone che ha scritto e ti ha donato Bruno Lauzi prima di morire, e la violenta litigata televisiva fatta a Musicfarm con Loredana Bertè, che non è stata affatto tenera con te. Parlaci di entrambe le cose…

R. Non ricordo di preciso della litigata con la Bertè in tv, sono passati 17 anni, dovrei rivedere il video. E se non ricordo significa che ho fatto spallucce, che non l’ho presa in considerazione. Hai presente quando ti scrolli la forfora dalla spalla? Ecco, la stessa identica cosa. Ad ogni modo Loredana Bertè Non è una signora, questo è poco ma sicuro. 

Dopo questa affermazione mi odieranno tutti i fans della Bertè ma lei non è il massimo come essere umano. Però è simpatica dai, chiudiamola così. Barbiturici nel the è in assoluto l’ultima canzone che ha scritto Lauzi prima di morire, ed è un capolavoro. Non lo dico perché l’ha data a me, ma perché era bravo a scrivere questo tipo di brani. La prima volta che l’ho sentita me ne sono innamorata, peccato non sia stata una hit, meritava molto. Sia Lauzi sia questa canzone hanno avuto uno spessore importante per me. 

D. Ti rinfresco io la memoria, Viola. La Bertè disse che non sai cantare e che non hai mai saputo farlo, che sei la rappresentante numero uno della musica inutile. Ha inoltre negato di averti conosciuta e frequentata come amica.

R. È un’esaltata, lascia perdere. 

D. Nel 2019 hai confessato apertamente di essere affetta da un carcinoma che ti ha costretto a sottoporti a operazioni chirurgiche e cicli di chemioterapia. Come lo hai scoperto e, soprattutto, come stai oggi?

R. Ho scoperto di avere questo problema alla vescica facendo delle visite. Oggi sto benissimo, sto continuando a fare dei controlli periodici, Dio me l’ha mandata buona. Eviterei di aggiungere altro per non cadere nel patetico, e io non sono una persona patetica. Ho avuto questo problema come tante altre persone, c’è chi ce la fa e chi non ce la fa. Come si dice in spagnolo, “suerte”. 

D. Lo scorso anno hai sposato Francesco, di 34 anni più giovane di te. Cosa rispondi ai maliziosi e ai maligni?

R. Che sono dei cretini. Sono arretrati proprio nella mentalità. Se si sposa un uomo grande con una ragazza più piccola è un figo, se si sposa una donna grande con un uomo più giovane è una stronza che mantiene il partner. Ci si può innamorare di persone più giovani come ci si può innamorare di persone più grandi, non vedo dove sia il problema. L’amore è amore e non ha età. Prima di sposare Francesco sono stata fidanzata con lui 10 anni. Beata me che ho sposato l’uomo di 40 anni! 

D. Sappiamo che sei in tour in tutta Italia e che prossimamente uscirà un nuovo album. Televisivamente parlando, torneresti a Sanremo dopo 41 anni o accetteresti l’invito di prendere parte a un reality show?

R. Ho partecipato nel 2006 alla terza e ultima edizione del reality musicale Musicfarm su Raidue, condotto da Simona Ventura. Sono stata la prima eliminata dal gioco, rimandando in gara solo una settimana. 

Al Grande Fratello parteciperei pure, ma con gente normale non con vip. Per quanto riguarda Sanremo, tengo a precisare che dopo le mie partecipazioni negli anni ‘80 non mi sono più candidata e non ho più presentato pezzi alla commissione del Festival, tuttavia non è detto che non lo faccia l’anno prossimo. Se ci sarà un brano giusto e un produttore di un certo tipo sì, altrimenti no. Il festival di Sanremo è una vetrina importante e prestigiosa per ogni cantante.

Vittoria Belvedere: «Ho avuto proposte indecenti da due produttori famosi. Baudo mi ha dato sicurezza». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 10 9 agosto 2023.

L’attrice si rivela e racconta carriera e aneddoti personali: «Sono diventata famosa per caso, in Brianza ho capito cos'è il razzismo»

«Avrò avuto 7 o 8 anni e ho subìto vero e proprio razzismo, perché ero meridionale: una calabrese emigrata in Brianza». Vittoria Belvedere è nata a Vibo Valentia, da una famiglia di contadini. Aveva pochi mesi, quando si trasferirono a Vimercate. «Nel palazzo dove abitavamo — racconta l’attrice — c’erano tutte famiglie brianzole e, se in cortile giocavo con gli altri bambini, le loro mamme li portavano via dicendo: non giocate con lei, è una terrona. D’altronde già il mio nome era un marchio di meridionalità, e poi mio fratello si chiamava Santino, mio padre Giuseppe, mia madre Maria...».

Ne ha sofferto molto?

«Bè, certo non sono cose che fanno piacere, a volte mi vergognavo, ma in verità non ne ho sofferto poi tanto, in fondo non mi sono mai sentita veramente messa in un angolo. Prima di tutto avevo e ho una famiglia molto solida alle spalle che mi proteggeva, dicendo di non dar retta alle malelingue... inoltre avevo comunque un’amichetta con cui giocavo senza problemi. Mi è capitato più volte di sentirmi una terrona calabrese e, col passare degli anni, ho vissuto, come tanti altri ragazzi, episodi di bullismo. Però crescendo, mi sono resa conto che i bambini che mi facevano i dispetti in realtà non agivano per cattiveria... insomma, non era colpa loro, ma dei loro nuclei familiari... E, ripensandoci, mi viene da sorridere. Non mi sono mai permessa di rinnegare le mie origini, anzi, ne vado orgogliosa».

Quando è diventata famosa, anche e soprattutto grazie alla sua partecipazione al Festival di Sanremo, quelle mamme le ha più incontrate?

(Ride) «C’è sempre una ribalta nella vita... E pensare che volevo rifiutare la proposta di Pippo Baudo, non mi sentivo all’altezza del ruolo, non pensavo di essere adatta alla diretta televisiva, al vastissimo pubblico, ai giornalisti, alle conferenze stampa... Ripetevo a Pippo: non sono capace di farlo! E lui: non ti preoccupare, ti proteggo io... E mi sono lasciata trascinare. Inoltre, una troupe della Rai era andata nel paese originario di mio padre, San Costantino di Briatico, vicino a Vibo Valentia, per intervistare i miei nonni, che ovviamente erano stupefatti e che, siccome parlavano in dialetto calabrese, venivano tradotti in italiano dalle mie cugine!».

In altri termini, è diventata famosa per caso?

«La mia vita lavorativa è stata tutta un caso: soprattutto i primi anni della carriera sono stati come un fiume in piena, si è aperta la diga, ed è venuto giù con una forza immensa. Mi sono sentita trasportata dal successo, i primi tempi ho scelto pochissimo le cose da fare, mi sono capitate».

E ha iniziato come modella...

«Sì, ma mi mancavano pochi centimetri per fare l’indossatrice...».

Cioè?

«Sono alta un metro e 72, ma per fare le passerelle dei grandi stilisti occorre essere almeno un metro e 75. Quando mi proponevo, rispondevano: ci dispiace, sei troppo bassa. Potevo fare però la fotomodella.... La moda è sempre stato il mio sogno nel cassetto».

E ha posato nuda per il grande fotografo Bruno Oliviero...

«Non era ovviamente una foto porno, era un “vedo-non vedo” artistico per la copertina di un suo libro. Lui era davvero un grande fotografo, con un pessimo carattere... Alla presentazione del volume arrivai con dieci minuti di ritardo: sono una puntualissima, arrivo sempre in anticipo agli appuntamenti, ma quella volta avevo sbagliato strada e, quando mi presento, mi scuso, ma lui mi tratta malissimo. Comincia a ringhiare con frasi tipo: come ti permetti, chi ti credi di essere! E io sbotto a piangere: gli rispondo per le rime e me ne vado sbattendo la porta».

Da modella ad attrice, senza aver frequentato una scuola di recitazione...

«Prima di tutto ho avuto la fortuna di incontrare Paola Petri, vedova di Elio Petri, che non si è limitata a essere la mia agente, è stata una seconda madre, mi ha dato sempre consigli preziosi per crescere nel mio lavoro e non solo: mi affiancò un attore di teatro per studiare dizione e infatti, grazie a questo, ho completamente azzerato sia l’accento calabrese, sia soprattutto quello milanese. Poi ho incontrato dei maestri sul set: oltre a grandi registi come Florestano Vancini, Mauro Bolognini o Giorgio Capitani, anche colleghi preziosi e generosi come Franco Nero, Barbara De Rossi e, per esempio, il mitico Peter O’Toole...».

Cosa le ha insegnato l’attore britannico?

«Nella miniserie “Augusto, il primo imperatore”, impersonavo sua figlia Giulia. Era una coproduzione internazionale e si recitava tutto in inglese, lingua di cui avevo una conoscenza scolastica, quindi un po’ basica: un conto è parlare, un conto è recitare. Però mi preparavo con grande scrupolo, studiando in anticipo tutte le scene che dovevo girare. Ma un giorno, gli sceneggiatori me ne cambiano totalmente una all’improvviso... Non sapevo come fare, avevo poco tempo per studiarla a dovere... Entrai in crisi e Peter, accorgendosi della mia disperazione, mi porta nel suo camerino e mi regala un insegnamento straordinario. Mi dice: adesso ascolta questa canzone. Prese le battute del mio copione che avrei dovuto recitare e comincia a cantarle... poi aggiunse: concentrati sulla melodia e vedrai che memorizzi il testo... e così fu. Un esercizio che mi è servito anche in seguito, su altri set, con altre lingue straniere... ho recitato in francese senza conoscere bene la lingua... Insomma, grazie a Peter ho imparato una forma di allenamento, diciamo, tecnico-pratico molto utile, che non avrei minimamente immaginato. E ho imparato anche un’altra cosa fondamentale».

Quale?

«Il grande attore, un mostro sacro della scena internazionale, un extraterrestre dell’iperuranio artistico, che credevo inarrivabile... e invece mi sono resa conto che personaggi come lui sono semplici, se necessario si mettono a disposizione senza alcun problema, sono molto più umili di certi miei colleghi o colleghe che, pur essendo dei “nani” rispetto a questi “giganti”, si indispettiscono se la produzione non mette loro a disposizione la macchina con l’autista...».

La bellezza, per lei, ha rappresentato un problema? Nel senso: bella e poco brava...

«Sono sincera: i primi anni ho faticato a farmi accettare, anche perché provenivo dal mondo della moda che, in ambito artistico, non è molto considerata. E poi, caratterialmente, sono una timida».

Timida, ma a vent’anni ha debuttato in un film erotico: «Graffiante desiderio»...

«Sì, e ne ero la protagonista, nel ruolo di una giovane, affascinante schizofrenica. Un’avventura davvero singolare... il film nasceva sulla falsariga di Luna di fiele di Roman Polanski».

Sul set ha mai ricevuto proposte indecenti?

«Al di là di qualche corteggiamento, per ben due volte in maniera pesante da parte di due produttori importanti, di cui non posso rivelare i nomi. La prima volta avevo 18 anni e lui intorno ai 70... Era apparentemente un gran signore e mi fece intendere che, per fare carriera nel nostro mondo, occorreva avere qualcuno alle spalle su cui contare. Avevo già partecipato a un suo film e una sera, mentre mi accompagnava in hotel, azzardò delle avances... Io, elegantemente, lo respinsi, scesi dall’auto e non l’ho mai più chiamato... L’altro, invece, produceva una serie importante, per la quale avrei dovuto fare, a breve, un provino. Andammo nel suo ufficio, per prendere il copione su cui dovevo prepararmi. Ci sedemmo sul divano e lui, con la scusa di porgermi il testo, mi è saltato letteralmente addosso. Era un omone, alto e pesante, non so come sono riuscita a respingerlo, a togliermelo di dosso... A un certo punto gli ho detto: perdonami, forse ti ho fatto capire cose sbagliate... forse hai pensato che ero disponibile... Poi me ne sono andata e, nei giorni successivi, non mi sono presentata al provino».

Lei si sentiva in colpa? Credeva di averlo provocato sessualmente?

«Non mi ero presentata in minigonna e con la camicetta sbottonata... sono una tipa mascolina, non femminile, e anche quella sera indossavo i pantaloni, il maglione accollato... Però purtroppo noi donne ci sentiamo spesso, a torto, colpevoli di provocare il maschio arrapato... è un nostro assurdo limite».

Lei è sposata dal 1999 con lo stesso marito: Vasco Valerio. E ha tre figli: un record per un’attrice?

«In effetti, i matrimoni nel nostro ambiente durano poco, pur avendo colleghe con legami altrettanto longevi, ma stanno diventando sempre più rari».

Qual è il segreto di un’unione tanto duratura?

«È la complicità, la sincerità e l’umiltà di sedersi a un tavolo per confrontarci serenamente, se qualche cosa non va bene, e per trovare insieme la strada giusta, per risolvere il problema. Vasco mi ha sempre sostenuto, non ha mai messo il bastone tra le ruote della mia carriera, non mi ha mai messo davanti al dilemma: scegli me e i figli, oppure il tuo lavoro. Anzi, a volte ha fatto lui il “mammo”... Ogni decisione la prendiamo di comune accordo, discuto con lui le scelte che devo compiere».

Una moglie e soprattutto una madre tenace...

«Dopo il primo figlio, Lorenzo, volevo assolutamente diventare nuovamente madre. Però avevo un grosso problema: la tiroide malata e i medici mi avevano seriamente sconsigliato una seconda gravidanza, per timore di aggravare il problema, il secondo figlio poteva far degenerare la situazione. Ma sono calabrese: mio padre ha sette fratelli, mia madre nove, mi piacciono le famiglie numerose e ne sognavo una per me. Mi informai e seppi che non avrei messo a repentaglio la vita del nascituro... così è nata Emma, ma dopo la sua nascita la tiroide è praticamente scoppiata. Mi è stata asportata e poi è nato pure Niccolò!».

Non solo cinema, anche tanto teatro: recentemente il successo di «Bloccati dalla neve», insieme a Enzo Iacchetti.

«Adoro lo spettacolo dal vivo, pur avendo il terrore: se dimentico una battuta che succede? Per fortuna con Enzo è filato tutto liscio. Nella prossima avventura teatrale, saremo tre attrici: io, Benedicta Boccoli e Gabriella Germani in Donne in pericolo un thriller sotto forma di commedia di Wendy MacLeod, con la regia di Enrico Maria Lamanna. Le donne sono sempre in pericolo, ma più forti che mai».

Estratto dell’articolo di Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” lunedì 25 settembre 2023. 

Vladimir Luxuria non ha paura del confronto. «Mio papà è un uomo di destra, grande ammiratore di Almirante», dice. Due frasi. Ma che spiegano perché ora per lei contrapporsi a Francesco Storace nella trasmissione al via oggi su Rai Radio 1, Il rosso e il nero , sia come bere un bicchiere d’acqua fresca. «Perché mai dovrei sentirmi minata da chi la pensa diversamente?». 

Con suo padre è stato così semplice?

«No, non è stato facile. Si chiama Antonio, faceva l’autotrasportatore, a Foggia. Mi vide la prima volta con gli orecchini e un po’ di trucco mentre ero seduta su una panchina in piazza. L’amico con cui stava passeggiando gli aveva fatto cenno, dicendo: “Guarda quel ricchione”. Il suo sguardo mi trafisse l’anima».

Una volta tornata a casa?

«Fu complicato. Sentivo già dal pianerottolo che rimproverava mia mamma per l’educazione sbagliata che mi aveva dato. Avevo 15 anni e odiavo dargli questo dispiacere». 

È dura sentirsi in colpa per essere sé stessi.

«Ho provato a soffocarmi. Vedevo Renato Zero in tv con la tutina che cantava Mi vendo e volevo urlare “che figooo”, invece stavo zitta e sentivo papà dire: “Dovrebbero mandarli al confino”». 

Le sue sorelle l’aiutavano?

«Certo, mi prestavano i vestiti e mi davano il via libera per attraversare il corridoio di casa senza farmi vedere: una volta fuori mi sentivo Naomi Campbell a una sfilata. Mi guardavano con disprezzo ma per me erano tutti applausi». 

Suo papà, poi, l’ha capita?

«Ci sono stati molti processi di avvicinamento ma al primo Pride di Foggia lui ha messo a disposizione il suo camion per trasportare drag queen che ballavano sulla musica di Gloria Gaynor». 

Resta un uomo di destra?

«Certo, tifa per Meloni. Però mi ha detto che se mi fossi candidata a Foggia con Rifondazione, sarebbe stata l’unica volta in cui avrebbe votato i comunisti in vita sua». 

Cosa la lega alla politica?

«La verità? A me la politica non è mai piaciuta. […] Amavo gli spettacoli di Paolo Poli, di Raffaella Carrà... ma poi ho reagito a un attacco di omofobi prendendo delle botte: quei lividi erano medaglie per me. Era il mio primo gesto politico: reagire».

È stata la prima parlamentare transgender in Europa.

«Ma la mia prima elezione non è stata a Montecitorio nel 2006, bensì quando andavo a Ragioneria e il preside, di destra, mi intimava di smetterla di sculettare per i corridoi.

Non obbedii e mi sospese. Ma gli alunni fecero uno sciopero per me e mi elessero rappresentante d’istituto, così lui non solo doveva vedermi sculettare ma pure parlare con me». 

Popolare prima di essere famosa.

«Ma io a Foggia ero famosa: ero il ricchione. Quando confessai al mio prete che sentivo di avere un’identità di genere diversa, rispose che se volevo frequentare ancora la chiesa dovevo deglutire questa roba. Sentir dire dal Papa che le trans sono figlie di Dio, attenzione, declinandoci al femminile, è stata una rivoluzione». […] Tanti con cui ho litigato sono diventati alleati».

Anche Elisabetta Gardini?

«Dopo la pipì più famosa della storia posso svelare che venne a vedere un mio spettacolo, parlavo di infibulazione. Alla fine si spellava le mani per gli applausi e mi disse che su temi come la violenza sulle donne potevamo trovare un’intesa. Ma ultimamente la vedo di nuovo irrigidita...». 

Cosa pensa di Meloni?

«La novità che rappresenta va riconosciuta, ma quando l’ho vista abbracciare Orbán mi si è gelato il sangue». […] 

C’è una critica che la ferisce più delle altre?

«Quando mi scrivono: ma ti vuoi mettere in testa che sei un uomo? Avrei la tentazione di dire: “Ok, sono un uomo. Se serve per andare oltre lo dico”. C’è grande egoismo». 

[…] Come sono oggi i rapporti con i suoi genitori?

«Oggi per loro sono uguale a tutte le altre figlie». 

Vladimir Luxuria: “Vi svelo tutti i segreti della donna che sono”. Redazione su L'Identità il 5 Agosto 2023

Intervista di FRANCESCO URRU

Persona riflessiva profonda e acuta, Vladimir Luxuria si è sempre battuta per i diritti umani per la difesa delle donne e per il rispetto e dignità della comunità LGBTQ+. Carattere forte, con grande rispetto per la vita, L’Identità incontra Vladimir Luxuria.

Parliamo di un argomento importante, ovvero la GPA cioè la gestazione per altri, sei favorevole o contraria?

Intanto faccio una distinzione che non è da poco. GPA è gestazione per altri, che si avvicina al termine altruismo rispetto all’utero in affitto, che prevede una prestazione o un corrispettivo economico; la vedo quindi come uno sfruttamento del corpo della donna anche in condizioni di povertà. La GPA conferisce alla donna la libertà di decidere se portare in grembo un figlio per una donna che magari ha avuto un cancro all’utero, una sorella che non può avere figli o magari una coppia di amici gay; per la serie “l’utero è mio e lo gestisco io”. Io sono favorevole a questa pratica, purché ci siano delle regole come il modello inglese e canadese. Con i dovuti controlli incrociati anche economici come i conti correnti, penso sia attuabile, anche perché, se pensiamo che i single non possono adottare in Italia.

Cosa pensi del cambiamento climatico, cosa ti spaventa di quello che si sente?

C’è chi minimizza. Ho sentito il compagno del Presidente Meloni (Andrea Giambruno, ndr) che conduce una rubrica sulle reti Mediaset che commentava affermando che il caldo torrido non è una notizia; per me tra bombe d’acqua sempre più frequenti fiumi in secca, temporali e grandine, tornado: facendo la somma di tutto quello a cui assistiamo io penso che il riscaldamento globale del pianeta stia correndo sempre più veloce di quello che si è calcolato. Bisogna ideare delle politiche per fare in modo che la ricerca del profitto a breve termine non debba essere a danno del pianeta che dobbiamo consegnare alle future generazioni.

Un tuo parere sui negazionisti del covid, che pensiero hai in merito?

Guarda, evidentemente ci sono persone che non hanno mai conosciuto nessuno che ha avuto una persona portata via con l’ambulanza o che non hanno potuto più vedere se non magari con il telefonino, salutandoli solo così. La gente è morta per davvero. La cosa poi assurda è che i governi di tutto il mondo riescono a trovare un accordo, pure i paesi in contrasto tra di loro, per inventarsi il covid; questi personaggi io non riesco a capirli.

Parliamo di tecnologia e di progresso: intelligenza artificiale, opportunità o pericolo?

Io penso che l’intelligenza artificiale possa essere un’opportunità. Il pericolo è la sostituzione, ricordiamo che l’essere umano deve essere unico e insostituibile. L’intelligenza artificiale deve essere quindi uno strumento per aiutare l’uomo, non sostituirlo.

Visto che abbiamo appena detto che l’uomo è insostituibile, in cucina ti puoi definire una chef stellata?

Come voto mi do la sufficienza per sopravvivere. Conosco troppa gente che cucina meglio di me, lascio a loro il compito di preparare cose elaborate per me. Essendo pugliese io vado di primi quindi pasta, secondi molto semplici. Fortunatamente ho quell’elettrodomestico noto che è fantastico e che adoro.

Parlando di cose che adori, un luogo che ti è rimasto nel cuore?

Ho tanti luoghi nel cuore, però ti dico l’ultimo. Sto tornando da Matera per il Pride, una città meravigliosa soprattutto per come hanno deciso di illuminarla, ci sono ancora queste luci proprio da presepe. Davvero non sai dove guardare visitandola.

Invece un libro che ti è rimasto nel cuore?

Ti dico I Promessi Sposi. Un classico. Forse perché in questo periodo dove si battaglia molto per il matrimonio egualitario, i protagonisti avevano difficoltà, degli ostacoli con le famiglie, noi invece ce l’abbiamo col Governo. Noi siamo pieni di promessi sposi con tutte le coppie lgbt+. Purtroppo, ci sono presuntuosi che si mettono su di un piedistallo, arrogarsi il diritto di decidere quali diritti elargire e quali no, tra cui il matrimonio.

Voglio aprire un cassetto dei ricordi assieme a te, parlando di Costanzo. Che cosa gli chiederesti se potessi?

Io non avrei molto da chiedergli, lui mi ha dato tanto. Mi farebbe felice se venisse a vedere il mio prossimo monologo, anche se ho avuto la fortuna di averlo in prima fila. Quando feci spettacolo “La discarica” al Festival di Todi venne a vederlo, era il 2008, e ricordo la mia emozione e la sua negli occhi commossi. Venne anche al Festivale Città Spettacolo di Benevento dove lui era il direttore artistico, e volle un mio spettacolo che si chiamava “Ora d’aria”. Lui non era uno che si muoveva tanto per le sue giornate intense, per me fu un onore.

C’è un episodio come amicizia e non solo come intesa professionale che ricordi?

Le tante chiacchierate che facevamo nel suo studio al Teatro Pairoli, oppure quando mi fece fare dei duetti con Califano, Orietta Berti, o l’indimenticata Gabriella Ferri. Lui mi ha fatto conoscere al pubblico, mi ha sdoganato.

Tema vacanze: sotto l’ombrellone cosa leggerai?

Ho scelto un bellissimo libro, “Fango” di Niccolò Ammaniti.

E la destinazione delle vacanze si può dire?

Rio de Janerio, Brasile, ad agosto me lo posso permettere. Questa turneè teatrale che inizierò mi ha fatto venire voglia di Brasile.

Quali sono i luoghi che hai scoperto in passato, che hai scoperto nel presente e quelli che vorresti scoprire nel futuro?

Quello che faccio di solito se ho uno spettacolo, è quello di non andare prima all’ultimo minuto per ritagliarmi del tempo per conoscere meglio il posto. Amo l’Italia veramente, mi stupisce sempre, come si sassi di Matera. Ritornare in un luogo è sempre diverso, come i sassi di Matera che avevo già visitato.

Visto che sei stata madrina a tanti Pride in giro per l’Italia, vorrei lasciarti uno spazio per un commento e un appello…

Più che le rivendicazioni politiche, la piattaforma, il manifesto, penso al ragazzo o alla ragazza, bullizzati a scuola, che magari non hanno detto niente ai genitori e si fanno magari mille domande, vedono le loro città di provincia colorarsi e credo sia una grande iniezione di ottimismo.

Lo studio da commercialista, Bowie e il Pigneto. Luxuria: "Ho rischiato più nella vita che...". Una carriera da commercialista già scritta e il successo personale nell’aiutare gli altri fare coming out. Luxuria ha raccontato il suo rapporto con il denaro a Il Giornale.it riflettendo anche sul suo percorso professionale e di vita. Valentina Menassi l'1 Giugno 2023 su Il Giornale.

Attivista LGBT e prima transgender a essere eletta al parlamento di uno stato europeo. Una carriera da commercialista già scritta e il successo personale nell’aiutare gli altri fare coming out. Vladimir Luxuria ha raccontato il suo rapporto con il denaro a Il Giornale.it riflettendo anche sul suo percorso professionale e di vita.

È appassionata di Borsa e temi finanziari?

“Appassionata più di borsette che di Borsa (ride ndr). Di cognome faccio Guadagno, ma nel mio caso il motto latino "Nomen omen" probabilemnte non vale, infatti tutte le volte che vado in banca la mia consulente mi spiega con zelo gli andamenti dei titoli azionari, ma queste cose mi annoiano da morire. L’unica cosa che le chiedo è di evitare i rischi: preferisco guadagnare un po' meno, ma stare tranquilla. Di certo sono una che ha rischiato più nella vita che negli investimenti."

Le piaceva studiare materie economiche?

“Mio nonno paterno era professore di ragioneria e io mi sono diplomata in ragioneria perché dopo le medie i miei genitori volevano darmi un futuro sicuro, magari lavornado nello studio di mio zio commercialista a Foggia, la città dove sono cresciuta. Ma la partita doppia non faceva per me, preferivo le materie umanistiche e una volta trasferita a Roma mi sono iscritta a lettere con indirizzo linguistico (dove si è laureata con 110 e Lode Ndr).”

Chi ha il bernoccolo degli affari in famiglia?

“I miei zii sono commercialisti a Foggia. Inizialmente mi aiutavano a seguire i miei conti, ma poi ho preferito farmi seguire da uno studio a Roma, la città dove vivo, per una questione di comodità.”

Preferisce occuparsi dei suoi affari o affidarsi a una persona di fiducia?

“Delego molto, ma sono bravissima a compilare le fatture elettroniche. All’inizio con qualche difficoltà, ma poi sono diventata bravissima. Anche perché hai pochi giorni di tempo per compliare i documenti e essendo spesso in viaggio per lavoro preferisco togliermi il pensiero subito.”

Il successo è arrivato inatteso?

“Sono sempre stata ambiziosa e sognatrice. Già quando ero piccola stavo davanti allo specchio immaginando il pubblico. Io dico sempre che il successo non è tanto quando ti riconoscono, ma quando ti sono riconoscenti. La cosa più bella è quando qualcuno mi ferma per strada per ringraziarmi perché ha avuto il coraggio di parlare con i genitori dei propri sentimenti anche grazie al mio impegno civile e sociale.”

Il denaro è sinonimo di successo?

“E' evidente che i soldi sono fondamentali per vivere, ma personalmente non mi piace l’idea di accumulare, in generale preferisco condividere e penso che anche i soldi debbano essere condivisi."

C’è una frase o un episodio della sua infanzia che hanno segnato il suo approccio con il denaro?

“Dopo tanti anni ricordo ancora perfettamente la sensazione dei primi soldi guadagnati e soprattutto di come li spesi. Con la paga della vendemmia mi comprai l’album di David Bowie, è stato il mio primo disco. Avevo già in mente che i soldi fossero un mezzo piuttosto che un fine."

Ha mai la sensazione di non avere abbastanza soldi?

“E' una sensazione che non ho mai provato, in generale sono una abbastanza parsimoniosa e non mi piace sprecare. Mi sono costruita una stabilità economica e in passato ho investito nel mattone. Poi mi sono resa conto che, un po' per lavoro e un po’ per carattere, preferisco viaggiare così ho rivenduto gli immobili.”

Formica o cicala?

“Decisamente formica. Le faccio un esempio: quando devo scegliere l'albergo per me la cosa più importante è che sia pulito, silenzioso e comodo rispetto i miei appuntamenti di lavoro. Non sono una che vuole l'hotel a 5 stelle in centro, sono una persona decisamente pratica e concreta.”

Cosa ha comprato con i soldi del primo lavoro importante?

“Nel 2008 vinsi l’Isola dei Famosi, una parte dei soldi l'ho devoluta in beneficenza all’Unicef, con il resto ho comprato una casa per me e una per i miei genitori che vivevano in una casa popolare.”

Qual è stato il suo investimento più azzeccato?

“Senza dubbi la casa al Pigneto. Quando la comprai era condsiderata una zona degradata, adesso è un quartiere trendy dove si concentra la movida locali e ristoranti sono aumetati e anche il valore del mio appartamento è cresciuto.”

Si fida delle cripto valute? Investirebbe o ha investito in Bitcoin o prodotti simili?

“Per carità! Io ho sempre odiato le persone criptiche, sia le criptovalute sia i criptogay. Tutto ciò che è criptico non mi piace.”

Ama fare shopping? Preferisce comprare nei negozi o sul web?

“Preferisco andare di persona nei negozi anche per far sostenere le botteghe che spesso sono a conduzione familiare. Ricorro all’online solo per prodotti difficili da trovare nei negozi fisici.”

Più generosa o più parsimoniosa?

“Da giovane tendevo a proteggere quello che guadagnavo, forse anche per via delle mie insicurezze. Adesso sono diventata sicuramente più generosa. Per la gioia mia e di chi mi conosce.”

Da “Gente” il 9 aprile 2023.

Su Gente, in edicola da venerdì 7 aprile, Vladimir Luxuria racconta dei suoi amori segreti: «Quelli più noti sono stati un attore “meraviglioso” e due uomini della politica. Non dico il partito: un po’ da una parte e un po’ dall’altra, diciamo bipartisan.

 Non ne ho parlato perché non volevano: ma la prossima volta potrei farlo sapere fin da subito, come fanno gli altri». A lei piacciono i toy boy o gli uomini più grandi? «Storie più serie e più lunghe con uomini della mia età o erano più grandi di me. Da un punto di vista della carnalità e del battito di cuore, invece va bene la “carne fresca”».

 Luxuria prende anche l’occasione per rispondere ai pregiudizi e ai commenti che riceve sui social: «Sono una donna trans, orgogliosa di esserlo. E vorrei rassicurare tutti: non vivo l’illusione di essere una donna nata tale. So benissimo che non posso allattare, che non ho le mestruazioni, che ho la prostata. Ma non siamo solo carne e io sento di avere una identità di genere diversa: non minaccio nessuno, cerco di vivere la mia vita in armonia».

Luxuria a Gente ricorda anche la sua adolescenza: «A scuola emergeva la mia effeminatezza: avevo i capelli lunghi, gli orecchini, le camicie rosa. Sono sempre stata vittima di bullismo, mi facevano la pipì nelle scarpe che lasciavo nello spogliatoio quando facevamo ginnastica. Quando mio padre mi scoprì, fu traumatico.

 Ero nella piazza centrale della mia città, tutta agghindata, lui era con un suo amico che mi vide e disse: “Guarda quel ricchione!”. Mio padre si voltò, e quel ricchione ero io. Volevo sparire in una botola». E sul desiderio di avere un figlio, confessato qualche anno fa, precisa: «A 57 anni? Per carità. Sono una zia fantastica e mi basta».

Estratto dell’articolo di Silvia Fumarola per repubblica.it il 16 aprile 2023.

È una delle poche persone che sa davvero di cosa parla, visto che fu grande protagonista del reality: Vladimir Luxuria ha vinto L'isola dei famosi nel 2008 "e posso assicurare" racconta che è tutto vero: la fame - nessuno ti dà di nascosto da mangiare - gli insetti, le liti, le difficoltà". Da lunedì 17 aprile torna a fare l'opinionista dell'Isola dei famosi su Canale 5 con Enrico Papi, c'è Ilary Blasi conduttrice e visti i concorrenti - dall'ex suor Cristina Scuccia ai Jalisse - per gli amanti del genere, questa edizione suscita una certa curiosità. 

Come vive il ruolo di opinionista?

"Con la giusta dose di impegno, è un lavoro. Devi capire le dinamiche dei naufraghi, seguire il daytime, ma anche con leggerezza. È una trasmissione divertente, come un film comico o una partita di pallone, serve a distrarsi, a divagare. A sciacquarsi la mente, come dico io. Bisogna essere consapevoli che non stiamo facendo un programma di divulgazione scientifica". 

Aver partecipato all'Isola aiuta?

" Sicuramente. E tutte le volte che rivedo quei luoghi, penso che è stata un'esperienza veramente forte. Al di là del distacco,  anche un po' snob, con cui si possono vedere questi programmi, l'Isola ti sfida. Già la vita vissuta senza cellulare - che se a casa non lo trovi per dieci minuti ti senti un naufrago - è un incubo. Lì stai due mesi e mezzo senza telefono, senza giornali, senza libri, senza orologio - impari a calcolare il tempo seguendo i movimenti del sole - non hai un calendario: io incidevo tacche sulla palma per contare i giorni. Poi stai senza mangiare, e non si mangia davvero, e non c'è un letto per dormire". 

Diciamo la verità, la cosa peggiore è la mancanza del bagno. Sveliamo, con grazia: come si fa?

"Sveliamolo. Dai tempi di Elisabetta Gardini il bagno per me è un argomento familiare, dove va una trans a fare i suoi bisogni?, ma lasciamo stare. Torniamo all'Isola: ha presente i gatti? Si scava una fossa nella spiaggia, con i rami secchi degli alberi viene costruita una specie di capanna per un po' di privacy e si crea una sorta di bagno alla turca. Ti devi concentrare e lasciarti andare. La stitichezza va messa in conto". 

[…] È amica di Ilary Blasi?

"Vorrei lavorare tutta la vita con una come lei. La conobbi con Francesco Totti al Muccassassina, erano venuti con amici, lui molto tranquillo, carino. Mancava un ragazzo che doveva fare lo striptease, sono andata a  chiedergli se voleva sostituirlo: 'Vieni tu a fare lo spogliarello?'. Mi rispose: 'No, mi fa male una caviglia'". 

Le è dispiaciuto che si siano separati?

"Tanto, è dispiaciuto a tutti. Noi ci costruiamo un immaginario, Al Bano e Romina, Cenerentola e il principe. Certe coppie, perfette ai nostri occhi, non si dovrebbero lasciare mai. Ma che cavolo ne sappiamo noi di cosa succede?". 

[…] È diventata una delle protagoniste della televisione. Chi deve ringraziare?

"Devo tutto a Maurizio Costanzo. Quando decisi di partecipare all'Isola, ci furono polemiche dalla mia parte politica, anche se venivo dallo spettacolo, dal mondo delle drag queen, dal Muccassassina. Maurizio mi incoraggiò moltissimo, e anche Fausto Bertinotti. Quando sono tornata come vincitrice, una delle prime telefonate fu la sua. La notte prima di partire per l'honduras ero al Festival di Todi in scena con La discarica di Silvano Spada, e in prima fila c'erano lui e Franca Valeri". 

Costanzo ha contribuito ad appianare i rapporti con la sua famiglia?   

"È stato fondamentale. Mi ha voluto bene, ha risolto il problema con mia madre, parlando della mia identità di genere. Non mi ha reso solo famosa, ha spiegato quanto sia importante il rispetto. Davvero una sfida vinta, ero in transizione e mi confrontai con mia madre. 

Al Teatro Parioli dopo che mi invitò con lei arrivavano decine di fax di persone che ringraziavano: genitori che non si vergognavano più dei figli e figli che avevano trovato la forza di essere sè stessi. Lui era avanti, ed era felice di avermi fatto fare pace con mamma. Al festival Lovers sui temi Lgbtq+ di cui curo la direzione artistica, che si svolgerà a Torino dal 18 aprile, per rendere omaggio a Costanzo sarà proiettato Una giornata particolare di cui è stato sceneggiatore con Ettore Scola e Ruggero Maccari". 

[…] A Foggia la sua famiglia temeva il giudizio degli altri, il fatto che Costanzo abbia invitato sua madre in tv, cambiò le cose? 

"Completamente. Quando è tornata a Foggia, anche i parenti piu chiusi, chi criticava, e gli estranei, dalla cassiera del supermercato in su, si congratulavano: 'Che figlia meravigliosa ha'. Non ero più il mostro, una persona che doveva nascondere. Abbiamo sempre più paura quando non affrontiamo le cose". 

[…] Ha paura che con questo governo sarà tutto più difficile e faticoso?

"Sì ne sono sicura. Pensi solo al fatto che chiedono i documenti su cose intime, entrano nelle famiglie, indagano dove c'è una bambina che ha due mamme e cresce serena, vive la sua vita com'è giusto che sia. Questa cosa mi preoccupa e mi fa orrore. Improvvisamente lo Stato diventa tiranno, impiccione. egoista e dice: 'No, solo quella che ti ha partorita è tua mamma'. Cancella i diritti. E se muore la mamma biologica la bambina cresciuta con due mamme resta orfana e sola? Lo Stato ti dice: va bene, potete ricorrere all'adozione speciale. Quindi deve far sentire in colpa, rendere tutto complicato. Dice: voi, diversi, dovete avere più problemi. Perché se sei omosessuale devi avere più ostacoli per vivere la tua vita?".  

Ora è fidanzata?

"No. Ballo da sola".

Ha fiducia in Elly Schlein, ci hai mai parlato?

"L'ho conosciuta una volta sul treno e l'ho rivista alla manifestazione delle famiglie Arcobaleno a Milano, mi sembra una persona chiara, trasparente. È venuta in piazza, che mi sembra una bella risposta al femminile rispetto alla nostra presidente del Consiglio. Non la chiamo 'il nostro presidente del Consiglio' perché non vorrei confondere i bambini".  […]

Estratto dell'articolo di Michela Tamburrino per “la Stampa” l'1 giugno 2023.

Per Zucchero è quasi un'illuminazione che arriva a freddo, firmando un autografo come usava ai vecchi tempi senza selfie a una fan esagerata. «Se non proprio Zucchero, ho preteso che mio nipote almeno lo chiamassero Adelmo». 

E Zucchero: «Ma lo sa che ha ragione? Adesso cambio anche io il nome. Basta Zucchero, sa di ragazzino alle prime armi. Sì ripristino l'anagrafe, d'ora in poi torno ad essere Adelmo Fornaciari». Ecco fatto Sugar che diventa salato dopo il concerto trionfante che apre il World Wild Tour, una sequela di cinque appuntamenti alle Terme di Caracalla sold out con 4mila a saltare e a ballare al ritmo delle sue hit per tre ore di spettacolo ininterrotto in cui si è pure contemplato il momento disco con l'omaggio a Tina Turner.

Il tour si chiuderà il 30 luglio al Teatro Greco di Siracusa in Italia e ad agosto in Spagna. Il 9 e il 10 giugno alla Rcf Arena di Reggio Emilia il ritorno live del Diavolo in R.E., nella sua città «amore e radici». Qui l'adorazione si tocca come quasi si tocca la folla.

«Emozione pura». Allora meglio prendere il toro per le corna, una seggiolina e parlare.

Zucchero o meglio Adelmo Fornaciari, come sta?

«Come disse Churchill in pieni bombardamenti, tutto è terribilmente noioso, non c'è un raggio di luce, forze oscure aleggiano, guerre e disarmonia, non vedo la primavera. La tragedia in Romagna mi ha devastato, faremo un concerto in aiuto, mi presto volentieri, non mi pongo domande, si deve fare. Soli 24 giorni per organizzarlo, speriamo nel numero solidale, saremmo già felici se raggiungessimo le 50.000 presenze». 

E l'appuntamento del 9 e 10 giugno a Reggio Emilia? Ospiti speciali?

«Volevo fosse solo mio per la mia terra. Però ho invitato Salmo che a Sanremo ha proposto una rivisitazione di Un diavolo in me che mi è piaciuta. I miei mi dicono di avere a che fare di più con artisti social e quelle cagate lì. Io ho conosciuto quel rapper, conosce la musica di dove vengo io. Mi basta. Poi certo, m'informo: la corista l'ho scoperta su Youtube, aveva fatto The voice. Anche la batterista arriva dal Texas e non aveva grandi band alle spalle. Io sento il sangue, il cuore, la passione, il carattere». 

Perché Bruce Springsteen in concerto a Ferrara non ha neppure accennato all'alluvione che aveva sotto i piedi?

«Conoscendolo non ne sapeva niente. Non fa finta, non ha bisogno di nascondersi, non ne era informato». 

(...)

Come vive un ruvido come lei l'era del politically correct?

«Ho scritto dei brani che sono stati definiti sublimi, pure esagerando... come Così Celeste, Diamante e poi sono stato accusato di aver dato vita a canzonette da bar, da osteria, con il doppio senso facile. Significa che non conoscono il blues, il R'n'b' che alle canzoni serie fa succedere pezzi più leggeri, pieni di sesso. Ma il sesso è importante, come il ritmo, il groove, il succo di limone che ti scende dalle cosce, è bellissimo, Un soffio caldo scritta con Guccini è poco bella? Vedo nero, Bacco e perbacco assomigliano al soul dove non ci vanno leggeri. Non sono Fabrizio De André il grande poeta, lui ha cantato che il "il nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo vicino al buco del culo". Lui lo può dire e io no?». 

Da un po' di tempo esce sempre con lo stesso giubbotto. Gliel'ha consigliato l'armocromista come a Elly Schlein?

«Sono tutte cagate. Ho gli armadi pieni di meravigliose giacche su misura che mi manda il grande Armani e che mi inviò Versace. Io mi vesto da tonno, fa parte di dove sono cresciuto. Il resto non fa per me». 

Il prossimo disco?

«Sono senza contratto, è scaduto come lo yogurt. Un tempo con i discografici si parlava, oggi fanno solo in conti. Senza discografici non avrei registrato Senza una donna,Per colpa di chi, mi sembravano troppo commerciali. Avrei sbagliato».

Chi è Zucchero?

«Tendenzialmente un malinconico, sul palco sembro un mattacchione ma dentro tendo ad avere un velo di tristezza. Odio chi dice "andrà tutto bene" perché non va mai tutto bene. Una caratteristica di noi Fornaciari, siamo crudi». 

Si sente invecchiare?

«Artisticamente invecchierò facendo quel che sento, senza artifici e senza seguire le mode».

Zucchero instancabile macina date, cinque alle Terme di Caracalla: «Politica e politically correct? Non me ne frega nulla». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 31 Maggio 2023

Il cantante: «Però non so se ce la faccio ad andare avanti fino a 80 anni» 

Momento autografo. «Mio nipote si chiama Adelmo… non sono riuscita a convincerli a chiamarlo Zucchero». «Pensi che io vorrei cambiare nome. Magari usare solo Adelmo. Zucchero ormai mi sembra una roba da ragazzino»». A 67 anni il bluesman scherza sul suo nome d’arte, ma quale che sia l’insegna della ditta in futuro non ha intenzione di smettere di fare musica.

Nemmeno se la sostituiscono con l’intelligenza artificiale?

«Lo dice la parola stessa, sarà musica artificiale. Lontana mille miglia da me. Esistono da tempo software che creano melodie partendo da degli accordi ma esce roba senza anima. Se fare musica come la faccio io vuol dire essere vecchio, invecchierò in compagnia della mia musica».

Ha senso fare ancora dischi?

«Per me sì, un album è come un quadro in cui ogni brano ha la sua collocazione. Sto già pensando al tour del 2024 e qualcuno mi dice di giustificarlo con una canzone inedita, ma non mi sembra il mio... Il mio contratto discografico è scaduto e devo decidere cosa fare. Poco tempo fa il manager di McCartney e altri mi diceva che fa fatica a piazzare Santana… Ormai con le case discografiche non si parla più di musica, non c’è quel confronto artistico che in passato mi ha aiutato: fanno solo i conti».

Oggi è più importante il live. Sarà come Jagger, ancora in scena a 80 anni?

«Prendo Mick come esempio… ma non lo seguo. Non ho il suo senso della disciplina, deve costare tanto mantenersi così… io non ce la faccio».

Però macina date in giro per il mondo. Il tour mondiale, arrivato martedì in Italia, con i cinque show alle Terme di Caracalla. Lo show inizia con «Spirito nel buio». Non vede luce?

«Non vedo la primavera all’orizzonte... Ci sono forze oscure che aleggiano: le guerre, i conflitti, disaccordi e disarmonie nel mondo. E poi disastri come quello della Romagna».

Cui ha dedicato «Let It Shine» cambiando qualche parola nel testo...

«L’avevo scritta per l’alluvione a New Orleans, la mia seconda città del cuore, provocata dall’uragano Katrina. Invece che “Mississippi” ho detto “la mia terra”. Sarò al concerto Italia Loves Romagna del 24 giugno: arriverò da Sofia e ripartirò verso Bucarest ma come fai a non esserci?».

Sul palco ha detto che qualcuno le ha fatto notare di aver scritto cose sublimi e brani da osteria. Si possono ancora dire nell’era del politicamente corretto?

«Non me ne frega un ca… È vero che ci sono doppi sensi in alcuni brani, ma è così in tutta la storia del blues. Ho ripulito un passaggio di “L’urlo” perché non piaceva a me. Non sono De André il poeta per eccellenza ma anche lui parlava di “buco del…”.».

Nel tour ci sono anche i due appuntamenti all’ex Campovolo di Reggio Emilia il 9 e 10 giugno…

«Saranno due show più lunghi, circa tre ore, con molti brani che parlano delle mie radici visto che suono nella mia zona».

Dal lancio di quel doppio appuntamento è sempre con un giubbino di pelle gialla. Come Elly Schlein segue i consigli di un’armocromista?

«Armo-cosa??? Mi sembrano cavolate. Non fanno parte di dove sono cresciuto. Due grandi come Giorgio Armani e Gianni Versace mi riempivano di abiti su misura ma io mi vestivo come quello della pubblicità del tonno…».

Anche le mode musicali sembrano lontane dalla sua musica. Non tradisce soul e blues?

«Da qualche anno mi chiedono una collaborazione con rapper giovani e innovativi, ma non ci riesco. Concepisco una musica fatta di melodia e spazi aperti, non una fatta di una parola dietro l’altra. Al massimo potrei fare come Alberto Lupo in “Parole parole”. L’unico con cui collaborerei è Salmo che ha rifatto “Diavolo in me” a Sanremo. Con lui sarebbe credibile, conosce la musica. E tra l’altro sarà l’unico ospite di Reggio Emilia».

Con un tour mondiale lei sta mesi all’estero: l’Italia vista da fuori, la sinistra da ricostruire?

«In prima media venni sradicato dalla mia terra e portato a Forte dei Marmi, che sta alla Bassa padana come il maiale alla cravatta. Misi in piedi la mia orchestrina e la preside, di sinistra, mi chiese se vedessi il tg o leggessi i giornali. Le risposi che pensavo alla musica e mi presi del qualunquista. Ecco, forse non me ne frega veramente nulla...».

Da firenze.repubblica.it il 7 gennaio 2023.

Il tribunale civile di Massa ha condannato per diffamazione Zucchero Fornaciari obbligandolo a risarcire i danni morali a un ex amico definito, nel suo libro autobiografico "Il suono della domenica. Il romanzo della mia vita" (Mondadori, 2011), un poco di buono, donnaiolo e nullafacente: la rockstar gli dovrà versare 37 mila euro. Per il giudice Domenico Provenzano, riferisce il "Corriere Fiorentino" dando la notizia della sentenza, le espressioni utilizzate nell'autobiografia sono "lesive della reputazione" e hanno "compromesso le relazioni sociali e familiari della parte offesa, i cui rapporti con la coniuge si sono significativamente deteriorati".

 Per Adelmo Fornaciari, vero nome del popolare cantautore, quelle espressioni erano funzionali alla "trama narrativa". Ma per il giudice si tratta di "espressioni offensive che diversamente da quanto sostenuto dal cantante non sono coerenti" all'intreccio del racconto, e hanno "l'unico effetto di recare discredito" all'ex amico.

Tutto è partito con la pubblicazione dell'autobiografia firmata Zucchero Sugar Fornaciari. Il racconto appassionato di quei frammenti di vita con l'infanzia a Roncocesi, nella campagna emiliana, le prime esibizioni scandite dal blues nelle balere della Versilia e le difficoltà del giovane "straniero" che parlava emiliano aveva fatto il giro del web ed era rimbalzato sui quotidiani e in tv. Così il libro era finito sotto l'albero dell'ex amico del cantautore. Era stata la figlia a donarglielo per un Natale di 8 anni fa sapendo del comune passato tra i due. "Purtroppo, la lettura del romanzo provocò sconforto e malessere nei familiari del mio assistito", ha spiegato al "Corriere Fiorentino" l'avvocato Alessandro Fontana che ha presentato la denuncia con la collega Catia Buratti. "A distanza di otto anni, il tribunale ha stabilito che alcune espressioni erano riferite in maniera inequivocabile a lui, ledendone la reputazione".

Quelle espressioni, secondo il giudice Provenzano sono "obiettivamente denigratorie (inducendo nel lettore un giudizio di naturale riprovevolezza circa condotte di tal genere) a prescindere dal tono ironico e dal linguaggio colloquiale con il quale vengono riportate vicende narrate nel testo; tono - conclude il giudice - che di per sé non vale a rendere inveritieri e o non credibili i fatti ed i giudizi descritti ed espressi".

Barbara Costa per Dagospia il 18 giugno 2023.

Io che di porno vi ho sempre detto tutto senza censure e senza freni, io che di porno niente rifuggo né aborro, per la prima volta confesso le mie difficoltà a darvi questa notizia: la signora Yuko Ogasawara ha 83 anni ed è una pornostar!!! Non una pornostar in pensione, ma una pornostar attiva, gira due porno l’anno! E vi informo che la signora Yuko nel porno fa tutto, si fa fare tutto, e nel girare porno appone una unica condizione, e inappellabile: lei sc*pa soltanto con maschi giovani! Capito la porno-nonnina?

Vi devo altresì specificare quest’altra cosa importante, e cioè che l’età esatta di Yuko Ogasawara non si sa: sebbene gran parte dei siti attesti le sue 83 primavere, alcuni riportano che ne abbia in realtà "soli" 81, altri 85 (!!!). Yuko Ogasawara è comunque una over 80 ed è quasi certamente la pornostar attiva (attiva? C’è chi dice si sia ritirata dal porno dopo compiuti gli 80, di netto altri al contrario che abbia debuttato a 80, e ritirata a 83) più anziana al mondo.

Lei è giapponese e gioca facile: perché il porno con attori granny, ossia attori tanto ma tanto in su con l’età, e porno che da noi in Occidente si chiama "silver porn", in terra nipponica ha un mercato fiorente, è amatissimo ed è addirittura distribuito senza tabù nelle case di riposo. I p*pparoli nipponici non sono uguali a noi, la loro libido, la loro cultura pornografica, è del tutto diversa dalla nostra. Noi in Occidente facciamo silver porn soprattutto amatoriale, ma tale genere pornografico non raggiunge affatto la fama che ha in Giappone. Lì hanno altre peculiari inibizioni. 

La disinibita Yuko è protagonista di un documentario di cui un succulento estratto è su YouTube, documentario che si intitola "The World’s Oldest Porn Star" (appunto) dove l’arzilla e felice signora racconta come e perché della sua scelta e quanto ne è fiera. Tale documentario fa centinaia di views, procede spedito, come la sua protagonista, che detesta starsene a casetta e pensa esclusivamente al porno. 

Ora, io ve lo dico: non ci credo che i due porno di Yuko che rilasciano annualmente siano nuovi di zecca: possibile che siano scene girate qualche anno fa, di sicuro prima della pandemia. Non adesso. Sono comunque scene girate da una 80enne, molto probabilmente rimesse online aumentandole ogni volta l’età. La signora Yuko può benissimo averne girate poche e per pochi mesi. È prassi, nel porno, rimestare materiale sempre lo stesso, aggiungendo e togliendo, per porno ringiovanirlo e farlo circolare inedito.

Oppure io sbaglio e Yuko Ogasawara fa porno ancora, oggi, che va per gli 86…! E però, è fino al 2020, che Yuko ha rilasciato interviste sulla sua vita da porno star. Più recenti non ne recupero, se non rimescolamenti di passate postate come attuali. E, sotto pandemia, Yuko Ogasawara parlava coi media per lagnarsi della sua condizione: lei, pornostar ultra80enne in ascesa, si trovava nell’impossibilità di pornare sui set. Cioè, di scatenarsi con stalloni di età pari ai suoi pronipoti. E assurgere “a sex symbol internazionale”(!!!).

La signora Yuko proviene da una famiglia tradizionale, padre impiegato, madre casalinga. Ha studiato fino a laurearsi, poi s’è sposata col solo uomo conosciuto, il solo con cui ha fatto sesso, e che le ha dato 4 figli, 2 maschi e 2 femmine. Yuko ha fatto la moglie e la madre fino a 60 anni, fino a quando è rimasta vedova. Ha tenuto il lutto per 2 anni. Poi ha aperto un ristorante. Non si sa come e chi l’abbia introdotta nel porno. Fatto sta che a 80 anni Yuko ha deciso di sperimentare altri corpi – giovani e sodi – oltre quello del suo ormai defunto marito. 

Confessa che i suoi 2 figli maschi, 50enni, la appoggiano nella sua svolta porno, malgrado se ne vergognino. E Yuko è convinta: se è vero che non ha smesso di pornare, e quindi che ancora sc*pa sui set (e io sono la prima a rimangiarmi tutto ma, insisto, rimango dubbiosa) lei vuole “continuare a fare porno fino a 100 anni, spingendomi oltre ciò che la gente pensa che una nonna come me possa fare”. 

Lei dice che ha il cuore forte perché è sopravvissuta alla Seconda Guerra Mondiale (Yuko dovrebbe essere nata nel 1937), e che il suo fare porno è anche una rivalsa ancorché tardiva al marito che “in 35 anni di vita in comune, non mi ha mai permesso di uscire da sola”. Yuko sostiene che il suo corpo resisterà a fare porno a lungo, lei fa ginnastica ritmica ogni giorno, e per chi la voglia vedere in porno azione, se la gusti in "You get excited for an old lady like me?", un porno tra i suoi primi. Che io non ho visto perché sono sincera: non ce la faccio.

Barbara Costa per Dagospia il 3 giugno 2023.  

Ma io certe volte a voi porno-mani non vi capisco. Avete davanti un pezzo di f*ga simile, e non la gratificate. Non la votate. E le preferite un’altra. Che gran f*ga è lei pure, d’accordo, ma mica uguale! E non superiore! Mah, c’è niente da fare, i vostri peni vanno in erezione ostinata e contraria al mio clitoride, perché io sì, io sì che l’ho votata, quella più giusta a vincere l’Oscar del Porno 2023 quale New Pornostar, Nuova Stellina del settore, e invece voi, la maggior parte di voi, mi ha a s*ghe tradito, premendo le verghe verso… Charly Summer!

È lei la Nuova Stella del Porno la più promettente, lei che si è portata a casa la statuetta, premio che viceversa doveva finire tra le gambe di… Xxlayna Marie! Lei, Xxlayna – che si pronuncia Yuu-layna – meritava con p*rcissimo sentimento il riconoscimento, e non Charly Summer, che è porno arrizzante, non dico di no, anzi, lo dico, che a me attizza il nulla, ma come v’è venuto in mente di votarla?!?

Come vi siete permessi di alluparvi col suo sedere spalancato ad offrirsi a peni in fila e a ripetizione, e peni alternati poi sbaragliati dalle extra mazze di attori afro, attori a potenza penica più alta, più grande, talvolta curva, in qualunque modo estrema, attori che Charly se la sono stantuffata in ogni punto e ruolo e livello, e mai abbastanza? Mai abbastanza per lei, sia chiaro, e messo agli atti, per la signorina Charly, la quale sculettante già l’ha annunciato, che è pronta a continue e doppie penetrazioni, e con puntiglio a riempirsene la bocca, per bene svuotarvi e farvi sfogare. Oh, è lei a dirlo: “Ogni goccia di sperma sputato è un dolcino sprecato!”.

Ma come v’è venuto in mente di omaggiare Charly, che si fa spermare in faccia ma pure sui seni e a profusione, e si lecca e ingoia anche questo, quando chi di meglio votare ce l’avevate, e risponde al nome di Xxlayna Marie!!! Ma dove avete gli occhi (le mani lo so) per non andare in porno fibrillazione per Xxlayna Marie, un tale fiammante bijou pornografico! Ma perché anteporle chi, come Charly Summer, si fa le foto in posa scontrosa e imbronciata, quando c’è Xxlayna che sui social sprizza gioioso sesso giocoso da ogni buco? 

Vabbè, sui social non lo spruzza, ce lo fa immaginare, eh, Zuckerberg ha posto le sue regole, si sa, ma basta deviare sui video porno per gioire di Xxlayna! E con Xxlayna! Questo incanto del porno, metà latino metà indios cherokee, ha 23 anni, è nata e cresciuta in un paesello dell’Oregon “che ad attraversarlo tutto, e in lungo e in largo, ci metti un’ora”, e ha perso l’imene col suo primo ragazzo. Dopo la maturità ha fatto l’operaia.

A casa per pandemia, si è messa su OnlyFans e lì nel 2021 è stata contattata dalla capa di "Hussie Models", agenzia di attori e attrici porno che si incentra sul modello acqua e sapone. Charly Summer invece ha 26 anni, è nata in Florida ma cresciuta in North Carolina, e s’è fatta ledere l’imene dal suo migliore amico a 18 anni. Prima del porno non aveva esperienze anali dirette, ma solo tramite anal sex toys. È entrata nel porno dopo essersi fatta un nome – e una clientela – in cam. E non ha mai visto porno da adolescente perché proviene da una famiglia ultracattolica per cui il porno è diavolo in Terra. 

Comunque la pensiate, e quale sia la Nuova Porno Stellina per cui smaniate, la strada è nitida: il porno punta al micro! Le foto non ingannano: sia Charly sia Xxlayna sono alte 1.53. Il futuro è mignon, signori, spilungone scansateve proprio, che la scena del porno presente e futura è delle femmine piccole, basse, ma che sto dicendo, quelle che basse non sono perché, come spiegava il Maestro Riccardo Schicchi, “non esistono donne basse, ma solo donne con la p*ssera più vicina al cuore!”. 

Il porno che verrà è di Charly e Xxlayna, che ci aspettano, e vi elenco solo le nuovissime uscite: Charly nel porno "Wing Woman" (per i tipi di PureTaboo), nel lesbo con Lily Larimar, e in "Interracial Tendencies", e qui ve la raccomando, è senza freni, mentre Xxxlayna Marie eccelle nei cataloghi Vixen, Slayed, Nubiles, ovvero dove il porno si fa più chic, e non ve la perdete in "Mio marito ha portato a casa la sua mistress 17". Xxlayna è nel threesome della scena 2.